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Adone/Canto XIII

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Canto XIII

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Canto XII Canto XIV
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A L L E G O R I A

La prigionia d’Adone con tutti gli strazii che sopporta da Fal-
sirena, ci fa scorgere gli effetti della Superbia, quando per esser
disprezzata entra in furore; e la vita tribulata del peccatore,
quando addormentato nel vizio, e impigrito nella consuetudine,
si lascia legare dalle catene delle pericolose tentazioni. Il cangiarsi
in uccello è mistero della leggerezza giovanile, che vaneggiando,
non ha ne’ suoi amorosi pensieri giá mai fermezza. La Fontana,
in virtú della cui acqua egli ritorna al suo primo essere, allude
alla divina grazia, la qual col mezo de la penitenza restituisce
all’uomo la sua vera iinagine, giá contrafatta per lo peccato. Vulcano è simbolo di Satana: zoppo, per la privazione d’ogni bene,
brutto, per la perdita de’ doni della grazia, abitatore di caverne,
per la stanza delle tenebre infernali, destinato all’essercizio del
fuoco, per lo ministerio delle fiamme eterne. L’uno dopo l’avere
incatenato Adone, cerca d’ucciderlo. E l’altro dopo l’aver sottoposto l’uomo alla sua tirannide, procura in tutto di dar morte
all’anima. Se non che Mercurio, figura della celeste e vera Sapienza,
lo consiglia, l’aiuta, e rende vane tuttequante le diaboliche insidie. La noce d’oro, ch’aperta somministra altrui lautissime mense,
oltre Tesser simbolo della perfezzione, e della bontá, vuol significare che Toro si fa abondanza in qualsivoglia luogo, ancor che
sterile, e che al ricco non manca da vivere morbidamente nelle
penurie maggiori. L’Interesse con Torecchie asinili, che non gode
della dolcezza dell’armonia, anzi l’aborre, ci rappresenta l’Avarizia
e l’Ignoranza, che non si curano di Poesie, né si compiacciono di
Musiche. La trasformazione della Fata e sue donzelle in bisce
adombra l’abominevole condizione delle bellezze terrene, e delle
delizie temporali, le quali paiono altrui in vasta belle, ma son piene
di difformitá e di veleno.

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ARGOMENTO

Tenta la Maga invan l’arti profane,
poi schernir cerca Adon sott’altra forma.
L’addormenta, l’inganna, e lo trasforma,
egli fugge, altri il segue, ella rimane.

1.Chi fu, ch’a la tua lingua, o Zoroastro,
concesse in prima autoritá cotanta?
Donde apprese il tuo ingegno ad esser mastro
de l’arte detestabile ch’incanta?
l’arte, che contro ogni possanza d’astro
vincer Natura e dominar si vanta?
E come ponno iniqui carmi e rei
de l’Inferno e del Ciel sforzar gli Dei?

2.Da qual forza fatai, che gli corregge,
o da qual patto son legati e stretti?
È necessaria o volontaria legge,
che sí gli rende altrui servi e soggetti?
Quasi chi tutto può, chi tutto regge
tema d’un uom disubbidire ai detti?
È talento o timor quel che gli move
tant’opre a far prodigiose e nove?

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3.Deh quante volte de le lievi rote,
che si volgon sí ratto intorno ai poli,
veduto ha con stupor restarsi immote
Giove l’immense e smisurate moli?
Quante vid’egli a le malvage note
le Lune in Ciel moltiplicarsi e i Soli?
scorrere i tuoni a suo dispetto e i lampi,
scotersi il mondo, e titubarne i campi?

4.Turbasi al suon de’ mormorati accenti
l’ordine de le cose, e si confonde.
Nettun senza procelle e senza venti
gonfio, i lidi del Ciel batte con Tonde.
Poi quando piú del mar fremon gli armenti
ritira il piè da le vicine sponde;
e ricurvando in sú Tumide fronti
tornan per l’erta i fiumi ai putrii fonti.

5.Ogni fera piú fera e piú rabbiosa
la sua rabbia addolcisce e disacerba.
Xon è Leone altier, Tigre orgogliosa
che non deponga allor Tira superba.
Vomita il fiel la Serpe velenosa,
e i livid’orbi suoi stende per l’erba;
e smembrata la Vipera e divisa
vive, e rintegra ogni sua parte incisa.

6.Ma com’è poi che i versi abbian potere
di separare i piú congiunti cori?
e ’l commercio reciproco e ’l piacere
santo impedir de’ maritali amori?
come, de l’alme il libero volere
anco scaldar d’involontari ardori?
ed agitar con empie fiamme insane
di maligno furor le menti umane?

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«4

LA PRIGIONE

7.Falsirena aspettò che piene avesse
Cinthia de l’orbe suo le parti sceme,
ed oportuno alfin quel tempo elesse
che congiunte avea giá le corna estreme.
E veggendo anco in Ciel le stelle istesse
seconde a l’arte sua volgersi insieme,
nel loco usato a celebrar sen venne
de’ sacrilegii suoi l’opra sollenne.

8.Sorge nel sen piú folto e piú confuso
d’un bosco antico un solitario altare,
d’alti cipressi incoronato e chiuso
lá donde il Sole orientale appare,
aperto a quella parte ov’ha per uso
depor la luce ed attuffarsi in mare.
Opaco orror l’ingombra e lo nasconde
sotto perpetue tenebre di fronde.

9.Quivi Idoletti vari e simulacri
l’innamorata Incantatrice accolse,
e quivi a piú color tre veli sacri
con caratteri e segni intorno avolse;
e poi che a’ membri suoi nove lavacri
d’un’acqua fe’, che da tre fonti tolse,
discinta, e scalza del sinistro piede,
il foco e l’ostia ad apprestar si diede.

10.Con la casta verbena e ’l maschio incenso
le fiamme pria de l’olocausto alluma,
e di vapor caliginoso e denso
e l’ara e l’aria orribilmente affuma.
Poi di virtute occulta al nostro senso
dentro il magico incendio arde e consuma
mille con falce tronche erbe maligne,
erbe a pena ancor note a le madrigne.

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11.De lo stridulo alloro asperse in esso
le nere bacche innanzi dí recise,
de la fico selvaggia il latte espresso
e de la felce il seme ella vi mise,
e la radice c’ha commune il sesso
de l’eringe spinosa anco v’intrise,
e fra gli altri velen, che dentro v’arse,
la violenta ippomene vi sparse.

12.Arse l’erbe e le piante ad una ad una,
sette volte l’altar circonda intorno,
tre s’inginocchia ad adorar la Luna,
tre la contrada ove tramonta il giorno.
D’una peccora poi lanosa e bruna
con la manca tenendo il manco corno,
con la destra il coltel, tra i fochi e i fumi
trecento invoca sconosciuti Numi.

13.E mentre che di Stige e Flegetonte
l’occulte Deitá per nome appella,
versa di nero vino un largo fonte
in fra le corna a la dannata agnella,
non pria però che da la fosca fronte
di lana un fiocco di sua man non svella,
e che noi gitti entro le brage ardenti
quasi primi tributi e libamenti.

14.Poscia con ferro acuto apre e ferisce
la gola a Lagna, e la trafige e svena,
e del sangue, che fuor ne scaturisce
caldo e fumante, un’ampia tazza ha piena.
Con l’estremo del labro indi il lambisce
lievemente cosí, che ’l gusta a pena.
Poi con olio e con mèle in copia grande
a la madre commune in sen lo spande.

