Pensieri politici e morali
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VI
VIRGILIO MALVEZZI
PENSIERI POLITICI E MORALI
Con A. s’indica l’Alcibiade (ed. di Ginevra, 1656), con C. il Coriolano (ivi), con D. il David perseguitato (Venezia, 1634), con R il Romolo (ed. di Venezia, 1666), con T. il Tarquinio superbo (ivi), con P. il Ritratto del Privato politico christiano (Bologna, 1635), con S. i Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639 (ed. di Ginevra, 1656).
Indice
- I. L'amore di se stesso e della virtù come il vero se stesso
- II. L'equalità e il sapiente
- III. La pazienza, madre di tutte le virtù
- IV. Gli artefici e l'arte
- V. La bravura e l'immaginazione
- VI. Passioni, vizi e virtù
- VII. Impossibilità di toccare gli estremi
- VIII. Le qualità delle vesti e l'animo
- IX. L'umor malinconico
- X. Riposo, ma non quiete per l'uomo
- XI. La reputazione e l'azione
- XII. La prudenza e la temerità
- XIII. Il mezzo e l'estremo: la prudenza e l'ispirazione
- XIV. La fortuna come forza che è nell'uomo
- XV. Diverso valore dell'esempio nelle azioni felici e nelle infelici
- XVI. Le precauzioni
- XVII. Falsità del detto: che necessità non abbia legge
- XVIII. Prosperità, avversità e intelligenza
- XIX. La speranza
- XX. La dolcezza della commozione nei pericoli e travagli degli amici
- XXI. La donna e la concupiscenza
- XXII. Vanità degli uomini per le loro donne
- XXIII. -Avere e darsi morte
- XXIV. L'uno e il due: la ragione di stato di Dio e quella del diavolo
- XXV. Avvedimenti umani e provvidenza divina
- XXVI. L'interesse come forza cosmica
- XXVII. Salvare lo stato accettando ogni cosa
- XXVIII. Natura politica della legge
- XXIX. Modi di acquistare il dominio
- XXX. La tirannide e l'amore del pericolo
- XXXI. Crescere, essere cresciuto, calare
- XXXII. Ingrandire altrui
- XXXIII. La sicurezza dei governi
- XXXIV. II buon timore
- XXXV. L'aristocrazia, elemento d'ogni stato
- XXXVI. Gli uomini ragguardevoli
- XXXVII. Virtù e invidia
- XXXVIII. La libertà di parola
- XXXIX. Il simulare
- XL. Utilità degli errori pensati e non eseguiti e virtù delle repubbliche
- XLI. L'attaccamento alla terra patria e gli effetti e la forza del distacco
- XLII. Mutamento dei tempi da felici in infelici e difficoltà di adattarvi l'animo
- XLIII. La salute dai nemici
- XLIV. L'esperienza storica e la dimenticanza
- XLV. L'instabilità della fortuna
- XLVI. La riduzione del mondo all'uno e la monarchia universale
- XLVII. La morte
I
L’amore di se stesso e della virtú
come il vero se stesso.
L’amicizia, benché paia senza interesse, non è però del tutto senza interesse. Quell’affetto, che portiamo a noi stessi, è la regola di tutti i nostri affetti. Chi ha creduto che l’amico ami altri piú di se stesso, si è forse ingannato; e, se talvolta perde la vita, la roba e lo stato per l’amico, non è perché egli desideri piú bene altrui che a se stesso, ma perché egli non conosce per beni altro che quelli della virtú, e questi si acquistano quando precisamente per l’amico si perdono quelli della fortuna. Il vedere lasciare le ricchezze, lo stato, la vita per l’amico ha fatto credere che si ami piú di se stesso a coloro che amano piú la ricchezza, lo stato, la vita che la virtú. Io non sono mai stato d’opinione che l’amare se stesso piú degli altri sia imperfezione, anzi ho creduto imperfezione il non amare se stesso piú degli altri. Chi non errasse in questo, non peccherebbe, perché chi pecca, distruggendo Iddio per quanto ei può, distrugge per quanto ei può se stesso, mentre che il bene di se stesso dipende da quello di Dio (D., 97-8).
II
L’equalitá e il sapiente.
L’equalitá non solo è giudicata una dote del sapiente, ma è anche un segno d’esserlo, quando quello lo sia che domina le stelle. Se un cielo, nei suoi movimenti, instabile sopra noi si rivolge; se gli astri, sempre vari d’aspetto, c’influiscono; se un’aria ad ogni istante mutabile ne circonda; se un temperamento ineguale ci forma: qual sará quegli che conservi il medesimo tuono a onta del cielo, delle stelle, degli elementi, del temperamento? Certo, il sapiente. Siamo fatti spettacolo a Dio ed agli uomini, disse Paolo. E che degno spettacolo vedere un uomicciuolo, un pugno di terra, un punto, un niente, contrastare con la vastitá de’ cieli, con gl’influssi delle stelle, con la macchina degli elementi, con la sua propria natura, e vincere? L’eguale domina gl’influssi, perché va contro di loro, sempre stabile; l’ineguale è dominato, perché gli segue, sempre vario (A. 253-4).
III
La pazienza, madre di tutte le virtú.
Quando Aristotele biasima i lacedemoni, che tutto libravano nella virtú della fortezza, disse che una non bastava e, quando una si avesse da eleggere, non doveva essere la fortezza. Lasciò di nominare quella a cui dava il primo onore: se la nominava, per mio avviso forse era la pazienza, perché in se stessa direttamente contiene l’altre, come le semenze e le radici il frutto e l’erba. Se le virtú morali sono ordinate al bene in quanto lo conservano nella ragione contro l’impeto delle passioni, e se queste le accommettono1 con la tristizia, e se di essa è regolatrice la pazienza, chi fra quelle le negherá il primo onore? Sí come il medico cura i difetti del corpo, cosí la pazienza i vizi dell’animo. Operano ambidue col rimovere gl’impedimenti. Vero è che in ragione piú d’instrumento che d’efficiente; ma se il medico si dice cagionare la sanitá, avvenga che non sia egli ma la natura, chiamerassi anche la pazienza di tutte le virtú producitrice (C., 342-3).
