La cura di Manuela

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Giulia Turco Turcati Lazzari

Indice:Turco - Canzone senza parole.djvu novelle La cura di Manuela Intestazione 11 agosto 2022 75% Da definire

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LA CURA DI MANUELA


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Benchè il sole già declinasse all’orizzonte, faceva un caldo soffocante. I viali del giardino erano deserti, le persiane verdoline chiudevano ogni apertura sulle facciate grige, e il ronzio vago degli insetti sembrava rendere più grave il silenzio del chiostro ove un cameriere stava sonnecchiando Un’oppressione d’arsura tediosa era scesa, in quel sereno pomeriggio di giugno, sullo stabilimento idroterapico di S... I bagnanti, oppressi dalle fatiche della cura, riposavano tutti nelle loro stanzuccie claustrali, solo Gustavo Rose, il giovane medico, chiuso nel suo piccolo appartamento del primo piano, vegliava nella mezza luce dinanzi a un tavolino ingombro di libri e di giornali. Era intento a decifrare una lettera dai caratteri poco intelligibili: un amico, antico cliente, gli annunziava per l’indomani l’arrivo di due signore a nome delle quali aveva già fissato, giorni addietro, due 0 tre camere in buona esposizione.

«Spero», aggiungeva lo scrivente, «che tu [p. 264 modifica] potrai essere molto utile alla signorina Aparia. Da due anni ell’ha perduto la salute e io ti sarò grato d’ogni premura che vorrai usarle, perchè una vecchia amicizia mi lega a suo padre. D’altronde, senza esser medico, capisco che si tratta d’un caso interessante per i tuoi studî».

Rose lesse quindi altre lettere d’infermi conosciuti che gli si raccomandavano per il solito alloggio, di nuovi che preferivano rivolgersi anzichè al segretario, al medico noto per la sua benignità umanitaria; sfogliò alcuni periodici e finì per rimanersene assorto in una profonda meditazione.

La casa dava alloggio allora a circa quaranta ammalati, i primi della stagione, povere creature che in quel momento affidavano a lui solo il problema, forse non sempre solubile, delle loro sofferenze svariate; e per il giovine generoso, il grave peso della responsabilità non era alleggerito che da un inesauribile e ardente desiderio d’azione e di riuscita.

Gustavo Rose era figlio d’una gentildonna lombarda e d’un musicista sassone il quale, venuto temporaneamente a Milano per lo scopo dell’arte, aveva finito col prendervi, a cagione del suo matrimonio, stabile dimora.

Nato nei giorni in cui ferveva la lotta del risorgimento, Gustavo; fin da fanciullo, non aveva esitato a considerarsi come italiano. E sebbene nell’indole ritraesse alquanto dell’origine [p. 265 modifica] germanica, la serietà nordica, l’eccessiva rigidezza del carattere erano in lui temprate da una bella vivacità latina che raddoppiava l’efficacia del suo acuto e personale ingegno.

Nell’adolescenza, forse per impulso di qualche latente attitudine, s’era sentito infiammare dalla passione della musica, formando anzi il proposito di dedicarvisi, poi, nell’età più ardente e decisiva, la perdita prematura dei genitori, ch’egli adorava, l’aveva spinto, ad un tratto, allo studio della medicina.

Dopo averne presa la laurea a Pavia, s’era recato all’estero onde frequentare le cliniche primarie e occuparsi in particolar modo delle malattie nervose i cui misteri psicologici stimolavano in lui è l’istinto dell’indagine.

Per la musica gli era rimasto un culto, e, quantunque non suonasse più alcun istrumento, non trascurava quei mezzi che potessero approfondire la sua cultura nell’arte classica, e tenerlo in corrente coi progressi dell’arte moderna.

Era questo l’unico svago che si concedesse.

Da cinque anni era tornato in Italia e aveva preso a dirigere uno degli stabilimenti idroterapici del Piemonte, prodigando agli infermi, oltre le cure scientifiche, anche la pietà del cuore che nella consuetudine di veder soffrire gli si era pur sempre serbata integra e viva. [p. 266 modifica]

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Un rumore di ruote, un suono di voci e di campanelli distolse presto il giovine dal suo raccoglimento. Non aspettava nessuno, quel giorno, e rimase sorpreso vedendo entrare il segretario che esclamava con premura:

— Signor direttore, forestieri, forestieri!

— Chi sono?

— Due signore, e la cameriera. Non le ho mai vedute. Vengono da Firenze.

— Sarà la marchesa Aparia. Avrà anticipato. Le apra la sala, io scendo subito.

Rose non era solito d’aspettare che i bagnanti fossero saliti nelle loro camere: egli li accoglieva sempre sulla porta di casa, come ospiti suoi propri e senza distinzione di classe o di censo. Quel giorno, tuttavia, la sua sollecitudine consueta era commista ad una certa trepidanza, e, mutata la giacca di tela che portava con un vestito nero, egli s’avviò, senza fretta, per ricevere le nuove arrivate. Quando comparve nel salotto ov’esse riposavano, la più anziana gli venne incontro con molto garbo, presentandosi:

— Cristina Aparia. Ho il piacere di parlare col dottor Rose?

Il giovine s’inchinò cortesemente.

— Arrivo prima del convenuto. Volli approfittare d’un lieve miglioramento nello stato della mia figliuola... Ero così impaziente di trovarmi qui che [p. 267 modifica] ho affrontato perfino il caldo, facendo a quest’ora la salita da Biella.

— Sempre benvenuta, marchesa.

— Ecco l’ammalata che le affido — proseguì donna Cristina. — Manuela, il dottore! — soggiunse facendo cenno alla fanciulla che s’era messa in disparte e che s’avvicinò con visibile ritrosia.

Rose s’inchinò nuovamente, ma non fu corrisposto che da un impercettibile saluto. Nondimeno egli avvolse coll’acuto suo sguardo l’esile figura il cui volto era velato da un fitto crespo azzurro e chiese con molta dolcezza:

— Si sente ella favorevolmente disposta a questa cura, signorina?

— Oh! non troppo; non ci credo affatto. Sono venuta soltanto per aderire al desiderio dei miei! — rispose la fanciulla con una certa sostenutezza.

— Oh Manuela! — interruppe severamente la marchesa. — Dovrà compatirla spesso, dottore, i suoi nervi sono così eccitati!

— Gli ammalati non si devono compatire ma piuttosto confortare — disse Rose con un’occhiata benevola alla fanciulla, la quale si volse da un’altra parte.

— Dimenticavo una cosa — riprese donna Cristina — la sua cortese accoglienza mi aveva distratta.. Ecco una lettera dell’amico nostro comune che ci raccomanda alle sue cure...

— I miei infermi non hanno bisogno di [p. 268 modifica] raccomandazioni! — esclamò il giovane — Quando hanno varcato la soglia dello stabilimento, ini sono tutti egualmente sacri...

Donna Cristina sorrise, ma tosto rattristata, soggiunse:

— C’è anche la diagnosi del dottor F..... di Firenze.

— Grazie, questa la leggerò volentieri, davvero.

— Ho tutta la fiducia di trovare in lei un valido appoggio - per convincere Manuela — continuò la marchesa volgendosi con un sospiro verso la fanciulla ch’era tornata a sedere in disparte, senza parole.

— Sono interamente a sua disposizione, signora, e non adempio che al mio dovere! — concluse il medico con una certa gravità. — Più tardi, quando le camere saranno allestite, se me lo consente, verrò un momento da loro.

— Molto gentile, grazie. Stanze arieggiate, non è vero?

— Sono le più allegre dello stabilimento. Il segretario le accompagnerà. Si ricordino che la cena è alle sette.

— La cena? non si pranza la sera?

— Ho adottato un sistema campestre e più igienico.

— Ma è un orrore!

— Vedrà, s’avvezzeranno! disse Rose, ridendo. — Col loro permesso, me ne vado, perchè è l’ora del terzo bagno. [p. 269 modifica]

Mentr’egli usciva, madre e figlia si abbracciarono istintivamente.

— Sii dunque ragionevole, Manuela — mormorò la marchesa, con mal celata tenerezza.

— Sono molto triste mamma, lo sai, non posso!... — rispose la fanciulla con fievole voce. — Usciamo da questa tomba! andiamo un po’ a vedere com’è fatto questo vostro famoso luogo di cura!...

Donna Cristina prese il braccio che la figliuola le offriva, e mentre preparavano le stanze, seguita dalla cameriera, si avviò a fare un primo giro di ricognizione.


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Lo stabilimento dominava dall’alto un paesello alpestre, un’allegrezza di case bianche nella vallata tutta verde di castagni. Le larghe gallerie che congiungevano i due quadrilateri, ond’esso si componeva, erano chiuse al primo e al secondo piano da grandi vetrate e correvano invece a terreno a guisa di chiostro intorno all’intero caseggiato e al cortile, adorno nel mezzo da una secolare pianta d’abete. Castello feudale in origine, poi convento di clarisse e successivamente asilo d’alienati, il vasto edifizio aveva finito per diventare una casa di salute, ma serbava sempre sulle sue mura le tracce caratteristiche di tante diverse destinazioni. Dalla nobile eleganza del Quattrocento alla banalità moderna, v’erano passati tutti gli stili, ma una vegetazione superba e selvaggia di ' [p. 270 modifica] ampelopsis e di caprifoglio aveva saputo fonderli ed armonizzarli colle sue efficaci velature. Dall’angolo d’uno dei quadrilateri, verso mezzogiorno, si slanciava una svelta torretta antica ridotta ad uso d’abitazione, con una meridiana sulla facciata, e una banderuola rossa in cima, e dal suo elegante balconcino medioevale scorreva lontana la vista sulle Alpi Pennine la cui tinta cerulea, delicatissima, appena staccava di tono nell’azzurro del cielo.

Il chiostro, che nei giorni di pioggia serviva di passeggio per la reazione, era di buona architettura e vi si aprivano varie uscite e un grande atrio per le carrozze; molti rosai rampicanti, Aimè Vibert, allacciavano i loro robusti getti intorno agli archi e i pallidi fiori facevano capolino a ciocche a ciocche dalle belle colonne spirali.

A ponente, lo stabilimento era addossato ad un’alta collina cinta di viali a guisa di parco, per modo che, traversando un piccolo ponte, i bagnanti potevano recarvisi senza prendere le scale. In quel giardino le conifere si alternavano cogli alberi da frutto e col mirto malinconico tagliato a piramide o a spalliera, memoria claustrale anch’esso come certi capanni d’edera e di lauro fitti tanto da non lasciar passare raggio di sole. Qui e lì una pianta esotica coltivata con cura speciale, un gruppo di tiori tradivano la. passione del medico per l’orticoltura.

Il vertice della collina si spianava in una [p. 271 modifica] specie di larga terrazza che ombreggiavano molte piante rigogliose e donde poteva spaziare lontano lo sguardo sopra un incantevole orizzonte.

Donna Cristina e sua figlia percorsero lentamente tutti i viali. Di tratto in tratto una bagnante frettolosa, intenta alla sua reazione e intirizzita ad onta del caldo, passava, guardandole con una certa curiosità mista di desiderio e di diffidenza.

Rientrate nel chiostro le due signore s’avviarono verso le scale. Erano scale strette e bagnate, bagnati erano i corridoi; un’umidità calda trapelava dai muri, dalle pietre.

— Le nostre stanze non saranno qui, spero! — disse la marchesa al segretario che la veniva seguendo premurosamente.

— No, no, Eccellenza. Qui vi sono i bagni, favoriscano dall’altra parte.

E, attraversando una delle gallerie, s’avviarono verso l’ala di mezzogiorno.

— Non è libera la torretta? domandò Manuela.

— È proprio la torretta che il signor direttore ha loro assegnata, signorina; è più alta ma più allegra.

E come furono giunte al secondo piano, il segretario le introdusse in un appartamento composto di due stanze libere, la seconda delle quali metteva nella torre per mezzo d’una scaletta a chiocciola.

— Qui non si starà male — disse donna Cristina affacciandosi al balconcino. [p. 272 modifica]

Manuela invece si lasciò cadere sopra una seggiola in atto di profondo scoraggiamento.

— Spero che non mancherà nulla! — concluse, partendo, l’impassibile segretario come se le lasciasse in una regale abitazione. — Tuttavia, qualunque cosa desiderassero, non hanno che a parlare...

— Che cosa fai? non ti muovi? — domandò donna Cristina, ravviandosi i capelli dinanzi all’unico specchietto sgraffiato che le fosse riuscito di trovare.

— Mi sembra impossibile di dover rimanere qui. Mi manca il respiro.

— Andiamo, figliuola, non mi crucciare così — mormoro quietamente la marchesa che non sempre riesciva a comprendere, nella sua fiorente salute, i patimenti della fanciulla.

Intanto Adelina, la cameriera, contemplava con disprezzo i soffitti bassi, i muri dipinti rozzamente dall’imbianchino, i pavimenti scuri di castagno, senza vernice, il mobilio scarso e d’una semplicità cenobitica, deplorando a mezza voce:

— Nemmeno una poltrona! Nemmeno una sedia a sdraio! Misericordia, quanto è duro questo sofà! Sembra proprio un convento...

— Difatti, queste saranno state un giorno le celle delle monache. Sta zitta, Adele, non accrescere, coi tuoi inutili lamenti, il disgusto della signorina. Studiamo piuttosto d’accomodarci alla meglio.

E dopo aver pensato un poco alla sua toilette [p. 273 modifica] donna Cristina, da persona disinvolta e pratica qual’era, si mise a disporre a sua guisa i tavolini, le seggiole e gli altri pochi mobili; scelse per sè la prima stanza, assegnò la seconda a Manuela e nella torre improvvisò un salottino, raccogliendovi il meglio, cavando anche dai bauli qualche sci allo, qualche brano di stoffa da appendere sui muri nudi. Aveva appena finito, quando Adele annunziò il medico.

— Gli arredi, qui, sono tutti assai modesti — disse il giovine entrando. — Sebbene io apprezzi molto la semplicità e la ritenga omogenea alla cura, mi lagno spesso, ma indarno, col proprietario dello stabilimento, per questa grettezza... Le signore hanno tanto bisogno di certi comodi!... Come sta? — soggiunse egli rivolgendosi a Manuela.

— Poco bene — rispose freddamente la fanciulla.

— Vuole narrarmi le sue sofferenze? — continuò il dottore, sedendole accanto con una certa amorevolezza.

— Non le basta la lettera del mio medico?

— Ho letto, e rileggerò, con piacere, lo scritto del mio illustre collega — disse Rose, senza scomporsi. — E necessario tuttavia che l’interroghi io stesso, che le faccia un regolare esame... Ho il principio di non intraprendere alcuna cura, senza questi preliminari...

— Oh Dio! — proruppe allora la fanciulla, senza [p. 274 modifica] dissimulare una viva contrarietà — le mie sofferenze non sono definibili.

— Il dottor F... la ritiene affetta da generale anemia e da una forte perturbazione nervosa. Come si determinano i patimenti ai quali egli accenna?

— Vado soggetta a grandi sfinimenti... — mormorò con riluttanza Manuela.

— Certe volte le sembra di svenire all’improvviso e mi sta sdraiata dei giorni interi — continuò la marchesa — poi, ad un tratto, le sopraggiunge l’ardore dell’occupazione, lavora, studia fino a notte inoltrata.. È presa, non di rado, da vertigini, da palpitazioni, da moleste nevralgie vaganti.

— Febbre? — domandò Rose.

— L’ebbe, altissima, due anni fa, quando si manifestarono le prime turbe, poi più.

— Tosse?

— Qualche volta ma fu sempre considerata come uno spasimo nervoso.

— Appetito?

— Assai poco.

— Sonno?

— Sempre scarso e agitato.

Mentre donna Cristina sosteneva quest’interrogatorio in vece sua, Manuela s’era alzata per uscire sul balcone della torretta.

Gustavo Rose segui con lo sguardo l’esile figurina, il volto pensoso e profilato, che la ricchezza dei capelli castani faceva parere ancor più bianco nella delicata trasparenza dei suoi lineamenti, e disse piano: [p. 275 modifica]

— Marchesa, voglia perdonare al medico una domanda. Non havvi alcuna influenza morale su questo disordine fisico?...

Donna Cristina fece un cenno vago che non negava nè affermava, chiudendo il varco a qualunque altra interrogazione. E allora Rose riprese, forte:

— Io credo che la cura potrà giovarle, ma occorre vi si applichi di proposito prima di tutti la nostra ammalata. Non sa, signorina, quanto sia grande anche in questo l’efficacia della volontà? Ella deve voler guarire, vincere, dominare i nervi che la tiranneggiano... poiché in fondo mi pare non si tratti che d’un’affezione nervosa...

— L’aiuterà, non è vero, dottore — disse la marchesa commossa, prendendo per la mano Manuela che s’era riavvicinata con ripugnanza, per puro debito di cortesia.

— Farò quanto posso signora. Sono un po’ despota, sa, coi miei ammalati. Ci tengo a essere ascoltato e ubbidito... e i poveri nevropatici aborrono la disciplina...

— Manuela, in questo, non si distingue dai suoi compagni, è molto indocile — sospirò la marchesa.

— Devo crederlo, signorina?

— Mamma ha ragione. Sono uno spirito ribelle — rispose la fanciulla più convinta che penitente.

— Allora lotteremo... ma con nobili armi... — concluse Rose, col suo grave sorriso che spirava una profonda e indulgente bontà virile. [p. 276 modifica]

In quel punto una campanella suonò.

— È il primo segnale della cena — disse Rose.

— Siamo ancora vestite da viaggio — esclamò donna Cristina.

— Vengano così, vengano così, per carità!... insistette il dottore. — È troppo seria la cura per pensare all’eleganza. Da questo luogo il lusso deve essere bandito, indarno lo predico ogni giorno!....

— Sta bene, obbediremo volentieri. Ma tu, Manuela, appuntati quella treccia che s’è sciolta.

La fanciulla, piegandosi un poco indietro, sollevò la bella treccia morbida che le scendeva fin sotto il ginocchio e nel farlo ebbe un inconscio sorriso anche lei, ma un sorriso lieve e mortalmente triste come di persona a cui fosse stato tolto ogni bene.

