Chi l'ha detto?/Parte prima/70

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Parte prima - § 70. Scienze e lettere, poesia, eloquenza e musica

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§ 70.



Scienze e lettere, poesia, eloquenza e musica





1609.   Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procedit de ore dei. 1

(Evang. di S. Matteo, cap. IV, v. 4; cfr. Deuteron., cap. VIII, v. 3, e S. Luca, cap. IV, 4).

[p. 539 modifica]è la risposta di Gesù al diavolo che nella parabola del deserto lo tenta perchè faccia diventare pane i sassi. Non basta dunque saziare la fame fisica col pane del corpo, ma occorre anche il pane dell’intelligenza, e questo non può essere altro che la lettura, la meditazione, lo studio. La vita puramente materiale, senza nessun conforto per l’anima, di poco differisce dalla morte:

1610.   Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura.2

(Seneca, Epist., 82, 3).

Questa nobile sentenza, senza l’ultimo inciso, fu anche l’ex-libris del bibliofilo fiorentino Giovanni Nencini, morto nel 1875. E veramente le lettere sono la più onorevole professione cui l’uomo può dedicare i suoi ozi, benchè non siano la più lucrosa, infatti:

1611.   Nessuna professione è sì sterile come quella delle lettere.

che è uno dei Pensieri (il XXIX) di Giacomo Leopardi, tanto più che da molti si crede che lo spogliare lo scrittore di ciò che ha di più prezioso, cioè dell’opera sua, dalla quale soltanto egli aspetta onore e lucro, non sia rubare, quasi che la proprietà dell’opera dell’ingegno non fosse una proprietà come tutte le altre, ciò che Alfonso Karr definì in forma incisiva:

1612.   La propriété littéraire est une propriété.3

Alfonso Karr scrisse nel numero delle Guêpes del marzo 1841: «On s’occupe beaucoup, à la Chambre et dans les journaux, de la loi sur la propriété littéraire.... Il y a quelques années déjà, — au milieu d’une discussion sur le même sujet, — j’avais proposé une loi, qui a été jugée, en ce temps-là, par les meilleurs esprits, si simple, si raisonnable, qu’on n’y a pas trouvé la moindre objection. Ce projet de loi, le voici, — j’ai lu tout ce qu’on a dit, tout ce qu’on a écrit sur la question; il répond à tout:

«Article unique: La propriété littéraire est une propriété.» [p. 540 modifica]

All’uomo di lettere può capitare anche di peggio, per esempio di sentirsi dire come Porzio Festo governatore della Giudea disse a S. Paolo:

1613.   Insanis, Paule; multae te literae ad insaniam convertunt. 4

(Atti degli Apost., c. XXVI, v. 24).

Nè la dottrina valse a salvare dalla sventura o dalla persecuzione, specialmente in tempi nei quali la tristezza degli avvenimenti faceva dimenticare la nobile serenità degli studi. Chi non ha sentito ripetere le ciniche parole:

1614.   La République n’a pas besoin de savants. 5

Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, fu una delle innumerevoli vittime della Rivoluzione francese: condannato a morte il 19 floreale dell'anno II con altri 27 fermiers généraux, salì sul patibolo l’8 maggio 1794. È leggenda diffusa e ripetuta con molte varianti in tutte le biografie di Lavoisier, che l’illustre chimico, dopo la sentenza, avesse chiesto al tribunale una dilazione per poter condurre a fine alcune esperienze e il capo del tribunale gli abbia risposto: «La République n’a pas besoin de savants». Questa brutale e stupida risposta è dai più attribuita a Dumas, presidente del tribunale rivoluzionario — a torto, che egli quel giorno non presiedeva — da altri a Fouquier-Tinville, che neppur lui era presente, da alcuni, con maggiore verosimiglianza, a Coffinhal, vicepresidente, che presiedeva il giorno della condanna di Lavoisier. J. Guillaume in una lettura tenuta alla Società di Storia della Rivoluzione il 29 aprile 1900, e stampata nella Revue Bleue del 5 maggio, pag. 557 (Un mot légendaire) cerca di dimostrare che la frase è inventata e che il primo a metterla in circolazione fu Grégoire nel suo terzo rapporto sul vandalismo, letto alla Convenzione il 24 frimaio anno III, sette mesi dopo la morte di Lavoisier. [p. 541 modifica]

Quando si adopera la frase, ormai comunissima, se non altro come facezia,

1615.   De omni re scibili et quibusdam aliis. 6

pochi sanno che essa risale a Giovanni Pico della Mirandola (morto nel 1494), detto la Fenice degli Ingegni, il quale a soli ventitrè anni, nel 1486, difese in Roma novecento tesi tolte dai filosofi latini, greci, ebraici ed arabi, e versanti su qualunque argomento. La XI di queste tesi è intitolata ad omnis scibilis investigationem et intellectionem. Fu certamente qualche bello spirito che riportò il titolo inesattamente de omni re scibili e vi aggiunse per scherzo et quibusdam aliis. Lo si mette sulle poderose spalle di Voltaire, il quale nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations ha bensì un capitolo, il CIX, intitolato De Pic de la Mirandole, ma non vi accenna a questa tesi. La frase si cita anche così:
De omnibus rebus et quibusdam aliis.

