Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/II. I toscani

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II. I toscani

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I. I siciliani III. La lirica di Dante
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II

I TOSCANI


[Carattere della lingua e dello stile nell’Italia centrale — Paragone della tenzone di Ciullo con quella di Ciacco dell’Anguillara — Altri esempi: la Compiuta, Bondie Dietaiuti, Alesso di Guido Donati — Proprietá, grazia e semplicitá della forma toscana — Ma permanenza di un contenuto convenzionale — Madonna, Messere e l’Amore — L’ideale cavalleresco di poca forza e durata in Italia — Il nuovo contenuto. La scienza, coltivata nelle universitá, madre della poesia italiana — Guido Guinicelli — La letteratura italiana, nelle sue origini, allontanata dallo spirito popolare per effetto prima dell’ideale cavalleresco, poi della scienza — Guittone d’Arezzo: energia morale, deficienza di poesia e d’arte — Iacopone da Todi e la letteratura religiosa popolare — Tratti di grande bellezza, ma in genere materia greggia — Rozzezza della poesia morale e della poesia politica — Rozzezza della letteratura e poesia scientifica: Brunetto Latini — Bologna, centro della scienza; Firenze, della poesia; e loro rapporti — Scienza e arte in Cino da Pistoia — Scienza e poesia in Guido Cavalcanti — La poetica dello Stil nuovo: la bella veste — Le «nuove rime» di Dante — Contenuto filosofico dello Stil nuovo: l’ideale della Donna.]


Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d’immaginazione e attirava a sé i piú chiari ingegni d’Italia, ne’ comuni dell’Italia centrale, oscuramente ma con assiduo lavoro, si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze, intorno a’ quali trovi Lucca, Pistoia, Pisa, Arezzo, Siena, Faenza, Ravenna, Todi, Sarzana, Pavia, Reggio.

Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime, non ritrovi la vivacitá e la tenerezza meridionale, ma uno stile sano e semplice, lontano da ogni gonfiezza e pretensione, e un volgare [p. 20 modifica]giá assai piú fino per la proprietá de’ vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.

Trovo una tenzone di Ciacco dall’Anguillara, fiorentino, sullostesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai piú varietá e piú impeto, e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su uno stampo, in andamento piano, uguale e tranquillo, e in una lingua cosi propria e sicura, che non ne hai esempio ne’ piú tersi e puliti siciliani. Comincia cosi:

Amante


                                              O gemma leziosa,
adorna villanella,
che sei piú virtudiosa
che non se ne favella:
per la virtude c’hai,
per grazia del Signore,
aiutami, ché sai
ch’io son tuo servo, Amore1.
     


Donna


                                              Assai son gemme in terra
ed in fiume ed in mare,
c’ hanno virtude in guerra,
e fanno altrui allegrare.
Amico, io non son dessa
di quelle tre2 nessuna:
altrove va per essa,
e cerca altra persona.
     

Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase, che ti annunzia un volgare giá formato e parlato, si accompagna una misura e una grazia ignota alla nuditá molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone, [p. 21 modifica]di una decenza amabile, cosi lontana dal plebeo «allo letto ne gimo» di Ciullo:


Donna


                                              Tanto m’hai predicata
e si saputo dire,
ch’io mi sono accordata:
dimmi: che t’è in piacere?
     


Amante


                                              Madonna, a me non piace
castella né monete:
fatemi far la pace,
con l’amor che sapete.
Questo dimando a vui,
e facciovi finita.
Donna siete di lui,
ed egli è la mia vita.
     


Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata, e sono i piú acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana, massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

                                              Mentr’io mi cavalcava,
audivi una donzella;
forte si lamentava
e diceva: — Oi madre bella,
lungo tempo è passato
che deggio aver marito,
e tu non lo m’hai dato.
La vita d’esto mondo
nulla cosa mi pare...
— Figlia mia benedetta,
se l’amor ti confonde
de la dolce saetta,
ben te ne puoi sofferere...
— Per parole mi teni,
tuttor cosi dicendo;
     
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                                         questo patto non fina3,
ed io tutt’ardo e incendo.
La voglia mi domanda
cosa che non suole,
una luce piú chiara che ’l sole;
per ella vo languendo.
     

In queste rappresentazioni schiette dell ’animo, e non astratte e pensate, ma in casi ben determinati e circoscritti, il poeta è sincero, vede con chiarezza istintiva quello s’ha a fare e dire, come fa il popolo, e non esprime i suoi sentimenti, perché non ne ha coscienza, tutto dietro alle cose che gli si presentano, dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione, senza dimorarvi sopra, parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicitá rara ne’ meridionali, dov’ è maggiore espansione, ma che è qualitá principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta donzella fiorentina, la divina Sibilla, come la chiama maestro Torrigiano:

                                         Alla stagion che il mondo foglia e fiora,
accresce gioia a tutti fini amanti:
vanno insieme alli giardini allora
che gli augelletti fanno nuovi canti.
     La franca gente tutta s’innamora,
ed in servir ciascun traggesi innanti,
ed ogni damigella in gioí’ dimora,
e a me ne abbondali smarrimenti e pianti.
     Ché lo mio padre m’ha messa in errore4
e tienemi sovente in forte doglia:
donar mi vuole a mia forza signore.
     Ed io di ciò non ho disio né voglia,
e in gran tormento vivo a tutte l’ore:
però non mi rallegra fi or né foglia.
     
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Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta, con minor movimento e grazia e freschezza, ma superiore d’assai per arte e perfezione di forma:

                                              Quando l’aria rischiara e rinserena,
il mondo torna in grande dilettanza,
e l’acqua surge chiara dalla vena,
e l’erba vien fiorita per sembianza,
     e gli augelletti riprendon lor lena,
e fanno dolci versi in loro usanza,
ciascun amante gran gioi’ ne mena
per lo soave tempo che s’avanza.
     Ed io languisco ed ho vita dogliosa:
come altro amante non posso gioire,
ché la mia donna m’ è tanto orgogliosa.
     E non mi vale amar né ben servire:
però l’altrui allegrezza m’è noiosa,
e dogliomi ch’io veggio rinverdire.
     

In questi due sonetti è grande semplicitá di pensiero e di andamento e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello si vede o si sente, senza riflessioni ed emozioni, ma con una vivacitá ed un colorito che suscita le piú vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta, se guardi alla parte tecnica, ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata, ma è giá elegante, giá la frase surroga i vocaboli propri: a me piace piú la perfetta semplicitá del sonetto femminile, con movenza piú vivace, piú immediata e piú naturale.