Poi scesero tutti e tre a terreno nell’antico refettorio ridotto a sala da pranzo. La tavola lunghissima essendo costruita a ferro di cavallo, accadde che le signore Aparia si trovassero non lungi dal dottore il quale occupava il posto di mezzo per poter dominare tutti i suoi infermi.

La marchesa era vicina ad un signore di media età, affetto da spinite cronica, Manuela ad un giovine pallido dai pomelli rossi e dai tolti capelli neri, un bel giovane condannato inesorabilmente dalla tisi e che i medici avevano mandato da Rose per non sapere più che farsene. Dirimpetto sedeva una signora neurastenica con due figliuole adolescenti, malinconiche, limate dall’anemia; ovunque [p. 277 modifica] volti emaciati, espressioni di patimento e di tristezza. I commensali salutarono guardando con evidente curiosità. Il dottore, prima di mettersi al suo posto, aveva scambiato qualche stretta di mano, aveva fatto qualche domanda a mezza voce. La conversazione era tranquilla, un po’ stentata, a momenti nulla. L’atmosfera di quella lunga sala buia e tetra sembrava quasi cruda. Manuela rabbrividì.

— Hai freddo? — domandò donna Cristina.

— Sì, mamma, molto freddo.

— Qui dentro mi ci gelo anch’io! — lamentò come fra sè il giovane pallido — eppure siamo in giugno!

E un colpo di tosse gli troncò le parole in bocca.

Manuela guardò appena le carni lesse, insipide, le frutta cotte, i cibi blandi che alcuni camerieri poco eleganti servivano a quella mensa frugale, ove le poche persone sane si distinguevano per la piccola bottiglia di vino che stava loro dinanzi, e, prima che la cena fosse terminata, s’affrettò ad uscire nel chiostro con sua madre. Le due signore sedettero su una panca e il medico ve le raggiunse rimanendo a preferenza con loro, cortesia che soleva usare sempre ai nuovi arrivati.

Cominciava appena a calare il crepuscolo, le ciocche fragranti delle rose biancheggiavano nella penombra sugli archi anneriti dal tempo e i bagnanti, a due, a tre, passeggiavano su e giù, discorrendo quasi sempre dei propri malanni e [p. 278 modifica] della cura. Mentre passavano il dottore li nominava:

— La signora Cefalù, con sua nipote. La famiglia Mevi. Il marchese Della Paglia. I fratelli Mallotti di Venezia.

— E quella giovane che siede laggiù in fondo con un bellissimo bambino? — domandò la marchesa.

— Una meridionale, si chiama Eva Antella.

— Com’è sparuta! E pure dev’essere stata bella anche lei, un giorno. Ha degli occhi!

— Bella e sventurata. È il terz’anno che viene qui a far la cura, ma ha troppo sofferto moralmente per potersi riavere del tutto. Fu abbandonata dal marito.... non è un segreto.

Manuela, che fin lì era sempre rimasta concentrata in se stessa, sollevò uno sguardo pietoso e la marchesa proseguì:

— E il giovanotto sempre fermo sulla porta della sala?

— Un francese... Filippo Parny. Glielo presenterò domani, se permette. E guarito e si trattiene qui soltanto per accondiscendere al mio desiderio. E un’anima solitaria, ma non rifugge dalle squisite eccezioni.

— Quanta gente nuova! — sospirò finalmente Manuela. — Potremo pur vivere a parte senza far tante conoscenze, non è vero mamma?

— Certamente! — disse Rose, incaricandosi della risposta — ma io non la consiglierei, la distrazione è necessaria. [p. 279 modifica]

— Nè io permetterei che tu coltivassi questo tuo morboso istinto di fuggire la gente — mormorò la marchesa. — A poco a poco lo vincerai. Intanto, dottore, se non lo dispiace, m’indichi ove possiamo trovare un buon caffè!...

— Un caffè?... mah! in nessun luogo, marchesa, perchè qui è assolutamente proibito.

— Proibito!

— Non per lei che non ha bisogno della cura. Potrà prepararglielo in stanza la cameriera, ma non acconsentirò mai che la signorina s’avveleni con questa bevanda eccitante.

— Io sono avvezza a prendere tre o quattro caffè fortissimi al giorno! — disse Manuela.

— Brutta consuetudine.... la smetta.

— È impossibile!...

— Impossibile non è alcuna cosa che stia nel dominio della nostra volontà. Si provi, si eserciti a negare al suo corpo questa servitù dannosa. Da prima esso si ribellerà un pochino, poi dovrà cedere alla forza maggiore.

Manuela non aggiunse sillaba, ma i suoi profondi occhi castani sfavillarono.

Rose la guardò con viva attenzione, poi le prese il polso e disse colla solita amorevolezza:

— Ella non ha mangiato stasera, me ne sono accorto.

— E vero, mangiò poco o nulla — confermò la marchesa, mortificata.

— Domani, quando avrà passeggiato, si sentirà [p. 280 modifica] meglio. Ora l’aria comincia a farsi umida, siamo in montagna. Non vorrebbe venire un pochino in sala? Si faccia animo, vede, ci vanno tutti.

— No, no. Ci venga mamma, se vuole. Io ho bisogno di ritirarmi.

— La marchesa scosse la testa come per dire: «È inutile, è ammalata, conviene compatirla!» E con un fare rassegnato s’avviò verso le scale con la figliuola.

— Oggi è giusto, dev’essere stanca — mormorò il dottore dando loro la buonanotte. — Domani mi permetterò d’insistere un pochino di più.

Manuela irritata non rispose, ma s’affrettò a salire e appena furono sole disse con amarezza a sua madre, non curandosi che la sentissero:

— M’hai condotta in una vera prigione; non manca nulla, nemmeno il carceriere.

Due ore più tardi, volendo fumare all’aperto il suo unico sigaro della giornata, Gustavo uscì dal primo piano sulla collina e dopo aver fatto una salita di pochi passi per il viale, si fermò, sorpreso. Dinanzi a lui, nel mite chiarore d’una serena notte stellata, stava una figura di donna avvolta in uno scialle bianco e appoggiata al tronco d’una catalpa in fiore. Il profilo tenue e della fierezza gentile di certi angeli delle antiche scuole appena s’intravedeva tra le frange che gli facevano velo.

Dal paesello sottoposto un suono lontano di chitarre e di flauti veniva flebile, nel silenzio dell’ora notturna. [p. 281 modifica]

Il dottorò stette due tre minuti immobile, contemplando la fanciulla che pareva assorta, perduta nei propri pensieri. Poi, non visto ancora, le si fece d’appresso, la chiamò:

— Signorina Manuela!

Manuela Aparia era difatti una di quelle creature a cui si dà a preferenza e involontariamente il nome di battesimo, e Rose che pur sapeva essere molto cerimonioso in date occasioni, c’era cascato anche lui, cedendo ad un certo istinto arcano dell’animo.

Al vedersi così scoperta in flagrante delitto di romanticismo e proprio da lui, la fanciulla si volse con visibile disgusto:

— Oh dottore... — diss’ella seccamente.

— Non si trattenga fuori a quest’ora, marchesina ! — disse il giovane, correggendosi — è umido il giardino.

— Sta bene, come vuole. Ero venuta a cercare un po’ di sollievo. Laggiù faceva freddo e nelle nostre camere si soffoca.

Ed ecco subito il guardiano che la chiama all’ordine....

Manuela lo guardò con freddezza e mormorò:

— Difatti siamo in un convento di clausura.

— L’igiene, signorina, è la base su cui si fonda ogni cura razionale....

— Io non ho voglia di curarmi.

— Allora mi permetta d’aggiungere che oltre l’indispensabile igiene del corpo a lei va [p. 282 modifica] suggerita anche quella dell’anima..... — rispose Rose, scherzosamente.

— Vuol dire che la mia anima è ammalata?...

— Ammalata, non direi; dalle sue parole posso supporre che sia sofferente....

— Questo, signor Rose, non entra affatto nel campo dell’idroterapia.

Il giovane la guardò con sorpresa ma senza risentimento.

— I medici sono sempre indiscreti — diss’egli col suo tranquillo sorriso.

— La fantasia non può a meno di venire in aiuto alla loro scienza incerta!... — riprese Manuela con un certo disdegno, mentre traversavano insieme il piccolo ponte del secondo piano.

All’udire quella risposta il giovane si fermò e abbassando sulla signorina Aparia il suo sguardo profondo, soggiunse con una voce in cui la commozione vibrava:

— Dunque... nemici?

— Sì, nemici. Buona notte.

— Mi permetta almeno d’accompagnarla alia sua stanza, non è in quest’ala, è di lá...

La fanciulla s’avviò per il corridoio e per la galleria senza parlargli ed egli le rimase risolutamente al fianco. Come furono giunti all’appartamento della marchesa, egli disse soltanto:

— Dunque a domani, signorina, si ricordi che la cura comincia alle cinque... sarò costretto di venire da lei molto presto... alle quattro e mezzo... [p. 283 modifica]

— Come vuole!... — E senza stendergli la mano, Manuela aperse l’uscio della sua camera e scomparve.

Gustavo Rose rimase alcuni minuti coll’occhio fisso su quell’uscio del numero 10 ch’ella aveva lasciato socchiuso. Egli non provava alcuna irritazione nell’animo, bensì un senso di grave tristezza e domandava a se stesso se nello sciogliere il problema di quella fragile esistenza di donna avrebbe trovato una creatura viziata dalla nascita e da una falsa educazione, oppure un essere eletto, perturbato dal dolore. Una certa penetrazione, insolita nell’uomo, raffinata in lui dall’abitudine di studiare l’umana miseria, e un vago istinto, forse un latente desiderio lo facevano propendere verso quest’ultima ipotesi. Su quel bianco volto di fanciulla, in quegli occhi schivi ove tremolavano fra le lunghe ciglia lagrime irrefrenabili egli aveva scorto la traccia d’un patimento grave, forse segreto e un’immensa pietà, una pietà nuova gli era nata in cuore.

Egli scese a pianterreno, chiamò il primo cameriere e gli disse:

— Sono le dieci. Quando quei signori hanno finito il pezzo che stanno suonando in sala, li avverta dell’ora che fa e cominci a spegnere i lumi. È tempo che vadano a dormire.

— Sarà servito. Buon riposo, signor dottore. Il bagnaiolo del primo piano ha chiesto se deve rinnovare domattina l’impacco al numero 20. [p. 284 modifica]

— Nulla fino a nuovo ordine. Lo sa il bagnaiolo che vado da tutti gli ammalati.

Poco dopo, il pianoforte si tacque, s’udì un rumore di voci diverse e sommesse nel chiostro, sulle scale e per i corridoi, qualche porta si chiuse e lo stabilimento piombò nella quiete della placida notte.

Rose che aveva l’abitudine di coricarsi presto per essere in piedi prima dell’alba, lungi da trovare il sonno che la vita attivissima concedeva di consueto al suo corpo giovane e gagliardo, provava un senso di agitazione violenta e invincibile.

Indarno egli tentava leggere e rileggere certe pagine d’un libro di psicologia che gli stava dinanzi; il suo pensiero era distratto, anzi assente. Allora si mise a lavorare in una sua monografia sulle nevrosi del cuore, ma non gli venne fatto di scrivere un periodo di proposito; finì per trarre dal suo portafogli la diagnosi della malattia di Manuela, la scorse da capo a fondo, poi tornò alle prime righe che dicevano così:

«Manuela Aparia, facoltà intellettuali prevalenti sulle forze fisiche, anemia generale, perturbazioni isterico-nervose, ecc. ecc.». E, dopo averle lette alcune volte macchinalmente, ripose lo scritto e affacciatosi alla finestra si mise ad osservare le grandi ombre del chiostro di faccia. Le persiane della torretta erano chiuse ma vi cominciava a biancheggiare il blando raggio della luna nascente. Una fragranza voluttuosa di rose saliva fino a [p. 285 modifica] lui e da lontano veniva il mormorio continuo, quasi dolente, d’una cascatella d’acqua.

Parve a Rose di trovarsi perduto in un sogno. Non era solito nè aveva mai avuto il tempo di abbandonarsi ad alcuna fantasticheria giovanile e dopo la morte dei suoi cari la sola sofferenza umana gli aveva fatto battere il cuore, ma in quell’ora di silenzio e di notturna insonnia gli parve che la sua ardente individualità, sempre soffocata, si ribellasse ad un tratto imperiosa, e con un tumulto di desideri strani, alle violenze della ragione, e stette a quel davanzale, colla testa in fuoco, col petto anelante, finché l’alba lo richiamò all’esercizio del suo dovere.


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Erano appena le quattro e mezzo della mattina, quando il medico picchiò alla cameretta di Manuela. La fanciulla sonnacchiosa chiese che cosa fosse.

— Il dottore! — disse Adele, che aveva inteso dal suo gabinetto di faccia e che subito accorreva.

— So che disturbo!... — cominciò Rose entrando col suo fare tranquillo — ma vorrei proprio che ella desse principio stamane alla cura e, come dobbiamo fare un piccolo esame prima...

— Adele, chiama la mamma! — esclamò Manuela seccata. — Non avevo chiuso occhio in tutta la notte, cominciavo a dormire proprio adesso...

— Me ne rincresce davvero — disse il medico [p. 286 modifica] con sincerità, avvicinandosi al letto, mentre la cameriera apriva un poco le persiane. Un raggio di luce penetrò nella cameretta ed egli scorse più chiaramente la testina gentile della sua paziente e le pastose trecce brune mezzo disfatte sui guanciali. Sedette a piedi del letto e, vedendola stizzita, riprese pacatamente:

— Via, abbia pazienza, sia compiacente... mi faccia un po’ la storia fisica della sua vita.. ne ho bisogno, per regolarmi...

— Vengo io! — rispose donna Cristina tutta trasognata, uscendo dalla sua camera con un accappatoio bianco.

— Oh mamma! — sciamò la fanciulla, buttandole le braccia al collo — perdona se t’abbiamo svegliata, io non posso parlare...

Rose intraprese un delicato ma, per quanto gli era possibile, minuto esame intorno alla famiglia Aparia, e al padre di Manuela, s’informò della nascita di lei, dell’infanzia e delle malattie a cui era stata soggetta da bambina e via via nell’adolescenza, analizzando le sofferenze che adesso la travagliavano e studiandone l’origine.

Donna Cristina, un po’ commossa, assecondava pazientemente le sottili indagini del medico, mentre la fanciulla, mezzo seduta sul letto e abbandonata fra i cuscini, non apriva bocca.

Rose, intento all’interrogatorio, molto cortese ma tutto compreso dall’impegno della professione, andava scrivendo mano mano degli appunti in un [p. 287 modifica] grosso libro. Finito ch’ebbe, s’alzò e disse, non senza un’insolita timidezza:

— Ora, se permettesse, signorina, vorrei ascol- tarla...

E, ad onta della visibile ripugnanza di Ma- nuela, egli le esplorò in presenza della madre molto commossa gli organi respiratori e il cuore, posando con grande esitanza la sua robusta testa bionda su quel petto fragile e un po’ ansante di ane- mica, fra le morbide trine che olezzavano di viola.

— È perfettamente sana! — disse egli termi- nando il suo coscienzioso esame. — Non abbiamo che il soffio anemico del cuore...

— Dunque guarirà? — domandò ansiosamente la marchesa.

— Lo spero, anzi me ne tengo quasi certo. Devo tuttavia ripetere che la cura non farà che assecondare le buone intenzioni della signorina... Il migliore, il più efficace nemico di certi mali siamo noi stessi, è il prodigioso elemento di rea- zione che si trova nel nostro spirito...

— La forza di volontà non può vincere la pal- pitazione! — disse Manuela con amarezza.

— Se non dipende da un vizio organico, la palpitazione si lascia dominare anch’essa, io lo credo perchè ne ho fatto l’esperienza — sostenne Rose tranquillamente. — Sono pochi gli ammalati di nervi che abbiano il coraggio di approfittare del farmaco che portano seco, inconsapevolmente; al solo parlarne, i più se ne offendono. Quei pochi, [p. 288 modifica] invece, che sanno dar retta a un buon consiglio, si sentono innalzati a una nuova dignità, fieri come di una grande conquista. Speriamo, signorina Manuela! Ella intanto si disponga al suo bagno: per la prima volta basterà una leggera spugnatura. Oggi, eccezionalmente, può farla qui in camera, per uscire poi subito all’aperto. Ee mando la bagnaiola e io intanto passeggio nel corridoio.

Scendere dal letto e farsi versare dell’acqua gelata sulle spalle non è sempre una delizia per i poveri ammalati di nervi e fra quella molestia e la ripugnanza di dover entrare in rapporti così confidenziali con una donna sconosciuta, Manuela superò malamente quella sgradevole prova. Vedendola presa da forte tremito la bagnaiola l’aiutò in fretta a vestirsi e la eccitò ad uscire, per la reazione, e un minuto dopo, in abito succinto, coperta da un gran mantello e accompagnata dalla cameriera, la fanciulla s’avviò alla passeggiata mattutina.

Il dottore, che aspettava fuori, le prese le mani diacce mentr’ella stava infilando i lunghissimi guanti:

— Questi li lasci da parte! — disse — non sono indicati. Se le sue manine diverranno brune, non sarà un gran male, potranno respirare liberamente da tutti i pori... Può levarsi anche il cappello, se vuole: a quest’ora il sole non nuoce.

Quand’ebbe varcato il portone dello stabilimento, parve a Manuela di sentirsi più sollevata. Il suo animo era molto turbato, ma l’allegrezza [p. 289 modifica] del giorno estivo che si diffondeva sul verde fresco dei castagni, sui prati fioriti di miosotidi azzurre e di rosee eritree era così contagiosa, che all’improvviso la sua contenuta giovinezza ebbe come un senso di entusiasmo doloroso, dinanzi alla confortevole serenità dell’alpestre paesaggio. Errò più d’un’ora nei dintorni dello stabilimento, cogliendo fiori e riscaldandosi ai primi raggi del sole, e fu con un senso di strano benessere che, al ritorno, sedette alla tavola della colazione, nella grande sala che cominciava a popolarsi, e gustò il suo bicchiere di latte appena munto, rosicchiando i tradizionali grissini piemontesi.

