Ildegarde

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Silvio Pellico

1837 Indice:Poesie inedite di Silvio Pellico II.djvu Cantiche letteratura Ildegarde Intestazione 26 ottobre 2012 100% Poesie

Questo testo fa parte della raccolta Poesie inedite (Pellico)


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ILDEGARDE.





Cantica.

[p. 83 modifica]Anche l’Ildegarde è una di quelle cantiche ch’io aveva in lontani anni disegnate, e già era questa eseguita in gran parte, ed onorata degli amichevoli suffragi del nostro Monti e di Byron. Spariti quegli abbozzi con altre carte da me in dolorosa vicenda perdute, ho tentato dodici anni dappoi di ricomporre la stessa produzione, quantunque non ignaro che difficilmente in età provetta si ritrovano le felici ispirazioni della gioventù.






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ILDEGARDE.





Pars bona mulier bona.

(Eccli. c. 26. 3).



     ― Perchè alle torri del superbo Irnando
Sempre drizzi lo sguardo, o mio Camillo?
     — Sposa, io molto l’amava; e in questi giorni
Di nevose bufère, ognor la dolce
5Nostra infanzia mi torna alla memoria,
Quando, arridenti il padre suo ed il mio,
O di soppiatto noi dalle castella
Usciti, incontravamci appo la riva
Congelata del Pellice, e lung’ora

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10Qua e là sdrucciolon ci vibravamo
Ridendo e punzecchiandoci e luttando,
E sul ghiaccio cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
15Allora il padre suo, se all’un di noi
Vedea della caduta in fronte il segno,
Chiedevagli: « Hai tu pianto? » Ed il ferito
Gridava: « No ». Ed a tal risposta il vecchio
Lo prendea fra le braccia e lo baciava,
20L’amor lodando de’ perigli e il gaio
Scherno d’un mal, che sol le carni impiaga,
E nulla può sull’anima del forte.
Un dì, com’or, fioccava a larghe falde
Di dicembre la neve, ed ambo agli occhi
25De’ parenti sottrattici e de’ servi,
Discendemmo; ciascun nostra pendice,
E ai cari ghiacci convenimmo. Assai
Sdrucciolammo e ruzzammo, e le condense
Pallottole durissime a diversa
30Meta lontana, in alto o pe’ dirupi,
Scagliammo a gara, acute urla di gioia
Ripercosse da acuti echi levando.
Men da stanchezza mossi che da fame
Ci abbracciamo, e ciascun monta i suoi greppi

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35Anelante alla cena. A quando a quando
Ci volgevam guardandoci, ed allora
Che, già molto remoti, un veder l’altro
Più non potea, salutavamci ancora
Con prolungati affettüosi strilli;
40E questi udìansi dalle due castella,
E mia madre s’alzava, e tremebonda
Al balcon della torre s’affacciava,
Incerta se di gioco o di dolore
Voci eran quelle. Ah! in voci di dolore
45Odo mutarsi quella sera infatti
Le grida dell’amico: « Al lupo! al lupo! »
Ripeteva egli disperato. Io sudo
Di spavento, ciò udito, e immaginando
Di quel caro il periglio. I clivi scendo
50Novamente precipite: il ghiacciato
Pellice varco, e per gli opposti greppi
Affannato m’arrampico ed appello:
« Irnando mio! Irnando mio! ». Salito
Egli era sovra un olmo. Eccol veloce
55Scendere a me. Ma il lupo allontanato
Ritorce il passo, e verso noi s’avventa.
Ambo ascendiam sull’arbore, e costretti
Lunghissim’ora ivi restiam; chè intorno
Incessante giravasi la fiera.

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60Oh come su quell’olmo il dolce amico
Teneramente mi stringea al suo seno,
Il mio ardir rampognandomi! Ei dicea
Aver alto gridato « Al lupo! al lupo! »
Per la speranza ch’io vieppiù fuggissi,
65E tristo incontro pari al suo scansassi.
« E tu invece, oh insensato! ei ripetea,
Vanamente arrischiasti i cari giorni
Per aïtar l’amico, o coll’amico
Preda morir di quelle orrende zanne! »
70Ciò dicendo ei piangeva, ed io piangeva
Suoi cari lacrimosi occhi baciando,
E tal commozïone era profonda,
Delizïosa per entrambo! oh come
Sentivamo d’amarci! oh quanto vere
75Sonavan le proteste, asseverando
Che l’un per l’altro volontier la vita
Donata avrìa! — Dall’olmo alfin veggiamo
Scender di qua e di là dalle pendici
Fiaccole ardenti. Eran d’Irnando il padre
80Ed il mio che venìan, co’ loro servi,
Degli smarriti figliuoletti in cerca.
Sgombrava il lupo a quella vista; e noi
Dall’arbore ospital lieti calammo,
E saltellanti sulla neve, incontro