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15.Una colomba ancor vaga e lasciva
uccise di candor simile al latte,
e poi che quante piume ella vestiva
tarpate l’ebbe a penna a penna e tratte,
donolle in cibo a quella fiamma viva
fin che fur tutte in cenere disfatte;
ma prima le legò ne l’ala manca
con rosso fil la calamita bianca.

16.Ciò fatto, strinse in tre tenaci nodi
una ciocca di crin, ch’io non so come,
dormendo Adon, con sue sagaci frodi
gli tolse Idonia da le bionde chiome.
Sputò tre volte, e ’n tre diversi modi
disse, l’amante suo chiamando a nome:
— Resti legato, né mai piú si scioglia
il crudo sprezzator d’ogni mia doglia. —

17.A sembianza di lui di vergin cera
imagin poi misteriosa ammassa,
e con un stecco di mortella nera
ben aguzzo e pungente il cor le passa.
E mentr’appo l’arsura atroce e fiera
a poco a poco distillar la lassa,
dice volgendo il ramoscel del mirto:
— Cosi foco d’Amor strugga il suo spirto.

18.D’Hippopotamo un core alfine ha preso,
ne la riva del Nil nato e nutrito,
che de la nova Luna ai raggi appeso,
era a la sua fredd’ombra inaridito;
e di faville oltracocenti acceso,
e di spilli acutissimi ferito,
l’agita, il move, il trae come piú vòle,
mormorando tra sé queste parole:

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19.— Ecco il cor di colui ch’io cotant’amo,
ecco ch’io gli ho sett’aghi in mezo affissi.
Ecco che ’l tiro a me poi con quest’amo
giá fabricato sotto sette ecclissi.
Ecco sette carbon fatti del ramo
che giá colse mia madre entro gli Abissi,
desti dal sacro mantice v’aggiungo,
e sette volte intorno intorno il pungo. -—

20.Da’ sacrifici abominandi ed empi
cessò la Fata, e si partí ciò detto,
perché contro colui, che duri scempi
ognor facea del suo piagato petto,
sperava pur dopo miU’altri essempi
di veder nova prova, e novo effetto.
Ma di tante fatiche al vento spese
alcun frutto amoroso indarno attese.

21.E come per magie mai, né per pianti
sperar potea rimedio a sí gran male,
se la Dea degli amori e degli amanti,
ch’invocava propizia, avea rivale?
se colei c’ha negli amorosi incanti
sovrano impero, e potestá fatale,
avea, malconcia de le piaghe istesse,
in quel ch’ella chiedea, tanto interesse?

22.Poi che con lungo studio invan compose
suggelli, e rombi, e turbini, e figure,
né seppe mai con queste ed altre cose
quelle voglie espugnar rigide e dure,
tornossi in voci amare e dolorose
con Idonia a lagnar di sue sventure.
— Lassa — diceale — in che mal punto il guardo
volsi da prima a que’ bei raggi ond’ardo!

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23.Per mia fatai (cred’io) morte e ruina
vidi tanta beltá non piú veduta.
Infin di quanto il Ciel quaggiú destina
difficilmente il gran tenor si muta.
Chi può per molte scosse in balza alpina
ben robusta piegar quercia barbuta?
quercia, ch’Austro prendendo e Borea a scherno,
tocca col capo il Ciel, col piè l’Inferno?

24.Amo statua di neve, anzi di pietra,
pertinace rigor, fermo desio.
Egli gela a le fiamme, ai pianti impètra:
né di voglia cangiar mi voglio anch’io.
Io non mi pento, ei non però si spetra,
guerreggia l’odio suo con l’amor mio.
L’uno in esser nemico, e l’altra amante,
non so chi di noi duo sia. piú costante.

25.Veggio moversi i monti anco a’ miei versi,
non ammollirsi un animato sasso.
Talor de’ fiumi indietro il piè conversi,
fermar non so d’un fuggitivo il passo.
I mostri umiliai fieri e perversi,
né d’un altier Garzon l’animo abbasso.
Da me l’Inferno istesso è vinto e dòmo,
né son possente a soggiogare un uomo!

26.Semino in onda e fabrico in arena,
persuado lo scoglio e prego il vento.
A l’Aspe Egizzio ed a la Tigre Armena
scopro la piaga mia, narro il tormento.
Idol crudel, di cui mi lice a pena
sol la vista goder, di placar tento.
Se far potesse a questa alcun riparo,
forse di questa ancor mi fora avaro!

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27.Pregando, amando, e lagrimando (ahi folle)
ottener l’impossibile credei.
Far una selce impenetrabil molle
piú tosto che quel core, io spererei.
Quanto piú foco in me vede che bolle,
tanto schernisce piú gli affanni miei.
E pur vòlta ad amar bellezze ingrate,
di chi mi fa doler prendo pietate.

28.Né per tante repulse io lascio ancora
di correr dietro a l’ostinate voglie.
Ogni altra donna alftn, che s’innamora,
se bene il morso a l’onestá discioglie,
pur sfogando il martír che l’addolora,
premio de la vergogna il piacer coglie.
Io senza alcun diletto averne tolto
sol de la propria infamia il frutto ho colto.

29.Vendo la libertá, compro il dolore:
serva son di colui che ’n career chiudo:
e pago a prezzo d’anima e di core
pianti e sospir, che ’l fanno ognor piú crudo.
Da cosí caldo e cosí saldo amore
qual mai potrebbe adamantino scudo,
se non solo quel petto, andar securo,
altrui tenero forse, a me sí duro?

30.Oh beata colei che ’l cor gl’impiaga,
felici que’ begli occhi, ond’arde tanto!
Quanto oh quanto sarei d’intender vaga
chi sia costei, c’ha di tal grazia il vanto.
Ma di pietra per certo, o d’erba maga
egli in sé cela alcun possente incanto,
poi che gióvan sí poco a far che m’ami
malíe tenaci, o magici legami. —

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31.— Lungamente sospeso — Idonia dice —
tenuto ha questo dubbio il mio pensiero.
Ma tu che badi? ed a cui meglio lice
spiar d’un tal secreto il fatto intero?
Potrai ben tu de’ fati esploratrice
sforzar gli Abissi a confessarti il vero,
tu, che sí dotta sei ne l’arti ascose,
e sai cotanto de l’oscure cose. —

32.Qui tace, ed ella allor, che ben possiede
quante ha Thessaglia incognite dottrine,
non giá di Deio i tripodi richiede,
non di Delfo riccorre a le cortine,
non di Dodona ai sacri boschi il piede
volge per supplicar querce indovine,
non a qualunque Oracolo facondo
abbia piú chiaro e piú famoso il mondo.

33.Non il moto e ’l color cura degli esti
ne l’ostie investigar de’ sacrifici,
né degli augei le cal giocondi o mesti,
secondo il volo, interpretar gli auspici,
né destri o manchi i fulmini celesti
osserva, o sieno infausti, o sien felici,
né specolando va le stelle e i Cieli,
ma piú tacite cose, e piú crudeli.

