Storia della Lega Lombarda/Libro secondo
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LIBRO SECONDO
A chi guarda l’Italia nel secolo XII questa si para in tre parti distinte per tre ragioni di governo, che si andavano raffermando. La inferiore o meridionale parte, che è oggi il reame di Napoli, si adunava nelle mani di Ruggiero primo Re di Sicilia, e si reggeva a monarchia: Roma colla signoria, che donarono i Franchi a S. Pietro, obbediva al Papa; ed era tra la teocrazia e la Repubblica; la superiore, o settentrionale parte sciolta di freno principesco, libera ed a rimbalzo si ordinava in moltitudine di Repubbliche. Il diritto del conquisto sorreggeva il trono del Normanno, il divino quello del Papa, la ragion dell’uomo la giovane libertà Lombarda. A tutti minacciava l’Impero: la Sicilia e Napoli per le transitorie conquiste di Carlo Magno; a Roma per ragion feudale; ai Lombardi per vecchia consuetudine di principato. Ma tutti eransi dall’Impero francati; Ruggiero colla forza delle armi, il Papa con quella di Dio, i Lombardi colla virtù del senno e della mano: e tutti avevano nella forza del diritto onde munire la propria indipendenza a petto del Tedesco. Due principati e molte Repubbliche si affortificavano in quel suolo per tutta Italia; e nella fatica della propria ordinazione, attenti, ma confidenti guardavano alla lontana Germania.
Dei principati quello che veramente stringeva il nodo al collo del Tedesco, era il papale. Non nelle città e nelle castella aveva le radici del potere, ma nella virtù dello spirito intangibile dalla brutal forza; non era altezza che lo raggiungesse a ferirlo. Onnipotente nel volere, terribile nel fatto, perchè tutto poteva convertirsi in arma nelle sue mani. Pieghevole, amico di ogni ragion di governo, ove non fosse tirannide ed anarchia; ad ogni popolo poteva accostarsi, muoverlo, ispirarlo, recarselo intorno come corpo obbediente al suo spirito. Lo temevano i Principi, lo amavano i popoli; perchè scoglio ai superbi, sollievo agli oppressi. Come rappresentatore dell’assoluta monarchia dell’ordine, delle umane monarchie geloso, riprenditore, gastigatore: e perciò benigno, aiutatore, protettore alle Repubbliche, che ritraevano immagine di famiglia, quale vorrebbe questa umana razza il Padre celeste. Questo sacro principato aveva trono nel cuor dell’Italia: a destra la monarchia Normanna, a sinistra le Repubbliche Lombarde pendevano dai suoi cenni ad un minacciare della imperial monarchia; perchè tutti temevano. Confidavano poi ciecamente in lui; avendo della sua potenza freschi argomenti nella contesa delle investiture, nè dubitavano della sua costanza; perchè se Ruggiero o le Repubbliche Lombarde potevano, o per ragion di stato, o per gelosie municipali, piegarsi all’Impero, non mai il Papato, che nel condiscendere a lui avrebbe trovata la morte.
Peculiari destini furono quelli dei popoli italiani abitatori delle coste; perciò anche peculiari i loro rapporti coll’Impero. Primi eransi ordinati a reggimento comunale, come quelli, che non ritraendo il vivere dalla terra, bensì dal mare, non avevano patita la catena che li legava alla gleba. Gli spazî del mare avevanli educati a certa indipendenza di corpo e di spirito: e la comunanza delle ricchezze che rampollavano dal seno del commercio, non aveva ancor permesso la legale ineguaglianza de’ patrimonî, il dogma della signoria feudale. Dalle sponde del mare, al mare guardavano, ed in lui tutta la industria dello spirito, e la forza de’ corpi, in lui lo scampo nelle angustie di minacciante signore. Per la qual cosa innanzi che avvenisse la risorrezione de’ Comuni Lombardi, erano poderose Repubbliche ai fianchi d’Italia bagnati dai due mari. Napoli, Amalfi, Gaeta, Pisa, Genova sul Mediterraneo; Venezia, come regina, in fondo all’Adriatico. Le tre prime come poco fidenti in loro stesse, troppo serve degl’Imperadori Greci, use a dipendere, vennero assorbite dalla Monarchia Normanna: le altre più generose ed impazienti di giogo, si tennero vergini di servaggio. Come due scolte vegliavano le fanciulle Repubbliche Lombarde, Pisa e Genova d’un lato, Venezia dall’altro negli estremi mari Mediterraneo ed Adriatico.
Dissi come a tutti questi stati minacciasse l’Impero tedesco; ora dirò che tutti avevano dentro il maladetto appicco allo straniero, cioè la discordia. Erano le città Lombarde in guerra tra loro; Genova e Pisa per gelosia di commercio in Levante, per concorrenza di conquisto sulle isole di Corsica e Sardegna, nemiche: intestine fazioni le rodevano; non quietava Venezia. Tuttavolta queste tre Repubbliche, massime Venezia, erano come i grossi navili, che reggono meglio de’ piccoli nelle grandi fortune. Maggior danno derivava la discordia sulle altre Città Lombarde.
Intanto Roma era tutta in massimo scompiglio, poichè il popolo non voleva più sapere di Papa, agognando anche a Repubblica. Arnaldo da Brescia aveva seminata la zizzania contro le ricchezze ed il dominio chericale; i Pierleoni e i Frangipani imbaldanzivano. Per la qual cosa in Roma gli affari si cozzavano per impeto di contradizione: non volevasi il Papato, bramavasi un Imperadore, ma da coronarsi dal Senato; e si sognava Repubblica, non quella dei Lombardi vivificata dallo spirito cristiano per l’adesione al Papato, ma quella già spenta dalla materia del paganesimo.
Alle spalle di Roma il terribile Ruggiero II ad esempio de’ primi Normanni, dopo le ostilità erasi inchinato innanzi ad Innocenzo II, ed aveva ricevuto l’investitura del reame col gonfalone. Ciò a santificare il diritto: a raffermare il fatto, non guardò a mezzi; adoperò anche quelli della ferocia. Per cui le famiglie degli antichi principati Longobardi ed i grandi baroni non sempre quietavano: spesso si agitavano, ed o a Roma gelosa della Monarchia Normanna, o agl’Imperadori si volgevano. La spedizione nelle Puglie di Lotario era fresca. Dalle quali cose chiaro appare come nel cominciamento di una morale gioventù si levavano i popoli su di un principio di vita attivo in Lombardia, passivo nel reame di Sicilia, falso in Roma. Tutti volevan vivere, ma tutti difettavano della virtù morale che li preservasse dalla morte, dico dell’unità: e nella monarchia Normanna, in Roma papale e nelle Repubbliche il grido d’indipendenza si confondeva con quello del servaggio, invocando la pestifera unità materiale dell’Impero Romano-germano: ed i Baroni ribelli, gli Arnaldiani Romani, le città impotenti a mani giunte provocavano l’avvento di un Imperadore.
Fra le città Lombarde che si reggevano a comune al sorgere del XII secolo le potentissime erano Pavia e Milano, le quali come da picciolo tratto di paese divise, gelosissime si guardavano. Non era fiume nè monte che dividesse i loro contadi; perciò nella dilatazione della loro potenza dovevano urtarsi ed essere in un continuo misurare delle forze. Spingeva Pavia ad entrare innanzi a Milano la memoria della stanza che ebbero in lei i Re d’Italia; questa il diritto d’incoronarli colla corona di ferro. Importune memorie a città che si tenevano in punto di Repubbliche, sempre opportune alla superbia del municipio. Vero è che Milano avanzavala per larghezza di dominio, e copia di ricchezza1. Ambe potenti, e cupide di più vasta signoria, volendo ciascuna assoggettarsi le città minori, accesero un grande fuoco di guerra, in cui queste prendevano parte e si divisero in fazioni; chi per Pavia, chi per Milano teneva. Crema, Tortona, Brescia, Parma e Modena stava per questa; per quella Piacenza, Reggio, Lodi, Novara, Cremona, Asti. Nella lotta prevalsero i Milanesi, come più poderosi; andavano però a pari co’ Pavesi nell’impeto e pertinacia degli odi. Fin nell’anno 1059 appiccarono una feroce battaglia, in cui i Pavesi ebbero la peggio; ma fu menata d’ambe le parti tale una strage, che il luogo della zuffa fu chiamato Campo morto2. E quante volte poi fra loro vennero alle mani, quasi sempre i Milanesi toccavano la vittoria.
Per la qual cosa questi fatti baldi dalla propizia fortuna, si volsero non solamente a guerreggiare per gli aperti campi, ma a porre assedi alle città che tenevano per la nemica Pavia. Dopo avere per quattro anni con varia fortuna osteggiata Lodi, sorretta dagli sforzi di Cremona e Pavia, nell’anno 1111 a dì 24 di Maggio, stremati per fame e fatiche i Lodigiani, se ne impadronirono. Smantellarono le mura, abbruciarono le case, e condussero i miseri cittadini ad abitare sei distinte borgate, assoggettandoli a durissima legge. Corsero quarantasette anni da quel soqquadro fino a che non risorse una novella Lodi poco lungi dalle rovine della vecchia. Inabbissata Lodi, dopo sette anni un atroce fatto mosse Milano a guerreggiare Como. Non volevano i Comaschi certo Landolfo da Carcano, milanese, a loro Vescovo, perchè intruso da Arrigo IV Imperadore, tenendosi contenti del legittimo, di nome Guidone. Cacciatolo, andarono ad assalirlo nel castello di S. Giorgio, e l’ebbero nelle mani: ma traportati dal furore, misero a morte due suoi nipoti, Ottone Capitano della città di Milano, e Lanfranco. Le vedove degli uccisi recando le loro insanguinate vesti, vennero a farne una pubblica mostra nella piazza di Milano; e con molto pianto e lamenti chiedevano vendetta degli ammazzati mariti. Suonavano in quel punto le campane ai divini uffici, vi accorreva il popolo: ed eccoti alla porta della chiesa l’Arcivescovo Giordano, arrestare i fedeli, abbarrare gli usci ad interdetto, e gridare, non avrebbeli riaperti innanzi che non avessero colle armi vendicata l’oltraggiata patria. Infiammarono a vendetta i Milanesi le parole di quello indegno ministro di pace, e per dieci anni si tennero in armi contro Como. La misero a sacco ed a sangue; poi investiti dall’esercito comasco, vennero sconfitti. Questo inviperì vieppiù gli spiriti, e nel tornare che fece Milano alle offese, si parò la grande sua potenza. Imperocchè Cremona, Brescia, Bergamo, Vercelli, Asti, Novara, Verona, Bologna, Ferrara e Guastalla, le spedirono in aiuto le loro genti d’armi: le quali città le si accostavano più per timore che ne avevano, che per abbassar Como, che non era tanto formidabile. Anche Pavia mandò le sue milizie ad aiutare Milano; segno che questa era giunta a starle sopra, ed a tenerla in rispetto. Così messo in piedi un poderoso esercito l’anno 1119, i Milanesi strinsero di assedio la città di Como e i due affortificati sobborghi di Vico e Coloniola. Non è esempio di virtù militare nelle storie del medio evo, che eguagli quella de’ Comaschi: per quasi un decennio difesero animosamente la loro patria. Erano avanzati dagli avversi nel numero delle milizie, e nell’arte della guerra; perchè Pisani e Genovesi (quelli peritissimi nell’arte di cavar mine; questi nel costruire ingegni da assedio) erano per Milano. Tuttavolta furono saldi nelle loro mura, vittoriosi nelle sortite, e con incredibile costanza di spirito si videro tener fronte ai Milanesi, e alle ribellate borgate di loro dominio per terra e per le acque de’ laghi di Como e Maggiore. Al certo non duravano le ostilità per tutto l’anno: incominciavano a primavera, sostavano al verno. Ma poichè il campeggiar de’ nemici durava nella state, tutte le loro messi andavano in perdizione o in potere de’ medesimi. Per la qual cosa stretti dalla fame, perduto ogni nerbo di milizia, essendo alta la notte, in una impetuosa sortita trassero alla zuffa i Milanesi, mentre segretamente dalla città mettevano in salvo i vecchi, i fanciulli e le femmine con le cose più care. Si raccolsero nel castello di Vico paratissimi a più lunga difesa, lasciando deserta la città. Innanzi a quella rocca venne meno la pertinacia de’ Milanesi; proposero e furono accettate le condizioni della pace, ma sì crudamente abusarono della forza, che al luogo della misera Como i pochi campati dalla morte e dalle prigioni non ebbero ad abitare che povere capanne3.
Sterminate Lodi e Como, vennero i Milanesi alle prese colla città di Cremona a cagione di Crema, che non volendo più sottostare alla medesima, chiese la loro protezione. Bastò questo a sollevare un’altra mole di guerra. Pavia ingelosita di nuovo delle vittorie di Milano, si unì a Cremona, traendosi appresso altre città; per cui fino al 1152 non fu che un continuo appiccar di zuffe, espugnazioni di rocche, ammazzamenti di uomini, devastazioni di campi. Cremona non cadde, come le altre due città; ma Milano attinse a tanta altezza di signoria, che ove non fossero più venuti Imperadori di fuori, sarebbe stata la Repubblica regina di tutta Lombardia. Certo che è a lagrimare di dolore su questi bestiali furori, con cui si laceravano le italiane Repubbliche: ma pure un certo bene si cavò da tanto male, dico la esperienza delle cose guerresche, la virtù militare esercitata ed accresciuta, e quella attitudine a rannodar leghe tra molte città. Le quali cose come pestilenziali tornavano al paese per la malizia dello scopo, salutifere sarebbero addivenute per la onestà del medesimo.
1152. Così calda di sdegni la Lombardia, saliva al trono di Germania Federigo Barbarossa in Francforte. Era stata Germania molto e lungamente agitata da due potentissime famiglie, dei Weibling e de’ Welf di Altdorfio, italianamente detti Ghibellini e Guelfi: quelli gelosi, come usi alla dignità imperiale; questi ambiziosi nello stato loro ducale. Era stato umiliato Arrigo il Superbo capo della gente Guelfa: poi questa risorse, e stavasene assai minacciosa a petto dell’altra, quando venne a morte Corrado III Re di Germania. Lasciava un sol figliuolo in tenera età: lo confortavano i cortigiani a farlo nominar Re de’ Romani e suo successore. Non volle; e antiponendo l’amor del regno a quello del figlio, si pose a confortar gli elettori, perchè gli dessero a successore un suo nipote, Federigo di nome. Questi maturo di anni, meglio del figlio fanciullo poteva governare, e poteva condurre a concordia le nimiche famiglie Guelfa e Ghibellina: imperocchè in lui si univa il sangue di entrambe, essendo nato da Federigo il Guercio Conte di Ghibelinga e Duca di Svevia, e da Giuditta figliuola di Arrigo il Superbo di casa Guelfa. Se ne morì Corrado con questa generosa provvidenza; e gli elettori assembrati a Francforte gridarono Re di Germania quel Federigo che aveva voluto, addì 4 di Marzo dell’anno 1152.
Chi fosse costui e nella mente e nel corpo lasciò scritto con molti particolari Radevico Canonico di Frisinga:4 al quale terrem dietro con molta cautela, e perchè ci si para uomo di parte, e perchè proprio si condusse a scrivere per comandamento imperiale5. Fu dunque Federigo uomo di ben composta persona, di moderata statura: aveva biondi i capelli, alcun poco increspati sull’alto della fronte, scorrenti sulle orecchie, e tenuti ad arte in certa brevità coi peli della barba6, la quale perchè dava al rossiccio, gli derivò il soprannome di Barbarossa. Aguzzi gli occhi, e di scaltro riguardo; bello il naso e la bocca, rosso il color delle carni, spesso acceso quel delle gote; e ciò, dice Radevico, non per ira, ma per verecondia. Maschio e toroso in tutte le altre parti del corpo, e nell’andare e nella voce virile quanto un Tedesco. Aveva le membra esercitate alla fatica delle armi in guerra, in pace a quelle della caccia, di che era perdutamente vago. A quella era stato usato fin dai primi anni dal padre, osteggiando certo Conte di Woltarthausen, ed un altro di Zaringa, e nella giovinezza nella infelice spedizione di Corrado III in Levante contra gli infedeli7; alla caccia si dava tutto negli ozi della pace, perciò manteneva grande numero di cani, cavalli, falchi, nell’educare i quali, ed usarne non era chi lo avanzasse. Traeva coll’arco a maraviglia. Rispondeva l’animo alla virilità del corpo; e come poco o nulla rammollito dalla gentilezza delle lettere, aspro, superbo, rotto agli sdegni, incorrigibile dalla pietà. Non sapeva di latino; la favella tedesca era la sola che parlava. Assaporato ben per tempo il dolce della gloria, la quale appresso i Tedeschi non veniva che dalla forza trionfatrice della forza, amava ed anelava alla guerra. Levato, oltre alle sue speranze, agli onori del trono, gli spiriti marziali si maritarono in lui ad una sterminata ambizione; per cui con tutti gli sforzi della mente si dette ad incarnare l’idea dell’Impero Romano. Quelli che afferrano una corona o per benignità di fortuna o per violenza, non conoscono modo nella beatitudine del potere: lo vogliono tutto in pugno, non quale debbe essere, ma quale lo appresenta loro la furiosa libidine che li punge. Se altri più potente li arresta, restan dentro, ed opprimono; usciti, conquistano: ma dentro e fuori, tiranni sempre. Federigo aveva e mente e cuore a questa maniera di principato: accorto, peritissimo a sollevare dal fango la infame tirannide agli occhi della plebe cogl’ingegni del diritto, colla virtù della guerra, con lo splendore dell’impero. A mente italiana egli appare nell’anima, nel corpo, nel pensiero e ne’ fatti, un vero Imperadore Tedesco.
Eletto Re Federigo, si fece incoronare dall’Arcivescovo di Colonia in Aquisgrana, poi anche in Ratisbona: donde spedì Legati a Papa Eugenio III e a tutta Italia nunzi della sua elezione; alla quale non presero parte i Principi italiani. I Tedeschi argomentano dalla loro assenza la suggezione d’Italia a Germania come provincia; gl’Italiani ne cavano pruova d’indipendenza, non avendo che fare nella elezione di un principe forestiero. Tuttavolta vi furono presenti alcuni Baroni Lombardi, Genovesi e Toscani8 non come elettori, ma come spettatori. Assiso in trono il Barbarossa, il pensiero che primo gli entrò nell’animo, e ne tenne la cima, fu quello dell’Italia. Quivi il frutto di una dominazione quasi perduta; di una monarchia sorta a dispetto di Germania; di un Papa solo incoronatore d’Imperadori, solo veramente potente a petto de’ Re. Facile fu l’accostarsi a Papa Eugenio, ed accordarsi con lui: egli aveva voglia di essere Imperadore, quegli di essere libero Papa. L’uno giurò guerra a Ruggiero ed al Popolo Romano, sfrenato a repubblica da Arnaldo da Brescia; l’altro d’incoronar Federigo e di aiutarlo secondo giustizia9. Non mancavano appicchi a quella guerra: poichè risaputosi del novello Re, Roberto Principe di Capua, Andrea Conte di Rupecanina, con una frotta di Baroni pugliesi, spogli da Roggiero delle loro signorie, lo vennero pregando di aiuti contro il Normanno. Durassero, rispondeva il Barbarossa, sarebbe venuto colle armi a soccorrerli nell’anno 1154. Queste lamentazioni erano appunto le cose che più bramava il Tedesco, e ad eccitarle, con molto accorgimento cercò spargere fama di sè, come di giustissimo, di terribile vendicatore delle ingiustizie. Ai Principi non mancano i mezzi a far parlare di loro.
1153. Convocò un gran parlamento in Costanza nel marzo del 1153, proponendosi ministrar giustizia a tutto il mondo. L’esteriore apparato di questa solenne cerimonia fu tale da farlo credere ai Tedeschi, non agl’Italiani, che non vi andarono. Fece rizzare innanzi alle porte della chiesa maggiore un seggio riccamente addobbato su de’ gradi, che sfolgoranti di oro recavano in fronte questa scritta vermiglia — Venisse ogni uomo a piatire contro il suo capo, Barone, Conte ed anche Re; avrebbe la sua ragione — Molti Re erano nominati in quell’invito, anche quello d’Inghilterra; del Francese solo tacevasi. Per tre dì si mise a sedere su quel seggio Federigo; una spada sguainata gli era innanzi, nella cintura pugnali, a simbolo dell’universale sindacato. Gli erano ai piedi tutti in armi il Re di Boemia maggiore Giustiziere dell’Impero, l’Arcivescovo di Colonia e quel di Treviri Arcicancellieri, e quel di Magonza Protonotario a ginocchio piegato. Il Conte Palatino, che era Ottone Duca di Lorena, preposto agl’interpetri, recava le querele al Duca di Baviera, gran Camerlengo dell’Impero, il quale solo poteva accostarsi per deporle nelle orecchie di Federigo. Vi fu moltitudine di accusatori, ma Tedeschi: il dramma volgeva al termine; Italiani non comparivano, se ne andava in fumo lo scopo10. Trovavansi a que’ dì per avventura in Costanza due dabbenuomini Lodigiani, Albernando Alamano, e maestro Omobuono; condotti colà da certi loro particolari negozî. Udito di quel giudizio universale, pensarono andarvi e levar la voce contro la prepotente Milano; nissuna deputazione avevano della loro patria a farlo. Non essendo comparsi che alla fine di quello strano parlamento, vado sospettando che Federigo li avesse dolcemente invitati: ma questo è sospetto. Un’altro Lodigiano che scriveva proprio a que’ tempi11, fedelissimo servidore di Barbarossa, crede vi fossero stati spinti da certa ispirazione divina. Adunque, quei due levatosi in collo una croce, in atto di supplichevoli vennero a porsi ginocchioni innanzi al tribunale di Federigo; e pregandolo di ascolto, incominciarono una pietosa diceria delle miserie che dava loro a soffrire la superba Milano; magnificarono la fede della loro Lodi verso l’Imperio; chiesero, provvedesse ai loro casi, perchè le altre città non prendessero dal loro abbandono conforto a ribellare; ponesse il morso agl’indocili Milanesi, che sconoscevano e si beffavano della sua potenza. Federigo accolse a braccia aperte le opportune querele; e senza porre tempo in mezzo, spedì oratore a Milano un Sicherio Conte del Reno con sue lettere, che esortavano quel comune a fare il suo piacere verso Lodi.
Se ne tornavano in patria i due Lodigiani sicuri della pubblica riconoscenza per quel pietoso consiglio. Ma non appena ebbero rapportato ai Consoli ed al consiglio comunale l’operato in Costanza, furono colpiti di universale biasimo; cacciati a confine e minacciati di morte, se avessero fatto trapelar cosa di quella bestiale scappata. Tuttavolta adunato il nembo da que’ due sconsigliati, era a scongiurarsi, e guardarsi da Milano, che risaputo del fatto di Costanza, sarebbe corsa ai loro danni con più furore. Per la qual cosa erano in grande apprensione di mali; confortandosi solo nella poca fede che prestavano a tutto il racconto di que’ due.
Ma corsi pochi dì, si volsero in certezza i loro dubbi per l’avvento del Legato Sicherio. Il quale innanzi compiere la sua ambasciata appresso Milano, si appresentò in Lodi, credendo arrivarvi come un salvatore, e trovar tutti i cittadini piagnenti colle croci in collo e gridanti soccorso. Andò fallito il Conte: imperocchè stretti a consiglio i Consoli e il Maestrato della Credenza, e mostrate loro le lettere di Federigo, che recavano ai Milanesi il regio comandamento, non che vederli trasecolati per la gioia, maravigliò del dolore che si affacciò su i volti. E rotto il silenzio un de’ Consoli gli disse «Maravigliamo, o Sicherio, di quel che ci rechi: per dio, che non consigliammo, e neppur sapemmo dell’andata in Germania di Albernando ed Omobuono; non pensammo punto ad ottener queste lettere, di che ci regali. Maravigliamo del come que’ due dissennati abbiano osato tastare un negozio, da cui può nascere niente meno che il subbisso di noi tutti e di ogni nostra cosa. Ed ove anche fosse stato salutevole il partito, era questo il tempo ad usarlo, lontano il Re, vicinissima Milano? Non è follia invelenirla contro a noi con queste lettere, trarcela sopra senza speranza di aiuti? Se non ci vuoi morti, lascia stare Milano, torna al Re, e rapportagli delle nostre grazie, e della non compiuta legazione come a noi pericolosissima; metti nelle nostre mani le regie lettere. Quando ci sarà alle porte il regio soccorso, penserem noi a denunciarle a’ Milanesi.»
Sanissimo consiglio: ma il Conte non era venuto a fare il bene dell’Italia; era venuto a dividere, ad attizzare le nimicizie sotto le sembianze di paciere e di salvatore; perciò non si arrese alle parole del Console. E vieppiù incaponì nell’andata a Milano, da che vedevasi fallito nella speranza di festose accoglienze, e di grassi regali, che questi messi transalpini ad esempio de’ loro padroni solevano insaccare, visitando l’Italia. A rinfrescarne la memoria, protestava, che non sarebbesi arreso alle loro preghiere neppur per cento marche. Non ebbe le marche, ed andò tutto cruccioso a prendere un’altro regalo che gli tenevano in serbo i Milanesi.
L’appresentarsi di un ambasciadore tedesco che recava comandamenti di un Re non ancor coronato in Italia; che veniva a bandir leggi in quello di che era più gelosa Milano, dico della sua signoria, era un tentar gli animi già usi a libertà. Sicherio se ne accorse al primo entrar che fece nel territorio Milanese; la plebaglia, che forse sapeva chi fosse, ed a che venisse, gli si mise appresso beffandolo e sghignazzando alla sua maniera. In Milano alcuni nobili gli fecero onoranze: ma il sangue già era ito alla testa del Tedesco. Andava dicendo: Nella voce del popolo si conosce la mente dello stato popolare. Entrato nel consiglio della città, che si componeva anche di persone popolane, cominciò con molta alterigia a notificare la regia ambasciata, profferendo le lettere. Alla qual vista divamparono gli animi d’incredibile sdegno: le strapparono dalle sue mani, e gittatele per terra, le calpestarono co’ regi suggelli. E tanto fu l’impeto degli adirati Milanesi, che il Legato fu ad un pelo ad essere ucciso. La notte se ne andò di soppiatto: passò per Lodi, indi si ridusse in Germania a narrare a Federigo che cosa fosse Milano. Il Barbarossa andò tutto in furore; ma nel fondo dell’anima gli covava un gran piacere nel vedersi innanzi un bel destro di scendere in Italia colle armi in pugno12.