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85Movemmo ai genitor, con infinito
Cinguettìo raccontando, io la paura
Ch’ebbi di perder l’adorato amico,
Egli la mia temerità e la prova
Che in questa aveavi di gagliardo amore.
90Oh qual sera di gaudio! oh quanta lode
Al fratellevol nostro affetto i duo
Parenti davan! Come altero Irnando
Mostravasi di me! Com’io di lui! —
Di nostra püerizia i dolci giorni
95Da mille vicenduole ivan cosparsi,
Che all’uno e all’altro certa fean la mutua
E generosa fede! E così stretto
Vincol di due schiettissim’alme . . . il tempo
Dovea spezzarlo!
                                     In questa guisa geme
100Il cavalier Camillo. Ed Ildegarde
Dalle corvine chiome e dalla svelta,
Maestosa statura: — O sposo amato,
Perdona, prego, al mio pensier; non colpa
Fu in te forse d’orgoglio? Hai tu alcun passo
105Nobilmente tentato al benedetto
Dagli Angioli e da Dio pacificarvi?
     — Di nostre nozze intera anco non volge
La luna, o mia diletta, e mal conosci

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Del tuo Camillo il cor. Non di rossore
110Perciò si tinga il tuo bel volto, o donna:
Garrir, no, non ti voglio: imparerai
Col tempo qual possanza in questo core
Abbian gli affetti. Se tentai? Se dieci
Volte l’orgoglio mio non s’immolava
115Per racquistarmi quell’amico? Indarno!
Ei più non è quello di pria: uno spirto
Di maligna superbia il signoreggia:
Ei (tu vedi s’io fremo a questo detto!)
Ei mi dispregia! —
                                        L’arrossita dianzi
120Ildegarde a tai detti impallidiva,
Mostrüoso sembrandole il destarsi
Dispregio in chi che sia verso un mortale
Sì per cavallereschi atti famoso,
Qual era il pio Camillo. E l’abbracciava
125Vibrando sguardi or con gentil disdegno
Alla torre d’Irnando, or con desìo
Passïonato al caro sposo. E.sguardi
Tai gli dicean: « S’altri spregiarti ardisce,
La stima ten compensi in ch’io ti tengo ».
     130Qual della inimistà la cagion fosse
De’ duo generosissimi, in diversi
Inni diversamente i trovadori

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Cantan d’Italia. Applaudon gli uni a Irnando,
Che, ito in Lamagna giovinetto, ad uno
135De’ contendenti re sacrò il suo ferro;
Altri a Camillo applaudon, che s’accese
Pel secondo aspirante al real trono,
Ma aspirante illegittimo. Speraro
Camillo e Irnando un l’altro süadersi
140All’abbracciata parte. E l’un de’ duo,
Non si sa qual, trascorse a villanìa.
     Furor di fazïon trasse dapprima
Questo e quello davvero a stimar vile
Il già sì caro amico. Assai palese
145Delle avversarie crude ire sembrava
L’iniquità ad Irnando: ei non potea
Creder che onesto intento in alcun fosse,
Il qual per esse parteggiasse. Al pari
A Camillo parea dell’altra causa
150Evidente l’infamia essere al mondo.
     In qualunque dei duo fallisse primo
La carità di confratello, e germe
Altro o no di rancor vi si aggiungesse,
Furon veduti inferocir nel campo
155Come leoni. Ma l’atroce guerra
E l’alterna fortuna delle insegne:
Loco porgean a esercitar da entrambe

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Parti eccelse virtù. Cento fïate
Camillo e Irnando, ad ammirarsi astretti,
160Dicean ciascun tra sè: « L’amico mio,
Sebben malvagio, egli è un eroe pur sempre! »
     Già quegli anni di sangue or son passati;
Già molte spente sono illusïoni
Nelle agitate lor menti guerriere,
165Benchè in età ancor verde. Eppur concordia
Lor generose palme, ahi! non rinserra.
     Beato d’una sposa era anche Irnando,
E questa il dolce avea nome d’Elina,
E di più figli era già madre. Il cielo
170Dato le ha cor fervente, ed intelletto
Gentil, ma entusïastico. Natìe
Le pedemontanine aure in che vive
A lei non son; romano è sangue; e il padre
D’Elina, de’ ribelli ognor nemico,
175Morì con gloria in campo. Ella supporre
Non potria mai che Irnando ingiustamente
Odio porti a Camillo. A lei Camillo
Noto non è, ma sel figura indegno,
Irreconcilïabile, covante
180Sempre perfidie. E motto mai non dice
Per calmare il marito allor che l’ode
Fremer contra il vicin.