34.Nott’era, allor che dal diurno moto
ha requie ogni pensier, tregua ogni duolo,
Tonde giacean, tacean Zefiro e Noto,
e cedeva il quadrante a Formolo,
sopía l’uom la fatica, il pesce il nuoto,
la fera il corso, e l’augelletto il volo,
aspettando il tornar del novo lume
o tra l’alghe, o tra’ rami, o su le piume:

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35.quand’ella prese a proferir possenti
con lungo mormorio carmi e parole;
e bisbigliando i suoi profani accenti,
atti a fermar nel maggior corso il Sole,
il corpo s’impinguò di quegli unguenti,
onde volar qual Pipistrello suole,
e per la cui virtú spesso s’è fatta
Cagna, Lupa, Lèonza, Istrice e Gatta.

36.Sovra un monton vie piú che corvo nero,
che la lana e la barba ha folta e lunga,
monta, ed acconcio ad uso di destriero,
vuol che ’n brev’ora a Babilonia giunga.
Quel piú ch’alato fólgore leggiero
per l’aria va, senza che sprone il punga.
Ella a le corna attiensi, e non le lassa:
cavalca i nembi, e i turbini trapassa.

37.Nata tra quel Soldano era pur dianzi
e ’l Re d’Assiria aspra discordia e dura,
e venuti a giornata il giorno innanzi,
colma di morti avean la gran pianura.
Giacean de’ busti i non curati avanzi
sparsi sossovra in orrida mistura,
e gonfio con le corna insanguinate
a lavarsi nel mar correa l’Eufrate.

38.Le campagne dintorno e le foreste
son di tronchi insepolti ingombre e piene.
Veggionsi tutte in quelle parti e ’n queste
porporeggiar le spaziose arene,
fatte d’ésca crudel mense funeste
a Lupi ingordi, ed altre Fere oscene,
ch’a monte a monte accumulate in terra
le reliquie a rapir van de la guerra.

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39.Ma da la Maga, che dal Ciel discende,
son le delizie lor turbate e rotte,
onde lasciate le vivande orrende,
fuggon digiune e timide a le grotte.
Ella di fosche nubi e fosche bende,
che raddoppiano tenebre a la notte,
avolta il capo, inviluppata i crini,
di quel tragico pian scorre i confini.

40.Per que’ campi di sangue umidi e tinti
vassene col favor de l’ombra cheta,
e la confusion di tanti estinti
volge e rivolge tacita e secreta;
e mentre de’ cadaveri indistinti,
a cui l’onor del tumulo si vieta,
calcando va le sanguinose membra,
oscura cosa e formidabil sembra.

41.Non so se ’n vista sí tremenda e rea
lá ne la notte piú profonda e muta
per la spiaggia di Coleo uscir Medea
l’erbe sacre a raccòr fu mai veduta,
quand’ella giá rinovellar volea
del padre di Giason l’etá canuta.
Atropo forse sola a lei s’agguaglia
qualor d’alcun mortai lo stame taglia.

42.Scelse un ineschili di quella mischia sozza,
che passato di fresco era di vita.
Intero il volto, intera avea la strozza,
ma d’un troncon nel petto ampia ferita.
Se sia guasto il polmon, se rotta o mozza
sia l’aspra arteria ond’ha la voce uscita
prendendo a perscrutar, trova la Maga
c’ha le viscere intatte, e senza piaga.

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43.Pende il fato da lei di molti uccisi,
che de l’alta sentenza in dubbio stanno,
e qual di tanti dal mortai divisi
voglia a la luce rivocar, non sanno.
Se vuol tutti annodar gli stami incisi,
convien che ceda l’infernal Tiranno,
e le leggi de l’Herebo distrutte,
renda a le spoglie lor l’aniine tutte.

44.Or del misero corpo, a cui prescritta
l’ultima linea ancor non era in sorte,
lubrico intorno al collo un laccio gitta,
e con groppi tenaci il lega forte.
Indi acciò che piú lacera e trafitta
resti la carne ancor dopo la morte,
fin dov’entra nel monte un cupo speco
su per sassi e per spine il tira seco.

45.Fendesi il monte in precipizio, e sotto
apre la cava rupe antro profondo,
ch’arriva a Dite, e discosceso e rotto
vede i confin de l’un e l’altro mondo.
Quivi il mesto cadavere è condotto,
loco sacro per uso al culto immondo,
nel cui grembo giá mai non s’introduce,
se non fatta per arte, ombra di luce.

46.Xel sen, che quasi ancor tepido langue,
fa nòve piaghe allor la man perversa,
per cui lavando il giá corrotto sangue,
il vivo e ’l caldo in vece sua vi versa.
Gli sparge ancora in ogni vena essangue
di varie cose poi tempra diversa.
Ciò che di mostruoso unqua o di tristo
partorisce Natura, entro v’ha misto.

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47.De la Luna la spuma ella vi mesce,
la bava quando in rabbia entra il mastino,
e ’l fiel vi mette del minuto pesce
che ’l volo arresta del fugace pino.
Ponvi l’onda del mar quando piú cresce,
e di Cariddi il vomito canino,
e de l’unico augello Orientale
il redivivo cenere immortale.

48.L’incorrottibil cedro e l’amaranto,
l’immortal mirra e ’l balsamo v’interna,
la feconda virtú del grano infranto,
e de la Fera fertile di Lerna.
Del fegato di Tizio ancor alquanto,
che se medesmo rinascendo eterna,
e del seme del bombice v’ha messo,
verme possente a suscitar se stesso.

49.11 cerebro de l’aspido vi stilla,
e la midolla del non nato infante,
e del nido aquilino, onde rapida,
vi pon la pietra gravida e sonante.
Havvi l’occhio del Lince, e la pupilla
del Basilisco e del Dragon volante,
de l’Hiena la spina, e la membrana
de la Cerasta orribile Africana.

50.Le polpe del Biscion, che nel mar rosso
guarda la preziosa margherita
in fra l’altre sostanze, e ’nsieme l’osso
del Libico Chelidro anco vi trita.
La pelle v’è, c’ha la Cornice addosso
dopo ben nove secoli di vita;
né vi mancali le viscere col sangue
del Cervo alpin che divorato ha l’angue.

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51.Ferri di ceppi, e pezzi di capestri,
fili arrotati di rasoi taglienti,
punte d’aguzzi chiodi, e sangui, e mestri
di donne uccise, e di svenate genti,
de’ fulmini la polve, e degli alpestri
ghiacci il rigore, e gli aliti de’ vènti,
e i sudori del Sol, quand’arde Luglio,
vi distempra confusi in un miscuglio.

52.V’aggiunse d’Etna Torride faville,
di Fiegra i zolfi, e di Cerauno i fumi.
Del gran Cocito le cocenti stille,
del pigro Asfalto i fervidi bitumi,
e di milTaltri ingredienti e mille
abominande fecce, empi sozzumi,
infamie e pesti, onde la Maga abonda,
incorporò ne la mistura immonda.

53.Poi che tai cose tutte insieme accolte
ne le fibre e nel core infuse gli ebbe,
e dal suo sputo infette altr’erbe molte
virtuose e mirabili v’accrebbe,
sovra il corpo incurvossi, e sette volte
inspirò ’l fiato a chi risorger debbe.
Al miracolo estremo alfin s’accinse,
e ’l proprio spirto ad animarlo astrinse.

