Il miracolo/Parte prima/III
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte prima - II | Parte prima - IV | ► |
CAPITOLO III.
Le giornate ripresero per Vanna il loro corso interminabilmente monotono.
Si annoiava tanto che non trovò, in quell'anno, nemmeno la voglia di recarsi a trascorrere i mesi caldi nella sua villa.
La mattina, svegliandosi, domandava a se stessa con accasciamento che cosa avrebbe potuto far di nuovo per affrettare il tempo verso la sera, ma il pensiero le rifuggiva da ogni ricerca, e Vanna si lasciava arretire, inerte, dallo svolgersi delle vicende giornaliere come da una rete dalle maglie vischiose. Intorpidita ancora per il sonno prolungato, sentiva dal suo letto correre l'acqua nella vasca e sapeva già che Palmina sarebbe entrata, a minuti, per avvertirla che il bagno era pronto; anche sapeva che, dopo il bagno, Palmina asciugandola avrebbe esclamato: «Lei è bella, bella, signora mia, più di una immagine di cera», e le avrebbe sciolti i capelli, glieli avrebbe rialzati, annodati, facendo guizzare irrequieta nel cristallo dello specchio la testa piatta di lucertola; poi sarebbe entrato Titta a portarle la tazza del caffè sopra il vassoio di argento e avrebbe ripetuto, aprendo la bocca sdentata al medesimo sorriso di sommessione ch'ella vedeva ogni mattina da anni:
— A lei piace il dolce, signora, metta dunque molto zucchero.
Sapeva che tali episodi si sarebbero ripetuti inevitabilmente, e se ne sentiva già sopraffatta come dal peso di una fatalità.
Le poche signore, che si recavano talvolta a farle visita, non variavano mai i loro discorsi. Dopo le accoglienze usate, una diceva:
— Sai? La tale si è ordinato un abito a Firenze, ma l'abito non piace. Hai sentito la notizia? La figlia del sottoprefetto si è fidanzata; ma pare che lo sposo abbia a Roma un impiego da miserabile.
Talvolta anche le narravano con frasi prolisse le grandiosità eccessive della moglie del capitano, che sfoggiava rinfreschi suntuosi ne' suoi ricevimenti del venerdì, ma che non saldava i conti dei creditori.
Vanna sorrideva con amabilità distratta, interloquendo poco, mentre Ermanno, assai festeggiato, offriva in giro frutta candite in una scatola di cristallo.
Allorchè le visitatrici erano uscite, ed Ermanno, in compagnia di Titta, era andato a giuocare al giardino pubblico, Vanna si lasciava cadere esausta in una poltrona, e rimaneva, fuori del tempo, con le mani sulle ginocchia, il busto ripiegato, gli occhi aperti e fissi a contemplare la cornice di un quadro. Non soffriva, ma era come indolenzita, intorpidita. Certe volte, quando le nubi si ammassavano in cielo e il tuono echeggiava in lontananza, un ombrellaio attraversava la piazzetta, gridando a ogni passo con cantilena desolante:
— Ombrelli, ombrellaio! Chi ha ombrelli da accomodare?
Allora, nell'udire quel grido, un senso ineffabile di sconforto la prendeva, uno stupore accorato di sentirsi vivere, una paura confusa della morte, una curiosità affannosa di veder l'ombrellaio, ch'ella aveva già veduto tante altre volte.
Si alzava dalla poltrona, correva alla finestra, spingeva le imposte, e l'uomo si arrestava, si volgeva al rumore, alzava la faccia scialba verso di lei e ripeteva, guardandola:
— Ombrelli, ombrellaio! Chi ha ombrelli da accomodare?
Vanna, spaventata, richiudeva le imposte e cominciava a piangere in silenzio. Di solito era quello il momento in cui Palmina entrava nel salone, sguisciando attraverso l'uscio socchiuso. Aveva finite le sue faccende e veniva a tenere un po' di compagnia alla signora.
— Chi sta solo piange spesso - ella sentenziava, rimanendo in piedi accanto a Vanna, la quale non si curava della sua presenza; e allora, per entrare nell'argomento, Palmina si lamentava acerbamente di Titta, che non voleva sposarla, mentre sposandola e morendo prima di lei, come di giusto, le avrebbe lasciato un pane per la vecchiaia.
— Ma le carte non ingannano e le carte dicono che mi sposerà - asseriva Palmina con fervida convinzione e, lampeggiando malizia dagli occhietti vividi, estraeva dalla tasca del grembiale un mazzo di carte.
— Ecco, guardi, signora, il giuoco è chiaro. Adesso farò le carte alla sua intenzione.
Vanna, infastidita, volgeva il capo altrove; ma Palmina, Titta lo giurava, era nata per fare la strega, e conosceva tutte le arti della malia. S'inginocchiava in terra, mescolava le carte, poi le disponeva, a mucchietti, sull'orlo del tavolo.
— Oggi è il secondo venerdì del mese e non c'è giornata migliore per queste cose. Nel secondo venerdì del mese le carte sono vangelo! - e assumeva un aspetto grave, premendo con la punta dell'indice i vari mucchietti.
— Posi il dito qui, signora, e concentri il pensiero. Se lei non guarda, il giuoco non riesce.
Incuriosita, ipnotizzata, Vanna diventava docile.
— Novità sotto i coppi di casa - Palmina affermava, soddisfatta, interrogando le carte con cautela. - Questa è la donnetta buona; eccola, proprio lei. E questa è una lettera, che arriva da lontano. Non aspetta lettere, signora?
Vanna accennava di no col capo, ma poi, ripensandoci, si ricordava di una sua cugina stabilita nel Belgio e che, forse, le avrebbe scritto.
— Vede? Vede? - esclamava Palmina trionfante. - La lettera infatti è di parentela e porta roba. Ma qui adesso c'è un superiore. Eccolo. Si convinca. Il re di bastoni è il superiore. Qui non c'è sbaglio.
— Monsignore, forse - Vanna diceva, come parlando tra sè.
— Per l'appunto, monsignore. Una lingua cattiva gli mette male contro di lei. Oh! la cattiva linguaccia! Porta lacrime. Ecco, cinque carte danno lacrime.
Vanna era punta da uno sgomento vago; ma Palmina la rassicurava, promettendole di recitare per tre sere una preghiera secreta, di effetto sicuro - poscia, raccogliendo le carte e ridiventando umilmente melliflua, insinuava che nella guardaroba c'erano alcuni oggetti di biancheria usata, indegni di toccar la pelle della signora, ma anche troppo nobili per lei, meschina.
Vanna sollevava le spalle con moto d'indifferenza, e Palmina scompariva, lasciandola sola di nuovo, più sconsolata di prima; umiliata anche, in parte consapevole della sua fiacchezza morale: ma assolutamente incapace di ribellarvisi e di riprendersi.
Tre volte per settimana, allo scoccar delle cinque, don Vitale si presentava e si profondeva in riverenze davanti a Vanna, ch'egli chiamava «riverita signora», mentre gli occhi tondi, sotto le ciglia arruffate, diventavano foschi, giacchè don Vitale era combattuto aspramente fra il rispetto alla gentildonna di antica razza, di cui egli, salito dalla gleba, venerava l'origine signorile, e l'istintivo rancore contro la femmina, la diffidenza ostile della chiesa cattolica contro la nemica, l'impura, colei che per la sua vanità e la cupidigia sua trasse il maschio alla perdizione, inducendolo al peccato e facendolo cacciar fuori del Paradiso terrestre.
Vanna rispondeva affabilmente contegnosa ai molti saluti di don Vitale, non ignara che i padri di lui si erano trovati in istato di domesticità presso i Monaldeschi, e non riuscendo a trattenere completamente il riso nel vederlo quadrato e tozzo sotto la veste talare, con le grosse labbra segnate dall'ombra nera dei baffi, che sarebbero stati foltissimi e irsuti, se la regola non gli avesse vietato di lasciarli crescere.
Ermanno, il quale al piano terra giuocava allegro con Serena, diventava afflitto all'annuncio delle lezioni di latino e saliva di malavoglia le scale, preceduto da Serena, che, dimenando le gambe e le braccia, entrava di corsa nel salone, fissava irosa la brutta faccia di don Vitale, e, simulando terrore, scappava poi subito, gridando:
— Il lupo! Il lupo! - La qual cosa faceva dire con rabbia a don Vitale che la gente nata in America, di qualunque età o sesso, è pagana per natura, destinata all'inferno per predilezione.
Vanna torceva il capo, acciocchè don Vitale non la vedesse ridere, e diceva con tenera indulgenza che i bimbi vanno perdonati, perchè, in verità, non sanno quel che si fanno.
A passo strisciato e tardo, Ermanno si avvicinava, e porgeva la grammatica latina a don Vitale, che al solo gesto svogliato del bambino già si sentiva ribollire il sangue.
— Hai studiato almeno? - gli chiedeva minaccioso.
— Ma però è difficile - rispondeva Ermanno, lanciando un'occhiata di corruccio verso i fogli scompaginati della brutta grammatica.
Don Vitale diventava beffardo:
— Ah! è difficile? Allora perchè l'ultima volta dicesti di aver capito?
Ermanno taceva, contemplando il lampadario appeso al soffitto.
— È inutile guardar le mosche! - diceva don Vitale, sbuffando forte per la collera. — È inutile guardar le mosche! - e batteva col dorso della mano destra la grammatica aperta nella sinistra.
— Giacchè la lezione presenta così enormi difficoltà, si ritorni al principio. Sentiamo il dativo di puella.
— Puellae - gridava Ermanno trionfalmente, e Vanna, intenerita, si alzava per andarlo a baciare sui capelli.