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                                               Folli stranezze
Del core umano! Irnando, ancorchè fiero
185Più di Camillo, e a malignar proclive,
Più bei momenti non avea di quelli,
In che, pensando alla sua dolce infanzia,
Questo o quel nobil detto o nobil atto
Del caro, oggi abborrito, ei ricordava.
190In quei momenti (e rivenìan di spesso)
L’alma gli sorrideva, immaginando
Quanta ad entrambo tornerìa dolcezza
Esser amici ancor: ma appena accorto
Di questo desiderio, ei ripigliava
195A esacerbarsi, a biasimar sè stesso
Di soverchia indulgenza, ad intimarsi
Perseveranza d’astio e di disprezzo.
     Vedute in tanti cavalieri avea
Mutazïoni di principii abbiette!
200Gli uni servi al buon prence, indi congiunti
Perfidamente all’avversario suo;
Gli altri farsi un Iddio del tracotante
Contenditore ai trono, e poi, caduta
La sua potenza, irriderlo. E di tali
205Apostasie si ripetea sovente
La turpe inverecondia. E le più altere
Alme se ne sdegnavano, e temendo

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Apòstate parer, persistean truci
Ne’ giurati decreti, ove decreti
210Sconsigliati pur fossero. Ogni volta
Che Irnando dalle sue balze rimira
Il castel di Camillo, e rivolgendo
Va quanto spesso col diletto amico
In quelle sale, a quel verron, su quelle
215Mura, per quel pendìo, sovra quell’erto
Ciglione, in quella valle, avea di santi
Affanni e santi gaudii conversato,
Di repente corrucciasi, e la fronte
Colla palma fregando, a sè ridice:
220« Via quelle stolte rimembranze! obbrobrio
L’onorar d’un sospiro i dì bugiardi,
Che amabil tanto mi pingean quel tristo! »
     Men concitato da alterigia, avea
Camillo a dame ed a baroni ufficio
225Pacifero richiesto. E quelle e questi
Sordo trovaro a lor parole Irnando.
     Ma alla dolce Ildegarde or molto incresce
Questa fera discordia; ognor paventa
Che i fremebondi prorompano a guerra.
     230— Freddi interceditori, o sposo mio,
Forse fur quelle dame e que’ baroni
Di cui mi narri. Di te degno oh come

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Stato sarebbe il presentar te stesso
Con amabil fidanza a quell’iroso!
     235— Che parli, o donna? Io, non colpevol, io
Codardamente supplice a’ suoi piedi!
     — Codardìa consigliarti, o mio diletto,
Potrebbe mai la sposa tua? Dinanzi
A lui, supplice no, ma con onesta
240Securtà mosso io ti vorrei. Da quanto
Pinger mi suoli di quel prode offeso,
Incapace ei sarìa di fare ingiuria
A chi chiedesse entro sue torri ospizio. —
     Se il pio consiglio accolga, esita alcuni
245Giorni Camillo; indi alla sposa: — O amica,
A tanto, no, non posso umilïarmi;
Ma non perciò mi ristarò da speme
Di pacificamento. Un messaggero
Mai non mandai direttamente ancora
250Con parole d’onore all’orgoglioso.
Forse gli estranei intercessori sdegna,
Ma vedendo a sè innanzi un mio scudiero,
E amici detti per mia parte udendo,
Commoverassi, e non vorrà esser meno
255Generoso di me. —
                                        Compie Camillo
La divisata prova. Indi attendea

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Il ritorno del messo, e d’una sala
Passava in altra irrequïeto, e indugio
260Soverchio gli sembrava.
                                                  — Il furibondo
Sdegnasse dare all’invïato ascolto?
O frodoloso intento, o vil lusinga
D’animo impaurito ei sospettasse,
E rispondesse coll’atroce insulto
265Di vïolar con carcere o con morte
La sacra testa dell’araldo mio?
Fellon! Guai se ciò fosse! A molta scese
Mansüetudin questo cor; ma un cenno,
E rïascender lo vedresti ad odio
270Maggior del tuo, più spaventoso, eterno!
Che dico? Bassa villania in quell’alma
Inebbrïata da gigante orgoglio
Non può capir. Abbietto spirto io sono
Che immaginar sì turpe fatto ardisco.
275Intenerito si sarà; lung’ora
Colmerà di dolcissime domande
E d’onoranza il mio scudier; seguirlo
Qui vorrà forse, e rattenuto or fia
Da momentanee cure. A mezzo solo
280Esser seppi magnanimo. Io medesmo,
Come la donna mia mi consigliava,

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Io, non un messo, a lui mover dovea.
Oh! alla mia vista uopo ad Irnando certo
Stato non foran più parole; in braccio
285Gettato a me sariasi, e senza vane
Spiegazïoni, e dolorose, entrambo
Rïappellati ci saremmo amici.
     Così tra sè il bramoso. Ed evitava,
Per nasconderle il suo perturbamento,
290Della diletta sposa il dolce incontro.
     Ei cammina a gran passi; o nella sedia
Breve momento s’agita, e risorge
Tosto con ansia ad amor mista e ad ira,
Or all’una affacciandosi, or all’altra
295Delle fenestre, or fuor della ferrata
Negra sua porta uscendo, e non badando
Al can che gli si appressa, e rispettoso
Scuote la coda, e abbassa il ceffo, e spera
Dalla man signorile esser palpato.
     300Dai merli del terrazzo alfin gli sembra
Lo scudier ravvisare. È desso, è desso!
     Al cavalier rimescolasi il sangue,
E contener non puossi. Il ponte varca,
Discende in fretta la pendice; incontro
305Al vegnente lo stimola sfrenata
Smania d’udir.