Ma, entro la giornata, quando il tedio del caldo cominciò a farsi sentire daccapo entro le anguste camerette dell’antico monastero, il fuggevolo entusiasmo di Manuela si mutò in un’amara tristezza, in un grave abbattimento. Stette molte ore seduta ad un tavolino, sorreggendo fra le mani la testa che le sembrava cerchiata di ferro. La marchesa accorata voleva avvertire il dottore, ma ella la supplicò di non dirgli nulla, e quando venne l’ora del secondo bagno s’avviò come una vittima verso il buio e tetro camerino per farvi la sua immersione. Col medico scambiò poche parole e la sera non ci fu verso di farla scendere in sala.

Dopo tre o quattro giorni di cura assai blanda, alternata fra bagnature e massaggio, Manuela sembrò sentirsi ancor meno bene e Rose cominciò a mettersi in angustia. [p. 290 modifica]

Una sera, dopo le undici, egli fu chiamato al letto della fanciulla ch’era stata presa da un’acuta nevralgia alle tempia, con sussulti convulsivi. Le sofferenze erano così vive e lo stato dell’inferma così angoscioso che il medico n’ebbe una profonda pietà, e dopo averle somministrato qualche piccolo rimedio, le sedette daccanto e rimase parte della notte colla marchesa, al suo capezzale, sempre aspettando che s’acquietasse.

Manuela non era più irritata e scontrosa, la sua alterezza malinconica, nella prostrazione di forze che succede agli assalti nervosi, aveva dato luogo a un dolce languore di persona ammalata. Ad un tratto ella disse con voce debolissima:

— È la cura che mi fa male, lo sento.

— Difatti, tra i miei numerosi pazienti, è forse l’unica che non ne tragga vantaggio — disse il medico — e benché io sia convinto che ciò dipenda dall’eccessiva ripugnanza con la quale ella l’ha intrapresa, non voglio ostinarmi... Smettiamo un poco, e cerchiamo di aiutarci con l’aria salubre, colla dieta, colle passeggiate; ne conviene, marchesa?

— M’affido a lei... — rispose con tristezza donna Cristina.

— È più contenta? va bene così? — chiese il giovane, allora, con singolare accento, chinandosi sovra i guanciali di Manuela, prendendo amorevolmente fra le sue le fredde manine ch’ella inconscia e indifferente gli abbandonava. [p. 291 modifica]

— Sì, la ringrazio. — E nel volto abbattuto della fanciulla lampeggiò uno sguardo di dolore così intenso che Rose n’ebbe trapassate le viscere.


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La domenica era un giorno di riposo anche per la cura. Dopo la lieve spugnatura al sorgere dal letto, pazienti e bagnaioli avevano tutti vacanza. I forestieri che meglio si reggevano in piedi profittavano di quelle ore di libertà per combinare qualche gita a Graglia, o ad Oropa, per fare la trottala lungo la pittorica valle del Cervo. I più infermi, rimasti padroni del luogo, se la spassavano nelle ombre del parco, felici di non udir rumore di fontane, nè di doccie. Un piacevole silenzio festivo regnava sulla casa. In quella loro prima domenica, le signore Aparia avevano preferito rimanersene fra g! invalidi, ma non si erano lasciate scorgere che all’ora del desinare.

Calava il crepuscolo e non era tornato ancor nessuno da fuori, quando giunse all’orecchio di Rose il suono d’una dolce melodia. Suonavano il pianoforte, in sala. Di solito qualche signorina strimpellava un pezzo insulso, venuto di moda entro l’anno, o una ragazzetta, esortata dalla madre amorosa, si esercitava ripetendo mattina e sera scale e preludi; ma questa era una mano diversa e nuova, una mano esperta che correva facile e con un tocco pastoso sulla tastiera. Gustavo Rose, cui le sonatine quotidiane solevano dare un [p. 292 modifica] invincibile fastidio, fa subito attratto da quella musica e si mise ad ascoltare, attentamente. li a melodia incalzava sopra accordi vibrati e dissonanti e erompeva con un trillo doloroso per morire in una flebile cadenza. Vi fu un silenzio. Adesso era il notturno in do minore di Chopin, quel mirabile sfogo musicale di passione e d’angoscia.

Il giovane s’avvicinò quasi involontariamente alle finestre del salotto di riunione che davano sul chiostro, in quell’ora affatto deserto, appoggiò la fronte ai vetri chiusi e da prima non fu capace di discernere nulla, tranne la veste bianca della suonatrice che metteva un lieve chiarore nella penombra, poi subito la riconobbe, distinse la testina pallida e fantasiosa, i morbidi capelli castani e il profilo fino che si disegnava nel vano di un’apertura di faccia. Manuela guardava in alto, cercando nella concentrazione della memoria le armonie che le fremevano sotto le dita come voci d’un interno, segreto affanno. Ancora una piccola gavotta spiritosa e triste insieme, di Scarlatti forse, poi la fanciulla s’alzò per uscire e Rose finse Rincontrarla a caso sulla porta della sala. Ella si lasciò sfuggire un atto di meraviglia, di contrarietà quasi, ma il medico si guardò dal confessare a quella creatura così fieramente gelosa di se stessa ch’egli aveva osato indagare, anzi studiare il segreto delle sue divagazioni musicali.

— Era qui lei, ora? — chiese Manuela per nascondere il suo imbarazzo. — Se l’avessi saputo... [p. 293 modifica]

— Vengo dal paese. Ma perchè questa domanda?...

— Perchè ho suonato e ho bisogno d’una grande solitudine quando suono.

— Il medico non conterebbe per nulla. Se vogliamo farci un concetto giusto del nostro paziente, è necessario che lo vediamo in tutte le sue fasi.

— In quale fase vuole che mi trovi io, quando sono al pianoforte?...

— Ella è senza dubbio commossa da una grande eccitazione dei nervi e dello spirito e io tengo per fermo che la musica deva nuocere all’estrema sensibilitá del suo temperamento.

— Anche questo, ora! Io non posso fare a meno della musica, ne ho bisogno come dell’aria che respiro...

— E se il rinunziarvi, per il momento, contribuisse alla sua guarigione?

— Guarire?... io non ci penso nemmeno, la morte mi sorride.

— La morte? A vent’anni? Quando ci sta dinanzi tutto un avvenire d’energia e di speranza?

— Io nulla spero e a nulla credo ormai — disse la fanciulla con fierezza.

— Tristi parole sulle sue labbra, signorina. C’è una cosa alla quale dobbiamo credere tutti, anche nel massimo sconforto, e questa è la possibilità di operare il bene. La mancanza d’ogni fede umana è anch’essa una forma dell’egoismo e non delle meno crudeli... Sua madre... [p. 294 modifica]

— Non mi parli di mia madre — interruppe Manuela con impeto, con un improvviso turbamento — lo vede anche lei che non posso mutarmi!

Discorrendo i due giovani s’erano avviati per il chiostro e facevano il giro del cortile.

Rose guardò l’esile figurina che gli camminava allato, leggera leggera, gli parve che il più lieve soffio maligno potesse atterrarla ed ebbe un brivido d’apprensione che nessun malato gli aveva mai fatto provare.

— E io — diss’egli, dopo un lungo silenzio — ho un desiderio ardente di guarirla; ella deve guarire!...

C’era tanto fuoco nell’esternazione di quel desiderio che Manuela si volse come attonita e tuttavia s’affrettò a rispondere:

— Ella non può guarirmi!

— Come, non posso? Lo voglio, Manuela, lo voglio!...

E nelle sue parole spirava una tale energia di volontà virile e dominatrice che la fanciulla si sentì diventar di fiamma e gli lanciò uno sguardo di ribellione e d’ira.

— Sono audace? non è vero? — domandò Rose dolcemente.

— Lei è un uomo che sogna! — disse Manuela colla più studiata indifferenza, e com’erano arrivati in prossimità d’una scala aggiunse un «buonasera» asciutto e lo lasciò.

Il medico andò incontro ai suoi pazienti che tornavano a frotte dalla gita, e nessuno gli lesse in volto il fiero tumulto che lo agitava. [p. 295 modifica]

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L’indomani, dovendo recarsi in una villa di faccia allo stabilimento, Gustavo Rose prese una scorciatoia e scese nella valletta che lo separava a nord dalle adiacenti colline. I sentieri erano stretti e ombreggiati da fitti alberi; non penetrava raggio di sole in quella deliziosa frescura; lo stormire delle foglie, il canto svariato degli uccelli, lo scroscio d’un torrente lontano si fondevano in un infinito accordo armonico nella dolce e verde penombra.

Giù nel fondo, l’incolta boscaglia faceva cornice ad una vasca di circa cinquanta metri di circonferenza, ove si spandeva il zampillo quieto e limpido d’una sorgente. Giunto in vista di quell’acqua il medico si fermò. Egli aveva scorto a traverso le frasche Manuela Aparia. La fanciulla toccava quasi l’orlo della vasca e ne fissava intensamente lo specchio. Si ritrasse quindi e dopo aver volto uno sguardo in giro come per assicurarsi della sua solitudine, si mise a cantare. Non era una gran voce ma così intonata e così toccante che il giovane stette immobile ad ascoltarla come se una ninfa boschereccia fosse venuta dal mondo dei sogni a posarsi in quel luogo romito.

La mort vient et me délivre
Des souffrances de mon cœur,
Sans toi je ne puis plus vivre,
Je succombe á ma douleur.
Hélas, hélas.....

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Il lamento appassionato echeggiava da lontano e le roccie rispondevano tristamente: Hélas, Hélas!

Rose attese la seconda strofa della bella canzone russa ed essa venne ancor più mesta della prima, poi indugiò ancora a proseguire il suo cammino.

Manuela non cantava più, e, secondo la sua abitudine, s’era appoggiata ad un tronco e stava colla testa china, pensando. Si credeva e si sentiva sola. Rose ebbe qualche minuto d’esitanza, poi scese, risoluto di passar oltre con un semplice saluto per non irritarla, ma, con sua meraviglia, fu la fanciulla che, senza dissimulare la sua consueta diffidenza, lo trattenne, interrogando:

— Dottore, si può nuotare in questo bacino?

— È piuttosto profondo e l’acqua n’è assai fredda, nei giorni buoni non raggiunge più di quattordici gradi — disse Rose. — Molti uomini tentarono la prova e se ne risentirono.....

— A me non farebbe niente, ne sono certa — interruppe Manuela — e voglio provare.

— Vorrebbe esporsi a un tale rischio, quando non tollera un’immersione di pochi secondi?

— L’immersione fa parte di una cura noiosa o questo invece sarebbe un sollievo.

Il giovane ebbe un sorriso che richiamò un lieve rossore sulle guancie pallide di lei, nondimeno egli rispose:

— Ci si provi pure, io non voglio troppo [p. 297 modifica] contradirla, e acconsento purché mi conceda di staro io stesso qui vicino nel bosco ond’essere pronto in caso di bisogno.

— A questa condizione non accetto io; so nuotare benissimo e non mi occorre alcuna sorveglianza.

Il giovane la guardò, di sfuggita, ma con un tale sguardo ch’ella dovette abbassare gli occhi, indi concluse con dolce risolutezza:

— Allora non ne facciamo nulla.

Poi, vedendo che Manuela taceva, soggiunse con voce bassa, un po’ velata dallo sforzo:

— Non ne facciamo nulla nemmeno della sua cura, nulla! Se il paziente non s’affida al medico, se non esiste un po’ di confidente abbandono, noi dobbiamo agire a tentoni, alla cieca.....

La fanciulla sospirò, senza rispondere, molto annoiata. Ella si appoggiava sempre al suo albero con un vago atteggiamento di sfida, ed egli prosegui senza più porvi mente:

— Oh! s’ella potesse penetrare nei segreti della nostra professione, nelle brame ardenti che destano in noi i nostri ammalati e nelle mortali angoscio che ci cagionano, forse non si conterrebbe così. Io ho abbracciato questa vita di sacrifizio, non sorrida! con tutto l’entusiasmo della mia fidente giovinezza, pensando che la sola mia volontà dovesse bastarmi per raggiungere lo scopo; m’avvidi poi che senza la valida contribuzione degli infermi non possiamo riescire a buon fine, perchè in fondo [p. 298 modifica] i nostri sforzi male assecondati diventano nulli; è molto se, talvolta, il nome nostro, il nostro avvenire non rimangono in balìa del loro capriccio. Non parlo delle malattie acute, la diagnosi n’è quasi sempre sicura, parlo delle nevrosi e degli isterismi che sono il frutto della eccitazione febbrile in cui si chiude il nostro secolo e dei quali io mi sono particolarmente occupato. Furon indefessi i miei studi, ma saranno sempre troppo scarsi per il vastissimo soggetto; tuttavia dalle mie continue osservazioni ho tratto questo sicuro principio; indagare il cuore dell’ammalato per avere la chiave delle sue sofferenze e se v’ha una guarigione possibile, del rimedio. Lo comprendo — soggiunse egli più piano ancora — tale pretesa può sembrare molto indiscreta, ma Dio buono! quando si pensa che migliaia d’infermi aprono così spontaneamente 1 animo loro e che in ciascheduno, in fondo, il medico non trova che miseria o dolore, il suo irresistibile desiderio d’analisi non può essere considerato come una ignobile curiosità.

Manuela aveva strappato un ramoscello da un cespuglio vicino e lo andava masticando coi suoi dentini bianchi.

— Una predica in piena Arcadia! — diss’ella accennando al paesaggio circostante.

Il giovane si fece di fiamma ed ebbe come un doloroso lampeggiamento nello sguardo, ma egli possedeva la tolleranza che dà la superiorità serena dello spirito, perciò si vinse subito e, toccando il suo cappello, rispose: [p. 299 modifica]

— Nell’aprirle il mio cuore ho creduto di darle il buon esempio..... Vedo che mi sono ingannato e riprendo il cammino.....

E s’allontanò rapidamente, ma quando fu giunto presso alla villa gli venne ancora da lontano all’orecchio il flebile lamento di quella voce così giovanile e così triste:

Hélas! hélas!


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A tavola, quella sera, il medico fu più serio dell’usato. Manuela conversava con Samara, il giovane tisico che le stava vicino. Renitente a proferire la triste parola in italiano egli le diceva spesso: Je suis poitrinaire, je suis poitrinaire! e poi si dava alla più pazza vita, scorrazzando nei dintorni senz’alcun riguardo alla sua salute, ballando e bevendo per stordirsi. Rose aveva molto esitato a riceverlo perchè l’idroterapia poteva riescirgli più che inutile, nociva, ma poi, preso da infinita compassione di quella sua condannata giovinezza, non era stato capace di ricusargli un pietoso asilo e gli ordinava un solo breve bagno al giorno con l’acqua temperata. Quell’infermo costava al medico coscienzioso innumerevoli cure e precauzioni per evitare agli altri bagnanti i pericoli del contatto, specie ai giovani, e la sua vicinanza con Manuela gli dava non lieve pena.

Le signore Diodato arrischiavano anche loro, adesso, qualche sommessa parola, e il malato di [p. 300 modifica] spinite, che cominciava a fare i primi passi senza sostegno, si lasciava sfuggire di tratto in tratto un motto di spirito; una momentanea serenità era scesa su quel piccolo crocchio di gente predominata dalla tristezza, dalla noia, dalle più penose apprensioni.

Quando uscirono tutti dalla sala, la marchesa non volle assolutamente che la sua figliuola risalisse nella sua camera, ma la costrinse a rimanere nel chiostro e si mise a passeggiare con Samara e con un nuovo arrivato, il conte Francavilla di Pisa, che le conosceva di nome e s’era fatto subito presentare.

Gustavo Rose sedeva accanto ad una contadina ch’era venuta quella sera e alla quale aveva serbato una delle migliori camere dello stabilimento, t con grande meraviglia di diverse signore male alloggiate. Egli le parlava piano ed ascoltava, attentissimamente, un lungo racconto che la donna gli veniva facendo. Non alzò il capo nemmeno dinanzi a Manuela, tanto pareva assorto in quel colloquio: era d’altronde occupatissimo per i continui arrivi della giornata; difatti in mezzo ai crocchi dei bagnanti già affiatati fra loro, i forestieri, i novellini si vedevano passeggiare solitari e come turbati dal loro momentaneo isolamento.

Più tardi una brigatella andò in sala a far musica, e le ragazze Mevi, ch’erano infatuate di Manuela, ve la trascinarono contro voglia.

Volevano che suonasse, ma ella vi si rifiutava ostinatamente e finì per dire: [p. 301 modifica]

— Non posso, non posso, il dottore me l’ha proibito.

Mentre le signore protestavano contro quella scusa, ella volse all’intorno lo sguardo accorato in cerca di Rose che non c’era, e sempre più stizzita e ferma nel suo diniego esclamò:

— Il dottore! il dottore! lo chiamino!

Filippo Parny, il solitario ipocondriaco che stava fra la gente per obbedire al medico e che aveva in orrore tutte quelle amabili violenze sociali, andò diritto ad avvertire Rose, nel suo studio. Quando il giovane, sorpreso, comparve in sala, Manuela fece alcuni passi verso di lui e gli chiese con un luminoso sorriso:

— Dica, dottore, non è vero che mi ha proibito di suonare?

Lo sguardo e l’accento erano supplichevoli.

Una fugace espressione d’ironica meraviglia passò sul volto di Rose, tuttavia egli aderì subito, generosamente, a quel capriccio, dichiarando che in fatti era d’avviso che la signorina Aparia dovesse astenersene e che non poteva a meno d’ammirare la docilità della sua paziente.

Allora un giovinotto si mise e strimpellare un ballabile e alcune coppie si lasciarono sedurre dal ritmo invitante. Rose non disapprovava il ballo, ritenendolo per certuni Un buon esercizio ginnastico, e qualche Volta, stava perfino a vedere, per quanto malinconica potesse sembrargli una danza fra persone mezze inferme o sofferenti. Quella sera [p. 302 modifica] si trattenne pochi minuti, tanto da udire un breve dialogo di Manuela col conte Francavilla che l’aveva pregata di accordargli una mazurka.

— Non ballo mai! — insisteva la fanciulla.

— Mai, proprio mai?

— Ballai con passione, da bambina, ora vi ho rinunziato.

— Ha fatto un voto?

— Non vale la pena di far dei voti per questo! — E ringraziandolo freddamente Manuela era andata a sedere in un angolo della sala presso Eva Antella.