Ma don Vitale non si contentava di così poco; egli si accaniva, a danno del bambino, sui casi e le declinazioni, con la voluttà di ferocia con cui un domenicano di altri tempi si sarebbe accanito contro un eretico, sopra ogni controversa questione di teologia.
Egli adorava Ermanno, e questo lo rendeva implacabile! Gli sarebbe parso di commettere una mostruosità, lasciandosi impietosire dal visetto compunto dello scolaro e dal pavido balbettìo della sua voce.
Don Vitale nutriva per Ermanno il rude amore di quei santi monaci, i quali flagellavano le spalle dei novizi prediletti, imponendo loro le privazioni più acerbe.
Lo chiamava dunque pigro, svogliato, ottuso di mente, malvagio di animo, spingeva in avanti la grossa testa per profetizzargli ogni sorta di sventure, e lo avrebbe anche battuto se non gliene fosse passato l'estro dopo che, un giorno avendo fatto il gesto di alzar la mano contro il bambino, Ermanno si era imbizzito dardeggiando fierezza dagli occhi, e Vanna, sollevandosi un poco dalla poltrona, aveva detto:
— Don Vitale, questo no - pronunciando le semplici parole, con tale accento di alterezza offesa, che il maestro, raumiliato, aveva addotto la scusa del sangue caldo e dello zelo.
Non potendo batterlo, gli afferrava una mano e gliela teneva avvinta da stritolargliela, specie allorchè il bambino gli rivolgeva domande imbarazzanti sopra articoli di fede. Una volta, sul più bello di una traduzione, Ermanno s'interruppe di botto e, rivolgendosi collettivamente alla madre e al maestro, domandò:
— Perchè dire la Salve Regina fa dispiacere? Perchè è un castigo dire il Credo?
Vanna lo guardò stupìta; don Vitale diventò furibondo:
— Chi t'insegna a bestemmiare così, eretico? Come può far dispiacere il salutare la Beata Vergine? E il Credo? Non sai tu che recitare il Credo è la gioia di ogni buon cristiano?
Ma Ermanno insisteva, fisso nella sua idea.
— Allora perchè, quando mi sono confessato stamattina, monsignore mi ha dato per penitenza di recitare tre volte la Salve Regina e due volte il Credo? La penitenza fa dispiacere, e monsignore me l'ha dato per castigo di dir le orazioni.
Don Vitale, scandolezzato, balzò in piedi e appoggiò i pugni chiusi sull'orlo del tavolo.
— Studia, invece di almanaccare tanto col cervello! I libri sono fatti per questo. La fede è cieca! Chi ragiona non crede! - e se ne andò inviperito, nauseato di non poter infliggere ad Ermanno dieci buoni colpi di frusta! Oh! quanto a lui, grazie a Dio, era immune dalla tabe del pensiero; l'orgoglio di sapere non lo aveva sfiorato mai. Fin da quando in seminario studiava la scolastica, aveva camminato con devozione ignara intorno alla filosofia dei Santi Padri, e continuava tuttora a studiar con accanimento l'opera di San Tommaso, passeggiando sopra la mole della Summa Theologiae, senza curarsi di penetrarla, come una lucertola striscia su e giù pei muri di un massiccio monumento vetusto, senza curarsi nemmeno di ficcare la testa dentro le screpolature della superficie.
Don Vitale credè opportuno di consigliarsi con monsignore, circa le interrogazioni sacrileghe di Ermanno, e monsignore colse il destro per insinuare a don Vitale maggiore dolcezza cogli alunni, citandogli l'esempio di San Filippo Neri; poscia si recò appositamente in casa Monaldeschi, per suggerire con rinnovato calore a Vanna di sorvegliare con molta accuratezza i discorsi che si tenevano in presenza del bambino, il quale, ben lungi dall'essere ottuso, come don Vitale credeva, era dotato di una intelligenza rara che, a tempo debito, avrebbe dato i suoi frutti.
Vanna rassicurò monsignore, dicendogli che Ermanno viveva accanto a lei, custodito come sotto una campana di cristallo, e questo era vero; ma nel cervello del bambino frattanto si compiva un lavorìo intenso, perenne, talora perfino turbinoso, in particolar maniera dopo le serate trascorse ad ascoltare le divagazioni mistiche di Domitilla Rosa e le bizzarre chiacchiere di Palmina. Ciò accadeva sopratutto nei giorni festivi.
Di solito, la domenica, erano invitati a pranzo monsignore e don Vitale e, dopo il pranzo, servito da Titta con mille riguardi, si presentavano all'ora del caffè Bindo e Villa Ranieri in compagnia di Domitilla Rosa.
Serena era già arrivata; alla metà del pasto e si era già seduta a tavola senza cerimonie; anzi, assumeva franca un atteggiamento di padroncina, iniziando con Ermanno il giuoco della colezione in trattoria, il quale giuoco consisteva nel battere sui bicchieri con la lama del coltello e nel dire a Titta gravemente:
— Cameriere, una porzione.
Se Titta non era pronto a rispondere, i bimbi s'impazientivano, e Serena batteva sul tondo la forchetta.
— Una bottiglia di vino dolce - ordinava Ermanno, e Titta, malizioso, ridendo fra sè, collocava davanti a loro la bottiglia dell'acqua.
Avevano imparato il bel giuoco un mese prima, facendo colezione a Bagnorea, durante una gita.
Bindo Ranieri intanto s'intratteneva con monsignore sull'ultima enciclica di Sua Santità; grande pontefice, magnanimo pastore, lustro della chiesa, pilota esperto della Navicella di Pietro.
Monsignore, forbendosi la bocca col tovagliolo damascato, piegava lievemente il busto elegante, serbando nel volto una espressione d'impenetrabilità.
— Una enciclica papale è un ordine del giorno rivolto dal capo supremo delle nostre milizie a noi, suoi soldati. Dobbiamo ubbidire, non discutere egli diceva; ma nessuno dei presenti aveva tale perspicacia da comprendere se l'ubbidienza di monsignore trovasse base nel convincimento, ovvero si appoggiasse sopra la disciplina.
Bindo Ranieri si dilettava nell'ascoltare il linguaggio figurato di monsignore, giacchè egli, essendo pervenuto in seminario fino al corso di umanità, e avendo poi coltivato, senza affannarsi troppo, i suoi talenti, amava nei giorni domenicali le discussioni accademiche di politica e filosofia, esponendo con discrezione il risultato delle sue letture, sollecito ad abbandonare le opinioni proprie, quando l'interlocutore fosse a lui superiore per senno e per dottrina; ma, quando lo lasciavano parlare, egli parlava assai volentieri, con bella voce, bel gesto, arrotondando le parole, arrotondando le gote e concludendo sempre con umiltà gioviale:
— Forse, se avessi completati gli studi, non dico. Ma ecco la mia rovina; la causa di tutt'i miei danni - e accennava col pollice a Villa, che gli diceva ridendo:
— Per questo ti consumi e pesi ottanta chili.
Don Vitale taceva e divorava, preoccupato del modo di maneggiare la forchetta secondo le norme della buona creanza, perchè, nei regolamenti stampati pel venerabile Seminario vescovile di Orvieto, la buona creanza viene inculcata quasi ad ogni riga; eppure, con tutto il rispetto verso i regolamenti, don Vitale appena sorbito il caffè si mostrava irrequieto dimenandosi sopra la seggiola e grattandosi i ginocchi con le tozze dita, finchè Vanna, scambiata con monsignore un'occhiata di bontà ironica, diceva:
— Mandi Titta a prendere il violoncello, don Vitale; suoneremo insieme la Leggenda valacca.
Don Vitale si precipitava fuori della stanza e tornava subito stringendosi il violoncello nelle braccia. E lo scempio cominciava lì, nella saletta stessa da pranzo, dove Vanna, per comodità, aveva fatto trasportare il pianoforte.
Ella, vestita sempre di seta, col suo ricco vezzo di perle intorno al collo, ergendo il busto sottile e morbido sopra lo sgabello di velluto, allungava negli arpeggi le dita inanellate e lasciava vagar lo sguardo, senza bisogno di fissare il foglio, e don Vitale, spiegato un fazzoletto bianco sopra la sottana, impugnava l'arco quasi fosse una zappa e lo passava a strattoni sulle corde, alzando il gomito tutto di un pezzo e marcando forte il tempo sul tappeto con la punta dello scarpone.
Per il caffè, pei liquori, per questa musica indemoniata, per l'andarivieni gioioso dei bimbi, rimaneva nell'aria molta elettricità, quando monsignore e don Vitale se ne erano andati. Bindo Ranieri diventava chiassoso e rendeva stupefatti i bambini con la sua abilità nel fare sparire i fazzoletti.
— Ecco - egli diceva agitando un fazzoletto di colore. - Guardate, eccolo qui, lo tengo in mano. Adesso attenti! Uno, due, tre - soffiava due volte nelle palme e il fazzoletto era sparito.
Ermanno e Serena, ebbri di giubilo, gli s'inerpicavano lungo la persona come scoiattoli, poi si davano a correre intorno alle seggiole, sotto la tavola, e allora Vanna, stordita, si prendeva Ermanno in grembo e gli diceva:
— Sta fermo adesso; Domitilla Rosa ti racconterà una storia bella.
Serena, imbronciata, andava a mettersi con la faccia contro il muro, perchè a lei le storie belle non piacevano; ma Ermanno, già fremente, sollecitava con impazienza Domitilla Rosa:
— Dunque, racconta.
Domitilla Rosa, cerea nel viso bendato fin sotto le orecchie dalla doppia lista dei capelli neri, cominciava a raccontare, senza nesso, seguendo i giri del suo volubile pensiero; narrava come pescatori malvagi avessero dato in pasto ai pesci ostie consacrate, e come i pesci fossero usciti dall'acqua e venuti sul lido per restituire intatte le ostie ai pescatori contriti; narrava di cappelle fabbricate in un luogo dai fedeli e trovate poi molte miglia lontano, trasportate certamente da schiere di angeli; ovvero narrava di uomini gettati dentro una fornace ardente per avere confessata la fede di Cristo ed estratti sani e salvi dalla fornace, perocchè una signora bella, vestita di un manto azzurro, aveva agitato un suo ventaglio, togliendo calore alle fiamme.
