Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. I/Capitolo III

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Capitolo III

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CAPITOLO III.


Pellegrino Bossi ambasciatore francese a Roma..


(Periodo franco— italiano 1846-1848).


Il giorno 14 giugno dei 1846, quarantanove dei sessantadue Cardinali di cui si componeva il Sacro Collegio alla morte di Gregorio XVI, si raccoglievano in conclave al palazzo pontificio del Quirinale, per la elezione del nuovo Papa1.

Nessuno avrebbe saputo dire perchè a quel conclave ciascuno attribuisse una straordinaria importanza, perchè a quella elezione tutti sentissero connessa una gravità eccezionale, ma pure quasi tutti gli uomini coscienti di Roma, dello stato pontificio, d’Italia sentivano istintivamente tutto ciò.

Le condizioni morali della politica - già lo accennai - erano tali che denotavano un vigoroso risveglio delle coscienze, un formicolio primaverile di sangue nelle vene delle popolazioni, e l’aria sembrava circolare tutta impregnata delle fervide aspirazioni degli Italiani a un civile rinnovamento, a un nazionale risorgimento.

Le idee diffuse dagli scritti della scuola, che fu detta riformista, specialmente quelli del Gioberti e del Balbo, erano penetrate in molte coscienze; e il Primato morale e civile degl’Italiani in cui era inclusa l’apoteosi della Chiesa cattolica e del Papato, aveva infuso — quasi inconsapevolmente e senza che [p. 122 modifica]pure essi se ne avvedessero - nell’animo di molti ecclesiastici un indistinto desiderio di miglioramenti morali e materiali da introdurre nel governo temporale degli stati romani.

Da altra parte un movimento, da prima inavvertito, ma che ad ogni di si veniva facendo più manifesto, un movimento di odio contro gli Austriaci usurpatori ed oppressori avveniva in Lombardia; un dissidio che aveva per cause immediate divergenze d’interessi commerciali, ma sotto al quale si agitavano - coscienti o inconscienti che ne fossero gli uomini - ragioni politiche, si veniva esplicando fra il governo austriaco e il piemontese; e fra le serie e forti popolazioni subalpine serpeggiavano quasi audaci patriottiche aspirazioni a civili riforme.

Recenti ancora risuonavano i lai delle madri e delle mogli dei Bolognesi o morti, o dannati a grave prigionia o all’esilio nei movimenti insurrezionali del 1843; calde erano le ceneri e vivissimi il ricordo e il rimpianto dei generosissimi fratelli Bandiera e dei loro eroici compagni d’azione e di sacrificio; ed era di ieri il manifesto dei ribelli di Rimini, a cui serviva da terribile commento - un vero processo contro il governo dei preti il libercolo di Massimo D’Azeglio, Gli ultimi casi di Romagna.

Man mano che i Cardinali giungevano al conclave, giungevano 0 portate da essi, o inviate dai vescovi, le rimostranze sciatte e sottoscritte dalle magistrature e dai personaggi più autorevoli delle provincie, invocanti riforme civili ed amministrative: quelle rimostranze non erano altro che le pacifiche e officiali manifestazioni del malumore, del malcontento che agitavano la grande maggioranza delle popolazioni dello Stato romano.

Tutti questi fatti riuniti insieme costituivano i fluidi aereiformi componenti l’atmosfera satura di elettricità che incombeva su Roma, allorché, il 14 giugno 1846, vi si riuniva il conclave.

Quell’atmosfera incombeva anche sui porporati che vi si riunivano: essi pure, forse inconscientemente, subivano l’influenza di quella elettricità: le condizioni della Chiesa erano gravi, quelle dello stato gravissime: importantissima, quindi, e quasi decisiva la elezione che essi stavano per fare. Si trattava di definire se la Chiesa e lo stato sarebbero ancora condannati a restare immobili entro la cerchia dogmatica e reazionaria in cui li aveva circoscritti la fratesca ostinazione di Gregorio XVI, esposti ancora [p. 123 modifica]a tutti gli urti, a tutte le offese, a tutti i danni che loro deriverebbero dal cozzo con la civiltà, con la scienza, con la umanità, o se, mutando indirizzo, si dovesse procacciare di conciliare, possibilmente e fin dove erano conciliabili, le aspirazioni, gli interessi, i diritti della Chiesa e del dominio politico dei Papi con quelli della civiltà, della scienza e dell’umanità.

Tutto ciò istintivamente, confusamente sentivano, meglio forse che non intendessero, i più di quei quarantanove Cardinali; tanto è vero che la lotta fu breve, sebbene accanita, che il conclave durò tre soli giorni, che la elezione del nuovo Pontefice fu quasi fulminea. E quelli che la decisero così rapida furono proprio i partigiani della immobilità reazionaria gregoriana: perchè, quando, al primo scrutinio, la maggioranza dei Cardinali, sui cui temperamenti esercitava una influenza determinante il clima storico, videro raccogliersi diecissette voti sul nome del Cardinale Luigi Larnbruschini, l’antesignano della politica di reazione, quella maggioranza, quasi tumultuariamente, si raccolse ad un tratto sul nome che aveva ottenuto più voti dopo quello del Lambruschini, sul primo nome che le capitava innanzi - non curando neppure se quel nome fosse oscuro, nè se colui che lo portava fosse 0 non fosse sapiente, dotto, esperto delle politiche bisogne - si raccolse sul nome di colui che si presentava, al primo assalto, come antagonista o vero, o supposto, del continuatore politico di Gregorio XVI. E il Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti fu eletto Pontefice della Chiesa cattolica, con trentasei suffragi su quarantanove votanti, al quarto scrutinio. Quei trentasei Cardinali, senza neppure lontanamente immaginarselo, furono gli inauguratori della grande rivoluzione che, nel 1848-49, sconvolse l’Europa2.

Già dissi in un altro mio volume3 come del Pontefice Pio IX, fra completi e incompleti, fra i più veridici ed imparziali e i più [p. 124 modifica]appassionati ed esagerati, io abbia veduti duegentosessantaquattro ritratti storici, dei quali molti si rassomigliano assai fra loro e molti dei più benevoli, messi a confronto con molti dei meno benevoli, talmente differiscono di linee e di colorito che il personaggio dipinto non pare più quasi il medesimo. E ciò si comprende facilmente se si ripensa che quell’uomo visse quasi ottantasei anni, regnò quale principe più di ventiquattro, resse la Chiesa come Pontefice per quasi trentadue anni ed ebbe importantissima parte in tutte le vicende fortunose che agitarono e sconvolsero per un venticinquennio l’Europa, facendo sorgere da prima e deludendo poi tante speranze, facendo versare tante lacrime di gioia in principio e tante più lacrime di dolore dappoi, e se si pensa, quindi, che egli doveva essere, come fu, spessissimo guardato e giudicato attraverso al prisma delle più terribili ed opposte passioni.

Io qui ripeterò oggi quello che allora, con le più sincere e leali intenzioni d’imparzialità, ne tracciai e che, anche oggi, dopo altri quattro anni di ricerche e di studi, onestamente mi sembra il vero.

Il Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, nato a Senigallia il 13 maggio 1792, da una famiglia di nobili, nè antichi, nè insigni, aveva cinquantaquattro anni, allorchè fu elevato all’altissima dignità pontificia. D’ingegno svegliato, di fantasia non direi calda, ma esagitabile, di animo impressionabile, subitaneo, inchinevole alle cose belle, buone e generose, ma facile a passare dai subiti e fugaci entusiasmi ai profondi scoramenti, instabile, quindi, e mutevolissimo, il Cardinale Mastai era scarso di studii, povero di idee e, in queste condizioni dell’ingegno e dello spirito, egli mancava assolutamente di fermezza di principii e di serietà e profondità di convincimenti e in lui quindi non era e non poteva essere - saldezza di carattere. Bello della persona, dal volto aperto e simpatico, signorile nei modi, facondo parlatore, dalla voce sonora, armoniosa, insinuante, il nuovo Pontefice di questi suoi pregi reali, e di quelli immaginati e attribuitigli dalla adulazione allettatrice, femminilmente invaniva, e alle lusinghevoli carezze della lingua cortigianesca sempre pronto e aperto avea l’orecchio. E, come in tutti gli intelletti mediocri e in tutti i caratteri deboli suole avvenire, il nuovo Pontefice più [p. 125 modifica]assai che di sentimento religioso, di pregiudizi paurosi e di superstizioni infantili aveva l’animo ingombro: onde sul suo cuore due modi più sicuri vi avea di far presa: col solleticarne la vanità e col suscitarvi lo scrupolo.

Tale era l’uomo che trentasei cardinali avevano elevato al soglio pontificio.

«Tutti», scriveva il Rossi al Guizot, «ci felicitano come di una scelta conforme ai nostri desiderii. Io, infatti, ne spero bene. Il mio primo colloquio col Papa non poteva essere nè più cordiale, nè più commovente. Esso ha impressionato il pubblico che ne fu testimonio. Evidentemente il Santo Padre l’attendeva e lo desiderava. Io gli ho detto, nel congedarmi, che speravo di aver presto l’onore di presentargli le mie lettere di ambasciatore. Egli mi ha risposto, con effusione: io le riceverò con la più viva soddisfazione. Debbo aggiungere nulladimeno, che io non lo conoscevo personalmente, perchè egli non dimorava in Roma: ma me ne dicono un gran bene. Egli è religiosissimo; ma, laico fino a trent’anni4, la sua educazione gli fu data da’ preti. Egli appartiene ad una scuola teologica ben conosciuta a Roma e che accoppia a molta pietà, idee elevate e sentimenti di tolleranza5. Egli è assai amato nelle Legazioni e rinomato per la sua carità. Egli ha un fratello che si trova assai compromesso negli affari del 1831. Non ignara mali, ecc. Egli non ha ancora nominato i suoi ministri. Vedremo»6.

[p. 126 modifica]Proprio in quei giorni in cui era stato eletto il nuovo Papa, il Re Luigi Filippo, ponendo ad atto il suo divisamento, aveva conferito a Pellegrino Rossi il titolo di Conte e gliene aveva mandato la partecipazione, per cui, qualche romano spiritoso, riferendosi alla allocuzione che egli aveva indirizzata ai Cardinali, il 14 giugno, quando stavano per chiudersi in conclave e attribuendo la nomina di lui a Conte alla gratitudine del Re dei Francesi per la elezione del nuovo Papa, che pubblicamente si reputava di soddislWzione del governo francese, mise in giro il motto; Conte dello Spirito Santo, alludendo al conclave: il motto piacque e andò dattorno e divenne popolare7.

Il nuovo Pontefice, come è noto, esordi con la concessione di una amnistia politica, largita in data del 16 e pubblicata il 17 luglio 1846, un mese appunto dopo la elezione di lui. Quell’atto di perdono, che restituiva al rappresentante di Cristo in terra il suo carattere di pace e di carità, quell’atto, che palesava nel nuovo Principe dello stato romano, l’atteso, l’invocato, il desiderato Sovrano, determinato a riconciliare le irritate e infelici popolazioni di quello stato col loro oppressivo governo, quell’atto, che apriva le porte delle galere a quasi mille sventurati e schiudeva le vie del ritorno in patria a più di mille esuli viventi raminghi per l’Europa, gli uni e gli altri rei soltanto di aver pensato ed operato per la rigenerazione d’Italia, quell’atto trasse ad uno scoppio indicibile di entusiasmo, prima la popolazione di Roma, poi quelle dello stato, poi quelle di tutta Italia, poi quelle di tutta Europa. Perchè dunque tanto entusiasmo? Che di straordinario conteneva io sè quell’atto? Era forse la prima amnistia che venisse accordata quella concessa ai condannati politici romani da Pio IX? E che importava e che doveva importare agli Irlandesi, per esempio, ai Polacchi, agli Ungheresi, che doveva importare all’opinione pubblica europea di pochi prigionieri e profughi italiani?...

Ciò che non vedono, o non vogliono vedere molti degli storici che hanno scritto su quel grande rivolgimento del triennio 1846-49, è appunto la segreta e implicita importanza, [p. 127 modifica]l’importanza assolutamente nuova e incalcolabile che quell’editto del perdono del 16 luglio 1846 includeva in sè, per le speciali condizioni dell’ambiente, per la eccezionalità del momento storico in cui avveniva.

Perchè piangeva e tripudiava e acclamava in delirio all’adorato, all’angelico, al divino Pio IX, tutta quella folla? Perchè piangeva egli pure, a quello spettacolo, il Conte Pellegrino Rossi, perchè, in poco meno di due mesi, se ne commoveva tutta l’Europa civile?

Non tanto per la bellezza e bontà intrinseca di quell’editto, non tanto pel bene che immediatamente esso produceva, non tanto per la gratitudine dei pochi beneficati, quanto per tutto ciò che, agli occhi dei popoli oppressi, quell’editto racchiudeva in sè di speranze, di promesse, di affidamenti intorno a un imminente e securo avvenire di rinnovamento morale, politico e civile di tutto il vecchio, manomesso continente europeo.

Dal colle Quirinale spuntavano i primi chiarori di un’aurora di redenzione: una luce si diffondeva da quel colle che annunziava il sole vivificatore; l’editto di amnistia di Pio IX altro non era - e i popoli lo sentivano, lo intuivano, lo indovinavano- che il preludio dell’inno di riscatto aspettato e implorato e che veniva di là, da quel colle temuto, donde le genti europee erano assuefatte, da ti e secoli, a non udire che voci di scomunica e di maledizione contro la scienza, la libertà, la civiltà!

Per gl’italiani Pio IX appariva il Messia atteso, l’inviato da Dio, il profetato dal Gioberti! Tutte le speranze, tutte le aspirazioni, tutti i conculcati diritti, gli obliati interessi morali e materiali delle sparse genti italiane, la indipendenza della penisola dallo straniero, voluta quasi da tutti, l’ordinata e più o meno ampia libertà desiderata da moltissimi, la federazione di Principi e di popoli in una quasi fraterna unione da moltissimi pure implorata, l’unità politica della nazione vagheggiata da molti, lo svolgimento vigoroso della vita agricola e commerciale, la prosperità economica, la grandezza morale dei popoli della penisola, felicità che erano nel fondo dei pensieri di tutti, tutte queste cose ciascuno vedeva consacrate, affermate, promesse nell’atto del perdono: non ciò che quell’editto dava ma tutti quei tesori, quei beneficii che ciascuno leggeva scritti in ogni [p. 128 modifica]linea di quell’editto, ecco ciò che le popolazioni italiche, nel parossismo della loro gioia per tanti anni contenuta, acclamavano ed applaudivano8.

Per gl’Irlandesi, pei Polacchi, per gli Ungheresi, per tutti gli oppressi d’Europa, pei liberali protestanti della Germania e dell’Austria, per tutti coloro che soggiacevano da trent’anni e gemevano sotto il giogo della Santa Alleanza, quell’uomo, quel Pontefice che, avvolto nella candida veste del perdono, irradiava una luce nuova da quella Roma, da cui quei popoli, da trecent’anni, non udivano voci d’amore e di conforto, quel Pontefice appariva come rinnovatore di un ciclo storico, come vessillifero della libertà a ciascun popolo; ciascuna gente vedeva in lui il proprio salvatore: il Papato riprendeva il suo antico splendore, la Chiesa riassumeva, per la voce e per l’opera di lui, la sua missione medioevale di civiltà e mostrava di voler riassurgere all’antica grandezza.

Tutti questi pensieri, tutti questi sentimenti erano confusamente, indistintamente, anche inavvertitamente, anche esageratamente, se si vuole, negli animi di tutti, grandi e piccoli, deboli e potenti, oppressi ed oppressori; tanto è vero che, mentre, al comparir dell’editto del 10 luglio, esultavano i popoli, sbigottivano e divenivan pensosi i despoti e i diplomatici della Santa Alleanza.

Quell’editto creava una situazione nuova, era il principio di un’èra nuova, non già nelle piccole intenzioni del banditore di esso, ma nelle condizioni morali degli uomini di quel tempo, ma per l’agitazione, per le aspettazioni, pei desiderii, per le speranze [p. 129 modifica]dei viventi di quell’età: esso era - lo dirò con una frase sola il segnale di un generale rivolgimento in Europa.

Se è vero che Napoleone I riconoscesse in sè stesso, a Sant’Elena, un semplice strumento nelle mani della Provvidenza, anche Pio IX potè considerarsi come tale: là lo strumento era stato grande, anzi grandissimo e proporzionato alle grandissime cose per suo mezzo operate; qui lo strumento era piccino non ostante che grandissimo fosse l’eccitamento all’opera che da lui doveva derivare.