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                              — Perchè sì tardo movi?
Gridagli. —
                       I passi addoppia il fido, e parla:
— Signor del tuo nemico entro la soglia
Appena addotto io fui . . . .
                                                        Camillo udendo
Suo nemico nomarlo, impallidisce;
330E l’altro segue:
                              ― Appena addotto io fui,
I sensi tuoi gli esposi.
                                             — In quali accenti?
— Quali a me li dettasti. Oh cavaliero!
Dissigli, il signor mio, dopo ondeggiante
Con sè stesso luttar, cede al bisogno
335Di ricordarti sua amistà, di sciorre,
Per quanto è in lui, quel gel, che rie vicende
Frapposto aveano fra il suo core e il tuo.
Io proseguir volea. Rise il superbo
Amaramente, ed esclamò: Non gelo,
340Ma orrendo sangue è fra i due cor frapposto! —
Proseguii nondimen, tuoi decorosi
Sensi esponendo. A’ primi istanti vinto
Da prepotente anelito parea,
Sebbene al riso s’atteggiasse ognora,
345Ed ostentasse di vibrarmi i guardi

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Della minaccia e del dispregio. Ei detti
Di maggiore umiltà dal labbro mio
Certo aspettava. Non trascesi: umìle,
Ma dignitosa serbai fronte e voce;
350Ed ei sognò ch’io lo schernissi. Audaci
Son tue pupille, o giovine! proruppe;
Abbassale! — Non già! Timor non sente,
Risposi, di Camillo un messaggero.
Mandotti il temerario ad insultarmi?
355Riprese urlando, a far vigliacca prova
Della mia pazïenza? A tentar s’io
Contaminar vo’ mia illibata fama,
Tua vil pelle col mio ferro toccando,
O alle fruste segnandola? Va, stolto
360Incettator di vituperi e busse;
Riporta al signor tuo, ch’uom che si pente
De’ tradimenti suoi, ch’uom che desìa
L’amistà racquistar d’un generoso,
Con ambagi non parla, e schiettamente
365Dice: il cammin ch’io tenni era turpezza.
A sì indegne parole arsi di sdegno
Per l’onor tuo. Via di turpezza mai
Non calcherà, mai non calcò il mio sire!
Gridai. Ruppe il mio grido, e con un fiume
370Di fulminea infrenabile eloquenza,

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Tutta rammemorò la sciagurata
Storia del trono combattuto. E questa
Fu una trama, al dir suo, d’illustri iniqui
Striscianti a piè del volgo, e lordamente
375Convenuti d’illuderlo e spogliarlo.
E tu . . . fremo in ridirlo.
                                                  — Io? Segui.
                                                                            — Un vile
Patteggiator di condivisa infamia,
E condivisi lucri.
                                   — Ei ciò non disse!
Ei ciò non disse!
                                   — Il giuro.
                                                            — E non troncasti
380La scellerata voce entro sua gola?
     — La troncai svergognandolo. E costretto
Fu ad arrossire e replicar: Non dico
Ch’ei fosse, ma parea di condivisi
Lucri patteggiatore, e per lavarsi
385Di macchia tal non bastano le ambagi.
Solennemente si ricreda, e provi
Che insensato, ma mondo era il suo core,
Provi ch’egli esecrato ha le perfidie
De’ nemici del re; ch’egli esecrato
390Ha l’opre inique ond’or l’impero è afflitto!

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Viltà sembrato mi sarìa modesti
Accenti opporre ad arroganza tanta.
Tel confesso, signor: ciò che gli dissi
Appena il so. Non l’insultai, ma cose
395Di foco, certo, mi piovean dal labbro
Contro a’ denigratori; e di te laude
Tal gli tessei, che fu colpito e plause.
Va, buon servo, mi disse, amo il tuo ardire,
Ma non del tuo signor la ipocrisia.
     400— Oh ciel! diss’egli ipocrisia? Ingannato
Non t’han le orecchie tue?
                                                    — Disselo, il giuro.—
     A queste voci il cavalier si torse
Rabbïoso le mani, e con un misto
Di voluttà e di fremito, in più pezzi
405Franse un anel, che dono era d’Irnando,
Ed a’caduti pezzi impallidendo
Il piede impose, e li calcò nel fango.
     — È finito! proruppe. — Ed iracondo
Lagrimava, nè udìa del messaggero
410Parola più, nè rispondeagli.
                                                            A guerra
Precipitato contra Irnando ei fora;
Ma nol permise il ciel. D’una sorella
Alla difesa mover dee Camillo,