1616.   Elle est grande dans son genre, mais son genre est petit.7

fu detto una volta di Enrichetta Sonntag, cantante tedesca, dalla celebre cantante italiana Angelica Catalani (1782-1849). Vedi Holtei, Vierzig Jahre, vol. IV (Berlin, 1843-44), Pag. 33. Ma anche il piccol genere ha i suoi pregi, e in fondo non è sbagliato l'eclettismo di Voltaire, il quale pensava che

1617.   Tous les genres sont bons, hors le genre ennuyeux.8

(L’Enfant Prodigue, préface de l’éditeur de l’édition de 1738, in fine).
Questo motto fu argutamente parodiato da Villemessant, direttore del Figaro, che in un momento di malumore contro il critico Jonvin, suo genero, esclamò:
Tous les gendres sont bons, hors le gendre ennuyeux.
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Chi imprende a scrivere su qualsivoglia argomento, deve aver presente il precetto oraziano:

1618.   Sumite materiam vestris qui scribitis æequam
Viribus.9

(Orazio, Arte poetica, v. 38-39).
se non vuole esporsi ad un insuccesso sicuro, tentando un soggetto di troppo superiore al suo ingegno, alla sua dottrina, ossia, per dirla ancora con frase oraziana,

1619.   Lecta potenter.... res.10

(Orazio, Arte poetica, v. 40).
Ecco un’altra citazione che suole interpretarsi a sproposito. Così su di essa ragionava il compianto Rigutini nel già citato articolo della Roma letteraria (a. X, n. 11-12): «L'avverbio potenter franteso ha fatto frantendere anche il participio lecta. E l’errore non è soltanto dei mezzanamente colti, ma anche di uomini assai dotti. Mi ricordo che quando il Lambruschini pubblicava i suoi Dialoghi sull’istruzione, mi ci volle del bello e del buono per fargli capire che il senso che dava a quel passo non era il vero, intendendo egli nel lecta potenter res, la materia potentemente, ossia profondamente studiata, quando si deve intendere l’argomento scelto secondo le proprie forze (potenter); e perchè tale è l'uso che Orazio non di rado fa di certi avverbj, e perchè in quel luogo della Poetica si parla della scelta dell’argomento. In tale errore cadde anche quell’egregio ingegno di A. Gabelli, e si può vedere nel libro L’Istruzione in Italia (parte seconda, pag. 186)».

Soltanto i prediletti delle muse, e le intelligenze elette possono tentare una materia

1620.                                      ....Degna
Di poema chiarissimo e d’istoria.

(Petrarca, Trionfo della Morte, canto I, v. 35-36).
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della quale frase è una reminiscenza l’altra del Tasso, molto simile:

1621.   Di poema dignissima e d’istoria.

(Gerusalemme liberata, c. XV, ott. 32).
Tale, secondo il Tasso, è la memoria di Colombo, che mosse tanti poeti, italiani e stranieri, a cantare epicamente la scoperta del Nuovo Mondo; ma niuno di loro fu pari alla grandezza dell'argomento (vedi Lancetti, Il poema desiderato, nel Ricoglitore italiano e straniero, Milano, 1835). Invece troppe volte si obbligan le Muse a cantare soggetti meschini e indegni di loro, poiché è pur vero che

1622.   Aujourd’hui, ce qui ne vaut pas la peine d’être dit, on le chante. 11

(Beaumarchais, Le Barbier de Séville, a. I, sc. 2).
ciò che fu ripetuto specialmente a proposito della frivolità dei libretti musicali, della quale anche in questo volume si hanno tanti e cosi cospicui esempi!

1623.   Le style c’est l’homme.12

pensava il conte di Buffon, il quale propriamente scrisse: Le style est l'homme même nel suo Discours de réception à l’Académie nel 1752 (Vedi Recueil de l’Acad. de Sciences, 1753, pag. 337). E poiché si parla di stile, non lasciamo senza menzione il nuovo stile che inaugurato da Dante Alighieri segnò il rinascimento delle lettere italiane. Dante medesimo ne indica le basi nei versi:

1624.             .... Io mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, ed a quel modo
Ch’ei ditta dentro, vo significando.

(Purgatorio, c. XXIV, v. 52-54).
cioè, io mi son uno che quando amoro mi muove, scruto i miei sentimenti, e come essi mi dettano, così parlo: e questo sarebbe il principio fondamentale del
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1625.   Dolce stil nuovo.

(Dante, Purgatorio, c. XXIV, v. 55).
vale a dire della nuova scuola poetica fiorentina, capitanata da Dante, e illustrata da Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni Alfani. A proposito di questo stil nuovo si ricordi anche il bel verso del Petrarca:

1626.   Tra lo stil de' moderni e ’l sermon prisco.

(Sonetti sopra vari argomenti, son. VII, com.: S’Amore o Morte non da qualche stroppio; son. XXXII nell’ed. Mestica).