La fama di queste cose si sparse assai presto per le città di Lombardia. L’insulto arrecato al Legato Sicherio non lasciava dubbio su la calata de’ Tedeschi, e su la vendetta che avrebbero preso de’ Milanesi. La qual cosa come le rallegrava per la certezza di vedere umiliata la potente Milano, le poneva in pensiero per la visita di che le avrebbe onorate Federigo. Erano ad un tempo gelose della loro libertà, invidiose di Milano: provvidero. Pavia e Cremona lungamente esercitate negli odi contro la medesima spedirono Legati a Federigo colle mani piene a chinarlo in loro favore, a crescergli il furore contro i Milanesi. Se ne stavano i Lodigiani per timore: ma quel Gugliemo Marchese di Monferrato, un de’ pochi che erasi mantenuto indipendente dalla dominazione comunale delle città francate, e perciò nemico della loro libertà, si accostò ad essi profferendosi ministro appo il Tedesco a racconciare i loro affari senza far rumore cogli ambasciadori. Anche egli aveva paura di Milano. Andò in Germania recando a Federigo una chiave di pretto oro, di che lo presentava la città di Lodi. Trattandosi di queste esteriori mostre di ossequio, i Milanesi non vollero rimanere in dietro. Rimessi gl’iracondi spiriti, tanto terribili a Sicherio, pensarono ai casi proprî, provvedendo; non volendo a capo chino dare in quella tempesta che adunavano in Germania le città nemiche. Cercavano mansuefare l’animo di Federigo co’ regali: spedivangli oratori con una ricchissima coppa d’oro colma a ribocco di moneta. Ma quegli con regia superbia rifiutò il presente, sprezzò gli ossequî, si cacciò dinanzi i Legati, e con tutto l’animo intese al velenoso piatire di que’ di Pavia e di Cremona13. Spedì tosto messaggi per tutti gli stati di Germania e per l’Italia ai Vescovi, Abati e Baroni a tenersi in punto di guerra colle loro soldatesche pel dì di S. Michele, e seguirlo in Lombardia; e fece correre il bando di un gran parlamento da tenersi a Roncaglia14.
Mentre gl’Italiani oratori facevano quella miserabile vista al cospetto di un Re straniero, prorompevano in Italia le milanesi vendette contro Pavia. Raccolte le milizie comasche e lodigiane, soccorsa da Crema, mandò fuori Milano il suo esercito contro Pavia. Nel dì dodicesimo di Agosto si scontrarono i due sforzi appresso un fiumicello detto Lavernagola; fu combattuto da mane a sera da ambe le parti con tanta rabbia, che separate dalla notte, nissuna potè conoscere ove fossesi inchinata la vittoria. Ma il cadere fortuito di una tenda in mezzo alle tenebre mise tale uno spavento tra i Milanesi, che tenendosi improvvisamente assaliti, abbandonarono il campo al nemico colle armi e le bagaglie15.
Era l’ottobre, ed un’altro nemico più potente si affacciava alle porte d’Italia. Veniva Federigo grosso e poderoso di un esercito, che non era venuto il simile da Lamagna nei tempi andati per numero di soldati e di Principi che li guidavano. Sboccò in Italia pel val di Trento, e venne a campeggiare il lago di Garda. Quivi ristette Federigo ad aspettare il ragunamento di tutte le milizie. Pensi il lettore che uomini di buona volontà fossero tutti questi Tedeschi, che conduceva il Barbarossa per ministrar giustizia in Italia. Non era un esercito uso a disciplina militare; bensì uno sterminato accozzamento di gente varia di costumi, che ciascun Duca, Vescovo od Abate ragranellava nella sua signoria, e si spingeva innanzi ad un cenno del Re. Erano milizie feudali indurite nel servaggio; le quali nella guerra gustavano quella libertà, che han le bestie per le selve. Uscir dalle nevi del Settentrione e scendere nelle tiepide regioni italiane era un paradiso: dal difetto di que’ conforti, di che si fa commodo e gentile il vivere, trovarsi repentinamente nell’abbondanza de’ medesimi era un tentare la temperanza di quei nortici oltre le loro forze. Contenerli era un impossibile: ed ove fosse stato possibile, non vi era chi il facesse. I capi erano pure tedeschi. Aggiungi che il freno, volendosi dal Re, neppur poteva stringersi secondo il debito: ripeto, eran milizie feudali: un po’ di rigore, qualche difficoltà non prevveduta, il tempo della spedizione prolungato oltre il promesso, aspreggiava i Baroni, li faceva dar la volta, ed il Principe correva pericolo di trovarsi in paese straniere senza un fante. Nè solamente per licenza militare si sfrenavano que’ soldati, ma anche per improvvidenza del Principe. Tutto il pensiero era nell’assembrare quanto più numeroso si potesse l’esercito; ma alla disposizione delle vie a tenersi in una spedizione, all’approvvigionamento delle cose necessarie alla vita, alla preparazione de’ quartieri punto nè poco. Si provvedeva quando stringeva il bisogno: ed allora il soldato già erasi provveduto colle mani proprie. Perciò o amico o nemico si dicesse questo esercito, era sempre una dolorosa reminiscenza di quelli armenti, che ci cacciarono in casa Attila e Genserico, di spaventevole memoria.
Ciò non isfuggiva alla mente di Federigo; anzi avevalo toccato con mano nell’entrar che fece in Italia. L’esercito patendo fame nelle strette delle Alpi (almeno così dice il Vescovo Ottone) e spinto dalla necessità, aveva manomessi alcuni luoghi sacri. Ad arrestare la fama di questi primi trascorsi, Federigo fece raccogliere per l’esercito certe oblazioni, che mandò ai Vescovi di Trento e ad altre chiese, a ristorarle dai danni sofferti. Mosse gli accampamenti, e li ridusse a Roncaglia presso Piacenza, sulle rive del Po, sito consueto ai parlamenti del regno Italico16. Dovevano colà convenire i feudatari dell’Impero e le città per loro Legati a giurare fedeltà al Tedesco, pena la confisca dei feudi, e il bando dell’Impero ai contumaci: dovevansi rinnovare in Italia i giudizî di Costanza. Molti non ebbero voglia di quel giuramento, e furono colpiti della regia condanna. Primo poi alle lamentazioni fu Guglielmo di Monferrato invelenito contro la città di Asti ed il borgo di Chieri, che francati in libertà e reggendosi a comune, tribolavano il Marchese ed i suoi vassalli, per ridurlo sotto la loro protezione. Entrarono i Lodigiani e i Pavesi a piatire contro Milano. Ma questa volta era chi rispondesse contra. Oberto dell’Orto e Gherardo Negro Consoli milanesi erano venuti a Roncaglia a calmare l’animo di Barbarossa, promettendogli un annuale tributo di mille marche di argento, oltre ad altre sei mila che gli recavano in dono. Fu molto agitata la ragione da ciascuna delle parti: Federigo prestava orecchio a tutti, e lasciava che si accapigliassero a lor piacere, per conoscer nella lotta la parte più debole, a rilevarla contro la più forte. Consueto artifizio de’ prepotenti in paese diviso. Se ne chiarì subito: poichè, eccetto Como e Lodi, che rodevano il freno di Milano, solo Cremona e Novara tenevano per Pavia. Al contrario Cremona, Brescia, Piacenza, Asti, Tortona apertamente si dichiararono per Milano. A Pavia adunque era a darsi di spalla per fiaccar Milano: e questo fermò celatamente nell’animo Barbarossa, dicendo a tutti parole di pace. Tutto chiuso nella maestà di Re e di giudice confortò a porre giù gli sdegni colle armi: e comandò che gli venissero consegnati i prigionieri pavesi e milanesi fatti nelle ultime guerre. Così senza far trapelar cosa di quell’odio che gli rodeva il fondo del cuore, i prigionieri milanesi addivennero statichi in sua balia17.
Nè gli bastò questa cautela, perchè chi vuol male si guarda. Volendo muovere l’esercito verso Novara, comandò ai Consoli milanesi a far da guide, conducendo le milizie pel loro territorio. Questi ubbidirono, prendendo la volta più breve per Landriano, Rosate e Trecate, e varcato il Ticino, dirittamente muovevano a Novara. Ma tra perchè tutto quel paese era stato disertato dalle fresche guerre, e perchè non era anima che osasse aspettare l’oste tedesca, fuggendo tutti colle sustanze, avvenne che non si trovasse sufficiente vettovaglia per l’esercito. La deputazione non preveduta dai Consoli purgavali di ogni colpa: ma Federigo incominciò ad impennare contro di loro nell’arrivare la prima sera a Landriano per la strettezza del necessario. Intanto veniva dal cielo una pioggia a torrenti, che arrestò il corso all’esercito presso a Rosate. V’era da mangiare per un dì: Federigo volle starvi quarantott’ore, e mancò il vitto. Andò in bestia contro i Consoli; e nella loro impotenza a rattenere la pioggia ed a moltiplicare i pani trovò un fellonesco tradimento. Ruppe in feroci vendette; e lasciati andare i prigionieri Pavesi, ordinò che i Milanesi fossero legati alle code de’ cavalli e trascinati pel fango; gli si levassero dinanzi i Consoli, uscissero dagli accampamenti; sgomberassero il castello di Rosate del presidio che vi teneva Milano, e con questo tutti gli abitanti, lasciandovi dentro le provvigioni e ogni loro sostanza ad uso del suo esercito. Così fu fatto: i Tedeschi vi entrarono, divorarono quanto vi era, poi diedero alla fiamme la misera terra.18
Questa crudele cacciata venne fatta a mezzo di oscura notte, dirompendosi i cieli in fredde piogge. Presero la volta di Milano i Consoli; seguivali piangendo lo snidato popolo di Rosate. Fecero una pietosissima vista in città que’ fuorusciti; uomini, donne e fanciulli con la disperazione in viso chiedevano mercè. Accagionavano i Consoli delle loro miserie, come quei che avevano per loro fallo spinto il Tedesco allo scellerato partito. Tutti impietosirono, in guisa che le ragioni prodotte a discolparsi dai Consoli non valsero ad assolverli nella mente del popolo, che nell’impeto dello sdegno si condusse ad abbattere la casa di Gherardo Negro19.
Speravano i Milanesi che questa pena inflitta ad un pubblico magistrato bastasse a sedare le ire di Barbarossa. Oltre a ciò gli spedirono ambasciadori con ricchi presenti di oro; ma li ributtò con superbo disprezzo: uscissero della sua presenza, lui non essere uomo da accalappiarsi coi doni; non avrebbe tenuto alcun trattato con gente trista e di sinistra fede; non isperassero pace, innanzi rassegnargli nelle mani ogni loro ragione su le città di Como e di Lodi. I Milanesi non vollero punto contentarlo in questo: segno che a quegli atti di ossequio non venivano per solo conforto di paura, ma di prudenza20.
Incominciano le prodezze di Federigo. Togliendo giusta ragione di guerra da quel fallo dei Consoli, si gittò ostilmente sul territorio Milanese. Nissuna resistenza; perciò i suoi soldati si potettero dare senza freno ad ogni bestiale opera. Fecero un deserto delle fiorenti campagne; due ponti che teneva Milano sul Ticino bene affortificati abbruciarono; espugnarono, ed uguagliarono al suolo i due castelli di Trecate e Galliate della chiesa milanese21. Voleva Federigo tastare la stessa Milano, ma non si ardì: non era questa un castello, ma una vasta città, ben munita, e quel che era più, piena di popolo confidente nella propria virtù, e che sentiva nel petto rifluire la vita dalla celeste fonte della libertà.
1154. Infatti disperato ogni mezzo a contenere gli sdegni del Tedesco, e persuasi i magistrati, Federigo agognare a guerra, a guerra prepararono la città ed il contado. Vi misero dentro provvigioni quante ne potettero, curarono le munizioni delle mura, fermarono i castelli che erano per la contrada milanese, sollevarono gli animi a generosa difesa. A questo strepito di guerra, Federigo voltò il corso all’esercito verso ponente. Gli era sempre ai fianchi quell’avanzo della vecchia feudalità Guglielmo Marchese di Monferrato, che non poteva più vivere se non vedeva inabbissata Asti e Cheri. Teneva in assedio Barbarossa, perchè il contentasse; e lo contentò. Ripassato il Ticino, celebrato il Natale a Novara, attraversando senza far male il contado di Vercelli e Torino, mosse l’oste contra Asti. Non lo aspettarono gli abitanti, lasciandogli deserta la città. Vi entrò, la dette al sacco, poi alle fiamme col castello di Cheri. Respirò il Marchese22.
Ma Milano gli era spina nel cuore: non osava cozzarla, pensò scalzarle le fondamenta, abbattendo prima le città che le si tenevano amiche. Tra queste era Tortona fedelissima alleata de’ Milanesi, ed alla quale Pavia portava un grandissimo odio. Questa stimolava il Tedesco, perchè la sterminasse dal mondo, dicendogli, non aver l’Impero un nemico più fiero del popolo tortonese, Milano un più potente alleato; rovinasselo come l’Astense. Rispondeva Federigo con tutta la gravità di un legista, doversi prima dar luogo al diritto, poi alla forza. E spedì messaggi ai Tortonesi con questi comandamenti: rompessero l’amicizia con Milano, si accostassero a Pavia. Ma quelli che già erano parati alle armi, gli mandarono un bel nò, con la magnanima ragione, non essere usi abbandonare gli amici nelle avversità. Con eguale costanza di spirito accolsero il regio decreto, che li poneva al bando dell’Impero23.
Era mestieri prepararsi ad accogliere le furie di Barbarossa: si volsero per aiuto i Tortonesi a Milano. Dieci Consoli tenevano a quel tempo la credenza della città; i quali chiamato a parlamento il popolo, fermarono, doversi spedire alla minacciata Tortona un buon nodo di gente. Dugento cavalieri e altrettanti fanti furono tosto in armi; ne presero la condotta Ugo Visconte, Giovanni Ranieri, Roncia Casato, Albertino Casato, due de’ Lanfranchi, e Ruggiero da S. Maria, uomini di eccellenti spiriti. A non fallire la spedizione dando ne’ Tedeschi, volteggiarono per le contrade di Lodi e di Piacenza, poi celatamente viaggiando pei monti della signoria del Malaspina loro amico, giunsero ad intromettersi in Tortona. Accorse anche Obizzo Malaspina ed alcuni signorotti, che tenevano castella su pe’ monti della Liguria, invitati da Milano. Quattrocento Milanesi bastarono a sorreggere gli animi a petto della formidabile oste del Barbarossa; il quale senza altro indugio strinse la città di assedio24.
Siedeva Tortona su di una collina di aspro accesso: l’era alle spalle una giogaia di monti che la congiungevano alle alpi liguri verso levante. A ponente le sottostava un terreno molle e paludoso, corso a qualche lega dal Po. Tutta la città si raccoglieva alla vetta di quell’aspro monte, per arte e per natura egregiamente munita, ed era a sopraccapo alle campagne della nemica Pavia, guardandola da mezzodì come una scolta, quando Milano la osteggiava da tramontana. Prolungavasi un borgo per la china del monte e veniva a giacere nel basso, ben provveduto intorno di mura, ma non capace di lunga resistenza. Perciò nel primo cominciar dell’assedio abbandonato da’ Tortonesi, e senza fatica ottenuto da Federigo. Tutto lo sforzo era nella superiore città, e con quello un fortissimo proposito di mandare un esempio agli avvenire della virtù che infonde la santa carità della patria. Le menti di tutta Lombardia affisavano quella rupe di Tortona, a prendere augurio di avverso o di secondo avvenire.
Intanto Federigo si disponeva alle offese. Aveva diviso in tre parti la numerosa oste; una tutta di Pavesi andò a campeggiar la città dal lato di oriente, che guardava Pavia; l’altra condotta da Errico Duca di Sassonia occupò i sobborghi di mezzodì; lo stesso Federigo poggiò il campo alle sponde del Po verso ponente. Fra gli spazî che erano tra i campi furono cavate profonde fosse a rompere le sortite ai Tortonesi per la campagna. Pensava chiudere così anche ogni via ai soccorsi che potevano venire agli assediati da Milano di uomini e di vettovaglie, onde se non giungeva ad opprimerli col numero, avrebbeli sforzati per fame alla resa. Aveva abbondantemente provveduto l’esercito di ogni cosa necessaria alla viva espugnazione delle mura, come di balestre e mangani, che gittavano con assai di forza. E contano che nel tempestare che fecero grossissimi macigni, ne venisse a cadere uno nel cuore della città, ed ammazzasse d’un colpo tre cittadini che consultavano innanzi all’uscio della chiesa. Tra questi ingegni che si adoprano onestamente nelle guerre, erano altri che solamente usa la scellerata tirannide, dico le forche. Il Tedesco ne aveva fatte levar molte a vista de’ Tortonesi, perchè sapessero, che chi non toccava la gloria di porre la vita per la patria, combattendo; avrebbela per man del carnefice lasciata su gli osceni patiboli. Ma queste tristizie (come sempre avviene) lungi dall’impaurire, accrebbero vieppiù gli spiriti tortonesi, confortati a disperata difesa e dall’amore della libertà e dall’abbominio di quel sozzo signore.
Nel dì delle Ceneri fu dato il segnale alla oppugnazione: traevano a furia le macchine da guerra, e di sassi e di saette era una tempesta contro ogni lato della città. Pensavano i Tedeschi, che non si ardissero i rinchiusi appresentarsi ai merli ed alle feritoie che per lanciare armi e non altro. Ma videro anche i petti che chiudevano animi sconosciuti in Lamagna. Imperocchè i Tortonesi, tenendo a vile lo starsene dietro le mura, frequentemente sortivano animosi a battaglia. Si facevano fino alle trincee, chiamavano all’aperto i nemici, e con incredibile audacia mischiavano le mani. Caddero molti de’ Tedeschi; tra questi due giovani magnati, certo Kadolo di Baioaria e Giovanni di Sassonia; molti i feriti. Dei Tortonesi poi, quelli che cadevano in mano di Federigo, venivano bestialmente appesi alle forche. Nuova foggia di guerra.
Si prolungava l’assedio per molti dì. Però non si ardivano i Tedeschi di venire alla scalata; si tenevano lontano giuocando sempre di mangani e petriere, che molte morti arrecavano ai difensori, tra questi alcuni de’ capitani Milanesi sopracitati. Al contrario i Tortonesi non cessavano dalle sortite, le quali miravano non solo ad offendere l’inimico, ma anche ad aprirsi una via per la campagna alle provvigioni di pane e di acqua, di che pativano un grande difetto. Specialmente per la sete erano venuti all’estremo. Errico di Sassonia era colle sue schiere svegliatissimo a guardia di un rivoletto che scorreva per l’occupato sobborgo ai piedi della città, e non lasciava si accostassero gli assediati a fare acqua. Colla forza avrebbero potuto procacciarsene, ma neppur questa più valse. Le torri e le mura del sobborgo crollate avevano talmente ingombro quel rivoletto, che affogatane la fonte, non dava più acqua di sorta.
Stringeva ogni dì più la sete indomabile dal valore. Era una fonte là dove campeggiavano i Pavesi: a questi avevano dato molto da fare i Tortonesi, assalendoli con singolar foga e rabbia, perchè essendo Italiani, facevano un pessimo vedere così collegati al Tedesco. Un dì, traportati dalle furie della vendetta e dalla disperazione della sete, appuntarono ogni loro sforzo agli alloggiamenti dei Pavesi, per discacciarli, e conquistare un po’ d’acqua. Fu tale l’impeto, che ove non fosse accorso in aiuto di quelli il Marchese di Monferrato, avrebbero potuto i Tortonesi prendere il largo, accozzarsi ad altre milizie milanesi, che non avendo potuto gittarsi nella città, si tenevano speculando gli eventi dell’assedio dalle vicine terre di Luzano, Orasco e Garlimia25, e con quelle ferir le spalle ai Tedeschi. Vennero ributtati, e tornarono a tener fronte dalle mura. Intanto perchè la fonte che guardavano i Pavesi non potesse venire compra col sangue a giovamento degli assediati, Federigo comandò venisse contaminata di zolfo, bitume, e di cadaveri che vi lasciavano marcire.
Federigo maravigliava che a snidare que’ pochi Italiani, che avevano voglia di resistere, vi volesse più di quello che si pensava innanzi. Frugavalo il desiderio di porsi in capo la corona imperiale in Roma: e forse aveva divisato farlo nella festività della Pasqua. Ma i Tortonesi lo sforzarono a stare. Incitava agli assalti a farla finita: un solo Tedesco si spinse audacissimo sino ai merli della torre detta Rossa: ma non fu altri che il seguisse. Pensò minare le mura, che non si reggevano sul vivo degli scogli; e neppur questo gli venne fatto, perchè addatosi i Tortonesi del partito, vennero sotterra ad imberciare la mina, seppellendovi sotto molti che vi si travagliavano, gli altri costringendo a ritrarsi.
Così tra le sortite degli assediati, e le batterie delle mura si passò tutta la quaresima. Volle il Barbarossa che ne’ quattro dì precedenti la Pasqua si ristasse dalla guerra, e fu silenzio d’ambe le parti. Nel Venerdì santo si aprirono le porte della città, e ne uscirono in lunga processione i cherici ed i monaci in sacre vestimenta, recanti innanzi le croci ricoperte di gramaglia, e con molta mestizia di aspetto scendevano ai regi alloggiamenti a chiedere mercè per la conquassata città. Non erano deputati a ciò. Ma come Federigo gli ebbe scorti da lungi, non permise che gli si accostassero, e spedì a respingerli alcuni Vescovi. A questi i supplicanti fecero un pietosissimo pregare, perchè il Re volesse lor perdonare il fallo dell’altrui fellonia. Si dissero stranieri alla patria combattente, per accattare il favore. Indecorosa fiacchezza; nulla di bene ottennero da Federigo, vitupero da’ Tortonesi. Avevano costoro in quel tempo costruito altre macchine da lanciare, con cui al primo ripigliar delle offese ruppero quelle de’ nemici; e davan vista di tenersi più lungamente combattenti su gli spaldi. Così sarebbe avvenuto, ove fossero stati soli Tedeschi al di fuori. Ma dentro era la fame e la sete, che consumava. Fortissimi gli animi, ma stracchi i corpi ed in necessità di tutte le cose, fu pensato alla resa. Ed anche in questo era ad andar cauto, perchè a covrirsi dalle perfidie del furibondo Tedesco non bastava la santità dei trattati. Fu spedito dalla città certo Bruno Bagnolo Abate Chiaravallense a Federigo a trattar della resa. Era quegli uomo tenuto in voce di santità: ed in questa meglio che nella obbligazione dei patti giurati si confidavano i Tortonesi di ritrovare guarentigia dopo la resa. Ottenne il venerando messaggio salve le vite, e tanto delle sustanze quanto ciascuno poteva recarsi in collo, uscendo di città. Ma non appena fu messa dentro l’oste tedesca, che Federigo si gittò dietro ogni promessa. Avrebbe dovuto alla ira della vittoria sottentrare l’ammirazione ed il perdono, al primo vedere que’ generosi logori, e quasi morti dalle fatiche e dalla fame, capaci di sì smisurata virtù. Non vi fu sangue, ma sacco e rovina. Tutto andò negli artigli del vincitore; abbattute le mura e le torri, soppiantate le case; Tortona fu inabbissata. Di che accorò tanto quel santo Abate, il quale aveva trattata la resa, che a capo a tre dì se ne morì di dolore26.
Pochi Italiani che avevano rattenuto innanzi a Tortona un esercito di 12000 cavalieri e 5000 pedoni per sessantadue dì, ed avevanlo assottigliato di numero in molte fazioni, resisi per fame e per sete non per forza di armi, rendevano un preclaro testimonio del come si fossero già virilmente ritemperati gli animi italiani educati dalla onesta libertà; e facevano argomentare della vanità degli sforzi imperiali, se fossersi uniti a ributtare giogo tedesco. La difesa di Tortona fu nobilissimo fatto, il quale come non si lordava di alcun vizio, bastava solo ad indirizzare gli animi a quella virtù, che un giorno doveva affratellare le discordanti Repubbliche su le rovine della temuta Milano. Io non so che si pensasse Federigo di quell’assedio: aveva sprofondata Tortona; e ciò era tutto. Aveva l’animo fitto alle corone. Se ne andò presto a prenderne una, quella italica, in Pavia. Grandi feste e baldorie in questa città si fecero per la incoronazione del Barbarossa e per la distrutta Tortona. Pubblici banchetti furono imbanditi a festeggiare la vittoria degli stranieri: ed i Pavesi banchettarono con loro27. Mosse tosto Federigo, e con lui tutto l’esercito, per alla volta di Roma a prendere corona d’Imperadore. Ne moriva di voglia. Valicò l’Appennino, senza che in Toscana e per le altre città Lombarde fosse alcuno che gli impedisse l’andata.
Ma intanto i generosi fuorusciti di Tortona dato un addio alla infelice patria, che era messa tutta in soqquadro, colle mogli ed i figli andarono a Milano, recando sui pallidi volti, e le insanguinate persone la storia delle molte fatiche e dolori patiti per tenerle la fede. Non è a dire quanta pietà mettesse negli animi milanesi la loro vista. Fu tosto messo e vinto il partito della riedificazione di Tortona a spese della città. Barbarossa lasciava Pavia, e già le milizie di Porta Comacina, e Porta Nova per decreto del popolo di Milano uscivano di Piacenza, ove erano state di presidio, e con un cinquanta Tortonesi accorsero a rilevare la smantellata città. Poi sottentrarono a queste le milizie di Porta Vercellina e Romana; le quali con incredibile ardore si posero all’opera, incominciando dal rinnovare le fosse, a difesa di qualche assalto de’ Pavesi.
Nè questi tardarono a venire. Avevano tentato di cacciare i primi accorsi su le rovine di Tortona: ma vennero per prudenza rattenuti dal Marchese di Monferrato, che ricordava la provata virtù degli assediati28. Ora vedendo come risorgesse l’abborrita città, adunarono uno sforzo di gente, che non mai era stato il simile ai loro stipendi, e vennero a minacciare i Milanesi. Questi non l’aspettarono: ma valicato il fosso del Borgo di Tortona, uscirono all’aperto ad incontrarli. Erano le sole milizie delle due porte Romana ed Orientale. Al primo scontro caddero oltre a cento cavalieri da ambe le parti. Fu accanita la mischia; ma infortunata pe’ Milanesi; i quali volte le spalle, si raccolsero nella superiore città, lasciando un ricco bottino ai nemici, e molti uccisi sul campo. Della quale vittoria inorgogliti i Pavesi, al rompere del nuovo dì con furia investirono la città, ed una più gagliarda virtù opposero loro i Milanesi. Nell’impeto dell’assalto vi entrarono due insegne, facendo di quelli grande uccisione. Ma i Cieli riguardavano benigni la fratellevole carità di Milano verso Tortona. Sopravvenne improvvisa una pioggia, la quale rammollendo il terreno, rendeva lubrico, malagevole a tenervisi il bordo dei fossati, su di cui combattevano i Pavesi. Per cui vennero ributtati, e cacciati fuori a furia di sassi; e non pensarono a tornarvi29.