Rose tornò alle sue occupazioni con un vago senso di sollievo nell’anima, ma più tardi vide che il lume della torretta non si spegneva mai, ed era lassù che Manuela soleva vegliare nelle sue notti d’insonnia.

Il giorno appresso mentre ella era fuori a passeggiare, donna Cristina mandò per il medico e dolendosi colle lagrime agli occhi delle stranezze della figliuola, lo supplicò di volersi interporre colla sua autorità onde ripigliasse la cura, altrimenti la loro presenza nello stabilimento si sarebbe resa inutile.

Gustavo Rose le dimostrò come ogni suo tentativo fin li fosse rimasto infruttuoso, aggiunse però non disperare del tutto e promise di non desistere. Era di quelle tempre che l’ostacolo infiamma.

— Non so dirle quanti crucci mi dia questa [p. 303 modifica] figliuola!... senza tema di peccare di vanità materna, posso dire che non è una creatura comune. Fin da bambina fu molto precoce, ad onta di ciò equilibrata ed allegra di temperamento. Ad un tratto qualche cosa di grave è venuto a turbare la sua serena giovinezza e la sua salute prima sempre perfetta. Da molto tempo Manuela è mutata, indolente, malinconica, disdegnosa della società, e di qualunque diletto... Anche un po’ strana, se si vuole. Chi più di lei, dottore, ha avuta campo di accorgersi delle sue bizzarrie?

Rose ascoltava, ascoltava. Finalmente egli disse:

— Mi pare che già nel primo giorno, marchesa, io le avessi lasciato trapelare il sospetta che le sofferenze della signorina potessero dipendere da qualche turbamento della sua anima.

— Me ne ricordo, ma non risposi perchè non non so nulla di sicuro ed è cosa vana l’interrogare Manuela. Mia figlia non mi aveva mai nascosto un solo pensiero, ma adesso è impenetrabile nel suo segreto se segreto vi è... Due anni fa, fu fidanzata con un suo cugino, un bravissima giovane che amo tanto, e per il quale ella aveva dimostrato un’ardente simpatia. Un giorno ci accorgemmo che c’era della tensione nei loro rapporti; poco tempo dopo egli ci annunciò che Manuela lo aveva costretto a ritirare la sua parola per incompatibilità di carattere e noi dovemmo accettare questa scusa perchè non ci fu modo di [p. 304 modifica] saper altro. Il giovane era sinceramente innamorato e sembrava afflittissimo. Manuela invece era molto conturbata e da quel tempo cominciò l’alterazione profonda del suo organismo.

— La cagione del disgusto fu evidentemente assai grave — disse Rose, con un tremito nella voce.

— Ho pensato e ripensato senza venirne a capo. Potrebbe darsi che l’assoluta differenza di principi avesse influito sull’animo di Manuela ch’è sempre stata molto pia, mentre mio nipote si mostrava imbevuto d’idee materialiste... Erano infinite le loro discussioni su quest’argomento..

— Indaghiamo, indaghiamo ancora insistette Rose. — La signorina Aparia deve riavere la salute, ma è necessario che anzi tutto si ristabilisca in lei l’equilibrio morale...

— Lo voglia Iddio! — disse donna Cristina ch’era un’ottima madre, ma poco profonda e perciò un’alleata inefficace.

Mentre discorrevano, s’udì il passo leggero di Manuela che saliva sulla torretta e ch’entrò come una folata di vento, con un gran fascio di fiori in mano.

Alla vista del medico ella s’oscurò in viso, ma poi finì per dire ridendo:

— Ecco i congiurati!

Pareva più serena, più amabile del solito, ma ad un tratto s’accorse che sua madre aveva pianto, e fattasi di porpora, domandò con una certa asprezza: [p. 305 modifica]

— Perchè piangi? che cosa è accaduto? E come nessuno rispondeva, continuò: — Già! parlavate della mia cura.. è per questo che piangi? — e con uno slancio di tenerezza le gettò le braccia al collo esclamando: — Va, mamma, se è per questo, domani la riprenderò, farò quattro, cinque bagni al giorno, se volete, andrò a morire nell’acqua!

Poi, dopo avere asciugate le lagrime di sua madre coi baci, senza degnare il medico di uno sguardo, si mise a disporre con un garbo tutto proprio le felci, gli aconiti azzurri, le belle digitali gialle nelle rozze brocche di terra che Adele aveva comperate in paese.

Quando Rose s’alzò, ella si volse e disse con fredda risolutezza: — Domani, dunque, immersioni, doccie, massaggio, elettroterapia!

Il giovane fece un inchino e uscì rattristato. Quella singolare fanciulla lo irritava, lo stizziva e lo affascinava ad un tempo colla più tormentosa malìa. Il desiderio di vincere quella piccola battaglia lo agitava fortemente e per quanto si studiasse d’attribuire la propria inquietezza ad un istinto professionale, in fondo la ragione sempre desta, sempre pronta all’analisi, gli diceva che ben diverso affanno era il suo.


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Una mattina, entrando nella chiesetta dello stabilimento per cercarvi il sagrestano, Rose vide, [p. 306 modifica] dinanzi a uno degli altari laterali, una figura genuflessa. Era lei, era Manuela in atto di fervente preghiera. L’amarezza che s’era a poco a poco accumulata nel cuore del medico contro la ribelle inferma, si dissipò alla vista della fanciulla orante. E passò in punta di piedi, per uscire da un’altra porta, per non distoglierla dal suo raccoglimento, ma si sentì più che mai turbato.

Qualche giorno appresso egli ebbe un’altra sorpresa. Era sceso nel villaggio per visitare la figlia quindicenne d’una bagnaiola, che s’andava lentamente consumando di mal sottile. Quand’egli entrò nella povera cameretta, Manuela stava seduta al capezzale della malata e s’affrettò d’alzarsi per cedergli il posto. Rose fu colto da una palpitazione violentissima e quasi irrefrenabile. La signorina Aparia prese subito congedo, non senz’essersi chinata a baciare in fronte la sofferente giovinetta il cui sorriso rassegnato spirava un’insolita contentezza, le cui mani scarne stringevano con trasporto alcuni fiori coi quali la visitatrice aveva forse accompagnato qualche suo più utile dono. Manuela era molto pallida in quel giorno e il medico, commosso da quell’incontro che gli rivelava un sì nobile istinto di pietà nell’animo della sua paziente, allarmato dalla sua espressione di patimento, si diede premura di raggiungerla.

Ell’era difatti poco discosto e camminava adagio, affaticata, con una languidezza d’inferma. Quando le fu dappresso il giovine s’accorse che [p. 307 modifica] il suo volto era contratto dallo sforzo d’un interno combattimento e le domandò, non senza esitanza, se gli permettesse d’accompagnarla.

— Grazie, risaliamo insieme, ma prendiamo la via più lunga; non sono stata più capace di riscaldarmi dopo quella doccia. Ha tempo, dottore? — chiese la fanciulla con una dolcezza triste e affatto insolita?

— Ho sempre tempo per lei... — mormorò Rose, prendendole una delle mani ch’ella lasciava pendere inerti e fredde. — Non ha fatto la reazione?

— Non so, non mi ricordo.

— Eppure le avevo tanto raccomandato....

— Sì, ha ragione Lei è molto buono con me, lo riconosco, vedo che ho torto, ma non ho la forza di vincermi.

Camminarono, salendo, alcuni minuti uno accanto all’altra, in silenzio e lentamente perchè Manuela a stento si reggeva. Erano giunti, di viale in viale, a metà dell’altura e, senz’avvedersene, si inoltrarono sotto un lungo pergolato che faceva parte del parco e che finiva in un capanno di lauri. Ivi giunta la fanciulla si lasciò cadere, tutta palpitante, su una panca e, con voce soffocata uscì in un gemito:

— Io mi sento morire, mi sento morire!...

— Coraggio, coraggio, per carità, i mezzi di guarire stanno in lei! — mormorò Rose.

— Ma io non desidero di guarire! — esclamò [p. 308 modifica] Manuela con un ritorno di ribellione e di fierezza. — Mi pesa soltanto di morire così giorno per giorno, ora per ora...

— Cerchi nel fondo della sua anima e troverà la malsana cagione di un sì grande sconforto.

— Nel fondo della mia anima? Qual diritto ha ella di dirmi questo?

— Come uomo, nessuno certamente; come medico, ne ho molti. La marchesa l’ha affidata alle mie cure e io devo valermi di tutti i mezzi leciti per raggiungere il mio scopo. Del resto, senta, sono avvezzo a leggere nello sguardo de’ miei ammalati e ho letto anche nel suo!

— Oh!...

— Sì, Manuela, tutto in lei tradisce un grave patimento dello spirito....

Rose era sicuro del suo asserto, nondimeno egli guardò la fanciulla con un senso di apprensione angosciosa. Ella non rispose, ma fu presa da un tale tremito che il medico n’ebbe gran pena e soggiunse con amorevolezza:

— Ma perchè questa diffidenza? perchè mi tiene così indegno della sua fiducia? Sono giovane anch’io e so comprendere le tempeste della giovinezza.

Manuela alzò gli occhi, smarrita.

— Ella ha forse bisogno di resistere e di vincere... — proseguì Rose — e ove io possa venirle in aiuto coi suggerimenti della ragione, disponga di me come d’un amico... [p. 309 modifica]

— La ragione, la fredda ragione! Ella parla come si trattasse di farsi amputare un braccio!

— Il dominio della ragione, Manuela, è una forza che c’è dato conquistare.

— Si potrà imporre il silenzio, si potrà simulare l’indifferenza, ma comandare a se stessi di non amare, no, questo non si può...

— L’amore è un sentimento divino — disse Rose impallidendo — ma non sarà mai sano nè utile al nostro sviluppò morale, qualora la mente convinta non possa dirigerlo e dominarlo. Un amore ben posto dev’essere la nostra salute, Manuela, ma quando certe affezioni ci limano la vita, è nostro dovere di combatterle come elementi di sventura.

— Io vorrei amare sempre e morire — proruppe la fanciulla con accento desolato — e pur sento qualche volta, in fondo alla mia coscienza, una voce arcana che mi dice: lotta, guarisci e vivi!

Era come l’inconscio grido della giovinezza ferita che si rivolta ai dolore.

— Ah finalmente, ecco una buona parola! — esclamò Rose colla gioia del chirurgo che ha trovata la palla nemica nel fianco del soldato caduto in battaglia.

La fanciulla s’era coperto il volto mormorando:

— Ella non sa nulla, non sa nulla!

Il dottore, ch’era sempre stato in piedi accanto [p. 310 modifica] a lei, fece alcuni passi, turbatissimo. Un senso di penosa apprensione gl’impediva di parlare.

Ad un tratto la fanciulla sollevò il bianco viso e disse con un po’ di durezza, la durezza dei giorni tristi:

— Quando avrà saputo, a che cosa gioverà?..

Il medico scosse la testa con un amaro sorriso.

— Io non le domando delle rivelazioni — mormorò egli - mi confessi che il suo cuore soffre, ciò mi basta..

— No, Rose, tutto o nulla. Non voglio lasciar sfuggire indarno quest’ora che certamente non tornerà mai più... Ella mantenga scrupolosamente il mio segreto perchè anch’io dovetti giurare un giorno che mia madre ignorerebbe ogni cosa... In tal modo mi fu tolta l’unica consolazione che potesse essermi concessa...

Ella parlava con grande abbandono, ma senza perdere il suo fare un po’ altero.

— Dio mio, può ella comprendermi? Un uomo sa egli penetrare in queste amarezze?

— Lo spero... — balbettò Rose.

— Badi, dottore, la storia è triste e v’è forse qualche particolare disdicevole nella bocca d’una fanciulla... ma ho tanto penato che la mia mente non si conturba più come una volta... Mia madre le avrà detto certamente che fui alcun tempo fidanzata con un mio cugino. Mio padre l’aveva preso in casa da fanciulletto, perchè era orfano, e [p. 311 modifica] lo ha educato coi miei fratelli; siamo cresciuti insieme. Eravamo molto giovani ancora quand’io m’accorsi d’amarlo; egli certamente non m’amava. Nondimeno mi chiese d’essere sua e i miei genitori ci permisero di scambiare una segreta promessa, in attesa del tempo in cui, compiuti gli studi, Ermanno avrebbe potuto sposarmi. Due anni di contentezza!... La lontananza stessa (egli frequentava l’Università di Roma) mi si raddolciva al pensiero di quel sognato avvenire, le sue lettere formavano la mia gioia; ha un sì chiaro ingegno, una natura così geniale, Ermanno! — E nel proferire a bassa voce il suo nome, Manuela arrossiva. — Egli era ripartito da qualche mese dopo le allegre vacanze di Natale, quando una mattina, per tempo, una delle nostre cameriere, una bella ragazza, giovanissima, entrò nella mia stanza, piangendo angosciosamente. Lontana da ogni sospetto, cercai d’indagare la causa d’una sì grande afflizione, per consolarla... Ad un tratto mi si getta dinanzi in ginocchio, s’avviticchia a me supplicandomi d’aver pietà, il nome del mio fidanzato le viene alle labbra. Nella mia ingenuità non riescivo a capire... Allora, allora... ella parlò più chiaro e io ho dovuto udire la più terribile delle confessioni! Egli, Ermanno l’aveva sedotta! Non si meravigli, Rose, della mia franchezza. Io, prima, sapevo ben poco delle umane miserie, avevo diciott’anni e la mia casa era stata sempre come un tempio; il velo si lacerò tutto in un tratto, e [p. 312 modifica] la sozza realtà che intravvidi mi mutò. Non fui più quella. Mi sentii crescere gli anni sul capo, una sola esperienza basta’ per la vita, è una vecchia che le parla, Rose. Quella ragazza destava in me una compassione mista di ribrezzo; i rapporti in cui mi trovavo con mio cugino non le erano certamente ignoti e nell’effondersi direttamente con me, non so s’ella seguisse un ignobile istinto di vendetta, o il desiderio di salvarmi. Io però, cosa strana, non ebbi alcun dubbio sulla verità della sua rivelazione. Ella esigeva il segreto, glielo promisi, le promisi che avrei parlato ad Ermanno, che l’avrei indotto ad una giusta riparazione, pur ch’ella consentisse a licenziarsi subito, con qualche scusa, dal nostro servizio. La sua presenza non m era sopportabile. Ciò accadde infatti, ma, Dio buono, lo strazio dei giorni che seguirono! Il tormento della necessaria dissimulazione!... Per fortuna ammalai con una febbre ardente e non fui costretta di scrivere a mio cugino. Aspettavo con angoscia il suo arrivo e appena egli fu giunto colsi il primo momento opportuno per parlargli. Ero in giardino ed egli venne a me, con tenerezza, accennando all’avvenire non molto lontano ormai, chiedendomi ansiosamente la cagione del mio contegno gelido... Un impeto d’ira mi prese allora, ed ebbi la forza di dirgli tutto, di rinfacciargli i suoi torti, di ricordargli quali doveri lo allontanassero da me. Non so come osassi parlargli di certe cose, m’era venuto un coraggio strano. [p. 313 modifica] In principio, Ermanno tentò di negare, ma debolmente; non poteva negare; mostrò poi un cinismo ributtante sorridendo quasi della mia collera, dandomi della bambina inesperta. Mi disse che non potevo sapere, che quella era stata una scappata, giovanile, che non aveva nulla a che fare coll’amore ch’io gl’ispiravo, che avrebbe provveduto all esistenza di quella disgraziata e al piccino... poi, tornando in sè, mi pregò di perdonargli, di non pensarvi più, che certo sarebbe buono... Io gli dichiarai che mai più avrei consentito a essere sua moglie. Egli insistette molto, ostinatamente, o forse le sue lusinghiere parole avrebbero potuto farmi cedere, se non si fosse ribellata la mia coscienza. Vedendomi così risoluta, mi chiese, nel suo freddo egoismo, che prendessi sovra di me tutta la responsabilità di quella rottura e mi fece giurare che dinanzi ai miei genitori serberei gelosamente il segreto delle cose successe: egli temeva più il loro corruccio del mio. Anche stavolta promisi e accettai, purch’egli mi desse parola di partire subito. Io rimasi come fulminata e credetti qualche tempo che il mio cuore fosse morto. I miei genitori, molto sorpresi da prima della mia ingiustificata determinazione, si mostrarono indulgenti e pietosi appena, la mia salute comincio ad alterarsi. Le turbe nervose erano così forti che il mio spirito non aveva più coscienza di sè. Ma un giorno, dopo molti mesi di patimento, esso si destò con particolare lucidezza, io tornai a pensare, io sentii battere il [p. 314 modifica] mio cuore, io m’accorsi che amavo ancora e peggio di prima... ma non era più un tranquillo affetto, era un tormento di passione.

Manuela aveva parlato piano, interrottamente, con una gravità superiore ai suoi vent’anni. Finito il racconto, ella disse con profonda tristezza:

— Ora, Rose, ella conosce l’origine della mia malattia, ora ella potrà comprendere il contrasto che mi lima la vita...

— La sua confidenza m’onora, e la sua afflizione mi dà una grande pena — disse il giovane altamente commosso — ma le cose non sono tali da escludere il rimedio. Il perdono è dolce, Manuela.

— Il perdono? Ho perdonato, sono cristiana. E come non gli avrei perdonato se l’amo ancora? Ma a che giova?

— Egli potrà ravvedersi... vi sono delle grandi follie giovanili.

— Come potrei sposare un uomo che non m’ispira una perfetta stima e che ha degli altri doveri?

— Certi errori non sono sempre senza scusa... In quanto al dovere, la società non è così esigente...

— A questa società codarda io non appartengo, e s’ella, Rose, la giustifica, io la compiango; non vi sono scuse e non v’è che una sola legge morale.

— Quanto l’ammiro! — esclamò Rose sempre più commosso e turbato — com’è raro trovare, anche nella donna, questa scrupolosa onestà di [p. 315 modifica] sentimento!... Se le donne, se le fanciulle stesse non transigessero con tanta indifferenza, noi diverremmo migliori! Ma non è giusto ch’ella ne soffra tanto, Manuela, è cosa indegna della sua tempra il lasciarsi sopraffare e abbattere dagl’istinti..