Così l’editto di amnistia creando, come dissi, una nuova situazione, creava, in pari tempo, un terribile e duplice equivoco sul fondamento del quale si svolsero, con rapido avvicendarsi di gioie e di speranze, di illusioni e di delusioni, di lacrime e di sangue, tutti gli avvenimenti - specialmente italiani - del triennio 1846-49.

Pio IX, divenuto d’un subito, appena eletto Pontefice, l’astro benefico a cui si affissavano tutti gli sguardi, il segnacolo in vessillo cui si volgevano tutti i cuori, si trasformava ad un tratto dinanzi alle popolazioni in un essere completamente diverso da quello che egli era: ognuno vedendo in lui l’effettuatore del proprio ideale, egli diveniva il centro di tutti gli ideali, anzi la personificazione di tutti gli ideali e cosi, senza che egli lo sapesse, senza che se ne accorgesse o lo supponesse, senza che ne avessero pur l’ombra della consapevolezza gli oppressi, gli infelici, tanto gli individui, quanto i popoli che si affissavano in lui e ponevano in lui ogni loro fiducia, ogni loro speranza. Pio IX ingrandiva, ingigantiva dinanzi alle immaginazioni delle moltitudini, diveniva adorno di ogni virtù, il centro di tutte le perfezioni, eroe e santo al tempo stesso, rinnovatore del secolo, fonte di vita e di felicità.

E questo fenomeno, che appar quasi strano e che è pure così naturale ed umano, non si verificava allora per la prima volta, non si verificava soltanto per Pio IX: esso non era un fenomeno, era un fatto: un fatto verificatosi altre volte, tutte le volte che una grande rivoluzione, o una grande evoluzione ebbe a compiersi nella storia dell’umanità. Perchè l’Eroe nella storia non si fa tanto da sè, quanto lo fanno gli altri. Le circostanze esteriori, le idee, le aspirazioni, i bisogni morali e materiali, [p. 130 modifica]l’ambiente, insomma, il clima storico di una data età sono gli elementi che conferiscono maggior forza, maggior virtú, maggior grandezza all’Eroe che sorge - e che deve sorgere, come conseguenza logica di quelle condizioni che costituiscono le premesse storiche - ad effettuare quelle idee e quelle aspirazioni, a soddisfare quei bisogni, a compiere, dirò cosi, quel sillogismo storico.

E allora ogni individuo di quella data società, lavorando, quasi inconscientemente, col proprio desiderio e con la propria immaginazione, presta ed attribuisce all’Eroe doti e qualità che esso, forse, non ha, ma che ciascuno ritiene indispensabili perchè l’Eroe risponda al tipo ideale che ognuno, nella propria mente, si è formato dell’attuatore di quella grande evoluzione o di quella grande rivoluzione; allora ogni individuo di quella data società esagera, col desiderio e con l’immaginazione, fino al massimo della perfezione, le virtú che l’Eroe possiede soltanto in parte.

Quanto maggiore è poi la coscienza che l’Eroe ha della missione che o la legge storica, o la Provvidenza gli ha affidata - il che dipende dal maggior o minor numero di doti e di virtú, indispensabili al compimento di quella missione, onde è fornito l’Eroe; - quanto più acuta è in lui la lucidità e comprensività dell’intelletto, quanto più ampia è la visione che egli ha dei desideri!, delle aspirazioni, dei bisogni dell’età sua, e tanto maggiore è in esso la intuizione dell’opera da compiere e della opportunità ed efficacia dei mezzi che egli deve adoperare per compierla.

E quanto più lucida è nell’Eroe la visione delle condizioni del suo tempo e quanto più profonda è in esso la coscienza della sua missione e tanto più sentirà e comprenderà di essere il rappresentante dei sentimenti, dei desideri!, dei bisogni universali.

E allora avviene quella perfetta rispondenza, quel giusto equilibrio, quell’armonica proporzione di rapporti fra l’Eroe e il popolo, fra quella singola grande coscienza e la grande coscienza universale, donde scaturiscono le grandi evoluzioni o rivoluzioni umane e le grandi figure storiche, e allora appaiono ed operano Mosè, Ciro, Alessandro, Giulio Cesare, Costantino, Maometto, Carlo Magno, Gregorio VII, il divino Dante, Cristoforo Colombo, Martino Lutero, Oliviero Cromwell, Giorgio Washington, Napoleone Bonaparte, questi Eroi, i quali - sia detto con [p. 131 modifica]tutta la reverenza e l’ammirazione dovute all’altissimo ingegno di Tommaso Carlyle - non sono grandi soltanto perciò che ognuno di essi aveva in sè di qualità straordinarie, non sono grandi soltanto per le loro doti interiori ed individuali, ma anche per quella gran forza che veniva ad essi dall’ambiente, dal favore, dall’aiuto, dalla fiducia ed ammirazione di tutti coloro che li circondavano e il cui pensiero e i cui sentimenti si svolgevano e si agitavano all’unisono col pensiero e coi sentimenti di quegli Eroi, i quali altro non furono, in fin fine, che mirabili strumenti o della logge logicamente fatale che governa la storia, o della Provvidenza, per coloro i quali ammettono l’intervento diretto della Provvidenza nella storia.

Per Pio IX, quindi, interveniva, allora, ciò che altre volte e per altri era intervenuto. Venuto alla più alta dignità umana, nel momento in cui una grande rivoluzione si veniva maturando in Europa, nel momento, cioè, in cui due grandi fatti si venivano svolgendo nelle coscienze degl’Italiani e dei Germanici, la ricostituzione, cioè, di tre secoli ritardata, delle loro due nazionalità in grandi Stati politici, come gli altri in Europa; venuto nel momento in cui tutti i popoli volevano fruire della libertà, iniziata dalla grande rivoluzione francese del 1789 e soffocata, poi, in nome del dogmatismo feudale e autoritario, dalla Santa Alleanza nel 1815, Pio IX, che si mostrava, con l’editto del perdono, sotto parvenze fascinatrici, doveva essere - come fu - .salutato quale angelo liberatore, quale iniziatore di quella grande rivoluzione.

Considerato cosi, apprezzato per tale, egli riusci, inconsapevolmente - come ho di già accennato - ad essere il creatore di una situazione nuova, la quale si fondava, però, sopra un duplice equivoco: uno derivante dalla personalità di lui, l’altro dal duplice ufficio di Principe e di Pontefice onde egli era investito.

Giovanni Maria Mastai-Ferretti, piccolo d’animo e di intelletto, non era un Eroe; anzi tutte le doti, tutte, dalla prima fino all’ultima, gli mancavano che sono indispensabili a formare, nella storia, l’Eroe. «Mi vogliono un Napoleone, mentre io non sono che un povero curato di campagna» nota, esclamò un giorno egli

9 [p. 132 modifica]stesso, quando si trovò avvolto, quasi fuggitiva lodoletta, in quel gran turbine. Dei desiderii, delle aspirazioni, dei bisogni dell’età sua, egli non sentiva e non comprendeva nulla più di quello che ne sentisse e ne comprendesse un dabbene e grosso fattore, o un farmacista da villaggio; senza idee mature e riflesse, senza studi non che profondi, neppure superficiali di storia e di filosofia, senza convincimenti, senza energia, ricco solo di buone intenzioni, di scrupoli religiosi e di circoscritta carità, con un piccolo, ristretto e casalingo ideale dinanzi agli occhi; far contenti tutti o, almeno, non scontentare alcuno, questo Don Abbondio del Pontificato, dei desiderii, delle aspirazioni, dei bisogni del tempo suo intendeva, in complesso, tutto questo: perdonare ai condannati politici - come, quando presiedeva l’istituto di San Michele, egli perdonava le loro scappate ai ragazzi, purché non lo facessero più —; concedere la illuminazione a gas, le strade ferrate, gli asili d’infanzia e qualche riforma omeopatica nell’amministrazione dello Stato; attendere, con una certa pompa, alle funzioni religiose; andar attorno assai per offrirsi gradito spettacolo all’ammirazione dei sudditi; essere ben voluto, essere lodato, essere applaudito... ecco tutti gl’ideali di Giovanni Maria Mastai-Ferretti: e se egli non andava più in là, la colpa non era sua10.

La legge logicamente fatale che governa la storia, o la Provvidenza che questa dirige, si servono spesso di piccoli strumenti a grandissimi effetti, ora di un umile frate per suscitare le crociate - già preparate nella coscienza del mondo medioevale ora di un modesto operaio per ritrovare la stampa, ora di un oscuro soldato per liberare dall’invasione stranierai! Piemonte; e avviene sovente che gli uomini di una età, in cui comincia a maturarsi una grande evoluzione, o una grande rivoluzione, scambino, per un momento, uno di questi messaggeri, o precursori per l’Eroe invocato ed atteso e che prendano, a prima giunta, Cajo Mario per Giulio Cesare, o Giovanni per Gesù: ma il supposto Eroe si palesa da sé e l’intuito divinatore delle [p. 133 modifica]moltitudini si accorge tosto dell’errore. Cosi avvenne nella storia del triennio 1846-1849: Pio IX si manifestò presto, e, prasto, i popoli illusi conobbero il dabbenuomo sotto le vesti sfolgoranti dell’Eroe che essi avevano applicato, per equivoco, alle sue umili spalle: il manto di Gregorio VII soffocava il direttore dell’ospizio di Tata Giovanni. Egli non era che un piccolo strumento a grandissimi effetti: egli non era l’Eroe: gli Eroi vennero dopo e si chiamarono Vittorio Emanuele, Cavour e Garibaldi, Guglielmo I, Bismarck e Moltke.

L’altro equivoco terribile, sorto da quella situazione nuova, creata dall’apparire di Pio IX in veste di redentore, fu quello derivante dalla duplicità degli uffici simultaneamente raccolti in lui, il quale doveva, contemporaneamente, essere Principe — e per ciò italiano e liberale — e Pontefice - e per ciò cattolico e dogmatico. Fino a che i desideri! e le aspirazioni,! diritti e gli interessi, che egli simultaneamente rappresentava e che, perciò, egli doveva imprescindibilmente propugnare e difendere, non fossero stati in opposizione fra loro. Don Abbondio, tuttochè così piccino d’animo e di intelletto, sorretto, aiutato, consigliato, avrebbe potuto, alla meglio o alla peggio, sostenere il duplice gravissimo ufficio: ma non appena un dissidio fosse surto fra quei diritti e quegli interessi, non appena i due uffici, riuniti nella stessa persona, si fossero trovati in urto e in collisione fra loro, l’impotenza dell’uomo sottoposto a quel duplice carico doveva apparire manifesta: Don Abbondio doveva soccombere ad un peso, per cui sarebbero state deboli non che le spalle di Federico Borromeo, ma quelle poderosissime altresi di Ildebrando da Soana.

Tutte queste cose che io son venuto dicendo potranno sembrare a qualche lettore una poco opportuna digressione: ma, secondo il pensier mio, non lo sono: giacchè tutta la storia del triennio delle rivoluzioni italiane 1846-1849 si fonda, in gran parte, su quei due grandi equivoci, dei quali una delle vittime più illustri, la più illustre forse, fu Pellegrino Rossi. L’aver, quindi, premesse, in riassunto, tutte queste considerazioni non sarà inutile alla più chiara intelligenza degli elementi che costituiscono la tragica situazione in coi rimase spento Pellegrino Rossi.

Il quale - è bene fissarlo fino da ora - tuttochè [p. 134 modifica]tore francese a Roma, dal giugno 1846 al febbraio 1848, e, perciò, nello stretto dovere di interessarsi agli avvenimenti che si svolgevano come francese e in quanto e per quanto essi interessavano la nazione che egli rappresentava, vi prese invece parte vivissima, senza venir mai meno ai suoi doveri, con affetto sincero e profondo di italiano, amante e devoto alla sua prima patria d’origine.

È dovere strettissimo dell’onesto narratore, è atto di giustizia constatare questo fatto, che risulta irrefragabile dalla corrispondenza del Rossi col suo governo, conservataci in parto dal Guizot e in parte dal D’Haussonville; l’ambasciatore del Re dei Francesi, procurando di adempire, con l’usata sagacítà e finissima arte sua, i doveri che gli incombevano verso il suo governo, assecondandone la politica, tutelandone a Roma gli interessi, si mostrò sempre premuroso del moto italiano, si adoperò con ardore perchè esso si svolgesse efficacemente, ma senza soverchia violenza, consigliò assiduamente il Pontefice e i suoi ministri, inanimi e procurò di tenere saldi ed uniti i più autorevoli fra i dottrinari italiani, affinchè non si lasciassero sfuggire la direzione del rivolgimento politico che si andava effettuando e sopra tutto, influì sempre sull’amico suo Guizot - il quale era, allora, in un deliquio di tenerezza col principe di Metternich a fine di conservarlo benevolo all’Italia, dipingendogli e le cose e gli uomini della penisola con colori attinti, talvolta, ad una tavolozza d’ottimismo che a lui somministrava, più che l’acutezza e la saviezza dell’ambasciatore, la devozione dell’antico patriotta italiano del 181511.

Certamente, Pellegrino Rossi voleva applicare all’Italia, ove le ire, i rancori, le passioni, per tanti anni compresse, erano [p. 135 modifica]in ebullizione, ove le sètte, i partiti, le opposte aspirazioni e gli opposti interessi erano in terribile cozzo fra loro, la sua formula prediletta dell’eclettismo concíliatore, la sua infallibile politica panacea del juste milieu; ma, come si sarebbe potuto giustamente pretendere, chi avrebbe potuto onestamente pretendere che un uomo, fatto canuto ormai in quella scuola, in quei principii, in quei convincimenti, fosse uscito da quella cerchia, entro la quale egli credeva fermamente racchiusa la quintessenza della sapienza politica, per consigliare o aiutare una condotta diversa da quella che egli, liberale moderato, estimava la ottima?

Le intenzioni, perciò, del Conte Rossi e la via da lui seguita nelle cose italiane, obiettivamente considerate, erano logiche, erano naturali, erano le sole che razionalmente si potessero aspettare da lui.

Nel descrivere al ministro Guizot la manifestazione popolare della sera del 17 luglio, l’artista ed il patriotta si palesano con impeto di vero lirismo. «Immagini Vostra Eccellenza una magnifica piazza, una notte d’estate, il cielo di Roma, una folla immensa, commossa, lacrimante di gioia e che riceve con amore e rispetto la benedizione del suo pastore e del suo principe, ed Ella non sarà stupita se io aggiungo che noi abbiamo partecipato all’emozione generale e abbiamo posto questo spettacolo sopra tutti quelli che Roma ci abbia fin qui offerto»12.

Gli ostacoli che Pellegrino Rossi, nella sua saggia valutazione degli uomini e delle cose, prevedeva, sorsero subito: ed è d’uopo aggiungere, perchè dovevano sorgere logicamente da parte di tutto il potente partito sanfedista, reazionario, gregoriano, alla testa del quale erano una parte dei Cardinali, per lo meno i diecisette che avevano votato in conclave per il Lambruschini e al quale appartenevano moltissimi prelati e il maggior numero degl’impiegati o dei funzionari pubblici e tutto il personale della vecchia, settaria e ignorante polizia pontificia. Tutta gente nata e cresciuta sotto il dominio degli abusi del governo teocratico e, per conseguenza, per consuetudine, per inettitudine, per interesse a quegli abusi, a quel barocco e decrepito reggimento affezionata, attaccata, devota. Cosicché i primi ostacoli alle buone [p. 136 modifica]intenzioni di limitatissime riforme venivano al Pontefice innovatore proprio da coloro che lo avrebbero dovuto aiutare e servire nella qual si fosse sua opera riformatrice.

Cosi - come altrove notai - la contraddizione, che era insita ed implicita nella duplicità degli uffici onde era investito Pio IX, si manifestava subito limpida, inesorabile, stridente, fin dal primo giorno in cui egli volle compire un atto di principe riformatore. Il fatto è lieve per sè stesso, ma importantissimo per la sua significazione, appunto perchè è la prima prova del dissidio e della contraddizione esistente fra le due missioni imposte a Pio IX, ed è un fatto sfuggito a tutti gli storici, meno ad uno dei minori che lo accennò, ma non ne rilevò la gravità. Il giorno 16 luglio Pio IX aveva sottoscritto l’acclamato editto del perdono, con cui erano amnistiati Pietro Renzi e gli altri ribelli del moto riminese dell’anno innanzi: ebbene quello stesso Pio IX, due giorni dopo, il 18 luglio 1846, «non volle defraudare dei meritati premi coloro che si segnalarono nel prestare opera più o meno energica, reprimendo i tentativi dei liberali nel settembre del 1845, quali premi, decorazioni ed altro aveva predisposto e consentito il suo antecessore»13. Cosi, nell’istesso istante e con la stessa mano, il Pontefice - un po’ per la forza della contraddizione imperante su lui Principe e Papa, un po’ per la fiacchezza del suo animo pauroso ed oscillante - assolveva e benediceva i ribelli di Rimini, e premiava e benediceva coloro che quei ribelli avevano combattuto ed oppresso.