Cessata l’oste Pavese, e scambiate le milizie con altre fresche venute da Milano, con più ardore si condusse il rilevamento di Tortona. Non solo il censo del comune, ma anche il privato si offeriva alla virtuosa opera. I cavalieri davano i lor cavalli a trasportare dalle rive della Scrivia la sabbia necessaria al cemento, i pedoni recavano su le spalle la calce. In pochi mesi Tortona risorse, munitissima di forte mura30.
E qui noterò due fatti, che mirabilmente provano la nobilissima anima che già era dentro a queste Repubbliche Lombarde, avvegnachè brutte e sanguinose ci appaiano di fuori nella ferocia municipale. Nell’assalire che fecero i Pavesi que’ di Milano in Tortona, furono alcuni tra questi, ed erano de’ capi, che sfidati di resistere, vilmente si rifuggirono nella chiesa, abbandonando la battaglia. Risaputosi in Milano, decretarono i Consoli, venissero scolpiti i loro nomi su la faccia della stessa chiesa a vergognoso monumento della loro fiacchezza31. E poichè fu tornata in piedi Tortona, e tornatovi il popolo, furono alla medesima scritte queste fratellevoli lettere dai Milanesi. «I Consoli, ed il Popolo di Milano ai Consoli ed a tutto il popolo di Tortona dicono salute. Assai ci gode l’animo, e ne vogliam consapevole tutto il Romano Impero, come la città vostra, che da indi innanzi a buon diritto direm nostra, sia stata ristorata sotto i nostri auspicî, e per l’opera, le fatiche e le cure di tutti i nostri cittadini affortificata di mura, e, la mercè divina, condotta in più fiorente stato. Per la qual cosa vi mandiam per ora tre civili insegne della nostra fratellanza: una tromba, perchè ne usiate a dar segno della vostra virtù nei parlamenti, e nelle assemblee del popolo da radunarsi. Una bandiera con croce rossa in campo bianco, a significarvi liberati dalle mani di cruenti nemici, e introdotti negli albori di novella vita; eziandio ornata della immagine del Sole e della Luna, perchè come questa trae luce da quello, sappiasi come Tortona tragga di Milano vita e fortezza. Aggiungiamo a questo un suggello, che reca scolpito la effigie delle due città, onde ovunque arrivino le vostre lettere con quella impronta, dichiarino, come noi siamo di un solo cuore, d’un anima sola»32. Oh che greca fragranza si esala da questi due fatti! Appresso gli altri popoli, e specialmente quelli che volevano in quel tempo padroneggiare in casa nostra, il dare in dietro nella battaglia sarebbe stato punito col taglio delle membra, o con altra corporal pena: l’allegrezza per una città maravigliosamente risorta sarebbesi significata col correrle sopra, che avrebbe fatto il Principe, per aggiustarle il giogo sul collo, e ricordarle il debito del servaggio. In Italia la sola durevole pubblicazione del fatto, ed una bandiera donata a simbolo di fratellanza bastava alla punizione de’ vili, al guiderdone dei generosi; perchè l’Italia era già ratta dall’amore della libertà nel cielo dello spirito, mentre gli altri, come cosa, dormivano nel sepolcro della materia.
Mentre i Milanesi rimettevano al fianco di Pavia quella molesta spina di Tortona, e ripigliavano il sopravvento su le città nemiche, nuovi casi incontrava il Barbarossa, che io narrerò come congiunti a quelli di Lombardia. A grandi giornate viaggiava Federigo con tutta l’oste alla volta di Roma. Passando per Toscana, aveva comandato ai Pisani tenersi pronti coll’armata da muoversi contro Guglielmo di Sicilia. In Ravenna piantò un Tedesco ad Arcivescovo, investendolo dell’Esarcato. Ovunque lasciava un ricordo dell’Impero, di cui andava a prendere la corona.
Era a que’ dì Papa Adriano IV uomo di gran senno, e consapevole del supremo ufficio che amministrava. Non gli pareva cosa di picciolo momento l’avvento di un Re tedesco; e poi quel venirgli in casa così con un esercito frettolosamente lo insospettiva, non ignorando le prodezze da quello operato in Lombardia. Stavasene in molta apprensione. Di Viterbo, ove dimorava, passò in Orvieto città munitissima; e neppur tenendosi sicuro, si ritrasse in Civita Castellana. La razza di uomini che avvicinava era veramente a temersi. Spedì tre Cardinali incontro a Federigo a spiare qual’animo recasse verso di lui, con alcune condizioni da giurarsi dal medesimo, se voleva la corona. Barbarossa dal suo canto spedì l’Arcivescovo di Colonia e quello di Ravenna per rassicurare l’animo pontificale, e certificarlo del suo buon talento33. E quì prima che s’incontrino il Papa e questo Imperadore in erba, è mestieri arrestare la mente alle condizioni in che versavano entrambi.
Federigo ed Adriano s’incontravano per aiutarsi a vicenda, perchè sospinti alle spalle da un terribile nemico. Quegli, avvegnachè poderoso di armi e di milizie, sentiva dietro l’insorgere affannoso dell’umano spirito cupido di libertà, che lo minacciava. Questi onnipotente per le folgori, che gli prestava la monarchia del sovrannaturale, sentiva dietro il fremere delle menti cupide di verità, che lo minacciava. Terribili nemici entrambi, che si davano di spalla a vicenda, perchè avevano madre comune l’umanità, la quale impetuosa in quel tempo accelerava il cammino della vita. Perchè al posare della fortuna barbarica, si levò la lotta della luce colle tenebre, della forza colla libertà, del passato coll’avvenire, della morte colla vita. Questa lotta si operava nel seno dell’umanità per la necessaria legge dell’esistenza, si riproduceva per libera elezione dell’umano individuo; e tutta l’azione dell’uomo prese abito e sembianza di battaglia, ogni termine di azione quello della vittoria, e della gioconda coscienza di un nemico trionfato da una virtù operata. I tornei cavallereschi aprivano il campo alla lotta dei corpi; le dispute filosofiche a quella dello spirito; la guerra delle Repubbliche italiane un campo, in cui l’uomo lottava nel complemento dell’individuo, nella virtù del corpo e dello spirito. Perciò quelle simulate e per prova; questa verissima e per consecuzione di scopo. Lo spirito italiano era vivificato a reggere in questa nobilissima battaglia non dalla Filosofia, ma dalla tradizione Greco-Romana: in Francia si vivificava lo spirito di sapienza per la Filosofia. Perciò nella università parigina e nelle Repubbliche italiane aveva sede tutto l’umano spirito: in quella nella sua potenza, in questa nella sua azione. Lo spirito italiano non aveva mestieri di alcuna personalità che il rappresentasse, perchè attivo; il francese, come potenziale, aspettavalo, e l’ebbe in Pietro Abelardo.
Questo acuto ed infortunato filosofo espresse a maraviglia tutto l’umano spirito lottante nel XII secolo. Fu in perpetua tenzone; e trionfò di tutti nel chiuso campo delle scuole34: non trovando più nemici a combattere in quelle, si ardì porsi alla ricerca della Verità come uno errante cavaliere in parte ove non pensava che lo scoprissero gli uomini. Sprezzati i documenti della esperienza, fidato tutto alle forze del proprio ingegno, incominciò colle blandizie della ragione a cattivarsi il favore del sovrannaturale, austero guardiano della Verità, perchè glie la desse a vedere. Ma in questo egli fu colto dagli emuli e gridato eretico, quasi drudo sagrilego di quella Verità, cui già stendeva la mano. Rottogli il gran pensiero, il cuore, che aveva caldo di quell’amore, famelico si converse ad Eloisa, che incontrò nella limpida cerchia della sapienza. Fra le sue braccia anche adoperò la ragione a piegare il sovrannaturale, austero guardiano dell’amore del sommo Bello, perchè glie lo rendesse ad affratellarlo a quello della creata bellezza; ma invano: qui pure fu colto dai nemici, che lo finirono35. Verità ed errore, amore ed odio tenzonarono nell’anima di Abelardo; perciò mentre Parigi lo eguagliava ai Filosofi dell’antichità, Roma lo rincacciava tra gli eretici: mentre alle porte del Paracleto mistificava l’amore della rinchiusa Eloisa, acremente rispondeva coll’odio ai suoi nemici. Questi erano cherici; e poichè l’arma che quegli menava a tondo era la ragione critica, i colpi che dava non si arrestavano sull’armadura aristotelica degli avversarî; ma scendevano al vivo. Per la qual cosa Abelardo fu terribile riprenditore dei vizi chericali; e come questi si derivavano dalla troppa cura che prendevano delle terrene cose, alle loro ricchezze, al potere, laicale che ministravano, assestò i colpi.
Fra i suoi discepoli fu Arnaldo da Brescia, Lombardo, e perciò già educato a quello spirito attivo che edificava le Repubbliche in Italia; accolse lo spirito filosofico di Parigi, che dalla cattedra di Abelardo si diffondeva acre e nemico della sacerdotale potenza. Come Italiano nulla aveva a fare in Francia; si recò in Lombardia poi in Roma; perchè in queste parti era la sede del sacerdozio in tutta la sua grandezza, ed una libertà ad aiutare. Facondo parlatore, rinfocò gli animi e persuase ai Romani, non doversi lasciare in mano del Papa il temporale reggimento, doversi risuscitare l’antica Repubblica. Così l’Impero ed il Sacerdozio che eransi combattuti a vicenda, ebbero un comune nemico a combattere, Arnaldo da Brescia.
Egli era stato colpito di anatema da Innocenzo nel concilio Lateranense, e costretto a riparare in Francia; ma lasciò in Roma la semenza della sua dottrina, che recò frutti amarissimi a quel Papa. Tornatovi sotto Papa Eugenio III, il popolo, che quasi lo adorava come un Profeta, si mise all’opera di far rivivere la Repubblica. Abbattè le case dei Patrizi, corse furibondo addosso ai Cardinali, abolì la dignità di Prefetto, ricompose l’ordine senatorio ed equestre, si recò in mano la signoria della città, togliendola al Papa. Questi adoperò la forza, poi discese ad accordi, per cui gli fu rinnovata l’obbedienza del popolo: tornò il Prefetto, ma stette il Senato, e con lui lo stesso Arnaldo. Questo innesto di Repubblica e di Papato non poteva durare in pace: Adriano IV si trovò a mal partito rinchiuso nella città Leonina. Di là lanciò l’interdetto sui Romani, che si piegarono a bandire Arnaldo. Questi, intrapreso nella fuga dal Cardinale Gerardo di S. Nicola presso Otricoli, fu poi liberato dai Visconti di Campagna, che se lo tenevano chiuso in un loro castello, venerandolo come santo. La sua morte fu la principale condizione che chiese Adriano alla coronazione di Federigo: il quale spiccate alcune milizie contro que’ Visconti, s’ebbe nelle mani Arnaldo. Venne questi strozzato per ordine del Prefetto di Roma, gittate al Tevere le ceneri del suo corpo abbruciato, perchè il popolo non le venerasse come reliquie di un santo36.
Tolto di mezzo colui, che avera rinfocati i Lombardi ed i Romani dell’amore della libertà, crollando nelle loro menti il principio della feudalità chericale, Adriano e Federigo si accostavano. Fatto sagramento di non arrecar danno alla persona ed alle ragioni del Papa e dei Cardinali, pose Barbarossa il campo appresso Sutri in certo luogo detto Campo Grosso, mentre il Papa scendeva di Nepi ad incontrarlo. Giunto alla regia tenda aspettavasi che Federigo allo scavalcar che faceva gli avesse reso servigio di staffiere. Ma aspettò invano: perchè Federigo non si voleva tener da meno neppure per cerimoniale rappresentanza: di che i Cardinali prendendo argomento del cattivo animo suo, se ne fuggirono, lasciando solo il Papa con pochi domestici. Frattanto questi, disceso di cavallo, si accinse ad accogliere il Re; il quale baciatigli i piedi, come si levò a dargli il bacio della pace, fu tenuto in dietro con queste parole dal generoso Pontefice — Fino a che tu non mi renderai quell’onore, che i tuoi ortodossi predecessori Imperadori, prestarono ai miei predecessori Pontefici per riverenza ai santi Pietro e Paolo, non avrai il ricambio di questo bacio — Il Tedesco puntò il capo e rispose, non corrergli questo debito. Ma perchè il tenersi sul niego avrebbegli fatta pericolare la corona imperiale, il dì appresso tenne la staffa al Papa, ed ebbe il bacio della pace37.
Federigo ed Adriano, fatti amici, procedevano verso Roma, quando dilungati di un venti miglia da Nepi, comparve una grande deputazione del Senato di Roma a Barbarossa. Erano tutti uomini di lettere: introdotti al regale cospetto, così esposero la loro ambasceria «Noi siamo a te destinati oratori dal Senato e dal popolo di Roma: tu ci ascolta benigno, perchè son queste le parole di una città donna del Mondo, di cui sarai fra poco Imperadore e signore. Se tu vieni recatore di pace, abbiti la corona dell’Imperio, che io ti vengo incontro giuliva a presentarti. E per fermo che tu vieni pacifico; non avendo io onde temere guerra da colui tanto lungamente aspettato, a tormi dal collo l’indecente giogo di schiavitù. Deh! fa che tornino le glorie dell’antica etade, e che nelle mani mie, use al freno del Mondo, te Principe, torni e si aduni il reggimento del Mondo. Tu sai come il senno del Senato, e la virtù dell’equestre ordine per lungo e per traverso distendesse un dì la signoria di Roma. Sai come al morir di quello si risolvesse ogni nerbo di cittadina fortezza. Ora a gloria tua e della Repubblica, è risorto quel venerando consesso. Certo me ne saprai buon grado. Ora misura da quel che ti avesti, il debito che ti corre verso di me. Eri ospite, e cittadino ti resi: straniero transalpino, e ti feci un Re. T’avesti il mio; rendemi il tuo. Assicurami dalla furia de’ barbari; mantieni le antiche mie leggi e costumanze e non fallirle; metti in mano de’ miei Magistrati, che ti dovranno gridare Imperadore in Campidoglio, ben cinque mila lire; proferisci la vita ed il sangue a mia tutela; suggella con sagramento il promesso, e vieni»38. Non mi domandi il lettore con che animo accogliesse Federigo questa diceria, e con quale risposta accomiatasse gli oratori della Repubblica Romana. Come questi disordinarono in parole, così egli proruppe in superbia di parole, e, quel che è più, di fatti. Il buono Ottone di Frisinga ci ha tramandata la tedesca risposta: io non la voglio ripetere, perchè scrivendo per gl’Italiani, nissuno meglio di questi conosce quale sia il metro del pensare e del fare tedesco in casa altrui.
Non si erano molto dilungati dagli accampamenti gli oratori, quando Barbarossa, sguinzagliò loro appresso una schiera di cavalieri, i quali s’intromisero in Roma, ed andarono ad occuparne quella parte, che è detta città Leonina. Ebbe questo nome da Leone IV; il quale ad assicurare dalle rapine de’ Saraceni la Basilica degli Apostoli, che è sul colle Vaticano, ricinse questa porzione di mura, come lo era dal Tevere dalla parte di mezzodì39. Un ponte sul fiume la congiungeva al corpo della città, presso Castel S. Angelo. In questo ponte i Tedeschi alzarono incontanente una barricata a tener fuori il popolo, a star soli nel compreso del borgo Leonino; ove il dì appresso entrò Federigo e Papa Adriano, essendo guida alle milizie il Cardinale Ottaviano, tutto cosa tedesca. Era la Basilica gremita di soldati, che parevano più disposti a battaglia, che a sacra e pacifica cerimonia. Giunto alla scala di S. Pietro il Barbarossa in mezzo ad una selva di picche e di daghe, si trasse l’armadura e indossò vesti di gala. Entrato nella Basilica, andò ai piedi del Papa a fare la consueta professione di fede, indi lo seguì fino all’altare di S. Pietro. Quivi ricevette dal medesimo lo stocco e lo scettro imperiale, e la corona sul capo. Alla qual vista fu un gridare de’ Teutoni così traformato e selvaggio, che fu creduto scroscio d’una folgore40. Compiuta la cerimonia, usciva l’Imperadore dalla città Leonina cavalcando colla corona sul capo, e si riduceva agli accampamenti fuori le mura. Il Papa entrò nel palazzo che era presso la Basilica.
Mentre queste cose avvenivano nella Basilica, il popolo col Senato teneva parlamento in Campidoglio su questa incoronazione fatta senza tener conto della Repubblica, anzi a suo dispetto. Invasò gli animi un sì grande furore, che il popolo corse alla cieca alla Basilica, chiedendo potere stornare la incoronazione. Trovò la festa finita; perciò rabbiosamente si gettò sopra ad alcuni soldati tedeschi rimasti indietro, che inseguirono ed ammazzarono fin nella chiesa. Si levò tosto il rumore nella città, che giunse agl’imperiali accampamenti: e subito fu tutta in armi l’oste tedesca. Avvenne una sanguinosa battaglia tra questa ed il popolo. Lunga pezza durò incerta la vittoria; toccò in fine ai Tedeschi, che menarono grande strage de’ Romani. Ottone di Frisinga da buon Tedesco, ma da pessimo Vescovo, recitando lo spargimento del Romano sangue, ed accennando alle parole degli ambasciadori del Senato, dette alla presenza di Federigo, così insulta i vinti «Avresti tu veduto i nostri con pari ferocia e valore atterrar Romani ferendoli, ed atterrati finirli, quasi dicendo: Prenditi ora, o Roma, questo ferro tedesco, a vece dell’oro di Arabia. Questa è la pecunia che il tuo signore ti offre a mercè della corona. Così va compro l’Imperio dai Franchi. Queste sono le alleanze, questi sono i giuramenti, di che ti regala il tuo signore.» Sappiamo veramente grado ad Ottone di questa sincera confessione dell’animo suo e di sua gente. Se la rechi nel cuore ogni vero figlio d’Italia.
Vittorioso de’ Romani, Federigo non poteva domare un nemico che gli assottigliava l’esercito. Incominciava ad intristire l’aere per le maremme Romane, che riscaldate dal calore della state davano un pessimo influsso. Si sfacevano al sole italiano quei nortici corpi, infermavano di febbri, e morivano. Era scarso il vivere, e ne cresceva il difetto il non volere i Romani tener mercato di vettovaglie. Una grande morìa consumava l’oste tedesca.
L’Imperadore mosse gli alloggiamenti, e li andò a piantare verso i monti: andava con lui Adriano. In Tivoli celebrarono il dì di S. Pietro: sagrificò il Pontefice. Rapportarono ad Ottone di Frisinga, che questi tra le cerimonie della messa spandesse sull’esercito tedesco assoluzioni, pel sangue che aveva sparso in Roma. Certo che Federigo nol confortò a farlo, tenendo per giustissima quella guerra, e perciò giustamente ammazzati i Romani. Adriano poi, come vedremo appresso, sebbene apparisse amico del Barbarossa, aveva l’animo a tutt’altro disposto che ad assolvere quella bestiale generazione di uomini. Levò la mano alle consuete benedizioni papali; ed i Tedeschi, che non sapevano di quelle cose, si credettero assoluti.
Le malattie che conquassavano l’esercito tedesco eccitavano più forte tra’ soldati il desiderio di tornarsene a casa. Erano milizie, come fu detto, feudali, perciò temporanee; ed al finire della campagna non era forza che avesse potuto rattenerle sotto le insegne. Federigo aveva ancora grandi cose a fare: il reame di Sicilia gli era fitto nella mente, e ricordava delle spedizioni di Lodovico il Pio, di Ottone, di Lotario. Anche egli voleva stendervi l’ala dell’Imperio. Erano opportune le condizioni: Roberto Principe di Capua capo de’ fuorusciti aveva ribellata gran parte del reame a Guglielmo I, figlio di Ruggiero, il quale era poverissimo di spirito e nulla aveva dell’ingegno paterno; Emmanuele Comneno di Costantinopoli con poderoso naviglio oppugnava Bari e Brindisi. Era dunque facile cavar lo scettro di mano ad un principe imbecille, e fra due nemici che lo spogliavano. Per la qual cosa Federigo, sempre sperando che non gli scappassero i Baroni colle loro milizie, condusse l’oste su pei monti del Ducato di Spoleto, a cessare la morìa in aere più fresco; e cominciò a bandire che voleva il fodro imperiale, per tener contento l’esercito colla pecunia. Si avvicinò a Spoleto.
Questa città reggevasi a comune, aveva i Consoli. Era benissimo affortificata di mura, e di una grande quantità di torri. La qual cosa mise tanta fidanza nei cittadini, da beffarsi della potenza tedesca. Lo addimostrarono co’ fatti. Certo Conte Guido Guerra, uno de’ maggiorenti di Toscana, tornando di Puglia da una ambasceria, cui l’aveva deputato Federigo, stando in città, fu da essi menato in prigione. Richiesti di ottocento lire a titolo di fodro imperiale, non avevano voluto sborsarle. Federigo andò loro contro con tutta l’oste.
Gli Spoletini non lo aspettarono; ma gli uscirono incontro guerreggiando alla leggiera con archi e frombole: ne seguì una calorosa mischia, in cui reggendosi quelli fortemente, Federigo li fece con molto impeto urtare dalla cavalleria; che li ruppe e li rispinse a riparare in città, nella quale insiem co’ fuggenti entrarono anche i nemici. Fu quello l’ultimo dì di Spoleto. Manomessa tutta la città e saccheggiata. I cittadini che non perirono nella zuffa, a sottrarsi al taglio delle spade, si rifuggirono in un vicino monte, donde videro per mano di que’ boreali data miseramente alle fiamme la loro città. Il fetore de’ cadaveri allontanò dal territorio spoletino l’esercito guastatore. Il quale, come Dio volle, giunto alle spiagge dell’Adriatico, ad un cenno che n’ebbe da Federigo, si sciolse, e per diverse vie se ne tornò in Lamagna41.
Rimase l’Imperadore con un sol nodo di gente, che a mala pena gli potevano assicurare il ritorno a casa sua, massime, che tutto il sangue sparso, e le bestiali azioni avevano concitato a sdegno gli animi italiani. Erano questi discordi; ma nella discordia incominciava a prevalere in tutti un generoso pensiero di guarentire il proprio decoro da quella peste straniera, e togliersela di sopra comunque si potesse. Infatti giunto Barbarossa nel territorio de’ Veronesi, questi gli tesero certe insidie, che se fossero andate secondo il desiderio, nè l’Imperadore nè gl’imperiali avrebbero più veduto Germania. Verona da antichissimo tempo soleva al passare di qualche oste tedesca chiuder le porte, per non lasciarsi manomettere, e tener sempre sull’Adige un ponte, per cui quella poteva continuar sua via con minor danno del paese. Le milizie che arrivavano erano provatissime in ogni maniera di ribalderia: volevano i Veronesi sterminarle da questo mondo. Avevano gittato sull’Adige un ponte di battelli così debolmente legati tra loro, che a mala pena reggevano alla correntia delle acque. Nelle superiori sponde tenevano preparate grosse moli di legno, le quali, come fosse giunta una parte dell’esercito imperiale sul ponte, dovevano mandarsi in balia del fiume, ed urtarli, e così sprofondar tutti nelle acque, mentre gli aspettanti alla riva sarebbero stati combattuti colle armi. Ma Dio non volle: imperocchè fu tanto stretta la sèguita che davano i paesani agli abborriti Tedeschi gittati ad ogni rapina, che il loro passaggio sul ponte fu innanzi il tempo preveduto, e solo poi che ebbero toccata la opposta sponda, andò in fascio il ponte. Anzi la cosa tornò a danno de’ Veronesi; dei quali molti che avevano valicato il fiume inseguendo i nemici, rotto alle spalle il ponte, e non soccorsi dagli altri, vennero crudamente messi al taglio delle spade42.
Essendo ancora Federigo nel territorio veronese lanciò contro Milano certo decreto, con cui intendeva privarla dell’antichissimo privilegio di coniare la pubblica moneta, e di tutte le ragioni dette di Regalia. Lo rodeva dentro un fuoco di vendetta contro quella repubblica, cui non aveva osato accostarsi per ridurla a’ suoi voleri, e che gli aveva risuscitato alle spalle in pochi dì quella Tortona, tanto dura ad espugnarsi. Recava l’imperiale scrittura con in fronte il nome della santa Trinità, e di Federigo per divina clemenza Augusto Imperadore de’ Romani «come rigettasse dalla sua grazia i Milanesi a cagione delle loro smisurate scelleratezze; e per sentenza de’ suoi maggiorenti li sottomettesse al bando dell’Impero; perchè distruttori delle città di Como e di Lodi, renitenti a comparirgli innanzi, citati con solenni editti. E poichè la sua clemenza non faceva che incaponirli più nel male, tolto il consiglio da italiani e tedeschi Principi, diffinisse spogli i Milanesi dal diritto di coniar monete, e di tutte le regalie, concedendo questo privilegio alla città di Cremona, esempio di fedeltà tra le città italiane» Vi posero il loro nome come testimoni oltre a cento Vescovi e signori tedeschi, anche i Consoli di Pavia, e Novara; Federigo il suggello43. Opportuno decreto a meglio chiarire i Milanesi dell’animo del Tedesco, e della necessità di ben munirsi.
Un ultimo intoppo trovò Federigo oltre Verona: là dove le Alpi si stringono alle sponde del fiume Adige. Alcuni Veronesi eransi locati su le alture, ed impedivano il passo ai Tedeschi. Furono slocati colla forza, e quanti caddero in mano di Federigo furono ammazzati di crudelissime morti. Un cinquecento vennero appesi per la gola agli alberi; dugento ebbero il naso e le labbra recise; ed i cadaveri degli uccisi furono ammonticchiati per le vie senza ricovero di sepolcro, ad esempio, come avverte il Vescovo di Frisinga, de’ viandanti44. Così Federigo, dopo aver saccheggiati e distrutti i due castelli di Trecate e Galliate, disertate le campagne di Milano, inabbissata Chieri, Asti, Tortona, Spoleto; contaminata di sangue l’istessa Roma, divorato quanto si faceva innanzi al suo esercito; ammazzato, impiccato e martoriato grande numero d’Italiani, sgomberava il tribolato paese nell’autunno dell’anno 1165, e si ritraeva in Germania a preparare una novella spedizione.