54.Yestesi pria di tenebrose spoglie,
poi prende ne la man verga nefanda,
ed a le chiome, che ’n su ’l tergo accoglie,
fa d’intrecciate vipere ghirlanda.
Vie piú ch’altra efficace indi discioglie
la fiera voce ch’a Pluton comanda,
e move ai detti suoi sommessa e piana
lingua ch’assai discorde è da l’umana.

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55.De’ Cani imita i queruli latrati,
ed esprime de’ Lupi i rauchi suoni,
forma i gemiti orrendi e gli ululati
de le Strigi notturne e de’ Buboni,
i fischi de’ Serpenti infuriati,
gli spaventosi strepiti de’ tuoni,
de Tacque il pianto, il fremer de le fronde,
tante voci una voce in sé confonde.

56.L’aér puro e seren s’ingoinbra e tigne
a quel parlar di repentina ecclisse.
Véggionsi lagrimar stille sanguigne
Talte luci del Ciel mobili e fisse.
Bendò fascia di nubi atre e maligne,
come la terra pur la ricoprisse
e le vietasse la fraterna vista,
de ia candida Dea la faccia trista.

57.Dopo i preludii d’un sussurro interno
seco pian piano sommormorato alquanto,
cominciando a picchiar l’uscio d’Averno,
in piú chiaro tenor distinse il canto:
— Tartareo Giove, che del foco eterno
reggi l’impero, e de l’eterno pianto,
al cui scettro soggiace, al cui diadema
tutto il vulgo de Tombre e serve e trema:

58.Persefone triforme, Hecate ombrosa,
Donna de l’Orco pallido e profondo,
al piú crudo fratei congiunta in sposa
de’ tre Monarchi ond’è diviso il mondo,
Notte gelida, pigra e tenebrosa,
figlia del Chao confuso ed infecondo,
umida madre del tranquillo Dio,
de l’orror, del silenzio, e de l’oblio:

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59.Dive fatali, e rigorosi Numi,
che sedete a filar l’umane vite,
e novo stame a chi giá chiusi ha i lumi,
per di novo spezzarlo, ancora ordite:
Cocito, e tutti voi perduti fiumi,
voi, ch’irrigate la cittá di Dite:
dolenti case, antri nemici al Sole,
aprite il passo a l’alte mie parole.

60.O Regi e voi, de le malnate genti
conoscitori ed arbitri severi,
ch’a giusti e del fallir degni tormenti
condannate gli spirti iniqui e neri:
e voi ministre ai miseri nocenti
di supplici e di strazii acerbi e fieri,
Vergini orrende, che gli Stigii lidi
fate sonar di desperati stridi:

61.e tu vecchio Nocchier, ch’altrui fai scorta
a quelle region malvage e crude,
solcando l’onda ognor livida e smorta
de la bollente e fetida palude:
e tu vorace Can, che ’n su la porta
de la gran reggia, ov’ogni mal si chiude,
perché chi v’entra piú non n’esca mai,
con tre bocche e sei luci in guardia stai:

62.se voi sovente ne’ miei sacri versi
con labra pur contaminate invoco:
se mai di sangue uman grate v’offersi
vittime impure in essecrabil loco:
se le minugia de’ bambin dispersi,
e, dal materno sen tratti di poco,
posi gli aborti in su la mensa ria,
assistete propizii a l’opra mia.

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63.Giá ritòr non pretendo ai regni vostri
le possedute e ben devute prede,
né spirto avezzo a conversar tra’ mostri
per lungo tempo oggi per me si chiede.
Quel che dimando, de’ temuti chiostri
pose pur dianzi in su le soglie il piede,
e dí questa vital luce serena
ha quasi i raggi abbandonati a pena.

64.Non nego a Morte sua ragion, né deggio
del giusto dritto defraudar Natura.
Sol de le stelle, e non del Sol vi cheggio
si conceda a costui picciola usura.
Godan quegli occhi, che velati or veggio
di caligine cieca, e d’ombra oscura,
poi che per sempre pur chiuder gli deve,
di poca luce un intervallo breve.

65.Odi, spirito ignudo, anima errante,
odi e ritorna al tuo compagno antico.
Solo qual sia l’amor, qual sia l’amante
rivela a me del mio crudel nemico.
Riedi súbito al loco ov’eri innante,
dato ch’avrai risposta a quant’io dico.
Ritorna, alma raminga e fuggitiva:
rivesti il manto, e ’l tuo consorte aviva. —

66.Ciò detto, non lontan mira ed ascolta
del trafitto Guerrier l’ombra che geme,
perché del career primo, onde fu tolta,
tra’ nodi rientrar paventa e teme,
e nel petto squarciato un’altra volta
riabitar dopo l’essequie estreme.
— Chi fin laggiú — prorompe — in riva a Lethe
mi turba ancor la misera quiete?

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67.Lasso, e chi de la spoglia, ond’io son scarco,
l’odiato peso a sostener m’affretta?
Dunque contro il destili severo e parco
il fil tronco a saldar Cloto è costretta?
Deh ch’io ritorni per l’ombroso varco
a la requie interrotta or si permetta.
Miser, qual fato sí mi sforza e lega,
che di poter morire anco mi nega? —

68.Ch’ei sia sí poco ad ubbidir veloce
la Donna spiritai disdegno prende,
onde con sferza rigida e feroce
di viva serpe il morto corpo offende.
Poi con piú alta e piú terribil voce
solleva il grido che sotterra scende,
e penetrando i piú profondi orrori
minaccia a l’alma rea pene maggiori.

69.— Sú sú che tardi ad informar quest’ossa?
qual piú forte scongiuro ancora attendi?
Credi che ne l’Abisso e ne la fossa
non ti sappia arrivar, se mel contendi?
O ch’esprimer que’ nomi or or non possa
inuditi, ineffabili, tremendi,
che venir ti faranno a me davante
ciò ch’io t’impongo ad esseguir tremante?

70.Megera, e voi de la spietata suora
suore ben degne, e degne Dee del male,
m’udite? a cui parl’io? tanta dimora
dunque vi lice? e sí di me vi cale?
e non venite? e non traete ancora
fuor del penoso baratro infernale,
da serpenti agitata e da facelle,
l’alma infelice a riveder le stelle?

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IOO

LA PRIGIONE

71.Io vi farò de le magion notturne
a forza uscir di scosse e di flagelli!
Vi seguirò per ceneri e per urne,
vi scaccerò da’ roghi e dagli avelli.
Sarete voi sí sorde e taciturne,
quand’io co’ propri titoli v’appelli?
O con note piú fiere ed essecrande
invocar deggio pur quel nome grande? —

72.A tai detti (oh prodigio) ecco repente
il sangue intepidir gelido e duro,
e le vene irrigar d’uraor corrente,
che giá pur dianzi irrigidite furo.
Ripien di spirto e d’alito vivente
movesi giá l’immobil corpo oscuro.
Giá giá palpita il petto, ed ogni fibra
ne’ freddi polsi si dibatte e vibra.

73.I nervi stende a poco a poco, e sorge,
e comincia ad aprir l’egre palpebre.
Torna il calor, ma somministra e porge
a le guance un color ch’è pur funebre.
Pallidezza sí fatta in lui si scorge,
che somiglia squallor di lunga febre;
e con la morte ancor confusa e mista
giostra la vita, che pian pian racquista.