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415La qual di Monferrato all’erme balze
Co’ pargoletti suoi vedova geme,
Da illustri masnadieri assedïata.
     Solinga intanto ecco Ildegarde. E voti
Per la salute dello sposo alzando,
420E per la sua vittoria, e pel ritorno,
Pur trema che allorquando ei dalle pugne
Rieda di Monferrato, incontro al sire
Del vicino castel rompa la guerra.
     Un dì mirando quel castel, le cade
425Nell’animo un pensiero; ― E s’io medesma
Colà traessi, e mia nobil fidanza
Vincesse il cor della romana altera
E del truce baron? —
                                               V’ha certi miti
Senni, e tal era d’Ildegarde il senno,
430Che pur sono arditissimi, e formato
Gentil proposto, se pur arduo ei paia,
Tentennan poco, ed oprano. Tranquilla
Il seguente mattin, poichè alla messa
Nel delubro domestico ha innalzato
435Il femminil suo spirto appo lo Spirto
Che regge i mondi e agli atomi dà forza,
Ildegarde s’avvia sovra il suo bianco
Palafreno seduta. A lei corteggio

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Sono una damigella e due famigli.
     440Quand’ella giunse a’ piè dell’alte mura
Del castello d’Irnando, un momentaneo
Palpitamento presela, e memoria
Di perfidie tornolle, ahi troppo allora
Frequenti fra baroni! e pensò quale
445Disperato dolor fora a Camillo,
Se il visitato sire oggi smentisse,
Brïaco d’odio, il vanto invïolato
Che di leal s’ebbe sinora! Il guardo
Volse alla damigella; e impallidita
450Era al par d’essa. Il guardo volse ai duo
Famigli, e impalliditi erano, e osaro
Interroganti dir: ― Retrocediamo?
     — Stolti! diss’ella; e rise, ed innoltrossi.
     Intanto del castello in ampia sala
455La romana bellissima traea
Dalla ricca di gemme ed indorata
Conocchia il molle lino, e fra le punte
Di due candide dita lo umidiva;
Indi con grazia angelica all’eburneo
460Fuso il pizzico dava, e con accento,
Che a labbra subalpine il ciel ricusa,
Cavalleresche melodìe cantava.
     Belli come la madre accanto a Elina

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Sedeano un bimbo ed una bimba, a lei
465Innamoratamente le pupille,
Da negre e lunghe palpebre ombreggiate,
Alzando vispe, e ogni ultima parola
Della strofa materna ripetendo
Con cantilena armonïosa d’eco.
470Ed a quest’eco s’aggiungea la grave
Voce del padre lor, che per la caccia
Un arco preparava, e spesso l’arco
Ponea in obblìo, l’affascinante donna
Mirando e i figli, ed i lor canti udendo.
     475Portavan l’aure il suon del fervid’ inno
D’Ildegarde all’orecchio. Ella scendea
Dell’arcione, ed a’ paggi sorridente,
Ma con trepido cor, dicea il suo nome.
     Qual fu d’Irnando la sorpresa! Ascolto
480E onore a dama diniegò egli mai?
Qual pur siasi Ildegarde, ei le va incontro
Con reverente cortesìa, e l’adduce
Innanzi a Elina. Alzasi questa, e posa
L’aurea conocchia, e di seder le accenna.
     485— Vicina mia gentil (prende Ildegarde
Così a parlar), da lungo tempo agogno
Veder tuo dolce volto, e palesarti
Un mio desìo.

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                               ― Qual? le dimanda Elina.
— D’ottener tua amistà, di consolarmi
490Teco de’ miei dolori.
                                          ― E che? Infelice
Sei tu? Come? . . .
                                     E nel troppo accelerato
Immaginar, già Elina e il cavaliero
Presumon ch’ella fugga il ritornante
Camillo forse, ch’a lor occhi un mostro
495Verso tant’altri, un mostro esser dee pure
Verso la sciagurata a lui consorte.
     Ad Ildegarde appressansi amendue,
Ed Irnando le dice: — Il ferro mio
Non fallirà, s’hai di mestier difesa.
     500Ma oh stupor! La soave, in altro modo
Che non credean, prosegue:
                                                         ― Il sol non vede
Donna di me più dal suo sposo amata,
O buona Elina, e anch’io, quando al castello
È il mio signore, ed io filo cantando,
505Spesso il miro al mio fianco, ed accompagna
La mia colla sua voce; e molte volte
Abbaian nei cortile i guinzagliati
Cani pronti alla caccia, ed alla caccia
Propizio è l’aer di levi nubi sparso,

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510Ed ei pur meco stassi, ed al cignale
Fino al seguente dì tregua consente.
Ignoto ad ambo è il tedio, o se noi colse
Alcuna volta, mai non fu quand’uno
All’altro amato cor battea vicino.
515Ed oh a qual segno in esso, in me, di nostra
Solinga vita crescerà l’incanto,
Allor che a noi (se il ciel pietoso arrida
Alla dolce speranza!) uno o più figli,
Siccome questi, fioriranno a lato!
     520S’interrompe Ildegarde, e per gentile
Impeto d’amorosa alma commossa,
O per arte gentile, o per un misto
D’impeto ed arte, i due bambin si prende,
Uno a destra uno a manca, e li accarezza
525Con baci alterni e voluttà di madre,
Sì che la madre vera e il genitore
Inteneriti esultano, e amicati
Tanto per lei vieppiù si senton, quanto
A’ pargoletti lor vieppiù è cortese.
     530― Oh come a te in bellezza, o mia vicina,
Questa bimba somiglia!
                                                  E ciò Ildegarde
Dicendo, preme lungamente il labbro
Sovra la rosea guancia paffutella