Due erano i pensieri che si recò sulla cima dell’animo l’Imperadore, Milano ed il Papa. Quella come centro della forza de’ Comuni, che gli contrastava la imperial signoria dell’Italia; questo come dispensatore e guardiano del diritto divino. A quella apertamente nemica aperta guerra minacciava, a questo con gelosia guardava. Ma entrambi, poichè il Tedesco liberò l’Italia della sua presenza, piegarono l’animo alla considerazione delle proprie condizioni in faccia ad un poderoso nemico, e provvedevano. Veramente incredibile fu l’ardore de’ Milanesi nel riprendere il sopravvento su le città Lombarde, e nel premunirsi contro ai venturi Tedeschi: fu però vituperevole cosa che la nobiltà degli sforzi venisse alcuna volta disonestata dalla intemperanza dei mezzi. Adunque levarono tosto il capo, a punire coloro che si erano dati allo straniero, ed a riprendere le terre perdute. Nel novembre (e forse non erano ancora tutte fuori d’Italia le genti imperiali) riedificarono sul Ticino presso Abbiategrasse il ponte distrutto dai Tedeschi, e ben lo affortificarono, essendo questo il passaggio ai territori di Pavia, di Novara e del Monferrato, in cui si andavano rannodando le milizie di queste città imperiali. Nel giugno dell’anno 1156 si mossero a far pentire i loro nemici della loro vituperevole alleanza co’ Tedeschi; e vi vennero a capo. Imperocchè con subita irruzione passato il Ticino, s’impadronirono di molte terre che giacciono tra quel fiume, il Po e la Sessia; espugnarono in tre dì la forte rocca di Cerano, fugarono i venuti a soccorrerla, e ripiegandosi nella valle di Lugano, oltre a venti castella ridussero in lor balia45.
Pavia era la città fedelissima all’Imperadore, e loro nimicissima; la quale congiunto lo sforzo con quello del Marchese di Monferrato, e dell’altro Marchese Obizzo Malaspina, che aveva disertata la parte repubblicana, seguiti da un codazzo di Baroni, teneva in punto di guerra numerose milizie attorno al lor castello di Vigevano. Questo guarda il Ticino appunto là dove di fresco avevano ricostrutto il ponte i Milanesi. Pensavano forse passarlo, e gittarsi al guasto delle terre di Milano. Ma questa svegliata che stava su i loro moti, nel più crudo del verno, assoldata una mano di Bresciani mandò ad oste il suo esercito condotto da Guido Conte di Biandrate. In tre schiere ebbe questi divise le milizie; nella prima erano i carri e le provvigioni dell’esercito, la seconda tutta di Bresciani da lui capitanata, l’altra di Milanesi. Valicato il ponte, e non osando i Pavesi venire all’aperto, passò oltre Vigevano, ed investì il castello di Gambolato: durò fatica a ridurlo; ma l’ebbe, e lo distrusse. Ripiegarono verso Vigevano i Milanesi colle spoglie del preso castello; alla qual vista i Pavesi con molta furia partirono da Vigevano a combatterli: ma furono accolti vigorosamente, e rincacciati dentro a quella rocca, in cui non potendosi più tenere per fame, in tre dì si arresero a dure condizioni. Fu distrutto Vigevano, e tolto di mezzo questo propugnacolo di Pavia. Nulla avrebbe più impedito ai Milanesi l’andar sopra a questa città, a ridurla nella loro signoria46; la qual cosa se avessero recato ad effetto, non sarebbero stati tratti di nuovo a guerreggiare i Pavesi congiunti ai Cremonesi nella state di quell’anno. Ma fu corta la guerra, avendoli in un solo scontro battuti e fugati. Così fiaccati i nervi ai Pavesi, Milano su i ponti del Ticino e dell’Adda vegliava, e teneva in suggezione da una banda le regioni del Pavese, del Novarese e del Monferrato, dall’altra tutta la valle di Lugano47.
Le vittorie de’ Milanesi come umiliarono gli spiriti della parte imperiale, così rilevarono quelli delle Repubbliche a tener fronte al venturo Barbarossa, che tutte si aspettavano minaccioso. Miravano queste all’operosa Milano, e ne toglievano esempio di cittadina virtù. Era grande il pericolo che la minacciava, ma più grande l’animo de’ suoi Consoli, che vi andavano incontro con ogni provvidenza. Non molestati da’ nemici, usarono del tempo che corse dalla state dell’anno 1157 fino a quella dell’anno appresso a curare le munizioni della città e di tutto il territorio. Andavano solleciti affortificando castelli, fabbricandone nuovi, assicurando con nuove opere la fedele Tortona; cinsero per ben quattro miglia di bastioni e profondo fossato tutti i sobborghi della città; in una parola si misero in punto da non tentennare all’impeto dello sforzo tedesco. Incredibile, ma vero; profusero in queste opere cinquantamila marche di argento, le quali davano il valore di ventisette milioni, e cinquecento mila lire milanesi de’ nostri giorni48. Non rendeva alcerto tutto questo tesoro il pubblico censo, nè era tutto profferto dai cittadini: molto ne smunsero i rettori della città, anche con iniquità dei mezzi. L’antico tributo che chiamavano fodro con tanto rigore andavano raccogliendo i pubblicani, che ove non trovavano in palma di mano moneta viva e sonante, imprigionavano e martoriavano. Nuovi e molti balzelli s’imposero al popolo. Corse un bando che vietava a tutti vendere il campo paterno, non licenziato dal reggimento di Milano; con molta pecunia si comperava la licenza, e colla pecunia si pagava il fio della violazione del bando. L’esiglio e la pubblicazione de’ beni era minacciata a chi recava fuori cosa delle proprie sustanze, ed usciva dal territorio Milanese all’insaputa de’ Consoli. Un ferreo giogo premeva in quel tempo i colli: ma gli animi duravano nell’asprezza di quel governo per amore di libertà49.
Fu poi crudele il partito che prese Milano verso la infortunata Lodi, la quale mise una grande pietà negli animi di tutti, per la iniquità dei destini a cui la condusse quella prepotente città. Toccammo innanzi del come espugnata Lodi da’ Milanesi, fosse stata distrutta, e ridotti gli abitanti in sei divise borgate a rodere un durissimo freno. Vedemmo anche come giurassero fedeltà a Federigo col consenso di Milano. In que’ tempi di preparazione a grandi difese Lodi era stecco negli occhi ai Milanesi; legata per sagramento all’Imperadore, dolentissima della miseria de’ suoi casi, non dubitavano, che al primo spuntar di vessillo tedesco avrebbe levato il capo, stesa la mano a Pavia, colta occasione di vendetta. Anche la ragion del sito, in cui giaceva Lodi, teneva sempre in ombra e sospetto i Milanesi: locata sull’Adda fra le nemiche città di Pavia e di Cremona, poteva da queste nella prossima guerra co’ Tedeschi, ricevere forza ed ardire a ribellare. Per la qual cosa il segreto disegno del Consiglio in Milano si era quello di slocare al tutto i Lodigiani da quel paese, e cacciarli altrove. Incominciarono dunque i Consoli a recarlo ad effetto nel gennaio del 1168, imponendo legge a tutti i Lodigiani dall’età di quindici anni sino a cento di giurare sopra i Vangeli, tenersi paratissimi a fare ogni loro comandamento e quello che loro venisse imposto da Milano. Quelli si piegarono alla dura legge, ma chiedevano che nel sagramento a farsi concedessero porsi la clausula: salva la fede giurata all’Imperadore, a cansare un’aperto spergiuro. Non si arresero i Consoli; e minacciavano. Ben sessanta Lodigiani, e tra questi il loro Vescovo Lanfranco, si recarono in Milano a pregare l’Arcivescovo Uberto, perchè si adoperasse a sottrarli da questa legge, e nulla ottennero. Si strinsero attorno a due Cardinali, che andavano Legati oltralpe, e che appunto in que’ dì davano per Lodi, e con ogni più pietoso argomento confidarono ad essi le loro sorti, e gli invocarono protettori contro l’irata Milano: ma i loro ufficî avvegnachè caldi, cessarono colla loro partenza. Allora avvenne un lagrimevole fatto, che magagnò di un brutto vitupero tutta la gloria che conseguirono i Milanesi in quei fortissimi studî di propugnata libertà. Si levarono contro ai Lodigiani, a rapir loro una patria che non ancora levava il capo dalle sue rovine. Misero a sacco ed a fuoco que’ sei sobborghi in che tutta era la città, spiantarono gli alberi del contado, atterrarono le castella, e appuntarono le spade ai reni dei miseri cittadini, sospingendoli fuori di quel caro nido. I quali sì crudemente tempestati si raccolsero nel castello di Pizzighettone sotto la protezione di Cremona. Ma neppure vi trovarono requie, che anche da quel ricovero sarebbero venuti a turbarli i Milanesi, ove non avesse volti questi a pensare a se stessi il sopraggiungere dell’oste imperiale50.
Detto di Milano, principale sostegno delle repubbliche Lombarde, che si parava ad accogliere le vendette di un furibondo Imperadore, vengo al Romano Pontefice, che nella gloriosa battaglia delle Repubbliche contro Lamagna con paternale carità di ufficî stette a propugnacolo della libertà d’Italia e della Chiesa. Papa Adriano, allontanato che fu Federigo, recandosi in capo la corona imperiale, incominciò a pensare ai casi proprî. Dell’animo di questo Imperadore sapeva, e non ignorava, che se era facile negozio incoronare un Tedesco, difficilissimo era fargli entrar nel capo, che gli stava sopra un Dio fonte di ogni potestà, e per lui il suo Vicario, che si chiamava Papa. Vedeva già fremere innanzi allo scoglio delle Repubbliche Lombarde la sua ambizione; prevedeva, che abbattute queste, non sarebbe stata forza che il rattenesse dal correre sopra alle ragioni della Chiesa. La storia di Arrigo era fresca. Dietro a quelle Repubbliche incominciò a locare il celeste tesoro della ecclesiastica libertà, ed a considerarle come un fermissimo riparo contro alle cupidigie cesaree. Dippiù, non dimenticò la potissima ragione che consigliarono i suoi antecessori alla formazione del reame di Sicilia, cioè quella di tenere sempre aperto alle spalle della papale sedia un rifugio pe’ combattenti Pontefici. Gregorio VII ne fece una solenne pruova. Ma la ragione della conquista normanna non poteva sempre pacificamente annestarsi a quella della investitura papale. Spesso i Re di Sicilia, perchè stringevano lo scettro, non volevano sapere di altri signori nel proprio reame. Così fu di Guglielmo detto il Malo, terzo figliuolo di Ruggiero: morto il padre, senza chiedere licenza alla Romana sedia, di cui era vassallo, si assise in trono, e si tenne Re. Ma non lo tenne tale Adriano, che speditogli un Legato per certi negozî, gli negò sino il regio nome nelle lettere che gli mandava; e fu guerra tra loro51. I Baroni malcontenti di Guglielmo, Roberto già Principe di Capua, Andrea Conte di Rupecanina, Riccardo dall’Aquila, Roberto di Basavilla Conte di Loritello, all’ombra papale ribellarono, e con papali aiuti tolsero al Malo quasi tutte le città del reame di quà del Faro, mentre anche Sicilia gli scappava di mano pe’ malefizî di Maione ribaldo cortigiano, che ammaliava il Re. Guglielmo alla perfine andato così in fondo, e minacciato dai due Imperadori di Occidente e di Oriente, pensò far la pace con Adriano, il quale accolse benissimo i suoi messi; ed era in sul conchiudere il trattato a lui molto vantaggioso, quando alcuni Cardinali glielo ruppero per peculiari disegni. Si rinfocò la guerra; andò propizia al Malo; ed Adriano stretto d’assedio in Benevento dovè chiedere al medesimo la pace, che si conchiuse a tristi condizioni. Il Baronio lamenta lo scapito delle papali ragioni52 ne’ capitoli giurati da Adriano, ed afferma che si piegasse sforzato dalle armi del Re; specialmente compiange lo spogliarsi che fece quel Papa del diritto di ricevere le appellazioni dai cherici del reame. Ma Adriano non poteva starsi tanto sul tirato, non solo per la forza presente del Malo, ma anche per la lontana del Barbarossa. Adunque investì Guglielmo del reame di Sicilia e di Puglia, ricevendo da lui sagramento di fedeltà col ligio omaggio, e si ritrasse in Roma regalmente gratificato di ricchissimi doni.
Questa pace col Malo, con cui aveva in animo Federigo di guerreggiare, fu un’aperta dichiarazione che fece Adriano di non temere l’Imperio, e di affortificarsi contro di lui coll’amicizia del Re di Sicilia. Perciò come ne giunse la notizia al Barbarossa, montò questi in forte sdegno contro del Papa: avrebbe voluto almeno una petizione di licenza per quel trattato. Manifestò tosto il pessimo animo concepito contro la Chiesa, chiudendo la via ai cherici di Germania andanti a Roma per sagri negozî; e lasciando impuniti alcuni tirannelli tedeschi, i quali avevano cacciato in fondo di prigione Esquilo Arcivescovo di Lunden in Svezia, che tornava di Roma53.
Adriano era già preparato a queste impertinenze; e con tutti i nervi si adoperò a comprimerle, avvegnachè alcuni de’ Cardinali, cercatori del proprio, e non dell’onor di Dio, già venduti a Cesare, gli levassero il rumore in casa. Ricordi il lettore di questi indegni discepoli di Cristo, che li troverà appresso artefici di scellerata scisma. Spedì Legato a Federigo Rolando Cancelliere di S. Chiesa, del quale basta per ora solamente accennare, che fu poi Alessandro III, e Bernardo del titolo di S. Clemente. Ottima deputazione: Rolando era l’Ildebrando del XII secolo. Recavano questi una lettera di Adriano all’Imperadore, e molte preghiere, perchè non volesse contristare la Chiesa. Incominciava il Papa in quella epistola a lamentare la sagrilega ribalderia commessa contro quell’Arcivescovo di Svezia, il quale ancora languiva nella prigione, violentemente dirubato di ogni sua cosa, e minacciato anche di morte dai ladroni, che gli snudarono in faccia le spade. «Lui serenissimo Imperadore alcerto non ignorare cotanta scelleranza recata dalla pubblica fama nelle più remote parti del mondo, e non toccargli l’animo pure un pensiero di giusta vendetta, armato com’era di quella spada, che la divina providenza gli aveva dato a severa punizione dei tristi. Così lui sonnacchioso, ed ignavo, dormire in petto ai colpevoli fino il rimorso dell’enorme sagrilegio, non essendo stata pena, che lo avesse loro svegliato. Non sapere donde la causa di quel suo infingersi o non curare: aver bene ricercato il proprio animo, e non aver trovato scrupolo di coscienza che lo accusasse offensore dell’imperiale decoro; anzi sentir dentro una voce, che gli ricordava lo sviscerato amore che sempre aveva portato a lui come a cristianissimo Principe, ed a carissimo figliuolo. E pur devi, proseguiva, o figliuolo, recarti alla mente, con quanta cordial gioia, è già un anno, ti accogliesse la sacrosanta tua madre la Romana Chiesa, levandoti a cima di dignità, onorandoti dell’imperiale corona, e studiando il come non contrastare in checchessia la tua volontà. Nè per fermo c’incresce punto questo esserci tenuti tanto legati al tuo volere. Anzi sarebbe per noi una ventura, se potessi dalle nostre mani, ove fossero, ricevere anche più grandi beneficî, pel molto bene che ne verrebbe a noi, ed alla Chiesa di Dio. Ora questo tuo chiudere degli occhi su di un tanto delitto, che disonora la Chiesa e l’Impero, conduce a temere, che non sia consiglio di alcun malvagio seminator di zizania, il quale t’abbia invelenito l’animo contro di noi, e la clementissima tua madre la Romana Chiesa» Conchiudeva, raccomandandogli caldamente i due Legati54.
Vennero questi a trovare l’Imperadore a Besanzone, ove era andato a prendere il possesso del reame di Borgogna. Era perciò colui nel più grande splendore della sua possanza. Inchinato dai suoi vassalli, e da una moltitudine di Romani, Pugliesi, Veneziani, Lombardi, Francesi, Spagnuoli, Inglesi accorsi o per trattar negozi, o per corteggiarlo: si menava gran festa per la città e si facevano tutte quelle pazzie, che sempre si faranno, quando apparisce un Imperadore: tutto pareva che gli dicesse, essere un vero successore di Augusto. Non potevano giungergli più importuni i Legati di un Papa, cioè di un signore, che non riceveva da lui la corona, e che poteva imporgli legge di giustizia, massime che l’animo dentro gli rimordeva, e lo pungeva desiderio di vendetta, per le papali amicizie rannodate col Malo di Sicilia. Per la qual cosa non volle onorarli di pubbliche accoglienze: ma trattosi in secreto oratorio coi maggiorenti dell’Impero, si fece innanzi introdurre i due Cardinali. I quali consapevoli del personaggio che rappresentavano, con queste recise parole accompagnarono la profferta delle lettere, volti a Federigo — Vi saluta il reverendissimo nostro Papa Adriano, e il corpo dei Cardinali della S. R. Chiesa: quegli come padre, questi come fratelli — Questa fraterna eguaglianza de’ Cardinali con un Imperadore incominciò ad annugolare l’animo di questo e de’ Principi. Ma per sapere il perchè poi rompessero in selvaggio furore, al sentire quel che recava la papale epistola, è mestieri premettere, come Federigo e i suoi erano tornati di Roma forte scandolezzati, e con sinistro giudizio dell’ambizione de’ Papi. Avevano visto nel Palazzo Lateranense certo dipinto esprimente l’Imparadore Lotario gittato ai piedi del Papa con questa scritta:
- Rex venit ante fores, jurans prius Urbis honoris,
- Post homo fit Papae, sumit quo dante coronam.
Questa visione punse al vivo la tedesca superbia: quell’homo valeva vassallo. Lamentatosene il Barbarossa, Adriano promise di contentarlo, facendo radere la irriverente pittura. Però egli ed i suoi ne portarono fitta nella mente la memoria: infatti nell’udire come nelle lettere il Papa desse il nome di Beneficio alla corona che gli aveva imposta, gli venne innanzi la Lateranense pittura, e non dubitò, sotto il vocabolo Beneficio annidarsi la significazione di Feudo, e perciò lui essere un Vassallo della papale sedia. Non mi domandi il lettore come impennasse Federigo e che rumore levassero i cortigiani: egli si teneva signore del mondo, ed era Tedesco. Si appiccò una focosissima disputa, nella quale Rolando uscì innanzi pettoruto con queste parole — E da chi mai terrà egli l’Imperio, se nol tiene dal Papa? — le quali non ebbe finito di pronunziare, che Ottone Conte Palatino di Baviera gli si avventò sopra, e fu ad un pelo che non gli spiccasse il capo dal busto con un fendente di spada. Se non che Federigo fu a tempo a frapporsi, sottraendo la inviolabile persona del sacro ambasciadore a quelle furie, comandando ai Legati in poche ore lasciar di tratto la Germania; e a recare a pubblica contezza l’avvenuto, mandò intorno lettere tutte piene di solenni menzogne. Imperocchè dopo avere manifestata l’alterigia de’ Legati e del Papa, e tutte le malizie di che era piena la voce Beneficio, afferma, aver rinvenuto presso i Legati altre lettere e bianche pergamene col sugello papale, in cui potevano a lor talento provare qualunque più scellerata cosa loro talentasse, e spargere per le tedesche chiese a spogliare, altari, a rapir i sacri vasi e le croci, a farne bottino; perciò, affermava, averli cacciati incontanente dal regno55.
Tornati i due Cardinali Legati in Roma, non è a dire se lamentassero le brutali accoglienze ricevute in Germania. Adriano si metteva in punto di Pontefice sommo, a punire una così plebea violazione della ragione di Dio e delle genti: gli era alle spalle Guglielmo poderoso alleato, a fronte Milano con le lombarde repubbliche. Ma gli fu forza rimettere dalla severità del proposito, per la discordia de’ Cardinali, che lo circondavano; chi teneva per l’Impero, e condannava la condotta de’ Legati; chi per la Chiesa, e la lodava. Si mise in sulla via degli accordi. Scrisse ai Vescovi ed Arcivescovi di Germania, esortandoli che volessero rammorbidire l’animo di Federigo, e ricondurlo pel retto sentiero. Ma quegli erano meno cherici, che aulici; risposero, rincalzando le male opere di Barbarossa; e pensandosi, che il dipinto Lotario fosse ancora ai piedi del Papa nel palazzo Lateranense, rinnovavano le lagnanze per quei Benefizi che Adriano affermava aver largito a Federigo, i quali rendevano sapor di bestemmia per lesa dignità imperiale56.
Laonde correndo voce ognor più certa del prossimo ritorno di Federigo in Italia, Adriano si affrettò a racconciarsi con lui. Gli spedì altri due Legati, Arrigo Cardinale de’ Santi Nereo ed Achilleo, e Giacinto di S. Maria della Scuola Greca, con lettere più dolci, nelle quali si sforzava fare intendere al Tedesco, che quella voce Beneficio non suonasse Feudo, bensì buona opera, che lega di riconoscenza cui si rende a chi la fa; e ciò significava con ogni più studiato modo di cortesia e di mansuetudine. Ma a que’ dì gli ambasciadori che ponevano il piede in Germania, se volevano tornarne vivi, dovevano farvisi condurre dagli eserciti, perchè i Tedeschi non sapevano ancora cosa fosse diritto delle genti. Infatti i due Legati non senza fondamento di ragioni temendo quel che poi avvenne, menarono seco il Vescovo di Trento, perchè li assicurasse colla sua presenza, come più conosciuto in quelle parti. Ma neppur valsero queste cautele; l’entrar nel Tirolo, e trovarsi nelle unghie di due ladroni, che avevano titolo di Conti, fu una stessa cosa. Furono da questi spogliati, e gittati in fondo di carcere; donde poi furon tratti colla forza da Errico Duca di Sassonia; e così potettero appresentarsi all’Imperadore Barbarossa. Questi che si trovava tutto in far massa di gente, ed in punto di calare in Italia, ed a cui non pareva prudente consiglio durare nella papale inimicizia in una pericolosa guerra che intraprendeva, si mostrò sodisfatto delle lettere di Adriano, e fece pace con lui. Pace, che non andò tanto addentro nel cuore di entrambi, perchè occupati da gelosissime idee papale ed imperiale; le quali ove anche gli uomini che le rappresentano scendano agli accordi, staran sempre deste, irrequiete, a tenersi in uno scambievole rispetto. Perciò quando Federigo quassava le briglie sul collo delle selvagge moltitudini tedesche ad urtare la impalpabile unità morale d’Italia, che si andava edificando ne’ faticosi studî delle Lombarde Repubbliche, il Papato, avvegnachè amico Adriano, conturbato l’andava vegliando, e ricercava nel petto di Rolando il cuore del terzo Alessandro.
Si commoveva tutto il tedesco Impero ai cenni di Federigo contro una Italiana città, dico Milano. Aveva questi bandito nell’anno 1167 una Dieta in Ulma, in cui dovevano convenire nel dì di Pentecoste tutti i Principi co’ loro vassalli, e di là muovere con poderoso esercito a domare quella generosa Repubblica. Prometteva ai convocati Principi, che non li avrebbe fatti oltrepassare l’Appennino57. Spiccò ad un tempo due Legati in Italia, che gli aprissero la via, spargendo voce della grandezza dello sforzo tedesco, che era per condursi a ristorare le sante ragioni dell’Impero; raffermassero gli affezionati a Germania, intimorissero i nemici e risvegliassero a guerra i feudatari dell’Impero. Erano i due messi Rinaldo Cancelliere Imperiale, ed Ottone Conte Palatino, quell’avventato che minacciò di morte colla nuda spada il Legato papale. È a dire che costoro o conducessero, o trovassero qualche mano di gente armata, poichè venuti alla Chiusa sull’Adige, ottennero il Castello di Rivoli; il quale sarebbe stato un noioso intoppo al venturo esercito cesareo. Fermarono il cammino in Cremona, e vi tennero un parlamento, al quale intervennero gli Arcivescovi di Milano, di Ravenna, ben quindici Vescovi, Marchesi e Conti non pochi, e i Consoli delle Repubbliche. Proseguirono il viaggio, visitando l’Esarcato di Ravenna; poi per la via di Rimini si accostarono ad Ancona. In questa città eransi allocati alcuni messaggi dell’Imperadore Greco, i quali con molta quantità di danaio erano nell’assoldar gente, sperando che tutto inteso il Barbarossa nella guerra di Milano, potessero riacquistare qualche cosa dell’antica signoria su le coste dell’Adriatico; ed a compire il disegno, facevan correre la voce, armarsi contro quel di Sicilia. A questi celatamente prestava opera un Traversaro di Ravenna. Nel quale abbattutisi i due Legati, gli fecero sentire tali parole, da non fargli più pensare ai Greci: anzi quel manesco uomo di Ottone rincalzò gli argomenti con un trar di spada, minacciando il Ravennate di morte. Io godo delle bravate di questo Conte Palatino; perchè i lettori meglio si persuadano, come fosse tutta material forza quella che opponeva Germania alla nostra Italia. I Greci che si trovavano forse in sul principio delle loro pratiche, credettero opportuno chinar la fronte innanzi a quei due ministri di altro Imperadore, e tornarsene in patria. I Legati si condussero in Modena.58
Intanto Ulma, destinato convegno a tutto l’esercito, riboccava d’innumerabili milizie. Innanzi muovere, si strinsero a consiglio con Federigo i Principi dell’Impero, a provvedere all’andata di tutta quella mole di guerra. Metterla per una sola via, era un’affamarla, chè non sarebbe stato paese, per cui dava, sufficiente alle vettovaglie. La divisero in quattro parti, e per quattro differenti vie la fecero cadere in seno alla povera Italia. Arrigo Duca d’Austria, e l’altro di Carinzia conducevano la prima schiera, tutta di Ungheresi, e ne formavano il nerbo un seicento provatissimi arcieri; tennero la strada di Canale, del Friuli, e della Marca Veronese. Bertolfo di Zaringen Duca di Borgogna colla seconda di Lorenesi e di Borgognoni valicò il S. Bernardo. Un nugolo di Franconi e di Svevi dettero per Chiavenna e pel lago di Como. Federigo accompagnato dal Re di Boemia, da Federigo Duca di Svezia e dal fratello di costui Corrado, Conte Palatino del Reno, e da numerosa turba di magnati tedeschi, calò con la quarta schiera in Italia per la valle dell’Adige. Di Conti e Baroni in tutto l’esercito era un subbisso; non vi mancavano i Vescovi, tra i quali primi gli Arcivescovi di Treviri, di Colonia e di Magonza59. Spazzava il cammino all’esercito il Re di Boemia, il quale, trovata Brescia in armi, e per nulla spaventata dall’innumerevole esercito che le veniva sopra, incominciò a combatterla, mentre appresso gli veniva Federigo; il quale sciolto ogni freno ai suoi Tedeschi, mandava tutto a sacco ed a fuoco il territorio Bresciano. Brescia dopo quindici dì di resistenza si arrese a patti, non soccorsa, dando sessanta statichi, ed una grossa quantità di danaio60.