L’8 di agosto 1846 il Pontefice nominava a suo segretario di stato il Cardinale Pasquale Gizzi di Ceccano, assai lodato dal D’Azeglio nel suo libretto Degli ultimi casi di Romagna14 e in voce di liberale e che i Romani, nei giorni del conclave, avevano desiderato e sperato Papa.

[p. 137 modifica]Parlando della nomina del Gizzi il Rossi scriveva: «Egli è a suo posto, mi è parso, assai bene; egli è uno spirito freddo e pratico. Mi si assicura frattanto che egli è stato già spaventato. Per mezzo della paura si vorrebbe arrestare il Papa e il suo ministro. Avrebbero detto al Santo Padre che esso era riguardato come il capo dei liberali e che gl’interessi della Santa Sede se ne sarebbero trovati compromessi. Mi si assicura che il Papa e il ministro, specialmente, sono scossi. Nulla ho io veduto presso il Papa che me lo potesse far presentire: il linguaggio del Gizzi, mi è duopo riconoscerlo, poteva ugualmente esprimere la prudenza o la paura. Checchè ne sia il vostro dispaccio del 5 è giunto a proposito. Esso è eccellente. Dopo l’eccitazione prodotta dall’amnistia, rigettarsi dall’altra parte varrebbe provocare i torbidi più violenti. Speriamo che il buon senso la vincerà»15.

Qui gli storici appartenenti ai partiti progressista, radicale e repubblicano, giudicando essi pure la situazione, con un subiettivismo e con una passione, che non possono essere approvati ma soltanto compatiti in essi, perchè contemporanei, infuriano contro il partito sanfedista e reazionario, perchè con intrighi, con astuzie, con frodi di ogni maniera intralciava le buone intenzioni riformatrici di Pio IX e dei suoi ministri.

Che cosa dunque si poteva pretendere dal Principe di Metternich, dal Cardinale Lambruschini, dal Conte Solaro della Margarita e da tutti i satelliti della loro politica di reazione? Le riforme limitatissime vagheggiate da Pio IX, quelle più ampie e profonde desiderate e invocate dai liberali moderati e, alla testa di essi, da Pellegrino Rossi, quelle più ampie e radicali ancora invocate e volute dai liberali più avanzati erano, evidentemente, dirette contro le secolari tradizioni, contro i secolari pregiudizi e, sopratutto contro i secolari interessi di quel barocco edificio che era il governo teocratico: esse quindi dovevano sollevare contro quel movimento riformatore e rinnovatore le numerosissime falangi degli uomini che rappresentavano quelle tradizioni, quei pregiudizi, quegli interessi.

[p. 138 modifica]Se il Metternich, il Lambruschini, il Solano della Margarita, i gesuiti e i loro seguaci, per antichi e profondi convincimenti, per antichi e per presenti interessi, stimavano ottimo quel barocco edificio, se ottima stimavano la politica inaugurata a Vienna fin dal 1815 e mantenuta fino a quel giorno, come mai e perchè mai non avrebbero dovuto trovare pessima e nefasta la politica delle concessioni e delle riforme, invece di quella della repressione e della reazione?

Naturale, quindi, e logico era ciò che avveniva; e le trame di ogni specie a cui i reazionari ricorrevano per inceppare le riforme erano le legittime conseguenze di legittime premesse: inutile e illogico, perciò, era ed è il declamare contro di esse come fanno gli storici più liberali16, inutile l’affannarsi, contro l’evidenza della ragione e dei fatti, a negare o a nascondere quelle trame, come fanno gli storici papalini17.

Le trame c’erano e affannose e potentissime, e c’erano perchè ci dovevano essere e avevano la loro ragione di essere.

E non soltanto esistevano quelle trame, ma bisogna constatare che esse raggiungevano perfettamente il loro scopo, impedendo 0 rallentando razione riformatrice, intiepidendo e turbando l’animo incerto, titubante e pauroso del Papa, deludendo le speranze dei liberali, inasprendo gli spiriti più caldi e mantenendo viva e compatta l’azione di resistenza dei centurioni, dei sanfedisti, dei gesuiti e di tutta la caterva dei satelliti della reazione.

«È uno spettacolo curioso ed istruttivo quello che dava il nostro ambasciatore a Roma» - scrive uno storico temperantissimo - «non perdendo una sola occasione di segnalare anticipatamente i pericoli contro cui, a pochi giorni di distanza, l’amministrazione del Papa veniva ad urtare, indicando precisamente, al momento in cui esse sarebbero state opportune, o in cui sarebbero state ricevute con riconoscenza, concessioni che, più tardi, bisognava accordare senza gratitudine e senza profitto. Dagli ultimi mesi del 1846 fino alla vigilia della rivoluzione di [p. 139 modifica]febbraio, il signor Rossi non omette mai, tutte le volte che la sua assistenza fu richiesta, di fare intendere così savie parole che hanno poscia, pur troppo, rassomigliato a profezie»18.

Di fatti, su quella situazione di oscillazioni, di esitazioni, di tentennamenti, su quella politica di un passo avanti e di un passo indietro, vera politica d’altalena, conseguenza logica e fatale della condizione del Papa, già tanto debole e timoroso per sè stesso e reso più dubbioso dall’esser tratto di qua e di là dalle due correnti che furiose cozzavano intorno a lui, tirato da un lato dai consigli autorevoli del Conte Rossi, dei Cardinali Gizzi, Amat, Ciacchi, Baluffi, dei monsignori Corboli-Bussi, Bofondi, Rusconi, Pontini, Morichini, Muzzarelli, Gazzola, del padre Ventura, del canonico Graziosi, del conte Gabriele Mastai, suo fratello, dall’altro lato tirato dai paurosi avvertimenti, dalle oscure minaccie dei Cardinali Lambruschini, Della Genga, Vannicelli-Casoni, Brignole-Sale, Orioli, Patrizi, De Angelis, Ugolini, dei monsignori Antonelli, Marini, Rufini, Sibilla, Savelli, Grassellini, degli ambasciatori d’Austria, di Baviera e di Napoli, su quella situazione Pellegrino Rossi scriveva, in varie lettere, dal 18 dicembre 1846 al 13 luglio 1847, al capo del governo francese: «La troppa lentezza da parte del governo irrita gli uni, incoraggia gli altri, e rende la situazione delicata. Io l’ho crudamente detto al Papa. Sembra che l’abbia compreso; ma l’idea di agire senza dispiacere ad alcuno è una chimera donde egli durerà fatica a disfarsi... Le intenzioni e le vedute sono sempre eccellenti: io vorrei poter esser certo che le cognizioni positive e il coraggio non mancheranno... Ciò che egli si propone di fare è buono e sarà sufficiente, se è fatto prontamente e nettamente: ma qui non sanno neppure far valere il bene [p. 140 modifica]che fanno: si ama di farlo, per così dire, di nascosto, e si perde così il principale effetto, l’effetto dell’opinione. Il Cardinale Gizzi non sa sbarazzarsi, nei suoi atti, di quelle vecchie formule che oggi sono ridicole: gli è occorsa una circolare di quattro pagine, assai imbrogliata, per sopprimere due cattivi tribunali... Si tocca tutto, si decide in petto, si persevera nelle risoluzioni, ma non si agisce punto. Non è l’ideale di governo, è il governo allo stato di idea... La popolarità del Papa è ancora quasi intera; io temo soltanto che egli ne abusi, credendo di potervisi addormirò come sopra un letto di rose... Il paese attende, ma con una impazienza risoluta. La festa fatta in onore del Papa al primo dell’anno - 1847 - è avvenuta con un ordine perfetto, ma perfetto al punto che rassomiglia già ad una organizzazione... Frattanto il movimento degli animi cresce a vista d’occhio: gli scritti e i giornali si moltiplicano; le riunioni e le assemblee pure queste si organizzano. La legalità è rispettata, ma il sangue comincia a circolare rapidamente in questo corpo che era, un anno fa, calmo e freddo come un morto... Il popolo e i suoi guidatori hanno l’abilità e il senso d’opportunità che manca al governo... Il partito moderato e liberale da una parte e il partito radicale dall’altra si organizzano: e, in presenza di un governo che nulla sa organizzare e nulla concludere, i due partiti fanno causa comune. Essi si sarebbero separati e il partito radicale sarebbe riuscito un tentativo impotente, se il governo, con provvedimenti franchi e pronti, avesse saputo raccogliere il primo e farne un partito di conservatori zelanti e soddisfatti. Si è perduto troppo tempo e ciò che sarebbe stato sufficiente qualche mese fa oggi non basterebbe più. Ma, dopo tutto, si sarebbe ancora in tempo, se il Papa giungesse in fine ad esser coadiuvato da un governo attivo, leale, intelligente ed energico. Il Cardinale Gizzi si ritira e non si conosce ancora in modo sicuro chi sarà il suo successore. Si dice che il Cardinal Ferretti, atteso di giorno in giorno, faccia delle obiezioni»19.

[p. 141 modifica]Quanta acutezza e sagacia di vedute! Quale ricchezza e finezza di osservazioni!

Ma, con tutto ciò, con tutti i provvidi e amorosi consigli che egli dava, le cose procedevano come — disgraziatamente per la perfettibilità ideale che tutti i patriotti potevano desiderare — come, pur troppo, date le premesse, logicamente dovevano procedere.

Dopo l’amnistia e la nomina del Cardinale Gizzi a segretario di stato, Pio IX, fino all’8 settembre, altro non aveva fatto che nominare una commissione per l’esame dei vari progetti di strade ferrate.

L’8 settembre avvenne la gran festa in onore di Pio IX e per celebrare l’amnistia da lui accordata e per eccitare — questo era sottinteso — l’attività di lui nell’opera riformatrice dello stato.

Promotori principali di quell’arco di trionfo eretto allo sbocco del Corso a piazza del Popolo, erano stati i più ardenti fra gli amnistiati e il popolano Angelo Brunetti detto Ciceruacchio. Le accoglienze fatte al Pontefice, veramente entusiastiche, avevano fatto sembrare questo un vero trionfo antico.

Ma, all’infuori di due circolari del Cardinale Gizzi alle rappresentanze municipali dello Stato per avere suggerimenti intorno a riforme da introdursi nell’educazione della gioventú e intorno al modo di far sparire l’accattonaggio, ai 4 di novembre, cioè quattro mesi dopo l’amnistia, nulla si era fatto. E le speranze erano infinite, infiniti i desiderii, immensa l’aspettazione... che durava - chi ripensi la storia e le condizioni delle popolazioni romane - non da quattro mesi, ma da trentanni!

Così quando il Pontefice si recò in gran pompa - secondo la consueta sua femminile vanità - alla chiesa di S. Carlo dei Lombardi al Corso, sul passaggio di lui scarsi i soliti applausi, poche e fredde le consuete acclamazioni, che a lui tanto piacevano e delle quali si inebriava, ma silenzio quasi profondo. Allo Sterbini, al Principe di Canino, al Montecchi, agli altri capi del partito liberale più avanzato era forse ricorso al pensiero il motto di quel rivoluzionario francese: «il silenzio del popolo è la lezione dei re».

Fatto sta che il silenzio era stato quasi generale fra trentamila persone, schierate dal Quirinale a S. Carlo al Corso, e. [p. 142 modifica]per conseguenza, è dato arguirne che quella lezione era scaturita da una quasi unanimità di sentimenti, che ne accresceva la gravità e l’importanza.

Allora, giusta il brutto vezzo notato dal Rossi di concedere tardi e quasi per forza, in quei quattro di che intercedevano fra il 4 e l’8 novembre, giorno in cui doveva succedere la pomposa festa del possesso che il Papa andava a prendere della Basilica Lateranense, Pio IX ampliò una commissione nominata dal suo predecessore per la riforma dei Codici civile e penale, introducendovi otto dotti giureconsulti laici, ne nominò una, pure in maggioranza di laici, per provvedere al vagabondaggio e faceva pubblicare dal Cardinale Gizzi una notificazionne in cui si stabiliva la costruzione delle strade ferrate e si indicavano le linee che sarebbero state costruite.

E l’entusiasmo per Pio IX si riaccese di nuovo e il giorno 8 novembre egli fu fatto segno alle più vive popolari ovazioni.

Ma, siccome il partito del progresso aveva ottenuto le accennate magre soddisfazioni, il partito reazionario volle la sua; onde il Pontefice, perseguir sempre e fedelmente la politica di altalena, pochi giorni dopo mandò fuori l’Enciclica Qui plurimis jam ab hinc annis in cui, riaffermando tutte le dottrine dogmatiche della Chiesa, condannava tutte le massime contrarie ai principii da essa proclamati, biasimava e dannava le sètte, le società per la diffusione delle bibbie tradotte in volgare e i libri avversi ai dogmi, alla morale e agli ordini stabiliti.

Intanto però il popolo romano, per così lungo tempo creduto assonnato, si svegliava: esso si associava ai proscritti rimpatriati, ai condannati usciti dal carcere e - ciò che più importava - al popolo si univa la plebe, fiera, orgogliosa, ignorante si, ma di animo generoso, la plebe, che, nel 1831, si era mostrata ancora retrograda e reazionaria e che ora, mercè l’iniziativa presa dal Papa novellamente eletto, sotto l’ascendente che sopra lei esercitava quel generoso, laborioso, agiato, intelligente, sebbene rozzo ed incolto, disinteressato e ardente patriotta che era Ciceruacchio, si palesava accesa da sentimenti liberali e moderni.

Il sangue cominciava a circolare rapidamente, per adoperare una frase di Pellegrino Rossi, in quel corpo che pareva esanime: onde l’11 novembre, promosso dal Montecchi, dallo [p. 143 modifica]Sterbini, dal Checchetelli, dal Meucci, dal Bonaparte di Canino, da Ciceruacchio e da altri patriotti un banchetto popolare di novecento copei-ti era offerto da seicento liberali romani a trecento liberali delle provincie convenuti a Roma per il solenne possesso di Pio IX; e là discorsi, poesie, acclamazioni all’adorato, all’angelico, al divino Pio IX... ma voti alti e manifesti per ottenere la concessione delle desiderate riforme e minaccie abbastanza significative all’indirizzo dei loioliti, dei reazionari, dei briganti — con questo nome erano denotati i gregoriani — le cui mene, i cui raggiri e le cui anche aperte ostilità contro la politica di Pio IX tutti vedevano e intravedevano, intuivano, divinavano e sentivano, per così dire, a fremere nell’aria stessa 20; onde anche i fuochi accesi sui monti laziali, per rispondere a quelli che splendevano dall’Appennino ligure al jonico, nella notte del 5 dicembre, a celebrare il centesimo anniversario della espulsione degli Austriaci da Genova, avvenuta a furor di popopolo il 5 dicembre, appunto, del 1746; onde il 26 dicembre 1846, giorno di san Giovanni, il popolo traeva con fiaccole e bandiere al Quirinale a fare i propri auguri al Pontefice, il quale arringava la folla, quasi tribuno, per la vanità di far udire la sua voce armoniosa e la sua — pedestre, per la verità — ma spontanea eloquenza, a cui teneva tanto.

Ma, dal 4 novembre al 31 dicembre 1846, nulla avevano fatto nè il Cardinale Gizzi, nè le commissioni nominate dal Papa, nè il Papa stesso: nondimeno gran festa il 1° dell’anno sulla piazza del Quirinale. Cinquantamila cittadini erano andati a presentare i loro augurii a Pio IX: fu cantato un coro del Meucci, musicato dal Magazzari: applausi caldissimi, benedizione papale, ordine [p. 144 modifica]perfetto. Il popolo procurava di ricordarsi continuamente al Papa, perchè convinto che egli volesse fare il bene desiderato ed atteso e che i reazionari e i gesuiti glielo impedissero: onde, con gli applausi indirizzati a Pio IX, il popolo procurava di ricordarsi anche a quei nemici delle riforme, di guisa che «l’odiosità ritraendosi dal capo del Papa seguitava ognor più ad accumularsi su quello dei governanti, e le grida di viva Pio IX, ormai cominciavano a suonare come un grido di guerra contro i suoi ministri»21.