— I pescatori come si chiamavano? - domandava Ermanno; e Domitilla Rosa faceva un gesto di mistero con la mano:
— Chissà come si chiamavano? Quei pescatori non avevano nome. Vivevano sulle rive del lago quando le case dì Bolsena ancora non c'erano.
— E la signora col ventaglio era la Madonna?
— Sicuro, la Madonna, che vola sempre in soccorso di chi patisce per la gloria di Cristo suo figliuolo.
— Sono storie proprio vere? - chiedeva Ermanno, alquanto dubbioso. Ma tutti gli davano sulla voce, ammonendolo che se non si presta fede ai miracoli, si cade in peccato mortale e si va all'Inferno.
Domitilla Rosa, Bindo e Villa Ranieri se ne andavano, perchè era tardi, lasciando in casa Monaldeschi, per quella notte, la piccola farfallina, che si era addormentata in terra col musetto rivolto al muro.
Ermanno, invece di coricarsi, voleva che Palmina gli narrasse la favola della strega, la quale diventa gatto ed ha una zampa tagliata.
Sull'articolo delle streghe Palmina era più dotta del buon vescovo Turpino sulle avventure di Carlo in Francia; e tutte le streghe de' suoi racconti, Palmina le aveva conosciute: erano cugine di sua nonna, zie di suo padre, amiche di sua madre, donne che, quando ella era piccola, girellavano per la sua casa di Porano, e che, di notte, galoppavano sopra i tetti, miagolando lamentevolmente. Una volta, Palmina se lo ricordava benissimo, la cugina del cognato di suo padre, era entrata nella casa per domandare una misura di sale, che la madre di Palmina le aveva rifiutato. Allora la vecchia Proina se ne era andata, imprecando, e la sera stessa il fratellino lattante di Palmina, grasso e roseo più di un maialetto appena nato, aveva cominciato a struggersi come la cera al fuoco, e intanto un gatto miagolava sulla strada, finchè il padre di Palmina, in una sera di luna, era uscito, tenendo la ronca in una mano, il secchio dell'acqua benedetta nell'altra, e aveva staccata una zampa al brutto gattaccio nero. La mattina dopo Proina, tutta umile e col braccio fasciato, aveva tolto il maleficio dalle membra smunte del bambino, chiedendo in cambio la restituzione della zampa tagliata al gatto.
Ermanno rimaneva assai convinto, giacchè Palmina gli specificava il nome della strega, precisando epoche e luoghi.
— Questa è una bella storia vera - egli diceva; ma Vanna lo baciava, chiamandolo sciocchino e avvertendolo che credere alle streghe è grave peccato, che monsignore non ammetteva queste cose e che Palmina era bugiarda.
Ecco per quale ragione, mentre Titta lo svestiva, Ermanno si domandava di nuovo, con la mente sospesa, perchè egli faceva peccato non credendo ai pescatori di Domitilla Rosa e perchè faceva peccato credendo alle streghe di Palmina. Perchè? Non riusciva a spiegarselo, e ci ripensava prima di addormentarsi.
Così le settimane passavano e Vanna si era ammalata di uno strano male, che non le impediva di mangiare, dormire, passeggiare, ma che le dava sofferenze indicibili. Aveva continui dolori al capo, le salivano all'improvviso nodi alla gola, come se una mano l'afferrasse per strangolarla, lo stomaco le si torceva per crampi atrocissimi e, in certi momenti, ella si copriva di sudore freddo, in certi altri avvampava, ogni oggetto le girava intorno, il cuore le tremava in petto ed i ginocchi le venivano meno, ond'ella si piegava, allargando le braccia e livida in volto. Sognava di Gentile quasi ogni notte, e il sogno era sempre quello: Gentile entrava nella stanza, si avvicinava al letto, dov'ella giaceva supina, e la baciava sulla bocca: quando il bacio si prolungava nel sogno, a lungo, a lungo, ella si destava rinfrescata, con un vivo senso di benessere in tutte le vene e lo strano malore sembrava cedere; ma se ella balzava sui guanciali di soprassalto e la dolcezza del bacio sognato era interrotta, il suo male aumentava, e fosche nubi di tristezza la fasciavano, strappandole il pianto. Tutti erano spaventati, perchè la signora, in verità, deperiva a vista d'occhio. Vanna decise finalmente di chiamare il medico, e gli espose i fenomeni del suo male con parole di sgomento. Il medico, un bell'uomo di mezza età, stabilito da poco a Orvieto e preceduto da ottima fama, ebbe un sorriso arguto, e l'occhio gli scintillò di malizia dietro il cristallo delle lenti; ma, osservando la giovane ammalata, la vide soffusa di tale candore, la indovinò così ignara, protetta da un tale senso di verecondia quasi virginale, che egli assunto un tono di gravità rispettosa, le disse:
— Nulla di troppo serio, mia signora. Lei è giovane, vigorosa, e forse la solitudine le nuoce. Passeggi molto, si distragga, faccia frequenti spugnature ghiacce, eviti di rimanere inerte e, sopratutto, lasci il letto appena svegliata. Si attenga alle mie norme e ne ritrarrà sollievo, indubbiamente.
Vanna ripetè a monsignore i consigli ricevuti dal medico, aggiungendo ch'ella non era rimasta troppo persuasa da una simile diagnosi. Monsignore evitò di risponderle, e si licenziò in fretta, acciocchè ella non avesse il tempo di osservargli in fronte un velo fugace di rossore.
Le circostanze erano tali, quando la mattina di Ognissanti, Vanna, dopo la messa delle undici, sostò nel negozietto di Bindo Ranieri per distrarsi un poco. La bottega, silenziosa e piccola, inondata dal sole autunnale, che scintillava sulle cornici dei quadri e sui cristalli delle vetrine, era deserta, nè Vanna se ne stupì. I coniugi Ranieri avevano l'abitudine di abbandonare così il negozio, specie nei giorni di festa, per accudire alle faccende di un modesto stabilimento fotografico. Abitavano di fronte, ed allorchè sentivano rumore nella via, Bindo si faceva a una finestrella del primo piano e se vedeva la faccia di qualche avventore gli gridava:
— Eccomi subito: - e scendeva a precipizio.
Vanna dunque aveva preso in mano una fotografia rappresentante una Madonna di Gentile da Fabriano, e sorrideva fra sè, crollando il capo con tenerezza, nel contemplare il viso tondo del bambino, spirante letizia infantile. Voleva comperare quella fotografia e, sentendo rumore, si volse per chiederne il prezzo a Bindo Ranieri, supponendo che fosse lui; ma rimase sconcertata nel vedersi davanti un signore forestiero, con la borsa a tracolla, una guida sotto il braccio, e di persona tanto alta e proporzionata da occupare quasi intiero il vano della porta.
Egli chiese, con puro eloquio italiano, ma con accento straniero spiccatissimo:
— È questo il negozio?... frugò nelle tasche del soprabito, ne trasse una lettera aperta e lesse l'indirizzo:
— Il negozio del riveritissimo signor Bindo Ranieri?
Vanna affermò col capo senza rispondere.
Avrebbe voluto andarsene, umiliata, un poco irritata dalle maniere disinvolte dello straniero; ma egli le sbarrava la soglia.
— E dov'è questo signor Bindo?
— Abita lì, di fronte - Vanna rispose, gettando indietro la testa com'ella soleva fare ne' suoi momenti d'impazienza.
— Lei, naturalmente, è sua moglie - lo straniero disse, guardandola con manifesta ammirazione.
Vanna arrossì per lo stupore e lo sdegno.
— Io? No, no, lei sbaglia.
La voce di Bindo Ranieri giunse affannosa dalla finestra:
— Ecco, ecco subito - e infatti egli si precipitò dentro il negozio, sberrettandosi alla signora, profondendosi in cerimonie col forestiero, a cui offerse una seggiola, mentre Vanna si allontanava in fretta, secondando ogni passo con moto lieve del busto e piegandosi appena in avanti come per l'atto di una genuflessione.
— Chi è quella signora? - lo straniero chiese, scrutandosi intorno con occhio incuriosito.
— Quella? - rispose Bindo orgoglioso. - Quella è la signora Vanna Monaldeschi, la vedova di Gentile Monaldeschi, il più nobile signore di Orvieto. Essa mi onora...
Il forestiero lo interruppe vivacemente:
— Come? Come? La storica famiglia dei Monaldeschi esiste ancora nella sua discendenza? - e un'ardente curiosità di erudito gli scintillava negli occhi azzurri, pieni di malizia ingenua, simili a quelli di un bambino.
Bindo si accinse per una dissertazione.
Egli godeva nell'anima che tutti i forestieri studiosi di cose orvietane si rivolgessero a lui, prima di rivolgersi all'archivio comunale, ma voleva procedere con ordine, piccandosi di una meticolosa esattezza.
— Ecco, veramente - egli cominciò, intrecciando le mani dietro il dorso e appoggiandosi al muro - veramente la storica e illustre casata dei Monaldeschi pareva estinta verso il secolo decimosettimo.
— Sicuro, sicuro, conosciamo - disse lo straniero, ponendo una gamba sull'altra, già divertito dall'erudizione che Bindo Ranieri sfoderava con tanta gravità.