— Lo so, lo sento, la mia dignità offesa si ribella, ma l’inclinazione istintiva prevale; ho sempre avuto orrore dei sentimenti che passano e si trasformano e l’ideale della mia giovinezza è stato la fedeltà del pensiero... È un’aspra battaglia la mia e la salute n’esce infranta... se sapesse quanto soffro!

— Lo vedo, pur troppo, ma non credo che sia una sofferenza senza rimedio. C’è nel fondo della sua natura una somma troppo forte di energia latente perch’ella debba soggiacere. Il segreto sta nell’ottenere un giusto equilibrio fra la mente e il cuore.

— M’aiuti dunque! — esclamò la fanciulla con un accento d’implorazione affatto nuovo. — Io non meriterei ch’ella s’occupasse di me, perchè fui ingrata, lo riconosco. Ma fin dal primo giorno io m’accorsi ch’ella mi leggeva tutto in fronte e la mia fierezza si drizzava contro questa intuizione inevitabile...

— E molesta, non è vero? — disse Rose con un triste sorriso. — Ma ora eli’ ha compreso che il medico dev’essere un amico e se me lo consente io impegnerò tutte le mie forze per insegnarle a lottare, a vincere, a dare sovrattutto un sano indirizzo al suo pensiero... [p. 316 modifica]

— I campi infiniti del pensiero sono dolorosi tutti per me e il mondo è deserto...

— Ne convengo, ma questo è uno stato di malattia... Il dominio sull’immaginazione è uno dei primi elementi della felicità umana. Se qualche volta abbiamo goduto, sognando dolcezze che poi non ci furono concesse, quante angustie ci costa la tema di certi guai che non accadono!... Tenere in briglia la fantasia avvezza a perdersi in sconsolate divagazioni, ed esercitare la volontà rimasta da molto tempo inerte, ecco il suo còmpito, Manuela, e i migliori mezzi per adempierlo sono la distrazione e l’attività materiale... Assegni al lavoro un alto scopo, la carità, e subito sentirà scendere dall’alto un’energia rigeneratrice. Nella con siderazione della miseria altrui, verso la quale mi sembra giá inclinata, ella troverà più facilmente l’oblio delle proprie pene, ella perderà di vista sé stessa per ritrovare un giorno una individualità forte, serena nel suo rinnovamento. E mentre abbiamo la fortuna di vederla ospite nel nostro povero convento, supplisca a quell’attività col moto, passeggi molto nei boschi, nei prati, in vista del lontano orizzonte, aspiri molt’aria, assorba avidamente i raggi del sole, faccia una vita intima colla natura, colla grande, divina consolatrice’ Mi perdoni, mi perdoni Manuela, se insisto così! Sono tenace, lo so, e pedante forse... mi scorre un po' di sangue tedesco nelle vene. Ma ho una fede sicura nelle mie teorie, sono certo che colla pace [p. 317 modifica] dell’anima la sua salute rifiorirà e lo un desiderio così ardente dì guarirla!...

Mentre diceva così i suoi occhi bruni e perspicaci di pensatore cercarono per la prima volta con tutta la loro intensità lo sguardo abbattuto di Manuela che li sostenne, impassibile, ma con un vago cenno d’assentimento. Ell’era rimasta un minuto pensosa, colla fronte china sul seno un poco ansante. Ad un tratto si scosse e disse:

— Non un cenno di quanto le narrai... nemmeno con me, sa... non troverei forse più la forza di riparlargliene.

Rose si portò la mano al petto.

— Ora devo andare — concluse la fanciulla, alzandosi, ma quando fu in piedi ebbe Un sussulto e vacillò.

— Vuole un appoggio? Non può camminare da sola!

— No, no, dottore, grazie. Mi lasci, sarà meglio... Ci rivedremo più tardi!

Ella porse la sua manina gelida al giovine che s’inchinava e si allontanò con un passo incerto e stanco. Rose la seguì collo sguardo finche disparve in fondo al pergolato, nell’allegrezza luminosa dell’ora meridiana. Era una figurina così gentile col suo leggero vestito bianco seminato di fiorellini lilla e il largo cappello di paglia un po’ sollevato sulla pallida fronte e tutto inghirlandato di astri alpini! Nella sua natura indocile e schiva c’era tanta grazia, tanta inconsapevole seduzione!... [p. 318 modifica]

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Il giorno appresso, rivedendo il dottore da sola in un corridoio, la fanciulla gli disse piano:

— Nella crudele insonnia di stanotte ho preso la risoluzione di seguire i suoi consigli e mi proverò...

Poi passò oltre, con un leggero saluto, senz’attendere la risposta. Ma fu di parola, e si mise a fare la cura con assiduità, proponendosi di non vivere più così ritirata. Erano sopravvenuti nuovi forestieri e diversi gruppi s’eran formati secondo la loro provenienza. La marchesa era riescita a raccogliere intorno a sè e alla figliuola le persone più simpatiche e per bene e faceva vita con loro, nel chiostro, in giardino, nella sala di ritrovo. Qualche giovinotto aveva tentato d’avvicinarsi a Manuela e vi fu anzi una bagnante pettegola, la signora Bruni, che s’incaricò di narrare al medico come il conte Francavilla ne fosse invaghito. Rose, sempre più occupato, poteva appena intrattenersi pochi minuti la sera, dopo cena, con la signorina Aparia per darle qualche suggerimento, ma non erano mai soli e egli doveva limitarsi a giudicare dei suoi progressi dall’aspetto. Difatti la fanciulla pareva alquanto mutata. Sulle sue smorte guance s’era diffuso un po’ d’incarnato, la sua andatura era più certa, più limpida la sua voce.

Una sera, passando nel chiostro davanti al medico, si fermò e gli disse: [p. 319 modifica]

— Oggi, dottore, ho vinto. M’aveva preso il mio solito malessere, ho tentato di dominarlo... tremavo tutta... ho fatto un grande sforzo, ma vi sono riescita! ho voluto!...

Una fiamma divampò sul volto del giovane.

— Vede! — sclamò egli — vede come si può ottenere, quando si vuole? Il primo successo, quello che ci dà il convincimento della nostra forza, è il più difficile: col tempo la lotta si fa sempre meno ardua. Ella ha cominciato bene, Manuela, ella raggiungerà l’indipendenza dello spirito ch’è uno dei migliori elementi di felicità.

— Ah non so, non so!... Sento che il mio pensiero dovrebbe elevarsi ad una grande altezza per avere la pace a cui aspiro.

Era così amabile Manuela in quel momento, dal suo volto un po’ scolorato rifulgeva un sì vivido raggio d’intelligenza, che Rose ne fu rapito.

— Si ricordi che la vittoria sopra sè stesso è uno dei più grandi eroismi! — diss’egli — ed è solo mirando in alto che realmente si vince.

Manuela sorrise. In quella creatura fine e sdegnosa il sorriso aveva un fascino. Rose sperò che si trattenesse un poco ancora con lui, ma la marchesa passava allora allora con Franca villa ed ella s’affrettò di raggiungerli per la passeggiata.

L’indomani era domenica e per la prima volta le signore Aparia, ad esempio degli altri bagnanti, si assentarono dallo stabilimento. Rose le vide partire insieme alla signora Antella, alla quale [p. 320 modifica] erano legate da una pietosa simpatia, e a Samara ch’era salito a cassetto della loro carrozza.

Quella partenza gli aveva lasciato un senso di dolore nell’anima e per la prima volta egli tornava alle sue stanze senza energia, senza il solito entusiasmo per la sua caritatevole missione. In quel giorno di maggiore libertà volle occuparsi della monografia che da qualche tempo trascurava, ma vi riesci soltanto in seguito ad un violento sforzo, mettendo a profitto, anche per proprio conto, le massime che insegnava agli altri; non fu però capace di superare un’impressione di vuoto cocente che gli faceva presentire tutta l’amarezza dei distacchi futuri. Il desiderio ardentissimo ch’egli provava del suo ritorno gli rivelò ad un tratto la cagione dell’angoscia che da qualche tempo lo veniva travagliando: egli amava Manuela.

Sebbene non si concedesse di vederla spesso, egli ne sentiva la presenza allo stabilimento come un’infinita e nuova dolcezza che gli aleggiasse d’intorno. Ma Manuela andrebbe lontana ed egli non saprebbe forse più nulla di lei... Qual silenzio tormentoso! qual terribile oscurità nella sua vita!...

Per scongiurare l’affannosa visione dell’avvenire, la sera, nell’ora triste del crepuscolo, egli scese nella piazza del villaggio ove le carrozze dei bagnanti il più delle volte si fermavano. Era suo costume di riceverli al ritorno da quelle escursioni. [p. 321 modifica]

Risuonavano già da lontano i campanelli delle pariglie campestri e l’allegra fila di legni non tardò a giungere a festoso trotto. La marchesa e Manuela erano nel terzo landau e Gustavo Rose, che aveva aguzzato indarno lo sguardo nella penombra, si trovò per istinto dinanzi a quello.

Egli aiutò le signore a scendere e Manuela, mostrandogli un mazzo gigantesco di poligoni e di campanule, gli disse vivacemente:

— Oh dottore, Oropa è incantevole! quanti fiori e qual vista sublime! Non avrei voluto partire mai, è un vero luogo per guarire, lassù!

Ma, accortasi subito d’aver proferito una parola scortese, gli porse una genziana turchina e soggiunse:

— Si ritorna però volentieri al chiostro, sa! Eccole il mio fiore, ne abbiamo portato tutti per il nostro padre guardiano, dei fiori!

La fanciulla era giuliva in quella sera, le era rimasto in volto il riflesso di quella specie d’esaltamento salubre che danno sempre agli esseri nervosi e delicati le ascensioni sulle alte montagne. Appena uscita da carrozza ella si perdette in mezzo ad un crocchio di signore e Rose, ch’era rimasto un poco in disparte, lasciò che i bagnanti salissero allo stabilimento e si dileguò nell’oscurità della campagna solitaria.

Il giorno appresso, quando andò a visitare la signora Bruni, ch’era stata anch’ella ad Oropa, [p. 322 modifica] colla comitiva, il dottore n’ebbe un subisso di confidenze non richieste.

Il conte di Francavilla si mostrava più che mai innamorato di Manuela, era stato sempre al fianco di quelle signore, anche durante la visita al Santuario, poi s’era messo in quattro per raccogliere gramigne nei prati; insomma tutto procedeva per il meglio. È vero che di lei, della signorina, non si poteva dir nulla, sempre accanto alla madre, sempre seria e di poche parole.

Intanto ella, la signora Bruni, s’era data premura d’informarsi da buona fonte delle condizioni finanziarie della famiglia Aparia e l’aveva avute assai sodisfacenti. La marchesina era ricca, assai ricca! — aggiungeva stringendo gli occhi.

— Ricca? se ha diversi fratelli — esclamò finalmente il medico, con disgusto.

— Una zia paterna, la sua matrina, le lasciò morendo un vistoso legato; oh! per ciò che riguarda la dote andiamo benissimo, ora non ci resterebbe che indagare per la salute... Lei forse potrebbe asserire con certezza.. non so, quel pallore, quelle turbe nervose... dicevano che avesse un principio di consunzione... — bisbigliò ella, insistendo col coraggio d’una persona incaricata.

Il volto di Rose si fece bianco di collera ed egli rispose con un sorriso sdegnoso:

— Quale amore pieno di scrupoli!... quale lusinghiera fiducia nella mia compiacenza! Del resto, la signorina Aparia è di complessione [p. 323 modifica] mente sana. Buon giorno, signora Bruni. Faccia il suo bagno e una buona reazione.

E se n’andò coll’animo esasperato contro Francavilla ch’era venuto a S... per curarsi dagli strapazzi e dai disordini d’una vita volgare.

Pareva a Rose che la sua volontà cominciasse ad affievolirsi, ch’egli andasse perdendo il possesso di sè, e per non tradire il suo segreto si proponeva di evitare la fanciulla più che mai. Egli si limitava a darle qualche consiglio, qualche necessario incoraggiamento, perchè Manuela aveva delle grandi oscillazioni nel progresso della cura. Se la vedeva abbattuta, concentrata, in preda alle sue fantasticherie, le susurrava:

— Si faccia animo, si distragga, per carità! — E se gli sembrava che fosse più serena: — Così va bene, la vittoria è nostra! — Ma non osava fermarsi a lungo perchè adesso quelle sue parole da cui trapelava una repressa tenerezza, erano sempre accolte con bonomia, anzi con gratitudine, perchè la confidenza fattagli da Manuela aveva messo fra loro un’intimità pericolosa. Si tratteneva invece a preferenza con donna Cristina, parlando di lei, sempre di lei, e la buona marchesa, come accade ad una parte, delle madri, era, ben lontana dal leggergli in cuore.


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Una sera, un giovinotto che aveva portato seco alcuni razzi da Milano, chiese il permesso al [p. 324 modifica] medico di accenderli sulla terrazza. I bagnanti, avidi di distrazioni, vi salirono quasi tatti e Bose li seguì, quasi inconsciamente, sempre portato dalla solita magìa. Ma era triste e si ritrasse in fondo alla spianata per essere solo. Egli stava svoltando da una macchia di sempreverdi, quando scorse, appoggiata ad un muricciolo donde spaziava lontano la vista nella penombra notturna, la sottile figura di Manuela. Voleva tornare indietro, ma ella si volse allo scricchiolare della sabbia, lo riconobbe e lo chiamò.

— Dottore! — diss’ella stendendogli la mano. — Noi fuggiamo entrambi la società. Sono ben lieta di trovarla in flagrante delitto di misantropia!

La precoce e amara esperienza della vita dava sempre a Manuela un senso d’altera sicurezza quando si trovava cogli uomini, anche con giovani, ma nessuno era riescito a destare in lei la serena fiducia che Rose le aveva ispirato, dopo quel confidente colloquio, e che si sforzava anche di dimostrargli in compenso degli antichi sgarbi. Rose era il medico, il consigliere, l’amico ormai, ma certamente Manuela non aveva mai pensato ch’egli potesse diventare qualche cosa di più per lei, nè provare alcun altro sentimento fuori di quella sua amorevole pietà.

Ella s’appoggiò di nuovo al muricciolo. Era una notte stellata molto chiara, ma senza luna. Una fragranza acuta di caprifoglio e di [p. 325 modifica] gelsomino si diffondeva nell’insolito tepore dell’aria, un cuculo tardivo cantava nel parco. Ogni tanto una striscia vibrante di fuoco schizzava verso il cielo rompendosi in miriadi di scintille multicolori. Il clamore del pubblico plaudente e le grida entusiastiche dei bambini non turbavano la placidità dell’ora notturna. Rose si sentiva un tumulto nel cuore, ma non era capace di parlare, e nella dolce vicinanza di Manuela, dinanzi alla complice bellezza della natura, quel trepido silenzio aveva per lui una specie di spirituale voluttà.

Ma ella ad un tratto lo interruppe:

— Fuggo la gente, stasera, perchè sono in una delle mie fasi cattive. Il mio pensiero è laggiù lontano... — E accennava all’orizzonte sfumato nella notte.

— Sarà dunque così sempre, Manuela?

— Non so, qualche volta lo temo. Fra poco dovrò rivederlo.

L’anima chiusa della fanciulla tornava, forse per un irresistibile bisogno di conforto, quasi inconsciamente, al confidente abbandono di quel giorno. Rose ebbe un sussulto.

— Rivederlo? — esclamò egli.

— Ma sì, dottore. Le nostre ville sono vicine, in campagna ci si trova più facilmente... e i miei gli sono sinceramente affezionati...

— Perchè dice «fra poco»?

— Perchè la settimana ventura dobbiamo partire. Siamo qui già da un mese e mezzo. [p. 326 modifica]

— Una cura molto breve per lei che ne ha tanto bisogno! — balbettò il giovane colla voce strozzata.

— La continuerò a casa. Che vuole? la nostra presenza laggiù è necessaria, ci aspettano.

Mentre Manuela proferiva queste parole con una calma profonda, anzi con una certa sodisfazione, il giovane si sentiva morire. Il momento del distacco era giunto e conveniva affrontarlo, ma un tal gelo lo prese nel cuore che rabbrividì visibilmente.

— Ell’ha freddo? — domandò la signorina Aparia — non si sente bene? Stasera non m’ha fatto nemmeno il piccolo sermone di regola.

— Non posso.. stasera non posso — disse il medico, pur dominandosi. — Io guardo questo notturno paesaggio — proseguì egli facendo un cenno largo verso il firmamento palpitante di stelle. — E grande, non è vero? Ebbene a me sembra che la mente umana possa in sè accogliere un’altrettale grandezza quando giunge colla volontà a compiere nobilmente i suoi sagrifizi.

— Il sermone! — disse Manuela, con un riso argentino ma un po’ falso, che Rose sentì stridere entro di sè. Era un fuggevole ritorno all’antica sprezzante amarezza, e il giovane accorato mormorò:

— Non mi faccia male, Manuela, sia buona!

— Ha ragione, ha ragione. Sono di cattivo umore, mi compatisca! — esclamò la fanciulla [p. 327 modifica] distrattamente. — Ecco la mamma che viene a cercarmi con Parny; raggiungiamoli, è ora di scendere !

— Difatti fa tardi per loro. S’abbiano cura, si ritirino! — E appena pronunziate quelle parole professionali, Rose salutò e scomparve.


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In quell’ultima settimana la marchesa venne sempre più accrescendo il numero delle sue relazioni, nello stabilimento. Manuela si mostrava cortese con tutti, ma manteneva nel suo contegno un profondo riserbo. L’unica persona alla quale avesse accordato una certa amicizia era Eva Antella, la povera moglie abbandonata, così infelice e così saggia nella sua sventura. La si vedeva spesso in giro con lei e anche con un’altra bagnante, certa Angela Darò che da più anni torturava un’inguaribile malattia delle ossa.

— Vede — disse un giorno Rose a Manuela — quella è una povera condannata cui solo la grande energia morale riesce a prolungare la vita. Non c’è bisogno d’esortarla a farsi coraggio. Arrivò invece da cinque giorni quella signora afflitta da una continua tosse nervosa... una pietà... Ebbene, quando si trova alla presenza di qualche persona che le dà soggezione, il fenomeno cessa come per incanto, appena la persona si è allontanata, ecco lo spasimo daccapo. È un’inferma che ha perduto [p. 328 modifica] l’impero sovra sè stessa e quando tento di farglielo comprendere, s’inquieta e s’offende.