1627.   Il più bel fior ne coglie.

è il motto che accompagna l’impresa del Buratto, insegna della fiorentina Accademia della Crusca, fondata nel 1582. Il primo libro mandato fuori dall’Accademia coll’insegna del Buratto sul frontespizio è la Difesa dell’Orlando Furioso dell’Ariosto stampata in Firenze nel 1584; ma non vi si vede il motto, il quale, dopo vari contrasti, fu stabilito dall'Accademia il dì 14 marzo 1590; ed era leggiera variante di un emistichio petrarchesco, El più bel fior ne colse, che si trova nella Canzone in vita di M. Laura, che secondo il Marsand è il num. VIII, nell’ediz. Mestica è la X, e che comincia Poi che per mio destino. L’emistichio citato è nel verso 36. Esso può applicarsi a chi sa trarre abilmente ma onestamente partito delle gemme sparse dei lavori di chi lo ha preceduto, ma non al plagiario, per il quale conviene piuttosto la citazione francese:

1628.   Je reprends mon bien partout où je le trouve.13

Era la scusa che Molière ripeteva volentieri giustificandosi di avere tolte dal Pedant joué di Cyrano de Bergerac (1654) alcune scene, che egli poi introdusse nelle sue Fourberies de Scapin (1671). Se si ha da credere a Grimarest (Vie de Molière, pag. 13-14), Cyrano avrebbe profittato di cose dette da Molière medesimo nei circoli di comuni amici ; quindi Molière avrebbe giustamente ripreso il suo, secondo l'aforisma giuridico: Ubi rem meam invenio, [p. 545 modifica]ibi vindico. Ai plagiari comuni piace coprirsi dietro le spalle di Molière, citando la frase di lui, ma correggendola sensibilmente: Je prends mon bien, ecc. Si veda l’arguto e dotto volume di Domenico Giuriati, Il plagio (Milano, Hoepli, 1903). Non voglio passare sotto silenzio due versi di Orazio che si citano per raccomandare di stare ugualmente lontani dalla prolissità e dalla oscurità; essi sono tratti dall’Arte poetica (v. 25-26):

1629.                  .... Brevis esse laboro:
Obscurus fio.14

Boileau così ripetè lo stesso concetto nell'Art poétique:
J'évite d'être long, et je deviens obscur.

Divina è l’origine della poesia, ed è secondo l’opinione degli antichi, un nume, che ispira il poeta:

1630.   Est deus in nobis, agitante calescimus illo,
Impetus hic sacræ semina mentis habet. 15

(Ovidio, Fasti, lib. VI, v.5-6 ).
Certamente, se non è estro divino che muove l’uomo a parlare in almeno una grande passione umana, se pure non è il cervello balzano, dappoiché sovente

1631.   Aut insanit homo, aut versus facit.16

(Orazio, Sat., lib. II, sat. 7, v. 117).

Ovvero è lo sdegno che eccita il poeta a concitate parole anche se manca il genio; si natura negat,

1632.   ....Facit indignatio versum.17

(Giovenale, Satira I, v. 79 ).
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e ciò non deve accadere tanto di rado, se Orazio, che pure se ne intendeva, essendo del mestiere, chiamava i poeti

1633.   Genus irritabile vatum.18

(Epistole, lib. II, ep. 2, v. 102).

Irritabile dunque e non di rado anche noioso, se crediamo allo stesso Orazio:

1634.   Omnibus hoc vitium est cantoribus, inter amicos
Ut nunquam inducant animum cantare rogati,
Injussi nunquam desistant.19

(Satire, lib. I, sat. 3, v. 1-3).

Ma quale la missione della poesia? Non ha soltanto lo scopo di dilettare, ma anche un nobile intento educatore, secondo che esprime l’armoniosa strofa di Giuseppe Parini:

1635.   Va per negletta via
Ognor l’util cercando
La calda fantasia,
Che sol felice è quando
L’tile unir può al vanto
Di lusinghevol canto.

(Parini, La salubrità dell’aria, str. 22).
E allora l'insegnamento che si trae dalla poesia, è anche più accetto e più profittevole, poiché

1636.   ....Il vero condito in molli versi
I più schivi allettando ha persuaso.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. I, ott. 3).
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e può sollevarsi ad altezza tale che non a tutti sia dato di afferrarne il sublime concetto, quale è quello che è riposto in tanti luoghi della Divina Commedia, tormento dei commentatori. Dante medesimo lo riconosce dicendo:

1637.   O voi ch'avete gl’intelletti sani.
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame degli versi strani!

(Inferno, c. IX, v. 61-63).

Però, più del vero, è l’ideale che ispira il poeta. Già Vincenzo Monti, quasi presentendo le lotte del verismo, così lo condannava in auticipazione:

1638.                                 .... Il nudo
Arido vero che de’ vati è tomba.

e il nostro maggior poeta contemporaneo, (Giosuè Carducci, si rivolgeva con vivace apostrofe all’ideale:

1639.   Tu sol — [pensando] — o ideal, sei vero.

che è il verso finale del sonetto: Giuseppe Mazzini (XXIII di Giambi ed Epodi) e al tempo stesso non è che la traduzione delle parole che Victor Hugo nei Misérables (partie I, livre I, X) fa dire dal convenzionale morente al Vescovo Benvenuto: O toi! o idéal! toi seul existes!

Nobilissima è la poesia che s’ispira a tali sensi, e degna di alte ed elette intelligenze: allora la poesia veramente merita di essere detta

1640.             ....Un cantico
Che forse non morrà.

Così il Manzoni pensava della sua ode Il Cinque Maggio, e il suo prognostico andava fallito, dappoiché pochi componimenti lirici hanno raggiunto la celebrità di quel carme. Basterebbe a dimostrarlo il numero considerevole di traduzioni nelle varie lingue che sono state pubblicate fino ad [p. 548 modifica]oggi: ventisette, tutte diverse, ne raccoglieva C. A. Meschia in un opuscolo stampato a Foligno nel maggio 1883.