IV
Gli artefici e l’arte.
Coloro che vogliono imparare qualche arte o qualche scienza, il primo oggetto che si pongono innanzi non è immediatamente quello dell ’arte o quello della scienza, ma un artefice o uno scientifico, non giá il piú grande, il piú vicino. (I desideri nostri sono di corta vista, vedono poco di lontano ed è gran cosa al certo che quell’istesso uomo, che ha un animo cosí grande da non contentarsi delle maggiori cose del mondo, l’abbia poi cosí picciolo nel credere d’aversi a contentare anche delle minori. Forse l’uno procede dalla bassezza della materia, l’altro dall’eminenza della forma). Quando poi questo artefice è arrivato a quel primo oggetto, si spinge verso un altro, e non cessa mai di avere per oggetto un uomo sin che non ha passati tutti gli uomini. Allora ha per sua natura di non si rivolgere piú indietro a guardare quelli oggetti che ha trapassati; e come quello che è tutto intento non a conseguire l’eminenza fra professori ma della professione, piú non riflette sopra la qualitá degli artefici, solamente considera la grandezza dell’arte: onde avviene che, quando non parla piú degli altri, quando non gli considera, dá segno dovergli trapassati, e se per caso è parlato a lui di qualche artefice, lo loda perché ha eletto quell’arte ch’egli ha eletta; non lo biasima, perché non si considera egli oggetto non arrivato, ma compagno ad un oggetto che non ha né meno egli arrivato (P., 116-17).
V
La bravura e l’immaginazione.
Mi arrischierei quasi d’affermare che la bravura non consiste nel cuore, come vien creduto non solamente dal vulgo ignorante, ma anche dagli uomini saputi. Chi sa che piú tosto che non sia parto di quella immaginativa che produce anche il timore?... Chi non sa che il non conoscere i pericoli fa gli uomini arditi, onde avviene che quelli che sono i piú savi non sono sempre i piú coraggiosi? La bravura (e me ne rimetto ai piú dotti) è quasi una spezie di pazzia, consistendo forse in un riscaldamento di cervello che non lascia discorrere sopra il pericolo della morte. Chi nel combattere pensa di dover morire, non può combattere con ardimento. E benché il forte sia definito dai filosofi per colui che, conoscendo i pericoli, gli va ad incontrare pel giusto e per l’onesto, crederei nondimeno che questo si dovesse intendere innanzi che entri nel pericolo, perché, se in quel punto che vi è entrato lo conoscesse, diventerebbe vile (D., 39-41)
VI
Passioni, vizi e virtú.
L’animo ancor egli si serve dell’ira per la fortezza, dell’ambizione per la magnanimitá; e pur l’una produce il temerario, l’altra il superbo. Quell’angustia d’animo, che cagiona l’avarizia, dilatata serve alla parsimonia. Da quella larghezza di petto, di d’onde s’origina il prodigo, un poco ristretta, nasce il liberale. Infine, cosí fatti umori del corpo e cotali passioni dell’animo, che apportino utile o pure cagionino danni, consiste nell’essere sregolati o regolati, quelli dalla natura, queste dalla ragione. Dal servirsi sovente del medesimo umore per la virtú e pel vizio, avvenga che in diverso modo, nasce che molte volte l’ignoranza s’inganna e la malizia confonde il vizio e la virtú, chiamando liberale il prodigo, forte il temerario, magnanimo il superbo (C., 322-23).
VII
Impossibilitá di toccare gli estremi.
Che gli uomini non siano del tutto cattivi e del tutto buoni non è forse perché non sappiano, ma perché non possono essere: è piú tosto forza della natura che della volontá. Se ella non ha lasciato pure alla nostra fiacchezza d’arrivare all’estremo del bene, perché vogliamo credere che l’abbia lasciato alla malizia d’arrivare all’estremo del male? (D., 67-8).
VIII
Le qualitá delle vesti e l’animo.
Pare che l’uomo, come se imprimesse la qualitá che è in lui nel suo vestimento, quando pensa potergli giovare se lo veste, e quando nuocere, se lo spoglia. Vestono l’abito senatorio quei padri che rimangono in Roma preda dei Galli e per un pezzo gli raffrenano. Veste il sacerdotale quel Fabio che, intatto, passa fra gl’inimici e sacrifica; san Leone papa il pontificio e placa l’ira del barbaro tiranno. Pel contrario, s’inferma il figliuolo a Davide, rompe e getta i vestimenti. Sente Giobbe moltiplicare gl’infortuni, e se ne spoglia. Né quivi si pone la meta delle grandi afflizioni, molti a stracciarsi i capelli e alcuni anche a dilaniarsi le carni avanzandosi. Rappresentasi loro ogni cosa ripiena di quella qualitá che allora gli tormenta. Si danno ad intendere diminuirla con lo spogliarsi i vestimenti, col gettare i capelli, col versare il sangue, come se con essi spogliassero, gettassero, versassero parte del tormentoso dolore che gli affanna (C., 309-11).
IX
L’umor malinconico.
La malinconia, che non è feccia ma fiore del sangue, che non è carbone ma gemma, è quella che produce gli eroi, perciocché, confinando colla pazzia, conduce gli uomini al massimo, fuori del quale non si può passare e dentro del quale si estende tutta la latitudine della nostra sapienza ( T., 150).
X
Riposo, ma non quiete per l’uomo.
È al certo un grande inganno il credere di poter quietare e vivere. Non è vero che il riposo sia premio: egli è sempre pena, piú sopportabile a chi ha piú operato. Non si dá quiete nel mondo: s’incammina alla pazzia chi va per ritrovarla, e vi è giá arrivato chi si dá a credere d’averla ritrovata. Può bene un uomo riposare, ma non giá quietare, anzi è talvolta piú inquieto, quando è piú riposato (P., 36).