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Della cara angioletta, e la baciucchia.
Poscia gitta la mano amabilmente
535Sulle ricciute chiome del fanciullo,
E qua e là le palpa, indi pel ciuffo
A sè lo trae, e, baciatolo, gli dice:
     — Sai tu che appunto sei, qual mi fu pinto
Da fedel dipintore, il padre tuo
540Ne’ suoi giorni d’infanzia? Inanellato
Il fulvo crin, larga la fronte, arditi
E amorevoli gli occhi . . .
                                                     E questi detti
Pronunciando, Ildegarde, involontaria
O accorta, alzava paventoso un guardo
545Sul cavaliero. Ed ei si perturbava
Ricordando Camillo. Allora la pia
Ambagi più non volve, e con candore
Dice quanta cagion siale di tristo
Rincrescimento il dissentir d’Irnaldo
550E di Camillo.
                          ― O degna Elina! ov’anco
D’uno dei duo per indomato orgoglio
Quella discordia non cessasse, amiche
Esser non possiam noi? Commiserarci
Non possiam noi di questa ria fortuna,
555Ed amar nostri sposi, e niun furore

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Lor condivider che sia oltraggio al dritto? ―
     Dall’anima d’Elina un « sì! » prorompe,
E si stringono al seno.
                                              Irnando balza
Rapito a quella vista, a quegli accenti,
560E vorrìa discolparsi; ad Ildegarde
Vorrìa provar nessuna esso aver colpa
Nell’odio sorto fra Camillo e lui.
Strano mortal! mentr’ei d’inenarrati
Spregi e d’ingratitudine a Camillo
565Accusa vibra, il corruccioso lagno
Con cui ne parla, non par quel dell’odio,
Ma d’un amor geloso. Ei non perdona
All’uom ch’ei tanto amava, essersi fatto
Un idol d’altra gente! aver potuto
570Per nemici obblïar sì sviscerato
Fratel, qual gli era dall’infanzia Irnando.
     Ciò non isfugge all’ospite avveduta,
E con lenta eloquenza insinüante,
Che più e più le udenti anime scuote,
575Pinge in Camillo a que’ trascorsi tempi
Un fautor generoso (errante forse,
Ma generoso) d’abbagliante insegna,
E che a virtù immolar tutto credea,
Fin le dolcezze d’amistà più care.

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580E come pur tal amistà in Camillo
Vivesse, ella soggiugne, e come i giorni
Sospirass’egli della pace, in cui,
Placato Irnando, il rïamasse ancora.
Dice inoltre com’ei, reduce all’onde
585Del Pellice natìo, concilïarsi
Con Irnando agognava, e si valea
D’intercessori invan; come ad Irnando
Mandò il proprio scudiero, e fu respinto.
Dice gli sguardi mesti e affascinati
590Di Camillo al castel del primo amico,
E a quell’arbore e a questa, e a quel vallone
Ed a quel poggio, e del torrente ai flutti
Ove insieme natavano, ed ai ghiacci
Ove lungh’ore sdrucciolon vibravansi,
595Ridendo e punzecchiandosi e luttando,
E sui ghiacci cadendo, e (bozzoluta
Indi spesso la fronte o insanguinata)
Tornando a casa lieti e tracotanti.
     — Oh che facesti, sposo mio? prorompe
600La fervida Romana; un altro, un altro
T’eri foggiato e l’abborrivi. Io pure,
Qual lo foggiavi, l’abborrìa; ma il mostro
Che innanzi agli alterati occhi ci stava,
No, non era quel pio, cui sì dilette

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605Son dell’infanzia le memorie tutte
Cui tu sempre sei caro, e che sì caro
Ad Ildegarde non sarìa, se iniquo.
     — Sarebbe ver? balbetta Irnando; e il ciglio
Gli si rïempie di söave pianto.
610Ei m’amerebbe ancora? Ei non per beffe
A me mandò que’ freddi intercessori
Che sì mal peroravano, e quel troppo
Zelante messagger che m’inaspriva
Col suo ardimento? E ch’altro volli io mai
615Ch’esser amato da colui ch’io amava?
D’odïarlo io giurava, e non potea!
Ma e se la tua benignità, Ildegarde,
Ti traesse in error? S’ei mentre alcuna
Rammemoranza di me pia conserva,
620E quasi m’ama nel passato ancora,
Pur qual son m’esecrasse, ed appellarmi
Collegato di vili anco s’ardisse?
Se sconsigliati egli dicesse i passi
Che al mio castello hai mossi, e dall’irato
625Cor prorompesse: « Amar non posso Irnando!
Amarlo più non posso! »
                                                   I dolorosi
Dubbii vieppiù son da Ildegarde sgombri,
Col ricordar sull’amicizia antica