— Ma si vede che qualche ramo ignorato dava frutti ancora, perchè esiste un atto notarile del 1765 in cui si parla di un Corrado Monaldeschi, a proposito di un acquisto di terreni fatto qui nel nostro comune. Senza dubbio da questo ramo è disceso Ermanno Monaldeschi, rifugiatosi in Orvieto durante i movimenti rivoluzionari del 1849, e nonno del nobile Gentile Monaldeschi, il compianto consorte della signora Vanna, la quale nasce Montemarte, altra casata celebre nelle storie orvietane del medioevo.
— La chiameremo allora monna Vanna - lo straniero disse, aprendo alla sonorità di una schietta risata la bocca fresca e carnosa tra i baffi biondi, arricciati a punta.
Bindo Ranieri rise anche lui, da uomo istruito, in grado di gustare la preziosità letteraria dell'allusione, e riprese, tripudiante per la gioia di sciorinare alla luce del sole la sua molta erudizione:
— Come lei, certamente, avrà letto, ci furono lotte feroci tra la casata dei Filippeschi ghibellini e la casata guelfa dei Monaldeschi. Anche Dante lo dice nel Purgatorio - e, dovere sacrosanto ch'egli non tradiva mai, per nessuna ragione al mondo, declamò con enfasi a voce spiegata:
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uom senza cura, Color già tristi, e costor con sospetti.
— Già, già, sicuramente - lo straniero disse, alzandosi in piedi spazientito.
Ma Bindo Ranieri, che non aveva ancora deposto per intiero il suo fardello di sapienza, lo arrestò col gesto.
— Fu nel 1334 che Ermanno Monaldeschi si fece gridare gonfaloniere del popolo e della giustizia per tutto il tempo di sua vita e divenne signore di Orvieto. Lui morto, dopo tre anni di signoria, la sua casata si divise nei quattro rami del cervo, del cane levriere, della vipera, dell'aquila, e le fazioni dei beffati e malcorini, detti poi muffati e mercorini...
— Questa lettera è per lei - interruppe Fritz Langen porgendogliela e facendo scattar la calotta dell'orologio d'oro: - Vede? È quasi mezzogiorno e io ho la brutta abitudine di avere appetito all'ora del pranzo; ma voglio prima risolvere la questione dell'alloggio.
Bindo Ranieri si pose la lettera in tasca con giovialità.
— Ho già il fatto suo, stia tranquillo; ho già provveduto. Lei è il signor professore Fritz Langen di Colonia?
— In molta carne e molte ossa, come lei può osservare - Fritz Langen rispose, inchinandosi allegramente.
— Sta bene; ero già avvisato del suo arrivo. Lei vuol trattenersi qui per fare degli studii nei nostri archivi, non è vero?... - Sissignore, se i topi lo permetteranno.
— E desidera un alloggio di due o tre stanze ariose, calme, pulite, in casa di brava gente?
— Sì, vorrei questo. Mi hanno detto che a Orvieto i miracoli sono ancora possibili.
— E che ci sia la vasca per il bagno, l'apparecchio per la doccia?
— Acqua di fuori la mattina; vino di dentro la sera. Così prospera la mia salute.
— Andiamo; ho il fatto suo.
E si avviarono di perfetta intesa, arrestandosi, dopo pochi passi, davanti a una porticina situata nel fondo di uno spiazzo sterrato e seminascosta nel grosso del muro.
La porta si aprì tirata da una corda, senza che nessuno si vedesse, e Fritz Langen si fermò di botto, masticando a più riprese l'avverbio «maledettamente», ch'era per lui una specie d'intercalare italiano, di cui si serviva allo scopo di esprimere le varie e subitanee impressioni dell'animo.
— Maledettamente! Maledettamente! - egli borbottò guardandosi intorno con meraviglia ammirativa.
Il giardinetto, avvolto nei pulviscoli del sole, era un incanto di pace e di poesia, quantunque spogliato a mezzo de' suoi fiori e de' suoi rami penduli. A sinistra uno stanzone si apriva a foggia di serra, dove gli agrumi stavano già riparati; in fondo l'acqua gorgogliava dentro la vasca rettangolare di marmo, certo un'antica urna, e alla parete del vestibolo, bianco e nitido come il piccolo parlatorio di un convento di Clarisse, stavano appese due capaci gabbie, e in esse intiere nidiate di canarini svolazzavano, gareggiando nei trilli.
Bindo Ranieri chiamò la padrona a gran voce:
— Signora Maria! Signora Maria!
La signora scese con prestezza le due rampe della scala e mostrò il viso paffuto, manifestando sgomento e sorpresa dagli occhi tondi e neri a fior di testa.
— Questo è il signor Fritz Langen, di Colonia presentò Bindo Ranieri. - Un professorone che viene a onorare la nostra città.
— Mi rallegro davvero - disse la padrona, sempre più confusa.
— Anch'io moltissimo - Fritz Langen rispose, imperturbabile di serietà, e aggiunse: - Vogliamo intanto visitare le stanze?
— Si figuri; favorisca - e salirono al primo piano.
— Guardi, signor professore - Bindo Ranieri suggerì, indicando la finestra aperta sul pianerottolo.
Fritz Langen guardava infatti, e si mise a ridere forte nell'impeto della sua allegrezza. Le due guglie più alte del Duomo sembravano lanciate verso il cielo, simili alle estremità di due spade fiammeggianti, brandite da invisibili arcangeli battaglieri.
La signora Maria sorrideva e non diceva nulla per modestia; ma quelle due guglie, collocate davanti alla finestra del suo pianerottolo, erano davvero per lei e suo marito un bell'onore e una bella fortuna, dal momento che tutti i forestieri ne rimanevano incantati.
Ella spalancò porte e finestre, acciocchè il signor professore si convincesse subito che il salottino e la stanza da letto non avevano bisogno di mistero e potevano sfidare, per nettezza e ordine, la piena luce del giorno.
Fritz Langen guardò, per la finestra, il praticello sottostante, scrutò, annusò, tirò a sè con furia i cassetti di tutti i mobili, sollevò le coltri del letto a molla, poi, fregandosi le mani, sintetizzò così il suo pensiero:
— Ecco, pare che qui abbia abitato S. Francesco d'Assisi, dopo aver presi molti bagni alle terme di Caracalla - e ruppe in una schietta risata; poscia, diventando serio, assai diffidente, chiese:
— Quanto?
La signora esitò a lungo, combattuta, e finì col fissare una cifra, arditamente; ma, poichè Bindo Ranieri le faceva due occhiacci spiritati dietro le spalle del signor professore, ella aggiunse con premura:
— Compresa l'acqua del bagno e della doccia.
— Compreso anche il vino? - chiese Fritz Langen, soddisfattissimo.
La signora capì lo scherzo e rispose cortesemente:
— Ne abbiamo due botti in cantina; quando vorrà favorire ci farà onore.
— Accettato! - esclamò Fritz Langen, gettando in aria il suo cappello, come faceva a Bönn, quando frequentava l'Università e che le circostanze gli andavano a seconda. Desiderò visitare la casa, dalla soffitta alla cantina, abbandonandosi alle bizzarrie loquaci della sua umoristica giovialità...
— Quale professione esercita suo marito, signora?
— Nessuna. Cura il giardino, sorveglia la casa. È pensionato, ex-maresciallo dei carabinieri.
Fritz Langen simulò enorme stupore.
— Ex-maresciallo dei carabinieri? Inverosimile! Suo marito non è dunque muffato, non è mercorino? Non infierisce nè contro i partigiani del Papa, nè contro quelli dell'Imperatore?
— Nossignore, non infastidisce nessuno - la donna affermò con dignità offesa - Mio marito è un galantuomo.
— Suo nonno almeno sarà stato lucumone etrusco? Mi dica di sì, mi faccia questo piacere!
La donna si preoccupò seriamente, nel timore che un pazzo le fosse capitato in casa; ma venne rassicurata da Bindo Ranieri, che le disse rapido, a bassa voce:
— È un tedesco; una dotta persona.
Oh! allora, trattandosi di un tedesco, dotta persona, ogni assurdità diventava ragionevole. L'affare venne dunque concluso con reciproco soddisfacimento, e quando furono usciti, Bindo Ranieri, col viso di chi è apportatore di lieta novella, disse:
— E poi vede, signor professore, la finestra della sua camera da letto ha un architrave che si vuole disegnato dal San Gallo.
— E allora andiamo a pranzo - disse Fritz Langen, e invitò Bindo Ranieri all'Albergo delle Belle Arti.
Durante un paio di settimane, Fritz Langen non si occupò di nulla, volendo, com'egli diceva, diventare Ermanno di Corrado Monaldeschi, signore di Orvieto.
A tale scopo percorreva da mane a sera la città, tendendo le orecchie per ascoltare il suono delle voci morte dentro le case disabitate, trascrivendo iscrizioni sopra foglietti volanti, rimanendo a lungo immobile nel centro delle piazze deserte, picchiando ardito alle porte delle case di aspetto antico per interrogare i proprietari. E in breve diventò davvero signore di Orvieto, e conquistò ogni cuore, in grazia del suo rumoroso entusiasmo comunicativo. Tutto gli piaceva, di tutto si lodava con parole bizzarre, ed egli piaceva a tutti, tutti si lodavano di lui: i bambini poveri, a cui dava soldi, le popolane, a cui lanciava madrigali audaci: le signorine, a cui faceva scappellate profondissime; il Paterino, al quale svaligiava il negozio acquistando giornalmente saponi e profumi; i signori, lusingati dalla sua cordialità; i poveri diavoli, attratti dalle sue maniere confidenziali.
— Orvieto! - egli proclamava - Orvieto è la Mecca dell'Umbria verde, e ogni fedel cristiano ha l'obbligo di recarsi al Duomo di Orvieto, togliendosi le scarpe.
Il Paterino, radendolo, gli disse un giorno quali sono le tre caratteristiche di Orvieto: per le strade cresce l'erba; quando piove non c'è l'acqua; se tutti gli orologi vanno bene l'ora non si sa più.