— Non vi sarebbe altro rimedio? — chiese Manuela.

— Forse la suggestione, ma io rifuggo da questi mezzi che fanno perdere più che mai all'individuo il possesso di sè. Sono troppo umilianti.

— E lei, Rose, è sempre stato padrone della propria volontà?

— Sempre, no. Da fanciullo ero debole, avevo una suscettibilità morbosa. Dopo un lungo esercizio imparai a vincere, ma chissà quanto mi toccherà di lottare ancora!

Si trovavano in sala, accanto al pianoforte. Donna Cristina e la signora Antella lavoravano in un angolo. Era l’ultimo giorno e il medico aveva permesso alla signorina Aparia di suonare. II segreto della sua passione gli pesava affannosamente sul cuore. Fino a quel tempo era stata in lui una grande verginità di sentimento verso la donna da cui l’avevano molto distolto l’indefessità dei suoi studi e l’ardore delle sue viste umanitarie. Adesso, dopo quella voluta austerità, l’amore gli era sorto nell’animo come una pianta che germoglia in terreno nuovo. E tutto lo travagliava in quell’amore: la sicurezza che Manuela pensasse ad un altro, una certa differenza di posizione sociale, fors’anche lo scrupolo di non sapersi limitare verso i suoi pazienti ad un interessamento affatto oggettivo e scevro di parzialità. [p. 329 modifica]

E sebbene gli ardesse in petto il desiderio di poter dire alla fanciulla: «Mi sei cara sovra ogni cosa», anche a rischio di vederla rientrare in sèstessa, sgomenta e offesa da una tale confessione, egli s’era proposto di custodire con gelosa cura il proprio segreto, ma l’eroico sagrifizio gli rendevail pensiero del distacco doloroso inconsolabilmente.

— Mi suoni qualche cosa — diss’egli alfine, per vincere quell’affanno. — Stavolta sono io che la prego!

Manuela lasciò scorrere vagamente le piccole mani affilate sul pianoforte, poi ricordò la «Tráumerei» di Schumann. Pareva che l’anima della fanciulla si fosse trasfusa tutta nelle dolenti note e che un fremito di tristezza appassionata facesse vibrare le corde del povero istrumento d’albergo.

— Ancora! — implorò Rose.

Ma la suonatrice che non amava mai rinnovare a sè stessa due volte di seguito la stessa emozione musicale, scelse invece il «Viandante» di Grieg.

— Ora basta! — esclamò il giovane, quando l’ultimo accordo venne a morire, prendendole impetuosamente ambedue le mani per allontanarle dalla, tastiera e facendo l’atto inconsapevole, ma tosto represso, di portarsele alle labbra ardenti.

— Basta per lei... e per me...

— Oh! dottore! — disse Manuela, senza farsi meraviglia di quella commozione ch’era solita di destare, suonando — - come potrò esprimerle tutta la mia riconoscenza! quanta gentile premura! e [p. 330 modifica] quanto ho male corrisposto sempre! Potrà dimenticare e perdonarmi?...

— La cura ha cominciato a giovarle, e questo mi consola, ma fu breve, pur troppo. Si ricordi questo luogo, Manuela, e vi ritorni — disse Rose con uno sguardo d’angoscia. Non osò aggiungere: — Si ricordi di me.

La fanciulla rispose: - Chissà, forse... un altr’anno. — Non disse «spero».

Ella desiderava di partire. E i due giovani non scambiarono altre parole.

Quella sera tutti i principali bagnanti si radunarono in sala, intorno alle signore Aparia che l’indomani dovevano lasciare lo stabilimento. Chiamato in paese da ammalati gravi, il medico non si fece vedere che sul tardi.

La mattina seguente egli andò invece per tempo a salutare la marchesa, e impiegò la breve visita in suggerimenti sull’igiene fisica e morale della signorina ch’era fuori per la reazione del suo ultimo bagno.

Mentre tornava al suo studio Rose incontrò il segretario che gli annunziava l’arrivo d’un nuovo bagnante inaspettato, lamentando che non vi fosse più un posticino in tutta la casa. Subito dopo il forestiero apparve, preceduto da un cameriere. Il medico si trovò di fronte ad un bel giovine di circa ventisei anni che tradiva dal fuoco degli occhi neri, dai nerissimi capelli e dalla tinta bruna la sua patria meridionale. Egli stese la mano dicendo con accento insinuante: [p. 331 modifica]

— Il dottor Gustavo Rose?... io sono Rolando di Montemagno, un vero intruso in questo luogo, signore. Non feci a tempo di chiederle una stanza... Avrei potuto telegrafare, ma che vuole? non c’era nemmeno la possibilità di ottenere la risposta. Avevo fissato di partire ieri mattina da Roma per Viareggio, e invece, non so come, un istinto m’indusse improvvisamente a mutar pensiero e me ne venni qui assetato di buon’aria. Laggiù si bruciava.

— Non c’è nemmeno una stanza in libertà — insistette il segretario — ma forse qualcuno oggi se n’andrà, anzi, non parte la marchesa Aparia stasera, signor direttore?

— Sì - disse finalmente Rose collo sguardo rabbuiato. — In qualche modo accontenteremo anche il signore. Intanto, se volesse accomodarsi da me...

E mentre Montemagno, accettando, si disponeva a precederlo nel suo studio, Manuela entrò nel corridoio. Era vestita come sempre di chiaro, d’una stoffa vaporosa e portava in mano un mazzo di ciclamini. Il cappello nero le proiettava un’ombra pittorica sul volto sorridente e colorito dall’ora mattutina. Un profumo si diffuse, acuto, dai fiori, ed ella passò in fretta, rispondendo cortesemente al saluto di Rose. I due giovani si soffermarono un momento a seguirla collo sguardo.

— Una bagnante? — chiese il nuovo arrivato.

— Sì, una bagnante — rispose il medico, freddamente, chiudendo dietro a sè l’uscio del suo appartamentino. [p. 332 modifica]

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Alle cinque le signore Aparia si disposero per la partenza. Donna Cristina aveva le lagrime agli occhi. Sinceramente buona, ma fornita d’una sensibilità superficiale, ella prendeva subito affetto alle persone e ai luoghi, vivendo sempre sotto l’impero dell’ora che passa Manuela invece sembrava indifferente, forse provava una segreta contentezza che un delicato riguardo verso gli astanti le impediva di esprimere. La sua anima avvezza a precoci patimenti, rimaneva quasi impassibile dinanzi alle fugaci emozioni della vita.

Francavilla, tutto premura, s’affaccendava intorno alla carrozza, proponendosi di accompagnare le signore a Biella, con Samara. Eva Antella e Maria Dare piangevano in silenzio, Manuela s’occupava a preferenza di loro e della sua bagnaiola ch’era scesa nell’atrio per salutarla.

Il medico comparve all’ultimo momento. Egli aveva evitato, per tema di tradirsi, un più intimo colloquio colla signorina Aparia. Nondimeno donna Cristina e la figliuola lo trassero amichevolmente m disparte, ma non fu che un fuggevole scambio di addii. Rose aggiunse ancora, con voce soffocata, qualche raccomandazione, qualche buon consiglio, poi si mise accanto alla predella e le aiutò a salire fra le borse, i cuscini ed i fiori. Francavilla le segui, Samara saltò a cassetto e, accompagnata da alcuni altri signori, la carrozza s’avviò lentamente [p. 333 modifica] giù per la china. I conoscenti andarono tutti in giardino, in un piccolo belvedere, donde si poteva mandare alle viaggiatrici l’estremo saluto. Rose, inosservato, si ritrasse solo, con un pallore di morte in fronte, e rientrando dal cortile, vide Montemagno, il nuovo bagnante, che appoggiato allo stipite duna porta, aveva assistito alla scena, in lontananza, da estraneo qual era.

Egli ricomparve soltanto all’ora della cena, pensando con invincibile amarezza ai posti che troverebbe vuoti o peggio occupati da altri. Difatti i commensali s’erano ristretti verso di lui. Più tardi, al solito, essi si riunirono nel chiostro e in sala, e certe signore, che parevano un po’ neglette prima, presero subito gloriosamente anche li il posto della marchesa Aparia e quelli stessi che ne avevano deplorato la partenza si affrettarono di raggrupparsi intorno al nuovo centro. A Rose, che si sentiva qualche cosa di morto in cuore, cui pareva di trovarsi egli stesso in un vasto deserto, dopo la partenza di Manuela, tornava strana, insopportabile quasi, la serenità degli altri. Eppure tutto era già ricomposto in un ordine novello, come se nulla fosse accaduto, e appena si sentiva qualche voce di vago lamento: «Che peccato quella buona marchesa! quella simpatica Manuela!», cui altre voci, solo per cortesia, facevano eco, riservandosi forse di mormorare più piano meno benevole cose.

Samara, tornato da Biella col suo compagno, faceva la corte ad una giovinetta di Torino, piccola, [p. 334 modifica] sottilina, con due stelle per occhi, che chiacchierava volubilmente in piemontese. Francavilla, assai disinvolto e più libero di sè, ronzava senza riguardo intorno ad una bella veneziana, divisa dal marito. Solo Eva Antella s’era ridotta in un angolo, col suo bambino allato, e pareva assai triste. Rose le si avvicinò, un momento, per simpatia, ma poi, disgustato degli altri, salì alle sue stanze, e subito dopo, quasi senz’accorgersi, uscì nel giardino, si ridusse sotto l’albero di catalpa ora sfiorito, ove la prima sera, aveva veduto Manuela Aparia e adagio adagio, inconsapevolmente, rifece la via che conduceva al numero 10. La chiave era ancora nella toppa. Sicuro di trovarsi solo, in quell’ora in cui i domestici cenavano e i forestieri stavano riuniti in sala, egli accese un cerino ed entrò. Una mano pigra o pietosa aveva lasciato appassire, in un bicchiere, alcuni degli ultimi fiori campestri raccolti da Manuela; da un chiodo pendeva un nastrino azzurro che aveva servito a sostenere una fotografia; un vago profumo d’iris era nell’aria, e, quantunque fossero scomparsi tutti gli oggetti graziosi che caratterizzano la presenza di una donna gentile e di buon gusto, la cameretta non era ancor diventata impersonale come le stanze d’albergo. Rose rimase a lungo in quella specie di cella verginale e provo una forte tentazione di farla chiudere, con un pretesto, onde non venissero profanate tante care ricordanze, volle prendere per sè il nastro, e qualche fiore, ma poi rinunziò a tutto, [p. 335 modifica] rimproverandosi d’essere così debole e mormorando il precetto: «medico, cura te stesso». E, fatto il proponimento di chiudere quella sua angoscia nel più profondo silenzio dell’anima, per quanto il lavoro ora gli sembrasse meno dolce e più grave il dovere, egli vi ritornò con coraggio e s’impose un’abnegazione ancor più generosa e più intera.


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Il giorno seguente, prima della levata del sole, s’imbattè nel giardino con Montemagno e così passeggiando cominciò a prenderlo sotto la sua direzione. Il giovine signore s’era indebolita la salute per eccesso di lavoro, dopo aver compiti gli studi in un istituto di scienze sociali. Il suo bell’ingegno, la sua tempra forte, seria, geniale ispirarono a Rose la più viva simpatia. Egli si trattenne nello stabilimento fino alla chiusura e il medico ebbe dalla sua presenza un grande conforto intellettuale, dai rapidi progressi della sua cura, nuove sodisfazioni.

La marchesa aveva promesso di scrivergli e mantenne la parola circa due settimane dopo la sua partenza. La lettera era datata da una villa del Casentino, portava molti particolari e le più vive espressioni di gratitudine per Manuela che stava abbastanza bene; dalla fanciulla un cordiale saluto, null’altro. Rose rilesse mille volte quello scritto ch’era venuto ad irradiare di luce [p. 336 modifica] improvvisa la sua solitudine intima, rispose con poche ma espressive parole, pregando donna Cristina di non lasciarlo senza notizie. La marchesa riscrisse difatti una volta, poi venne un grande silenzio come di cose morte ed egli ebbe il coraggio di non romperlo. Pensava, con amarezza, che il dottor F.... fosse tornato daccapo a dirigere la cura di Manuela e che il suo intervento potesse riescire inutile ormai, anzi inopportuno.

La lontananza, la gravità degli studi da lui intrapresi in certe cliniche dell’Inghilterra e della Germania, il continuo impero della ragione sopra un affetto ch’egli presagiva infelice, erano riesciti a reprimerne, non certo a spegnerne l’ardore.

Ma nell’aprile, al tornare degli uccelli migranti e delle viole, quando lo stabilimento si riaprì per la nuova stagione, la vista di quei luoghi nei quali la presenza di Manuela aveva lasciato un profumo d’ineffabili ricordanze, gli fece provare un desiderio acuto, quasi spasmodico di rivederla, di rivedere il suo sorriso, di riudire la sua voce, e ogni giorno attese sempre con affanno l’ora di posta, sperando ricevere una notizia, un avviso. Quale lunga, penosa aspettazione!

Nel giugno cominciò a venire qualche bagnante anche dell’anno addietro, ma egli non sapeva che cosa rispondere alle domande che gli venivano rivolte intorno alle signore Aparia. Durante alcune settimane, per quanto il segretario glielo proponesse, non volle disporre delle loro stanzette. Un [p. 337 modifica] giorno, finalmente, sfogliando il suo corriere, gli venne tra le mani una piccola busta lunga, profumata d’iris, col bollo di Firenze. Egli l’aperse con trepidanza; era proprio Manuela che scriveva per incarico della marchesa indisposta: due sole righe che gli chiedevano l’appartamentino dell’anno trascorso, per i primi di luglio. Gustavo Rose telegrafò subito, poi ripose quella letterina nel suo portafogli per averla sempre seco. Adesso gli pareva più splendido il verde, più raggiante il sole, più dolce la fatica; quel giocondo attendere del suo spirito, del suo cuore, lo spronavano febbrilmente al lavoro.

Una cartolina della marchesa gli fece noti il giorno e l’ora precisa dell’arrivo, il quattro luglio, verso le sette della sera. Rose discese nella piazza del paese, s’avviò verso lo stradale di Biella e aspettò. Un nuvolo di polvere da lontano nel chiaro crepuscolo estivo, un trotto serrato di cavalli.,. eccole... sono loro... coll’Adele che si volge, lo riconosce, lo addita alle signore. La carrozza si fermò. Manuela, per la prima, gli stese la mano con viva cordialità. A Rose ella sembrò cresciuta, trasfigurata. Il volto gentile della fanciulla, perdendo il suo pallore trasparente d’inferma, la sua espressione abituale di patimento s’era come irradiato d’una geniale serenità. Con lo sparire della eccessiva magrezza, tutta la persona aveva acquistato la leggiadria elegante ed armonica d’un bel fiore ch’è presso a raggiungere il suo intero [p. 338 modifica] sviluppo. La voce stessa s’era fatta più morbida, più dolce.

— Com’è fiorente! — mormorò Rose, mentre salivano insieme il ripido viale dello stabilimento che la marchesa aveva voluto fare a piedi, non sapendo esprimere che con quelle insignificanti parole la pienezza della gioia che lo inondava.

— Ma sì, dottore, sto assai meglio... guarita, non dico, c’è da far molto ancora, ma ho combattuto sa, e quanto!

— La proporrò ad esempio! — disse il medico.

— Oh questo poi! — e Manuela fece una risatina così gioconda, così squillante, che il giovane ne sentì l’eco benefico in cuore.

— Ecco le nostre finestre, la torretta! — esclamò la signorina Aparia entrando nel cortile. — Come vi rivedo volentieri, o celle romite! — e salì correndo le scale, con Adele.

— E la bagnaiola? e Eva Antella? — domandò ella appena il dottore l’ebbe raggiunta colla marchesa.

— La bagnaiola sta benissimo e Eva Antella verrà, certamente.

— Si metta qui sul nostro gran divano e mi faccia un po’ l’illustrazione dei miei compagni di cura. Ci sono i Cefalù, i Mevi? no? peccato!

— Aspettiamo molti Lombardi quest’anno. S’è annunziato anche Francavilla — soggiunse Rose, guardando Manuela, che non mosse palpebra.

— E Samara? — chiese ella. [p. 339 modifica]

— Ah! Samara, pur troppo, è morto! Lo vidi per l’ultima volta la scorsa primavera a Torino. Si rammentò anche di loro...

— Poveretto!... — e ragionarono a lungo del giovine e della sua famiglia, madre, fratelli, che s’erano tutti consunti così. Poi, dopo un silenzio un po’ triste, Manuela esclamò:

— Domattina una bella spugnatura e fuori, fuori di buon’ora nei prati, nei boschi!

— Così mi piace.

— È tutto merito suo se vado sempre migliorando! Ma dica, che cosa ha fatto lei, quest’inverno?

— Ho studiato, signorina.

— È sempre così sermonneur?

— Sempre lo stesso.

— Allora scappo subito, vado a fare un giro in giardino mentre c’è ancora un raggio di luce! — E uscì vivacemente, cedendo il posto a donna Cristina, la quale s’avvicinava anch’ella per avere notizie.

Le signore Aparia cenarono sole col medico, poi passeggiarono insieme a lui nel chiostro fin tardi, perchè la stagione era caldissima.

— Sempre queste care roselline! — disse Manuela, cogliendo una ciocca d’Aimé Vibert e ponendosela in seno tra le crespe del vestito rosa che così bene s’addiceva alla tinta fina del suo volto giovanile. — Sono tornata volentieri, ho molto imparato qui. M’ha giovato la triste [p. 340 modifica] contemplazione di tante umane sofferenze, e il confronto colle mie; m’hanno giovato sovrattutto le sue saggie parole, dottore.. e ho avuto bisogno di ricordarmele sa, nei mesi scorsi... — soggiunse ella piano, mentre la marchesa s’era fermata a salutare una persona di sua conoscenza. - E stata una fiera battaglia per me, quest’inverno, quand’egli venne a Firenze, all’epoca del carnevale, — riprese la fanciulla non senza una certa esitanza. — Si figuri che ha tentato di smuovermi. Io ho resistito sempre, ma vi furono dei momenti gravi. Ora dicono che stia corteggiando una signorina dell’aristocrazia. napoletana e che abbia intenzione di sposarla. Intanto quella disgraziata ha perduto il suo bambino e non si dà pace...