Alla poesia dantesca si è con tutta giustizia applicato quel che Dante dice della poesia di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucano (come già ho detto al n. 1232):

1641.                       ....L’altissimo canto
Che sopra gli altri com’aquila vola.

(Inferno, c. IV,v. 95-96).

Si avverta che il primo verso, secondo la lezione più comune, suona completo così:

Di quei signor dell’altissimo canto
e allora non vi è dubbio che è il canto che vola: ma chi segue la lezione della «Crusca» e legge
Di quel signor dell’altissimo canto
intende invece che colui che vola sopra gli altri sia Omero (o secondo altri, Ovidio), il Signor dell’altissimo canto.

L'immagine geniale del canto alato, sia o no dantesca, è stata accetta a un gran numero di poeti, non ultimo Enrico Heine, di cui tutti ricordano:

1642.   Auf Flügeln des Gesanges20

titolo e primo verso di una nota poesia, la IX del Lyrisches Intermezzo.

E i versi di costoro non erano davvero fra quelli che un altro poeta moderno modestamente chiamava:

1643.   Poveri versi miei gettati al vento.

ch’è il principio del primo sonetto nei Postuma di Lorenzo Stecchetti (cioè Olindo Guerrini); e tra i versi condannati all’oblio andrebbero messi tutti quelli che non contengono un concetto realmente degno di vita, quelli cioè che il Foscolo disprezzò dicendo:
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1644.   Sdegno il verso che suona e che non crea.

(Le Grazie, Inno I, v. 25, pag. 133 dell’ediz. Chiarini, Livorno 1904).

Se tale è il destino di molti versi, non diverso è quello di tanta prosa. L’oratore dovrebbe prefiggere a scopo del suo parlare di

1645.   Persuadere, convincere e commuovere.

il quale sarebbe il titolo d'uno scherzo comico di Paolo Ferrari; e ciò succederebbe agevolmente a colui, che parlasse come parlava Alete, ambasciatore del re d’Egitto, a Goffredo, cui

1646.                       ....Di sua bocca uscieno
Più che mel dolci d'eloquenza i fiumi.

(Tasso, Gerusalemme liberata, c. II, ott. 61 ).
ma ciò succede di rado: invece, più frequentemente s’incontrano oratori prolissi e freddi, che mostrano d’ignorare il precetto di Quintiliano

1647.   Prima est eloquentiæ virtus perspicuitas.21

(De institut. orat., lib. II, 3, 8).
e fanno venire a memoria il satirico motteggio:

1648.   Parum eloquentiæ, sapientiae nihil.22

che è in Frontone (Epist., ed. Naber, pag. 155), parodia del sallustiano:
Satis loquentiæ, sapientæ parum.

(Catilinarium, 5, 4).


ovvero la frase attribuita a Montesquieu:

1649.   Ce qui manque aux orateurs en profondeur, ils vous le donnent en longueur.23

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Chi vuol divenire eccellente nell’arte del dire, deve anzi tutto seguire il precetto oraziano:

1650.                       ....Vos exemplaria græca
Nocturna versate manu, versate diurna.24

(Orazio, Arte poetica, v.268-269).
ciò che oggi potrebbe dirsi non soltanto dei classici greci, ma eziandio dei latini e dei volgari: né può trascurare lo studio della grammatica, di quella disciplina che impone le sue leggi anche ai re, secondo il dettato antico:

1651.   Cæsar non supra grammaticos.25

Narrano infatti Svetonio (De illustribus grammaticis, cap. 22) e Dione Cassio (Istorie, 57, 17) che Tiberio usò una volta una parola non latina, e avendo Atteio Capitone soggiunto che se non era parola latina, d’allora innanzi sarebbe stata tale, Marco Pomponio Marcello, purista feroce, replicò: Tu enim Cœsar civitatem dare potes hominibus, verbo non potes. Chi da queste parole abbia tolto la frase sentenziosa detta qui sopra, non saprei dire. Tale però sembra non fosse l’opinione di un altro imperatore, non più dell’antichità ma dei tempi di mezzo, Sigismondo I, che nel Concilio di Costanza del 1414, rivolgendosi ai Padri ivi radunati diceva: «Date operam ut illa nefanda schisma eradicetur» (riferendosi allo scisma di Boemia), e poiché il legato papale card. Branda Castiglione detto il Piacentino, che gli sedeva accanto ed era suo amicissimo, sommessamente gli osservò: «Domine, schisma est generis neutrius», non femminino come aveva detto l'imperatore, questi arditamente rispose: Ego sum Rex Romanus et super grammaticam. Vedi Matteo Castiglione, Elogi historici ecc. (Mantua, 1606, a pag. 234). La stessa storiella si trova già nella Germania del teologo Giacomo Wimpfeling (Argent., 1505, fol. XXX), in questi termini: «Is edam Sigismundus, quod preterire nolo, in concilio Constantiensi reprehensus a cardinale Pilacentino, quod contra grammaticorum prescripta verba quedam [p. 551 modifica]pronuntiasset, non minus scite quam festiviter ait: Placentine, si supra leges sumus, quare supra grammaticam esse non possumus? Placentine! Placentine! quibus places, placeas; mihi non places». All’incontro, Molière interpretò il detto antico nelle Femmes savantes (a. II, sc. 6. v. 465), con le parole:

La grammaire, qui sait régenter jusqu'aux rois.