74.— Di’ di’ — dic’ella allor —, per cui si strugge
colui per cui mi struggo? álzati e dillo.
Qual il cor fiamma gli consuma e sugge?
qual laccio il prese? e quale strai ferillo?
Dimmi, ond’avien, che piú m’aborre e fugge
quant’io piú ’l seguo, e piú per lui sfavillo?
Se fia mai che si muti, e quando, e come
narra, e dammi del tutto il loco, e ’l nome.

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75.S’averrá che tu chiaro il ver mi scopra,
non come fan gli Oracoli dubbiosi,
degna mercé riceverai de l’opra
in virtú de’ miei versi imperiosi.
Farò che piú non tornerai di sopra,
né piú verrá chi rompa i tuoi riposi.
Da chiunque incantar ti vorrá mai
franco per tutti i secoli sarai. —

76.Cosí gli dice, e carme aggiunge a questo,
per cui quant’ella vuol, saver gli ha dato.
Quei sparge alfine un flebil suono e mesto,
articolando in tal favella il fiato:
— Non io, non giá nel mondo empio e funesto,
donde, giunto pur or, son richiamato,
de le Parche mirai gli alti secreti,
né vi lessi del Fato i gran decreti.

77.Pur quanto sostener potè il brev’uso
d’una fugace e momentanea vita,
dirò ciò che d’udirne oggi laggiuso
mi fu permesso innanzi a la partita.
Oggi ho di quel, ch’a tua notizia è chiuso,
da l’empia Gelosia l’istoria udita;
da l’empia Gelosia, Furia perversa,
che con l’altre talor Furie conversa.

78.Disse, che ’l bel Garzon, ch’a te sí piacque,
e che de l’amor tuo cura non piglia,
dal Re di Cipro è generato, e nacque
per fraude giá de l’impudica figlia.
Ama la bella Dea nata de Tacque,
ella solo il protege, ella il consiglia;
e se ben or se n’allontana e parte,
ama pur tanto lui, che n’odia Marte.

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79.Marte di sdegno acceso e di furore
morte giá gli minaccia acerba e rea;
onde s’è l’amor tuo sterile amore,
infausto anco è l’amor di Citherea.
Volger ricusa a le tue fiamme il core,
perché fissa vi tien l’amata Dea.
Poi cotal gemma lo difende e guarda,
ch’esser non può che d’altro foco egli arda.

80.E poi che tu con fiero abuso e rio
de l’arti tue mi togli ai regni bassi,
e per un curioso e van desio
fai che Stige di novo a forza io passi,
né men crudel ch’a l’alma, al corpo mio,
ucciso ancor, d’uccidermi non lassi,
ascolta pur: ch’io voglio ora scoprirti
quel che non intendea prima di dirti.

81.Permette il giusto Ciel per questo scempio,
e per l’audacia sol del tuo peccato,
ch’osò con strano e non udito essempio
sforzar Natura e violare il Fato,
che non s’adempia mai del tuo cor empio
il malvagio appetito e scelerato.
Né te l’amato bene amerá mai,
né tu del bene amato unqua godrai. —

82.Piú non diss’egli, e ciò la Maga udito,
di geloso dispetto ebra s’accese,
e ’l busto in negra pira incenerito,
alfin piú di morir non gli contese.
Ritornò pur quel misero ferito,
poi ch’a terra ricadde e si distese,
mandando l’ombra a le Tenaree porte,
dopo due vite a la seconda morte.

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83.Ma giá s’apre il giardin de l’Orizonte,
giá Clori il Ciel di fresche rose infiora,
giá l’Oriente il piano intorno e ’l monte
d’ostro e di luce imporpora ed indora;
e giá con l’Alba a piè, col giorno in fronte
sovra un nembo di fólgori l’Aurora
per l’aperte del Ciel fiorite vie
fa le stelle fuggir dinanzi al die.

84.Piú veloce di strai ch’esca di nervo,
torna ov’Idonia il suo ritorno attende.
— Questo Barbaro — dice — empio e protervo
non è qual sembra, anzi d’Amor s’accende.
Misera, e pur (ben che d’Amor sia servo)
di chi langue d’Amor pietá non prende. —
Distintamente il tutto indi le spiega,
e di consiglio in tanto affar la prega.

85.— Non per questo dèi tu — l’altra risponde —
abbandonar l’incominciata impresa.
Alma, che bella fiamma in sé nasconde,
e di quel bel l’impressione ha presa,
fin che foco novel non venga altronde,
d’una sola beltá si mostra accesa.
Mentr’ha l’occhio e ’l pensiero in quel che brama,
altro non conoscendo, altro non ama.

86.Qualunque amante Amor infiamma e punge,
ama l’oggetto bel che gli è presente,
ma la memoria sol ne tien da lunge,
né la ritien però giá lungamente.
Tosto ch’altra sembianza a mirar giunge,
gli esce la prima imagine di mente.
Sempre il desir di nòve cose amico
ta che ’l novello amor scacci l’antico.

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87.S’una volta averrá, che tu pervegna
pur di quel core ad occupar la reggia,
ch’oggi la madre di colui che regna
nel terzo Ciel, s’usurpa e tiranneggia,
essendo tu, se non di lei piú degna,
di bellezza almen tal che la pareggia,
credimi, il primo ardor posto in oblio,
l’inessorabil tuo diverrá pio.

88.La gemma poi, che fa gl’incanti vani,
e ’n cui tanta virtú stassi raccolta,
modo ben troverem, che da le mani
o per froda o per forza a lui sia tolta.
Contro l’arte che sforza i petti umani
far allor non potrá difesa molta;
e tu di Citherea preso l’aspetto,
malgrado alfín di lei, n’avrai diletto. —

89.Falsirena a quel dir si riconforta,
e novo ardire entro ’l suo cor si cria,
però che ’l favellar che speme apporta
di cosa conseguir che si desia,
risuscitando la baldanza morta,
fa creder volentier quel ch’uom vorria.
Quindi a colei, che di ciò far promette,
lascia cura del tutto, e si rimette.

90.Miseramente in questo mezo Adone
in dura servitú languia cattivo,
passando la piú rigida stagione
squallido, afflitto, e quasi men che vivo.
Oltre il disagio e ’l mal de la prigione,
e Tesser del suo ben vedovo e privo,
forte accresceagli al cor pena e cordoglio
del crudo Hidraspe il temerario orgoglio.

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91.Chi può dir quanti affronti, e quanti torti,
ingiurie, villanie, dispetti e sdegni
dal discortese Uscier sempre sopporti,
obbrobri intollerabili ed indegni?
Ma tormento peggior di mille morti
trapassa in lui d’ogni tormento i segni.
Altro novo martír, che troppo il punge,
di tanti mali al cumulo s’aggiunge.

92.Feronia è piú d’un dí che l’ha in governo,
una Nana è costei difforme e vecchia,
la qual sera e mattin con onta e scherno
la vivanda gli reca e gli apparecchia.
Furia (credo) peggior non ha l’Inferno,
può se stessa aborrir, se mai si specchia.
Sembra, sí laida e sozza è ne l’aspetto,
figlia de la Disgrazia e del Difetto.

93.Piú groppi ha che le viti, o che le canne,
ed ha corpo stravolto e faccia smorta,
sbarrato il naso, e lungo oltre due spanne,
ricurvo il mento, ampia la bocca e torta.
Come Cinghiale in fuor sporge le zanne,
e su Tornerò destro un scrigno porta.
Ne le doppie pupille il guardo iniquo
fa gli occhi stralunar con giro obliquo.