— Ella l’ha riveduta, Manuela!...

— Sì... una volta, quando il piccino morì... — mormorò la fanciulla, arrossendo. — Forse le narrerò un altro giorno di questo... Ma Dio mio, quanto ho lottato! gli assalti nervosi non sono ancora cessati del tutto, in gennaio ebbi una tosse spasmodica resistente a qualunque sforzo... ma ho finito per vincerla. Ora sono contenta, ho conquistato qualche cosa entro di me. Ell’aveva ragione, Rose, l’impero sovra sè stessi è il migliore possesso al quale si debba aspirare. Esso ci dà la nobile libertà dello spirito: la peggiore dipendenza è quella che ci lega alle nostre debolezze.

Questo luogo mi piace, non mi sento più un’estranea qui tutto mi è divenuto familiare — ella soggiunse con amabilità. [p. 341 modifica]

Nella contentezza del lieto ritorno, la fanciulla parlava con un corto confidenziale abbandono, sicura del suo interlocutore, come d’un fratello, come d’un uomo al quale non si potesse attribuire altro interessamento che quello d’una fraterna amicizia.

E Rose ascoltava, ascoltava la musica di quella voce, ammirando la simpatica fanciulla alla cui squisita grazia giovanile, il dolore aveva aggiunto un fascino intellettuale; gli pareva che in lei si fosse incarnata la sintesi delle sue teorie psicologiche, e, nella luminosa conferma di esse, divampava ardente l’amore.

La sera, quand’egli tornò alle sue stanze, gli eruppe dal petto la gioia immensa di quel ritorno. «Manuela! Manuela!» chiamava egli fra se, tutto rapito dall’ebbrezza della visione che il suo spirito aveva sì spesso evocata e che gli riappariva ancor più fulgida e più seducente, irresistibile.


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Il giorno seguente, pensando, colla mente più tranquilla e analizzando sè stesso, come soleva far sempre, Rose provò un senso di fiero dolore. Non era uomo da concedersi illusioni. Conquistare Manuela non era cosa facile, e il tentarlo dopo le confidenze avute, gli sembrava azione indelicata oltreché ripugnante alla sua alterezza. Gli affetti non s’insegnano, s’inspirano, ed egli, da buon [p. 342 modifica] psicologo, ben lo sapeva. Poi, quantunque non ammettesse alcun pregiudizio sociale e che pochi mesi addietro un ricco parente l’avesse nominato erede del suo patrimonio, sentiva che il suo nativo orgoglio, sempre pronto a destarsi, si drizzava un poco contro i pregiudizi della marchesa che nella sua semplicità bonaria era donna d’antico stampo.

Ma l’amore, nei suoi conforti, è così terribilmente ingegnoso e ingannevole che il sola pensiero di quella cara presenza lo consolò, come uno di quei farmachi potenti che calmano qualunque impressionne molesta dell’organismo, senza distruggerne la causa, ed egli visse qualche giorno in una soavissima estasi, dimentico dell’avvenire.


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Manuela era giunta da una settimana ed egli stava anzi osservando con lei, in giardino, alcune piante alpine che aveva fatto trapiantare su una roccia e che fiorivano mercè le sue cure, quando gli fu annunziato l’arrivo del suo buon amico Rolando, il quale, venuto anche questa volta all’improvviso e impaziente di salutarlo, seguiva il segretario. I due giovani s’abbracciarono con effusione, poi Rose presentò:

— Il conte di Montemagno; la signorina Aparia. — E nel proferire questi due nomi uniti la sua stessa voce gli diede un brivido che non seppe spiegarsi. [p. 343 modifica]

Manuela faceva una cura regolarissima: meno schiva della gente, seguiva sempre sua madre, anche la sera nella sala di riunione e la prima domenica manifestò subito il desiderio di prender parte alla gita comune che aveva per iscopo di visitare il castello di Gaglianico, al di là di Biella. Ella faceva molte passeggiate anche nei dintorni dello, stabilimento, con sua madre, con Montemagno e con qualche signora; la pittorica valle del Cervo le aveva già rivelato tutte le sue bellezze, fino a Pie’ di Cavallo, l’interessante, caratteristico. paese che la chiude nella vergine poesia alpestre.

Rose la vedeva pochissimo. Una volta però, tornando da Tavigliano, egli prese una scorciatoia ed entrò in un piccolo bosco nelle vicinanze dello stabilimento. Patti pochi passi scorse in terra, sul muschio, un paio di guanti, un libro e un cappello e ne riconobbe la forma semplice e il grande nastro bianco; poco dopo, sbucando fra due cespugli colla solita leggiadria, Manuela gli fu dappresso.

— Ah dottore! — esclamò ella, senza tradire alcun turbamento — il destino l’ha messa oggi sulle mie tracce, e non indarno, perchè ho bisogno di lei, mi sento male.

— Perchè, signorina?

— Impressioni vaghe che non si spiegano. Sono cose che si agitano nell’aria, presentimenti, un malessere morale, profondo. M’aiuti lei che m’ha insegnato tante volte a vincere. [p. 344 modifica]

— È un ritorno... verso il passato?- — chiese il medico con una certa angoscia.

— No, oh no. Non lo so spiegare nemmen’io. È un’inesplicabile ma straziante sofferenza. Sono fuggita da casa, sono venuta qui sola per domandare conforto alla natura, ma la natura è muta oggi per me e, nelle sue leggi eterne, sembra ridersi della mia fragilità. M’aiuti lei, dottore...

— Oggi — disse egli gravemente — mi sento incapace d’aiutarla perchè ho quasi smarrita la ragione io stesso.

Manuela lo guardò con grande sorpresa.

— C’è qualche cosa che l’affligge? — chiese ella, non senza premura.

— Forse. Non ne parliamo. Sarebbero vani i miei consigli se non li avvalorassi coll’esempio; un minuto di debolezza, Manuela; lo dimentichi! Siamo nati per lottare fino alla morte.

Era così alterato in volto che la fanciulla lo guardò angustiata:

— E proprio un segreto? non posso far nulla per lei?

Rose s’era appoggiato al tronco d’un castagno. Egli non poteva frenare le lagrime e s’era tirato il cappello sugli occhi.

— Un segreto? sì un geloso segreto. Glielo confiderò un giorno, Manuela, non oggi... Vede? è già passato — E rialzando la pallida fronte, sorrise. — Sono presto le cinque, l’ora della sua doccia; mi permette di accompagnarla? è bene [p. 345 modifica] aver molto caldo per la doccia. M’affidi il suo libro, signorina; che cosa legge?

Zur Diätetik der Seele di Feuchtersleben.

— Un’utile e seria lettura. È suo questo piccolo volume?

— No, è del conte di Montemagno.

— Ah! — disse Rose facendosi ancor più pallido.

— Me lo prestò ieri e mi piace assai... Senta, Rose, questo brano.. E mentre proseguivano insieme la via, uscendo dal bosco, Manuela lesse:

«Lo scopo supremo della vita non è la sodisfazione dei nostri desideri, è l’adempimento del dovere, senza del quale non esiste vera sodisfazione. L’insipida monotonia del godimento insegna colla sazietà il valore del lavoro, ma l’uomo che non riflette impara troppo tardi questa lezione. Il desiderio insaziato fa la disperazione degli stolti e l’allegrezza dell’uomo intelligente. La vita infatti non è che un’idea senza valore, una pagina bianca finche non vi sono scritte queste parole: «Ho sofferto, vale a dire ho vissuto.»

«La felicità è incerta e passeggera; il solo dovere è certo e eterno. Ma se la Provvidenza ha creato il dolore, gli ha pure messo allato la gioia che consola: la lotta fra questi due sentimenti rivela la grandezza del nostro destino. Non v’ha più bel sorriso di quello che illumina un volto bagnato di lagrime; non v’ha più alto e più durevole desiderio di quello che non può essere [p. 346 modifica] sodisfatto, non v’ha godimento più puro e più vero di quello d’un uomo che a se stesso impone privazioni. Delle rose intorno ad una croce: ecco il simbolo dell’umana vita.»

La voce dolce ed armoniosa si tacque, e Rose non fece commenti. Disse soltanto con un grande sforzo: — Grazie, Manuela!... rassereniamoci dinanzi a questa luminosa letizia del creato!... — E risalirono insieme l’erta china dello stabilimento, rientrando in casa dalla parte della collina.

Quando furono giunti presso alla stanzetta numero 10, la fanciulla tolse alcuni fiorellini dal mazzetto che aveva raccolto per via e li porse al medico che non potè a meno di stringere un secondo fra le sue la manina bianca della donatrice. Poi s’allontanò rapidamente, e passarono due giorni prima che la signorina Aparia rivedesse da vicino Gustavo Rose.

Fu la marchesa che lo mandò a chiamare per un improvvisa indisposizione della figliuola. Era stata a passeggiare sullo stradale di Biella con due signore e col conte di Montemagno, narrava Adele, la cameriera, e al ritorno s’era sentita male assai. Pallida, alterata in volto, in preda alle più penose contrazioni, Manuela accolse il dottore con un lamento. Egli le sedette daccanto, e dopo aver inteso da donna Cristina come avesse cominciato quell’affanno, le disse alcune parole di conforto, poi mormorò piano:

— Reagisca colla mente quanto può, Manuela...

— Non posso, non posso. Sono sfinita. [p. 347 modifica]

— Non è vero che non può... le sembra... lo sfinimento è anch’esso un’impressione, non è un fatto.. coraggio, coraggio, vinciamo questa pericolosa sensibilità..

— Forse un po’ di cloralio o di morfina... — suggerì la marchesa.

— No, no — insistette Rose — deve curarsi da sè. Lasciamo da parte i veleni.

Manuela, agitata da continui sussulti spasmodici, alzò gli occhi verso di lui, supplichevolmente. Ma il giovine la guardava con una tale intensità, con un’intenzione così ferma e così forte, stringendole le mani quasi volesse trasfondere in lei tutta la propria energia, che la fanciulla cominciò a stendere le braccia in uno sforzo eroico dell’intelletto, cercando ribellarsi dall’impero della materia E lottò alcuni minuti valorosamente, sempre aiutata colle confortevoli ed eccitanti parole di lui contro gli spasimi che le scuotevano il fragile corpicciuolo di donna, esternando, con qualche vago accento di protesta, l’affanno dell’interna battaglia, finche le sfuggì dal petto anelante e dalle convulse labbra l’ultimo lamento, ed ella ricadde esausta sui guanciali con un piccolo grido di vittoria. .

— Grazie! — disse al dottore dopo alcuni minuti di silenzio e di quiete profonda. — Sto molto meglio ora, il male è passato.

— Si sentirà molto abbattuta perchè lo sforzo è grande, quasi sovrumano. Oggi ella non può [p. 348 modifica] avvertire l’efficacia del rimedio, la sentirà in seguito quando i nervi saranno sempre più avvezzi a cedere alla volontà. Continua bene, non è vero? — soggiunse egli poco dopo, porgendole un cordiale. La sua voce vibrava di ammirazione e di tenerezza.

— Sì, Rose, sempre meglio, grazie. Ho molto sonno, molto sonno... — E chiudendo involontariamente gli occhi, Manuela, placidissima, s’addormentò.


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Era arrivato Francavilla, era arrivata Eva Antella col suo bambino, poi molte persone nuove. Ogni giorno venivano carrozze cariche di gente e di bauli, lo stabilimento non era mai stato così animato. Due piemontesi, mariti di signore ammalate, andavano organizzando grandi gite alpine nella valle d’Aosta, i più modesti invece si contentavano delle escursioni di poche ore, compensandosi colla frequenza di esse. Alla sera poi v’erano balli, concerti, trattenimenti d’ogni specie.

Non mancavano nè le inferme sentimentali che guariscono all’ora di cambiar vestito, e queste erano insopportabili a Rose, nè i corteggiatori poco sentimentali che facevano la cura per pretesto e che ad onta della sua naturale mitezza gli sembravano odiosi, ma sebbene, data l’occasione, egli non esitasse a manifestare certi principii d’intransigente rettitudine, la piccola cronaca mondana trovava [p. 349 modifica] sempre di che pascere la sua insaziabile avidità, fomentata dall’ozio e dalla noia.

Le signore Aparia avevano fatto la conoscenza d’un vecchio musicista, celebre suonatore di clarino, un uomo pieno di giovialità e di spirito, che s’era onestamente goduta la vita. Ammiratore entusiasta di Rossini che nei suoi ultimi anni l’aveva onorato col nome d’amico, egli non voleva riconoscere al di là delle sue opere alcun progresso d’arte, e ne andava suonando a memoria le ultime composizioni poco conosciute nel mondo musicale.

Il vecchio professore s’era incontrato una volta, a Napoli, con Rolando di Montemagno, e così avveniva che quand’egli lasciava errare le sue mani piccole e rigide ma sicure sulla tastiera, ricordando i bellissimi Riens del grande maestro, volgendo ad ogni accordo peregrino la testa, in cerca di ammirazione, il giovane si trovasse dall’una e Manuela dall’altra parte del pianoforte

Rose li vide in quell’attitudine di simultaneo applauso, e ne provò una stretta al cuore.

In quei giorni erano giunti diversi ammalati gravi che non comparivano mai in pubblico, fra i quali un povero pazzo che aveva tentato suicidarsi. Il medico n’era accoratissimo e le angustie della professione accrescevano ih tormento del suo invincibile affetto.

Un giorno egli incontrò in paese la signorina Aparia con Eva Antella, Montemagno e il professore di clarino. Andavano in chiesa a provare [p. 350 modifica] l’organo. Due ore dopo li vide ritornare carichi di fiori. Il parroco aveva fatto loro gli onori del suo orto. Manuela teneva un fascio di gigli bianchi in mano e sul suo cappello a larghe tese Eva aveva appuntato tre o quattro di quelle belle rose centifoglie antiche, vivide, olezzanti che fioriscono tardi in montagna, e che si trovano ancora nei modesti giardini di paese. Il viso della fanciulla era irradiato d una insolita letizia, e a Rose sembrò che da quella sorridente giovinezza gli venisse un fascino sempre più irresistibile e sempre più doloroso.

Da quel giorno un grave sospetto gli penetrò nell’anima. Egli si mise ad osservare Montemagno in ogni suo atto, in ogni suo movimento, in ogni sua più insignificante parola. E notò che quando Manuela esciva per la reazione, poco tempo dopo, se non era sola, egli andava da quella parte per poterla incontrare; vide che offriva i suoi servigi di preferenza alla marchesa che alle altre signore, che in sala era il più assiduo al suo circolo; scoperse qualche occhiata furtiva ma intensa, quantunque non corrisposta; osservò all’occhiello del suo vestito qualche fiore che v’era già comparso il giorno addietro; s’accorse che all’apparire della fanciulla visibilmente si turbava. Allora cominciò a provare uno spasimo atroce; il suo affetto che il lungo sacrifizio aveva reso quasi selvaggio, gli parve troppo grande per quel silenzio, per quella torturante incertezza. Meglio morire tutto ad un tratto, in un’ora decisiva, piuttosto che languire [p. 351 modifica] in questa lenta agonia, pensò egli, e risolse di porre da parte tutti gli scrupoli e di affrontare il suo destino, faccia a faccia.

Il giorno appresso, tornando da un paesetto di montagna ov’era stato a trovare una vecchiarella sua protetta, invece di prendere la solita scorciatoia, egli deviò in un prato ove Manuela amava qualche volta dilungarsi nelle sue passeggiate mattutine, quando esciva sola, senza la cameriera. Aspettava da un quarto d’ora all’ombra d’un grande frassino, quando ella comparve da lontano nella serena luminosità verde dell’erba stellata di ranuncoli e di margherite. Camminava adagio, chinandosi or dall’una or dall’altra parte del sentiero per cogliere fiori. Poi si soffermò un momento come fosse rapita dalla bellezza festosa del giorno estivo e cominciò a cantare- Non era più il lamento straziante della canzone russa, era una melodia dolce, amorosa.

— Manuela! — disse il giovane, molto commosso.

— Buon giorno, Rose — rispose, serenamente, la fanciulla, venendo innanzi col suo fascio di fiori — pensavo proprio a lei, in questo momento, per una curiosità botanica ch’ella potrà certamente appagare. Prima di venir qui, feci con Adele una lunga passeggiata a Torcegno e raccolsi questa piantina — soggiunse, porgendogli una balsaminea. — Come si chiama?...

— È l'impatiens noli tangere — rispose il [p. 352 modifica] giovine con un triste sorriso, come se quel fiore gli riescisse di cattivo augurio. — Anch’io pensavo a Manuela — proseguì egli, raccogliendo tutto il suo coraggio — sapevo che doveva passare da qui, lo sentivo e l’ho aspettata.

Il volto di Rose, la sua voce tremante, il trepido accento delle sue parole, tutto tradiva in lui una profonda ambascia.

— Io pensavo — mormorò il giovine — che presto, forse fra pochi giorni, ella ripartirà da questo luogo guarita e ch’io non la rivedrò più per molti e molti mesi, forse più mai..., ero torturato dalla crudeltà, dall’angoscia di questa insopportabile separazione e venni a dirlo a lei, a confidarglielo perchè mi consolasse.....

— Oh Dio! dottore, come posso io consolarla? — rispose Manuela, con un’improvvisa titubanza. — Non so, non comprendo.....

— Mi dica una buona parola, m’assicuri che qualche volta si ricorderà di me.....

— Vuole che non mi ricordi? io che ho sempre rimorso del tedio che le recai coi miei capricci dell’anno scorso, io che le devo tanto?...

— Ella non mi deve nulla, ella ha dato a me i giorni più belli della vita! Oh, Manuela, Manuela, mi compatisca se oso effondermi in tal modo. Il silenzio mi soffocava. Vede, io ho messo da parte ogni riguardo sociale, ho dimenticato ogni scrupolo di professione, io nulla più rammento fuorché di trovarmi qui con lei, dinanzi alla serenità incontaminata del cielo..... Potrà mai perdonarmi? [p. 353 modifica]

— A me non spetta il perdono, ma piuttosto la gratitudine....., la sua benevolenza, la sua amicizia mi saranno sempre preziose.....