Il caso narrato da Svetonio mi trae a parlare della origine delle parole, cioè delle loro etimologie. A indicare delle etimologie assurde o contradittorie si suole citare il detto latino:

1652.   Lucus a non lucendo.26

che era una delle etimologie a contrariis nelle quali si compiacevano gli antichi. Questa di lucus è ricordata da Quintiliano (De institut. oratoria, I, 6, 34); e da uno scoliaste di Stazio, Lattanzio (o Lutazio) Placido, è attribuita ad un ignoto grammatico di nome Licomede. Si dice anche:

1653.   Canis a non canendo.27

ma questa non è che una trascrizione canzonatoria ed inesatta di un’altra etimologia riportata da Varrone nel trattato De lingua latina (VII, 32): «Sed canes, quod latratu signum dant, ut signa canunt, canes appellatæ.» Questa non sarebbe dunque una vera etimologia a contrario, quali invece sarebbero le altre non meno note, ma forse apocrife, di bellum a nulla re bella, di cæelum a non celando, quia apertum est, e via discorrendo. A queste curiose antinomie del linguaggio accennava per incidenza anche il Byron:

The Age of Gold, when gold was yet unknown,
     Thus most appropriately has been shown
     Lucus a non lucendo, not what was,
     But what was not....

(Don Juan, c. VI, stanza 55).

L'argomento di queste etimologie è troppo esilarante perchè non valga a farmi perdonare una breve digressione. È noto l'epi[p. 552 modifica]gramma del Cavaliere (Giacomo) De Cailly (1604-1673) — più noto sotto il nome anagrammatico di D’Aceilly — contro il Ménage e contro una singolare derivazione da lui sostenuta:

1654.   Alfana vient d’equus sans doute,
Mais il faut avouer aussi,
Qu'en venant de là jusqu'ici
Il a bien changé sur la route.28

Molti credono inventata questa etimologia, eppure per quanto essa paja sbalorditoja, è autenticissima e si può vederla nel libro del Menagio, Le origini della lingua italiana (Parigi, 1699), pag. 32-33: «Alfana. Cavalla. Dallo spagnuolo Alfana che vale l’istesso, e che fu così formato dall’articolo arabo al, e dal nome latino equa: equa, eka, aha, haka, faca, facana, e per contrazione fana, e poi coll’articolo arabo, Alfana.» Del resto, anche più maravigliosa di questa è la etimologia che lo stesso Menagio dà delle parole lacchè, garzone, ragazzo, valletto, tutte derivate secondo lui.... dal latino verna, attraverso alle inaudite metamorfosi di vernula, vernulacus, vernulacajus, e per apocope lacajus (da cui il francese laquais e il nostro lacchè), lacacius, racacius, ragacius, ragazzo! Item da vernulacus, vernulacarus, vernulacartus, lacartus, locartius, cartius, gartius, garzone!! Item da verna, vernaculus, vernaculettus, vernalettus, verlettus, varlet, valletto!!! Meno male che lo stesso Menagio, innanzi di sfoderare queste sue etimologie, avverte: «Io dirò cose incredibili e vere.»

Di molte parole può dirsi:

1655.   Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque Quæ nunc sunt in honore vocabula. 29

(Orazio, Arte poetica, v. 70-71).
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secondo che vuole l’uso, supremo arbitro e moderatore della lingua:

1656.                                 ....Usus
Quem penes arbitrium est et jus et norma loquendi.30

(Ivi, v. 71-72).

Il fatto è che nulla vi ha di nuovo sotto il sole, né cose né parole, ed in verità

1657.   Nullum est jam dictum, quod non dictum sit prius.31

(Terenzio, Eunuchus, Prol., v. 41).
e il tempo medesimo che ricopre di oblio talune cose, altre ne richiama in luce ed in onore:

1658.   Quidquid sub terra est, in apricum proferet aetas.32

(Orazio, Epistole, lib. I, ep. 6, v. 24).
che era la bella ed acconcia impresa assunta dai fratelli Volpi a fregiare le edizioni cominiane (di Padova) da loro curate, e con le quali intendevano togliere all'oblio le opere degli antichi classici.

A molte parole può giustamente appropriarsi il noto verso, che tutti conoscono, ma di cui pochi sanno la fonte:

1659.   Conveniunt rebus nomina sæpe suis.33

È di un oscuro autore medievale, il giudice Riccardo da Venosa vissuto ai tempi di Federico II; e si trova in un poemetto drammatico da lui composto fra il 1230 e il 1232, col titolo De Paulino et Polla (v. 411-412):

Nomine Polla vocor quia polleo moribus altis:
Conveniunt rebus nomina sæpe suis.

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Ved. a pag. 390 nell’ediz. Duméril (Poésie populaire du Moyen-Age, Paris, 1854), a pag. 109 dell’ediz. Briscese (Paolino e Polla, Pseudo- Commedia del secolo XIII di Riccardo da Venosa, ed. Rocco Briscese, Melfi, 1903); e a pag. 364 della ediz. curata da M. Rigillo per la Rassegna Pugliese di scienze, lettere ed arti, di Trani, volume XXI. Per notizie sull'autore si consulti G. Fortunato, Riccardo da Venosa e il suo tempo (Trani, 1918).

Per l’arte posso registrare la sentenza di Seneca:

1660.   Omnis ars naturæ imitatio est.34

(Epist. 65, 3).
quella di Dante:

1661.   Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote.