94.Dopo molte ignominie e molti scorni
che gli fe’ questo mostro, e beffe, e giochi,
mentre con atti sconciamente adorni
d’alimenti il nutria debili e pochi,
motteggiando! pur un fra gli altri giorni,
con parlar balbo e con accenti rochi
sciolse la lingua, e poi che l’ebbe sciolta,
intoppò, scilinguò piú d’una volta.

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LA PRIGIONE

IOÓ

95.— O feminella vii: ch’ad uom sí inetto
altro nome — dicea — conviensi male,
né vo’ rimproverando il suo difetto
far a Natura un vituperio tale:
or se non sai d’Amor prender diletto,
il tuo sesso virile a che ti vale?
o qual beltá ti scalderá giá mai,
s’ad arder de la mia senso non hai?

96.Meraviglia non è, se Falsirena
sprezzasti, ancor che vanto abbia di bella,
quando di vagheggiar ti degni a pena
piú vaga tanto e signoril donzella;
né per averne l’agio a prandio, a cena
solo con sola in sí remota cella,
(sciocco che sei) richiedermi d’amore
t’è mai bastato in tante volte il core.

97.Se non che certo assecurata io fui
ch’uom non se’ tu sí come gli altri sono,
anzi un freddo spadon, qual è costui
che qui ti guarda, a tal mestier mal buono,
te sol torrei, come sol degno a cui
facessi di me stessa intero dono,
dandoti in un co’ miei sublimi amori
(suo malgrado) a goder cibi migliori.

98.Poi che son dunque i tuoi pensier sí sciocchi,
e ciechi a lo splendor de’ raggi miei,
convien che tu mi mostri, e ch’io ti tocchi
or or se maschio, o pur femina sei.
E quando avenga che le mani e gli occhi
ti trovin poi qual mai non crederei,
troncar ti vo’ quell’organo infecondo,
che tu possiedi inutilmente al mondo.

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99.Ma perché dubbio alcuno in te non resti,
e le bellezze mie non prenda a riso,
mira ciò che tu perdi, e ciò ch’avresti:
ecco t’apro il tesor del Paradiso.
Guarda se bella pur sotto le vesti
altrettanto son io, quanto nel viso. —
Cosí dicendo, s’accorciò la gonna,
e si gli fe’ veder, ch’ell’era Donna.

100.Poi le luci girò bieche e traverse
sí che mirando lui, mirava altrove,
e quella bocca ad un sorriso aperse,
che sepoltura par, se s’apre o move;
e innanzi a lui sí oscene e sí diverse
di sua disonestá prese a far prove,
che di fastidio ogni altro cor men franco
fora assai meno a sofferir giá stanco.

101.Un tratto pur l’impazienza il vinse,
ché sdegno degno e generoso il mosse.
Mentre la bruttarella a lui si spinse
sfacciata per baciar piú che mai fosse,
Adone il pugno iratamente strinse,
e la sinistra tempia le percosse.
Nel malpolito crin poscia la prese,
ed a forza di calci al suol la stese.

102.La fiera Gobba intorno a lui s’attorse
aviticchiata in mostruosa Iutta,
e con l’ugne il graffiò, co’ denti il morse,
quanto arrabbiata piú, tanto piú brutta.
Ai romori, a le strida Hidraspe corse,
che risonar facean la casa tutta,
e sgridando il garrí, che la Scrignuta,
deputata a servirlo, avea battuta.

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103.E con la sferza in mano anco il minaccia
ch’egli il correggerá, se non s’emenda.
Idonia allor vi sovragiunge, e scaccia
la coppia abominabile ed orrenda.
Poi con piú grata e piú piacevol faccia
vuol che ’l fatto da capo a dir le prenda.
— La colpa — disse — è del tuo cor protervo,
che potendo esser Re, vuol esser servo.

104.Tu vedi, o folle, pur, che ti ritrovo
ne le forze di lei che sí disami.
Perché non pronto ad accettar ti movi
l’offerto ben, se ’l proprio mal non brami?
Nulla quel tuo rigor fia che ti giovi,
che tu costanza e continenza chiami.
S’uscir vuoi di molestie, e di tormenti,
altr’armi usar che crudeltá convienti!

105.Pensa dunque al tuo meglio, ed a te stesso
non negar tanta gloria in tanto male;
ché quando pur da te ne sia promesso
sotto sincera fé d’esser leale,
non sol quindi d’uscir ti fia concesso,
ma sarai quasi ai Divo in terra eguale.
A bellezza, a ricchezza amor congiunto
ti fará beatissimo in un punto.

106.Ma s’avien, ch’atra nebbia a l’alma ingrata
gli occhi de la ragione abbia sí chiusi
che la bontá de la benigna Fata
riconoscer non sappia, anzi l’abusi,
cotesta oltr’ogni credere ostinata
pertinacia crudel sola s’accusi
di quanto mal per tal cagion t’avegna:
ch’amor divien furor quando si sdegna.

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CANTO DECIMOTERZO

Quanto gradita è piú. vie piú s’avanza
in nobil alma umanitá cortese.

Ingiuriata poi, muta l’usanza,
pari è l’odio a l’amor che pria l’accese.
Non ha ne l’ire sue freno a bastanza
sí che non corra a vendicar l’offese.

Ma ciò piú molto avien qualor si sprezza
di magnanima Donna alta bellezza.

Guárdati, quando averla ora non vogli
supplichevole amante e lusinghiera,
d’averla poi con pene e con cordogli
Tiranna formidabile e severa.

Conchiudo infin, che se non sleghi e sciogli
chi del suo prigioniero è prigioniera,
senza trovar pietá fra tanti affanni
in villana prigion perderai gli anni. —

Adon, che senza scampo e senza aita
le cose in stato pessimo vedea,
pensò, che s’egli cara avea la vita,
cara, se non per sé, per la sua Dea,
mostrar gli convenia fronte mentita,
e di cangiar pensier finger devea:
e l’opre al tempo accommodando in parte
far virtú del bisogno, ed usar l’arte.

Comincia a serenar l’aria del volto,
e piú grato a mostrarsi, e men rubello,
e sperando in tal guisa esser poi sciolto,
qualch’indizio gli dá d’amor novello.

La prega intanto almen, che gli sia tolto
de la Nana importuna il gran flagello,
poi che gli è sovr’ogni altra aspra sciagura
sí malvagia ministra a soffrir dura.

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111.Lieta Idonia promette, e perché ’l crede
da lunga fame indebolito e smorto,
ristorarlo s’ingegna, e gli concede
di soavi conserve alcun conforto.
Ma ne l’anel che Citherea gli diede
volgendo ad or ad or lo sguardo accorto,
pensa come gliel rubi, e gli presenta
alloppiato vasel, che raddormenta.

112.D’oppio forte e gravoso è quel licore
composto, e di mandragora, e di loto.
Grato a la vista appare, ed al sapore,
ma secreto nasconde un fumo ignoto,
di sí strana virtú, di tal vigore,
ch’opprime gli occhi, e toglie il senso e ’l moto.
Atto a stordir non pur le menti umane,
ma d’Hesperia e di Stige il Drago e ’l Cane.