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630Questo o quel detto di Camillo.
                                                                ― Io dunque
Era il superbo! esclama il cavaliero:
Espïar debbo mia ingiustizia. In guerra
Lunge da me l’amico mio periglia;
Ad aïtarlo di mie lance io volo.
     635E i suoi fidi raguna, ed abbracciate
La palpitante Elina ed Ildegarde.
E i pargoletti, in sella monta e parte.
     Per molti dì le due vicine a gara
Si consolavan, si pascean di speme,
640E alterne visitavansi, aspettando
De’ baroni il ritorno, o messaggero
Che di lor favellasse. Ascondon ambe
Il lor perturbamento, e sol ciascuna,
Quando al proprio castel siede romita,
645Numera i giorni ed angoscïata piange.
Quella dicendo: — « Oh non avess’io mai
Conosciuto Ildegarde! Ella funesta
Forse è cagion che il mio signore è spento! »
L’altra a Dio ripetendo: « Il mio Camillo
650Salva, e s’a me rapirlo è tuo decreto,
Deh ch’io presto lo segua, e per mia causa
Vedova Elina ed orfani i suoi figli
Ah no, non restin! »

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                                           Cede alla possanza
Del suo rammarco alfin l’inconsolata
655Moglie d’Irnando, ed una sera asceso
Il solito ciglion con Ildegarde,
Donde vedeasi per più lunga tratta
La polverosa via, nè comparendo
I cavalieri, o messo alcun, prorompe
660Abbracciando i figliuoli in disperato
Pianto, e respinge dell’amica il bacio.
     — Va, sciagurata, lasciami; a’ miei figli
Rapisti il genitore! A me rapisti
Colui che tutto era al cor mio! Colui,
665Pel qual degli avi miei la dolce terra
Senza cordoglio abbandonata avea!
Viver senz’esso non poss’io: qual sorte
A queste derelitte creature
Verrà serbata, dacchè al padre i ferri
670Tolgon la vita, ed alla madre il lutto?
Voler, voler del cielo era d’Irnando
L’inimistà pel tuo fatal consorte!
Maledetto l’istante in che, ispirata
Da infernal consiglier, lieta movevi
675A mia ruina! Maledetto il nome
Di suora che ti diedi! —
                                                Al furibondo

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Grido geme Ildegarde, e invan desìa
Trovar parole per placar l’afflitta;
680Invan gli amplessi iterar tenta. Ognora
Più duramente rigettata e carca
Di rimbrotti amatissimi, il cordoglio
Rispetta dell’amica, e ridiscende
Dietro a lei mestamente la collina,
685D’ancella a guisa che garrita piange,
E risponder non osa. A quando a quando
Si sofferma Ildegarde, e confidata
Tende l’orecchio e nella valle mira,
Chè voci udir le sembra; e quelle voci,
690Ahi! manda il villanel, che dagli arati
Campi co’ buoi ritorna, ed a lui cara
Son compagnia l’antica madre, curva
Sotto il fascio dell’erbe, e la robusta
Moglie, peso maggior di rudi sterpi
695Con elegante alacrità portando.
     Ne’ dì seguenti, al consüeto poggio
Le due donne riedean, ma fremebonda
Sempre era Elina, e, tramontato il sole,
Moveva a casa delirante d’ira
700E di dolore; ognor vituperata
Ma affettüosa la seguìa Ildegarde.
     Odon lontane grida, e nella valle,

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Come all’usato, i guardi avidamente
Con palpiti d’amor gettano entrambe
705E di speranza e di paura. Il cane
Drizza i villosi orecchi, ed un acuto
Insolito latrato alza, e si scaglia
Giù per la praterìa precipitoso,
Folte siepi saltando ed ardui fossi
710E scoscesi macigni. E ad intervalli
Sparisce e ricompare, e tace, e abbaia,
Nè mai s’arresta.
                                   — E sarà ver? Son dessi,
Son dessi certo! Esclamano a vicenda
Con ebbrezza febbril le desïose.
715Ma se alle lance reduci or mancasse
Uno de’ capitani, od ambo forse?
Oh spaventoso dubbio! Oh sventurate!
Chi ne assecura?
                                     Sì dicendo, il passo
Raddoppiano affannate. Al piano giunte,
720Odon le scalpitanti ugne veloci
D’uno o duo corridori: ah fosser duo!
Fosser de’ duo baroni i corridori!
Scerner gli oggetti mal lasciava un denso
Nembo di polve. Ah sì! Lor lance appunto
725Camillo e Irnando precedean, con ansia

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Di riveder le dolci spose. Oh gioia!
Oh certezza felice! Il lor saluto
Suona per l’aer, ben son lor voci queste.
Eccoli; balzan dall’arcione. Oh amplessi!
730Oh istante indescrittibile! E il consorte,
Poichè ciascuna ha stretto al seno, e assai
L’ha coperto di lagrime e di baci,
Ciascuna dell’amica infra le braccia
Gittasi giubilando.
                                      ― Il dolor mio
735Aspra mi fea: perdonami, Ildegarde.
E Ildegarde alla suora il detto tronca,
Ponendo bocca sovra bocca, ed ambe
Pur di lagrime bagnansi. I fanciulli
Preso frattanto ha fra le braccia Irnando,
740E accarezzato li accarezza, e gode
Porgendoli a Camillo, e di Camillo
La nova tenerezza rimirando.
     Mentre ascendono il colle, evvi un bisbiglio,
Un esclamar, un alternarsi accenti,
745Di cortesia e d’amore, un romper folle
In pianto e in riso, un mescolar dimande
E risposte e racconti, e i cominciati
Detti obblïar per detti altri frapporre,
Che niun di lor cosa veruna intende.