Ragunato tutto l’esercito nel Bresciano, Federigo bandì alcune leggi ad infrenare la licenza de’ soldati, le quali rendono assai bene l’indole sua e della gente che conduceva61; e con una acconcia diceria spose la sua mente ai Baroni intorno alla guerra che intraprendeva. Rendeva grazie a Dio, perchè avendolo assunto a suo ministro e rettore dell’Imperio, lo avesse ad un tempo circondato della loro onestà e prudenza, della quale sapeva a pruova l’efficacia nel sedare i turbamenti del R. Imperio, di quell’Imperio, di cui dividevano con lui il reggimento. Affermava come non avesse vaghezza di guerra, sapendone i mali; non ve lo conducesse ambizione di principato, ma ferocia di ribelli. «Vedete là Milano, esclamava, dessa è che vi ha tratti del dolce nido della patria, e strappati al seno delle vostre donne e de’ vostri figliuoli, dessa che vi ha rovesciata su le spalle una mole di tante fatiche colla sua irriverente baldanza. Essa giustificò la ragione della guerra, ribellando all’Impero: voi onestamente ministratela per puro amore di pace. Ministri di giustizia, a voi mi rivolgo, perchè fallisca l’audacia de’ nemici, e l’Imperio ai dì nostri sortisca il debito decoro. Non siamo arrecatori, ma propulsatori d’ingiuria: perciò volgete l’animo ad una giusta guerra, fortemente duratevi, da conseguirne gloria e guiderdone. No, Dio concedente, non avverrà, che una sola città nemica abbia a trovarci vilmente dischiattati dai nostri maggiori, nel conservare ed accrescere quell’Impero, che la virtù di Carlo e di Ottone ci ha tramandato»62. Orribilmente gridò l’esercito a plauso delle imperiali parole.
Mi penso che il lettore voglia sapere chi fossero quei Ministri di giustizia, cui si rivolge il Barbarossa, e quasi invoca a sorreggergli sul capo la corona di Augusto. Io lo dirò, premettendo una breve considerazione. Due generazioni di uomini sono formidabili ai Principi: i preti ed i legisti. Quelli padroneggiano il popolo, questi una terribile cosa, che chiamano opinione, colla notizia che essi soli sanno di Diritto. Questo benedetto Diritto che han voluto chiudere nell’inaccessibile rocca delle umane legislazioni, che spesso sono matte ed ingiuste, è una spiritualissima idea, la quale credesi da molti abitar solo nelle leste de’ dottori in Legge. Eppure spunta senza sforzo, e dimora nel cuore di ogni uomo ragionevole. Le leggi de’ Principi dovevano solamente contenere gli uomini, perchè andassero al Diritto: ma infelicemente i Principi immedesimarono la loro volontà al Diritto, e le loro leggi apparvero anche immedesimate al Diritto. Di questa profanazione vennero accusati dal costume che ne venne di chiamare Diritto la legge di un Imperadore, o Repubblica; e si disse, come dicono, a mo’ d’esempio, Diritto Romano, Diritto di Giustiniano, e va dicendo. Rimescolato così il giusto colla legge, il talento del legislatore col Diritto, furono uomini i quali posero il loro intelletto ad apprendere queste leggi, ad esporle, ad applicarle. Morto il legislatore, si resero interpreti della sua mente; e come in questa si trovava incarnato il Diritto, si fecero anche di questo interpreti; e la legge fu in mano loro uno strumento a piegarlo ora a destra ora a sinistra, e a dargli quelle sembianze che meglio si addicevano al proprio, o all’altrui vantaggio. I legisti tra i sapienti formarono, e formano una casta distinta. Sempre ebbero un’arma micidialissima, il sofisma; con cui distinguendo, notomizzando quello che è immutabile ed assoluto, il Diritto, si sforzano di distruggerlo. A loro l’ardua sentenza del giusto e dell’ingiusto; perciò consapevoli della potenza che loro si deriva dal saper di legge, da’ conquistatori, che temono della durata del conquisto, da’ tiranni, che non possono dormir tranquilli, desiderati, favoreggiati. Un legista cercato di consiglio da un incoronato, non può tenere in ufficio l’ambizione; e la grandezza del chiedente, che può farlo grande, lo svia dal conseguire colla mente quello ch’è veramente giusto. Se il Diritto è pel cliente, lo amplificano: se è contrario, lo fazionano in sembianze amiche. La pianta de’ legisti cresce sempre accosto alla ceppaia de’ principati. È una terribile generazione che va infrenata con briglie di buona tempera.
Federigo era un avvedutissimo uomo: sapeva il bene che poteva impromettersi, ed il male che poteva temere dai preti e dai legisti, ove, senza averseli legati con favori, si fosse messo a combattere la libertà delle Lombarde Repubbliche. Prima di scendere in Italia, mandò facendo ricche oblazioni alle chiese, per rendersi propizio il Cielo (come diceva) in quello ch’era per fare all’Italia. Si fece venire in corte molti monaci, ed alcuni che tramandavano più forte odore di santità. Li carezzava, si mostrava loro divotissimo, e quasi pendeva da’ loro cenni. Si teneva strettissimo al suo confessore, che era certo Hartemanno Vescovo Brixinorense, già santificato nella mente del popolo, perchè faceva prodigi di penitenza. Con questo, e con gli altri teneva secreti e pietosi discorsi; sospirava su la prossima guerra che era per muovere all’Italia, ed anche alla Chiesa, come vedremo, quasi che ne sentisse dentro qualche inquietezza di coscienza. Il confessore e tutti quei santi uomini, che sapevano tutt’altro che di stato e di popoli, gli andavano confortando lo spirito alla guerra pel decoro dell’Impero, e perchè i Milanesi erano ribelli. Federigo fingeva quietarsi, e lasciar posare tra le loro braccia la verginale coscienza; e si parava alla guerra in grazia di Dio63. Barbarossa tanto o quanto incominciava a conoscere gli uomini.
Queste cose fece in Germania coi preti, e li lasciò amici. In Italia fece meno, e ottenne più dai legisti. Egli si tenne per alcuni dì nel Bresciano, sperando, che l’apparato di tutto quell’esercito mettesse tale un timore ne’ Milanesi, da condurglieli ai piedi umilissimi servi. Intanto aveva raccolto negli accampamenti un buon numero di Dottori in Legge (erano quei ministri di giustizia) nelle mani de’ quali pose tutte le ragioni della guerra che minacciava ai Milanesi, perchè le ponderassero secondo giustizia, e glie ne dessero avviso. Non so se anche li carezzasse, e facesse cadere loro nel seno qualche segno della imperiale munificenza. Ma questo sarebbe stato un sovrabbondare di mezzi: bastava la sola chiamata di un Imperadore, e di un Federigo, che voleva saper di giustizia da loro, per gonfiarli, cacciar loro di mente ogni idea di giustizia, e farli ciecamente faticare ad innalzare sul fondamento del Romano diritto il dogma dell’impero del Mondo. Così avvenne: i Dottori si affilarono attorno a Barbarossa giudici della terra, sostegni del trono che il Tedesco vagheggiava nella mente, carnefici dell’Italia. Chi fossero, che sentenziassero su questa infortunata loro patria, vedremo appresso nel parlamento di Roncaglia. Alle prime consultazioni tenute con Federigo, diffinirono, avvegnachè infami e scellerati uomini fossero i Milanesi, venissero, innanzi le ostilità, per ufficio di giudice legalmente citati per tre fiate al tribunale imperiale, perchè non patissero onta le sante forme del Diritto: e così fu fatto. Vennero gli oratori Milanesi: dissero le loro ragioni, offerirono pecunia, posero intercessori: i Dottori dettero loro del nò; Federigo con le forme del Diritto, li dannò al bando dell’Impero, e dichiarò loro la guerra64.
I Milanesi erano preparati alle armi; e vedemmo che calda opera e quanto tesoro profondessero a ben munirsi. Non avevano omesse le necessarie provvidenze al di fuori, onde o ritardare o sviare il corso dell’esercito nemico. Mille scelti cavalieri erano appostati al ponte di Cassano sull’Adda, che gelosamente guardavano. Non ve n’era altro; il fiume correva gonfio per le nevi disciolte; ed aveva rovesciato tutto che si teneva in piedi alle sponde. Alte le acque ed impetuose, non si lasciava valicare coi battelli; quasi impossibile trapassarsi a nuoto. Aspettavano a piè fermo su quel ponte i Milanesi l’esercito imperiale, che si vide comparire all’altra sponda e sostare. Ma Arrigo Re di Boemia e Corrado Duca di Dalmazia, a risparmiare il sangue che si sarebbe sparso, sforzando il ponte, tacitamente, e non visti colle loro schiere calarono in giù un bel tratto lungo la sponda, a tentare un guado meno pericoloso. Era quella la prima fazione, ciascuno voleva segnalarsi. Ove credettero più basse le acque, animosamente vi si gittarono a traghettarle. Ben dugento cavalieri vi rimasero affogati; gli altri afferrarono la sponda, ed a bandiere spiegate risalirono la riva a combattere i Milanesi. I quali non pensando che tanto si ardissero i nemici, a non farsi prendere alle spalle, abbandonarono il ponte, ripiegando verso Milano. Allora spinse innanzi Federigo l’esercito con tanta furia, che il ponte si ruppe a mezzo, e quanti vi si trovarono sopra andarono affogati nel fiume. Federigo non fu tra questi: ma cominciò sicuro a battere la campagna dando la sèguita ai Milanesi, di cui molti uccisi e prigioni. Di qui le sciagure di Milano: poichè tutta la gente del contado spaventata dall’oste tedesca, si rifuggì nella città, ed accrebbe il numero degli abitanti, non approvvigionati di vettovaglie per lungo assedio65. Ottenuto per forza il castello di Trezzo, e lasciatovi un buon presidio, Federigo senza difilare a Milano, piegò a manca nel Lodigiano, e campeggiò Castirago. Colà vennero a trovarlo i Lodigiani con vesti lugubri, le solite croci in collo, singhiozzando, e menando guai pe’ crudelissimi casi, a cui li aveva condotti la superba Milano: chiedevano una patria. Avevano ragione, e Barbarossa la diè loro larghissima. Cavalcò con molta baronia in compagnia de’ Consoli Lodigiani Ramfo Morena (forse parente del cronista) Arcibaldo di Sommariva, Lottiero degli Abboni ad un colle presso l’Adda, chiamato Monteghezzone a un quattro miglia dell’antica Lodi, ed investì con un gonfalone di quella terra i Consoli, perchè ivi edificassero una nuova Lodi, (che è appunto quella de’ nostri dì), e segnò i confini del suo territorio. Confidò ad un Diploma l’imperiale concessione, che leggesi presso il Villanova66.
Mentre l’Imperadore stava racconciando le cose de’ Lodigiani, accorrevano nuove milizie da molte città d’Italia, in guisa che tutto l’esercito gli crebbe fino al numero di circa cento mila fanti, e quindici mila cavalli. La presenza di questi Italiani mi penso, che pungesse di emulazione l’animo de’ Tedeschi. Fu certo Conte Ekeberto di nome, giovane che gli bolliva dentro il sangue, bello e prode della persona, il quale gli pareva un secolo di poter mischiar le mani con gl’Italiani, e far qualche prodezza che lo avesse segnalato nell’esercito. Appiccò ad altri baroni suoi pari, e ad alcuni della milizia palatina questa sua febbre di gloria; e con unito consenso celatamente fermarono, spiccarsi dagli alloggiamenti senza licenza dell’Imperadore e tentare un improvviso colpo di mano su Milano. Un nodo di mille cavalieri si mise ai loro cenni: e con molta certezza di vittoria cavalcarono per quella città. Difilato vi vennero, e sforzarono una delle porte. I Milanesi si addarono che gli assalitori volevano proprio saggiare la virtù loro; di tratto vennero fuori ad affrontarli. Non erano a quei tempi armi da fuoco che battono di lungi: coi petti e colle braccia si sosteneva il peso della battaglia. Incredibile rabbia mescolò le due schiere, da non lasciarsi innanzi palmo di terra che li separasse. Veramente coi petti si combatteva, perchè in quelli era tutta la forza di secolari vendette. Urtatisi i primi, tanto fortemente erano premuti alle spalle dalle estreme file cupide di menar le mani, che tra il morire e l’uccidere non rimaneva loro luogo a fuggire. Un turbine di polvere li nascondeva agli occhi della città; italiane e tedesche voci confusamente risonavano, e non si sapeva dove inchinasse la vittoria. Ma essendosi Ekeberto volto ad aiutare un suo cavaliere sbalzato dall’arcione, venne abbattuto in terra da un colpo di lancia, spoglio dell’armadura e mozzatogli il capo. La sua morte snervò l’animo de’ Tedeschi, che non tennero più fermo, e furono smagliati e rotti. Fra gli uccisi e prigioni, pochi di loro avanzarono nunzî al Barbarossa della mala pruova fatta della virtù milanese. Voleva questi punire i tornati come trasgressori della militar disciplina; ma fu rattenuto dai Baroni. Qual fuoco poi di vendetta gli bruciasse dentro dell’animo contro Milano, dopo quel fatto, l’immaginarlo sarebbe sempre meno del vero67.
Mosse finalmente Federigo gli accampamenti, e diviso l’esercito in sette grandi legioni venne ad assediare Milano. Distribuì gli alloggiamenti. Egli prese stanza nella chiesa d’Ognissanti, che apparteneva ai Cavalieri Templari; intorno campeggiavano le milizie che conduceva. Il Re Boemo nel monastero di S. Dionigi, l’Arcivescovo di Colonia in S. Celso; tra questi tre principali alloggiamenti si svolgeva tutta l’innumerevole oste. E prima opera cui si dettero si fu quella di ben munire gli accampamenti di fossi e steccati per guardarsi dalle sortite degli assediati; ed anche perchè non pensando potersi ottenere quella vasta e bene affortificata città per viva oppugnazione, prevedevano molto prolungarsi l’assedio67. Sorgeva Milano in una vasta pianura e non signoreggiata pure da un poggio. Salde e ben condotte le mura intramezzate da torri che fronteggiavano la campagna, le proteggeva ai piedi un fosso molto affondo con entrovi l’acqua. Se è a prestar fede a Ricobaldo da Ferrara68, un cinquanta mila fanti e sette mila cavalieri stavano a guardia della città. Ne avevano la condotta provatissimi capitani: Uberto Conte di Sezza, Anselmo Conte di Mandello, Auderigo Cassina Conte di Martesana, e Rinaldo Marchese d’Este preposto alle milizie mercenarie. Erano in quell’anno Consoli Ottone Visconte, Goffredo Mainero, Arderico da Banate. Se le provvigioni da vivere fossero state sufficienti al numero de’ rinchiusi, certo che Federigo nè per patti, nè per forza avrebbe ottenuta Milano. Poichè dentro era il fiore dei battaglieri italiani, ed un vecchissimo odio contro la tedesca gente che cresceva a dismisura per le strettezze dell’assedio; ed egli aveva milizie mal ferme, le quali per malattia che loro si fosse appiccata, o per troppo prolungarsi della campagna, lo avrebbero abbandonato per tornarsene in Germania.
Furono primi i Milanesi a menar le mani. Avevano al primo giungere dell’esercito nemico mandati fuori de’ drappelli leggieri, i quali con frombole ed archi or quà or là noiavano i tedeschi alloggiamenti, quasi a saggiare il nemico. Spesso vi tornavano quasi a dar le viste che non si ardissero gli assediati tentare più grosse fazioni. Intanto questi avevano adocchiati gli accampamenti di Corrado Conte Palatino del Reno, fratel germano di Barbarossa, e di Federigo Duca di Svezia, i quali formando l’estrema punta dell’esercito, erano un po’ discosti dal nerbo delle milizie. Fermarono assalirli con una subita sortita, ed ove loro fosse andato a verso la fortuna, porre tutto a scompiglio il campo imperiale. Colsero opportuna l’ora della sera. Quei due Principi con altri capitani, senza un pensiero al mondo di sortite e di assalti ragionavano in pace delle faccende dell’assedio innanzi ad una delle porte, che ebbero in guardia. I soldati erano a dormire. Vegliavano solo le scolte agli steccati del campo. Spalancate le porte della città, saltaron fuori i Milanesi ad investire il campo di Corrado. Uccise le scolte, non fu dapprima che un macello quello che fecero. Ma desti e levatisi in armi i Tedeschi, appiccarono una confusa battaglia che non moveva dai cenni de’ capi, ma dalla necessità di personale difesa. Più certi del loro fatto combattevano i Milanesi: se non che levatosi un gran rumore, corse rapida la voce di quell’assalto ai vicini alloggiamenti del Re di Boemia, il quale a sorreggere da lungi l’animo de’ combattenti, fece dar nelle trombe, mentre disponeva i cavalleggieri ad accorrere loro in aiuto. A spron battuto e con molto strepito di trombe giunse alla mischia, e vi si cacciò dentro con grande impeto. Per cui gli assalitori non reggendo più al numero, e non volendo venisse loro tagliata la via al ritorno, chiamarono a raccolta e si ritrassero in città69.
Quasi a rimbeccarli di quella sortita, che tornò assai male ai Tedeschi, Ottone Conte Palatino condusse in sull’annottare le milizie ben provvedute di materie facili ad accendersi ad appiccare il fuoco ad un ponte di legno, che sovrastava il fosso della città, e metteva capo ad una delle sue porte; alla quale appiccato che si fosse il fuoco, sarebbero accorsi ad estinguerlo i Milanesi: e così distratti dal pericolo dell’incendio, avrebbe potuto batterli, e intromettersi nella città. Ma non appena gli assediati si addarono dell’incendio già appreso al ponte, vennero fuori come lioni a ributtare l’inimico. Orribile veduta: le fiamme illuminavano una feroce battaglia, dall’esito della quale dipendeva la sorte della città. I capi tedeschi si cacciarono nella mischia come soldati gregari: ma a nulla valse. Poichè eransi i Milanesi così stretti attestati, e con tanta furia premevano, che di viva forza vennero i Tedeschi rincacciati ed inseguiti. È a dire che in queste sortite i Milanesi ben si avvantaggiassero. Morena afferma, che era tanto il numero dei cavalieri messi da loro fuori di sella ed uccisi, che in città di cavalli intrapresi ai nemici fu una grande moltitudine, da vendersene ciascuno per quattro soldi70. Così in queste accanite fazioni passavano i dì, nè appariva segno che venissero alla resa i Milanesi: dappoichè non avendo Federigo bene chiuse loro le vie, ad ora ad ora scorrevano la campagna, e recavano dentro qualche rinfresco alle provvigioni. Di che avvedutosi un dì, che cavalcando intorno alla città con gli eletti dell’esercito osservava le munizioni, pose così stretta guardia ad ogni sbocco di via, che fu tolto agli assediati ogni opportunità di foraggio71.
Ma intanto premeva l’animo di Barbarossa il desiderio di ottener presto la città. Non poteva batterla colle macchine: perchè non era intorno levatura di sito ove collocarle. Era ad un trar di arco da una delle porte della città una torre fatta di viva pietra, detta Arco Romano, da’ quattro archi che la reggevano, i quali si tenevano per opera dei Romani. Vi avevano i Milanesi locati a guardia un quaranta fanti, i quali speculavano dall’alto i moti dell’esercito nemico e ne rendevano consapevole la città. Federigo vi appuntò sopra gli occhi, riputandola assai opportuna a piantarvi macchine da lanciare, e di là tempestare la città. Recita Ricobaldo da Ferrara, che come mosse l’Imperadore a quella espugnazione, saltassero fuori i Milanesi con Uberto Conte di Sezza, ed appiccassero una accanita battaglia coi Tedeschi intorno alla torre «nella quale battaglia la moltitudine de’ Barbari premea addosso ai Milanesi, i quali per propria salute e libertà disperatamente combatteano, vedendo sopra le mura le mogli, i figli suoi, che a’ stupri degli Alemanni, ed a servitù della crudele nazione avevano a soggiacere»72. Otto dì si tennero forti quei quaranta pedoni, che difendevano la rocca, nè pareva che con arieti o altre batterie, potesse espugnarsi, cadendovi intorno molti degli assalitori. Non potendosi espugnare di fuori, pensarono i Tedeschi diroccarla al di dentro, e vi si misero con pochissimo giudizio. Si dettero a martellare sotto agli archi con questo intendimento, cioè non essere offesi dagli assediati, stando al coverto, e ad un tempo di far crollare la rocca, sottraendole le fondamenta. Fin qui arrivarono col loro ragionare; alla finale conseguenza di rimanere vivi vivi sepolti, e di fallire allo scopo di quella espugnazione, o non sapevano, o non volevano andare. Come i rinchiusi s’intesero sotto tutto quel martellare e battere a rovina, s’accorsero tosto del tedesco intendimento, e quelli che non avevano ceduto alla furia degli arieti e delle catapulte, di repente si arresero alla logica di quei martellanti73. In quel modo ottenuto Federigo la torre, vi piantò sopra una petriera, la quale cominciò a trarre un nembo così denso di sassi sulla sottoposta città, che ne fu danneggiata nelle case e negli uomini. Risposero dalle mura i Milanesi con altra macchina che Sir Raul chiama Onagro, con cui giuocarono così destramente, che fracassato l’ingegno della petriera, spulezzarono dalla torre i Tedeschi74.
Intanto nella città la fame stringeva, e dai malvagi alimenti e dal putrefarsi de’ cadaveri derivò anche la morìa che si appigliò al popolo di Milano. Ciò dissolveva i corpi, gli animi disfrancava il veder dalle mura l’orribile soqquadro, a cui metteva Federigo le loro campagne. Ardere i rustici casolari, recidere le viti, gli alberi grossi che non si potevano abbattere con un dar di scure decorticare; far fascio, a pastura delle bestie, delle acerbe messi; fare un deserto dell’insubro giardino, ecco le prodezze a cui licenziava Barbarossa que’ suoi barbari. L’inudita devastazione consumò tutto il bel paese, che si stendeva tra il Seprio e la Martesana. Radevico dice che queste ribalderie si commettevano dai Cremonesi e Pavesi nemici a Milano75. Il Morena Lodigiano, e tutto cosa di Federigo, afferma, che esso Federigo conduceva quelle infami masnade76. Che vi fossero in mezzo anche Italiani non dubito, e per l’odio che portavano a Milano, e per conforto del Barbarossa, il quale come vedremo appresso, era tutto nell’attizzare le municipali nimicizie, non essendo più opportuno mezzo a conservare le sfrenate signorie della divisione de’ suggetti. Le quali miserie toccavano troppo addentro l’anima del popolo, il quale non avendo sufficiente vigoria di spirito a rettamente giudicare di quelle cose, dalla mobile fantasia era condotto a credere, vi fosse qualche parte dell’ira celeste in quelle sventure. L’idea di un Imperadore incoronato dal Papa faceva ancora nelle menti volgari divina impressione. Per la qual cosa incominciò a manifestarsi tra i popolani un fastidio del lungo assedio, e il desiderio di arrendersi. Ostavano a questo i più accesi dell’amore della patria e della libertà, e si sforzavano a mantenere nel proposito le turbe di morire generosamente per quella, anzichè accattare la vita con ingloriosa dedizione al nemico. Ma tutto fu vano: ed era per venirsi a guerra cittadina. Allora Guido Conte di Biandrate, che teneva il supremo indirizzo delle cose militari, uomo caro a tutti, e avvegnachè nemico alle imperiali pretensioni, non ingrato a Federigo, nè sospetto ai cittadini, con acconcia diceria si adoperò sedare il bollore di coloro che volevano arrisicar tutto innanzi cedere, e persuadere la resa. Onesta e ragionevole orazione fu la sua: ed avvegnachè nell’assemblea strepitassero contro i libertini, la fame e la pestilenza dentro, la disperazione de’ soccorsi al di fuori fece vincere il partito della pace, e s’incominciarono ad introdurre pratiche di accordo col Re di Boemia ed il Duca di Austria. Questi entrati mediatori tra l’Imperadore e la città, fu convenuto, che questa si arrendesse a patti, de’ quali tale era la somma: Non turbassero i Milanesi il rilevamento di Como e di Lodi, non le molestassero più, e si tenessero dal raccogliere il fodro o altra tassa in tutto il loro territorio; non si mescolassero più de’ loro affari, essendo libere città, come Milano, salve le ragioni ecclesiastiche, che aveva su di esse l’Arcivescovo e la chiesa di Milano; tutti dall’anno quindicesimo al settantesimo giurassero con leale animo fedeltà all’Imperadore; imperiale palagio in onor del medesimo a loro spese si edificasse in Milano; ad ammenda delle ingiurie arrecate all’Imperadore ed alla Imperadrice si lasciassero taglieggiare di nove mila marche di argento (cinque milioni di lire milanesi); restituissero tutti i prigionieri; rassegnassero nelle mani dell’Imperadore tutti i diritti di regalia, come di zecca, di viatico, ed altro; all’imperiale approvazione soggiacessero i Consoli eletti dalla città; consegnassero a sicurezza del trattato trecento ostaggi. Queste sole obbligazioni si addossava Federigo, cioè di usare modestamente la vittoria, perdonando ai vinti, e di sgombrare in tre dì coll’esercito dal loro paese. Dai quali capitoli è chiaro, che sebbene spogli i Milanesi de’ diritti di regalia, conservarono quelli di reggersi a comune, di crearsi i propri Consoli. L’approvazione di questi, che si riserbava Federigo, e la sottrazione di Lodi e Como dalla signoria di Milano, erano i soli atti del Tedesco, che le facevano sentire più forte sul collo il giogo dell’Imperadore. Questi finora contentavasi di una suprema ma larga giurisdizione, avendo in pugno la vittoria; appresso i legisti gli allargarono tanto l’animo alle ambizioni, che uomini o cose datigli in traformata balia neppur bastavano a quetarlo77.