Intanto il primo dell’anno 1847, pur vigendo nello stato romano la vecchia legge di censura sulla stampa, vide la luce il primo numero del Contemporaneo giornale di grandissimo formato — sessantadue centimetri di altezza su quarantacinque di larghezza — il primo giornale politico che apparisse in Italia in quel triennio 1846-1849. Il programma contenuto nel primo foglio era sottoscritto da monsignor Carlo Gazzola, dal marchese Luigi Potenziani, dall’ingegnere Federico Torre e dal dott. Luigi Masi. Vi collaboravano il dott. Pietro Sterbini, gli avvocati Carlo Armellini, Rinaldo Petrocchi, Achille Gennarelli, i professori Filippo Ugolini e Luciano Scarabelli, il marchese Luigi Dragonetti e i dottori Cesare Agostini, Francesco Tommasoni ed Eusebio Reali. Il giornale trattava argomenti di politica, di economia pubblica, di agraria, di ferrovie, di meccanica, di industrie e di letteratura.

E anche qui avvenne ciò che aveva preveduto Pellegrino Rossi; anziché dar subito fuori una legge, non dico sulla libertà di stampa, ma che temperasse almeno i rigori della censura dei RR. padri domenicani, si aspettò che Roma fosse piena di foglietti clandestinamente stampati, ma largamente diffusi e avidamenti letti, per dar fuori il 15 marzo 1847 una magra e tisica legge sulla stampa, la quale - se fosse stata scrupolosamente osservata ed applicata - avrebbe lasciato ancora le manifestazioni dell’opinione pubblica per mezzo dei giornali in piena balia dei censori.

Dal 1° gennaio al 10 marzo 1847 il Cardinale Gizzi, così lento diramatore di circolari, ne mandò fuori quattro, una per la [p. 145 modifica]formazione della statistica criminale, un’altra per la libera circolazione dei cereali, un’altra per la organizzazione di un Istituto agrario, un’altra per l’apertura di un nuovo Ospizio per gli accattoni e il cardinale Massimo, come prefetto delle acque e strade - una specie di ministro dei lavori pubblici il 10 marzo pubblicò una notificazione che ordinava la costruzione di uno stabilimento fuori della città per la distillazione del gas. Finalmente il 15 marzo venne alla luce il parto della montagna e usci la legge sulla stampa a cui sopra ho accennato. Onde avvenne ciò che naturalmente doveva avvenire; quando il Pontefice il 25 marzo si recò, in gran pompa, a dir la messa nella chiesa di S. Maria sopra Minerva e poi, uscendo, traversò a piedi la piazza e benedisse la folla, il popolo, assiepato lungo le vie percorse, entusiasticamente lo applaudì al grido più volte ripetuto: Viva Pio IX solo! mentre Ciceruacchio, seguendo la carrozza pontificia, esclamava a più riprese: Coraggio, Santo Padre e i popolani ripetevano: Coraggio, Santo Padre!

Forse l’impressione prodotta da quella così espressiva manifestazione cooperò a far pubblicare dal Cardinale Gizzi la circolare del 19 aprile, con la quale si partecipava ai Cardinali legati e ai monsignori delegati, governanti le provincie, la deliberazione del Pontefice d’istituire una Consulta di stato per le finanze e per l’amministrazione, la quale doveva essere composta di un rappresentante per ogni provincia, da scegliersi dal Papa sopra le terne a lui sottoposte dai governatori di ciascuna provincia.

Fra le insidie dei gregoriani e le tergiversazioni della malevola burocrazia erano occorsi così dieci mesi perchè Pio IX potesse concedere ai suoi sudditi ciò che a loro favore domandavano le cinque grandi Potenze, col famoso memorandum del 1831, fare, cioè, una concessione che poteva sembrare importante nel 1831, ma che, trascorsi sedici anni di desiderii, di speranze, di tormenti e di evoluzioni della coscienza nazionale, non poteva essere considerata che come una concessione tardiva e inadeguata ai nuovi bisogni e insufficiente a lenire l’ardente temperatura in mezzo alla quale quella tenue doccerella veniva irradiata.

Non fu che il 14 giugno 1847, un anno, cioè, dopo la elezione di Pio IX che venne pubblicato il motu proprio del Papa che [p. 146 modifica]costituiva e organizzava il Consiglio dei ministri, nominandovi tutti Cardinali o monsignori, onde uno storico osserva «che si può giudicare della lentezza caratteristica del Papa da questo fatto che non lasciò scorrere meno di dieci mesi fra la nomina del suo segretario di stato — 8 agosto 1846 — e la costituzione del Ministero — 12 giugno 1847 —. Senza dubbio era una cosa nuova per Roma un Consiglio di ministri; Pio IX fece in modo che questa novità sembrasse la cosa più vecchia del mondo; egli non ammise nel gabinetto che i Cardinali e i prelati»22.

Il 17 giugno il popolo festeggiò, col solito entusiasmo, l’anniversario della elezione di Pio IX con solenne manifestazione e fu cantato, da trecento voci, sulla piazza del Quirinale, il bellissimo coro dello Sterbini, musicato dal Magazzari. Quella imponente dimostrazione, «capitanata da Ciceruacchio e nella quale sventolavano all’aria le storiche bandiere dei quattordici rioni della città, non soltanto appariva, evidentemente, alla bella prima organizzata, ma disciplinata militarmente»23, onde «il vecchio governo, virtualmente condannato dal nuovo, era scaduto senza che il nuovo facesse fondamento su base propria, questo viveva delle prestanze che l’opinione liberale gli faceva; l’azione governativa era però incerta, molle; e l’azione popolare era gagliarda»24 e gagliarda razionalmente doveva essere, e perché era l’espansione, che veniva dopo trent’anni di compressione, e perchè molle era l’azione del governo.

E per questa mollezza e titubanza si andava indugiando, da parecchi mesi, nei consigli governativi la concessione della guardia civica, richiesta instantemente dalle principali rappresentanze municipali delle provincie; poiché nelle provincie, specialmente romagnole, i sanfedisti e i centurioni, costituenti una potente organizzazione settaria, tentavano, ora con un pretesto, [p. 147 modifica]ora con un altro, di rompere la quiete pubblica e di turbare quell’aura di arcadica pastorelleria, che spirava da per tutto, sotto quella luna di miele del nuovo pontificato. E occorsero a scuotere il governo dalla indolenza tartarughesca, con cui andava preparando l’ordinamento della guardia civica, al quale era segretamente avverso lo stesso Cardinale Gizzi, i tumulti manifestatisi in Roma, negli ultimi dieci giorni del giugno, prima fra i cocchieri romani e gli abruzzesi, poi fra gli abitanti del rione Regola, confinante col ghetto, e gli Ebrei che in questo abitavano. Quelle contese, molto probabilmente accese o, almeno, alimentate dall’irrequieto partito sanfedista, che aveva interesse a turbare la pace, furono, non senza fatica, calmate dall’operosità amorosa ed energica di Angelo Brunetti, coadiuvato dai giornali liberali e da autorevoli cittadini. E il 5 luglio fu strappata al renitente Cardinale Gizzi la notificazione che statuiva l’ordinamento della guardia civica, la quale iniziò, in Roma, benchè ancora non organizzata che embrionalmente, la sua azione con la repressione ordinata, zelante e intelligente della congiura ordita dai sanfedisti e la quale era coordinata con la occupazione ingiustificata, improvvisa ed arbitraria della città di Ferrara avvenuta il giorno 17 luglio per parte degli Austriaci25.

Il Cardinale Gizzi rassegnava, fin dal giorno 10, le sue dimissioni e monsignor Grassellini, che, sotto il nome di governatore di Roma, dirigeva la polizia, fu destituito con ordine di partire entro sei ore da Roma; al primo fu sostituito dal Papa il cugino suo, Cardinale Gabriele Ferretti - che era assente dalla capitale —; all’altro succedeva monsignor Giuseppe Morandi. Il nuovo segretario di stato non giungeva in Roma che il giorno 26 luglio; [p. 148 modifica]per il che la città e lo stato restarono per dieci giorni quasi senza governo.

«Mi recai ieri alla cancelleria apostolica e vi trovai monsignor Corboli Bussi assai agitato. Io gli dissi senza andirivieni» — scriveva Pellegrino Rossi - «che non volevo tornare sul passato, nè ricercare se non fosse stato facile prevenire ciò che è avvenuto; che allora si avevano avanti tre mesi e adesso appena dei giorni, delle ore, forse: che la rivoluzione era cominciata, che non si trattava ormai più di prevenirla, ma di guidarla, di circoscriverla, di arrestarla e che se si fosse adoperata la stessa lentezza, da benigna che adesso essa era, si sarebbe invelenita; che doveva persuadersi che in fatto di rivoluzioni noi ne sapevamo più di loro e che essi dovevano credere agli esperti i quali erano, insieme, amici loro sinceri e disinteressati; che bisognava fare, senza il minimo indugio, duo cose: effettuare le promesse fatte e fondare un governo solido: in altri termini, pacificare Topinione, che non è ancora pervertita e reprimere ogni tentativo di disordine. Il partito conservatore esiste: esso si è mostrato attivo, intelligente, devoto: bisogna soddisfarlo e dirigerlo».

Le stesse cose il Rossi ripeteva, poco stante, al nuovo segretario di stato Cardinale Ferretti, intorno al quale aggiungeva: « egli non è un grande intelletto, ma ha coraggio e devozione e potrebbe essere per Pio IX una specie di Casimiro Périer. Egli ci ascolterá, credo: egli me lo ha detto con effusione e non è uomo da simulare: anzi ha il difetto contrario» 26.

Ma ciò che reca meraviglia veramente a chi si è assuefatto a seguire l’azione così avveduta, così osservatrice, così preveggente di Pellegrino Rossi in tutto quel sommovimento delle passioni italiane, è il non trovare nella sua corrispondenza, fino a questo punto, neppure un accenno alla grande questione, la quale -consapevoli o inconsapevoli che ne fossero - tutti agitava i cuori italiani e che stava, quasi direi, nascosta sotto quell’apparente desiderio febbrile di riforme e di libertà: alludo alla questione della indipendenza e unione nazionale. A quell’ideale miravano Carlo Alberto e i Piemontesi, per quello sordamente si venivano [p. 149 modifica]scuotendo i Veneti e i Lombardi, verso quell’ideale fremevano i Romagnoli, i Toscani, gli Umbro-Marchegiani, i Romani e, fin anco, i più lontani e non meno ardenti Napoletani. A quell’ideale quotidianamente alludevano, più o meno copertamente, tutti i giornali, anche gli scientifici e letterari, ad esso i discorsi pubblici e privati, ad esso tutti i versi e le poesie, di cui in Italia non fu mai penuria, di cui, a quei giorni, v’era strabocchevole esuberanza. Eppure a questo ideale Pellegrino Rossi, che ci ha avvezzato a quella sua penetrazione sottile, a quella sua previdenza amorosa, non accenna nel suo carteggio col Guizot: è bensì vero che anche il ministro di Luigi Filippo, cullato dalle lusinghe volpine del Principe di Metternich, non se ne avvedeva e non se ne preoccupava, nella sua corrispondenza con l’ambasciatore di Francia a Roma, neppure lui. Forse il Guizot - e come ministro degli esteri ebbe torto - non si aspettava alla improvvisa aggressione provocatrice, compiuta dalla Corte di Vienna con l’occupazione di Ferrara.

Il Principe di Metternich, il quale par certo avesse affidato al Cardinale Gaysruck, arcivescovo di Milano, la missione di adoperare il diritto di esclusiva — che un’antica consuetudine accordava alla Spagna, alla Francia, e all’Austria nel conclave - e di adoperarlo o contro il Gizzi, o contro il Mastai se egli, giungendo in tempo, avesse veduto, ai primi scrutini, papeggiare o l’uno, o l’altro27, era rimasto vivamente commosso e preoccupato dell’atteggiamento liberale assunto, con l’amnistia, dal nuovo Pontefice28. Un Papa liberale era tale controsenso, secondo le idee e i convincimenti del Principe di Metternich, che egli non aveva mai potuto fare entrare un fatto simile neppure nelle sue [p. 150 modifica]previsioni, o nelle sue ipotesi: era da gran tempo che un Papa liberale non figurava sulla scacchiera di Clemente di Metternich. Da Leone XII a Pio VIII, da Pio VIII a Gregorio XVI il Principe non aveva conosciuti che Papi, tutti, dal più o meno, dello stesso stampo: e siccome egli calcolava — e calcolava ragionevolmente da par suo — che un Papa non è un uomo, ma una istituzione, tanto è vero che l’uomo eletto rinuncia e perde il proprio nome e assume quello di uno dei suoi predecessori, per dimostrare la successione senza soluzione di continuità, e siccome calcolava che, essendo una istituzione, il Papa è il Papato e che, essendo il Papato, non può propugnare e difendere che le tradizioni, i diritti, gl’interessi e gl’ideali della Chiesa, cioè della istituzione che rappresenta; e siccome, d’altra parte, egli sapeva che, dato anche, per ipotesi impossibile, che un matto o uno scemo venisse elevato alla suprema dignità, il collegio cardinalizio, le congregazioni ecclesiastiche, gli ordini religiosi, tutto, insomma, quel complesso e vigorosissimo organismo che si chiama la Chiesa ha sempre tale potere diretto e indiretto, manifesto ed arcano da ricondurre sul retto sentiero l’insensato o il vaneggiante, così alla possibilità di un Papa che avesse velleità liberalesche lui non ci aveva pensato. D’altra parte poi egli era assuefatto così bene con Gregorio XVI e col suo segretario di stato Cardinale Lambruschini che il trovarsi, tutto ad un tratto, davanti a un fatto non presumibile e non prevedibile, non verosimile e non preveduto e trovarsi, fuori di ogni sua consuetudine, a fronte di Pio IX e del Cardinale Gizzi, non solo sconcertò tutti i suoi calcoli e le sue previsioni, ma lo turbò, lo preoccupò seriamente e lo gettò quasi nelle tenebre, quasi nell’ignoto.

Ed aveva ragione di commuoversi tanto perchè la politica liberale poteva — ed egli ben lo vedeva e ne era convinto — produrre due danni gravissimi, anzi due catastrofi; l’una sommovendo l’Europa e mandando a ruina il sistema politico inaugurato dal Congresso di Vienna del 1815 ed entro ai confini del quale egli, Clemente di Metternich, si era affaticato, per trent’anni, a contenere, per quanto aveva potuto, l’indirizzo e l’azione dei governi europei, con questo di più grave che l’abbattimento di quel sistema, implicitamente, portava con se un abbassamento di autorità per l’Impero austriaco e una diminuzione di [p. 151 modifica]prestigio per la casa d’Asburgo; l’altra catastrofe il Papato liberale poteva produrla, levando in fiamme i popoli italiani e mettendo a pericolo la dominazione austriaca nella penisola. E nessuno meglio del Metternich conosceva le condizioni morali e politiche d’Italia e degl’italiani, nessuno meglio di lui che fittissima manteneva, da un trentennio, dalla vetta delle Alpi al capo Passero, la rete delle sue spie e dei suoi agenti alti e bassi, vigilanti continuamente sui popoli e sui governi: nessuno più di lui che sapeva quanto l’austriaca dominazione fosse odiata di qua dalle Alpi, quanto attiva propaganda, quanto efficace preparazione avessero compiuta nella coscienza delle popolazioni italiche e la vecchia e sempre viva setta dei carbonari e la nuova, e per fascini ideali potentissima, della Giovane Italia e la letteratura patriottica, dalle Satire del Giusti e del Belli, ai Romanzi del D’Azeglio e del Guerrazzi; dalle Storie del Botta e del Colletta alle Tragedie del Niccolini e del Manzoni e alle Liriche del Leopardi; dal Primato e dai Prolegomeni del Gioberti alle Poesie vernacole del Porta e del Brofferio; dalle Mie prigioni del Pellico e all'Antologia del Viesseux ai Libri del Durando e del Balbo; nessuno più di lui, che sentiva nell’iutimo dell’animo suo, che comprendeva, con la fine penetrazione del suo alto intelletto, come quel grido, che echeggiava ormai da un capo all’altro della penisola, Viva Pio IX, altro non significasse che: Viva l’Italia! Fuori lo straniero!29

Appunto perchè egli sapeva che la materia combustibile era accumulata, accatastata in Italia, appunto per questo temeva qualunque solfanello; figurarsi poi la fiaccola che gli minacciava l’incendio dal Vaticano!

Che il Principe di Metternich quindi si spaventasse, che egli adoperasse tutte le vecchie arti, tutti i raggiri e i sotterfugi della sua scaltrita politica per attraversare l’opera riformatrice del nuovo Papa, è oggi provato ad esuberanza da tale un complesso di irrefiutabili documenti che si può dire che la dimostrazione sia di precisione rigidamente matematica.