Fritz Langen, con la faccia a metà insaponata, rispose, battendo le mani:
— Tanto meglio, tanto meglio! Se per le strade cresce l'erba, questa serve a nutrire gli animalucci del buon Dio; se quando piove non c'è acqua, gli osti saranno almeno obbligati a darci vino pretto; e gli orologi è impossibile che vadano bene, se poi vanno bene si tolgono dalle torri e si portano al Monte.
La parafrasi divenne popolare, e se ne parlò con molte risa al caffè di piazza Vittorio Emanuele, come si parlava delle originalità di Fritz Langen, simpaticissime. Ad esempio, egli era capace di fermare una venditrice di verzura in piazza del Cornelio per domandarle, tenendo il cappello in mano:
— Scusi, bella erbaiola, saprebbe lei dirmi quanto pagano di pigione i signori topi dentro quel palazzo? - e accennava la immensa mole secentesca del palazzo Cornelio, mezzo in rovina.
Siccome la bella erbaiola lo guardava sgranando gli occhi, egli acquistava da lei dieci centesimi d'insalata che incartava nel Berliner Tageblatt, pei canarini della sua padrona di casa. Particolarmente lo esaltavano gli occhi delle ragazze orvietane, ond'egli diceva, nel suo linguaggio, tra poetico e grottesco, che ogniqualvolta una donna orvietana si accingeva alla fatica d'incarnare per questo basso mondo una nuova animuccia, domandava in premio al padre di tutte le cose due grandi stelle da piantare in fronte alla bimba futura, e così la bimba nasceva abbellita di quel radioso ornamento.
Ma don Alceste, giovane sacerdote di rara competenza in paleografia, archivista al Comune e all'Opera del Duomo, conobbe un altro Fritz Langen in capo a due settimane. Egli lo vide arrivare una mattina alle dieci e si trovarono bene insieme, dopo le prime parole.
— Io mi sono addottorato da poco all'Università di Bonn e voglio prepararmi per la libera docenza in istoria alla medesima Università. Il tema da me scelto, per la memoria da presentarsi, è questo: un papa umanista e una città umbra all'epoca del Rinascimento.
— Pio II, Enea Silvio Piccolomini, in Orvieto? - don Alceste interrogò, guardando coi grandi occhi neri, già stanchi per avere decifrati troppi codici e tradotte in volgare troppe bolle.
— Precisamente, Enea Silvio Piccolomini.
— Egli fu in Orvieto nel febbraio del 1460 per pacificare definitivamente gli animi divisi dalle fazioni.
— So, so. L'archivio ha in proposito documenti inediti?
Il pontificato di Pio II fu breve - disse l'archivista, girando occhiate indagatrici sugli alti scaffali.
— Sei anni di pontificato, ma ricchi - rispose Fritz Langen.
— Forse qualche cosa d'inedito troveremo. Il nostro archivio è un pozzo, non ancora tutto scandagliato. Ci sono tesori, ma bisogna saper frugare - e don Alceste, senza più parole porse a Fritz Langen alcuni libri delle riformanze col segno di tabellionato.
— Per orizzontarsi dia qui una scorsa e poi cercheremo le bolle, passeremo all'archivio dell'Opera. Insomma, disponga di me.
E da quella mattina, per alcune ore del giorno, Fritz Langen disponeva dell'archivista, sfogliava con lui i libri delle riformanze, scioglieva i nastri delle bolle, aguzzava le ciglia a decifrare antiche scritture, confrontava nomi, seguiva col finto la traccia incerta di un avvenimento, stabiliva definitivamente una data dubbia, puntellandola con altra data sicura, confrontava, scartava ipotesi dopo averle edificate, diffidente, assetato di certezza, tormentato dal bisogno della verità lampante, ostinato a procedere con cautela in mezzo alle nebbie del tempo per non lasciarsi traviare da falsi indizi. E don Alceste lo secondava mirabilmente, fermando coll'indice l'attenzione del giovane dotto sopra un punto della pagina ingiallita, trascrivendo con rapida scrittura un passaggio, che pareva indecifrabile, e tutto questo il sacerdote faceva con naturalezza semplice, per puro amore della scienza, ch'egli coltivava ignorato in quell'angolo di provincia.
— Maledettamente! Maledettamente! - diceva spesso, quasi tra sè, Fritz Langen, mentre don Alceste, curvo accanto a lui su di un frammento a brandelli rosicchiati, ricostruiva i segni corrosi della bolla plumbea intorno alle irsute figure degli apostoli Pietro e Paolo.
Dopo il lavoro giornaliero, lasciati i morti per i vivi, Fritz Langen tornava ad essere lo scapigliato e geniale umorista a cui gli studenti dell'Università di Bonn avevano d'inverno elevata una statua di neve con la scritta: «Qui si scioglie Fritz Langen discendente di Heine».
Una domenica, verso le due, egli stava solo in piazza del Duomo a contemplare la facciata, dolcissima all'occhio entro il velo azzurrognolo dei vapori leggeri, che d'inverno fluttuano su Orvieto tra il cielo e la terra.
Serena, vestita di rosso, con un cappuccetto in testa ornato di pelo, gli si avvicinò e, tirandolo per la manica del soprabito, gli chiese ardita:
— Sei arrivato in Orvieto col piroscafo tu?
A suo giudizio tutti coloro che venivano in Orvieto dovevano essere arrivati col piroscafo.
Fritz Langen, che stava col viso rivolto insù e che teneva aggrottata la fronte in una intensità ammirativa, cambiò subito espressione di fisonomia e, inchinando con cerimoniosità comica la persona poderosa davanti alla persona minuscola della bimba, disse:
— Buongiorno, Mamsell' Pfefferkorn - che in italiano significa: «Signorina grano di pepe».
Serena ripetè la sua domanda:
— Sei arrivato col piroscafo tu?
— Per servirla; ho attraversato in piroscafo la montagna del San Gottardo.
Serena fu molto soddisfatta di ciò.
— Quando riparti? - ella chiese - Col suo permesso, desidererei di stare ancora qualche tempo. Mi vuole, Mamsell' Dreikäsehoch - che in italiano significa: «Signorina alta tre forme di cacio».
— Sì, ti voglio - Serena disse gravemente.
— Tante grazie - rispose Fritz Langen, e diventarono amici.
L'amicizia di Serena gli riuscì proficua, perchè l'indomani «madamigella grano di pepe» gli fece fare, al Giardino pubblico, la conoscenza di Ermanno, il quale giuocava con lei sorvegliato da Titta, e questo portò di conseguenza che, uscendo egli dal pozzo di San Patrizio, pochi giorni dopo, si udì chiamare da Ermanno e si trovò di fronte a Vanna Monaldeschi.
Quantunque non si fossero parlati mai, tranne in quel breve, strano colloquio avvenuto nel negozietto di Bindo Ranieri, essi si conoscevano a vicenda, come se avessero vissuto in comune per lo spazio di molti lustri. Vanna sapeva di lui il nome, la professione, il paese d'origine, le abitudini, l'orario del sonno e dei pasti, perfino quanto danaro egli spendeva giornalmente e le vivande che ordinava di preferenza in trattoria; Fritz Langen sapeva di lei il carattere, l'età, il censo, per quanto tempo era stata sposa felice, da quanto si struggeva nella sua vedovanza. E, senza rendersene conto, si attribuivano reciprocamente grande valore, perchè Vanna udiva cantar le laudi di Fritz Langen dieci volte almeno nel corso della giornata; da Bindo Ranieri, che ne magnificava l'erudizione; dalla signora Maria, che ne portava alle stelle il buon umore; da don Alceste, che ne apprezzava la dottrina soda e la pazienza nelle ricerche.
Fritz Langen poi si era abituato a sentir parlare di Vanna come di una gloria della città, a sentirla proclamare nobile, ricca, benefica, amabile con le sue pari, affabile cogl'inferiori.
Quanto alla bellezza rara di monna Vanna, il giovane dotto non aveva bisogno che altri gliela vantasse. Già troppe volte vedendo passar la nobile signora, si era fermato, diventando pensieroso, poichè ella assumeva nell'andatura stanca e tarda l'atteggiamento di grazia umile che nelle tele assumono le immagini della Vergine Annunziata, quando l'angelo le si presenta e la Vergine pronuncia le parole soavi: «Ecco l'ancella del Signore».
Non fu necessaria dunque nessuna presentazione, e Fritz Langen, dopo aver detto ad Ermanno:
— Ti saluto, o Ermanno Monaldeschi, magnifico signore di Orvieto - fece a Vanna profondissimo inchino e rimase immobile dinanzi a lei, col cappello in mano, curva la testa solida e riccioluta.
Vanna sorrideva con imbarazzo, non volendo apparire famigliare e non osando mostrarsi scortese.
Il custode, che usciva dal pozzo di San Patrizio, la tolse d'impaccio, chiedendole:
— Vorrebbe forse visitare il pozzo, signora?
Vanna, per risolvere la situazione, era sul punto di accettare; ma Fritz Langen buttò alcune monete al custode e gl'impose col gesto di allontanarsi.
— Non si sprofondi nelle viscere della terra, signora, oggi che il sole di gennaio è benigno.
— Già, si direbbe una primavera - Vanna rispose a capo chino, tuttavia confusa al ricordo che quel signore l'aveva una volta scambiata per la moglie di Bindo Ranieri.
Tale idea attraversò anche il cervello di Fritz Langen, ond'egli battè con forza una palma sull'altra, esclamando:
— Mi chiami imbecille, signora, mi chiami bestione. Me lo faccia in cortesia.
Essa lo guardò con viso attonito, e fece un piccolo gesto scandolezzato.
— Perchè dovrei mancarle così di riguardo?