La proprietá, la grazia e la semplicitá sono le tre veneri che si mostrano nel volgare, come si era ito formando in Toscana; qualitá che trovi ancora dove è piú difficile a serbarle, quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti piú delicati dell’animo con tanta piú audacia quanto maggiore è stata la compressione, e con la sicurezza di chi sente che non ha torto ma ragione: è una violenza raddolcita da una [p. 24 modifica]grazia ineffabile, e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:

                                              In pena vivo qui sola soletta
giovin rinchiusa dalla madre mia,
la qual mi guarda con gran gelosia.
Ma io le giuro, alla croce de Dio,
s’ella mi terrá piú sola serrata,
ch’i’ dirò: — Fa’ con Dio, vecchia arrabbiata! —
E gitterò la rocca, il fuso e l’ago,
Amor, fuggendo a te, di cui m’appago.
     

Questa bella forma, in tanto spirito e vivacitá cosí castigata, propria e semplice e piena di grazia, si andò sviluppando non perché il suo contenuto voleva cosí, ma in opposizione ad esso contenuto, vuoto ed astratto. Anzi che qualitá del contenuto, o di questo e quel poeta, sembra il progresso naturale dello spirito toscano, dotato di un certo senso artistico, che lo tirava alla forma, nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualitá spiccano piú dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale, ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell’animo, come gli si affacciano in situazioni ben determinate e come sono nella realtá della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa, ed hai ciò che di piú perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano, come è in parecchie poesie giá citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito, naturale e popolare, com’è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava, il contenuto era giá formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva, il contenuto rimaneva stazionario, lo stesso ne’ piú puliti scrittori, tutti del pari dimenticati, perché quello solo sopravvive che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale, vivente della vita comune.

Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana come in Sicilia ci era giá tutto un mondo poetico, non formato a poco a poco insieme col volgare, [p. 25 modifica]ma giá fissato con lineamenti precisi e costanti. C’era giá una poetica e c’era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt’i trovatori gli stessi. Come piú tardi avemmo le maschere, cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali che nessuno si attentava di alterare, cosi ci era allora Madonna e Messere.

Madonna, l’«amanza» o la cosa amata, era un ideale di tutta perfezione; non la tale e tale donna, ma la donna in genere, amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l’amante, il «meo sere», che avea qualche valore solo amando. Uomo senz’amore è uomo senza valore: amare è indizio di cor gentile. Chi ama è cavaliere, ubbidiente alle leggi dell’onore, difensore della giustizia, protettore de’ deboli, umile servo o servente d’amore, e soffre volentieri ove a sua Madonna piaccia, e amato sta allegro, ma «senza vanitate», senza menar vanto, e spregia le ncc! ezze, perché chi è amato è ricco. Amore è «di due voleri una voglienza», ed è senza «fallimento o villania», senza peccato, e sta contento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioia dell’amante è contemplare Madonna, e senza Madonna «non vi vorria gire». Il codice d’amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti «fini e cortesi»; il codice della cavalleria descrive le leggi dell’onore, i doveri di cavaliere «leale e franco». Come si vede, amore era tutta la vita ne’ suoi vari aspetti; era Dio, patria e legge: la donna era la divinitá di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima etá troverá questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l’universo è la Donna. E tale fu negl’inizi della societá moderna in Germania, in Francia, in Provenza, in Spagna, in Italia. La storia fu fatta a quella immagine: troiani e romani erano concepiti come cavalieri erranti; e cosi arabi, saraceni, turchi, lo soldano e Saladino. Paris e Elena, Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo, come Lancillotto e Ginevra, Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternitá universale si trovano gli angioli, i santi, i miracoli, il paradiso, in istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale, tutto battezzato sotto nome di «cavalleria». Le idee generali non sono ancora potenti di [p. 26 modifica]uscire nella loro forma e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbi. La letteratura di questa etá infantile sono romanzi e novelle, e favole e motti, poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato, cioè rime con suoni, canti e balli, onde la canzone e la ballata.

La cavalleria poco attecchí in Italia. Castella e castellane col loro corteggio di giullari, trovatori, novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella e s’era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa e abbattuta poi Casa sveva, quella vita di popolo fu assicurata, e le tradizioni feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtá. Rimasero nella memoria, non come regola della vita, ma come un puro gioco d’immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco, nessuno gli dava serietá e valore pratico: era un passatempo dello spirito, non tutta la vita, ma un incidente, una distrazione. Ora, quando in contenuto non penetra nelle intime latebre della societá e rimane nel campo dell’immaginazione, diviene subito frivolo e convenzionale come la moda, e perde ogni sinceritá e ogni serietá. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato, come si trovava in una letteratura non nata e formata con la vita nazionale, ma venuta dal di fuori per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale: nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietá di contenuto; una cosi noiosa uniformitá, che mal sai distinguere un poeta dall’altro.

Questo contenuto non può aver vita, se non si move, trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico, che avea condotta giá a tanta perfezione la lingua, dovea altresi risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito.

L’Italia avea giá una coltura propria e nazionale molto progredita: P Europa andava giá ad imparare nella dotta Bologna. Teologia, filosofia, giurisprudenza, scienze naturali, studi classici aveano giá con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio, che leggevano san Tommaso e Aristotile, nutriti di Pandette e di dritto [p. 27 modifica]canonico, ed aperti a tutte le maraviglie dell’astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d’amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole, cosi pronti e cosi sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente giá iniziata in tutti gli artifici della rettorica. Nacque l’entusiasmo della scienza, una specie di nuova cavalleria che detronizzava l’antica. Lo stesso impeto, che portava l’Europa a Gerusalemme, la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co’ piú vivi colori questo grande movimento di curiositá scientifica, il cui principal centro era in Italia.

E la scienza fu madre della poesia italiana, e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato «il Saggio»5, e fu il padre della nostra letteratura: fu il bolognese Guido Guinicelli; il nobile, il massimo, dice Dante, il padre

                                         mio e degli altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre.
     

Guido nel i270 insegnava lettere nell’universitá di Bologna. Il volgare era giá formato e si chiamava «lingua materna»; l’uso moderno, in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto l’entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle piú alte speculazioni e commossa da’ miracoli dell’astronomia e dalle scienze naturali. È il mondo nuovo della scienza che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell’amore. In generale le poesie de’ trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto, ed è il luogo comune de’ trovatori, espresso nel celebre verso:

                                         Amore e cor gentil sono una cosa.      

Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido e si mostra ne’ piú nuovi aspetti. Risorge l’immaginazione, [p. 28 modifica]e attinge le sue immagini non da’ romanzi di cavalleria, ma dalla fisica, dall’astronomia, da’ piú bei fenomeni della natura, con la compiacenza, con la voluttá e l’abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano, s’incalzano; ti par di essere in un mondo incantato e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:

                                              Al cor gentil ripara sempre Amore,
siccome augello in selva alla verdura;
né fe’ Amore anti che gentil core,
né gentil core, anti che Amor, Natura.
Che adesso com’ fu il Sole,
si tosto fue lo splendor lucente,
né fu davanti al Sole.
E prende Amore in gentilezza loco
cosi propiamente,
come il calore in chiaritá di foco.
     Foco d’Amore in gentil cor s’apprende
come virtute in pietra preziosa;
ché dalla stella valor non discende,
anzi che ’l Sol la faccia gentil cosa...
     Amor per tal ragion sta in cor gentile,
per qual lo foco in cima del doppierò...
Amor in gentil cor prende rivera,
com’ diamante del ferro in la miniera.
     Fère lo Sol lo fango tutto ’l giorno:
vile riman, né il Sol perde calore.
Dice uom altier: — Gentil per schiatta torno: —
lui sembra il fango, e ’l Sol gentil valore.
Ché non dee dare uom fé
che gentilezza sia fuor di coraggio
in dignitá di re,
se da virtute non ha gentil core:
com’acqua ei porta raggio,
e il ciel ritien la stella e lo splendore.
     

C’è qui una certa oscuritá alcuna volta e un certo stento, come di un pensiero in travaglio, e n’escono vivi guizzi di luce che rivelano le profonditá di una mente sdegnosa di luoghi [p. 29 modifica]comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato internamente, non è ancora poesia, cioè vita e realtá; ma è giá un fatto scientifico, scrutato, analizzato da una mente avida di sapere, con la serietá e la profonditá di chi si addentra ne’ problemi della scienza, e illuminato da una immaginazione, eccitata non dall’ardore del sentimento ma dalla stessa profonditá del pensiero. Guido non sente amore, non riceve e non esprime impressioni amorose, ma contempla l’amore e la bellezza con uno sguardo filosofico: quello che gli si affaccia non è persona idealizzata, ma è pura idea, della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla veritá intuita e contemplata dalla sua mente, quasi fosse persona viva. Cosi Platone amava le sue idee; l’amore platonico non era altro che amore d’intuizione e di contemplazione, una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione, e l’amore gli move l’immaginazione e gli fa trovare i piú ricchi colori, si ch’ella par fuori pomposamente abbigliata. L’artista è un filosofo, non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco, frivolo e convenzionale, cosí fecondo presso i popoli dove nacque, cosi sterile presso noi dove fu importato, succede Platone, la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta, ma ci è l’artista. Il pensiero si move, l’immaginazione lavora. La scienza genera l’arte.

La coltura cavalleresca, se giovò a formare il volgare, impedí la libertá e spontaneitá del sentimento popolare, e creò un mondo artificiale e superficiale, fuori della vita, che rese insipidi gl’inizi della nostra letteratura, cosi interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido, di un moto impresso non da sentimento di amore ma da contemplazione scientifica dell’amore e della bellezza, che se non riscalda il core, sveglia l’immaginazione. Questo dunque si ricordi bene: che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco, non potuto penetrare nella vita nazionale e rimaso frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla scienza, che l’allontanò sempre piú dalla freschezza e ingenuitá del sentimento popolare e creò una nuova poetica, che non fu [p. 30 modifica]senza grande influenza sul suo avvenire. L’arte italiana nasceva non in mezzo al popolo ma nelle scuole, fra san Tommaso e Aristotele, tra san Bonaventura e Platone.

La poesia di Guido ha il difetto della sua qualitá: la profonditá diviene sottigliezza, e l’immaginazione diviene rettorica, quando vuole esprimere sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di Amore, e dice che quel dardo

                                              per gli occhi passa, come fa lo trono6,
che fèr per la finestra della torre
e ciò, che dentro trova, spezza e fende.
     Rimagno come statua d’ottono,
ove spirto né vita non ricorre,
se non che la figura d’uomo rende.
     

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo da Lentino. Ci si vede l’uomo d’ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d’innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.

Immensa fu l’impressione che produsse questa poesia di Guido, se vogliamo giudicarla da quella che n’ebbe Dante, che lo imitò tante volte, che lo chiamò «padre suo», che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua canzone sulla «nobiltá», che ebbe la stessa scuola poetica, che nota la celebritá a cui venne l’uno e l’altro Guido7 e aggiunge:

                                                                       e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerá di nido.
     

Guido oscurò tutt’i trovatori e sali a gran fama presso un pubblico avido di scienza e pieno d’immaginazione, di cui Guido era il ritratto; un pubblico uscito dalle scuole, per il quale [p. 31 modifica]poesia era sapienza e filosofia, veritá adorna, e che non pregiava i versi se non come velame della dottrina:

                                         Mirate la dottrina che s’asconde
sotto il velame delli versi strani.
     

Tal poeta, tal pubblico. E si andò cosi formando una scuola poetica, il cui codice è il Convito di Dante.

Se Bologna si gloriava del suo Guido, Arezzo avea il suo Guittone, Todi il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.

Dante mette Guittone tra quelli che «sogliono sempre ne’ vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe». Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui e che per l’andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose, non sará alcuno che non stimerá giusta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo: che nel poeta sentí l’uomo; quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica, una elevatezza morale, una certa energia d’espressione. L’uomo ci è, non l’innamorato, ma l’uomo morale e credente, e dalla sinceritá della coscienza gli viene quella forza. E c’è anche l’uomo colto, una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento.

I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita, ma sottili e ingegnosi discorsi che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebritá che fu tenuto per qualche tempo il primo de’ poeti; ma nella sua vecchia etá si vide oscurato da’ nuovi astri, onde dice il Petrarca:

                                                                       .  .  .  Guitton d’Arezzo,
che di non esser primo par ch’ira aggia.
     

Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci, con grande ira di Dante, che esclama: «Cessino i seguaci dell’ignoranza, che estollono Guittone d’Arezzo».

Guittone non è poeta, ma un sottile ragionatore in versi, senza quelle grazie e leggiadrie che con si ricca vena d’immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia, [p. 32 modifica]che condusse poeti inferiori a lui di coltura e d’ingegno a polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.

Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone, come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie di un santo, animato dal divino amore. Non sa di provenzali o di trovatori o di codici d’amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte e non cerca pregio di lingua e di stile, anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole: dare sfogo ad un’anima traboccante di affetto, esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta cosi fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico, si che le sue poesie ci furono conservate come un libro di divozione anziché come lavoro letterario. E nondimeno c’è in Iacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione, che non trova ne’ poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e l’efficacia che desta tanto incendio nell’anima religiosa di Iacopone, avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica, ma piú popolare e sincera.

Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de’ suoi aspetti con assai piú di sinceritá e di veritá che non trovi in nessun trovatore. È il sentimento religioso nella sua prima e natia espressione, come si rivela nelle classi inculte, senza nube di teologia e di scolasticismo e portato sino al misticismo ed all’estasi. In comunione di spirito con Dio, la Vergine, i santi e gli angeli, parla loro con tutta dimestichezza e li dipinge con perfetta libertá d’immaginazione, co’ particolari piú pietosi e piú affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall’amore. Maria è soprattutto il suo idolo, e le parla con la familiaritá e l’insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla:

                                              Di’, Maria dolce, con quanto disio
miravi ’l tuo figliuol Cristo mio Dio.
     Quando tu il partoristi senza pena,
la prima cosa, credo, che facesti,
     
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                                         si l’adorasti, o di grazia piena,
poi sopra il fíen nel presepio il ponesti;
con pochi e pover’ panni lo involgesti,
maravigliando e godendo, cred’io.
     Oh quanto gaudio avevi e quanto bene,
quando tu lo tenevi nelle braccia!
Dillo, Maria, ché forse si conviene
che un poco per pietá mi satisfaccia.
Baciavil tu allora nella faccia,
se ben credo, e dicevi: — O fígliuol mio! —
     Quando «fígliuol», quando «padree signore»,
quando «Dio», e quando «Gesú» lo chiamavi;
oh quanto dolce amor sentivi al core,
quando ’n grembo il tenevi ed allattavi!
quanti dolci atti e d’amore soavi
vedevi, essendo col tuo fígliuol pio!
     Quando un poco talora il di dormiva,
e tu destar volendo il paradiso,
pian piano andavi che non ti sentiva,
e la tua bocca ponevi al suo viso,
e poi dicevi con materno riso:
— Non dormir piú, ché ti sarebbe rio.
     
Sotto l’impressione del sentimento religioso, Iacopone indovina tutte le gioie e le dolcezze dell’amor materno. Iacopone non concepisce il divino nella sua purezza, come un teologo o un filosofo, ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia, còlta dal vero, con una franchezza di colorito e con una grazia di movenze, tutta intuitiva. Preghiere, sdegni, follie d’amore, fantasie, estasi, visioni, tutto trovi in Iacopone al naturale e come gli viene di dentro: ciò che ci è piú semplice e commovente, e ciò che ci è piú strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo: ed ora è

soave, efficace, quasi elegante; ora stravagante e plebea. Ha una facilitá che gli nuoce, ed un impeto di espressione che non dá luogo alla lima. Ma ne’ suoi impeti gli escono forme di dire cosi fresche e felici, che non disdegnarono d’imitarle Dante e il Tasso. Né è meno terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:

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                                              Andiam tutti a vedere
Iesú quando dormia.
La terra, l’aria e il cielo
fiorir, rider facia:
tanta dolcezza e grazia
dalla sua faccia uscia.
     
La faccia di Gesú bambino, il natale, la Vergine, il volo dell’anima al paradiso, gli angioli, sono visioni piene di grazia e di efficacia. Nascendo Gesú:
                                              e gerarchie superne
dal cielo eran discese:
lucean come lucerne
di foco ardente accese
le loro ale distese.
     
Gesú ha un corteggio di donne che gli danzano intorno: Verginitá, Umiltá, Caritá, Speranza, Povertá, Astinenza; è qualche cosa di simile alle «tre sorelle» di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Iacopone descrive l’Umiltá:
                                              E questa era gioconda,
onesta e mansueta,
e con la treccia bionda,
e a cantar la piú lieta;
d’ogni virtú repleta,
a me ’l capo chinava:
tanto m’assecurava
ch’i’ presi a favellare.
     
Quella stessa immaginazione, che dipinge con tanta grazia, rappresenta con evidenza terribile i terrori dell’anima peccatrice nel giudizio universale:
                                              Chi è questo gran Sire,
rege di grande altura?
Sotterra i’ vorria gire,
tal mi mette paura.
     
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                                         Ove potria fuggire
dalla sua faccia dura?
Terra, fa’ copritura,
ch’io noi veggia adirato.
.   .   .   .   .   .   .   .   .
     Non trovo loco dove mi nasconda,
monte né piano né grotta o foresta;
ché la veduta di Dio mi circonda,
e in ogni loco paura mi desta...
     Tutti li monti saranno abbassati,
e l’aire stretto e i venti conturbati,
e il mare muggirá da tutti i lati.
Con Tacque lor staran fermi adunati
i fiumi ad aspettare.
     Allor udrai dal ciel tromba sonare,
e tutti i morti vedrai suscitare
avanti al tribunal di Cristo andare,
e ’l foco ardente per l’aria volare
con gran velocitate.
     
Iacopone non è un’apparizione isolata, ma si collega a tutta una letteratura latina popolare, animata dal sentimento religioso. Lá trovi il Salve regina, e l’Ave maris stella, e il Dies irae, e drammi e vite di santi scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano giá cantici e laudi: di Bonifazio papa c’è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia, la passione e morte di Cristo, le visioni e i miracoli de’ santi, i lamenti e le preghiere delle anime purganti, le mistiche gioie del paradiso, i terrori dell’inferno, erano il tèma comune de’ predicatori e rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze, sotto il nome di «misteri», «feste», «moralitá». È rimasta memoria di una visione dell’inferno, con la quale Gregorio settimo quando era predicatore atterriva l’immaginazione de’ suoi uditori; ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra, mio paese nativo, ricordo che nella festa della Madonna, quando la processione è giunta sulla piazza, comparisce l’angiolo che fa l’annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell’angiolo, che allora apriva la rappresentazione annunziando l’argomento. È nota la grande rappresentazione dell’altro mondo in Firenze, che, rottosi il ponte di legno sull’Arno, costò la vita a molte persone.
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Questa materia religiosa, che ispirò tanti capilavori di pittura e di scultura e di architettura, era efficacissima fonte di poesia, congiungendo in sé il fantastico e l’affetto, il divino e l’umano, e nelle sue gradazioni dall’inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso popolare, che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa, il cui proprio teatro è l’altra vita, a cui questa è preparazione, l’uomo mescolava le sue passioni terrene, le sue vendette, i suoi odii, le sue opinioni, i suoi amori. Maria era l’anello che giungeva la terra al cielo, e il devoto le parla con tutta familiaritá e le ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:

                                              Ricevi, donna, nel tuo grembo bello
le mie lagrime amare.
Tu sai che ti son prossimo e fratello,
e tu noi puoi negare.
     
Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore, a lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria, Gesú, i santi, gli angioli, Lucifero non bastano; l’immaginazione popolare personifica le virtú, e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla divinitá, rappresentandole con ogni libertá, come fa Iacopone e come si vede ne’ bassirilievi e in tante opere di scultura e di pittura. E come il paganesimo ne’ suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente, anche le figure pagane entrano in questo mondo, torte dal senso letterale e vòlte a significato generale, come Giove, Plutone, Amore, Apollo, le muse, Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra, la storia religiosa assorbiva in sé tutt’i tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale, opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza, non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro, il sentimento di un di lá della vita, di un infinito non rappresentabile, superiore alla forma, che riempie Io spazio di grandi ombre; e quelle mescolanze di divino e di terreno, di antico e di moderno, di serio e di comico non sono ben fuse, anzi stannosi accanto crudamente, e in luogo di armonizzare producono un’impressione irresistibile di contrasto, di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico, e quel difetto di armonia è il grottesco; e però il gotico e il grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo, com’è nella sua prima ingenuitá, non ancora vinto e domato dall’arte. Il sublime del gotico si sente nel Giudizio universale di Iacopone, dove la veduta di Dio ti circonda, senza che tu lo veda, chiarissimo al sentimento, inaccessibile all’immaginazione. Il peccatore vede sonar le trombe, turbati i venti, l’aria immobile, e i fiumi fermarsi, e il mare muggire, e il fuoco volare per l’aria; dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio, ma non lo guarda, non gli dá forma: non è un’immagine, è un sentimento senza forma, che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi, che sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo, pieni di movimento e di armonia:
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                                         Ché la veduta di Dio mi circonda
e in ogni loco paura mi desta.
     

È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è il grottesco, una mescolanza delle cose piú disparate, senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che, se fatto con intenzione, è comico; fatto con rozza ingenuitá, è grottesco. Trovi il plebeo, l’indecente, il disgustoso misto coi piú gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Iacopone non è giá un contrasto che celi alte intenzioni artistiche, ma rozza natura, cosi discorde e mescolata come si trova nella realtá. Ecco il principio del cantico 48:

                                              O Signor, per cortesia,
mandarne la malsania;
     
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                                         a me la febbre quartana,
la continua e la terzana;
a me venga mal de dente,
mal de capo e mal de ventre,
mal de occhi e doglia de fianco,
la postema al lato manco.
     

La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de’ trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme, non penetrata di alcuna realtá. In Iacopone è realtá ancora naturale, non ancora spiritualizzata dall’arte; è materia greggia, tutta discorde, che ti dá alcuni tratti bellissimi, niente di finito e di armonico.

Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale, un certo modo di condursi con regola e prudenza; e anch’essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia, è pura esperienza e tradizione, nella forma di motto o proverbio, che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la piú antica forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:

                                              Ancella donnea,
se donna follea.

In terra di lite
non poner vite.

Uomo che ode, vede e tace,
vuol vivere in pace.

Chi parla rado
tenuto è a grado.
     

Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Iacopone in un suo carme, una specie di catechismo a uso della vita, illustrati brevemente da qualche immagine o paragone, ora goffo, ora egregio di concetto e di forma. Sulla vanitá della vita dice:

                                              Lo fior la mane è nato:
la sera il véi seccato.
     
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Ciò che nella sua semplicitá ha piú efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano, la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:
                                    Fresca è la rosa di mattino: e a sera
ella ha perduta sua bellezza altera.
     

I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini, come fa l’immaginazione popolare; e nella loro brevitá e succo è il principale attrattivo:

                                         Ove temi pericolo,
non fare spesso posa.
     Sappi di polver tollere
la pietra preziosa,
e da uom senza grazia
parola graziosa;
dal folle sapienzia,
e dalla spina rosa.
Prende esempio da bestia
chi ha mente ingegnosa.
     Vediamo bella immagine
fatta con vili deta;
vasello bello ed utile
tratto di sozza creta.
Pigliam dai laidi vermini
la preziosa seta,
vetro da laida cenere,
e da rame moneta.
     Non dimandare agli uomini
che lor nega natura:...
e non pregar la scinda
di bella portatura,
né il bue né l’asino
di dolce parladura...
     Quel che non si conviene,
ti guarda di non fare:
né messa ad uomo laico,
né al prete saltare;
     
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                                         non dece spada a femmina,
né ad uomo Io filare...
     Non piace se ’n suo loco
non ponesi la cosa.
Innanzi che ti calzi,
guarda da qual piè è l’uosa.
Se leggi, non far punto
dove non è la posa;
dov’è piana la lettera,
non fare oscura glosa.
     In ogni cosa al prossimo
ti mostra mansueto...
Da nimistate guardati,
se vuoi viver quieto...
A quel modo confórmati
che trovi nel paese:
al genovese, in Genova,
ed in Siena, al sanese...
     Uomo, che spesso volgesi,
da tuo consiglio caccia.
Se vedi volpe correre,
non dimandar la traccia.
Non ti sforzare a prendere
piú che non puoi con braccia:
ché nulla porta a casa
chi la montagna abbraccia...
     Quando puoi esser umile,
non ti dimostrar forte:
il muro tu non rompere,
se aperte son le porte...
Con signore non prendere,
se tu puoi, quistione;
ch’el ti ruba ed ingiuria
per piccola cagione,
e tutti gli altri gridano:
— Messere ha la ragione — ...
     Uomo senz’amicizia
castello è senza mura...
Quell’ è buona amicizia,
che d’ogni tempo dura:
     
[p. 41 modifica]
                                         povertá non la parte,
né nulla ria ventura.
     Quel che tu dici in camera,
non dire in ogni loco.
A piaga metti unguento,
non vi mettere il fuoco...
     

E cosi hai motto a motto, spesso senz’altro legame che il caso, qual piú, qual meno felice, in quella forma sentenziosa ed esemplata che è propria dell’immaginazione popolare, prima ancora che nasca la favola e il racconto. E trovi certo piú gusto in queste prime rozze formazioni cosi piene della vita e del sentire comune, che ne’ sonetti e canzoni morali in forma piú artificiosa, ma contorta e scolastica, di Onesto e Semprebene e altri trovatori.

Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a’ santi, con l’immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche, avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora piú vivace e concentrata che non è oggi, allargata com’è e diffusa in quegl’immensi spazi che si chiamano «regni». Certo, i costumi si polivano come la lingua; ma religione e cavalleria, misteri e romanzi, se colpivano le immaginazioni, poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era troppo reale, troppo appassionata e troppo presente, perché potesse esser vista con la serenitá e la misura dell’arte. Si manifesta con la forma grossolana dell’ingiuria, appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso:

                               Quando l’asino raglia, un guelfo nasce.      

Questa forma primitiva dell’odio politico, amara anche nel motteggio e nell’epigramma, e cosi sventuratamente feconda tra noi anche ne’ tempi piú civili, non esce mai dalle quattro mura del comune, con particolari e allusioni cosi personali, che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo, in questo antico esempio di satira politica vedi [p. 42 modifica]il volgare condotto a tutta la sua perfezione, e ci senti uno spirito e una vivacitá propria dell’acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino, con quel suo parlare sotto figura per allusioni, che non ne comprendiamo un’acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra un castello incantato, dove l’uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de’ grandi avvenimenti di cui l’Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero, tra guelfi e ghibellini, o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale, al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo, tutto va a finire lá, nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia, appena un’ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo, eco delle preoccupazioni e ansietá pubbliche, quando Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta, ma la grande strage che ne verrá:

                                    Ed avverrá tra lor fera battaglia,
e fia sanfaglia — tal, che molta gente
sará dolente, — chi che n’abbia gioia.
     E molti buon destrier coverti a maglia,
in quella taglia — saran per niente;
qual fia perdente — allor convien che muoia.
     

A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co’ suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de’ pericoli e delle passioni de’ combattenti, che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.

Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari aspetti, religioso, morale, politico, spicca piú, perché in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica, divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza era come un mondo nuovo, nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come [p. 43 modifica]il Vangelo, che s’imparava e non si discuteva. A quel modo che troiani, romani, franchi e saraceni, santi e cavalieri erano nell’immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone, Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere, e chi sapeva piú era piú ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profonditá era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti, stupite che un uomo potesse saper tanto ed esporre in verso Aristotile e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe piú nulla, se Dante non avesse eternato l’uomo e il suo libro in quei versi celebri:

                                         Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel quale i’ vivo ancora.
     

La scienza in Brunetto è materia cosi rozza e greggia com’è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa, cosi crudamente come gli è venuto dalla scuola e senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che dice gli pare cosi importante, e pareva cosi importante a’ suoi contemporanei, ch’egli non chiede altro, e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.

Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante, che compirono i loro studi nell’universitá di Bologna, dalla quale usci pure Cino da Pistoia. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche e diviene materia di teologia e di filosofia. Si discute sulla sua origine, su’ suoi fenomeni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso, il senso teologico e filosofico, di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso, e cerca dietro di quello la scienza. L’esistente non è per lui che un velo del pensiero, una forma dell’essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo «forma del bene». [p. 44 modifica]Il corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale; spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina. L’allegoria, che era giá prima la forma naturale di una coltura poco avanzata, diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico, disposizione dello spirito aiutata dall’uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero, esercitato nelle lotte scolastiche, era giá tanto vigoroso che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l’allegoria, ma il nudo concetto scientifico, sviluppato dal ragionamento e da tutt’i procedimenti scolastici. Cino, Cavalcanti e Dante erano tra’ piú dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l’astratto, e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando, ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.

Cino, maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo, fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quella etá. Ristoratore del diritto romano, aperse nuove vie alla scienza, e non fu uomo, come dice Bartolo, che piú di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L’amore di Selvaggia lo fece poeta, ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti come poeta, egli li sottopone ad analisi come critico e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo dell’astrazione, ogni limite del reale si perde; e quella stessa sottigliezza, che legava insieme i concetti piú disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtá e di ogni senso comune, creava ora una scolastica poetica o, per dirla col suo nome, una rettorica ad uso dell’amore, piena di figure e di esagerazioni, dove vedi comparire gli spiritelli d’amori che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone vive, abbondano le personificazioni. In un suo sonetto, de’ meglio condotti e di grande perfezione tecnica, vuol dire che nella sua donna è posta [p. 45 modifica]la salute: mèta si alta, che avanza ogni sforzo d’intelletto, e però non resta altro che morire. Questo è rettorica, non solo per la strana esagerazione del concetto, ma per il modo dell’esposizione scolastico e dottrinale:

                                              Questa donna, che andar mi fa pensoso,
porta nel viso la virtú d’Amore:
la qual fa disvegliar altrui nel core
lo spirito gentil che vi è nascoso.
     Ella m’ha fatto tanto pauroso,
poscia ch’io vidi quel dolce signore
negli occhi suoi con tutto ’l suo valore,
ch’i’ le vo presso e riguardar non l’oso.
     E s’avvien poi che quei begli occhi miri,
io veggio in quella parte la salute,
ove lo mio intelletto non può gire.
     Allor si strugge si la mia vertute,
che l’anima che move li sospiri,
s’acconcia per voler del cor fuggire.
     

Una cosi strana esagerazione non può essere scusata che dall’impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n’è vestigio; ed hai invece una specie di tèma astratto, che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto, animo, core, sospiri, virtú di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule ghibellino, si levò a grande speranza, quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte, scrisse una canzone. Quale materia di poesia! dove dovrebbero comparire le speranze, i disinganni, le illusioni e i dolori dell’esule. Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte e l’immortalitá della virtú. Ancora piú astratta e arida è la canzone sulla natura d’amore di Guido Cavalcanti, dottissimo di filosofia e di rettorica; la qual canzone fu tenuta miracolo da’ contemporanei.

Adunque, la vita religiosa, morale e politica era appena nella sua prima formazione, e la splendida vita che raggiava da [p. 46 modifica]Bologna era anch’essa materia greggia, pretta vita scientifica, messa in versi.

Siamo alla seconda metá del Dugento. La Sicilia, malgrado la sua Nina, è giá nell’ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze, l’una centro del movimento scientifico, l’altra centro dell’arte. Nell’una prevaleva il latino, la lingua de’ dotti; nell’altra prevaleva il volgare, la lingua dell’arte.

L’impulso scientifico partito da Bologna, traendosi appresso anche la poesia, dava il bando alla superficiale galanteria de’ trovatori: il pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de’ poeti spontanei e popolari finisce per sempre.