XI
La reputazione e l’azione.
L’opinione grande è nemica di chi non ha merito, di chi non l’ha eguale, e anche di chi l’eguaglia. Solo a colui è favorevole, che ha talento maggiore della grande opinione. God’egli della presente che ha, e anche di quella che non ha. che spera di conseguire. E perché la felicitá umana non consiste in ottenere le maggiori cose ma nelle maggiori speranze di ottenerle, perché l’atto continuato in poco tempo forma l’abito, dal quale nasce la sazietá o la insensibilitá, sará egli piú felice che non è quegli che ha eguale l’opinione e il merito. È gran disgrazia l’esser uomo di vaglia e mancare d’opinione; è nondimeno molto maggiore averla e non lo essere. Gli turba il gusto presente la tema del futuro. Non può sopra il falso fondare il diletto se non s‘inganna. Aspetta vergogna dal disinganno, ancorché si ritrovi senza colpa d’aver ingannato; sarebbe nondimeno in qualche parte felice, se quell’errore, che non può perpetuarsi negli altri, potesse esso contraere, perché la cognizione di se stesso, sovrana virtú nell’uomo, è il carnefice che piú lo tormenta. Finalmente, la grande opinione è il maggior aiuto che possa avere un uomo che non voglia operare, e il maggior danno per chi si cimenta o riesce conforme ad essa, e non acquista niente o meno, e perde quanto aveva acquistato. Ella non si sa diminuire a gradi, non romper in pezzi. Dove altri non la ritrova intiera, l’abbandona affatto. Un particolare che l’abbia si contenti d’averla. Un principe, se può, non la cimenti. È meglio morire con opinione grande che avventurarla; lasciare nel mondo dubbio quello che sarebbe seguito, che mettersi in pericolo di quello che seguirá. Volontariamente non bisogna farne prova; necessitato, avventurarsi con essa, e, in occasione di perderla, perdersi ( A., 231-2).
XII
La prudenza e la temeritá.
Ad un attentato irragionevole e ardito non è eguale un prudente: o non si conseguirá, o per mano d’un disperato feroce. La prudenza ha la misura delle sue azioni; la temeritá non è misurabile. Chi l’adoprasse alle volte, vedrebbe stravaganze e riuscire imprese non pensate. Ha egli dalla sua il vantaggio d’accommettere2 all’improvviso, d’assaltare per sorpresa, atterrire, imbarazzare, confondere, obbligando l’intelletto o a perdersi o a pigliare subito risoluzione sopra cosa giammai discorsa. Fa impeto da parte inaccessibile e la trova senza difesa; conciossiaché ognuno sta armato contro la prudenza e discoperto alla temeritá. Per timore di questa i savi virtuosi fanno il ponte d’oro a chi fugge; combattenti, dánno luogo per donde fuggire. Si pecca, egli è vero, per temeritá, ma talvolta anche per troppa prudenza. Ponsi in mano della ragione l’uomo savio, del Cielo il temerario; e perché le cose di rado hanno il fine che altri giudica, meno erra sovente quello che non ha discorso che quello che ha giudicato. L’intelletto è dentro di noi, ma incarcerato nel corpo, imbarazzato fra’ sensi: la natura è di fuori sciolta, libera, non errante. Definisce il filosofo la temeritá per un fatto senza ragione. S’ingannò forse. La infelice è ben senza ragione; ma la fortunata l’è sopra. Vale piú un impulso della natura, che va sempre al vero, che un motivo dell’intelletto, che discorre pei verisimili; e, se quella erra, è perché taluno, non discernendo tra la nostra e la universale, crede impulso superiore alla ragione quello che è senso, quasi che muovano nello stesso modo i sensi e il Cielo. Altri, troppo confidati del proprio intelletto, stimano per mancamento alla parte inferiore tutto ciò che dissuona con la superiore: come se non ve ne fosse una suprema, la quale giá non conoscono, giá impediscono le piú volte, errando per tema di non errare. È troppo difficile a questi lo scordarsi d’aver l’intelletto, a quegli il discernere gl’impulsi della natura non errante dagli stimoli della corrotta (A., 168-9).
XIII
Il mezzo e l’estremo: la prudenza e l’ispirazione.
Il popolo opera col senso, che conduce sempre al vizio. La ragione è quella che incammina alla virtú. Ma si come il popolo, assuefatto al senso che va dall’estremo all’estremo, corre ne’ consigli con la stessa qualitá, cosí i savi, assuefatti dalla virtú ad andare al mezzo, seguono anche nei consigli l’istesso cammino. E perché non sempre il parere di mezzo è quello che s’ha da pigliare, né tampoco sempre l’estremo, erra alle volte cosí bene il savio, quando ha bisogno di pigliare l’estremo, come il popolo, quando ha da pigliare il mezzo. La politica, che mette sopra il mondo, confonde tutte le morali. Muta loro talvolta il luogo, talvolta anche l’essenza. Fa essere vizio nel re quello che in altri sarebbe virtú. Un filosofo metafisico non vale nella republica. Nei tempi di bonaccia vi navigherebbe bene il morale; nella tormenta, si perde. È un’arte da perso la politica: non vi è chi fino ad ora l’abbia imparata. Molti sanno fare quello che s’avrebbe da fare: nessuno quello che s’ha da fare. Chi non conosce i movimenti della fortuna, non è buon politico. Chi gli conoscesse, conoscerebbe Iddio. Non si vede in faccia questi, ina solo per le spalle; perché del suo operare son per dire esser ignoto tutto ciò che non è passato. Il non servirsi della prudenza è bestialitá; il fidarsene, arroganza. L’uomo, per operar bene, quantunque pieno di scienza, ha bisogno di un non so che di piú, che non può né apprendere né insegnare né conoscere d’avere, se l’esperienza non glielo mostra, né che cosa si sia dopo averlo sperimentato. Se questo non è vero, era frustatorio a Socrate, il piú prudente uomo della gentilitá, quello ch’egli credette demonio, di cui si confidò piú che della propria sapienza ( A., 223-4).