(Inferno, c. XI, v. 105).
come Virgilio dice a Dante: poiché l’arte segue la natura «come il maestro fa il discepolo», ed essendo la natura quasi figlia di Dio, l’arte che è figlia della natura, può dirsi nipote di Dio; e la celebre formola:

1662.   L'arte per l'arte.

il cui creatore pare che sia stato Victor Cousin (cfr. Menendez y Pelayo, Hist. de las ideas esteticas, to. IV, vol. II, pag. 161, Madrid, 1889; e B. Croce, La critica letteraria, Roma, 1895, pag. 118, in n.) e alla quale era così avverso Giuseppe Mazzini che in una lettera all’avv. Angelo Mazzoleni di Milano, del 16 settembre 1870, scriveva: «Come un tempo i giovani accettavano dai francesi la vuota e immorale formola dell’arte per l’arte ecc.» e per gli artisti accennerò a quei versi che denotano uno dei maggiori privilegi di cui essi godono in comunione con i poeti:

1663.                                 .... Pictoribus atque poetis
Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.35

(Orazio, Arte poetica, v. 9-10).
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Per la musica in particolare, anzi per coloro che l’hanno in uggia, ricorderò il motto di Bernard de Fontenelle:

1664.   Sonate, que me veux tu?36

conservatoci da D’Alembert (Œuvres, Paris, 1805, to. III, pag. 403), ma ch’è stato attribuito anche a qualche sovrano, e particolarmente a Carlo X. Non è certamente la esclamazione di un intelligente di musica, del resto Fontenelle confessava candidamente che di tre cose egli non aveva mai capito nulla, il giuoco, le donne e la musica. Ma in ogni modo egli si trovava in numerosa compagnia. Anche la frase:

1665.   La musique est le plus cher, mais le plus désagréable des bruits. 37

è attribuita a Teofilo Gautier ma egli non fece che ricordare, nei suoi Caprices et zig-zags, a proposito d’una cattiva rappresentazione della Favorita cui egli aveva assistito a Londra, una frase ch’egli attribuisce a un geometra. Anzi il Gautier era musicista intelligente, e si vantava d’ssere stato il primo a parlare di Wagner a Parigi, riconoscendone il valore e l’importanza. Tuttavia egli amava ripetere questo giudizio paradossale e lo scrisse anche in un famoso Album di autografi, l’Album Nadar, che Millaud comprò per diecimila franchi. Pare del resto che l’odio per la musica fosse comune a tutti i caporioni della scuola romantica. Ecco quel che lo stesso Gautier scriveva nei Grotesques, pag. 158 dell’ediz. Calman Lévy: «Victor Hugo fuit principalement l’opéra et même les orgues de Barbarie: Lamartine s’enfuit à toutes jambes quand’il voit ouvrir un piano; Alexandre Dumas chante à peu près aussi bien que Mademoiselle Mars, ou feu Louis XV, d’harmonieuse mémoire; et moi-même, s’il est permis de parler de l’hysope après avoir parlé du cèdre, je dois avouer que le grincement d’une scie ou celui de la quatrième corde du plus habile violiniste me font exactement le nume effet.» Nondimeno non bisogna prendere troppo sul serio queste frasi sfuggite al poeta [p. 556 modifica]forse in momenti di malumore: in molti altri luoghi delle sue opere egli si mostra degno intenditore e ammiratore di cose musicali. Vedi, per esempio, l’Albertus, XLIV.

La musica è madre del canto; fermiamoci di sfuggita per ricordare l’emistichio virgiliano:

1666.   Amant alterna Camoenae.38

(Virgilio, Egloga III, v. 59).
e passiamo senz’altro alle scienze.

Dagli annali della Filosofia, di quella scienza così compianta dal Petrarca nel verso:

1667.   Povera e nuda vai, Filosofia.

(Rime sopra vari argomenti, son. I secondo la numer. del Marsand, com.: La gola e ’l sonno e l’oziose piume, son. VII secondo il Mestica).
(verso divenuto presto popolarissimo se è vero l’aneddoto, conservatoci dal De Sade nei Mémoires, to. I, p. 192, del medico che vedendo passare per la strada un filosofo assai male in arnese, gli gridò; Povera e nuda ecc., cui il filosofo, continuando la citazione, rispose opportunamente col verso successivo: Dice la turba al vil guadagno intesa) trarremo una celebre sentenza:

1668.   Nil est in intellectu quod non fuerit in sensu.39

che è una di quelle frasi nelle quali si riassume una dottrina ma che non possono attribuirsi più ad uno che ad altro scrittore. Gassendi scrivendo a Descartes la citava in questa forma: «Quicquid est in intellectu praeesse debere in sensu.» L’ignoto autore del trattato De intellectibus (stamp. con le Abaelardi Opera, ed. Cousin, 1859, vol. II, pag. 747) dice che: «tota humana notitia a sensitu surgit», e in questa frase c’è il pensiero, se non le parole testuali della sentenza più comunemente citata. Per altri raffronti, ved. Notes et Queries, Xth ser., vol. I. 1904, pag. 297.
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È anche famosa nella storia della filosofia la frase:

1669.   Cogito, ergo sum.40

enunciata da Réné Descartes nei Principes Philos. (I, 7 e 10) e che divenne l’assioma fondamentale della filosofia cartesiana: vedasi anche il Discours de la Méthode pour bien conduire sa raison. Le fonti di questa sentenza potrebbero trovarsi nel ciceroniano Vivere et cogitare (Tuscul. quæst., cap. V, § 38) e soprattutto in un passaggio dei Soliloquia di S. Agostino: «R. Tu qui vis te nosse, scis te esse? — A. Scio. — R. Unde scis? — A. Nescio. — R. Simplicem te sentis an multipliem? — A. Nescio. — R. Moveri te scis? — A. Nescio. — R. Cogitare te scis? — A. Scio. — R. Ergo verum est cogitare te. — A. Verum.» (Soliloquia, lib. II, cap. 1).