Il nuovo poeta scrive con intenzione. Piú che poeta, egli è lume di scienza; si chiama Brunetto Latini, l’enciclopedico; Cino, il primo giureconsulto dell’etá; Cavalcanti, filosofo prestantissimo Dante, il primo dottore e disputatore de’ tempi suoi. Scrivono versi per bandire la veritá, spiegare popolarmente i fenomeni piú astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento, la bella veste della veritá o della filosofia, «uso amoroso di sapienza», come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scientifica; ma ci è pure una intenzione artistica di ornare e di abbellire. L’artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è giá visibile in Guido Guinicelli.

E in Toscana, massime in Firenze, che si forma questa coscienza dell’arte. Il volgare, venuto giá a grande perfezione, era parlato e scritto con una proprietá e una grazia di cui non era esempio in nessuna parte d’Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna, i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto, e sorgeva la nuova scuola, la quale, se a Bologna significava «scienza», a Firenze significava «arte».

Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è giá notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre, e cerca non solo la proprietá ma anche la venustá del dire. Aveva animo gentile e affettuoso e orecchio musicale. [p. 47 modifica]Se a lui manca l’evidenza e l’efficacia, virtú della forza, non gli fa difetto la melodia e l’eleganza, con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo, Francesco Petrarca.

Ecco un esempio della sua maniera:

                                              Poiché saziar non posso gli occhi miei
di guardare a Madonna il suo bel viso,
mireròl tanto fiso
ch’io diverrò felice lei guardando.
     A guisa di angel che di sua natura,
stando su in altura,
divien beato sol vedendo Iddio;
cosi, essendo umana criatura,
guardando la figura
di questa donna che tiene il cor mio,
potria beato divenir qui io.
     

Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna, che ispirò le tre sorelle del Petrarca, il quale ne imitò anche la fine, che è piena di grazia:

                                              Or se prendete a noia

lo mio amore, occhi d’amor rubegli,
foste per comun ben stati men begli.
     Agli occhi della forte mia nemica
fa’, canzon, che tu dica:
— Poi che veder voi stessi non possete,
vedete in altri almen quel che voi séte.||     

E ci ha pure parecchi sonetti, dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicitá il suo stato, e sono teneri e affettuosi. Meno apparisce dotto e piú si rivela artista.

La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualitá tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso, né fino a quel tempo la lingua sonò si dolce in nessun poeta, rendendo imagine di un bel marmo polito da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza. Ma qualitá piú serie e piú profonde si rivelano [p. 48 modifica]in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma, anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia, pose ogni studio a dirozzarla e fissarla, e scrisse una gramadca e un’arte del dire. Egli, nota Filippo Villani, dilettandosi degli studi rettoria’, essa arte in composizioni di rime volgari legantemente e artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare su’ contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e si nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Cosi Guido divenne il capo della nuova scuola, il creatore del nuovo stile e oscurò Guido Guinicelli:

                                              Cosi ha tolto l’uno all’altro Guido
la gloria della lingua.
     

Ma la gloria della lingua non bastava a Guido, a cui lingua e poesia erano cose accessorie, semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio, parendogli, dice il Boccaccio, «la filosofia, siccome ella è, da molto piú che la poesia». Sottilissimo dialettico, come lo chiama Lorenzo de’ Medici, introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche, e mira a questo: non solo di dir bene, ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua canzone dell’Amore come si fa un trattato filosofico, e ne fecero comenti, come si soleva di Aristotile e di san Tommaso: anche piú tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Cosi Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore, ma come sommo filosofo.

Questo voleva Guido e questo ottenne, questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra’ contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l’artista.

Ma Guido fu dotto piú che scienziato. Fu benemerito della scienza perché la divulgò, non perché vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice piú che artista, inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma: vanto non piccolo, ma che tocca la sola superficie dell’arte.

La gloria di Guido fu lá dov’egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell’animo. Fu lá, ch’egli senza volerlo e [p. 49 modifica]saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era piú grande ch’egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.

Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l’affetto del reale. Le vuote generalitá de’ trovatori, divenute poi un contenuto scientifico e rettorico, sono in lui cosa viva, perché, quando scrive a diletto e a sfogo, rendono le impressioni e i sentimenti dell’anima. La poesia, che prima pensava e descriveva, ora narra e rappresenta, non al modo semplice e rozzo di antichi poeti, ma con quella grazia e finitezza a cui era giá venuta la lingua, maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette, egregiamente caratterizzate, che gli cavano di bocca il suo segreto d’amore. Lá è una pastorella che incontra nel boschetto, e ti abbozza una scena d’amore còlta dal vero. Sono gli stessi concetti de’ trovatori, ma realizzati; non solo ornati e illeggiadriti al di fuori, ma trasformati nella loro sostanza, divenuti caratteri, immagini, sentimenti, cioè a dire vita e azione. Senti lá dentro l’anima dello scrittore, ora lieta e serena, che si esprime con una grazia ineffabile, come nelle ballate delle forosette e della pastorella; ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell’immaginazione e nella tenerezza dell’affetto, come nella ballata che scrisse esule a Sarzana, il canto del cigno, il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro, naturale, semplice, sobrio, con perfetta misura tra il sentimento e l’espressione. Il poeta non pensa a gradire, a cercare effetti, a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso, come si sente in un certo stato dell’animo, senz’altra pretensione che di sfogarsi, di espandersi, segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sé:

                                                        I’ mi son un che, quando
Amore spira, noto ed a quel modo
ch’ei detta dentro, vo significando.
     
[p. 50 modifica]

Il che non avvenne del notaio da Lentino, di Guittone, rimasti al di qua del «dolce stil nuovo», perché esagerarono i sentimenti, andarono al di lá della natura, per «gradire», piacere a’ lettori:

                                              E qual piú a gradire oltre si mette,
non vede piú dall’uno all’altro stilo.
     

Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guido Guinicelli, il fabbro fu Cino, il poeta fu Guido Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza piú chiara dell’arte. La filosofia per sé sola fu stimata insufficiente, e si richiese la forma. Guittone d’Arezzo non fu piú apprezzato, quantunque «di filosofia ornatissimo, grave e sentenzioso», come dice Lorenzo de’ Medici, perché gli mancava lo stile, «alquanto ruvido e severo, né di alcun dolce lume di eloquenza acceso». Anche Benvenuto da Imola chiama «nude» le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze, ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso, il senso della forma.

A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i piu diversi aspetti. Dante da Maiano era un’eco de’ trovatori, con la sua Nina siciliana. Guittone, Brunetto, Orbiciani da Lucca erano poeti dotti ma rozzi, come i bolognesi Onesto e Semprebene. Ma giá il culto della forma, l’amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi, Rustico di Filippo, Guido Novello, Lapo Gianni, Cecco d’Ascoli sono il corteggio, nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.

Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri, legati insieme da un’amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le «nuove rime», e fu tale l’impressione ch’ei sali subito accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profonditá della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua canzone:

                                         Donne, ch’avete intelletto d’amore;      
[p. 51 modifica]e ancora piú l’altra:
                                         Voi, che intendendo il terzo ciel movete.      

Dante avea la stessa opinione. II dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza, usando modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella canzone, dove esorta la donna a dispregiare uomo che «da sé virtú fatta ha lontana», dice:

                                         Ma perocché ’l mio dire util vi sia,
discenderò del tutto
in parte ed in costrutto
piú lieve, perché men grave s’intenda;
che rado sotto benda
parola oscura giugne allo ’ntelletto;
per che parlar con voi si vuole aperto.
     

E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti, aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:

                                         Voi, che intendendo il terzo ciel movete;      

e parendogli che senza quel comento la canzone, presa in se stessa, rimanga fuori dell’intelligenza volgare, finisce cosi:

                                              Canzone, i’ credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
tanto lor parli faticosa e forte;
onde, se per ventura egli addiviene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d’essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
dicendo lor, diletta mia novella:
— Ponete mente ahnen com’io son bella.
     

C’era dunque nell’intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta dal ragionamento, ora sotto il velo dell’allegoria, ma in modo che la poesia, quando anche non fosse compresa da’ piú, avesse un valore in se stessa, fosse [p. 52 modifica]bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua piú alta espressione, una coscienza artistica piú chiara e piú sviluppata. Il rispetto della veritá scientifica è tale, che Dante si domanda come, essendo amore non sostanza ma accidente, possa egli farlo ridere e parlare come fosse persona. E adduce a sua difesa che i rimatori, che fanno versi in volgare hanno gli stessi privilegi de’ poeti, nome che dá a’ latini, i quali, come Virgilio, Ovidio, Lucano, Orazio, diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama «rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico», qualificando rimatori stolti quelli che, domandati, non sapessero «dinudare le loro parole da cotal vesta». Onde si vede che Dante e Cavalcanti, ch’egli qui chiama il suo primo amico, spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota di contenuto8, e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica, rimasa per molti secoli l’ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò «condire il vero in molli versi».

Con queste teorie, con queste abitudini della mente, parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica, concetti coloriti. Di tal natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltá

                                         Le dolci rime d’amor ch’i’ solia.      
e l’altra:
                                         Amor, tu vedi ben che questa donna,      
dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell’amore e della natura sono spiegati scientificamente, piú che rappresentati, com’è l’inverno nella canzone:
                                         Io son venuto al punto della rota,      
[p. 53 modifica]
e come è l’amore nella canzone:
                                         Amor, che muovi tua virtú dal cielo,      
e come è la bellezza nella canzone:
                                         Amor che nella mente mi ragiona.      

Delle canzoni allegoriche e scientifiche la piu accessibile e popolare è quella delle tre donne, Drittura, Larghezza, Temperanza, germane d’amore, che cacciate dal mondo vanno mendicando:

                                         Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
e cui virtute e nobiltá non vale.
Tempo fu giá nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
     

Qui il poeta non ragiona, ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacitá della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito, ma è la sostanza.

In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacitá e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi. Egli fu il suo proprio cementatore, avendo nella Vita nuova e nel Convito spiegata l’occasione, il concetto, la forma delle sue poesie. E quanto alla parte tecnica, all’uso della lingua, del verso e della rima, nel suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt’i piú riposti artifici. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la piú leggiadra veste rettorica.

Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s’era ita finora elaborando, con maggior varietá e con piú chiara coscienza. Il dio di questo mondo è Amore, prima con le ammirazioni, i tormenti e le immaginazioni della giovanezza, poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può [p. 54 modifica]operare che ne’ cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltá o da ricchezza, ma da virtú. E però le virtú sono suore d’Amore e fanno star lucente il suo dardo finché sono onorate in terra. Ma la virtú è in pochi, e l’amore è perciò «di pochi vivanda». L’obbietto dell’amore è la bellezza, non il «bello di fuori», le parti nude; ma il «dolce pomo», concesso solo a chi è amico di virtú. La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi «intendanza», e Dante non dice «sentire amore», ma «avere intelletto d’amore». Ad appagare l’amore basta il vedere, la contemplazione. Vedere è amore, amore è intendere.

                                              E chi la vede e non se n’innamora,
d’amor non averá mai intelletto.
     
Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:
                                         Voi, che intendendo il terzo ciel movete.      
Dio move l’universo pensando:
                                         Costei pensò chi mosse l’universo.      

Né altro è amore nell’uomo che «nova intelligenza che lo tira su», lo avvicina alla prima intelligenza. La donna, esemplare della bellezza, è «nobile intelletto»:

                                              .   .   .   .   .   .   O nobile intelletto,
oggi fu l’anno che nel ciel partisti.
     

La donna è perciò il viso della conoscenza, la bella faccia della scienza, che invaghisce l’uomo e sveglia in lui nova intelligenza, lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima, è la filosofia nella sua bella apparenza; e questo è la bellezza, il dolce pomo consentito a pochi. Intendere è amore, e amore è operare come s’intende; perciò filosofia è «uso amoroso di sapienza», scienza divenuta azione mediante l’amore. La virtú non è altro che sapienza, vivere secondo i dettati della [p. 55 modifica]scienza. Perciò l’amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella:

                                              Beitate appare in saggia donna pui
che piace agli occhi.  .  .  .
     
La beltá non è altro che l’apparenza della saggezza, si che piaccia e innamori di sé.

Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso, secondo il quale il corpo è velo dello spirito, e la bellezza è la luce della veritá, la faccia di Dio, somma intelligenza, contemplazione degli angioli e dei santi. Dio, gli angioli, il paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si dánno la mano.

È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integritá e con cosi perfetta coscienza. E l’idealismo di quel tempo, con la sua forma naturale, l’allegoria. Aggiungi l’opera della immaginazione, che dá alle figure tanta vivacitá di colorito, ed hai l’ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.





  1. Il tuo amore, il tuo innamorato,
  2. Gemme.
  3. Non ha fine o effetto.
  4. «Errore», errare di mente, inquietudine.
  5. Come dice Dante:
                                                  Amore e cor gentil sono una cosa,
    siccome il Saggio in suo dittato pone.
         
  6. Tuono.
  7. Guido Guinicelli e Guido Cavalcanti.
  8. Dice cosi: «Questo mio primo amico ed io ne sapemo bene di quelli che cosi rimano stoltamente».