Ma, se le prove fossero scarse e deficienti, la storia potrebbe ritenere quella politica come ugualmente provata e dimostrata, [p. 152 modifica]tanto la cosa è logica e naturale, tanto, nella serena contemplazione obiettiva di quei fatti, essa appare legittima e ragionevole e non ci sarebbe nulla di più ridicolo che le invettive contro il gran Cancelliere austriaco e i rimpianti contro la sua politica per parte di chi scriva, oggi, intorno a quegli avvenimenti. Si comprendono appena le declamazioni e le invettive, in mezzo ai marosi delle violentissime passioni dominanti in quel triennio 1846-1849, fra quella gente inesperta, ingenua, entusiasta e di una buona fede, ammirabile nella sua puerilità e veramente infantile e preadamitica; ma, oggi, a cinquantanni di distanza da quei fatti, le recriminazioni e le imprecazioni mancherebbero di storica serietà.

Il Principe di Metternich faceva ciò che doveva fare, tutelava gli interessi austriaci che doveva tutelare; assalito, si difendeva 0 si difendeva, senza tanti scrupoli, con tutti i mezzi che erano a sua disposizione; poiché, dal 1809 in poi, da che dirigeva la politica dell’impero austriaco e, in gran parte, quella dell’Europa centrale. Clemente di Metternich, spirito profondamente scettico, beffardo e volteriano, aveva sempre pensato che tutti i mezzi son buoni purché conducano al fine. E come, sempre, sulla scorta di quel principio, aveva agito, così agiva anche allora.

Che egli, quindi, valendosi delle estese e segrete sue relazioni nello stato romano30, e servendosi della tenebrosa ed ampia influenza dei gesuiti e dei loro seguaci, preparasse in tutte le provincie e in Roma stessa quel movimento reazionario che fu tentato in dieci città contemporaneamente fra il 14 e il [p. 153 modifica]16 luglio 184731 e il quale doveva giustificare la intervenzione delle milizie austriache nello stato pontificio; intervenzione che fu iniziata, il 17 dello stesso mese di luglio, con la occupazione violenta di Ferrara, e si arrestò lì perchè i movimenti reazionari all’interno erano falliti, che tutto questo il Principe di Metternich facesse, nessuno potrebbe più oggi onestamente negare. Ciò che [p. 154 modifica]è ancora dubbio - sebbene gravi indizi indurrebbero a crederlo vero - si è soltanto se, di tutti quei maneggi tenebrosi della politica metternichiana, non fosse inteso e complice lo stesso Pontefice32.

La politica del Metternich, da altra parte, i pensieri di lui, i suoi timori, le sue aspirazioni nella questione italiana non [p. 155 modifica]mancavano nè di logica, nè di chiarezza ed erano espresse limpidamente in un dispaccio inviato il 2 agosto 1847 dal Principe cancelliere al Conte Appony, ambasciatore austriaco a Parigi e da questo comunicato al ministro Guizot: «Io non dubito punto» — scriveva il Principe — «delle buone intenzioni del Santo Padre; ma potrà egli ciò che vuole? I rivoluzionari, i male intenzionati son lì per trarre un partito funesto da riforme, buone in se stesse e che l’Austria è d’altronde disposta ad approvare, poichè essa stessa le ha consigliate nel 1831. Non si vorrà condurre il Papa più lontano? Dove si lascierà egli condurre? Lo può egli? La posizione di capo della comunione cristiana gli consente, come a qualunque altro capo di stato, il diritto di fare tutto nel temporale? Ciò è più che dubbio. Se egli si lascia sedurre dalle dottrine del Gioberti e del Lamennais, che gli predicano di appoggiarsi sul partito democratico delle idee cattoliche, ciò costituirebbe una falsa e funesta forza. Se il Papa vi volesse ricorrere, egli esporrebbe l’Europa al più grande pericolo che essa abbia corso dalla caduta del trono di Francia»33.

^ L’Imperatore» - osservava il Principe, in un altro dispaccio - «non ha la pretesa di essere una potenza italiana: egli si contenta di essere il capo del proprio impero. Una parte di questo impero si trova situato di là dalle Alpi: egli intende di conservarla. L’Imperatore non domanda nulla in nessuna direzione fuori dello stato che attualmente possiede: ciò che saprà fare è di difenderlo. Tali sono le vedute e le risoluzioni di Sua Maestà imperiale, ed esse devono essere quelle di ogni governo che sa mantenere i suoi diritti e rispettare i propri doveri».

Cosi scriveva, secco e quasi aspro, il Principe di Metternich in data del 2 agosto 1847 al Conte Dietrichstein ambasciatore d’Austria a Londra.

Questi due frammenti di dispacci sono chiari ed energici: e dalla posizione e dal punto di vista da cui il Principe guardava e doveva guardare le cose italiane, le idee da lui espresse erano logiche e giustissime34.

[p. 156 modifica]Ad ogni modo la occupazione violenta della città di Ferrara da parte delle milizie austriache, contro la quale protestò, in nome del Papa, il Cardinale Luigi Ciacchi pro-legato di quella provincia, ma contro la quale non protestò il Cardinale Ferretti segretario di stato, che si limitò ad un modestissimo dispaccio, inviato in data 12 agosto al nunzio a Vienna35, in cui, assai [p. 157 modifica]rimessamente, cercava di ributtare la colpa della occupazione sul feldmaresciallo Radetzky, mostrando di non credere che l’ordine ne fosse venuto da Vienna, ad ogni modo, dico, quella occupazione fu l’atto provocatore che fece divenire aperta e manifesta l’aspirazione generale degli Italiani all’espulsione degli Austriaci dalla penisola. Se, fino a quel punto, questo ideale delle popolazioni era apparso sempre sotto i veli delle allusioni e delle perifrasi, ora, dopo quell’atto di brutale prepotenza dell’Austria, sfolgorava alto in tutti gli articoli dei giornali, anche dei giornali più temperati come, ad esempio, il Felsineo di Bologna di cui era comproprietario e collaboratore il temperatissimo Marco Minghetti. Questo atto eccitava a sdegno anche quella parte di popoli italiani che era d’animo più mite; per il che la situazione già grave di aspre difficoltà in cui si trovava il Pontefice, diveniva più grave e perigliosa ancora.

«Il Principe di Metternich e il maresciallo Radetzky riuscirono, con le loro inconsulte provocazioni, a sollevare gli animi in modo insolito, a condurre la romana Corte più lontano di quello che per avventura desiderasse o volesse, a tirare sull’Austria l’animadversione delle stesse genti devote, schive fino allora dei politici negozi, ed il biasimo dell’Europa civile: gittarono il guanto di sfida e il grido di guerra in mezzo all’Italia ed avvalorarono il sentimento nazionale e le secolari ire italiane della alleanza e della benedizione del capo della cattolicità»36.

Ma quale era il pensiero e, per conseguenza, quale l’atteggiamento di quel grande dottrinario liberale-conservatore del signor Guizot e, per conseguenza, quale la situazione dell’ambasciatore francese in quella improvvisa tempesta? La Francia, per effetto dei disegnati matrimoni spagnoli, erasi, in quel momento, alienata l’amicizia dell’Inghilterra e trovavasi isolata in Europa: onde il Re Luigi Filippo e il Guizot si erano riavvicinati all’Austria, onde una intimità quasi tenera si era venuta [p. 158 modifica]stringendo fra il Principe di Metternich e il Guizot. Per il che — per quanto il ministro di Luigi Filippo, a coprire gli errori della sua politica, cerchi di nasconderlo nelle sue Memorie egli si trovava — di fronte alla politica liberale di Pio IX, così ostica per il suo amico Metternich — in un grande imbarazzo. Da un lato sentiva la impossibilità di osteggiare le riforme papali, che il governo francese aveva sempre suggerite e che attraevano la simpatia della grande maggioranza dei liberali francesi, dall’altro lato partecipava alle preoccupazioni e alle inquietudini del grande cancelliere austriaco. Poi, di fronte al contegno del governo inglese, il quale favoriva apertamente le speranze dei popoli italiani e incoraggiava i principi della penisola all’opera riformatrice, e sotto l’influenza delle lettere del suo amico ambasciatore Pellegrino Rossi, il ministro Guizot ondeggiava titubante e non sapeva e non poteva appigliarsi a partiti decisivi. Egli si preoccupava sopra tutto che il movimento italiano si contenesse entro i termini di quella moderazione che costituiva, per lui, il talismano della politica liberale e conservatrice du juste milieu, che era il suo ideale; quindi, quantunque il Conte Rossi si mostrasse preoccupato dell’occupazione austriaca a Ferrara, fatto «che sarà considerato, non solamente negli stati del Papa, ma in tutta Italia come una invasione», onde egli non sa prevedere «se ne deriverà l’abbattimento o l’irritazione»37, egli, il Guizot, si cullava in un grande ottimismo, vedendo nello stato romano tutto color di rosa e, sulle informazioni che gli dava monsignor Lasagni, che trovavasi a Parigi, esagerava a sè stesso l’importanza delle riforme papali — dimenticando ciò che gli aveva tante volte scritto il Rossi sulla niuna efficacia di quelle riforme, date a rilento e quasi strappate più che concesse — e si illudeva pensando che «in tutto questo movimento progressivo e riformatore l’influenza dei liberali moderati e laici era di più in più attiva e preponderante»38.

Pellegrino Rossi, effettivamente, come quegli che era dottrinario quanto o più del Guizot, si lodava assai dei moderati [p. 159 modifica]romani, che egli consigliava ed inanimiva ad essere operosi e a stare uniti col governo39.

Ma intanto, che il Guizot non comprendeva nel suo giusto valore l’indignazione che suscitava vivissima in Italia, e la conseguente eccitazione popolare, la politica aggressiva del Principe di Metternich, per effetto della quale «dovunque Pio IX trovava l’Austria che gettava i suoi intrighi a traverso ai disegui di lui»40; intanto che la diplomazia cercava di conciliare rarruffata quistione di Ferrara; intanto che il Papa promulgava il 1° ottobre il motu proprio per la istituzione del municipio romano e il 15 dello stesso mese l’altro con cui organizzava la Consulta di stato, istituita fin dal 19 aprile, ma della quale non erano state fissate nè le attribuzioni, nè il regolamento, intanto che alti personaggi pellegrinavano a Roma, il Principe di Siracusa, il Principe Giorgio di Prussia, il Duca Massimiliano di Baviera, per ossequiarvi ed ammirarvi quel miracolo dei Pontefici e che a’ suoi piedi venivano illustri patriotti italiani quali Terenzio Mamiani, Niccolò Tommaseo, Carlo Popoli, Giuseppe Montanelli, gravissimi fatti, come era logico e naturale, si svolgevano nelle altre parti d’Italia.

Alla gentile Toscana, che era limitrofa allo stato romano, e dove abbondavano gli spiriti colti e le anime generose, si era appiccato quel fuoco di riforme e di italianità che ardeva nello stato vicino; il Granduca aveva resistito - evidentemente per l’influenza dell’Austria e del Metternich - più di quello che dalla mite indole sua non si sarebbe supposto; ma le aperte rimostranze di personalità autorevoli, la stampa clandestina, le agitazioni popolari lo avevano indotto a concedere l’8 di maggio una legge sulla stampa, la quale produsse subito il sorgere di molti giornali, fra cui tre pregevoli assai, l’Alba, la Patria, l’Italia, che aprirono quasi subito un ben nutrito fuoco di fila contro l’Austria abbonita e vessatrice. Poi il Granduca aveva dovuto, il 4 settembre, concedere la guardia civica, onde grandi [p. 160 modifica]festeggiamenti e vivo entusiasmo: ormai anche le popolazioni toscane avevan preso l’abbrivo e nulla più le avrebbe arrestate.

Lo stesso era avvenuto a Lucca, dove il quasi farneticante Duca Carlo Lodovico, dopo avere bravato arrogantemente i suoi sudditi chiedenti riforme, aveva, da popolare ammutinamento umiliato, tutto concesso.

Nè meno erano commossi da mal compresse e da tanto tempo represse speranze i tenacissimi Liguri e Piemontesi, ai quali suonava gradita e arra di prossima azione di riscatto la parola che il chiuso e meditabondo, asceta e cavalleresco, nobilissimo Amleto Sabaudo faceva vibrare nel Comizio agrario di Casale, per le labbra del suo segretario particolare Conte Trabucco di Castagneto: quella parola era di minaccia contro l’Austria. Di qui grandi manifestazioni popolari a Casale, ad Alessandria, a Genova, a Torino; di lì il congedo dato al fedele del Metternich, al devoto dei gesuiti Conte Solaro della Margarita; di li l’iniziarsi e il rapido svolgersi di armoniche ed ordinate riforme; di li una fioritura di patriottico giornalimo in cui primeggiavano il Risorgimento e la Concordia.

E in Sicilia e nel reame napolitano, dove il nome e gli atti di Pio IX avevano pure suscitato speranze e desiderii caldissimi di patria carità, le popolazioni, che, con aperte rimostranze e con preghiere e quasi con minaccio, avevan cercato di attrarre in quella nazionale agitazione Ferdinando II di Borbone - al quale non mancava ingegno svegliato e pratica degli altari e scaltrezza di atteggiamenti, ma che nemico era di novità, del suo assoluto potere tenero e geloso e che nelle pieghe dell’anima simulatrice, malvagia e codarda, annidava e cullava una smodata ambizione a cui non vedeva quale soddisfazione da quei sommovimenti italiani sarebbe potuta venire - le popolazioni, dico, ora cominciavano a rompere in atti di ostilità, che presto si muterebbero in aperta ribellione.

Fremevano i Modenesi sotto la repressiva ed austriaca politica di Francesco V, ma più fremevano ancora i Veneti e i Lombardi, negli animi dei quali più vivo si riaccendeva il vecchio odio contro l’oppressore croato in presenza delle nuove speranze. Ma gli sgherri della polizia austriaca vegliavano ringhiando e, il giorno 8 di settembre, sul popolo inerme, che [p. 161 modifica]festeggiava il nuovo arcivescovo monsignor Romilli e in lui festeggiava Pio IX, irruppero furibondi, arrestando, ferendo, uccidendo; c sollevando moti universali di pietà e di sdegno, di compianto e di maledizioni in tutta la penisola e in gran parte dell’Europa civile.

Tale era sul declinare dell’anno 1847 la condizione d’Italia, quando il governo inglese, nell’interesse del gran popolo britannico, visto che la penisola stava per divenire teatro di gravissimi avvenimenti, volendo mettersi in condizione di equilibrare razione della Francia e dell’Austria, inviava in Italia, con speciale missione, il Conte Gilberto Elliot Murray Kynymond di Minto, nelle storie italiane di quei tempi assai noto sotto il nome di lord Minto. Quella missione era conforme alle tradizioni liberali del popolo inglese, tradizioni che potevano essere state abbandonate, per un momento, nell’ultimo periodo delle guerre napoleoniche e sotto il ministero Castlereagh, ma che avevano nuovamente preso il loro impero sulla politica inglese, durante la insurrezione greca, e, poi, dopo la rivoluzione di luglio in Francia. Lord Minto doveva lodare e incoraggiare i principi riformatori e assicurare principi e popoli italiani che «il governo di Sua Maestà britannica era profondamente convinto essere saggio partito pei sovrani e pei governi loro il porre in atto o mantenere nell’amministrazione degli affari un sistema di progressivi miglioramenti, il porre rimedio agli abusi, e modificare un po’ per volta le antiche istituzioni per uniformarle ai progressi della intelligenza e delle discipline politiche. Il governo di Sua Maestà considera come verità innegabile che quando un sovrano indipendente, esercitando liberamente gli atti della sua volontà, pensi intraprendere i miglioramenti delle leggi e delle istituzioni che reputa efficaci a procacciare il benessere del suo popolo, niun altro governo abbia diritto di tentare di fermarlo e di immischiarsi nell’esercizio di uno degli attributi della sua sovrana indipendenza»41.

Questa era una sfida in tutta regola alla politica d’intervenzione propugnata dal Principe di Metternich.