XIV
La fortuna come forza che è nell’uomo.
Perché ha da essere lodato nell’uomo l’ardire e non la fortuna? Egli non ha piú parte nell’esser ardito che nell’esser fortunato. Forse crediamo ch’ella sia fuori dell’uomo, perché non la vediamo nell’uomo? Ma ella nasce con noi come le altre qualitá, e, se non è operazione d’intelletto, è una cosa almeno che muove l’intelletto a far operare quando è il tempo d’operare. È una spezie d’entusiasmo. Egli fa parlar bene a chi non sa perché parli: ella fa operar bene a chi non sa perché operi; forza e valore dell’ultima individuazione d’un temperamento, che non solo opera nel soggetto, ma anche fuori del soggetto trasmette sue qualitá, da cui nascono entro noi operazioni in utile altrui, motivate da un non so che, che non sappiamo quale che sia ed è la fortuna di colui. Ella è un incanto del temperamento, come la rettorica della lingua, e si fa servire da tutte l’altre parti dell’uomo (R., 115-6).
XV
Diverso valore dell’esempio nelle azioni felici e nelle infelici.
L’esempio, se è di qualche azione sortita felicemente, ci spinge a cimentarla; ma se avviene che sia di qualche infortunoso accidente, non per questo ci ritrae dall’operare, perché gli uomini hanno maggior speranza della buona fortuna che della cattiva. S’infingono la somiglianza dove non è, e, dove si truova, fanno nascere la diversitá o per animarsi o per non avvilirsi (/?., 97).
XVI
Le precauzioni.
Quanti uomini sono morti per prevenirsi al futuro, per medicarsi con prevenzione! Quante cittá, provincie e regni si sono perdute per ripararsi dall’avvenire, che non era e non sarebbe stato! Io rassomiglio la troppa prudenza alla [astrologia] giudicaria, se non fosse che è piú dannosa, piú temeraria, piú incerta e peggiore, perché non si può vietare (A., 117-8).
XVII
Falsitá del detto: che necessitá non abbia legge.
Tutti i delitti, per scelerati che sieno, a fine di sottrarsi dalle mani della legge e farsi, invece di biasimare, compatire, vestono il manto della necessitá. Non si dá necessitá assoluta nell’uomo, perché egli è agente libero. Se non riceve la violenza fuori di sé, non l’ha in sé. Quelle che noi chiamiamo necessitá e che pretendiamo che sieno libere dalla legge, vengono fatte dalla legge. Sono conseguenze necessarie per supposizione, che hanno per fondamento l’antecedente condizionato, ma non sussistono quei supposti che non sono autenticati dalla legge; altrimenti (per cosí dire) tutte le azioni degli uomini sarieno lecite, perché tutte sarieno necessarie, potendosi innanzi ad esse formare un antecedente condizionato, dal quale ne venga una conseguenza necessaria di supposizione. Non è dunque vero che la necessitá non abbia legge, ma è ben vero che quella necessitá, che non ha legge, è quella sola che è nemica della legge (D., 81-2).
XVIII
Prosperitá, avversitá e intelligenza.
Gli spiriti dell’inalzato alla felicitá si turbano, come quelli di colui che molto s’eleva sopra la terra, e, turbati il piú delle volte, s’abbandonano nella parte del precipizio. Gli amici gli ritrova mendaci, con lusingheria l’ingannano, e, quando no, con l’ossequio lo corrompono. Le occasioni di peccare soprabbondano; il lusso, le delizie ve l’inclinano: che maraviglia è poi se casca, e il piú delle volte senza risorgere, perciocché ogni cosa l’aiuta a cascare e niuna a ricuperarsi? Nella casa dell’infelice non v’entra se non la veritá; non vi è chi l’ossequi o l’aduli. I suoi spiriti s’abbassano, e piú tosto si marciscono essi che lo corrompano. Il temperamento diventa malinconico, affligge, dissecca, mortifica, e ad ogni altra cosa nuoce che all’intelletto: onde, insieme con le occasioni mancandogli lo stimolo di peccare, gli facilita il mantenimento della virtú (A., 175-77).
XIX
La speranza.
La speranza, che è fatta per sostentare ne’ grandi infortuni, mal adoperata ci precipita in calamitose miserie. Non contenti per quella di non cascare in disperazione, si vuole ascendere alla felicitá. Il futuro diventa presente, la speranza si muta in sicurezza, e, ingannati poscia dal nostro desiderio anziché dalle sue promesse, la chiamiamo fallace e falsa; e non sarebbe fallace, se non la facessimo, né falsa, se non la falsificassimo. Ella non inganna, lascia perplessi senza determinare. Chi si determina, la muta in credenza (S., 253).
XX
La dolcezza della commozione
nei pericoli e travagli degli amici.
Non vi è persona che ami, se intensamente ama, che non arrivi talvolta, quando piú frenetica, a contemplare l’amico in mezzo dei travagli e dei pericoli, non senza compiacenza di tale imagine, per donde crede palesarebbe la finezza del suo affetto o cavandolo dalle afflizioni o seguendolo nelle miserie. Se questo desiderio, solo contemplato, aggrada, che fará pratticato? Produrrá un dolore pieno di diletto, che piú tosto intenerisce con dolcezza che affligga con affanno il cuore, da dove cava lagrime sí, ma però soavissime. Quindi è che talvolta quegli in cui cade per essenza il travaglio, con gli occhi asciutti rimira gli altri, che solo per consenso lo partecipano, abbondantissime lagrime versare. Manca in lui quella parte di gusto che apre e dilata le cateratte al pianto, ristretta e sigillata dall’acerbitá del dolore. E perché l’affezione non è propria di lui, ma in lui da quella dell’amico come imitazione prodotta, avrá di piú un tale diletto che da questo o non mai o rarissime volte si disgiunge. Duolsi veramente quell’ottimo istrione che nella scena caso tragico racconta, e, se non si duole veramente, non rappresenta isquisita; e, se si duole, chi dirá che non sia un dolcissimo dolore dalla gustosissima imitazione originato? (C., 305-6).