Ma Descartes concepì e svolse il principio che è cardine della sua filosofia, indipendentemente da ogni studio della dottrina agostiniana, che forse gli era nota solo imperfettamente. Infatti egli scriveva nel 1640 a chi lo aveva avvertito della corrispondenza della sua dottrina filosofica con il passo citato dei Soliloquia: «Vous m’avez obligé de m’avertir du passage de saint Augustin auquel mon “je pense donc je suis” a quelque rapport; je l’ai été lire aujourd'hui en la bibliothèque de cette ville, et je trouve véritablement qu’il s’en sert pour prouver la certitude de notre être.... et c’est une chose qui de soi est si simple et si naturelle à inférer qu’on est, de ce qu'on doute, qu’elle aurait pu tomber sous la plume de qui que ce soit; mais je ne laisse pas d'être bien aise d’aoir rencontré avec saint Augustin.»

Correlativo del principio Cogito ergo sum è l'altro nel quale il Cartesio s'avvicinò di più alla forma dialettica di S. Agostino, e che si ritrova in molti luoghi delle opere cartesiane ma specialmente nell’opuscolo Inquisitio veritatis per lumen naturale:

«Dubito ergo sum, vel quod item est, cogito ergo sum.»

Si può consultare per la storia di questa sentenza filosofica una dissertazione di Ludwig Fischer stampata a Wiesbaden nel 1890.
Un illustre filosofo tedesco, Emanuele Kant, è il creatore di una frase oggi usata e abusata, il [p. 558 modifica]

1670.   Kategorischer Imperativ.41

ch’egli usò per la prima volta nella sua opera Grundlegung der Methaphysik der Sitten (II. Abschn.) di cui la prima edizione è di Riga, 1785.

Cicerone aveva una grande e giustificata venerazione per la storia, che in un luogo delle sue opere egli chiama:

1671.   Historia (vero) testis temporum, lux veritatis, vita memoriæ, magistra vitæ, nuntia vetustatis.42

(De Oratore, lib. II, cap. 9, 36).

(più spesso si cita soltanto: Historia.... magistra vitæ; e una varia lezione di vita memoriæ è via memoriæ); e altrove dice:

1672.   Nescire (autem) quid ante quam natus sis accident, id est semper esse puerum. 43

(Orator, ad Brutum, § XXXIV, 120).

Ugo Foscolo ne raccomandava lo studio ai giovani italiani con le famose parole:

1673.   O Italiani, io vi esorto alle storie.

che sono nella orazione inaugurale del corso di letteratura a Pavia, intitolata Dell’origine e dell’ufficio della letteratura (§ XV, verso la metà): «Italiani, io vi esorto alle storie, — egli dice — perchè niun popolo più di voi può mostrare nè più calamità da compiangere, nè più errori da evitare, nè più virtù che vi facciano rispettare, nè più grandi anime, degne di essere liberate dall’obblivione da chiunque di noi sa che si deve amare e difendere ed onorare la terra che fu nutrice ai nostri padri ed a noi, e che darà pace e memoria alle nostre ceneri.» [p. 559 modifica]

Invece Voltaire la giudica poco favorevolmente, poichè secondo lui

1674.   L’histoire n’est que le tableau des crimes et des malheurs.44

(L’ingénu, histoire véritable, chap. X).
Non molto diversamente il Gibbon nel Decline and fall of the Rom. Empire, ch. 3: History which is, indeed, little more than the register of the crimes, follies, and misfortunes of mankind. Anche Giovanni Prati verso la fine di una sua poesia La cena di re Alboino si scusa di narrare casi atroci, di cui è piena la storia, poichè

1675.   Quello ch’è storia non cangia mai.

Nè miglior opinione aveva della geografia quell’egregio patrizio dei tempi nostri che disse:

1676.   Io non credo alla geografia.

Questa scettica frase corse sulle bocche di molti come attribuita al defunto principe Onorato Caetani di Teano, duca di Sermoneta: il quale l’avrebbe detta, ciò che la rendeva più singolare, mentre era presidente.... della Società Geografica Italiana! Ma l’attribuzione maligna non regge, e la frase è invece del padre, il Duca Michelangelo, il quale ad un seccatore che insisteva con poca discrezione per fargli comprare a caro prezzo un’opera geografica di nessun pregio, rispose: «Mi dispiace proprio tanto, ma io non credo alla geografia.» Del resto il venerando Duca, patriota illustre, come tutti sanno, dantofilo e grecista di valore non comune, a molte cose non credeva, per esempio alla moderna glottologia, e nemmeno all’archeologia. «Ove sono dodici archeologi, soleva dire, sono tredici opinioni diverse.» È nota la burla ch’egli fece ad un dotto archeologo con la iscrizione funeraria di San Cucufino, che diede occasione ad una dissertazione eruditissima; egli rideva volentieri degli infallibili, ovunque ne incontrasse; e però più di un archeologo rimase vittima delle sue veramente spiritose invenzioni.