[p. 162 modifica]E di questi suoi intendimeuti lord Palmerston non faceva mistero al governo austriaco, a cui aveva fatto significare dall’ambasciatore britannico a Vienna lord Ponsomby che «il governo di Sua Maestà britannica era persuaso che, nè riguardo al Re di Sardegna, nè riguardo al Papa, il governo austriaco può avere avuto l’intenzione di approfittare di provvedimenti legislativi e di riforme amministrative interne, che questi sovrani giudichino convenevoli di adottare nei loro stati, per farne occasione di un attacco qualsiasi contro i loro territori e i loro diritti. L’integrità degli stati romani» — aggiungeva il primo ministro della Regina Vittoria — «deve essere considerata come elemento essenziale dell’indipendenza politica della penisola italiana e nessuna invasione del territorio di questi stati non potrebbe avvenire senza addurre a conseguenze di una gravità grande e di una grande importanza»42.

Fu sopra tutto a questo atteggiamento così risoluto del governo inglese, più che alle sollecitazioni del francese che debbe attribuirsi il componimento pacifico della vertenza di Ferrara, dalla quale città — pur lasciando in sospeso la questione di diritto sulla interpretazione dell’articolo 103 del trattato di Vienna — la guarnigione austriaca si ritrasse in cittadella, lasciandone il presidio alle milizie pontificie e alla guardia civica; il che avvenne sul finire del dicembre 1847.

E lord Minto adempieva con grande zelo ed abilità la sua missione in Piemonte, in Toscana, a Roma e, per la sua squisita affabilità e tatto finissimo, attraeva a sè le simpatie dei liberali e delle popolazioni. Del che par che si lamentassero allora i moderati che si stringevano attorno al Rossi, e, poscia, si sono lamentati tutti gli storici papalini e parecchi anche di quelli che professavano le dottrine moderate. E a torto si lamentarono e si lamentano, avvegnacchè ciò che avveniva fosse cosa naturalissima. Se la missione di lord Minto era l’aperta opposizione alla politica del Principe di Metternich in Italia, e se la missione [p. 163 modifica]che si era assunta il Guizot, in quel momento, nella questione ferrarese era ondeggiante e tepida verso il giusto risentimento degl’Italiani, è naturale che la maggioranza di questi prendesse in uggia Luigi Filippo, il Guizot e il loro rappresentante a Roma e si accalorasse a testimoniare affetto e ammirazione pel rappresentante dell’Inghilterra; e se Pellegrino Rossi, intento soltanto a carezzare i moderati, trascurava tutti coloro che moderati non erano, era naturale che questi si accostassero deferenti a lord Minto, che amorosamente li accoglieva.

Pellegrino Rossi si sforzava di mettersi d’accordo, per quanto dipendeva da lui e dentro la cerchia delle sue istruzioni, con lord Minto; ma le divergenze e quasi le gelosie esistenti, non fra i due uomini, ma fra i due governi, si rilevano da una lettera del Rossi in cui egli narra il colloquio, probabilmente il primo, da lui avuto col rappresentante dell’Inghilterra. Dopo avere, con tinta di fine ironia e di evidente scetticismo, detto a lord Minto che i popoli italiani non dovevano essere lodati ed eccitati a continuare nelle loro soverchie e disordinate manifestazioni festanti e clamorose, che i governi italiani, già così proclivi a starsene con le braccia incrociate, aspettando la loro salute dagli avvenimenti, non avevano bisogno di essere rassicurati, ma ammoniti e scossi - e questi erano tutti rimproveri all’atteggiamento che lord Minto aveva assunto e verso i popoli e verso i governi - Pellegrino Rossi soggiungeva: «Nulla riesce a questo mondo che a condizione di camminare verso il fine e di cogliere l’occasione. Ora essa è ammirabile; ma bisogna che tutte le riforme che sono possibili siano fatte entro tre mesi. Non si possono tenere, come si fa adesso, le popolazioni in effervescenza per un tempo indefinito, senza che ne risultino gravi disordini. Ciò che io domando a lord Minto è di far pressione sul Papa e di calmare gli esaltali. — E perchè disse a questo punto lord Minto - il signor Rossi non agisce in questo senso? — Ma egli non fa altro che questo - risposi - se non che è solo sulla breccia. Se voi volete aiutarlo, sarà cosa ottima; bene inteso nondimeno che bisogna agire in questo senso e solamente in questo senso. Noi abbiamo discusso, allora, intorno alle riforme dello stato pontificio: siamo rimasti d’accordo che il memorandum del 1831 stabiliva fondamenti [p. 164 modifica]ragionevoli e che i governi della Toscana farebbero, presso a poco, ciò che fa il Papa»43.

Pellegrino Rossi si era, finalmente, accorto che sotto tutto quel tramestio popolare, sotto le domande di riforme, setto quelle continue manifestazioni clamorose, si agitava formidabile e irresistibile l’aspirazione all’indipendenza nazionale e alla espulsione degli Austriaci e aveva scritto al Guizot, il quale da quelli orecchio non ci voleva sentire: «Ciò che le moltitudini vogliono oggi sono le riforme e il rispetto dell’indipendenza. Senza dubbio, questo secondo sentimento che è oggi profondo, generale e sviluppato, non è favorevole all’Austria: senza dubbio è a prevedersi che le riforme contribuiranno a maggiormente svilupparlo. Mn che farci? A meno che non si pretenda di esterminare l’Italia e farne una terra d’iloti, bisogna bene rassegnarsi a questo, che un avvenire più o meno lontano riveli ciò che v’ha nel suo seno»44.

Ma l’altro, ostinato nei suoi concetti e nei suoi propositi sulla eccellenza della polizia del juste milieu, continuava a non vedere della questione italiana che il lato che faceva comodo a lui, e, proprio nello stesso giorno 27 settembre, scriveva una lunga lettera in cui sviluppava tutte le sue idee unilaterali. Per lui tutta la quistione si riduceva a questo: il Papa vuol fare opera riformatrice nel suo stato e ha diritto e ragione di farla. Chi vi si oppone? Da una parte il partito stazionario, dall’altro il rivoluzionario. E li sciorinava giù varie teorie sul dovere che hanno i governi di soddisfare certi bisogni sociali, di compire certi progressi civili per vivere d’accordo coi loro popoli, ma, nel tempo stesso, i governi hanno il dovere di resistere allo spirito rivoluzionario. «Ecco» — egli esclamava, a questo punto, gioioso e trionfante della piccola America che gli pareva di avere scoperto — «ecco la politica du juste milieu, la politica del buon senso, che noi pratichiamo per nostro conto e che consigliamo al Papa, che ne ha tanto bisogno quanto noi». E non solo egli [p. 165 modifica]consiglia al Papa quella politica, ma è pronto ad aiutarlo in essa. Ma, e l’Austria? - domanderanno i lettori.

Ah, non dubitino: il signor Guizot è preveggente: egli ha pensato tutto: egli entra a parlare dell’Austria. «Si dice» — egli scrive — «che noi ce la intendiamo con l’Austria, che il Papa non può contare su noi nei suoi rapporti con l’Austria».

Qui il signor Guizot, acceso di santa indignazione, esclama, con eloquenza alquanto stantia e declamatoria: «Menzogna tutto ciò, menzogna interessata e calcolata del partito stazionario che ci vuole screditare perchè noi non abbiamo nulla di comune con esso e del partito rivoluzionario che ci attacca dovunque perchè noi gli resistiamo efficacemente. Noi siamo in pace e in buone relazioni con l’Austria e desideriamo di restarci, perchè le cattive relazioni e la guerra con l’Austria è la guerra generale e la rivoluzione in Europa». E, continuando, egli, invece di riconoscere la realtà dei fatti pei quali l’Austria aveva provocato l’indignazione degli Italiani con l’occupazione di Ferrara, invece di esaminare quale e quanto vivo fosse in essi lo spirito di indipendenza, invece di soffermarsi a guardare tutti gli intrighi e le opposizioni aperte e nascoste che il Principe di Metternich sollevava contro l’opera riformatrice del Papa e degli altri principi italiani, egli scrive, sempre nella stessa lettera: «Noi medesimi abbiamo riconosciuto che il governo austriaco è un governo di buon senso e capace di condursi con moderazione e di accettare la necessità. Noi crediamo che egli possa rispettare l’indipendenza dei sovrani italiani, anche se essi dan mano in casa loro a riforme che ad esso non piacciano e capace di respingere qualsiasi idea d’intervenzione in quegli Stati». E aggiunge che in questo senso il governo francese lavorava a Vienna, che sperava di riuscire, ma, nel caso che non si riuscisse, in caso di intervento da parte dell’Austria, «non lasciate al Papa» - conchiudeva il Guizot - «alcun dubbio che, in questo caso, noi lo sosterremo efficacemente, lui, il suo governo, la sua sovranità, la sua indipendenza e la sua dignità»45.

Ed ecco rimediato a tutto. E si noti che tutte queste belle cose il Guizot, con grande e imperdonabile leggerezza, affermava [p. 166 modifica]mentre sapeva come e quanto diversamente considerasse il Principe di Metternich la situazione d’Italia, la quale egli vedeva nella sua realtà, con ben più alta e profonda visione dei fatti, con ben più alta e più profonda preveggenza delle loro logiche conseguenze. Il principe cancelliere aveva più volte fatto esprimere al ministro francese per mezzo del Conte d’Appony, suo ambasciatore a Parigi, le proprie idee. Egli si era palesato avverso alla tanto vantata politica du juste milieu, oggetto di tutte le tenerezze del suo nuovo amico Guizot. Tali idee il principe svolgeva un’altra volta in una splendida lettera privata da lui indirizzata al Conte d’Appony e che è una delle tante attestazioni della superiorità dell’ingegno del principe, superiorità che è stata molto discussa e che da parecchi scrittori è ancora — e a molti sembra ed anche a me — erroneamente contestata. Il Metternich — il quale sentiva sotto i suoi piedi la tempesta, che vedeva in Italia posto in pericolo il dominio della Casa d’Asburgo, ma che tutto ciò non voleva e non poteva confessare altrui metteva la questione in questi termini, cioè nei suoi veri termini: «Lo stato della Chiesa e la Toscana sono sulla via di riformarsi, o si avanzano essi sul pendio della rivoluzione?»

Dopo avere, con mirabile lucidità, definito ciò che egli intendesse per rivoluzione, il Principe di Metternich esaminava, anche sulla scorta di sagaci paragoni storici, se ad una rivoluzione potesse utilmente applicarsi la politica du juste milieu. Dopo avere dimostrato che tale politica potrebbe, tutto al più, essere la conseguenza, non il precedente di una rivoluzione, dopo avere giustificata la propria politica di resistenza, egli concludeva: «Noi facciamo differenza fra l’azione che esige un movimento il quale abbia il carattere di una rivolta e quella che è applicabile a una rivoluzione. Le rivolte hanno un corpo col quale è possibile imprendere una lotta; le rivoluzioni, al contrario, hanno molto di comune con gli spettri; e noi sappiamo - per regolare la nostra condotta - attendere che gli spettri si rivestano di un corpo»46.

Questa lettera è la espressione nitida di una politica decisa, [p. 167 modifica]chiara, sagace, che era ostile e dannosa all’Italia, ma che si inspirava alla realtà dei fatti e alla considerazione degli interessi austriaci, politica che non era la conseguenza di teorie preconcette, ma che alla verità effettuale delle cose applicava quei rimedi che sembravano i migliori.

Il Metternich vedeva, quali esse erano realmente, le condizioni d’Italia; il Guizot, a cui quelle reali condizioni d’Italia e quella politica del Metternich guastavano la prediletta teoria du juste milieu, non voleva vedere quei fatti, chiudeva, per deliberato proposito, gli occhi per non vederli: non voleva quel conflitto fra Austria e Italia e credeva di allontanarlo col considerarlo come non esistente; la febbre d’indipendenza onde erano divorati gl’Italiani credeva di guarirla col fingere di non accorgersene, perchè al suo intelletto repugnava che i fatti si volessero imporre alle teorie. Diavolo! le aspirazioni, i diritti, gli interessi degl’Italiani, le aspirazioni, i diritti, gli interessi di Casa d’Austria che vogliono uscire dai confini du juste milieu! Ma ciò era enorme! Aspirazioni, diritti, interessi non avevano diritto di esistere osi dovevano considerare come non esistenti dal momento che turbavano la politica du juste milieu!47

[p. 168 modifica]Se ho insistito a lumeggiare, con una certa sovrabbondanza, la politica guizottiana in Italia dal giugno 1846 al febbraio 1818, me ne vogliano dar venia i lettori: l’ho fatto perchè tale politica entra ed ha parte determinante nell’azione ulteriore e nell’ultimo annodi vita del Conte Pellegrino Rossi; gli errori di quella politica dottrinaria e fatale furono quelli che lo trassero a finire miseramente come fini.

Sul finire dell’anno 1847, mentre si annunciava la conclusione di una lega doganale fra il Re di Sardegna, il Granduca di Toscana ed il Papa, lega alla quale rifiutavano di accedere i due governi di Modena e di Parma, come quelli che erano vassalli dell’Austria, mentre fra grandi feste si era inaugurata la Consulta di stato che aveva, finalmente!, iniziati i suoi lavori, mentre si era radunato, fra feste grandi, il Consiglio del restituito Municipio romano, mentre si pubblicava un nuovo motu proprio papale col quale si apriva l’accesso ai laici nel Consiglio dei ministri, mentre una circolare del Cardinale Ferretti, segretario di stato, esplicava la legge della censura sulla stampa, il giornalismo prosperava, i Circoli si organizzavano, il popolo leggeva, discuteva, sempre più si animava, e applaudiva alla disfatta del Sonderbund e gridava contro i gesuiti; e i partiti, ormai delineati, si venivano preparando alla lotta, quantunque nelle principali questioni, come quella della libertà e della indipendenza, ancora comuni fossero gl’ideali tanto dei moderati come dei democratici. Pio IX, sempre più attratto e sbattuto di qua e di là, sempre agitato da timori e da scrupoli, dal desiderio degli applausi e dalla speranza di trovar modo di arrestarsi una buona volta su quella discesa, per la quale egli si era spensieratamente messo e in cui stimolato, incalzato, sospinto, egli scivolava, con rapidità vertiginosa, senza sapere dove andrebbe a finire e atterrito sinanche di guardarne il fondo, Pio IX, a cui i gesuiti, i gregoriani, i sanfedisti tutto il giorno rintronavano gli orecchi di voci paurose sui danni della religione, sulla ruina del Papato, sullo sfacelo della Chiesa, godeva ancora di quasi tutta la [p. 169 modifica]primitiva sua popolarità e quanto più aumentavano i rancori e le ire dei popoli contro l’Austria e tanto più i popoli si affisavano in lui come al loro ideale redentore e lo salutavano nuovo Alessandro III contro il nuovo Federigo Barbarossa, nuovo Giulio II espulsore dei nuovi barbari, nuovo Paolo III contro il nuovo Carlo V e gli prestavano la sapiente energia di Gregorio VII e gli attribuivano le virtù militari di Napoleone e gridavano, da un capo all’altro di Italia, viva Pio IX! viva Pio IX! e in quel grido raccoglievano le aspirazioni di ognuno, gli ideali di tutti, le speranze universali d’Italia!

Cosi finiva il 1847, così cominciava il 1848 e proprio nel giorno di capo d’anno i sanfedisti e gli austriacanti riuscirono a persuadere il Papa di una specie di rivoluzione meditata e preparata — dicevano essi — dagli agitatori, nella occasione della riunione popolare apportatrice di auguri al Pontefice. E il Papa, sempre nervoso, sospettoso e diffidente, cadde nella pania di quella grossolana insidia e con lui vi cadde l’impetuoso Cardinale Ferretti, il quale fece munire di milizie pontificie tutti gli accessi del Quirinale, onde davvero stava per nascere una vera ribellione, non contro Pio IX, ma contro il suo governo. Il Senatore di Roma Principe Corsini in alto, il generoso Ciceruacchio, ora vero capo del popolo, in basso, riuscirono a quotare quella bufera: si chiarirono gli equivoci, si dissiparono i malintesi: il giorno 2 gennaio Pio IX usci in carrozza aperta, il popolo irruppe da tutte le parti attorno a lui acclamandolo con entusiasmo e recandolo in trionfo sino al Quirinale, mentre Ciceruacchio, salito dietro la vettura papale, gli gridava: Coraggio Santo Padre, fidatevi del popolo! In sei parole, con intuizione mirabile e inconsciente di tutta quella situazione, intuizione non venuta a lui dalla testa ma dal cuore, quel capo-popolo svolgeva tutto un programma: Coraggio Santo Padre, fidatevi del popolo! Quante cose in sei parole!