XXI
La donna e la concupiscenza.
Coloro che credono che la donna non sia formata contro l’intenzione della natura, che non sia un errore, che non sia un mostro, bisogna che affermino che è fatta per la generazione; e, se è fatta a questo fine, come veramente è fatta, è necessario che sia dotata di parti che muovono a questo fine. Di qui avviene che, subito che si rappresenta a noi, quando non si sia prima formato un abito o non si formi allora una gran resistenza, si corre per natura a contemplarla per quel fine pel quale l’ha fatta la natura (P., 114).
XXII
Vanitá degli uomini per le loro donne.
XXIII
Avere e darsi morte.
Siami lecito dire che la morte è piú orrida nelle mani d’uno adirato che nelle nostre; e che, di piú anche, ricerca maggior cuore, quantunque sia minor pericolo, l’ammazzar altri che l’ammazzar se stesso. Quello vuol animositá, e questo nasce sovente da debolezza di cervello o da viltá di cuore, perché un petto generoso di rado trova chiusa la strada per modo che non si possa rendere gloriosa la sua morte. Egli è un cedere alla fortuna, con la quale i coraggiosi combattono intrepidamente fino all’ultimo spirito. Quante feminelle si son date morte da se stesse, che non averiano osato rimirare, non che aspettare, il guardo cruccioso d’un uomo! E quanti, per fuggire il ferro dei nemici, si sono precipitati da dirupi, sotterrati nei pantani e immersi nell’acqua senza speranza di vivere? (T., 160-1).
XXIV
L’uno e il due: la ragione di stato di Dio e quella del diavolo.
Non ebbe intenzione, a mio credere, Lucifero di farsi grande e rilevato per salire sopra Dio, perché in quel modo averebbe avuta intenzione non di sciogliere l’unitá ma di migliorarla, il che poteva conoscere impossibile col solo dono naturale della scienza. Ebbe egli, dunque, pensiero d’inalzarsi col tirarsi da un lato e partirsi dall’uno formando il due, sopra del quale poscia, come sopra di centro, disegnò la sua circonferenza diversa da quella di Dio; né si poteva partire dall’uno se non diventava cattivo, perché tutto quello che è buono, è uno. Iddio, tirando la linea dalla sua circonferenza, per formare il tre, creò l’uomo; il diavolo spinse anch’egli una linea dalla sua circonferenza per fare il quattro, e lo sedusse. Iddio, che non volse lasciar l’uomo in mano del diavolo, lo venne a redimere, e formò il cinque; e, benché non gli levasse il fomite che lo seduce verso il due, gli diede la grazia, che lo riduce verso l’uno: onde l’uomo è rimasto libero (non potendo disegnare circonferenza sopra se stesso, perché non si dá altra circonferenza che dell’uno e del due, non si trovando altro che bene o male) di disegnarla, operando bene sopra il centro dell’uno, operando male sopra quello del due. Sí come si danno due circonferenze, cosí si danno due ragioni di stato, una di Dio e una del diavolo: quella di Dio è di accostarsi a lui per esser grande, quella del diavolo è d’allontanarsi da Dio per farsi grande (P., 86-88).
XXV
Avvedimenti umani e provvidenza divina.
Il formare politici aforismi, lo scriverne regole tratte da’ libri dei profani, è quasi un pretendere che l’arbitrio dell’uomo sia necessario. Si può dire anche che egli è un disdeificare Iddio e deificare le cagioni seconde. Egli si serve di loro, ma non serve a loro. Chi, per isciogliere i fisici avvenimenti, adduce Iddio per ragione, è poco filosofo; e chi non lo adduce per iscioglimento de’ politici, è poco cristiano (Z., 7-9).
XXVI
L’interesse come forza cosmica.
L’interesse comincia dal sublime concavo lunare e penetra anche nelle basse capanne degli umili pastori. Egli nacque con l’universo per mantenere e per distruggere l’universo. Egli è l’etica del mondo, penetrata anche nelle parti solide. Non solo l’uomo vorrebbe dominar l’uomo, ma l’elemento gli elementi, ed allora che uno averá sortito il suo intento, lo sortirá anche l’altro, perché finisca il mondo con quello interesse nel quale cominciò (A., 29).
XXVII
Salvare lo stato accettando ogni cosa.
I politici vogliono piuttosto che il principe avventuri lo stato e la vita che perdere, o per mezzo di pace o di tregua o di tributo o d’altro, la riputazione. Io non mi sottoscrivo al loro parere e dico che, se la grandezza d’un principe consiste nella sua riputazione, che egli deve prima morire che perderla; ma che, se è fondata sopra quantitá di danari e di popoli soggetti, ch’egli si accordi al tempo, che faccia paci, triegue, anche con disavantaggi di fama, che diventi tributario, benché di gente inferiore, e che non tralasci qualsivoglia cosa per bassa che sia (quando non venga contro la legge di Dio) per non avventurare lo stato, perché ogni cosa è migliore dell’avventurarlo. Quando questo non si è perduto, si è sempre a tempo di riacquistare quello che si è perduto. È prudenza, non è infamia nei principi. Essi non si hanno da fare a schifo di niente che accresca o che mantenga la dominazione. Gli uomini privati stimano queste debolezze, perché le misurano col loro compasso. Tutti i gradi degli uomini hanno la loro riputazione e quasi tutti l’hanno differente, anzi molte cose che in un grado sono infamia, nell’altro sono riputazione. Un principe, che ha uno stato grande, non perde mai la riputazione se non perde lo stato, perché il suo stato è la sua riputazione. È in sconquasso il mondo, conciossiacché gli uomini d’uno grado, saltando in quello degli altri, confondendo le riputazioni, confondono l’universo. Vuol sovente il mercante far da gentiluomo, il gentiluomo da principe, il religioso da soldato, e dove la riputazione dell’uno consiste nel sopportare e perdonare le ingiurie, salta in quella dell’altro, mentre che vuol ribatterle e vendicarle (D., 101-3).