113.Senza pensar piú oltre, Adone il beve,
né tarda molto ad operar l’effetto:
ch’un sí tenace sonno il prese in breve,
che fu qual ebro a vacillar costretto,
e vinto da l’oblio profondo e greve
girseli su l’orlo a riversar del letto.
Idonia, che del tutto era presaga,
lasciollo alquanto, ed appellò la Maga.

114.La Maga in su l’entrar, poi che gli fece
del dito trar l’adamantino anello,
un altro suo ve ne suppose in vece
somigliante cosí che parea quello.
Poi fe’ legar con diece groppi e diece
di rigid’oro il misero Donzello,
ch’ai raddoppiar de le catene grosse,
perché nulla sentia, nulla si mosse.

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115.Salvo un sol chiavistel d’acciaio duro,
la cui chiavetta altrui fidar non osa,
tutta vuol che sia d’òr semplice e puro
quella ricca catena e preziosa,
sí perché piú che del metallo oscuro,
del piú lucido e fino è copiosa,
sí perché ’n laccio d’oro essendo stretta,
vuol con un laccio d’òr farne vendetta.

116.Dopo lungo dormir, quand’ei si desta,
e si ritrova in auree funi avinto,
da lo stupore, onde confuso resta,
lo stupor del letargo in tutto è vinto.
La cara gemma a contemplar s’appresta,
non sapendo però, ch’è l’anel finto;
e perché non vi scorge il volto amato,
teme non contro lui sia forse irato.

117.— Amor insidioso, i tuoi piaceri
com’han l’ali — dicea — veloci e lievi!
Come schernisci altrui? non sia chi speri
gioie da te, se non fugaci e brevi.
Perché levar tant’alto i miei pensieri,
se poi precipitarmene volevi?
Mi sommergi nel porto, a pena giunto,
e mi fai ricco e povero in un punto.

118.Fortuna ingiuriosa, i’ non credea
perder in erba la sudata messe,
né eh’una stolta e temeraria Dea
ne l’impero d’Amor ragione avesse.
Cosí dunque sen van, perfida e rea,
con le speranze mie le tue promesse?
dunque dal tuo furor perverso e duro
tra le miserie ancor non son securo?

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119.Non prestai fede a la tua madre, Amore,
quand’era (ch’or non son) contento e lieto.
Dicea, ch’eri un mal dolce, un dolce errore,
Sagittario crudel, Rege indiscreto,
labirinto di fraude e di dolore,
libera servitú, porto inquieto,
in cui fé né pietá mai non si trova!
Lasso, or tardi il conosco, e ’l so per prova.

120.Ma tua tutta è l’ingiuria, e tuo l’oltraggio
del grave mal ch’ingiustamente io porto;
né devresti soffrir, Signor mal saggio,
da sí bassa nemica un sí gran torto.
Ecco mi toglie il desiabil raggio
ch’era al mio lungo duol breve conforto,
e tien pur sotto giogo aspro e servile
chiuso un tuo prigioniero in career vile.

121.Ed a te non bastò, cruda Fortuna,
farmi nascer d’incesto in lido estrano,
d’ogni paterno ben fin da la cuna
spogliarmi, e ’l regno mio tòrmi di mano,
e (ciò ch’è piú) lasciarmi in notte bruna
dal Sol, che splende altrui, tanto lontano,
ch’aggiunger nodi a nodi anco volesti;
e pur scettri ed onor mi promettesti!

122.Contro le tue spietate e rigid’armi
qual privilegio avran diademi e troni,
se con chi langue e muor non le risparmi?
se né pur anco ai miseri perdoni?
Se son trafitto, a che piú saettarmi?
Quest’è l’eccelso stato ove mi poni?
Precipizii maggior dunque hai prefissi
a chi caduto è giá sotto gli Abissi?

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123.Ahi chi del fior del mio sperar mi priva?
chi nega agli occhi miei l’amata Aurora?
giungerò mai di tanti strazii a riva?
godrò mai lieta o consolata un’ora?
Com’esser può che senza vita io viva?
Sará pur ver, che non morendo io mora?
Deh che farò? com’avrò pace alcuna?
Con voi parlo, Amor empio, empia Fortuna.

124.Fortuna empia, empio Amor, quai pene o danni
non sostien chi per voi piagne e sospira?
L’un è fanciul fallace e pien d’inganni,
femina l’altra, ebra d’orgoglio e d’ira.
Questa sovra la rota, e quei su i vanni,
quei sempre vola, e questa sempre gira.
Cieco l’un, cieca l’altra, ed ambidui
Aquila e Lince a saettare altrui. —

125.Con queste note or di sua sorte dura,
or del crudel Amor seco discorre;
Venere incolpa, che di lui non cura,
di Mercurio si duol, che noi soccorre;
quand’ecco entrato in quella stanza oscura
Mercurio istesso a la sua vista occorre,
ch’a dispetto di toppe e di serragli
viene a porgergli aita in que’ travagli.

126.Mercurio, a cui giá da la Dea commesso
fu il patrocinio di chi ’l cor le tolse,
gli assistea sempre, e ’l visitava spesso,
se ben lasciar veder mai non si vòlse.
Veggendol dal digiun talvolta oppresso,
cibi divini e dilicati accolse,
ed al mesto Garzon poi la Colomba
gli recava nel becco entro la tomba.

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127.Or còlta ha l’erba rara e vigorosa,
non so ben dire in qual estrania terra,
contro la cui virtú meravigliosa
con mille chiavi indarno uscio si serra:
e se le piante alcun destrier vi posa,
ne svelle i chiodi, e lo discalza e sferra.
Con questa senza strepito o fracasso,
invisibile altrui, s’aperse il passo.

128.Carna, Dea de le porte e de le chiavi,
di quella entrata agevolò le frodi,
e di volger per entro i ferri cavi
l’adunco grimaldel mostrògli i modi.
Le fibbie doppie, i catenacci gravi,
le grosse sbarre, i ben confitti chiodi
e le guardie saltar d’intorno al buco
fé’ cosí pian, che non l’udí l’Eunuco.

129.Uditi ch’ebbe il messaggier del Cielo
del tribulato Giovane i lamenti,
a lui scoprissi, e con un molle velo
gli venne ad asciugar gli occhi piangenti.
Poi tutto pien d’affettuoso zelo
dolce il riprende, e con sommessi accenti,
che de la Dea tra’ suoi maggior perigli
cosí mal custoditi abbia i consigli.

130.E ch’avisato in prima, ed avertito,
stato sia sí malcauto, e sí leggiero,
che lasciato levar s’abbia di dito
quel don maggior di qualsivoglia impero,
e dato agio a colei, che l’ha rapito,
di porvi un falso anel simile al vero.
Poi de la gemma adultera e mendace
gli fa chiaro veder l’arte fallace.

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131.L’altro inganno di piú gli spiana e snoda
del contrafatto e magico sembiante,
e dice, che non miri, e che non oda
l’istessa Dea, se gli verrá davante:
ch’altro non fia ch’insidia, altro che froda,
che s’apparecchia a la sua fé costante:
ché sotto finta imagine e furtiva
sará la Donna, e sembrerá la Diva.

132.L’instriiisce del tutto, e gli ricorda
ch’ella d’ogni malia porta le palme;
che può con versi orrendi a Morte ingorda
far vomitar le trangugiate salme,
tòr malgrado di Dite avara e sorda
a l’urne i corpi, ed agli Abissi l’alme;
può sommerger il Sol nel mar profondo,
sotterra il Cielo, e ne l’Inferno il mondo.