Ma gli eventi precipitavano e la logica della storia discendeva, fatale e inesorabile, da legittime premesse a legittime conseguenze; avveniva ciò che doveva inevitabilmente avvenire48:

[p. 170 modifica]il 12 gennaio scoppiava la preannunziata, a data fissa, rivoluzione a Palermo, ove il popolo, eroicamente combattendo per quindici giornate, abbatteva l’esecrato potere borbonico, e il 29 dello stesso mese, Ferdinando II, adattatasi al volto una maschera da liberale, largiva al popolo napoletano la costituzione; fatti che producevano la più profonda commozione in tutta la penisola e che eccitavano un indicibile entusiasmo a Roma, dove i Circoli indirizzavano petizioni alla Consulta di stato, chiedendo il riordinamento dell’esercito e gli armamenti.

In conseguenza di quei fatti straordinari, che esaudivano hi speranze, alimentavano i desiderii, che esaltavano gli animi, l’agitazione era salita allo stato di convulsione. E, poiché le manifestazioni popolari continuavano, e il Papa nicchiava a concedere un ministero di laici, così Pio IX mandò fuori il famoso motu proprio che finiva con la famosa frase: Benedite, gran Dio, l’Italia, onde nuovi entusiasmi e nuove illusioni. Poscia, il 12 febbraio, erano nominati ministri quattro laici, il Conte Pasolini, il Principe di Teano, l’avvocato Sturbinetti e il Principe Gabrielli. Ma liete e commoventi novelle venivano di Piemonte e di Toscana dove i due principi avevano, il primo l’8 febbraio e il secondo l’11 dello stesso mese, annunciato ai loro popoli la imminente promulgazione della costituzione. Grandi feste in Roma la sera del 14 presso l’ambasciatore sardo, grandi acclamazioni il 19 presso quello toscano. Ma non era ancora posata alquanto l’emozione di quei lieti avvenimenti, quando il 4 marzo giunsero a Roma le prime confuse notizie della rivoluzione parigina e il 5 successivo la conferma della caduta della dinastia orleanese e la proclamazione della repubblica.

Mentre il popolo romano festeggiava, con entusiastiche manifestazioni, quel fatto tanto grave quanto inatteso. Pellegrino Rossi ne restava afflitto e stupito, «non potendo persuadersi che un ordinamento politico che egli ammirava tanto, fosse scomparso avanti al più leggiero sforzo, in mezzo all’indifferenza universale: resultato inevitabile, pur tuttavia, [p. 171 modifica]dell’isolamento del potere nel paese»49. Pellegrino Rossi doveva essere costernato da quell’avvenimento tanto repentino e inopinato: muto e pensoso vedeva crollare, ad un tratto, tutto l’edificio che egli, con tenacia e operosità meravigliose, aveva faticato quasi quattordici anni a costruire: egli non era più ambasciatore nè Pari di Francia, non più professore, cessava da tutti i suoi uffici; dall’apice della grandezza cadeva nel nulla.

E, mentre si apparecchiava a uscire dal palazzo Colonna a Santi Apostoli, sede dell’ambasciata di Francia, riandava, senza dubbio, col pensiero tutta la sua vita tempestosa e avventurosa e melanconicamente considerava come tre volte egli avesse ricominciata la propria esistenza, come tre volte fosse riuscito a costituirsi uno stato onorato, lucroso, eminente, invidiato e come ora, per la terza volta, e, inopinatamente, di un subito la splendida sua condizione andasse in frantumi, ora che egli aveva sessant’anni! Quale sarebbe il suo avvenire? Si può ricominciare la vita a sessant’anni? Si hanno, a sessant’anni, ancora le forze morali e intellettuali, il vigore fisico per ricominciare la faticosa salita dell’erta in vetta alla quale si può trovar la fortuna?...

Nondimeno Pellegrino Rossi, in quell’ora angosciosa, avrà pensato che gli restava il nome, la riputazione di grande penalista e di grande economista, l’onore intatto, l’ingegno potente, la dottrina vastissima, la parola affascinante e un lampo di speranza gli avrà forse illuminata la mente ottenebrata dal dolore: Chi sa!,.. Forse non è ancora tutto perduto!... Chi sa!...



Note

  1. Avverto qui che, non essendo, in questo volume, mio ufficio, non è neppure mio intendimento di narrare la storia della rivoluzione romana, da altra parte ben risaputa e, aggiungerei, nota a tutti, se non sapessi, pur troppo, che a gran parte della nostra gioventù essa è quasi completamente ignota. Della storia, dunque, di quei rivolgimenti italiani del triennio 1846-1849 io accennerò, qui, solo quel tanto che sia indispensabile alla chiara intelligenza della parte che il Conte Pellegrino Rossi prese a quegli avvenimenti. nel turbine dei quali si svolse l’azione degli ultimi due anni e mezzo della sua vita.
  2. «L’ultima rivoluzione italiana è stata cominciata a Roma dal sacro collegio il giorno in cui i Cardinali elevarono Pio IX alla tiara pontificia. Da Roma, come dal cuore d’Italia, è partito questo movimento intellettuale e morale che in pochi giorni, si è propagato in tutta la penisola». J. F. Perrens, Deux ans de révolution en Italie, Paris, L. Hachctte et Cie, 1857, Préface, pag. 3.
  3. Ciceruacchio e Don Pirlone, ricordi storici della Rivoluzione romana dal 1846 al 1849 con documenti nuovi, Roma, Forzani e C. tip. del Senato, 1894, vol. I, cap. I, pag. 48 e 49.
  4. Il Rossi cade in una lieve inesattezza, scusabilissima in quel primo momento se si pensi che il Cardinale Mastai era pochissimo conosciuto in Roma, e che il Rossi scriveva proprio nel giorno successivo alla elezione di lui: il Mastai indossò gli abiti ecclesiastici e si diede allo studio della teologia nel 1810, e cioè a ventiquattro anni della sua età, e fu ordinato prete e disse la sua prima messa nella Pasqua del 1819, cioè quando egli aveva ventisette anni.
  5. Il maestro di teologia del Mastai, e anche del famoso padre Gioacchino Ventura, fu l’abate romano Giuseppe Maria Graziosi, temperante, mansueto, vero modello di semplicità e carità evangelica e dotto nelle cose sacre. Il Mastai, divenuto Papa, lo nominò canonico della basilica Lateranense e lo volle suo confessore e consigliere. Sventuratamente l’egregio uomo morì ai primordi di quel pontificato, il 22 agosto 1847. L’altro suo discepolo, padre Ventura, ne disse eloquentemente e pubblicamente l’elogio. Opere complete del P. Gioacchino Ventura, Genova, Dario Giuseppe Rossi, 1852, nel volume contenente gli Elogi funebri, pag. 363 e seg.
  6. Lettera dell’ambasciatore P. Rossi al minestro Guizot, in data 17 giugno 1840, nelle Mémoires del Guizot stesso, vol. VIII, cap. XLVI, pag. 341.
  7. Nicomede Bianchi, Storia della diplomazia europea, già citata, vol. V, cap. I, pag. 9.
  8. Che gl’Italiani applaudissero non tanto ciò che era espresso, quanto ciò che era sottinteso nell’editto di amnistia, dal più al meno, lo ammettono moltissimi degli storici dei rivolgimenti italiani di quel triennio, come, ad esempio, il Gioberti, il Gualterio, il Farini, il La Farina, il Montanelli, il Ranalli, il Gabussi, il De Doni, l’Anelli, il Bersezio, il Perrens, il Gervinus, il Garnier-Pagés, il Castelar, il Flathe e altri cinquanta almeno: lo negano una serqua di apologisti e libellisti papalini come lo Spada, il Croce, il Balan, il Balleydier, il D’Arlincourt, il Lubienscky, il De Saint-Albin, ecc. Ma la cosa era tanto vera, e tanto naturale al tempo stesso, che il Rossi notava, il 18 luglio, al Guizot, dopo avergli descritta la imponente e commovente manifestazione popolare della sera precedente: «L’amnistia non è tutto, ma è un gran passo. Io spero che il nuovo solco sia aperto e che il Santo Padre saprà continuarlo, non ostante gli ostacoli che non si mancherà di opporgli»; M. O. D’Haussonville, Histoire de la politique extérieure du Gouvernement français, già citata, tom. II, pag. 202.
  9. F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti, citati, vol. V, pag. 31; N. Bianchi, Carlo Matteucci e l’Italia del suo tempo, Torino, fratelli Bocca, 1874, cap. IV, pag. 153.
  10. Il Cardinale Gabriele Ferretti, cugino di Pio IX e intimo suo, nel ricevimento che il nuovo Papa fece del corpo diplomatico, disse, con grande letizia, al Conte Pellegrino Rossi: «Avremo le strade ferrate e l’amnistia e tutto andrà bene»; M. O. D’Haussonville, op. cit., tom. II, pag. 220.
  11. Ciò è tanto vero che il Principe di Metternich, scrivendo al Conte di Colleredo a Vienna il 14 gennaio 1848 e giudicando la passata politica del gabinetto Guizot in Italia e volendo far ricadere su quella politica, favoreggiatrice dei liberali italiani, l’imminente rivoluzione della penisola, diceva: «Nulla di ciò che oggi avviene in Italia è estraneo all’influenza della Francia liberale e governativa. Il signor Rossi ha rappresentato a Roma queste due influenze ed egli appartiene di buon grado o no, sia per la sua influenza personale, sia per i suoi precedenti, al partito radicale. Ciò che è avvenuto non era ciò che voleva il gabinetto francese: esso deve sentirlo e forse anche lo dirà; ciò che non dirà è di essersi ingannato nelle sue previsioni e non pretendo che me lo dica». Metternich, Mémoires, già citate, vol. VIII, pag. 555.
  12. M. O. D'Haussonville, op. cit., tom. II, pag. 203.
  13. B. Grandoni, Regno temporale di Pio IX, anni primo e secondo, Roma, dalla tip. Salviucci, 1848, anno I, pag. 18.
  14. «La provincia e legazione di Forlì, sottoposta al Cardinale Gizzi, al quale ci gode l’animo render quell’omaggio che merita la sua umanità e la nobiltà del cuore, che rifugge da ogni lordura di polizia, ne impedisce le provocazioni ed ogn’altra ribalderia, non offriva campo atto alla Commissione speciale. I temperati modi del Cardinale tenevan la legazione incolpabile e tranquilla»; M. D’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Italia, 1846, pag. 64.
  15. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 18 agresto 1846, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VIII, pagr. 343.
  16. Il La Farina, il Torre, il Gabussi, il Saffi, il Miraglia da Strongoli ed altri parecchi.
  17. Lo Spada, il Balan, il Croce, il Balloydier, il D’Arlincourt e gli altri loro soci di libelli, offerti al pubblico sotto il mentito nome di storie.
  18. M. O. D’Haussonville, op. cit., tom. II, pag. 225 e 226. Cfr. con F. A. Gualterio, Gli ultimi rivolgimenti ecc., vol. V, cap. IX, pag. 120 e 121; P. D. Pasolini, Memorie di Giuaeppe Pasolini, già citato, cap IV, pag. 74, dove è detto che il conte Rossi non ristava dall’incororaggiare il Papa a concedere spontaneamente quello che più tardi avrebbe dovuto accordare per forza, e con V. Gioberti, Rinnovamento cit., tom. I, cap XIII, pag. 275 e 276; con L. C. Farini, Lo Stato romano cit., vol. I, lib II, cap. I. pag. 166; cap. II, pag. 169 e seg. e passim; con M. Minghetti, Ricordi, già citati, vol. I, cap. V, pag. 205 e seg. E ho citato sei santi padri della scuola dottrinaria e moderata: e non cito i minori scrittori della scuola e nessuno degli storici dei partiti più liberali, o avanzati.
  19. Corrispondenza di Pellegrino Rossi col ministro Guizot, lettere del 18 dicembre 1840, 8 e 18 gennaio, 8 febbraio, 8, 18 e 20 aprile, 26 giugno, 8 e 18 luglio 1847, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VIII, cap. XLVI, pag 349 e seg. Cfr. con M. O. D'Haussonville, op. cit., tom. II, pag. 225 e seg.
  20. Minacciosa era la seguente ottava, improvvisata alla buona, cantando, da quel nobile cuore di Ciceruacchio, tutto devoto e innamorato, allora e nella massima buona fede, di Pio IX, ma già furioso contro i reazionari ed i briganti;

    Oggi per il gran Pio semo felici
    Ne dai briganti più saremo offesi;
    Oggi per il gran Pio siam tutti amici|
    E amici avemo pure i Bolognesi,
    Se alcun, corpo di Dio! dei rei nemici
    Fa un passo avanti... noi già semo intesi;
    Evviva le provincie e Roma madre
    Evviva Italia con il Santo Padre.

       A. Colombo, Angelo Brunetti detto Ciceruacchio, Roma, Capaccini e Ripamonti, 1879, pag. 28; G. Benai, Memoria inedita sui banchetti patriottici di quel tempo, presso di me.

  21. F. A. Gualterio, op. cit., vol. V, cap. 10, pag. 141.
  22. F. I. Perrens, Deux ans de rèvolution en Italie, già citati, vol. II, pag. 20. Cfr. col Gioberti, col Gualterio, col Farini, col Pasolini, opere e luoghi citati, e con F. Ranalli, Le istorie italiane, già citate, vol. I, lib. I, pag. 52, 58, 70 e passim.
  23. G. La Farina, Storia d’Italia dal 1815 al 1850, 2a ediz., Milano-Torino, casa editrice M. Guigoni, 1861, vol. II, lib. III, cap. IV; H. Reuchlin, Geschichte Italien, Leipzig, Verlag von S. Hirtzel, 1859, vol. I, cap. IX, pag. 297; L. C. Farini, op. cit., lib. IV, p 158; B. Grandoni, op cit., anno II, pag. 59 e 60.
  24. L. C. Farini, op. e loc cit.
  25. Intorno alla congiura di Roma - sotto il qual titolo F. De Boni scrisse, a quei g’iorni, un volume (La congiura di Roma e Pio IX, Losanna, S. Bonamici e C., 1847) - impugnata da dodici fra gli storici di quegli avvenimenti, come cosa inventata dai liberali; sulla quale sono dubitosi, benchè più proclivi a crederla vera che no, diciassette scrittori; a cui credono assolutamente trentacinque scrittori, io ragionai abbastanza a lungo nel capitolo terzo dell’indicato mio volume Ciceruacchio e Don Pirlone, ricordi storici, ecc, e dissi le ragrioni per cui anche io credevo e credo alla esistenza di essa.

       Oggi aggiungerò che, dopo la pubblicazione di quel mio volume, ho rinvenuto nuovi documenti, ignoti fin qui, per effetto dei quali più che mai credo alla realtà della congiura, e penso che - quando saranno pubblicati più che mai vi crederanno tutti i lettori imparziali.