XXVIII
Natura politica della legge.
La legge è una politica, ed oggi pochi legisti sono politici. Furono coloro che la fecero, ma non sono coloro che la imparano, perché imparano solamente quello che si è fatto e non a che fine sia stato fatto. Pochi di coloro che fanno le leggi, le intendono. Chi cerca l’autoritá senza ragione, è senza ragione; levarla alla legge è un levarsi l’anima. Questo avviene perché di politica in certuni è diventata meccanica, e, dove prima era figliuola legittima del giudizio, è fatta adottiva della memoria, e i legisti di razionali sono diventati empirici (P., 9).
XXIX
Modi di acquistare il dominio.
Chi vuole imparare la strada d’introdursi in un altro, attenda a Davide. Non vi s’introduca colla fraude, ma col valore. Non s’imbratti le mani nel sangue civile, ma in quello degli estranei. Non offenda coloro che vorrebbe soggetti, gli difenda. Egli è forse vero che i piú degli uomini diventano grandi colla fraude, non perché ella sia piú sicura del valore, ma perché è piú facile: ond’è che si trovano assai fraudolenti e pochi valorosi; nondimeno, la maggior parte di coloro ancora che hanno usata fraude per occupare i paesi dove sono nati, hanno prima palesato il valore dell’accrescergli o difendergli. Il difendere i sudditi degli altri è un toccare la piú viva corda della dominazione. Se il loro signore si duole, pare molto ingrato; se tace, è poco sicuro. Non hanno ad essere difesi i sudditi, salvo che dal suo principe. Questo è il suo offizio. Chi se lo arroga, se non è, lo vuol diventare. Quelle repubbliche, che furono sapute, non furono ignoranti dell’essenza di questo punto, mostrando di conoscerlo per importantissimo, quando né meno permisero che i sudditi stessi si difendessero da se stessi (D., 94-5).
XXX
La tirannide e l’amore del pericolo.
Che cosa fa tanto gustosa la tirannide se non l’amare il pericolo? Dov’è grande, non ha che desiderare; dov’è poco, l’accresce; dove non è, lo finge. La tragica scena di costoro è piena di sangue ingiustamente sparso, giá3 di colpevoli, giá di semicolpevoli, giá d’innocenti. Dovrei dire solo d’innocenti, perché la maggior colpa che gastigano i tiranni, merita il nome della maggiore innocenza. Ma quand’anche questi non si sia tanto disumanato da fingersi il timore dove non è, rare volte conserva tanto d’umanitá da lagnarsi che non vi sia... Platone, e con lui Tacito, forse conobbero quello che ho detto; non lo esplicarono. Chiamano infelice il tiranno, non pel timore che ha di fuori, a cui con la morte giá di questo giá di quel cittadino con diletto soddisface, ma per l’interno che, rodendogli insensibilmente le interiora, non gli lascia né trovar riposo né sperar rimedio. Se il dolore di questo non contrapesasse e sopravanzasse ii gusto degli altri, fra gli etnici piú tiranni che principi si annoverebbero. Egli è un carattere che coscienza nomiamo, posto da Dio nella natura dell’uomo a fine che lo temano anche coloro che non lo conoscono, contentandosi anzi di non esser conosciuto che di non esser temuto, perché non si perda il mondo per mancanza di timore e gli uomini non arrivino all’estremo delle scelleraggini (A., 45-8).
XXXI
Crescere, essere cresciuto, calare.
Che un soggetto arrivi ad essere il maggiore nel mondo, nella cittá, nella corte, non è tanto faticoso quanto il mantenervisi, solo. S’aiuta chi cresce, chi è cresciuto s’abbandona, e di chi cala ognuno diventa inimico. È tanto facile il troncare nel principio una potenza nascente che, se l’uomo non avesse instinto d’aiutare chi cresce, niuno diventerebbe grande; ed è tanto difficile rabbattere colui che è cresciuto che, se nello stesso modo non l’inclinasse la natura a distruggerlo, in un medesimo luogo si rimarrebbe sempre la grandezza. Negli augumenti altri non si quieta, sinoché non ha innalzato il soggetto al sommo; nel sommo, sinoché non lo vede declinare; nella declinazione, sinoché non l’ha precipitato. Le azioni che si fanno in favore di chi cresce, in odio di chi è cresciuto, in danno di chi cala, per misurate che sieno da intendenti politici, fa che sieno smisurate la natura. Sia prattico il nocchiero quanto vuole: la corrente di questo istinto insensibilmente gli leva la mano e nel fine del viaggio lo conduce in ogni altro loco che in quello che pensava d’approdare. Il Cielo, che è una causa universale; la natura, che è feconda; la necessitá, che obbliga; l’esercizio, che insegna; l’esempio, che persuade; gli uomini, che inanimano; l’invidia, che stimola, gli formano un contrario; e se il Cielo diventa particolare, la natura sterile, l’obbligo riceve violenza, la velocitá non dá tempo all’esercizio, la differenza non lascia luogo all’esempio, la superioritá all’invidia, o si ferma egli stesso o si muta o si muore, dalla natura conservatrice formato, mutato, ammazzato (A., 109-11).
XXXII
Ingrandire altrui.