Il dì appresso alla conclusione ed accettazione del trattato uscirono i Milanesi a fare la loro suggezione a Federigo. Precedeva il clero con l’Arcivescovo colle croci levate, seguivano i Consoli ed il maestrato, scalzi, in vile arnese e colle spade nude in mano per renderle al vincitore: andavano ad inchinare il tedesco Augusto, che il Canonico Radevico non dubita chiamar divino (Divus.) Era tutto l’esercito spettatore di quella sommessione; molti ne sentirono pietà, vedendo que’ nobilissimi cittadini un dì innanzi pettoruti a fronte dello sforzo di tutta Lamagna su gli spaldi della carissima patria, ora traboccati in fondo di tanta miseria da venire cercatori di mercè all’abborrito Barbarossa. Non so se impietosissero gl’Italiani mescolati negli stranieri alloggiamenti. Ma se non li toccò dentro pietà de’ fratelli, non è maraviglia: Milano era ancora in piedi. Con serene sembianze accolse Federigo i Milanesi: e giurati i patti della resa, dette loro ad innalzarsi nella loro città, come monumento della sua vittoria, l’insegna dell’Aquila imperiale. Venne questa piantata sul campanile del duomo: e mi penso che tutta Italia s’intenebrasse di lutto alla vista dell’infame uccello; il quale avvegnachè avesse spuntato il rostro a Legnano, non guastatogli il nido, tornò a contristare l’infortunato paese.
La dedizione di Milano levò grandemente in superbia l’animo di Federigo; e come suole avvenire, la prosperità de’ successi lo imbriacò, da non fargli rispettare la santità de’ giuramenti. La pazza notizia di poter tutto, lo persuase potere anche impunemente violare i patti di quella resa. Egli aveva spogliato Milano della signoria di Lodi e di Como, ma non delle altre terre che riconoscevano la balia Milanese; perciò giurate le anzidette condizioni, Barbarossa non poteva più a suo talento accorciare la signoria di Milano. Ricordi il lettore quello che toccammo nel primo libro di queste storie intorno al freno che le Repubbliche Lombarde misero in bocca ai signori feudali, tirandoli alla condizione di semplici cittadini. Ora questi rodevano il morso, e spiavano sempre il destro a levare il volo, e tornare in punto di veri signori: e come più potente era la Repubblica, cui obbedivano, più cocente desiderio avevano di disfrancarsene. Questi signori feudali erano un tesoro in man di Federigo, come preziosissime erano le gelosie municipali. Aizzare le città minori contro Milano, scapestrare i Conti ed i Marchesi contro tutte: ecco in che era lo studio dello scaltro Imperadore. Per la qual cosa lasciato che ebbe Federigo il territorio Milanese, condottosi a Monza a pavoneggiarsi colla corona in capo di Re d’Italia, accolse a braccia aperte tutti quei signorotti, che tenevano feudi nei territori del Seprio e della Martesana, accorsi a lui, perchè li avesse sottratti alla giurisdizione di Milano. Si contentò anche al di là del chiesto: poichè largheggiò con essi in ogni maniera di titoli e di onori; se li legò con grandi donativi; e perchè avessero avuto sempre un protettore, deputò in quei paesi un Conte Gozolino, tedesco di razza, a prefetto imperiale. Non è a dire come egregiamente servissero questi cagnotti ai disegni di Federigo: imperocchè nell’altra guerra che seguì contro Milano, questa non ebbe più accaniti ed ostinati nemici di quei Conti78.
Rotta così la fede de’ giuramenti, il fellone Augusto condusse l’esercito a campeggiare i prati di Roncaglia nel Piacentino, ove aveva bandito un gran parlamento de’ feudatari, e de’ Consoli delle città Italiane, perchè lo venissero a riconoscere Imperadore del Mondo. Milano era doma, le altre città non si muovevano per timore degli ostaggi, che erano in man di Federigo. Questi poteva a suo piacere palleggiarsi il globo colla croce sopra, simbolo della universale signoria. Vi andarono tutti gli Arcivescovi, Vescovi delle città che formavano un tempo il Regno Italico; Conti, Duchi, Marchesi, Valvassori, a stormi vi accorsero allegri; dolenti vi si accostarono i Consoli delle Repubbliche. Radevico vuol farci innamorare dell’ordine in che aveva composti gli alloggiamenti il suo divino: io non ne ho voglia: e dirò solo che in mezzo a questi nereggiava un pugno di uomini chiamati Dottori in Legge. Ben ventotto ne aveva raccolti Barbarossa da varie città d’Italia: primeggiavano quattro famosi dello studio di Bologna, Bulgaro, Martino Gossia, Jacopo ed Ugo da Porta Ravegnana. Questi legisti erano il Carroccio di Federigo. Questi li convocò, perchè sentenziassero su le ragioni, che poteva avere uno Imperadore di Lamagna sull’Italia.
Era questa una deputazione non che difficile, impossibile data a ministrare ai Legisti; e che, non dico come Italiani, ma come sapienti e uomini onesti, dovevano quei dottori risolutamente cessar da loro. Il Diritto non si crea. Ora costoro appunto a questa impudente creazione erano chiamati, e vi si misero con molto loro vitupero. Potevano essi esporre un codice di leggi, se fosse stato, che determinava le imperiali ragioni sull’Italia, interpretarne il senso, applicarle agli uomini ed ai tempi che correvano. Ma leggi non erano, nè scritte nè sancite dall’uso, perchè fu sempre incerta e interrotta la dominazione che pretesero esercitare gli antecessori di Barbarossa sull’Italia. Vollero quelli essere signori di questo paese, stando in Germania; ma nè la Germania, nè l’Italia aveva un volume di leggi che giustificasse la loro signoria. Il fatto del loro dominio si manifestava solo quando scendevano armati in Italia, ed era maggiore o minore secondo la forza che recavano, e quella che trovavano; era vario secondo le politiche condizioni delle città italiane. L’incertezza del fatto è sempre indizio della nullità del diritto; poichè questo è semplice, assoluto, e per propria natura determinatore e raffermatore del fatto. Al contrario, la costituzione comunale delle città Lombarde era un fatto determinato. Ciascuna creava i propri magistrati, ciascuna possedeva in pace le ragioni di regalia, tutte avevano un diritto riconosciuto dall’Imperadore di Lamagna. I cento anni corsi innanzi Barbarossa bastarono a raffermarlo, ed a munirlo della santità della legge, che non fu scritta dal Principe, ma dalla consuetudine, accettata dal medesimo. Gl’Imperadori nella guerra col Sacerdozio furono vinti; e come tali, a cessare la inimicizia de’ Comuni Lombardi, concessero quello che questi già possedevano, o togliendo danaio, quasi prezzo di riscatto, o regalando privilegi, a farsi generosi donatori di libertà. Vennero così cacciati dalle Repubbliche, e si tennero contenti dietro al diritto di riscuotere il fodrum regale, visitando l’Italia, e di leggere il loro nome ne’ pubblici atti e su le monete. Ciò a Federigo pareva assai poca cosa; voleva essere assoluto padrone; perciò voleva togliersi dinanzi quelle Repubbliche, e schiantarle dalle radici. Egli stesso nel trattato della resa di Milano aveva riconosciuta, e giurata la legalità de’ Consoli creati dal popolo; era venuto a patti con Milano, perciò aveva confessato stargli quella a fronte non come un vassallo, ma come indipendente Repubblica, guarentita da un diritto sacrosanto quanto quello che gli fermava sul capo la corona di Lamagna. Questi impedimenti voleva rimuovere il Tedesco, e vi deputò i legisti.
I quattro dottori di Bologna formarono il suo consiglio privato. Non durò fatica a farsi intendere: bensì questi faticarono a porre ad atto l’imperiale disegno. Egli disse a costoro — Quanto è di libertà e d’indipendenza in Italia è pretta usurpazione: ritornate le cose come erano abantiquo — Si misero a cercare i Dottori come fossero abantiquo, e nulla trovarono di determinato dal diritto. Trovarono i fatti della signoria degli antichi Imperadori, indisciplinati dall’ordine e dalla legalità, senza pure il marchio della consuetudine; perchè ora amplificati dall’arbitrio della potenza degli Imperadori, ora ridotti a nulla dalla intolleranza e dalla potenza de’ Comuni. Avevano a fare una cosa quei Dottori: li raccolsero. Ciò era poco: bisognava renderli reverendi con qualche forma di diritto. Non la cercarono, perchè l’avevano fitta ed incarnata nel capo: era quella del diritto Romano. Rifusero in questo tutti que’ fatti; ne fecero corpo; e nella forma del Romano diritto trovarono che Federigo, come legittimo successore di Augusto, fosse veramente donno e padrone del Mondo. Non rimaneva più a sapersi se lo fosse anche dell’Italia. Il trovato fu mirabile; incredibile l’onnipotenza dei Dottori; stupenda la fede di Barbarossa a quel Vangelo.
La Dieta componevasi di tre specie di persone: dell’Imperadore co’ suoi Principi tedeschi; de’ feudatarî laici e chericali Italiani; e de’ Consoli delle Repubbliche. I primi deliberavano a proprio vantaggio su l’altrui; i secondi erano tratti a rimorchio, ma con lor piacere; gli altri piegavano il collo, perchè impotenti a resistere. I feudatarî godevano, tornando ad essi più dolce il giogo imperiale, che quello delle Repubbliche: e si sapeva. Ma quello che dovette arrecare scandalo anche ai Tedeschi, si fu la diceria dell’Arcivescovo di Milano, indegna di un Italiano, indegnissima di un pastore di anime. Egli dissoluto nella più marcia adulazione, chiamò giorno fatto del Signore quello in che, per le diffinizioni de’ Dottori in Legge, si stringevano i polsi della patria coi ceppi di una schiavitù fino allora sconosciuta; chiamò leggi di pace quelle che sanciva la tirannide di un Barbarossa; chiamò felice l’Italia che aveva alla perfine trovato un Principe, che avrebbeli tenuti come fratelli. Invitava alle gioie per la riacquistata pace, e finiva «È piaciuto alla tua potenza chiamar noi tuoi fedeli e tuo popolo a consiglio intorno alle leggi, alla giustizia ed all’onore dell’Imperio. Sappi che ogni diritto del popolo di comporre leggi ti è concesso. Il diritto non è altro che il tuo arbitrio; come anche si dice: Quel che più talenta al Principe ha già vigore di legge, perchè il popolo ha messo nelle sue mani ogni sua balia e potere.» Vedi in che lussuria di adulazioni intristiva il Prelato; e vedi ad un tempo, come non potesse al tutto svestirsi dell’abito repubblicano, affermando sempre, potestà legislativa ed imperio derivarsi al Principe dal popolo79.
Ciò che disse l’Arcivescovo, fece, e con lui fecero tutti i Vescovi, Conti, Duchi, Marchesi ed i Consoli delle città, cioè rassegnare nelle mani di Federigo ogni loro ragione. E secondo il diffinito dai legisti, con la propria bocca confessavano, le Regalie in Italia essere cosa dell’Imperadore; sotto la qual voce si comprendevano le contee, i ducati, i marchesati, il diritto di coniar la moneta, i dazî, le gabelle, i porti, i molini, le pescagioni, tutto tutto, per usar le parole de’ Dottori. Si assoggettarono anche al pagamento di un testatico, oltre alla taglia che colpiva i loro beni immobili. E poichè Federigo volle anche apparir generoso in tutta questa rapina, consentendo, che non fossero turbati nelle loro ragioni coloro, che le possedevano per regia munificenza, documentata da legittime scritture, avvenne, che coloro i quali non n’erano in possesso per grazia imperiale, a tenervisi, offerissero al fisco un annuale tributo, per cui quello venne ad impinguarsi di ben trenta mila talenti all’anno80.
Fece Federigo consegnare alla scrittura tutto quel tesoro di signoria, che gli veniva messo nelle mani, e bandì due Costituzioni81. L’una toccava i Feudi: tolse ai possessori de’ medesimi ogni facoltà di alienarli, e di lasciarli alle chiese; così pose modo alla potenza de’ cherici: e sopra tutti i Feudi impresse il marchio del supremo dominio imperiale, escludendo ogni altro che potessero averne le città. L’altra su la confermazione della pace in Italia: salubre provvedimento, ove non fosse dall’esperienza dimostrato, che questo celeste benefizio sia dagl’indisciplinati Principi desiderato ed invocato, a non essere turbati nella infame guerra del dispotismo, con che sordamente conquassano i popoli. Queste due Costituzioni vennero ne’ secoli appresso chiosate dai giureconsulti, e con tanto sforzo spremute, da cavarne anche l’impossibile a favore della potestà imperiale82. Vedremo come la pazza ambizione del Tedesco sancita dai legisti, e scritta nel nuovo codice con la punta dello scettro, si cancellasse con la punta delle spade, temperate nella terribile ragione de’ popoli.
Erano accorsi moltissimi Italiani a quel parlamento, a chiedere giustizia l’un contro l’altro. Federigo vedendo la loro moltitudine, ebbe a dire, come gli recasse maraviglia trovar nel paese de’ Legisti tanti trasgressori delle leggi. Non aveva torto. Ma in questo afferrò bene il destro a recare in atto quello che già credeva santificato dal diritto, cioè la finale distruzione de’ Comuni Lombardi. Non potendo di persona prestare orecchio a tutti i querelanti, li divise per diocesi, ed a ciascuna diocesi deputò un giudice, che ascoltasse le parti, e le racconciasse secondo giustizia. E perchè diffinissero quei giudici senza amore di parti, volle che fossero sempre stranieri alla città, in cui andavano a dir la ragione. Quello che fu provvedimento temporaneo, mutò in legge perpetua. Intromise nelle libere città l’ufficio di Podestà. Egli Federigo o altro Imperadore doveva crearlo; il popolo non poteva che prestare il consenso alla imperiale creazione. Innanzi a questi Podestà o tedeschi o legisti andava a morire il potere de’ Consoli; e così quelle città che avevano gustato il dolce frutto della libertà, si trovarono spoglie di signoria, e gittate in braccio a qualche selvatico cavaliere tedesco, che non sapeva pure la favella del paese cui andava. Giuramenti molti, ostaggi moltissimi toglieva dalle città Barbarossa, ad assicurarsi della quietezza de’ Lombardi sotto questo giogo di ferro83.
Scioglievasi il famoso convento di Roncaglia; ciascuno tornossene a casa con la mala nuova della perduta libertà; Federigo lieto usciva ad esercitar la forza imperiale, ed a far qualche cosa del molto che poteva. Fra le altre era quella di stendere l’artiglio su le isole di Corsica e di Sardegna. Non poteva andarci senza naviglio. Spedì due ambasciadori ai Genovesi ed ai Pisani, per ottener navi. Nè Pisa nè Genova vollero contentarlo; e rimandarono i Legati con le pive nel sacco83. Questa specialmente dava molto a pensare a Barbarossa: al parlamento di Roncaglia non erano apparsi i Genovesi. Gli aveva fatti chiamare per lettere, rendendoli avvisati, che anche essi dovevano smungersi di danaio, e rilasciargli ostaggi, come avevano fatto gli altri. Ma quelli fecero i sordi; e come gente che era forte in casa propria, mandarono dicendo all’Imperadore, loro essere poveri, e non usi ai tributi; spendere molto a tener netta la marina dai corsali, ed ai balzelli che colpivano le loro merci al difuori, e non avanzare pecunia da dargli; si stesse contento alla fede che gli promettevano, e non pensasse ad altro. Mentre si recavano all’Imperadore queste proteste, in Genova si facevano cose mirabili per assicurare la città. Uomini e donne per otto dì incessantemente si affaticarono a rilevarne le mura, ed a serrare i siti aperti con isteccati. I Consoli assoldavano buon numero di balestrieri ed arcieri; li disposero alla difesa della città, e li andarono collocando su pei monti che le sono a cavaliere: aspettavano confidenti il certo avvento dell’Imperadore.
Infatti costui, chiusi i comizi di Roncaglia, si condusse tosto a speculare le cose di Genova. Poche milizie gli rimanevano; molte all’entrar del verno eransene tornate in Germania, altre furono disperse per l’Italia a dar polso alle nuove leggi che imponeva Federigo alle città. Perciò non poteva galleggiare a sua posta. Anzi ebbe a divorare, come vedremo, molte vergogne nel primo porsi che fece in punto d’Imperadore del Mondo. Adunque venuto a certo sito chiamato Bosco, lo incontrarono gli ambasciadori di Genova, e fra questi l’annalista Caffaro; i quali rinnovatagli la protesta fatta per lettere, aggiunsero, essere desiderosi del suo buon volere e della sua grazia; bensì non si desse pensiero delle cose loro, nè di ascoltare pianti e lamentazioni, come aveva fatto colle altre città italiane; e non li stesse a molestare con rivista di ragioni, debitamente o indebitamente possedute, salvo se li vedesse a mo’ di ladroni messi all’agguato per ispogliare i viandanti. Federigo doveva loro dar del sì, perchè avevano alle spalle una Repubblica marittima bene in assetto di difesa. Il suo Cancelliere Rainaldo ed un Conte andarono a ricevere nel palazzo dell’Arcivescovo di Genova il giuramento di fedeltà, che prestavano all’Imperadore per la città quaranta deputati. Esposero costoro il loro intendimento, giurando fede; e dichiararono di nuovo, da questa fede non venire obbligati punto a dar tributi o milizie all’Impero; e che se fossero diritti di Regalia a cedere, li avrebbero ceduti, riconosciuti che fossero cosa imperiale. Da ultimo più come limosina, a spiccarsi dai fianchi un importuno, che come indizio di vassallaggio, misero nelle mani dei Legati mille e dugento marche, e li mandarono con Dio84.
1159. Cominciava Federigo a trovar duro il terreno, che i legisti e la forza gli avevano fatto parere assai morbido; ma non raccattava ancora il senno. Ridottosi nella città di Alba a celebrare il Natale, si pose tutto a dar sul capo alle città Lombarde, per ridurle nel vassallaggio che vagheggiava. Ricordi il lettore che tra i patti della resa di Milano giurati da Barbarossa non era quello, che le città avessero dovuto perdere cosa del loro territorio. Lo ricordava il Tedesco, ma non voleva più saperne dopo il giudizio di Roncaglia, nè gli arrecava scrupolo al mondo lo spergiurare. Andò sopra a Monza, la tolse a Milano e vi cacciò dentro un presidio tedesco: altro ne intromise nel castello di Trezzo. I Tortonesi, i Cremaschi e gl’Isolani del lago di Como ed altri alleati di Milano erano stati compresi in quel trattato della resa, ed erano guarentiti dalla fede del giuramento; e neppure essi rimasero tranquilli. Federigo mandò un precetto ai Piacentini che abbattessero le mura e le torri della loro città che si alzavano oltre una determinata altezza: quelli fecero le viste di obbedire, e nulla ne fecero. Spedì Legati ai Cremaschi, perchè facessero lo stesso: ma questi che erano per dare al mondo un esempio d’invittissimo animo, non con le parole, ma coi fatti risposero agl’impudenti messaggi, levandosi contro di loro con tanta furia, che a mala pena camparono la vita. Tornarono quelli al lor signore con questa novella; il quale se ne addolorò; ma nulla fece, perchè non poteva85.
Andavano intanto imperiali ministri per le città italiane insaccando pecunia, sciogliendo il reggimento comunale, e ponendo in ufficio i Podestà tedeschi. Nelle città che tenevano le parti cesaree, le cose si piegavano senza sforzo, ma quelle che non volevano sapere d’Imperadori tedeschi, era un’affare ben difficile far loro sentire sul collo il giogo di Cesare. Tra queste Milano. Gli animi in questa città erano oltremodo inaspriti per la impudenza con cui Barbarossa aveva rotti i patti giurati, allorchè gli si arresero; ed erano in grande apprensione del loro avvenire dopo il convento di Roncaglia. Tuttavolta gli spiriti si tenevano lontanissimi dall’inchinarsi a Federigo e dal prostituirgli la patria. Giungevano nelle loro mura Rainaldo Arcivescovo di Colonia, ed Ottone Conte Palatino. Venivano deputati da Barbarossa a togliere quello scandalo della loro Repubblica, a lasciarli in compagnia di qualche Podestà, con cui non potevano pure tener consorzio di parola. Furono invero decentemente accolti, ed ospitati nel monastero di S. Ambrogio. Ma come esposero ai rettori della città la ragione del loro avvento, e la volontà di Federigo, che si lasciassero aggiogare, si gittarono in mezzo al popolo tre nobilissimi cittadini Azzio Baltrasio, Castellino Ermenolfo e Martino Malopera, e con parole di fuoco lo sollevarono a difendere l’inestimabile tesoro della libertà. Per cui un repentino gridare di tutto il popolo contro allo straniero maestrato che veniva, ed un accorrere a furia contro i due Legati per levarli di vita. Furono questi ben fortunati di camparla, abbarrando a tempo gli usci del monastero. Se ne andarono poi assai scontenti; e specialmente l’Arcivescovo fu così preso da interno desiderio di vendetta, che da quel dì la più grata idea, che vagheggiasse, fu l’esterminio finale di quella riluttante città. Federigo seppe tutto, e nulla potè fare: diè le viste di non curarsene, e tacque: così dice Morena86. Ma secondo Radevico, egli si dette con grande studio a provvedere; perchè i Milanesi dicevano, e facevano davvero. Cercò dapprima intimorirli, stando in certo castello detto Marmica, coi soliti bandi, con cui citava i Milanesi a comparirgli innanzi. Questi vi mandarono i loro messaggi, e tra i quali l’Arcivescovo, quello stesso della famosa diceria; il quale non sapendo onde navigare tra gli scogli e le sirti, s’infinse infermo, e se ne tornò a casa. Gli altri andarono, e con fronte alta stettero ad ascoltare l’impudente rampogna, che gittava loro in viso l’Imperadore, per la violata fede. Alla quale non risposero che con questa beffarda, ma generosa sentenza — Giurammo, per Dio: ma non facemmo sagramento di mantenere il giurato anche coi fedifraghi — Così se ne tornarono, recando a Milano la notizia dell’invelenito animo imperiale, e della necessità di prepararsi alla guerra87.
Federigo si persuadeva, che il nome d’Imperadore non bastava con Milano, e che fosse necessaria la forza. Per la qual cosa spedì in Germania solleciti messaggi esortando i Principi dell’Impero, a far massa di gente, a scendere in aiuto della pericolante dignità imperiale. Chiamava anche Beatrice sua donna. Egli poi si ravvolgeva per la superiore Italia, non lasciando mezzo intentato, a spiare l’animo dei popoli verso di lui, ed a raffermarli, se fosse stato possibile, sotto la sua balia. Andava assoldando milizie, affortificando castella, staccando città dall’amicizia di Milano. Riuscì nell’intento con gl’Isolani del Lago di Como, i quali stati fino a quel tempo fedelissimi alleati di quella città, gli si diedero, appena che il videro accingersi a navigare per la loro terra. Ma dove adunò proprio tutte le sue mire si fu la novella Lodi: della fede di cui non dubitava, sapendo quanto, e come vecchio fosse l’odio che portava a Milano. Vi stette attorno tutta la quaresima per farne una rocca veramente inespugnabile per munizioni di mura, e forza di presidio88.
Mentre Barbarossa curava i negozî della prossima guerra, levava il capo Papa Adriano a vedere quel che avvenisse in Lombardia, riscosso dall’entrar che facevano fin nelle terre della Chiesa gl’imperiali raccoglitori del fodro, ed i ministri introduttori degli strani Podestà. Avevalo già grandemente turbato quel parlamento di Roncaglia, e per la smisurata signoria, che si attribuiva Federigo, per cui intedescata l’Italia, nuda di umana protezione, la papale sedia sarebbe stata conculcata da lui; e per la servitù cui erano ridotti i Vescovi, con immenso scapito della libertà della Chiesa. Un Imperadore come Augusto stava bene quando la Chiesa esternamente tapinava nascosta giù per le catacombe; pessimamente, trovandosi questa in tanta levatura di stato, da non avere altri che la soprastasse nel giudicare, e guarentire le ragioni dei popoli minacciati della forza della prepotenza. Era fresca la memoria delle combattute investiture; perciò quell’accomunare le sorti di un Vescovo, che aveva feudi, con quelle di un Barone laico, non poteva, nè doveva sfuggire agli occhi di un Pontefice sommo. I feudi ecclesiastici erano cosa sacra; e donati che fossero, erano così strettamente guardati dalla ragione di Dio, da non lasciare loro accostare più quella del Principe. Quel rassegnare dei loro feudi in man dell’Imperadore a Roncaglia e il protestare, che eran tutti di Cesare, poteva farsi dai Baroni, non punto dai Vescovi. Questi come cittadini e come possessori di feudi potevano, e dovevano far sagramento di fedeltà all’Imperadore; ma prestargli omaggio, che valeva personale vassallaggio, non potevano, nè dovevano. Vedi presso Du Cange la differenza che correva tra il giuramento di fedeltà, e quello di omaggio. Ad un Vescovo, ove l’Imperadore non voleva essere un fedele cristiano, scandalizzando i suggetti con le sue ribalderie o violando le ragioni della Chiesa, correva obbligo di ammonirlo, di levargli in capo la voce, ed anche di chiudergli sul viso le porte della Chiesa. Dico in quei tempi. Ora un vassallo non poteva far tutte queste cose al suo signore. Questi poteva riserbarsi a sua posta qualunque ragione sui feudi nel donargli a Dio, ma non mai su le persone sacre investite de’ feudi. Queste cose sapeva Papa Adriano, e nel vedere come Federigo menasse a tondo su tutte le ragioni, di che lo avevano regalato i legisti, non poteva starsene e non altro.