1677.   L'aritmetica non è un’opinione.

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Questa fortunata frase è comunemente attribuita al defunto deputato di Catanzaro Bernardino Grimaldi. Questi, costretto a lasciare il portafogli delle Finanze dopo la crisi ministeriale del novembre 1879, il 27 dello stesso mese prendendo la parola dal suo scanno di deputato per un fatto personale sollevato da una interrogazione Sella intorno alle cause della crisi, faceva due dichiarazioni: « La prima è, che ministro o deputato, ritengo che la mia responsabilità resta sempre integra innanzi alla Camera ed al paese.... La seconda dichiarazione che tengo a fare è questa, che per me tutte le opinioni sono rispettabili, ma ministro o deputato ritengo che l’aritmetica non sia un’opinione. Il resto alla futura discussione, che attendo impavido e tranquillo.» (Atti Parlam., Discussioni della Cam. dei Dep., Sess. 1878-79, vol. X, col. 8707). Ma se il Grimaldi ebbe la fortuna di dare vita durevole alla frase, il primo autore ne fu il senatore Filippo Mariotti, che la disse efficacemente in un discorso fatto a Serrasanquirico quando egli era deputato pel collegio di Fabriano, e poi ebbe a suggerirla al Grimaldi che, lui presente, si consigliava con Quintino Sella sulla difesa che voleva fare alla Camera. Così cortesemente mi assicurava lo stesso senatore (morto nel 1911); ed è anche stampato da Domenico Gaspari nelle Memorie storiche di Serrasanquirico (Roma, 1883), pag. 259.

Note

  1. 1609.   Non di solo pane vive l'uomo, ma di qualunque cosa che Iddio comandi.
  2. 1610.   Chi vive nell'ozio senza il conforto delle belle lettere, è come morto, è un sepolto vivo.
  3. 1612.   La proprietà letteraria è una proprietà.
  4. 1613.   Tu sei pazzo, Paolo; il molto studio ti ha condotto alla pazzia.
  5. 1614.   La repubblica non ha bisogno di dotti.
  6. 1615.   Di tutte le cose che si possono sapere e di alcune altre.
  7. 1616.   Essa è grande nel suo genere ma è il suo genere che è piccolo.
  8. 1617.   Tutti i generi sono buoni, tranne il genere noioso.
  9. 1618.   Se volete scrivere, scegliete un argomento pari alle vostre forze.
  10. 1619.   Materia scelta secondo le proprie forze.
  11. 1622.   Oggi quello che non vale la pena di dire, lo si canta.
  12. 1623.   Lo stile è l’uomo.
  13. 1628.   Io riprendo la roba mia dovunque la trovo.
  14. 1629.   Mi sforzo di essere breve, e divento oscuro.
  15. 1630.   

    Divino spirto è in noi; per lui movente
    Vita godiam: l’estro, onde anch’io mi accendo,
    Semi contien della divina mente

    (Trad. di G. B. Bianchi)

  16. 1631.   L’uomo o diventa pazzo o fa dei versi.
  17. 1632.   La indignazione mi fa poeta.
  18. 1633.   La razza irritabile dei poeti.
  19. 1634.   

    Ecco a tutti i cantor vizio comune:
    Pregati, non c’è caso che s’inducano
    A cantar tra gli amici: non pregati
    Non la finiscon mai.

    (Trad. di T. Gargallo).

  20. 1642.   Sulle ali del canto.
  21. 1647.   Il primo requisito dell’eloquenza è la perspicuità.
  22. 1648.   Poca eloquenza, nessuna sapienza.
  23. 1649.   Ciò che manca agli oratori in profondità, ve lo danno in lunghezza.
  24. 1650.   Sfogliate di notte e di giorno gli esemplari greci.
  25. 1651.   Tu, o Cesare, non hai autorità sopra i grammatici.
  26. 1652.   In latino il bosco si dice lucus perchè non c'è luce.
  27. 1653.   Si dice cane perchè non canta.
  28. 1654.   Non c'è dubbio che alfana viene da equus, ma bisogna anche confessare che venendo da così lontano ha cambiato molto per la strada.
  29. 1655.   Molte parole che già caddero d'uso, rinasceranno, e molte che oggi sono in onore, cadranno.
  30. 1656.   L’uso in balia del quale sono l’arbitrio e la legge e la norma del parlare.
  31. 1657.   Non si dice cosa alcuna che non sia stata detta avanti.
  32. 1658.   Tutto ciò che è sotto terra, tornerà alla luce col tempo.
  33. 1659.   Spesso i nomi sono appropriati alle cose cui appartengono.
  34. 1660.   Tutte le arti sono un'imitazione della natura.
  35. 1663.   Ai pittori e ai poeti fu sempre concessa giusta libertà di osare qualunque cosa.
  36. 1664.   Sonata, perchè mi perseguiti?
  37. 1665.   La musica è il più caro e il più sgradevole dei rumori.
  38. 1666.   Alle Muse piacciono i canti alterni.
  39. 1668.   Nulla è nell’intelligenza che prima non fosse nel senso.
  40. 1669.   Penso, dunque esisto.
  41. 1670.   Imperativo categorico.
  42. 1671.   La storia è testimonio dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità.
  43. 1672.   Ignorare quel che sia accaduto prima che tu sia nato, vuol dire esser sempre fanciullo.
  44. 1674.   La storia non è che un quadro di delitti e di sciagure.