Non vi è gusto maggiore di questo. Non vi è inganno che l’adegui. Egli è il precipizio dei piú savi. Egli è la ruina dei piú possenti. Le cose che sono in noi non le vediamo a diritto in noi, ma di riflesso in altrui. La bellezza propria non si conosce senza specchio, ed è specchio della propria grandezza colui che abbiamo ingrandito. Si rimira grande con gusto. Si vorrebbe veder maggiore, non perché è egli, ma perché pensiamo esser noi. Non si sospetta di lui, perché non si aspetta ingratitudine da lui. Non si teme, perché non si stima. Par che debb’esser piú facile il distruggere che l’edificare. È vero che le torri che si sono innalzate si possono a sua voglia abbassare; ma non gli uomini. Non è tutta di colui che la fabbrica quella grandezza, dove egli non fu solo a fabbricare. Si chiama dar aiuto, non ingrandire, quando il soggetto concorre, non solo passivamente ricevendo, ma anche attivamente cooperando. Quindi è che dove pensiamo aver fabbricato una grandezza minore della nostra, troviamo che se ne sono fabbricata una maggiore (R., 105-107).
XXXIII
La sicurezza dei governi.
L’ottimo governo fa pigliare amore al pubblico, il pessimo perderlo, anzi mutarlo in privato. Que’ principi, che hanno armi proprie invecchiate nella fedeltá, poco hanno da temere d’un capo o sia offeso o sia ambizioso. Non vorrá, se è d’animo nobile; non potrá, fellone. Incontreranno molte volte, se il regno non è tiranno, nei Furii Camiili, nei duchi d’Alba, e, se in male nature offese, in un Waldstain, in un conte Enrico di Beerg... Ma non solo questo principe o repubblica non ha da temere dell’ira e odio dei capi, ma né meno dell’ambizione, a tutti ostando la fedeltá degli eserciti, la quale s’ha da credere impedisse (se però furono tentati, ché io non raffermo) Prospero Colonna, il gran capitano e il duca di Parma nello stato di Milano, nel regno di Napoli e nei Paesi Bassi ( A., 181-2).
XXXIV
Il buon timore.
È bene il far temere gli uomini, ma non giá il farsi temere dagli uomini. E bene che temano delle azioni proprie, non di quelle del principe, ma per quelle del principe. Il timore vuol essere figliuolo dalla maestá, non della crudeltá: l’una produce riverenza e l’altra è compagna dell’odio: quella è originata dalle azioni grandi, questa dalle cattive. Egli è sicuro quel signore del quale si teme la virtú, ed è in mal termine colui del quale si teme la pazzia. Ha del divino il principe, quando si fa temere perché vuole che noi operiamo bene; ed ha del diabolico, se si fa temere perché egli vuole operar male ( T., 95).
XXXV
L’aristocrazia, elemento d’ogni stato.
Tutti gli stati, anche le tirannidi, si governano coll’aristocrazia: se non la formano i magistrati, la formano i ministri, la massa de’ quali è una repubblica. Il dittatore è il Privatonota; se esso non fa veruna cosa, diventa un niente; se fa ogni cosa, ha del tiranno (P., 9).
XXXVI
Gli uomini ragguardevoli.
È barbaro al certo e fuori dell’umano che, dove la repubblica e i principi avriano da formar leggi e cercar modi per animare e stimolare gli uomini alle azioni e d’eterna fama e di gloriosa memoria, le instituiscono e li cercano per impedire a chi le imprende il valore, la virtú, l’operare, l’essere. Fu inimico di Dio, della natura, dell’uomo, distruttore delle buone leggi l’inventore di questa pessima. Ella non mira tanto a impedire la tirannide quanto ad esercitarla con sicurezza sia del principe sia dei nobili sia del popolo, levando di mezzo i soggetti riguardevoli, il valore dei quali è l’asilo dove ricorrono i sudditi oltraggiati, la presenza, il freno, che fa vergognare 4 principi e senatori a commettere scelleraggini. Non si è trovata repubblica nel suo bel fiore piú ferace d’uomini valorosi della romana, e che piú se ne sia profittata, non corrotta. Applaudiva il popolo con straordinario onore alla virtú grande d’un cittadino, e del medesimo, qualora si mutava, con severa giustizia correggeva i difetti (A., 138-40).
XXXVII
Virtú e invidia.
La tirannide odia e teme i valorosi. La popolare non arriva a tanta corruzione d’odiargli; arriva solamente a temergli, ma né quella né questa gl’invidia, perché l’invidia non sale e non scende. Solamente l’aristocrazia gl’invidia, gli teme, gli odia, e, quando non gli teme, finge di temergli. Vuol ripararsi con io scudo della debolezza dalla nota della malignitá (P., 29).
XXXVIII
La libertá di parola.
Muore col dir libero il viver libero, ed è odioso al tiranno, perché è necessario alle repubbliche. Non si può dire padrone di sé chi ha soggetta altrui la lingua. Un solo, che non teme di parlare e che sappia in tempo parlare, fa bene a mille. Si astengano dalle cattive operazioni coloro che sono sicuri di sentirsele rimproverare, ed è bastevole un uomo libero, che abbia cervello, a conservare una cittá che si perda col silenzio. La libertá è da uguale, l’adulazione è da inferiore; quella è nutrice della repubblica, questa è allevatrice del tiranno (T., 124).
XXXIX
Il simulare.
Siccome il simulare con gli eguali è debolezza, cosí il non simulare coi maggiori è temeritá. Non è bene sempre il dire tutto quello che si ha nel cuore, ancorché fosse bene tutto quello che si ha nel cuore. Si dee por freno talvolta al parlare libero, quando è giá corrotto il viver libero. Chi non l’adopera in tempo accelera, non impedisce, una possanza (T., 112).
XL
Utilitá degli errori pensati e non eseguiti
e virtú delle repubbliche.
Io acconsento che gli errori insegnino e che siano utili, ma non eseguiti, pensati, non si correndo il pericolo e cogliendosi il frutto. Il silenzio, che ordinò Pitagora a’ suoi discepoli, forse ebbe questo intento: non volse che si discreditassero con divulgare i loro errori; lasciò che gli pensassero; non permise che uscissero in scena fino che da quelli che avevano taciuti avessero imparato di non fargli. Cosí il medico che va in pratica col maestro, vedendo quello che si fa e considerando quello che farebbe nel bene e nel male che vede e in quello che egli pensa, medicando in astratto, da quello che fanno gli altri senza discredito della sua persona e da quello che pensa farebb’egli senza danno dell’infermo, giá5 accertando6, giá errando, apprende d’accertare e di non errare. Questi vantaggi hanno le repubbliche sopra i principi. Entrano i giovani nei magistrati, e a somiglianza dei pitagorici ascoltano, tacciono, apprendono, non operano, sino che l’insegnanza ed esperienza dei vecchi non gli rende addottorati. Suppliscono coll’arte ai difetti della natura (A., 81).