— Perchè me lo merito, perchè una gemma preziosissima non s'incastona dentro un anello di stagno! - e cominciò a ridere di così buon sapore a scherno di sè stesso, di nuovo battendo palma a palma, che Vanna rise anche lei, crollando il capo con vezzo gentile, in atto di oblìo e di perdono.
Ermanno si pose fra loro, tenuto per mano da Fritz Langen, e passeggiarono lentamente al sole, presso il ciglio dello sterrato, in vista della rocca, guardando la conca della campagna sottostante, dove il Paglia serpeggiava, gonfio di acque, e dove, per le copiose nevicate recenti, larghe chiazze bianche fulgevano, simili a isolette di marmo emergenti alla superficie di un ampio stagno. Parlavano poco, ma le parole cadevano sui loro spiriti, in quella pace, come frutti maturi, succosi di miele, che si spicchino a uno a uno dai rami troppo pesanti.
Egli, insolitamente misurato, le narrò del suo paese lontano, là dove i campanili aguzzi si ripetono nelle onde azzurre del Reno, mentre le cicogne dai lunghi becchi e dalle zampe sottili, nidificano tra le guglie molteplici della cattedrale gotica.
Vanna provava un senso gentile di riconoscenza verso quello straniero, che arrivava da paesi remoti, per illustrare i fasti della sua piccola Orvieto, e le pareva che il giovane dotto rivolgesse a lei, personalmente, l'omaggio de' suoi molti studi e della sua vasta erudizione.
— Perchè si chiama Colonia la tua città? - gli chiese Ermanno, che aveva ascoltato intensamente le descrizioni di Fritz Langen.
— Te lo spiego, o Ermanno, magnifico signore - Fritz Langen disse con serietà faceta. - La mia città si chiama Colonia, perchè gli antenati de' tuoi antenati, i potenti romani, allora padroni dell'universo, lasciarono sulle spiagge del Reno un manipolo delle loro genti. E le genti moltiplicarono, fabbricarono case, innalzarono la cattedrale con tante guglie quanti alberi in una foresta, e le guglie della cattedrale servono di asilo alle cicogne.
Ermanno non comprese bene il discorso di Fritz Langen; ma tacque per potervi ripensare, e Vanna riportò quel giorno, nella solitudine melanconica della sua casa, la visione gioconda di una cattedrale immensa, tutta bianca di marmi, a specchio di un fiume azzurro, e nelle sporgenze smerlettate delle guglie innumerevoli, strani uccelli, immoti sopra le zampe sottili, gravi più di filosofi gravi nella uniformità dei lunghi becchi.
Gl'incontri si rinnovarono frequenti; ma senza alcuna premeditazione, per logica di spazio e di orario. Quando faceva buon tempo, Vanna usciva di casa dopo il pranzo e si recava con Ermanno a prendere il sole o verso porta Romana o verso porta Maggiore, dove la rupe, sulla quale Orvieto si erge, precipita a picco, rugosa e irta, a somiglianza di uno scoglio sul mare. Talvolta s'univa ad essi anche Serena, e i due bimbi si rincorrevano, mentre Vanna s'indugiava, procedendo lenta come se ella trascinasse un peso enorme dietro di sè.
Fritz Langen sopraggiungeva a passo di carica, o annunziato dalle voci festose dei bambini, che deliravano per lui, o dalla sua propria voce sonora, echeggiante nell'aria fredda e limpida, e di cui Vanna conosceva oramai tutte le bizzarrie della pronuncia. Era strano come quella pronuncia esotica la commovesse nella bocca di Fritz Langen, il quale, parlando un italiano forbito, anzi letterario, storpiava poi le parole, alterandone l'accentazione. Vanna, ascoltandolo, pensava a un bambino, incerto ancora nell'uso dei vocaboli, e ciò la rendeva più indulgente, disposta a tollerare da lui certi piccoli scherzi, che non avrebbe tollerato da altri.
Egli sopraggiungeva a passo di carriera e si fermava nel mezzo della strada, con le braccia sollevate ed aperte, acciocchè Ermanno e Serena potessero frugargli nelle tasche del soprabito.
— Aiuto! San Nicola! I ladri! I ladri! - egli gridava, mentre i piccolini, con la furia di due selvaggi, toglievano, a manate, caramelle e confetti.
— O monna Vanna, sovrana di queste terre, io chiamo giustizia! Io, povero viandante, assalito ne' suoi domini da feroci ladroni!
I feroci ladroni fuggivano via col bottino, facendo echeggiare di risa la campagna, e la sovrana di quelle terre toglieva dal manicotto di martora la mano guantata e gliela porgeva, dicendogli:
— È sua la colpa: lei non dovrebbe viaggiare, portando tesori.
Dalla vallata saliva, rumoreggiando, la tramontana, che si abbatteva poi sopra di loro, sferzandoli nella schiena, obbligandoli ad accelerare il passo.
In lontananza il cappuccetto rosso di Serena si agitava a guisa di largo papavero e il mantello bruno di Ermanno gli si gonfiava attorno alla persona, facendolo somigliare a un aquilotto, di cui le ali rasentassero la polvere, ancora inabili al volo.
Vanna, guardando il cappuccetto rosso, guardando il mantello bruno, era presa da una grande voglia di ridere, quasichè il cielo terso, il vento freddo, la campagna brulla, tutto le fosse di gioia.
— Perchè ride così, monna Vanna? - Fritz Langen domandava.
Già, perchè mai rideva così? Anche Vanna lo domandava a sè stessa, vergognosa, diventando seria all'improvviso e riparandosi la faccia col manicotto.
Se i bambini stavano tra loro, Fritz Langen era loquace e gioviale, ma, quando egli camminava solo, al fianco di Vanna, diventava taciturno e sprofondava silenziosamente le mani dentro le tasche del soprabito, facendosi violenza per non girare di continuo il capo verso di lei e contemplarla. Si fermava allora come ad ammirare il paesaggio e invece la guardava incedere alta, flessibile, nel suo mantello di pelliccia, di una eleganza inconsapevole in ogni gesto, di una signorilità squisita in ogni movenza. I capelli bronzini, striati d'oro, si confondevano col collare prezioso di martora, e quando essa, arrestandosi, girava la testa per invitarlo a sè, il profilo di lei si delineava in una purezza quasi immateriale in quella cristallina luminosità. Di nuovo le si poneva al fianco e, quantunque Vanna nulla gli avesse chiesto, egli le diceva in fretta: «Sissignora, sissignora», e si sentiva umiliato, irritato dentro di sè per l'eccesso della sua commozione. Sovente gli accadeva di rimanere colpito di stupore a certe risposte ardite e imprevedute di lei, che pur non era nè spiritosa, nè troppo colta, e che, di solito, gli appariva timida infantilmente.
— Perchè mi dice monna Vanna? - ella gli chiese un giorno, passeggiando: - Perchè questo suo modo di chiamarmi?
Egli le spiegò giovialmente che monna Vanna era una bellissima gentildonna pisana, la quale, per salvare dalla fame i suoi concittadini assediati, s'indusse a recarsi nella tenda del condottiero nemico, vestita solo di un mantello.
— Farebbe lei questo, monna Vanna, per salvare dalla fame i suoi bravi orvietani? - egli chiese in uno de' suoi scatti di spensieratezza.
Vanna Monaldeschi aggrottò l'arco delle nere ciglia e rispose altera, tingendosi di rossore:
— Non ce ne sarebbe bisogno, perchè i miei bravi orvietani hanno saputo respingere anche gli imperatori dalle loro mura - e, richiamato Ermanno presso di sè, gli disse che sentiva freddo e che voleva tornare a casa.
Quando si rividero, Fritz Langen le presentò mille scuse e le asserì che nella voce e sopra il volto di lei aveva letto la nobiltà del suo buon sangue più chiaramente che su di un albero genealogico e ch'egli adesso capiva perfettamente come la piccola Orvieto potesse avere avuto una grande storia.
Caso molto strano in una cittaduzza di provincia, nessuno trovava da mormorare sulle passeggiate di Vanna col professore tedesco; anzi, tutti approvavano ch'ella, abitualmente un poco scontrosa, facesse allo straniero gli onori della città, e, d'altronde, l'andamento della sua vita non rimaneva in nulla turbato, perchè Fritz Langen, dopo una visita doverosa di omaggio, non si era più recato in casa di lei, ond'ella assisteva con immutata regolarità alle lezioni di don Vitale e la domenica invitava a pranzo monsignore, trattenendosi con lui, Bindo e Villa Ranieri, Domitilla Rosa e Serena durante l'intiero pomeriggio.
In quelle riunioni Vanna appariva amabile della sua naturale amabilità altera e dolce, fatta di sollecito ossequio verso le parole di monsignore, di condiscendente degnazione verso gli altri invitati; ma qualche cosa di nuovo traspariva dalle sue maniere.
Ella era ad un tempo più gaia e più assorta, ridendo inaspettatamente di riso trillante, poi, spalancando gli occhi, gettando indietro la testa come a guardare lontano. Forse, nel tepore della saletta ben riscaldata, pensava agli scherzi allegri del vento ghiaccio o forse le voci che le suonavano intorno, voci discrete dall'accento paesano, rimanevano coperte al suo orecchio dal suono forte di una voce sonora dall'accento straniero.
— Addio, signor Frì! Ecco, passa il signor Frì! - Ermanno e Serena gridavano, arrampicati sopra una seggiola, vicino al davanzale della finestra.
Allora la conversazione cominciava ad aggirarsi intorno al signor professore, con frasi inalterabilmente uguali.
— Dotta persona - sentenziava Bindo Ranieri.
— Persona ragguardevole - annuiva monsignore, con parsimonia, dopo un silenzio.