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     750Nel castello d’Irnando entrano. E assisi
Nella gran sala — e da donzelle e fanti
Portate l’ampie coppe — e zampillato
Fuor de’ fiaschi ospitali il ribollente
Dal roseo spumeggiar bel nibbïolo —
755E del giocondo brindisi i sonanti
Tocchi osservati — e roborato il core —
Allor le maschie voci alzano a gara
I baroni, e ripigliano il racconto
In più seguìta, intelligibil foggia:
760— Oh qual buon genio t’ispirò, Ildegarde,
Te in così tempestiva ora spingendo
A rannodar fra Irnando e me l’amato
Vincol che stoltamente io franto avea! —
     Così Camillo, e l’interrompe l’altro:
     765— Io lo stolto! Io il feroce! —
                                                             E quei la mano
Sovra il labbro gli pon rïassumendo:
     — Oh qual buon genio t’ispirò, Ildegarde!
Perduto er’io, se redentrice possa
D’amistà non venìa. L’assedïante
770Ladron dapprima sbaragliai, ma il tristo
Novella frotta ragunò. Me chiuso
Nel castel della suora, egli ogni giorno
Schernìa e sfidava. Io sul fellone indarno

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Prorompeva ogni giorno: ahimè! gli sforzi
775Del valor mio nulla potean su tanto
Nover crescente di nemici. A noi
Già le biade fallìan, già fallìan l’armi,
E già il cessar d’ogni speranza e il cruccio
Rabido della fame a’ guerrier nostri
780Consigliavan rivolta ed abbandono.
Universal divenne voce alfine:
« Arrendiamci! arrendiamci! » Il masnadiero
Promettea vita a ognun fuorchè a mia suora
E a’ suoi figliuoli e a me. Tra minaccioso
785E supplicante, io i perfidi arringava,
Che della rocca aprir volean le porte:
— « Sino a dimane il tradimento, o iniqui,
Sino a dimane sospendete! » Un resto
Di pietà e di rispetto, al grido mio,
790Rïentrò in cor de’ più. « Sino a dimane!
Sclamarono, e se Dio pria dell’aurora
Portenti oprato non avrà a tuo scampo,
Lo scampo nostro procacciar n’è forza ».
Oh spaventosa notte! Oh fugaci ore!
795Oh come orrenda cosa eraci il suono
Del bronzo che segnavale! Oh angosciato
Appressarsi dell’alba! Oh sbigottiti
Muti sembianti della mia sorella

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E de’ suoi pargoletti! Oh contrastante
800Dignità di parole in prepararci
A’ vicini supplizi! Ed oh com’io
Tra me dicea: « Deh! che non seppi amico
Tutta la vita conservarmi Irnando? —
Improvviso frastuono udiam levarsi
805Fuor delle mura. Che sarà? Oh prodigio!
Una pugna! E con chi? ― « La man di Dio!
La man di Dio! » gridan mie turbe: a terra
Mi si prostran pentite, il giuramento
Di fedeltà rinnovano; a gagliarda
810Sortita le süado, ed infinito
Macel lung’ora de’ nemici è fatto.
     Qui il narrar di Camillo Irnando tronca:
— Ah! s’impeto cotanto, e se cotanta
Prodezza ad ammirar non m’astringevi,
815Me gli assaliti sconfiggeano! In fuga
Eran molti de’ miei, già in fuga io stesso
Omai volgeami disperato: i colpi
Tuoi scomposer l’esercito inimico,
E di salvezza io debitor t’andai! —
     820S’avvicendan la lode i cavalieri,
L’uno dell’altro memorando i fatti.
Alfine Elina sclama: — Ad Ildegarde
Spettan tutte le lodi! Innanzi a lei

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Prostratevi, e la sua destra baciate. —
     825E i cavalieri prostransi, e la destra
Baciano d’Ildegarde, e penitenza
Le chieggon del furente odio passato;
Ed ella in penitenza un’annua festa
Intìma in questo e in quel castel, che festa
830Dell’amistà si chiami, e dove uficio
De’ vati sia cantar quanti sospetti
Calunnïosi partorisce l’ira,
E quanto l’ira accrescano le ambagi
De’ falsi intercessori, e quanto egregia
835Sappia interceditrice esser la donna.
     — E da me, per mia ingiusta ira, qual vuoi
Penitenza? soggiugne in umil atto
Palma a palma accostando, ed il ginocchio
Piegando Elina. —
                                     Ed Ildegarde: — Il primo
840Figlio, o diletta, che ti nasca, il nome
Porti del mio Camillo; e mi sia dato,
Se figli avrò, chiamarli Irnando o Elina.