  26. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 18 luglio, nella citata opera di M. O. D’Haussonville, tom. II, pag. 228.
  27. Il diritto di veto o di esclusiva per impedire la elezione di un Cardinale a Pontefice, le dette tre Potenze cattoliche non potevano usarlo che una volta sola, per cui, suppposto che il Card. Gaysruck fosse giunto in tempo in conclave per dare l’esclusiva contro il Mastai, quando questi aveva raccolto sul suo nome diciassette voti, non avrebbe poi potuto impedire al partito più mite, o più temperato del Sacro Colleggio di eleggere il Gizzi.
  28. Il Principe di Metternich era contrario all’amnistia e si sarebbe rassegnato — se Pio IX proprio lo voleva — al perdono, e scriveva al conte Lutzow ambasciatore austriaco a Roma, in data di Vienna, il 12 luglio 1816, facendo sottili e bizantine distinzioni fra perdono e amnistia; «Dio non accorda punto l'amnistia — ...la misericordia di Dio è esercitata mediante il perdono». C. De Metternich, Mémoires, già citate, vol. VII, pag. 251 a 256.
  29. Henry Martin, Daniele Manin, Paris, Furnest et C, 1859, lib I, pag. 22, esprime lo stesso pensiero.
  30. Una nota segreta dei corrispondenti della polizia austriaca in Italia fu trovata - come è noto - fra le carte segrete di quella polizia dopo le cinque giornate e pubblicata nell’Archivio triennale delle cose d’Italia, Capolago, tip. Elvetica, 1850, e riprodotta dal Gualterio fra i documenti annessi al vol. V de’ suoi Ultimi rivolgimenti italiani. Da quella nota risultano i nomi di venti autorevolissimi alti agenti segreti dell’Austria nello stato romano, fra cui due Cardinali, l’Orioli e il Ferretti — quello stesso Ferretti reputato, nel 1847, tanto liberale e che era cugino di Pio IX — tre conti, tre avvocati, un presidente di tribunale, dieci frati elevati in alte dignità negli Ordini dei Domenicani e dei Conventuali, due colonnelli dell’esercito pontificio, ecc. E senza tener conto degli agenti minori, dei piccoli e grandi commessi viaggiatori di spionaggio, dei cui rapporti numerosissimi buona parte fu pubblicata nella Corrispondenza segreta e carteggio officiale della polizia austriaca in Italia, Capolago, tip. Elvetica, 1854, e parte fu pubblicata dallo stesso Cantù, dal Gualterio, dal D’Ancona, da Nicomede Bianchi e da parecchi altri storici.
  31. Dalla corrispondenza dei due ambasciatori inglesi Visconte di Ponsomby, residente a Vienna, e sir Hamilton, residente a Firenze, col primo ministro inglese lord Palmerston, pubblicata nella Correspondence of Foreign Office sulle cose italiano del triennio, e da quella del Conte di Revel, ambasciatore piemontese a Londra, col ministro degli esteri di S M. sarda, risulta, indubitatamente, che tanto il Principe di Metternich a Vienna al nunzio pontificio monsignor Viale Prelà, quanto l’ambasciatore austriaco a Roma Conte Lutzow al segretario di stato Cardinale Gizzi, fecero «ripetutamente», a nome del governo austriaco, l’offerta di intervenzione armata nello stato della Chiesa; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia dal 1814 al 1861, Torino, Unione tipogr.-edit. torinese, 1865, vol. V, cap. I.
       A questo primo gravissimo fatto s’ha da aggiungere l’altro che movimenti reazionari sanguinosi e provocazioni gravissime contro i liberali avvennero contemporaneamente a Viterbo, a Terni, a Città della Pieve, a Macerata, a Senigallia, a Cesena, a Bologna e a Faenza, ove la sera del 16 luglio soldati svizzeri fecero fuoco sopra l’inerme popolazione che acclamava Pio IX, onde vi furono sette cittadini feriti, e dove in quella sera il governatore della città aveva ricevuto «trentotto» querele di cittadini liberali aggrediti improvvisamente e brutalmente percossi e feriti per le vie dai sanfedisti del Borgo; provocazioni, aggressioni e ferite che ai primi di luglio, con singolare movimento simultaneo e senza alcuna ragione, erano avvenuti a Siena, a Lucca, a Parma contro i liberali che acclamavano Pio IX e proprio nei giorni in cui a Roma avvenivano i tumulti e le risse fra i cocchieri romani e abruzzesi e i Regolanti e gli Ebrei.
       Al quel fatto è da aggiungere il terzo della improvvisa e da nessuna ragione o pretesto giustificata invasione austriaca a Ferrara, dove entrarono mille Croati a baionetta in canna, con artiglieria e miccie accese. Le quali miracolose coincidenze e combinazioni mostrano troppo a nudo la trama del canavaccio ordita a Vienna nelle officine del Principe di Metternich e tessuta poi dai gesuiti e dai sanfedisti in Italia! Oltre al Bianchi, sopra citato, vedi F. De Boni, op cit. parte II, da pag. 62 a 109, e parte III, da pag. 153 a 179; L. C. Farini, op. cit., lib. II, cap. IV, pag. 209 e 210; D’Azeglio, nell’Italie de 1847 à 1863, Correspondance politique, di E. Rendu, Paris, Didier e C., 1867, pag. 17 a 20, ove è detto: «per quanto poco credulo uno voglia essere, è impossibile di non vedere in tutto ciò un piano prestabilito; e chi potrebbe averlo prestabilito se non questa dannata Austria, che crede di fare qui la seconda della Gallizia?» Cfr. con G. La Farina, G. A Vecchi, G. Gabussi, A. Saffi, L. Anelli, G. Montanelli e A. Mickiewicz, Mémorial de la Légion polonaise de 1848, crée en Italie, publication faite d’après les papiers de son pere avec préface et notes par L. Mickiewicz, Paris, Librairie du Luxembourg, 1877, tomo I, cap. I, 2, e fin anche coi due storici papalini A. Balleydier, Roma e Pio IX, prima versione italiana, Torino, Alessandro Fontana, 1847, cap. VIII, pag. 174, e E. Lubienscky, Guerres et révolutons d’Italie, Paris, Jacques Lecoffre et C., 1852, cap. IV, pag. 67.
  32. C. Cattaneo, nelle sue Considerazioni in fine del primo volume del citato Archivio triennale italiano, a pag. 245 scrive; «La famosa fuga di Pio IX, la quale fu poi conpiuta in novembre del 1848, erasi già meditata e tentata a mezzo luglio 1847, parecchie settimane prima che i buoni Milanesi si facessero ammazzare, cantando per le vie il santissimo nome». A confortare questa opinione dell’illustre lombardo ecco, primo, F. De Boni, il quale, in un volume, stampato a Capolago, 1849, poco dopo l’espugnazione di Roma, intitolato: Il Papa Pio IX e che fa parte della raccolta dei Documenti della guerra santa d’Italia pubblicata in dieci volumi da B. Del Vecchio, pure a Capolago, veniva a dimostrare la connivenza segreta di Pio IX nell’invasione austriaca del luglio 1847, con alcune frasi sfuggite al Papa stesso, nella sua enciclica del 20 aprile 1849 da Gaeta, nella quale, raccontando, a modo suo, i fatti avvenuti dal giorno della sua esaltazione al Papato fino a quel dì, diceva: «In sì grande conflitto di cose, ed in tanto disastro, nulla lasciammo intentato per provvedere all’ordine e alla pubblica tranquillità. Imperocchè pria d’assai che avvenissero quei tristissimi fatti del novembre, procurammo, con ogni impegno, che si chiamassero in Roma i reggimenti svizzeri addetti al servizio della Santa Sede e stanziati nelle nostre provincie il che però, contro il nostro volere, non ebbe effetto, per opera di quelli che nel mese di maggio sostenevano il carico di ministri» - cioè per colpa del ministero Mamiani. - «Nè questo soltanto» — continua Pio IX —  «ma anche prima d’allora, come in appresso, a fine di difendere l’ordine pubblico, specialmente in Roma, e di opprimere l’audacia del partito sovversivo, rivolgemmo le vostre premure a procurarci soccorsi di altre truppe, che per divina permissione, attese le circostanze, ci vennero meno». Ora, concludeva il De Boni, l’allusione era chiarissima e la confessione era preziosa; Pio IX evidentemente intendeva parlare del tentato intervento austriaco nel luglio 1847, non rinvenendosi, dal maggio 1848, epoca in cui il buon pastore voleva chiamati in Roma gli Svizzeri a portarvi la guerra civile, a riandare in su verso il 1847, per cercar che si cerchi, alcuna occasione e veruno accenno di intervenzione straniera, a cui quelle parole pontificali possano alludere, tranne la minacciata e segretamente concordata, per mezzo del reazionario mons. Viale Prelá, nunzio a Vienna, intervenzione austriaca della metà di luglio del 1847.
       Poco dopo la pubblicazione dell’accennato volume del De Boni, anche un altro storico, G. Gabussi, Memorie per servire alla storia della rivoluzione degli stati romani dalla elevazione di Pio IX al pontificato fino alla caduta della Repubblica, tre volumi molto importanti, perchè l’autore, antico condannato politico, era stato anch’esso, come il De Boni, deputato alla Costituente romana, pubblicati a Genova, coi tipi del R. Istituto dei sordo-muti, 1851, anche il Gabussi, che probabilmente non conosceva il volume del De Boni, in una lunga nota, contenuta nelle pag. 79 a 81 del vol. I, sostiene, con limpido e serrato ragionamento, la stessa tesi dal De Boni sostenuta e la quale non manca di avere molta serietà e importanza e se non costituisce una vera e assoluta prova, è però un indizio gravissimo contro Pio IX.
  33. M. O. D‘ Haussonville, op. cit., tom. II. pag. 230.
  34. C. Di Metternich, Mémoires ecc., in tutta la sua corrispondenza col Lutzow, ambasciatore a Roma, con l’Appony a Parigi e col Dietrichstein a Londra, contenuta nel vol. VII, da pag. 410 a 413. L’ultimo dei surriferiti dispacci è anche riportato da E. Rendu, nel suo volume L’Autriche dans la confédération italienne, histoire de la diplomatie et de la police de la Cour de Vienne dans les États du Pape depuis 1815, d’après des documents nouveaux et des pièces diplomatiques, Paris, E. Dentu, 1859, pag. 159. Cfr. con Correspondence of Foreign Office, 1847.

       Il 24 aprile 1847 il Principe scriveva al Granduca di Toscana: «Gli stati sono impegnati in una lotta, più o meno generale, con la realtà e con 1‘apparenza: la realtà è il radicalismo, l’apparenza è il liberalismo. L’Italia è perseguitata dall’apparenza e dietro ad essa si trova la realtà». In questa lunga lettera il Metternich cerca di spaventare il Granduca e di tenerlo lontano da qualsiasi concessione con gli spettri della repubblica italiana una ed indivisibile. del socialismo, ecc. (vol. VII, pag. 467).

       E in data 15 maggio al Lutzow: «L’Italia ha dormito quindici anni, nel corso dei quali ha agito il Carbonarismo, come un brutto sogno, nei Regni di Napoli e di Piemonte. Noi abbiamo svegliato i dormienti e l’emigrazione è cominciata. Un’Italia rivoluzionaria si è formata a lato all’Italia tranquilla». Preziosa confessione degli effetti prodotti dalla politici! metternichiana! (vol. VII, pag 411).

       E il 18 luglio al Lutzow stesso: «Ciò che avviene ora negli stati della Chiesa è una rivoluzione: la rivoluzione sotto la maschera della riforma». E, spaventatissimo, conclude: «Oggi non posso dirvi altro, mio caro Conte. Forse domani sarà altrimenti, perchè in tutte le congiunture come le presenti, ogni giorno adduce, insieme a nuova luce, nuova pena» (vol. VII, pag. 414).

       E al Conte Appony a Parigi, in data 6 agosto: «La parola Italia è, come io ho detto a lord Palmerston, una parola vuota di senso politico». E lì giù botte da orbo contro la rivoluzione mascherata da liberalismo: e afferma che gl’italiani di liberalismo non capiscono nulla, che non saprebbero servirsi della libertà, che vogliono il socialismo e via di seguito (vol. VII, pag. 416 e seg.).

       E al Conte di Fiquelmont a Milano, in data 9 dicembre: «Raccogliendo le traccie da me seguite da molti anni, io potrei scrivere la storia della congiura, che ha finito per far capo a Pio IX. Lo spettro ha preso corpo nel capo visibile della Chiesa e sarà il suo stesso trionfo che lo ricondurrà nell’antro donde è uscito. Il Papa liberale non è un essere possibile. Un Gregorio VII ha potuto divenire il padrone del mondo. Pio IX non può divenirlo. Egli può distruggere, non può edificare. Ciò che già il Papa liberaleggiando ha distrutto è il proprio potere temporale, ciò che egli non ha il potere di distruggere è il proprio potere spirituale: sarà questo potere che annienterà il male e i suoi perfidi consiglieri» (vol. VII, pag. 438). Quanta penetrazione e quanta antiveggenza!

  35. Riportato dal Farini, op. cit, lib. II, cap. 5. Il quale storico, in quel capitolo e nel successivo, riferisce tutta la corrispondenza interceduta fra la segreteria di stato di Roma e il governo austriaco In quella corrispondenza l’atteggiamento del Cardinale Ferretti è umile e rimesso sempre e in esso il Pontefice non è nominato quasi mai; il che costituirebbe un altro indizio della segreta connivenza di lui nella tentata invasione. In uno solo dei dispacci riportati dal Farini il Cardinale Ferretti si mostrò energico quasi oltre misura, ma perchè in quel dispaccio se la prendeva col ministro plenipotenziario di Prussia in Roma, Conte Usedom, il quale si era offerto intermediario per la conciliazione della vertenza di Ferrara, proponendo patti che dal governo romano non potevano decentemente venire accettati.
  36. L. C. Farini, op cit., lib. II, cap. V, pag. 232
  37. Lettera di P. Rossi al ministro Guizot, in data 20 luglio 1847, nelle Mémoires del Guizot stesso, vol. VIII, cap. XLVI, pag. 357.
  38. F. Guizot, Mémoires, ecc., vol. VIII, cap. XLXI, pag. 362 e 363.
  39. Lettere di P. Rossi al ministro Guizot, in data 30 luglio e 10 agosto 1847, nelle Mémoires dello stesso Guizot, vol. VIII, cap. XLVI, pag. 364 a 371.
  40. E. Rendu, L’Autriche dans la confédération italienne, già citata, pag. 64.
  41. Lettera di lord Palmerston a lord Minto, in data 18 settembre 1847, in Correspondence of Foreign Office, riprodotta dal Farini op. cit., lib. II, cap. VIII, pag. 275 e seg.
  42. Dispaccio di lord Palmerston a lord Ponsomby, in data 11 settembre 1847, in Correspondence of Foreign Office, riprodotto da E. Rendu nell’op. cit.; L’Autriche dans la confédération italienne, pag. 103 e 1(54. Cfr. con N. Bianchi, nella sua Storia documentata della diplomazia europea, ecc., vol. V, cap. I e II.
  43. M. O. D’Haussonville, op. cit., lettera di P. Rossi, senza data, ma evidentemente dei primi di novembre 1847, diretta a un membro del Gabinetto francese, tom. II, pag. 238. Il Rossi dice «i governi della Toscana», perchè v’include anche quello di Lucca.
  44. M. O. D’Haussonville, op. cit, lettera di P. Rossi al Guizot, in data del 27 settembre 1847, tom. II, pag. 210.
  45. Lettera del ministro Guizot a Pellegrino Rossi, in data 27 settembre 1847, nell’opera del D’Haussunville, toin. II, pag. 246 e 247.
  46. Lettera del Principe di Metternich al Conte d’Appony, in data 31 ottobre 1817, riportata dal Guizot nelle sue Mémoires, tom. VIII, cap. XLVI. Cfr. con Metternich, op. cit., tom. VIII, in tutto il cap. VI.
  47. E perchè i lettori non credano che io esageri e calunni Francesco Guizot, leggano ciò che egli scrive nel citato vol. VIII delle sue Memorie, a pag. 380 e 381, a proposito delle cose d’Italia. Assuefatto a guardare tutti i fatti del mondo in rapporto e in sottomissione alle sue dottrine, egli attribuisce l’effervescenza e l’agitazione degli Italiani contro l’Austria agli eccitamenti e a suggestioni dei rivoluzionari: egli non vede e non vuol vedere che quello è un movimento spontaneo ed universale, che ha le sue ragioni di essere nelle cause trentennali e nelle premesse storiche che lo hanno prodotto. Egli desidera degli Italiani a modo suo e non può ammettere gl’Italiani quali erano effettivamente e quali li aveva fatti la storia. Egli esigeva quindi degli Italiani calmi, ordinati, pazienti - e si che erano trent’anni che pazientavano - i quali avessero atteso tartarughescamente molti e molti anni a vedere effettuate le molteplici loro aspirazioni, e ciò unicamente perchè così faceva comodo a lui. Curioso uomo di stato, che voleva fissare leggi al nembo, che si è venuto addensando per un trentennio e prescrivere alla folgore, che deve uscire da quel nembo, l’ora in cui deve scoppiare e la via che deve percorrere e gli effetti che deve produrre; quel tanto e non più! Curioso politico, che pone a fondamento della sua azione non il mondo quale è, e gli uomini quali sono, e i fatti per quel che sono, ma il mondo, gli uomini e i fatti quali, secondo lui, dovrebbero essere o quali egli, per suo comodo, desidererebbe che fossero! Curioso filosofo della storia, che, mentre va fantasticamente speculando su ciò che deve avvenire in casa altrui, non scorge l’abisso che si va aprendo sotto i suoi piedi, che, mentre fissa le leggi cervellotiche che, secondo lui, debbono guidare gl’Italiani nella loro opera di redenzione, non investiga e non intende i boati del terremoto ruggenti in Francia e non scorge neppure uno dei segni precursori del nubifragio che, fra tre mesi, ingoierà lui, il suo padrone, il suo sistema e la dinastia che, in quel sistema, aveva le sue fondamenta!
  48. «Dall’amnistia si andò alle riforme, dalle riforme alle franchigie, dalle franchigie allo statuto, dallo statuto alla guerra di indipendenza: i fatti si succedevano come erano già scritti nelle coscienze, come le parti fatali di un ragionamento». Francesco De Sanctis, Nuovi saggi critici, 7° edizione, Napoli, Cav. Antonio Morano, 1896, nello scritto intitolato: Massimo D’Azeglio, pag. 287.
  49. Gustavo De Puynode, articolo citato nel Journal des Économistes.