— È affabile, scherza come un bambino - Villa diceva, mentre Vanna, senza pronunziare sillaba, gioiva dentro di sè, meravigliandosi di avere per tanti mesi rinnegata la vita, meravigliandosi di avere creduto per tanti mesi che il mondo era vuoto, che il mondo era brutto.
Palmina, aiutando Titta a servire il caffè, lanciava furtiva sopra di lei occhiate aguzze e rapide, simili a piccole lingue di serpi, e appena l'occasione propizia arrivava, ella, trovandosi sola con la signora, sciorinava sull'orlo del tavolo il mazzo delle carte e parlava di novità, accennava con parole involute a un uomo buono, arrivato di lontano, a inauditi festeggiamenti sotto i coppi di casa, a un viaggio, che forse accadrebbe presto, vedeva fiori, lettere, danari, e sempre l'uomo buono, il fante di cuori, si trovava mischiato con l'asso di spada, simboleggiante la signora.
Vanna ascoltava intenta, seguiva con occhio avido il giuoco delle carte; ma, a un certo punto, si alzava di scatto, indignata contro di sè, e imponeva a Palmina, con breve accento di comando, di tornarsene alle sue faccende.
I mesi d'inverno trascorsero, e la primavera, timidamente, poscia sempre più sicura e gioconda, alzò dalle nevi la testa bella, incoronata di fiori, e al suo ridestarsi tutto si ridestò.
I prati cominciarono a verzicare, i rami a gonfiarsi di gemme, le rondini a portare dall'Oriente i loro messaggi, i mandorli a velarsi di petali rosati, le siepi a odorare di biancospino, gli orti orvietani a pigolar di nidi, Serena a percorrere le vie in bianche vesti, il Duomo ad ammantarsi di luce, gli apostoli, i patriarchi, i dottori, gli angeli, gli arcangeli, i santi, le sante della facciata a sciogliersi dai veli azzurrognoli della nebbia, ed a letificare la piazza della loro giovinezza rinnovata.
Il giardinetto della casa dove abitava Fritz Langen era una grande canestra di rose e di giunchiglie, e di rose, di giunchiglie aulìvano le due stanze di lui, pei fiori adunati nelle coppe dalle mani industri della signora Maria.
— Ave Maria - egli le gridava, attraversando il giardino, e la signora gli domandava con premura:
— Desidera nulla, signor professore? - e l' ex-maresciallo dei carabinieri, dignitoso e cortese, sollevando nella sinistra un capace annaffiatoio, gli abbozzava un sorriso e un saluto militare.
Fritz Langen aveva già frugato in lungo e in largo l'archivio comunale e anche l'archivio dell'Opera del Duomo.
Oramai non avrebbe dovuto far altro che tornarsene in Germania per presentare la sua dotta memoria sul grande papa umanista e la piccola città umbra; ma, in una odorosa mattina, sentendosi stringere il cuore all'idea di prendere il treno, gli era balenato, con sua viva gioia, il pensiero che Orvieto sorge sulle rovine di una città etrusca e che forse in quei luoghi dov'egli passeggiava così lietamente con Vanna Monaldeschi, i lucumoni e gli auguri si erano dati convegno, e le genti etrusche erano accorse a onorare di culto il loco di Voltumna, divinità involuta, ora maschio, ora femmina.
Era bene accertare, era onesto verificare, sopratutto era piacevole trattenersi in Orvieto, magari per altri sei mesi ancora.
Ne discorse con Bindo Ranieri, il quale, naturalmente, lo fortificò ne' suoi progetti, asserendogli che l'archeologia preparava alla storia di Orvieto grandi sorprese e che ad Orvieto era fino allora mancato un tedesco di polso che dimostrasse come la rupe orvietana era stata illo tempore una città religiosa.
A giudizio di Bindo Ranieri era necessario anzitutto visitare le tombe etrusche di Settecamini, venute in luce verso il 1863. Era stata scoperta una intiera necropoli da quelle parti, necropoli ricca di oggetti preziosi raccolti ne' musei. Le tombe di Settecamini erano meravigliose per le loro pitture; ma le pitture s'andavano scrostando e in breve sarebbero scomparse.
— Allora non perdiamo tempo - disse Fritz Langen. - Andiamo domani. Venga anche lei con me, così potrò invitare monna Vanna - e coll'anima in tripudio, coll'anima ricolma di gratitudine verso gli etruschi, i quali gli fornivano lieta occasione di svago, si recò per la seconda volta in casa Monaldeschi, e fece invito formale alla signora di accompagnarlo con Ermanno a rompere l'alto sonno nella testa delle etrusche pitture.
Vanna esitava, sconvolta per essere stata sorpresa in vestaglia di seta verde, nudo il collo fra lo spumeggiare delle trine, scoperte le braccia.
Fritz Langen, in piedi, la contemplava con occhio attonito. Gli pareva di conoscerla in quel punto. Mai, tranne forse nelle pitture del Botticelli, egli aveva incontrata una così fresca immagine di donna, alta nelle pieghe leggere della veste colore smeraldo, mite nel sorriso, altera negli occhi, avvolta di soavità primaverile.
Vanna esitava, tenendo curva la fronte in atto meditativo; ma Ermanno faceva risuonare di grida giubilanti le vôlte del salone, ed ella accettò.
L’indomani, al tocco, una giardiniera a due cavalli si fermava sulla piazzetta Gualterio, e Vanna con Ermanno e Fritz Langen, vi saliva, mentre Bindo giungeva a gran passi da via del Duomo e Mamsell’ Pfefferkorn, a cui nessuno aveva pensato, si arrampicava sul predellino e prendeva posto con autorevole decisione tra Ermanno e il signor Fritz.
Il mese di marzo finiva dolcemente ed era il giorno dell’Annunziazione di Maria. Davvero pareva che i colli, aulenti e teneri nel bacio dell’aria mossa appena, si fossero ornati di verzura per festeggiare l’annunzio di un avvenimento nuovo, apportatore di pace agli umili cuori.
Fritz Langen, il quale aveva dimorato in Grecia durante la sua adolescenza e aveva trascorso allora intieri pomeriggi, seduto in vista del Partenone tra cardi e ginestre, era pagano di gusti e amava gli dei giocondamente forzuti che precipitavano dai gioghi dell’Olimpo, avidi insaziabilmente di amori e battaglie; ma in quel giorno, mentre il vetturale, abbandonate le redini sui crini dei molto docili cavalli, stava rivolto verso l’interno della carrozza a chiacchierare con Bindo Ranieri pacatamente, mentre i bimbi si sporgevano a guardare sopra le siepi le sorelline loro, le piccole farfalle, e Vanna gli sorrideva di un sorriso tenue come il verde tenue del grano in germoglio, Fritz Langen fu pervaso da un’onda subitanea di misticismo, e comprese l’amore inestinguibile di San Francesco verso il sole e la luna, l'acqua e le nuvole del cielo, comprese perchè nelle soavi leggende umbre i santi scendono dai loro scanni di beatitudine e visitano gli spechi, diffondendo intorno sì acceso splendore di luce che i pastori accorrono nel timore che l'intiera foresta vada a fuoco.
— Scendiamo - Bindo Ranieri disse - qui la strada maestra finisce e bisogna andare a piedi - e fece, ridendo, un cenno d'intesa al vetturale, che, ridendo, gli accennò con la frusta di avere capito.
Presero, a sinistra, una stradicciuola odorosa fra due alte pareti di verzura. Erano allegri, e Fritz Langen spaventava tra le fronde gli uccelli col suono delle sue risate. Si era messo il bastone in ispalla e faceva il soldato prussiano camminando stecchito:
— Eins-zwei - Uno-due, - Gewehr-auf! Gewehr-ab! - Fucile in ispalla! Fucile al piede!
Ermanno e Serena, piccini, lo seguivano, allungando le brevi gambe, e ripetevano gravemente:
— Uno! Due! Uno! Due!
Vanna camminava in mezzo a quel verde, al chiarore blando di quella luce frastagliata, timorosa che tutto ciò scomparisse, come quando, nel sogno, si attraversano luoghi di meraviglia, e intanto il fondo della coscienza ci avverte che quelle magnificenze sono irreali e che con esse è irreale la gioia del nostro cuore.
A un certo momento Bindo Ranieri gridò: Alt! - ed estratto dalla custodia un cannocchiale da campagna, lo porse a Fritz Langen, dicendogli:
— Guardi, la prego, signor professore.
Si trovavano in cima a un colle, sopra una spianata aperta, di dove l'occhio s'inebriava di fulgori. Al limite estremo dell'orizzonte il fluttuare dei vapori argentati, poi l'altezza solitaria del monte Peglia, poi, digradando, monti meno superbi, colli ondulati, collinette leggere, e, isolata sopra il suo masso immane, la città di Orvieto e, fra l'agglomeramento delle case brune, la mole del Duomo coperta del suo tetto rosso, bianca e nera nella vastità dei fianchi a speroni.
La facciata sembrava un quadro gigantesco, dipinto, tra osannar di cori, da schiere di angeli festosi per magnificare la gloria del Signore.
Fritz Langen non si saziava di contemplare e Bindo Ranieri sorrideva fra sè, con discrezione, poichè la facciata del Duomo è, in verità, una di quelle cose di cui gli orvietani evitano di menar vanto per eccesso di orgoglio soddisfatto.