XLI
L’attaccamento alla terra patria
e gli effetti e la forza del distacco.
La patria ha qualitá in sé retentiva per coloro che vi nascono, attrattiva per coloro che se ne slontanano. Consiste ella nel gusto che la previdenza della natura partecipa sempre alle cose necessarie, e anche nell’aria, nel temperamento, negli influssi, nella virtú che dá il loco al locato, e, forse quant’in ogni altro, nell’assuefazione. La forza di quest’ultima, tutta piena di contrarietá, è difficile da intendere e da spiegare... Tutto l’amore che ha posto la natura nell’uomo alla sua patria, non è bastevole ad impedire che o la necessitá o l’interesse o l’ambizione o qualche altro potente motivo non lo cavi fuori di essa... Credesi dai piú che l’uscire dalla patria faccia i soggetti di valore. Ne vedo l’effetto, ma non discerno per anche se sia cagione o segno. Cagione, se perché, vedendosi destituito da molti mezzi, sia necessario l’uomo a fare esperienza della sua virtú, che, ristretta fra contrari, maggiormente s’augumenta. Segno, se, per superare i tanti allettamenti della patria e abbandonarla, è necessario spinta grande, petto valoroso e forte, con cui poscia a somma gloria si perviene (C., 393-4).
XLII
Mutamento dei tempi da felici in infelici
e difficoltá di adattarvi l’animo.
Nascere in tempi aggiustati al proprio genio sembra grande avventura, se quelli fossero stabili o se in quelli si morisse. Ma, poiché quasi sempre accade la mutazione e di rado la morte, è sciagura grande il vivere con un tempo fortunato per morire con un altro infelice. Ei non è senza maraviglia di considerarsi come noi, che mutiamo col tempo gli abiti esterni, non vogliamo poi credere che si debbano anche mutare gl’interni col tempo. In cosí fatta debolezza incorrono non meno gl’ignoranti che i dotti, o perché non sanno mutare quella natura nella quale sono assuefatti, o perché non credono si debba mutare quella che gli ha prosperati. Ma la fortuna sovente varia cogli uomini, perché ella varia i tempi ed essi non variano i modi (T., in).
XLIII
La salute dai nemici.
L’inimico, ponendo fra le angustie, dá a conoscere quello che si può fare: molte volte, perché aumenta l’intelletto, e le piú, perché fa libero l’arbitrio, levando la forza alla legge con quella della necessitá. Questo se gli deve che, obbligando, disobbliga, difficoltando, facilita, col mutare in giusto l’ingiusto e in necessario quello ch’era conveniente. La natura, sia pigra sia prudente sia avara, indugia a far l’ultimo sforzo nell’ultima violenza. È ben vero che, per riserbarsi da poterlo fare, sovente muore senz’averlo fatto, e sovente anche perché non l’ha fatto. Non si ha da correre inconsiderati agli acquisti sempre che si può. È gran guadagno il mantenere l’ignoranza, dove è piú facile l’insegnare che l’acquistare (S., 225).
XLIV
L’esperienza storica e la dimenticanza.
XLV
L’instabilitá della fortuna.
Se tutte le cose del mondo patiscono questo movimento, perché l’ascriviamo sopr’ogni altro alla Fortuna? Certo, perché ne ha meno, e per questo è piú instabile, mancandole anche la stabilitá dell’instabilitá; ond’è che ci lamentiamo della sua beneficenza e ci maravigliamo per la nostra ignoranza, non essendo ella sempre instabile e non sapendo noi quando sará (A., 260).
XLVI
La riduzione del mondo all’uno e la monarchia universale.
Non vuole Iddio che godiamo tanta felicitá quanta goderessimo se il mondo fosse d’un solo. Pei peccati degli uomini, permette tanti principi e repubbliche sulla terra. Cominciò questa dal comando d’un solo e finirá quando arriverá dove aveva cominciato. È però forza che si perda chi alla monarchia universale s’incammina: o perché non la può conseguire, e si perderá solo; ovvero col mondo, dopo che l’avrá conseguita (A., 112).
XLVII
La morte.
Non è la miglior cosa nell’universo di quella che è la peggiore negl’individui. La base, sopra la quale ergendosi questo colosso del mondo palesa la sua bellezza, è la morte. Ella è la parte piú grave del concerto, ove stanno appoggiate tutte le consonanze dell’universo. Che cosa sarebbe egli, dopo la perdita della giustizia originale, se non si morisse? Il timore di quella raffrena gli uomini fortunati. La speranza trattiene gl’infelici dalle scelleraggini. Chi levasse la morte, leverebbe dalla fabbrica del mondo la pietra angolare, leverebbe l’armonia, l’ordine, né vi lascerebbe altro che dissonanze e confusioni. L’ordine dell’universo è contrario all’ordine degli individui. I cieli, che si girano per lor particolare natura da occidente ad oriente, sono dalla natura universale ogni giorno condotti da oriente ad occidente. La morte non può essere cattiva né con dolore, se è vero che sia naturale il morire, perché le cose naturali son buone (R., 127-8).
Note
- ↑ [Spagn.: acometer; le assalgono.]
- ↑ [Aggredire, investire: v. sopra, nota al § III.]
- ↑ [«Giá... giá... giá»; è il «ya... ya... ya...» spagn.: «ora... ora... ora». Altri esempi ai §§ XII e XL.]
- ↑ [Spagn.: favorito del principe.]
- ↑ [Spagn.: v. nota al § XXX.]
- ↑ [Spagn.: acertar, cogliere nel punto.]
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