La fanciulla rispondeva con un certo imbarazzo, studiando le parole, coll’intenzione palese di non voler capire. Intanto era uscita dall’ombra protettrice del frassino per avviarsi lentamente verso la strada.

Egli la seguì a capo chino. Aveva compreso ormai.

Più agitata di lui che nello sfogo della confessione s’era sentito riprendere da un’improvvisa calma, Manuela stava immobile, muta, smarrita, colle labbra tremule, colle mani strette intorno ai suoi fiori.

— Io sono venuto a turbarla!... — balbettò Rose con immensa tristezza.

— È vero, dottore. Sono turbata e anche sorpresa. C’è in tutto questo qualche cosa che mi addolora, che mi fa male.....

— Lo capisco — disse Rose, prevenendola generosamente. — Ella ha il cuore gentile e soffre di non potermi dare alcun verace conforto. Non è così?... Ma io lo sapevo, io lo presentivo — soggiunse egli con nobile alterezza — e pur non rimpiango d’aver piegato la mia fronte dinanzi a lei. Ho voluto ch’ella conoscesse il mio segreto, ch’ella penetrasse nella mia anima come nessuno vi penetrerà mai, ch’ella leggesse a fondo in questo grande, in questo infinito amore. Così qualche [p. 354 modifica]volta, nella lontananza, nel tempo che passa e non muta, il suo pietoso, soccorrevole pensiero si rammenterà forse della mia solitaria vita.....

Egli aveva parlato con calma, ma un’angoscia così desolata gli trapelava dal volto e dalla voce che la fanciulla, incapace di trattenersi, scoppiò in un singhiozzo.

— Dio buono, ella piange! non voglio, non voglio che pianga per me! — esclamò il giovine dimentico di sè stesso. — Fui pazzo!... un momento d’esaltazione, non ci pensi più, Manuela!

E la fece sedere su un muricciuolo, e colla sua solita persuasiva dolcezza tentò acquetarla, implorando ancora ansiosamente il suo perdono.

Ma in quel punto, in una svolta della strada, comparve Eva Antella col suo bambino e con Montemagno, e alla vista di lui, Manuela si scolorì talmente in viso, che Rose ebbe colla conferma dei suoi timori un’istantanea conoscenza del vero. Forse la fanciulla non aveva compreso, ella stessa fino a quell’ora rivelatrice, lo stato del proprio cuore. Tuttavia, colla solita mirabile destrezza femminile, ella spiegò come si fosse sentita male per la via e il medico si fosse trovato pronto a soccorrerla.

Tornarono tutti insieme allo stabilimento senza poter vincere un vago senso d’imbarazzo che li rendeva silenziosi.

Quando si fu rassicurato che la signorina Aparia s’era perfettamente riavuta, Rose s’affrettò di [p. 355 modifica] chiudersi nelle sue stanze, non comparve al pranzo e per molte ore nessuno lo vide. Tutto gli era chiaro adesso, anche la cagione di certi turbamenti di Manuela: memore del passato, ella forse s’era drizzata contro le simpatie di Montemagno, ma indarno; ella aveva riavuto il sano equilibrio morale a cui sono complemento i nobili affetti, e il giovane a poco a poco la conquistava.....

L’indomani di buon’ora, quando discese, dopo aver compiuto faticosamente il suo giro di visite, essendo una giornata piovosa, molti bagnanti facevano la reazione sotto il chiostro. Il giovane si fermò un minuto nell’atrio donde si vedevano due ale del porticato è guardò in giro con occhio smarrito. Manuela passeggiava coi suoi soliti compagni, Eva e Montemagno, ma appena si volse e lo vide, seppe allontanarsi destramente da loro e s’accostò al medico stendendogli la mano. Era pallida, com mossa, e nel suo sguardo ardeva una muta, dolente preghiera. La sua presenza fece tornare Rose in sè, improvvisamente. Si ricompose con uno sforzo eroico, strinse la manina bianca, trovò sorridendo la solita forma di saluto mattutino. Ella interrogava sempre, colle limpide pupille, ma gli occhi velati del giovine non ebbero che una risposta di pace. Amarezze, dolori, angoscio, speranze perdute, tutto, tutto fu riposto con quello sguardo in un eterno silenzio. La forza morale, quel principio di energia e di salute per il quale Rose non cessava di battersi nella grande mischia delle miserie [p. 356 modifica] umane, trionfava anche nel suo animo travagliato da quell’unico invincibile amore e lo confortava come confortano sempre nella loro aspra voluttà le virtù di coloro che sanno affrontare il sacrifizio senza paura.


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Quando le signore Aparia partirono dallo stabilimento, Manuela poteva dirsi quasi guarita. La sua giovinezza rifioriva gioconda e colla riconquistata salute del corpo anche lo spirito si ritemprava nel più giusto equilibrio.

Il giorno dell’addio, Rose rimase, in apparenza, affatto tranquillo, quasi impassibile. Montemagno aveva fissato di partire alla stess’ora: tutto lo confermava nel suo convincimento. Fu con un’impressione di sollievo strano, crudele, ch’egli li vide allontanarsi nella stessa carrozza lungo la via di Biella, e sparire nell’ombrosa vallata. Con Manuela si dileguava ormai per lui ogni incanto da quei luoghi che aveva tanto amati, ma come la sua forza di dissimulazione era presso ad esaurirsi dinanzi alla visione tormentosa di quel nascente amore, così la sua nativa alterezza diveniva quasi ribelle all’irresistibile impero del sentimento.

Egli tornò al lavoro con lena febbrile, studiando di annientarsi nell’esercizio del bene: nessuno lo vide mai così sollecito, così benefico e oblioso di sè stesso per gli altri.

Molti mesi trascorsero, e cessato l’impegno allo [p. 357 modifica] stabilimento, Rose si dedicò con trasporto alla se- lezione degli elementi necessari per un suo nuovo lavoro sulle malattie della volontà.

L’abuso delle forze intellettuali e l’intensità dell’occupazione andavano alterando la sua salute di consueto così sicura e vigorosa. Egli non s’ac- corgeva che quel bisogno raddoppiato di attività, quell’ansia febbrile d’impiegare tutte le facoltà mentali nello studio, era un istinto dell’anima pau- rosa di rimanere sola con sè stessa e di dover forse indagare il proprio spasimo latente nei pericolosi silenzî del riposo.

Ma un giorno una mortale stanchezza lo prese, un improvviso abbandono di forze lo abbattè nel maggiore ardore dell’opera : egli sofferse quanto non aveva sofferto mai, e nel suo cuore scrupolo- samente fedele, la passione sopita, non vinta, di- vampò come una fiamma divoratrice.

«Vederla, vederla!» esclamava egli follemente fra sè, «vederla ancora una volta!»

E una sera di marzo si mise in treno e partì per Firenze. Ivi giunto, il suo primo passo fu alla clinica di S. Maria Nuova ove aveva un amico che s’interessava dei suoi studi: egli voleva dare a quel viaggio, uno scopo scientifico. Andò poi in via Tornabuoni ove era il palazzo Aparia e constatò con gioia che i padroni non erano assenti, ma non volle entrarvi. Il suo amor proprio si ribellava.

In quel giorno istesso davano alla Pergola un’opera nuova, Manuela non poteva mancare; era [p. 358 modifica] dunque là, al teatro che, non visto, voleva rivederla. E tutto il dì errò indarno per le vie di Firenze, alle Cascine, nel Viale dei Colli, con una vaga speranza d’incontrarla. Egli fu dei primi ad entrare in teatro e dalla sua poltrona di platea vide popolarsi i palchi ad uno ad uno. La marchesa, non tardò a comparire nella seconda fila di destra con una signora che non conosceva. Manuela rimase in fondo al palco finche il direttore non sedette sul suo scanno. Quand’ella s’affacciò sul davanti, Rose ebbe un sussulto e si sentì svanire il sangue dalla faccia. La signorina Aparia s’era fatta molto bella. Ella portava un vestito semplicissimo color dell’acqua marina, guernito con piccole ciocche di rose bianche molto simili a quelle che fiorivano sugli archi dello stabilimento. Parve al giovane di sentire il profumo di quelle rose e tutto il passato gli si ridestò nella mente con un’evidenza tormentosa. Ah! mai più egli avrebbe passeggiato con lei in quel chiostro e nei viali ombrosi del vecchio parco!...

Il preludio cominciava. Era la musica di un giovane maestro che cercava le novità nelle licenze armoniche. Una specie di strazio era in tutte quelle arditissime dissonanze, e Gustavo Rose, avvezzo ad afferrare subito il valore delle cose musicali, più compenetrato che convinto, si sentiva venire da quell’arte lusinghiera e corruttrice, un affanno senza nome.

Egli non osava volgersi verso il palco per timore [p. 359 modifica] d’esser riconosciuto, e la presenza di Manuela lo esaltava dolorosamente fino ad una inconsapevole speranza. Ma durante il prim’atto, mentre tutti erano assorti nella scena e applaudivano il tenore, egli non seppe resistere alla tentazione di quella dolce vista e guardò ancora.

Manuela sempre un po’ seria e raccolta teneva gli ocelli fissi sul cantante e, dietro a lei, un signore applaudiva con trasporto e quel signore era Montemagno. Allora Rose non vide più nulla, nè il palco, nè la scena: un fitto velo gli era sceso sugli occhi e colla morte nel cuore egli decise di partire alla fine dell’atto.

Egli usciva infatti, con passo mal sicuro, dall’atrio quando Montemagno lo raggiunse colmandolo dei più affettuosi rimproveri perchè non s’era ancor fatto vedere.

— Io non ti avevo riconosciuto prima d’ora! — esclamava il giovine — altrimenti sarei sceso subito! Vieni, vieni, le signore Aparia saranno felici della tua visita!

Rose si schermiva indarno. Egli finì col dire:

— Mi sento male.... non posso!

— Il caldo del teatro forse..... usciamo insieme a respirare un po’ d’aria, a prendere una bibita, poi torneremo.....

Ma Rose non accettò nemmeno questo e allora Montemagno, insistendo sempre, lo prese per il braccio, lo condusse fino al corridoio, aperse il palco e ve lo spinse con dolce violenza. [p. 360 modifica]

— Marchesa! — diss’egli — ecco un caro renitente che ho rimorchiato all’uscita e ch’ella vedrà con grande piacere.

Donna Cristina fece a Rose la più cordiale accoglienza e come nel palco c’erano delle persone a lui sconosciute, durante le necessarie presentazioni, egli si riebbe un poco dal suo turbamento, poi si trovò seduto accanto a Manuela e subito gli venne alle nari la fragranza delle rose con una vertiginosa ebbrezza. S’informò con una frase qualunque delia sua salute: non poteva parlare. Manuela non aveva tradito alcuna emozione, solo lo tremavano un pochino le labbra, perchè in quel momento ella leggeva nell’animo del suo medico. Parve anzi a questo che volgesse uno sguardo supplichevole a sua madre, ma non ne comprese subito lo scopo. La conversazione era animata, lo visite si succedevano; Rose si propose di partire al secondo atto, ma all’alzarsi della tela gli uomini uscirono tutti, compreso Montemagno: egli dovette restare.

Adesso era seduto presso alla marchesa e aveva dinanzi a sè il caro profilo di Manuela, quel profilo grave e fino d’angelo antico, e la fanciulla un po’ pallida guardava sempre alla scena ove duo grandi artisti cantavano un duetto d’amore. Quando fu finito, donna Cristina si volse a Rose e gli disse: — Quanto, quanto le dobbiamo, dottore, per la cura che s’è preso della nostra figliuola! È perfettamente guarita mercè i suoi buoni consigli..... [p. 361 modifica]

— Era un’amabile inferma! — mormorò il giovine con un triste sorriso e ancora gli parve che Manuela rivolgesse a sua madre uno sguardo di preghiera. Ma la marchesa, approfittando d’un fragoroso applauso del pubblico che le permetteva di parlare più liberamente, continuò senza darvi ascolto:

— La gratitudine ch’io sento per lei m’obbliga a farle una confidenza, e a comunicarle il nostro segreto..... Manuela è fidanzata — soggiunse ella. sempre più piano — è fidanzata con Montemagno. Questo matrimonio appaga in tutto i nostri desideri. Sono certa ch’ella partecipa da buon amica alla nostra contentezza.

— Certamente! la ringrazio, marchesa, e me no rallegro! — balbettò Rose contraffatto.

Sul palcoscenico gli amanti, ripetendo il duetto, cantavano una melodia vibrante di passione. Manuela si volse per istinto, capì tutto dal volto alterato del giovine, e gli sorrise con una soavità dolorosa da cui traspariva insieme alla compassione gentile il rispetto profondo del suo segreto.

Il teatro applaudiva freneticamente. Un musicofilo entrò nel palco commentando- il duetto egli applausi. Rose s’alzò per congedarsi, poi sedette ancora: aveva una nebbia dinanzi agli occhi, un rumore confuso nel cervello, un palpito disordinata nel cuore. Gli parve che donna Cristina gli chiedesse quanto rimaneva, e lo invitasse a casa sua. Egli non rammentava bene che cosa avesse [p. 362 modifica] risposto, sapeva soltanto, che una malìa irresistibile, angosciosa lo teneva incatenato, suo malgrado. Ma presto sopravvennero altre visite e dovendo cedere il suo posto, egli balzò in piedi con uno sforzo, prese rapidamente commiato e si trovò nel corridoio in faccia a Montemagno che lo trattenne e gli disse con trasporto:

— Come sta bene ora la marchesina, non è vero? Sei tu, Rose, che l’hai guarita, lo dice sempre! — E lo guardava fisso, con una certa tenerezza, come per indagare se il medico avesse saputo di quella loro recente, segreta promessa di matrimonio. Ma il dottore che s’era subito riavuto non mostrò alcuna speciale commozione.

— Vado un momento fuori all’aperto e ritorno! — diss’egli per svincolarsi dal giovine che gl’impediva il passo, con un’effusione d’innamorato riconoscente, e s’allontanò in fretta lasciando Montemagno alquanto sorpreso.


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Rose esci dal teatro e si mise ad errare per le vie di Firenze come un pazzo. Egli soffriva crudelmente e, forse per la prima volta, gli sembrava che il suo martirio superasse ogni forza di reazione.

L’aveva guarita, sì guarita; Manuela era la bella, la viva, la palpitante immagine dei suoi principii, delle sue teorie, era una sua creazione, era un [p. 363 modifica] incontrastabile possesso del suo spirito, doveva essere sua, la dolce compagna, la donna diletta, il prezioso frutto della nobile vittoria. Invece, Montemagno se l’aveva presa, tutta per sè, lassù nella sua casa, mentre egli la guariva..... E adesso era lui che portava in petto l’insanabile piaga.

Rose non aveva mai sentito un tale tumulto di passione martellargli nel cuore e nel cervello, mai il desiderio personale s’era acuito con un tale spasimo nella sua anima avvezza alle abnegazioni.

Errò a lungo, senza mèta. Da due notti non si coricava, ma nel suo febbrile eccitamento non sentiva nè sonno nè stanchezza alcuna. Finì col trovarsi in una stradicciuola di campagna, dalle parti di S. Miniato.

Albeggiava. Il giorno era sereno e il sublime paesaggio di Firenze emergeva a poco a poco dalla penombra illuminandosi d’un chiarore blando. Dai muri campestri pendevano lunghi rami di rosai precoci in fiore: un olezzo penetrante di primavera veniva dai frutteti e i cipressi neri s’ergevano come fantasmi tra i biancheggianti ulivi. Il mormorio della città che si destava, i suoni lontani dell’Angelus, il canto mite degli uccelli non turbavano la poesia del silenzio mattutino e quel silenzio era grande.

Rose si asciugò la fronte e respirò largamente. Fino a quell’ora gli era sembrato di soffocare nel suo dolore, ma adesso dalla stessa ineffabile voluttà di quel dolore, dinanzi alla quiete sovrana [p. 364 modifica] della natura, gli veniva nell’animo una specie di annientamento, di calma profonda, mortale. Era come l’abolizione perfetta delle aspirazioni individuali. La volontà, sì a lungo addestrata ah suo nobile ufficio, si riaveva dalla sua momentanea impotenza per riprenderlo con maggiore efficacia.

Gli riapparvero all’improvviso tutte le visioni umanitarie della sua giovinezza, le visioni della miseria che a se stessa soccombe, del vizio che abbrutisce e corrompe, dell’eccessivo lavoro che uccide, delle infermità ereditarie che non perdonano, e il suo antico sogno di votarsi a coloro che soffrono senza concedere al suo cuore le gioie distraenti della famiglia, divampò, in tanto affanno, come una fiamma purificatrice, assorbendo la sua afflizione.

Lentamente egli ridiscese alla città e, senza esitare, s’avviò alla clinica di S. Maria Nuova.

Il suo compagno era già al posto e s’affrettò di condurlo nella sezione delle tisiche ove allora si stava esperimentando la linfa, ancor sempre infruttuosa, del dott. Koch. Rose andò di letto in letto, interrogando, trovando quella benevola parola di conforto che tradiva il psicologo; si trattenne molto presso un’inferma che giaceva da mesi per un grave disinganno d’amore, finì al capezzale d’una fanciulletta dal volto estenuato, dai folti capelli castani, dal profilo impresso d’una gentilezza altera, come quello di certi angeli antichi, come quello di Manuela. [p. 365 modifica]

— È una trovatella... — spiegò in francese il medico dell’ospedale e non sa rassegnarsi al suo destino.

Rose prese una mano della piccola malata e si chinò a baciarla in fronte, sui riccioli bruni. La fanciulletta derelitta gli parve sciogliere in quel momento l’enigma del suo destino: disperdere le inutili preoccupazioni del proprio essere, nell’infinito, nell’immenso mare della carità.

Compenetrato da quell’idea e tranquillissimo ormai, il giovane uscì dalla clinica, andò a portare un biglietto di scusa al palazzo Aparia e un altro all’albergo ove alloggiava Montemagno, poi prese il primo treno e partì da Firenze per tornare al lavoro, al sacrifizio, per lui solo elemento di pace.