Io non so se vero fosse, o voce sparsa artifiziosamente da Federigo, che Adriano avesse aperte segrete pratiche coi Lombardi contro di lui, e li avesse inanimiti a scuotere il giogo. Si dicevano anche intraprese papali lettere sul negozio89. Certo è, che se non furono questi trattati, erano a tale termine venute le cose, che non sarebbe stato follia in Federigo sospettarne, importuno in Adriano a vagheggiarli. Messisi così grossi a guardarsi l’Imperadore ed il Papa, non vi voleva che una leggerissima cagione a farli prorompere; e non tardò molto a venire. Federigo voleva preporre alla chiesa di Ravenna una sua creatura, il figlio di quel Guido Conte di Biandrate, che confortò i Milanesi alla dedizione. Chiamavasi anche Guido: era stato per caldi uffici di Federigo creato Cardinale Suddiacono, e per ispecial favore, come se fosse stato Diacono, gli era stata affidata in Roma una chiesa. Acerbo di anni, come appare dalla lettera del Papa a Federigo90, quegli anche per consiglio dei Cardinali, non credette opportuno trasportarlo al seggio di Ravenna91. A questo niego di fare il piacere imperiale era condotto Adriano da forti e segrete ragioni, che Federigo, sapendole, non le avrebbe alcerto tenute in non cale92. Bastò questo a spingere in furore un Principe, che credeva tutto doverglisi curvare innanzi; e comandò al notaio imperiale, che nelle pubbliche scritture ponesse sempre il suo nome innanzi a quel del Papa, e nelle lettere da indirizzarsi a questo, usasse del tu, come ad eguale o inferiore. La qual maniera di procedere verso il Pontefice era irriverente, e contraria alla consuetudine osservata da che furono Imperadori Cristiani. Da queste puerili superbie chiaro appare, che non fosse al mondo cosa che più noiasse l’orgoglio tedesco che il Vicario di Cristo: non potendolo scavalcar coi fatti, voleva colle parole. Venuti così all’aperto i mali umori, pensi il lettore in quali faccende sudassero i cortigiani, i quali sono attorno al principe indisciplinato, come i schifosi insetti attorno alla carogna. Spiavano, e recavano in corte: e non trovando che recare, trasformavano e creavano a loro posta. Non essendo croci e nastri da appendere ai loro petti in quei tempi, avrei forte desiderio di sapere come marchiasse Barbarossa i suoi cagnotti. Opera di costoro mi penso, che fossero le due lettere che hanno in fronte il nome di Adriano e di Federigo, recate dal Baronio negli Annali93, e tolte dal Nauclero, che le disse trovate in certa Badia della Diocesi di Spira. Il Muratori le reputa spurie94. E veramente non è a faticar molto per trovarle tali. Le lettere dei Papi in qualunque tempo scritte hanno tal quale immutabilità di sentenze e di abito, in qualunque tempo, e qualunque la persona cui son dirette, che sembrano tutte fuse di un getto nella stessa forma. Questa, che il lettore può vedere presso il Baronio, non ha del papale pure le sembianze. Gli aulici le coniavano e le spargevano nel popolo per trarlo nella loro sentenza.
Covava un grande incendio sotto queste scambievoli male contentezze del Papa e dell’Imperadore. Oneste persone si frapposero a calmarle per amor di pace, ma vi erano dei disonesti, che vi soffiavano dentro. L’indecenza dei modi, con cui erasi intestato Barbarossa scrivere al Pontefice, confortava anche più questi mediatori ad agire, perchè non inasprissero gli animi per difetto di riverenza. Arrigo Cardinale di S. Nereo ed Achilleo scriveva ad Eberardo Vescovo di Bamberga, questi al medesimo miti e riposati consigli. Erano entrambi uomini di buona volontà; e l’uno era attorno ad Adriano per calmarlo, l’altro a Federigo. Ma poco o nulla avvantaggiavano la cosa. V’erano per mezzo i cortigiani, che recavano legna al fuoco95; e Federigo, avvegnachè il Bambergense, come doveva, lo adombri con dolci parole, era uom bestiale per superbia, ed incontinenza di vendetta96. Questo buon Prelato mandò anche una lettera al Papa, umilmente pregandolo, volesse indirizzare al suo Imperadore placide e benigne parole97. Ma come poteva un Papa venire alle buone, se l’irriverente Principe si teneva sempre alle triste, scrivendo al medesimo lettere, che non recavano ombra di filiale suggezione98.
Dalle parole si passò presto ai fatti. Incominciavano a venir di Germania le fresche milizie: aspettavasi la Imperadrice e molti Principi dell’Impero. Quelle facevano massa presso Bologna. Per cui, celebrata la Pasqua in Modena, Federigo vi si condusse; e anche per tenere un’altra Dieta, in cui avrebbero dovuto comparire i citati Milanesi, se ne avessero avuto voglia99. Non era questo un parlamento, per diffinir ragioni, bastava quello di Roncaglia; bensì un giudizio a punire quei Lombardi, che Federigo teneva come ribelli. Si fecero le consuete citazioni ai Milanesi: nissun comparve: furono di nuovo messi al bando dell’Impero e gridati nemici. Deliberarono poi i legisti, e ve ne erano molti in Bologna, intorno alle pene da lanciarsi ai ribelli.
Dichiarata la guerra a Milano, venne a provocarsi l’altra col Papa. Erano intervenuti a quella Dieta quattro Cardinali Legati del Papa, Ottaviano di S. Cecilia, Arrigo dei Santi Nereo ed Achilleo, Guglielmo, stato innanzi Arcidiacono di Pavia, e Guido da Crema. Recavano questi le papali lagnanze intorno alle usurpazioni dell’Imperadore. Chiesero dapprima a Federigo l’adempimento del trattato avuto con Papa Eugenio III, nel quale con sagramento aveva promesso, tra le altre cose, di adoperarsi a tutt’uomo a tenere in suggezione del Pontefice i Romani, come eranvi stati da cento anni; di guarentirgli il possesso delle regalie nella signoria di S. Pietro, e di dargli mano forte a ricuperarne il perduto. Lamentavano, e chiedevano, non ispedisse più l’Imperadore Legati a Roma, senza recarlo a notizia del Papa, essendo il maestrato, e le regalie di Roma cosa tutta di S. Pietro; salvo il tempo dell’incoronazione, non avesse diritto alla raccolta del fodro; si stesse contento al giuramento di fedeltà, che gli facevano i Vescovi, e non li costringesse anche a quello dell’omaggio; i Legati imperiali non prendessero stanza nei palagi dei Vescovi; finalmente restituisse tutto l’usurpato del patrimonio di S. Pietro, e i tributi malamente riscossi da Ferrara, da Massa, dalle terre della Contessa Matilde, da tutto il paese, che corre da Acquapendente a Roma, dal Ducato di Spoleto, e dalle isole di Sardegna e Corsica.
Ai lamenti del Papa opponeva Federigo i suoi, dicendo, essere stato anche violato da Adriano il trattato avuto con Eugenio, avendo egli conchiuso pace con Guglielmo di Sicilia, col Greco, e co’ Romani senza il suo assenso; non volere che passassero pei suoi stati i Cardinali non licenziati da lui, nè che prendessero stanza ne’ palagi dei Vescovi a lui soggetti con molto aggravio delle chiese; dolevasi finalmente delle ingiuste appellazioni, che si recavano al papale seggio. Entrambi si dolevano, Papa ed Imperadore; era difficile si accordassero, non volendo uno stare alla sentenza dell’altro. Federigo proponeva si scegliessero sei Cardinali dal Papa, altri sei Vescovi sceglierebbe; al giudizio di questi dodici si quietassero entrambi; non vollero i Legati, non volle il Papa: e ciascuno si mise a provvedere ai fatti proprî contro dell’altro100.
Opportuni giunsero a Federigo in quella Dieta gli oratori del Senato di Roma, chiedendogli la sua amicizia. Egli l’accordò con tutto il cuore. Aveva ricevuto la corona; non aveva più mestieri del Papa, anzi cercava mettergli il fuoco in casa, al che si prestavano assai acconci i Repubblicani di Roma. Federigo si era convertito alla fede di Arnaldo da Brescia. Dall’altra parte Adriano non se ne stava in mezzo alla tempesta dei Repubblicani, che gli sollevò intorno Barbarossa. Fece quello che costui aveva fatto contro di lui: arrise alla indipendenza delle città Lombarde, e non passò molto che venisse in alleanza coi Milanesi, come vedremo. Così il Pontificato Romano entrava protettore dei Comuni italiani, e la libertà della Chiesa e dell’Italia si ricoveravano sorelle nel santuario di Dio.
Mentre Federigo affaticava i legisti presso Bologna a citare i Milanesi, ed a lanciar loro il bando dall’Imperio, questi si ponevano al tutto di cacciar lui dall’Italia. Aveva colui contro la fede dei trattati usurpato a Milano il castello di Trezzo: vi aveva messo a guardia un forte presidio, e dentro vi teneva in serbo un gran tesoro. Era forse il danaio spremuto dagli Italiani pel fodro, e la redenzione delle regalie. Vi andarono ad oste i Milanesi: lo espugnarono a viva forza, e ne smantellarono le mura: se ne tornarono a casa recando un grosso bottino, e ben dugento Tedeschi, che gittarono in carcere ad espiare le iniquità del loro signore. Federigo si mise in via per soccorrere il castello: ma vi perdè i passi, perchè gli aggressori menarono presto le mani; in tre dì l’ottennero101.
Si riaccese la guerra con molto furore, la esercitarono con varia fortuna in picciole fazioni Milanesi e Lodigiani. Fedelissima città all’Imperadore era Lodi, Crema a Milano; perciò su queste erano rivolte le menti dei battaglianti. Temporeggiava Federigo, e non osava offendere Milano, non trovandosi ancora ben provveduto di milizie. Stavasene in Lodi, incoraggiando i cittadini alla guerra, quando gli fu teso dai Milanesi un lacciuolo, in cui poteva restare. Avevano questi fermato co’ Cremaschi il come ed il quando assalire repentinamente Lodi, ed impossessarsene. Dovevano questi a mezzo di una notte taciti e raccolti valicare l’Adda, ed investire la città dalla parte di tramontana, mentre i Milanesi l’avrebbero stretta da ponente: la presenza dell’Imperadore non avrebbe tenuto i Lodigiani in timore di assalti, e perciò poco guardinghi. Si mossero d’ambe le parti i collegati al tempo designato. Ma i Cremaschi, che credevano sorprendere le scolte, che guardavano il ponte sull’Adda, ebbero a combattere, per averne il passo. Lo che credo che levasse qualche rumore, pel contado, che giunto alla città, svegliasse i cittadini alla difesa. Imperocchè fatta dai due lati impressione sulla città, ne uscirono gli abitanti in armi, e dall’alba sino al mezzodì fu un accalorato conflitto con morte di molti, e poco vantaggio dei Milanesi, che chiamato a raccolta, si ritrassero di Lodi102.
Allora Federigo pensò rompere gl’indugi, ed incominciare ordinata la guerra contro Milano. Gli erano ai fianchi e lo affrettavano a farla Pavesi, Cremonesi, ed altri nemici di quella città; e tenuto con questi consiglio, venne a questo partito: si dividessero le forze per distrarre quelle di Milano: a questa osteggiasse l’Imperadore con altri Italiani; i Cremonesi andassero a porre l’assedio a Crema. Della qual cosa come appena ebbero lingua i Milanesi, incontanente spedirono in aiuto a questa loro fedelissima città un Console, Manfredo Dugnano, con quattrocento pedoni, tra’ quali erano Obizo Matregnano, Oldrato Basilicapietro, Squarciaparte Busnato, Gaspare Menelozio, uomini di specchiata fama nelle armi; i nomi dei quali ho voluto quì recare, perchè erano deputati a nobilissimo fatto, che solo basterebbe ad onorare tutta una gente103.
Andavano i Cremonesi a tentar Crema, e Federigo disponeva le milizie contro Milano. Spedì innanzi i Pavesi a Septezano, altri diresse sopra Villamaggiore e Garano; egli con Bertoldo Duca e trecento veterani andò a porsi a Landriano, guardandogli i fianchi Lodi da una banda, Pavia dall’altra. Non si proponeva alcuna grande fazione, bensì guastare le campagne, togliere ai Milanesi le vettovaglie, onde venuto di Germania il grosso dell’esercito, assediarli già rifiniti delle necessarie provvigioni da vivere, e trarli, se fosse stato possibile, in qualche imboscata, usciti che fossero ad impedire la rovina de’ loro campi. Imcominciarono i tracorridori a fare il loro ufficio battendo la campagna, e ponendola tutta a ruba ed a fuoco, e vennero fino alle porte di Milano, strepitando e chiamando a conflitto; poi volteggiando davano le viste di fuggire per tirare all’aperto i cittadini e condurli nella rete. Si risentì tutta la città, e fu uno scomposto accorrere alle armi, un gridare a guerra, senza un capitano, che regolasse quella levata. Densi e furiosi uscirono addosso ai provocanti, e sì li strinsero, che questi dai finti armeggiamenti dovettero venire ai veri, impegnando una calorosa zuffa. Il bottino di che erano carichi non li rendeva tanto maneschi; per cui vennero malamente battuti e spogli del rapito. Intanto Federigo vedendo indugiare le nuove di quella correria, entrò in timore che i Milanesi non avessero assalite le milizie spedite a Septezano e Villamaggiore, e divisa l’oste per due vie, che portavano a Milano, si diresse a quella volta. I Pavesi che erano all’antiguardo primi dettero nelle milizie di Milano, che li accolsero con tanto valore da ributtarli indietro rotti e sanguinosi. Si misero sconsigliatamente i Milanesi a far bottino, tenendo in pugno la vittoria, mentre era a stare in armi con molta guardia di Federigo, il quale con fresche milizie velocemente accorreva. Stanchi dalla battaglia, impediti com’erano dal bottino, non potettero reggere all’impeto degl’imperiali, i quali strapparono loro di mano la vittoria, con ben quattrocento cavalieri, e trecento fanti prigionieri di guerra104, oltre agli uccisi.
Mentre queste cose avvenivano attorno a Milano i Cremonesi andati a porre l’assedio a Crema poco profittavano. Federigo si voleva togliere quello stecco degli occhi, e perchè i Cremaschi erano assai valorosa gente, e strettamente amici di Milano, e perchè parevagli che ne andasse dell’imperiale decoro, se non gastigava la loro audacia. Erasi egli ben rifornito di milizie; le città che gli si tenevano fedeli, non dubitavano, avrebbe di corto umiliata Milano; e perciò con molto fervore lo venivano aiutando, per entrargli sempre più nel cuore. Arrivava anche l’esercito di Germania e con questo la Imperadrice Beatrice, seconda donna del Barbarossa (avendo questi ripudiata la prima) la quale scendeva in Italia a partecipare de’ trionfi del marito. Credeva Federigo, che disertato il contado a Milano e messo il giogo ai Cremaschi, porlo anche sul collo di quella città sarebbe stata opera non che da uomini ma da fanciulli. Per la qual cosa stanco di scorrazzare pe’ campi milanesi, e non trovando più foraggi per la cavalleria, si condusse all’assedio di Crema.
Giace Crema tra l’Adda e l’Oglio a un dì di cammino da Milano, che la riguarda dal lato di oriente. Ha paludoso terreno, corso da varî fiumicelli e dal Serio, che scendendo da tramontana a scaricarsi nell’Adda, le bagnano il fianco orientale. Non era ai tempi che discorro città molto ragguardevole, anzi delle minori. Trovandosi nel compreso della Diocesi di Cremona, n’era signore il Vescovo di questa città. La quale suggezione portata con pessimo animo dai Cremaschi, fu cagione del loro odio verso Cremona, e del darsi perdutamente a Milano105. Certi della rovina che li minacciava Barbarossa, si misero al fermo di resistergli con quanta più fosse in loro di virtù, che era veramente stupenda. Si giurarono alla salute della patria con tanta religione di affetto, quanta fu dimostrata dai fatti che a pro di quella operarono.
Un doppio recinto di mura, ed un fosso assai profondo con acqua era tutta la sua difesa al di fuori: dentro poi cuori di lioni. Dava rincalzo al presidio quel Manfredo Dugnano Console co’ quattrocento Milanesi, ed una mano di Bresciani. Di vettovaglie avevano fatto tale un procaccio, da non patirne difetto per lungo tempo. Avevano, ma con poco frutto, già incominciato l’assedio i Cremonesi, quando Federigo con numerosa oste e molta baronia valicato il Serio, venne a porre gli alloggiamenti intorno a Crema. Divise le fazioni, l’Imperadore accampò ad oriente intorno a porta del Serio, prolungando le schiere fino a quella di Ripalta, ove alloggiavano i Cremonesi. Corrado Duca fratello del Barbarossa, Ottone Conte Palatino ed altri Baroni colle loro milizie tenevano in rispetto la città in faccia a porta Umbriana; la ricingevano poi per tutto lo spazio, che correva da questa porta all’altra detta di Ranengo, gli alloggiamenti di Federigo figliuolo del Re Corrado. Erano così fitte e serrate le ordinanze, che agli assediati non avanzava via ad uscire, fuori di quella che si potessero aprire colle spade. Provveduto alla custodia degli accampamenti, si voltarono gl’imperiali con grande studio a costruir macchine ed ingegni da battere la terra, non essendo modo alle scalate per la larghezza e profondità del fosso, che fasciava le mura. In poco di tempo fu minacciata tutta intorno la città da mangani e petriere, che lanciavano smisurati macigni, e da arieti e gatti operati con molta vigoria di braccia. Specialmente i Cremonesi, che in questa guerra avanzavano gli stessi Tedeschi nell’ardore, avevano composta una mobile torre di legname di ben trenta braccia massiccia, alta di sessanta. Portava nel corpo due arieti, che percuotevano, ed in cima due mangani da gittar sassi.
Fatti gli opportuni apparecchi, incominciò di fuori una batteria contro le mura assai gagliarda, alla quale i Cremaschi rispondevano con frequenti sortite, a null’altro mirando che al guasto o all’incendio delle macchine da tiro, in cui era la forza intera del nemico. Per cui avvenivano spessi e sanguinosi affronti, che finivano colla ripulsa dei Cremaschi minori di numero. Intanto i rinchiusi non tenevano sfornite le mura degli stessi ingegni che usavano i nemici. Ne avevano eccellenti, e adoperati con molta arte da certo Marchesi, il quale era peritissimo ingegniere, e fecondo inventore di modi e di arti a rimbeccare le batterie nemiche. Per la qual cosa Federigo si avvedeva, che ove tutta la somma dell’assedio si riducesse al battere delle mura, troppo sarebbe andato per le lunghe, poco frutto si farebbe. Pensò venire ad una oppugnazione più stretta; aprirsi l’opportunità di un conflitto su le mura e di una calata nella città.
Adoperò all’uopo un gatto di smisurata grandezza. Era il gatto come castello di legno con intorno forte tessuto di vincastri e copertura di cuoi, che battuto da’ sassi ne ammortiva i colpi. Manesco e volubile per tre ruote, che lo facevano andare a posta di chi il traea. Si appressava alle mura della città tanto, che i soldati che portava, potevano assestar bene i colpi su i difensori, ed anche gittar ponti a scendere nella terra. Ora Federigo volendo trarre un di questi gatti assai vicino alle mura, ed impedendolo il fosso, ripianò questo di botti ripiene di sabbia, e così gli raffermò la via. Mentre questo gatto si appressava alle mura tratto da noderosi Tedeschi, muovevano il lor castello i Cremonesi, perchè fossero distratti in più siti i difensori. Ma non furono giunti quei castelli alla sponda del fosso, che in un subito i Cremaschi smascherarono sulle mura ben cinque mangani e moltissime petriere, con cui fecero un tempestare di macigni così fitto da far temere al Tedesco lo scassinarsi di quelle macchine.
Si rodeva dentro della rabbia il Barbarossa, a vedere come gli fallissero quegl’ingegni, cui teneva raccomandata la vittoria; e tra per la selvaggia natura che aveva, e per le furibonde smanie, proprie solo de’ prepotenti, si avventò ad uno scellerato partito, che penerei a credere vero, ove nol contassero uomini affezionatissimi a lui. Tra gli ostaggi e i prigionieri che aveva, Cremaschi e Milanesi, fece prendere alcuni e legare su per le facce di quel gatto o castello, onde accostato che fosse alle mura, quei della terra si tenessero dal trarre colle macchine per pietà de’ loro o congiunti o amici, che sarebbero stati sfracellati ad ogni gitto di pietra. Veniva accostandosi il terribile ingegno alle mura, e come ciascuno degli assediati potè ravvisare su di quello o il figlio o il fratello, fu un silenzio ed un fremito di pietà in tutti i cuori, che stavano in due tra la carità de’ congiunti e quella della patria. Allora si udì una voce su le mura indiritta ai sospesi sul gatto, voce che non avrà altrove un eco, perchè essa sola ha riempito il mondo «Oh beatissimi voi! cui sarà dato nobilmente morire, anzichè vivere una mala vita. Non v’impauri quella morte che vi apre lo scampo di un grave infortunio: dessa è che veramente franca gli spiriti. Oh mille volte beati voi, che morti per la patria, già assorgeste nel cielo della immortalità! Oh! quanti de’ nostri avi per questa patria su i roghi, fra i ceppi, e nelle fauci delle belve non posero la vita loro? Noi a gran pezza più infortunati di voi! noi che tuttavia vivendo, abbiam sete di morte e non arriva; noi che abbiam sempre all’animo il disumano servaggio dello straniero, l’infamia delle nostre donne, e quell’udire, co’ polsi ne’ ceppi, la flebile voce di un figlio, che ti chiama — Padre, chè non mi aiuti106? — e quel vedere da ultimo gl’infortunati vecchi assisi sulle ceneri della patria. E chi di noi, avvegnachè certo di tranquilla vita, con questa spina nel cuore, reggerà alla vista di questo sole? Oh! benigni i Cieli ci tolgano con questa morte la miserabile vista di questa nostra città, di questa santa patria per nemiche mani inabbissata per sempre!» Generose parole, che chiusero gli animi in una fortissima idea tutta di cielo, e più non videro su quella macchina di guerra congiunti ed amici, ma la sola patria che li chiamava figliuoli. E con incredibile furia incominciarono co’ sassi a tempestare il gatto. Una così sfolgorata virtù, che i Tedeschi chiamarono ferocia, stupefece l’Imperadore, che fatta dare indietro la macchina, e calare i sospesi, furono trovati morti de’ Milanesi Cademelio da Pusterla, Anrico da Landriano con altri due; de’ Cremaschi poi, un sacerdote, Truco da Bonate, Arrico da Galiosso con altri due. Alberto Rossi ebbe rotte le gambe, Giovan Gareffi le braccia. Rimanevano altri ancora vivi sul ferale castello, che spinto di nuovo, venne orribilmente investito colle petriere. Erano i Cremaschi persuasi, che la libertà si compra solo col sangue, e che quelli non fossero che vittime immolate sull’altare della patria107.
E qui incominciò una serie di feroci rappresaglie per la efferata malizia del Barbarossa. Imperocchè i Cremaschi traportati da furibonda vendetta verso di lui, che li rendeva carnefici di que’ loro cari, trascinarono su gli spaldi quanti avevano prigionieri tedeschi ed italiani, e veggente l’Imperadore, l’impesero co’ lacci alle mura. Il quale crudelissimo partito fece vieppiù imbestiare il Tedesco; il quale fatta piantare a vista della città una moltitudine di forche, pensò nientemeno appendervi tutti gli statichi ed i prigionieri che aveva. Se non che presi più dall’orrore di quella mostruosa bestialità, che della pietà de’ dannati a morte, gli caddero ai piedi molti Vescovi ed Abati, e con preghiere lo stornarono da quella carneficina: ma non in tanto, che ben nove di que’ miserabili non ascendessero le preparate forche. Io non so come questi cherici si ravvolgessero in mezzo a quella sanguinosa gente, e fossero tenuti cherici dagli altri uomini108.
Mentre attorno a Crema avvenivano queste cose, i Milanesi con ogni maniera si adoperavano a distogliere Federigo dall’assedio di questa città, ed a procacciarsi forti sostegni, nulla parendo loro più certo, che colui, superata Crema, non tornasse ogni suo sforzo contro di essi. Tentarono il castello di Manerbio sul lago di Como, presidiato dai Tedeschi; ma soccorso a tempo, dovettero tornarsene colla peggio109. Non rimettevano però dall’accrescere sempre più le provvigioni della città; nel che venivano grandemente soccorsi dai Piacentini. I quali tenutisi fino ad ora apparentemente amici dell’Imperadore, con potettero tanto celatamente andare le amorevoli provvidenze verso Milano, che quegli alla perfine non se ne addasse, e li bandisse nemici dell’Impero110.
Ma fu veramente un salutevole partito quello che presero i Milanesi di voltarsi al Papa, per chiamarlo a parte dei loro pericoli, ed ove lo avessero consentito i Cieli, anche de’ loro trionfi. Le armi si spezzavano, gli uomini si uccidevano, le idee stavano. E queste idee durature e tetragone alla furia del Barbarossa, non altri che il Pontificato poteva infondere negli spiriti italiani. Vedemmo come questo Imperadore superbamente si conducesse con Papa Adriano; perciò non è a dire come questi avesse l’animo torbido verso di lui, e spiasse il destro di qualche umano sostegno, che il sorreggesse nel farglisi incontro riprenditore. Ora appunto a tale suo uopo vennero i Milanesi, i Bresciani ed i Piacentini stretti con sagramento in lega, che fu come la sementa di quella grandissima, di che narreremo appresso. Si appresentarono questi all’antico e provato propugnacolo di ogni umana giustizia, dico alla Sedia papale, chiedendo aiuto contro al truculento Tedesco, che ad un giogo voleva sommettere l’Italia e la Chiesa, chiedendo mescolarsi le sorti di entrambe da comune nemico minacciate. Adriano stese la papale destra a Milano, Brescia e Piacenza, e fermò con esse un trattato, per cui non dovevano far mai pace con Federigo, senza che ne avessero da lui licenza o dal suo successore; ed egli doveva fra quaranta dì lanciare sul fellone Augusto le folgori della scomunica. Si accostò subito a questa lega la combattuta Crema111. Così il Papa messosi a capo della piccola lega incominciò a santificare lo scopo, per cui combattevano quegl’Italiani, a stornare gli animi dalle basse gelosie che li rodevano, ed a concentrarli nella morale unità della giustizia, di che era tenuto maestro e spositore, e a farli veramente fratelli.
1159 Come si sparse la voce di questa lega e dell’entrarvi del Pontefice come capo, dovettero grandemente rallegrarsene quelli che tenevano per la libertà del paese, e quelli che seguitavano il Tedesco, vergognare della propria prostituzione. Infatti risaputo i Cremonesi di quel trattato, avvegnachè fossero affocati nemici di Crema, e la tenessero quasi in pugno per disfarla, incominciarono a ritirarsi dall’assedio112. Ma questa incominciata resipiscenza fu troncata dalla morte di Adriano, avvenuta innanzi il tempo designato al bando della scomunica. La qual morte arrecò gravissimo danno alle cose Lombarde, e fu causa della distruzione di Milano. Tuttavolta il Pontificato Romano già era entrato protettore dei Comuni italiani, e la libertà della Chiesa e dell’Italia già eransi collegate. Più giovani forze vi volevano a reggere il peso della battaglia che ne seguì: perciò fidanzata, a mo’ di dire, l’Italia al Pontificato, Adriano discese nel sepolcro, e lasciò il seggio ad Alessandro III, che doveva benedire quel fecondo connubio.