Il signor professore restituì a Bindo il cannocchiale e chiuse gli occhi, quasi abbacinato; ma li riaprì subito e sospirò, già punto al cuore dal presentimento della nostalgia che, ripensando a quell'ora, a quei luoghi, anche dopo lunghissimo spazio di tempo, avrebbe avvolto nel ricordo il passato di rimpianto ineffabile. Mai, mai, per trascorrere di anni o di vicende, egli avrebbe potuto obliare una simile bontà di tutte le cose: il cielo terso, i prati smeraldini, la vesticciuola fiammante di Serena, Ermanno, che, festoso, correva tra il verde, cantando, la faccia amabilmente bonaria di Bindo Ranieri, gli occhi di Vanna limpidi e schietti all'ombra del cappello piumato. La florida giovinezza di Fritz Langen adunò in quell'attimo ogni dovizia di gioia, ond'egli, mosso da uno spirito nuovo di amore, sciolse improvviso al canto la voce e intonò una delle canzoni che egli soleva intonare da studente cogli amici, davanti agli alti bicchieri biondeggianti di birra:
Exiit in loculo Rustica puella, Cum grege, cum baculo, Cum lana novella.
Conspexit in cespite Scolarem sedere:
Quid tu facis, domine?
Veni mecum ludere Si avviò così, intonando la canzone goliardica, ed i fanciullini lo seguirono con Bindo Ranieri.
Vanna, rimasta indietro, si era fermata.
Ella rideva pian piano, soavemente, tutta rosea nella luce rosea del pomeriggio primaverile.
Una tale mollezza la vinceva, una tale voluttà ella gustava in sè di abbandono e dissolvimento, che lasciò cadersi di mano il lembo estremo della gonna violacea e abbracciò coll'occhio il cielo che l'abbracciava.
Mormorò a più riprese, battendo le palpebre:
— Oh! mio Dio! Oh! mio Dio!
Fritz Langen, sempre cantando, tornò indietro a cercarla e, presala per mano, l'obbligò a seguirlo di corsa, attraverso rami e cespugli, fino all'ingresso delle tombe:
— Veni mecum ludere.
Dagli ampi stipiti, un odore di cose morte scendeva e, varcando la soglia, ella sentì che il piede le sdrucciolava sul terriccio umido. Strinse la mano di Fritz Langen, che l'aiutò a superare il gradino, esclamando:
— Nessuna paura; Pluto e Proserpina ci proteggeranno!
Il custode, uomo pingue, di rosso pelame, faceva strisciare la torcia di resina sull'intonaco screpolato delle pareti, dove la vita dei padri antichi rivive, nelle abitudini, nelle vesti, negli utensili, nell'arguzia un poco triste e attonita dei profili aguzzi, negli atteggiamenti di forza alacre, nelle particolarità più minute della fiamma che guizza, dello schiavo che indietreggia per l'eccessivo calore di essa.
— Vede, monna Vanna, quanto sono ospitali i suoi nobili antenati? Ci stanno preparando il pasto. E ce ne sarà in abbondanza. Guardi, guardi, monna Vanna. Un vitello, una lepre, due piccioni, un capriolo! Speriamo che i cuochi si facciano onore.
— Sono preparativi di un banchetto funebre - disse Bindo Ranieri.
— Già, già, tutt'i banchetti sono funebri per gli animali cucinati in salsa; ma per gli animali seduti intorno alla tavola è un altro conto - riprese Fritz Langen, e, rivolto a Serena, che gli stava aggrappata alle falde del soprabito, esclamò:
— Oh! dunque «madamigella grano di pepe» viveva già al tempo dei signori etruschi? Certo! Certo! L'hanno perfino fotografata. Quello è il suo ritratto «Mamsell!» - e indicava una scimmietta, arrampicata a una colonna, tenuta al laccio per la zampa sinistra.
Serena domandò se quella scimmia si poteva portar via, e il signor Frì le rispose con gravità che bisognava chiedere il permesso alla regina.
La condusse perciò davanti alla parte destra del muro divisorio, implorando Sua Maestà Proserpina di largire in dono la scimmietta della colonna a Mamsell' Pfefferkorn. Ma poichè la regina Proserpina se ne restava immobile e taciturna, seduta nel trono a fianco dello sposo Plutone, Fritz Langen disse che evidentemente Sua Maestà era diventata sorda per l'umidità di quei luoghi.
Ermanno intanto voleva sapere perchè i cavalli attaccati alle bighe, al tempo degli etruschi erano rossi e perchè gli uomini in piedi vicino ai cavalli avevano le ali.
Fritz Langen, da persona dotta, spiegò che i cavalli erano rossi per la vergogna di essere nati in tempi così remoti e che l'uomo in piedi portava le ali perchè gli etruschi non avevano ancora inventato il vapore.
— Mamma, il signor Frì mi burla - Ermanno disse, allontanandosi da lui.
— No - Vanna gli rispose, accarezzandogli la gota - il signor Frì scherza.
Nel richiudere la porta, il custode osservò che in quelle tombe si scorgeva l'influenza dell'arte greca e che esse risalivano tutto al più verso il quinto secolo avanti Cristo.
Ermanno tacque, ma uno strano rimescolìo gli avvenne dentro il cervello per quelle parole. Come? Avanti Cristo? Che il mondo esistesse avanti Cristo, Ermanno sapeva, giacchè gli avevano spiegato che il Signore mandò in terra il suo Figliuolo prediletto appunto per redimere gli uomini dall'eterno castigo; ma il bimbo non immaginava mai che avanti Cristo la gente mangiasse, i servi cucinassero, i suonatori dessero fiato ai loro strumenti, e sopratutto che i vitelli scuoiati stessero appesi agli uncini, proprio come nelle macellerie di Orvieto. Tale particolarità lo sconvolgeva, dandogli la impressione netta di una esistenza uguale alla sua, mentre egli, fino allora, sentendo dire «avanti Cristo », scorgeva subito il mondo, nella sua fantasia, simile a una cosa informe, priva di luce, priva di case, e gli uomini come strani esseri, brutti e mostruosi per il peccato originale.
Chiese di ciò con fare di mistero ed a bassa voce alla mamma, la quale, come lui semplice, gli rispose che forse questo accadeva perchè Gesù redentore, quando non era ancora disceso in terra, stava in cielo fin dalle origini del mondo, e dal cielo disponeva tutte le cose.
— Adesso banchetteremo noi - esclamò Bindo Ranieri, e, ad un suo cenno, il vetturale tolse il mantìle bianco di sopra a una canestra e ne trasse involti di varie dimensioni.
— Est-est-est di Montefiascone - proclamò deponendo con cautela sull'erba una panciuta bottiglia impagliata: nè mai il pane venne spezzato con altrettale fratellevole benevolenza reciproca, nè mai il vino prezioso venne cosparso dal fiore candido di una più schietta giocondità. Vanna e Fritz Langen si erano avviati, camminando adagio. La veste di lei frusciava sull'erba ed ella piegava il busto, nel passo, appoggiandosi all'ombrellino.
Fritz Langen le offerse il braccio.
— Oh monna Vanna! - egli le disse - il mondo è deserto. Noi due soli ne siamo i padroni.
Davvero il mondo pareva deserto allo svolto di quella via campestre! I rami degli alberi facevano da baldacchino ed i rovi fronzuti delle siepi ne difendevano l'accesso; si aveva l'illusione che quel tratto di via non cominciasse, non finisse, sprofondato nell'ombra verde alle due estremità.
— Ecco, io vorrei che noi si restasse qui fino alla consumazione dei secoli - Fritz Langen disse, tenendole stretto il braccio.
— Si sta bene - ella mormorò, a capo chino, sopraffatta dall'impeto della sua dolcezza. - - Io l'ho rapita la mia bella regina, l'ho fatta prigioniera - Fritz Langen riprese, dopo un silenzio.
Egli avrebbe voluto ridere; ma non poteva, perchè una commozione dolorosa gli mozzava il respiro.
— Dica, monna Vanna, vuol essere la mia prigioniera?
Vanna crollò il capo e sospirò; l'ombra del cappello celava la parte superiore del viso; la bocca morbida, chiusa e rorida, tremava impercettibilmente.
— Mi dica, monna Vanna, mi dica! - Fritz Langen ripetè, scherzando; ma la voce era supplice, ma supplice e ardente era lo sguardo ond'egli l'avviluppava.
— Ermanno mi chiama - ella disse, sciogliendosi dal braccio di lui, e Bindo Ranieri infatti sbucò dallo svolto chiassosamente, in compagnia dei bambini.
Il ritorno fu silenzioso nella soavità della sera stellata. I cavalli correvano al trotto; dai campi veniva l'odore aromatico delle erbe, e a ogni poco Orvieto appariva, scompariva, punteggiata di lumi.
Davanti a porta Maggiore, sulla cima di cui Bonifacio VIII sta da secoli, costrette le membra marmoree tra gli avvolgimenti di un ramo di fico, la giardiniera si fermò e Fritz Langen fu in terra di un balzo.
Si tolse il cappello col suo gesto largo, deciso e, insieme a Bindo Ranieri, s'inerpicò per la via delle Cave, perchè Vanna aveva desiderato non attraversare Orvieto con essi in vettura, a sera tarda.
La voce sonora di Fritz Langen scendeva dalle Cave, echeggiando sotto le vôlte della porta vetusta:
Edite, bibite, collegiales, Post multa saecula, Pocula nulla.
Vanna sospirò interminabilmente. Perchè tutto fugge? Fugge il dolore, fugge la gioia, fugge la vita? Ella avrebbe voluto che quel pomeriggio fosse durato eterno, e il pomeriggio era invece già morto.
— Oh! mio Dio! Oh! mio Dio! - ella ripetè, lasciando cader le mani sui riccioli di Ermanno, che dormiva.
— Perchè dici così? - domandò Serena, che ella non ricordava più di tenersi accanto distesa sopra i cuscini.
Vanna fu scossa da un piccolo sussulto al suono inaspettato di quella voce infantile, poi rispose:
— Perchè Dio, che è buono, infinitamente buono, avrà misericordia di me.
I cavalli avevano ripreso il trotto e la voce di Fritz Langen si smorzava oramai:
Edite, bibite, collegiales.