Le pratiche tenute dai collegati col Pontefice fecero presentire a Federigo tutto il male, che sarebbegli venuto dall’indirizzo, che avrebbe preso il nuovo Papa delle cose Lombarde. Perciò con più ardore si dette a spingere innanzi l’assedio di Crema, per volgersi poi a quello di Milano: e così colla distruzione di questa potentissima repubblica prevenire il mal tempo che lo minacciava da Roma. Erano corsi quasi tre mesi ed i Cremaschi non davano segno di volersi arrendere: con viva oppugnazione era dì e notte tentata la città loro, ma sempre con nuovi spiriti opponevano una fortissima resistenza. Federigo era tutto con quelle sue macchine ad aprirsi la breccia nelle mura, ed a tentare una calata per via di ponti, che faceva cadere su di quelle. Noiava grandemente gli assediati quel gatto smisurato, di cui è stato parola, dal quale i Tedeschi operavano uno ariete tutto munito di ferro, e che con molto frutto percuoteva le mura. Ne aveva già smantellato un venti braccia, e si parava la via ad un assalto su la breccia. Ma come al di fuori profittava l’ariete, dentro si travagliavano i Cremaschi a contraporgli un altro muro di legno, o palancata, la quale repentinamente apparve come un miracolo, con sopra più arditi difensori. E mentre questi erano al loro ufficio, altri si aprivano una via sotterranea per venire al gatto non visti, ed appiccarvi il fuoco. Vi giunsero, ma non appena si mostrarono fuori vennero tempestati di sassi da quella macchina, e con molta fatica e sangue potettero tornarsene, e chiudere a tempo l’aperta galleria, ad impedirne l’ingresso ai nemici.
Era assai tribolata la terra, nè dava requie ai cittadini il continuo saettare che facevano gli assedianti da un altissimo castello quanto si muovesse in quella. Si tenevano forti: non volevano arrendersi. Ma una domestica sciagura li attristò molto, e forse fu cagione della loro resa. Quel Marchesi che aveva fino a quel tempo con molto amore ed industria sorretta la pericolante patria, tutto ad un tratto villanamente la disertò. Fosse che non più reggesse agl’incomodi del lungo assedio, fosse che, tentato, cedesse alle principesche lusinghe del Barbarossa, celatamente gli si dette, e quell’ingegno che tanto egregiamente aveva usato ad indirizzare le difese della patria, con incredibile suo vituperio vendè al Tedesco. Imperocchè come se mai non fosse stato Cremasco, e non gli avanzasse più memoria della conseguita gloria per la difesa patria, si mise a indirizzare la sacrilega oppugnazione della medesima. Federigo lo accolse a braccia aperte, lo fornì di splendidi arnesi, e di un generoso cavallo113.
Infatti con questo valentissimo ma svergognato ingegniere le cose incominciarono ad andar meglio a Barbarossa. Il mobile castello che quegli costruì ai danni della città, fu una terribile cosa. Imperciocchè tratto che fu ai piedi delle mura, spose e gittò su queste un ponte ben quaranta braccia lungo, largo sei, guarnito tutto di ferro, ed altri minori. I quali furono incontanente gremiti del fiore de’ battaglieri tedeschi ed italiani, che andavano ad ultima fazione coi Cremaschi, certificati della vittoria. Fra quelli, molti Baroni ed il Duca Corrado fratello del Barbarossa. Andava innanzi sul ponte maggiore esso Duca cupidissimo di far prodezze, ed investì prima i Cremaschi, i quali attestatisi su le mura, l’accolsero in modo da fermargli l’andata, e da mettere paura tra la sua schiera, che non lo seguì dappresso. Poi spingendosi innanzi con la spada in pugno, lo ributtarono ferito dentro al castello. Allora fu un vessillifero che si spiccò d’un salto nella terra, sperando che gli altri lo seguissero: ma non bastò l’animo ad alcuno di imitarlo. La quale titubanza degl’imperiali accrebbe l’ardire de’ Cremaschi, i quali mentre con lunghi rampini e graffi di ferro, come bestie di macello, si tiravano giù nella terra i Tedeschi, giuocarono così bene di petriere e di mangani, che intronarono tutto il gran castello, e ne ruppero il ponte. Per cui fu un precipitare di molta gente nel fosso; e con molto dolore del Barbarossa non si fece altro in quel dì.
Ma l’esempio del Marchesi aveva fatta una pessima impressione nell’animo de’ più fiacchi, i quali celatamente passavano agli alloggiamenti imperiali per accattare con quello vituperevole disertamento meno tristi destini di quelli, che minacciavano la loro patria, resasi che fosse. La qual cosa scorò non poco gli assediati. Correva già il settimo mese dell’assedio: incredibili fatiche eransi durate contro una numerosa oste, la quale poteva avvicendare le schiere sempre fresche alla oppugnazione. I Cremaschi erano sempre gli stessi; perciò, sebbene forti gli spiriti, incominciavano ad infralire i corpi maceri dalle veglie. Non appariva da lungi alcuno, che stornasse da’ loro fianchi l’ostinato Tedesco: la speranza della scomunica erasene morta con Adriano. Pensavano salvare la vita, e serbarla a tempi più propizî; poichè, o resa o sforzata, alla patria che difendevano non avanzava che il consueto governo del sacco e del fuoco. Aprirono un trattato di dedizione a patti. Ottennero salve le vite; i Bresciani ed i Milanesi uscissero inermi e spogli di ogni cosa; i Cremaschi, qualunque il sesso e l’età, con quanto poteva ciascuno recarsi in collo delle proprie masserizie.
1160 Giurati i patti, uscirono i Cremaschi co’ loro alleati da quella dilettissima patria, in cui lasciavano tanto sangue e tanta memoria di virtù, per non vederla mai più. Andavano come vinti nelle sembianze, ma dentro ai petti fremevano gli animi di quello generoso dolore114, per cui le patrie conquassate e distrutte nelle mura, risorgono indistruttibili nelle sante regioni del cuore. Usò Federigo della vittoria a suo modo. Donate ai suoi Lodigiani le più belle armadure, scapestrò Italiani e Tedeschi al bottino ed all’incendio, per cui di Crema non rimasero che le ceneri, e la memoria di una virtù, che sola basterebbe a glorificare tutta una gente115.
NOTE
e
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DOCUMENTO A
Statuimus, et firmiter observari volumus, ut nec miles, nec serviens litem audeat movere. Quod si alter cum altero rixatus fuerit, neuter debet vociferari signa castrorum, ne inde sui concitentur ad pugnam. Quod si lis mota fuerit, nemo debet accurrere cum armis, gladio scilicet, lancea, vel sagittis: sed indutus lorica, scuto, galea, ad litem non portet nisi fustem, quo dirimat litem. Nemo vociferabitur signa castrorum, nisi quaerendo hospitium suum. Sed si miles vociferatione signi litem commoverit, auferetur ei omne suum harnascha, et ejicietur de exercitu. Si servus fuerit, tondebitur, verberabitur, et in maxilla comburetur, vel dominus suus redimat eum cum omni suo harnascha.
Qui aliquem vulneraverit, et hoc se fecisse negaverit, tunc si vulneratus per duos veraces testes, non consanguineos suos, illum convincere potest, manus ei abscindatur. Quod si testes defuerint, et ille juramento se expurgare voluerit, accusator, si vult, potest juramentum refutare, et illum duello impetere.
Si quis homicidium fecerit, et a propinquo occisi vel amico, vel socio, per duos veraces testes consanguineos occisi, convictus fuerit, capitalem sententiam subibit. Verum si testes defuerint, et homicidio se juramento expurgare voluerit, amicus propinquus occisi duello eum potest impetere.
Si extraneus miles pacifice ad castra accesserit, sedens in palefrido sine scuto et armis, si quis eum laeserit, pacis violator judicabitur. Si autem sedens in dextrario, et habens scutum in collo, lanceam in manu, ad castra accesserit, si quis eum laeserit, pacem non violabit.
Miles qui mercatorem spoliaverit, dupliciter reddet ablata, et jurabit quod nescivit illum mercatorem. Si servus, tondebitur, et in maxilla comburetur, vel dominus suus reddet pro eo rapinam.
Quicunque aliquem spoliare Ecclesiam vel forum viderit, prohibere debet; tamen sine lite: si prohibere non potest, reum accusare debet in Curia.
Nemo aliquam mulierem haheat in hospitio: qui vero habere praesumpserit, auferetur ei omne suum harnasch, et excommunicatus habebitur, et mulieri nasus abscindetur.
Nemo impugnabit castrum, quod a Curia defensionem habet.
Si servus furtum fecerit, et in furto fuerit deprehensus, si prius fur non erat, non ideo suspendetur, sed tondebitur, verberabitur, et in maxilla comburetur, et ejicietur de exercitu, nisi dominus redimat eum cum omni suo harnasch. Si prius fur erat, suspendetur.
Si servus aliquis culpatus non in furto fuerit deprehensus, sequenti die expurgabit se judicio igniti ferri, vel dominus juramentum pro eo praestabit. Actor vero jurabit, quod aliam ob causam non interpellat eum de furto, nisi quod putat culpabilem.
Si quis invenerit equum alterius, non tondebit eum, nec ignotum faciet, sed dicet Marscalco, et tenebit non furtive, et imponet ei onus suum. Quod si ille, qui amisit equum, in via deprehenderit oneratum, non dejiciet onus illius, sed sequens ad hospitium, recipiet equum suum.
Si quis vero villam, vel domum incenderit, tondebitur, et in maxillis comburetur, et verberabitur.
Faber non comburet carbones in villa, sed portabit ligna ad hospitium suum, et ibi comburet: quod si in villa fecerit, tondebitur, verberabitur, et in maxillis comburetur.
Si quis aliquem laeserit, imponens ei quod pacem non juraverit, non erit reus violatae pacis: nisi ille probare possit duobus idoneis testibus, quod pacem juraverit.
Nemo recipiet servum, qui sine domino est: quod si fecerit, reddet in duplo quidquid ille abstulerit.
Quicunque foveam invenerit, libere fruatur ea. Quod si ablata fuerit ei, non reddet malum pro malo, non ulciscetur injuriam suam, sed conqueretur Marscalco justitiam accepturus.
Sed si mercator Teutonicus civitatem intraverit, et emerit mercatum, et portaverit ad exercitum, et carius vendiderit in exercitu, Camerarius auferet ei omne forum suum, et verberabit eum, et tondebit, et comburet in maxilla.
Nullus Teutonicus habeat socium Latinum, nisi sciat Teutonicum: sed si habuerit, auferetur ei quidquid habet.
Si miles militi convitia dixerit, negare potest juramento: si non negaverit, componat ei X libras monetae, quae tunc erit in exercitu.
Si quis invenerit vasa plena vini, vinum inde extrahat ita caute, ne vasa confringat, vel ligamina incidat vasorum, ne ad damnum exercitus totum vinum effundatur.
Si castrum aliquod captum fuerit, bona quae intus sunt auferantur: sed non incendatur, nisi forte hoc Marscalcus faciat.
Si quis venatus fuerit cum canibus venaticis, feram quam invenerit, et canibus agitaverit, sine alicujus impedimento habebit.
Si quis per canes leporarios feram fugaverit, non erit necessario sua, sed erit occapantis.
Si quis lancea vel gladio feram percusserit, et antequam manu levaverit, alter occupaverit, non occupantis erit: sed qui occiderit eam sine contradictione obtinebit.
Si quis birsando feram balista, vel arcu occiderit, ejus erit.
NOTA A
Fu antichissima usanza presso i Re di Germania tenere le diete o parlamenti dello stato nell’aperto dei campi; ed a questi si adunavano in certi determinati giorni, specialmente ne’ plenilunî e novilunî. Ne reca testimonianza Cornelio Tacito116. Ed i Franchi invasori delle Gallie si tennero pure a questa costumanza, assembrandosi nel mese di marzo; per cui i campi di queste assemblee eran detti Campi Martii, poi Campi Maji, perchè nel maggio usarono tener parlamento117. I Longobardi, Carlo Magno e i suoi successori Franchi facevano lo stesso: e la ragione di questi parlamenti campestri si era il difetto di una casa capace di grande moltitudine. Da Landolfo il giovane118 sappiamo che anche gli Arcivescovi di Milano adunassero i loro vassalli all’aperto.
I Re d’Italia scelsero a convegno campestre i prati di Roncaglia, che era un bel tratto di paese incolto, che giaceva a un tre miglia da Piacenza, tra il fiume Po e la Nura. Quando scegliessero que’ prati, non sappiamo119. Secondo recita Arnolfo120, Arrigo II Imperadore nell’anno 1047 adunò la prima Dieta in Roncaglia.
Intorno alla etimologia di questa voce Roncaglia variamente si è ragionato. Glabro Rodolfo121 la fa venire da Curia Gallorum: non so perchè. Rivino dal tedesco der Romen-zug, ossia viaggio o spedizione di Roma, donde poi sia nato Romwalla, e poi Roncaglia. Il Du Cange ed il Muratori122, avvegnachè discordi su la significazione del vocabolo affermano, derivarsi da Roncale. Il primo vuole che suoni campo incolto ed ingombro da sterpi; il secondo, campo stato selvaggio, e poi sgombro e tramutato in prato. Pare che il Muratori dia meglio nel segno; poichè Roncaglia o Runcaglia trae origine da Runcare, che vale, secondo tutti gli etimologisti, purgare un campo delle piante inutili. E sta bene. Anzi, chiosando l’avviso muratoriano, Roncaglia è nato dallo spesso menar della Ronca, che si faceva in quel campo piacentino per isboscarlo. Imperocchè destinato ai regî parlamenti, non si coltivava: e ad ogni avvento di Principe, che vi voleva tenere il parlamento, era mestieri purgarlo colla ronca: dal quale uso che facevasi di questo ferro, avvenne che il campo si addimandasse Roncaglia.
Giunto che fosse in questi prati il Principe coll’esercito, e disposti gli alloggiamenti, in mezzo a questi si levava il padiglione reale, ed un palo assai alto, in cima al quale si appendeva uno scudo ed una bandiera. Un banditore convocava tutti i Vassalli maggiori, questi i minori a vegliare presso quella insegna ed alla tenda del Principe, in segno di omaggio, pena lo spogliamento dei feudi a chi non accorresse. Per questo li ebbero confiscati nel 1154 i Vescovi di Brema e di Alberstad123. Aprivano l’assemblea gli ambasciadori delle città italiane, i quali esponevano pubblicamente la ragione della loro ambasceria. Si ventilavano poi i negozî generali dello Stato, e finalmente si accoglievano dal Principe le doglianze de’ privati, che solevano farle colle croci in mano124.
Gli atti del parlamento di Roncaglia sono stati ripubblicati dall’illustre diplomatico Prussiano Signor Pertz nella grande collezione storica: Monumenta Germaniae historica. Tom. II Hannoverae 1837. Sono i seguenti: Oratio Imperatoris, Oratio Archiepiscopi Mediolanensis, Constitutio de Regalibus, Constitutio Pacis, Constitutio de Jure Feudorum, Privilegium Scholasticum.
Note
- ↑ Arnulphus Hist. Mediol. lib. 3 c. 6.
- ↑ Idem lib. 3. c. 5. 6.
- ↑ Veggasi il Poema di un Anonimo Comasco, che ha titolo: De Bello et Excidio urbis Comensis, pubblicato dal Muratori S. R. I. tom. 5. colle chiose di Gio. Stampa.
- ↑ Lib. 2. cap. 76. S. R. I. tom. 6. p. 855.
- ↑ Quae si cuiquam invisa fuerint, aut ea despicabilia judicaverit, nos tamen obedientiae nostrae fructus consolabitur, qua praecipienti paruimus. E ciò dice nell’Epilogo del suo racconto, volgendo la parola a Federigo.
- ↑ ... Tonsore pro reverentia Imperii pilos capitis et genarum assidua succisione curante. Anche nei peli la riverenza all’Impero!
- ↑ Otto Frisig. S. R. I. lib. I. Cap. 25. 26.
- ↑ Otto Frisin. 1. 2. c. 2. — Gunteri Ligurius L. 1. 12. ap. Pitheum.
- ↑ Baron. 1152.
- ↑ Ricobaldo Ferrar. Istor. Imp. Federigo I. S. R. I. T. 9. p. 354.
- ↑ Otto Morena S. R. I. Tom. 6. p. 957. — Galvan. Flamma. Manip. Fior. c. 173.
- ↑ Otto Morena p. 965.
- ↑ Otto Morena p. 971.
- ↑ Otto Frisig. lib. 2. c. 12. 15. p. 706. — Sir Raul. S. R. I. Tom. 6. p. 1175. — Ligurinus lib. 2. p. 24.
- ↑ Otto Morena p. 971 e seg.
- ↑ Vedi Nota A.
- ↑ Otto Frisig. c. 12. c. 13.
- ↑ Otto Morena. p. 972 = Otto Frisig. lib. 2. c. 14. p. 710.
- ↑ Otto Fris. lib. 2. c. 13. e 15.
- ↑ Id. ibi.
- ↑ Otto Frisi. lib. 2. c. 15. = Otto Morena, p. 975. = Epistola Frider. ad Ottonem Frisig. S. R. I. tom. 6. p. 635.
- ↑ Otto Fris. L. 2. c. 15.
- ↑ Otto Fris. lib. 2. c. 17. p. 712. — Tristani Calchi Histor. Patriae. lib. 8. p. 222. ap. Burmhan.
- ↑ Tristani Calchi. Hist. Patr. lib. 8. p. 222. coll. Burmhan.
- ↑ Trist. Calchi l. 8. p. 223.
- ↑ Otto Frisig. L. II. c. 20. — Otto Morena, p. 981. — Sir Raul. p. 1174. — Tristani Calchi lib. 8. — Vedi Cronica di Tortona, pubblicata da Ludovico Costa p. 5. e segu. — Bottazzi Antichità di Tortona e suo agro. Cap. XIII p. 270 e segu.
- ↑ Otto Fris. lib. 2. c. 21. p. 718.
- ↑ Sir Raul. 1175.
- ↑ Otto Morena, p. 983 — Sir Raul. p. 1175. — Bottazzi cap. XIII. p. 284 e seg.
- ↑ Sir Raul. p. 1177.
- ↑ Id. ib.
- ↑ Tristani Calchi Hist. Patriae. lib. VIII.
- ↑ Card. Arago. Vita Pap. Adrian. R. I. S. tom. 6.
- ↑ I Nominali ed i Reali.
- ↑ Fulberto.
- ↑ Otto Frisig. lib. 2. c. 21. p. 719 — Gunterus Ligur. lib. 3. pag. 43.
- ↑ Cardin. Aragon. in Vita Adrian. = Otto Frisig. lib. 2. c. 22.
- ↑ Otto Fris. lib. 2. c. 22.
- ↑ Anastas. Bibl. in Vita Leonis IV. p. 240. S. R. I. tom. 3.
- ↑ Cardin. Arag. Quo facto, statim tam vehemens et fortis Theutonicorum conclamantium in vocem laudis et letitiae vox emissa concrepuit, ut terribile tonitrum de coelo crederetur cecidisse.
- ↑ Otto Frising. lib. 2. c. 24. p. 725.
- ↑ Idem Ibi. c. 26.
- ↑ Murat. Diss. Ital. Med. Evi. Dis. 27.
- ↑ Otto Fris. l. 2. c. 26. = Ott. Morenae p. 991.
- ↑ Sir Raul. p. 1178.
- ↑ Sir Raul. p. 1178. = Trist. Calchi. lib. IX.
- ↑ Idem Ibi.
- ↑ Vedi Giulini Memorie Storic. di Milano.
- ↑ Sir Raul. p. 1179. e segu. = Radevic. Frisig. in Appendice ad Otthonem Lib. 1. c. 33. = Gunterus. Lib. 7.
- ↑ Otto Morena Hist. Laud. p. 995. e seg. S. R. I. Vol. VI.
- ↑ Romual. Saler. Chr. S. R. I. Tom. 7.
- ↑ Ann. 1156. n. 7.
- ↑ Radevici de Gest. Frid. 1. Lib 1. c. 8.
- ↑ Radevic. lib. 1. c. 9.
- ↑ Radevic. l. I. c. X.
- ↑ Idem Ibi.
- ↑ Ott. Fris. l. 2. c. 31 ..... certus (scriveva a Ottone) quod nec te, nec aliquem principum nostrorum Montem Appenninum transire cogemus.
- ↑ Radevic. Lib. 1. c. 20.
- ↑ Idem lib. 1. c. 25.
- ↑ Otto Morena p. 1005.
- ↑ Vedi Docu. A.
- ↑ Radev. lib. 1. 27.
- ↑ Radevici. Lib. 1. c. 14.
- ↑ Radevic. lib. 1. c. 28.
- ↑ Otto Morena p. 1007. — Sir Raul. p. 1180. — Radev. lib. 1. c. 29. — Gunterus Lig. lib. 7.
- ↑ Laud. Pompae. Hist. apud Grevium T. III. Lib. II. p. 863. — Otto Morena p. 1009. S. R. I. vol. 6.
- ↑ 67,0 67,1 Radevi. l. 1 c. 31.
- ↑ Id. c. 34 — Otto Morena p. 1011 — Sir Raul. p. 1118.
- ↑ Radev. lib. I. c. 34.
- ↑ Id. c. 35. = Sir Raul. p. 1187.
- ↑ Ib. c. 38.
- ↑ S. R. I. t. VI. p. 365.
- ↑ Radev. lib. 1. c. 38. — Morena p. 1013.
- ↑ Sir Raul. c. 1181.
- ↑ Radev. c. 40.
- ↑ ....alio quodam die Dominus Imperator cum maxima parte exercitus circa Mediolanum pergens, totas segetes, quascumque invenit, devastavit; vites etiam, et arbores succidit, domus combussit, molendina dextruxit.....
- ↑ Radevic. c. 41. — Goldastus, Statuta et Rescripta Imperialia, pag. 55. 56.
- ↑ Trist. Calch. Hist. Patr. lib. IX ap. Burmau. Vol. XI. p. 234.
- ↑ Radev. l. I. c. 4.
- ↑ Otto Mor. p. 1019. = Radev. l. 2. c. 7.
- ↑ Radev. l. 2. c. 7.
- ↑ Corp. Jur. Civil. Feudor. libr. 2. c. 56. — Ibi Dionys. Gothofre. in notis pag. 35. = Cujac. in not. ad eumd. tit. = Carlin. de pace Constant.
- ↑ 83,0 83,1 Radev. l. 2. c. 5. 6.
- ↑ Caffaro Ann. lib. 1. S. R. I. Vol. VI. p. 270. 271.
- ↑ Otto Moren. 1021. Imperator namque ut hoc audivit, quamvis moestus inde foret, in pace tamen sustinuit.
- ↑ Otto Morena p. 1023. = Itaque cum et utrique ad Imperatorem rediissent, et quid eis acciderat renuntiantes, Imperator quasi vilipenderet, ac pro nihilo haberet, tacuit. = Sir Raul. p. 1182 = Tristano Calchi L. IX. p. 237.
- ↑ Radev. l. 2. c. XXV.
- ↑ Id. c. 26. 27. 28.
- ↑ Radev. ib.
- ↑ Nunc autem honestatem ipsius considerantes et provectum scientiae, si vita ei comes fuerit, attendentes. Epist Adri. Ap. Radev. l. 2 c. 16.
- ↑ Ib.
- ↑ ....postulationem tuam hac in parte non duximus admittendam, credentes, atque sperantes, quod ex quo nostram super hoc cognoveris voluntatem, tu ipse nostram intentionem, et propositum commendabis. Ib.
- ↑ an. 1154. 5. 6.
- ↑ Annal. Ital. 1154.
- ↑ Pareat illis Deus, qui oleum quasi camino addentes, inter patrem et filium, inter regnum et Sacerdotium seminant discordias. Epist. Eberar. ad Henric. ap. Radev. lib. 2. c. 18.
- ↑ Qualis sit, vos scitis. Diligentes se diligit, aliis alienum se facit, quia nondum perfecte didicit inimicos diligere. Id. ib.
- ↑ Dignetur ex integro scribere vestra paternitas placide ac benigne filio nostro Domino nuper Imperatori. Epis. Eberar. ad Adr. ap. Radev. 12. c. 20.
- ↑ Nunc autem ex literis illis, quas celsitudini suae post reditum meum domino meo placuit destinare, quae videlicet nec stylum, nec antiquam consuetudinem Imperialium litteratum obtinebant, timemus multum, ne sit in diversa mutatus, et alia modo sibi sit facies, sensuque diversus. Ep. Henrici Cardin. ad Eberar. ap. Radev. l. 2. c. 18.
- ↑ Radev. l. 2. c. 29.
- ↑ Radev. l. 2. c. 27. 29. 30. 31.
- ↑ Otto Mor. p. 1024. 1025.
- ↑ Otto Morena p. 1025.
- ↑ Sir Raul. p. 1182.
- ↑ Radev. 2. c. 42 = Ved. Epist. Frideri. ad Ottonem S. R. I. V. 6. = Trist. Calchi p. 238.
- ↑ Radev. 1. 2. c. 39.
- ↑ Vocem filii patrem implorantis exaudiet. Radevic. Frisig. lib. 2. c. 47. = Gunter. Ligur. lib. X. p. 146.
- ↑ Otto Morena p. 1037. 1059. = Sir Raul. p. 1183 — Trista. Calchi lib. 2. c. 48. e 49.
- ↑ Ott. Morena 1039. 1040. 1041. Radev. lib. 2.
- ↑ Radevic. l. 2. c. 48. 49.
- ↑ Ib.
- ↑ Sir Raul. S. R. I. vol. 6. p. 1183.
- ↑ Trista. Calchi Lib. IX p. 240.
- ↑ Otto Morena, p. 1046.
- ↑ Ingenti dolore fremebant, Radevic. Frisig. lib. 2. c. 62.
- ↑ Radevic. ibi.
- ↑ De moribus German. Tom. IV. p. 38.
- ↑ Fredegarius ad an. 776.
- ↑ Cap. IX. e XXXI.
- ↑ Vedi Sigonio lib. VII. VIII, ed il Sassi Nota 3. a questo libro.
- ↑ S. R. I, t. IV. lib. III. c. 4.
- ↑ Praef. ad lib. IV histor.
- ↑ Antiq. Ital, T. 2 Diss. 21.
- ↑ Murat. Annali.
- ↑ Vedi Vicende di Milano durante la guerra con Federigo illustrate. ec. Nota V. p. 177.
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