133.Dicegli, che bisogno ha che si guardi
da le lusinghe sue qualor ragiona:
ch’ogni Fata ha per esche accenti e sguardi,
onde gli animi alletta, e gl’imprigiona;
ma dopo i vezzi perfidi e bugiardi,
sazia alfin gli schernisce, e gli abbandona.
Molti uccider ne suol, talun n’incanta
vólto in fera, in augello, in sasso, o in pianta.

134.Soggiunge ancor, che non dia punto fede
a le solite sue leggiadre forme,
poi ch’è tutt’arte in lei quanto si vede,
e l’essere al parer non è conforme;
e se ben d’anni e di laidezza eccede
qualunque fusse mai vecchia difforme,
supplisce si con l’artifício, ch’ella
ne viene a comparir giovane e bella.

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135.E che ciò fa, perché vezzosa in vista
d’alcun semplice amante il cor soggioghi,
con cui (ché raro avien ch’altri resista)
sua sfrenata libidine disfoghi.
Ma se ’l perduto anel giá mai racquista,
uscito fuor di que’ profondi luoghi,
e con esso averrá ch’egli la tocchi,
tosto del ver s’accorgeranno gli occhi.

136.Finalmente lo slega, e de la foglia
dono gli fa, che piú del ferro è forte;
e l’ammaestra ancor come si scioglia,
quando allentar vorrá l’aspre ritorte.
Se ben fuggir non può fuor de la soglia,
mentre il fier guardian guarda le porte,
basterá ben, che quando altri noi miri,
disgiavato del peso, almen respiri.

137.Stupisce Adon di quanto egli racconta,
l’altro di sen si trae prima che parta,
possente a ristorar la doglia e l’onta,
lettra di linee d’òr vergata e sparta.
La Rosa, che ’l suggello ha ne l’impronta,
mostra onde vegna, e di chi sia la carta.
Dice la riga in su ’l principio scritta:
“ Al suo bel feritor la Dea trafitta ”.

138.La sciolse, e parve in un gli si sciogliesse
l’alma dal core, e che ’n aprir s’aprisse.
Poi quante note sii v’erano impresse,
tanti baci amorosi entro v’affisse,
perché considerò quando la lesse
qual amor la dettò, qual man la scrisse.
Fu del gran pianto, che ’n su ’l foglio sparse,
sola mercé, se co’ sospir non l’arse.

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139.«Veggio * il foglio dicea «veggio i tormenti,
che di soffrir per mia cagion ti sforzi.
So le perfidie ordite e i tradimenti
per far ch’un sí bel foco in te s’ammorzi.
Pertanto la tua fé non si sgomenti,
ma combattuta piú, piú si rinforzi;
né rompa del tuo cor l’auree catene
la ferrata prigion che ti ritiene.

140.Cruda prigion, ma vie piú cruda molto
quella che qui mi tien legata e stretta:
ch’oltre che de’ begli occhi il Sol m’ha tolto,
a chi mel toglie ancor mi fa soggetta.
Bramo il piè come il core averne sciolto,
ma la spada può piú che la saetta;
e se ben la sua forza ogni altra avanza,
Amor contro Furor non ha possanza.

141.Che mèl senz’aghi e rosa senza spine
coglier mai non si possa, è legge eterna.
Stan le doglie ai piacer sempre vicine,
cosí piace a colui che ne governa.
Ma speriam pur, che liberati alfine
io d’un Inferno, e tu d’una caverna,
tornando in breve all’allegrezza antica
scherniremo l’amante, e la nemica.

142.So che m’ami, e se m’ami, ami te stesso,
perché piú che ’n te stesso, in me tu sei.
Se t’ho nel core immortalmente impresso,
s’ardon tutti per te gli affetti miei,
io noi vo’ dir. Se tu non fossi in esso,
anzi se me non fossi, io tei direi.
Chiedilo a te, però che ’n te cor mio
piú che ’n me stessa, anzi pur te son io.

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LA PRIGIONE

IlB

143.Cor de l’anima mia, vivi e sopporta,
e viva teco il tuo bennato ardore;
e con un sol pensier ti riconforta,
ch’altri giá mai di me non fia Signore;
e se forza a far altro or mi trasporta,
scusabil è non volontario errore.
Piú non ti dico: a quanto a dir mi resta
supplirá teco il recator di questa».

144.Letti i bei versi, acconciò i ferri e sparve
Mercurio, e quindi era sparito a pena,
che la rivai di Venere v’apparve,
ma tal, che non parea piú Falsirena.
Quasi deluso da sí belle larve,
a prima vista Adon non ben s’affrena;
e ben che sappia esser beltá fallace,
l’inganno è però tal, ch’agli occhi piace.

145.E se non che del ver tosto s’accorse,
tal fu del fido messo il cauto aviso,
sendo senza l’anel, fuor d’ogni forse
creduto avrebbe al simulato viso:
perché di Citherea tutti in lei scorse
portamenti, e fattezze, e sguardo, e riso.
Ella in entrando il salutò per nome,
ma volendo parlar, non seppe come.

146.Giá lontana la fiamma avea nutrita
che nel cor le lasciò la bella stampa.
Or ch’ella ha da vicin l’ésca gradita,
subitamente in novo incendio avampa.
Fatta da quest’ardore alquanto ardita,
a l’usata battaglia allor s’accampa.
Vòlse baciarlo, e si restò per poco,
pur moderò se stessa in sí gran foco.

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147.Per occultar, per colorir la trama,
biasma di Falsirena il perfid’atto,
e cruda, ingiusta, e disleal la chiama,
ch’a sí gran torto un tanto mal gli ha fatto.
Promette e giura poi per quanto l’ama
di far ancor, che di prigion sia tratto.
Pur ch’ella del suo amor resti secura,
lasci poi di francarlo a lei la cura.

148.Gli s’asside da lato, e gli distende,
mentre ragiona, in su la spalla il braccio,
e tuttavia con la man bella il prende
per annodarlo in amoroso laccio.
Ben che legato ei sia, pur si difende,
e ’l collo almen desvia da quell’impaccio.
La testa abbassa, e da le labra audaci
torce la bocca, e le nasconde i baci.

149.Fíttosi in grembo il volto, a lei l’invola,
anzi per non mirarla i lumi serra.
Ma poi che pur assai d’una man sola
durata è giá la faticosa guerra,
la manca ella gli pon sotto la gola,
e con la destra il biondo crin gli afferra.
Con una mano il crin gli tira e stringe,
con l’altra il mento gli solleva e spinge.

150.O sí o no ch’a forza ella il baciasse,
veduto riuscir vano il disegno,
stanca da l’opra sua pur si ritrasse,
ed onta ad onta accrebbe, e sdegno a sdegno.
Le luci alzando allor torbide e basse,
de la favella Adon ruppe il ritegno,
e disse: — Or quando mai, Dea degli Amori,
fu ch’Amor ad amar sforzasse i cori?

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151.Non è questo non è vero godere,
né modo d’appagar nobil desire.
E qual gioia esser può contro il volere
di chi non vuole alcun piacer rapire?
Ma che? delizie ed agi ama il piacere;
tra miserie e dolor chi può gioire?
Non si denno dubbiose e malsecure
le dolcezze mischiar con le sciagure.

152.Vuoi che tra ceppi e ferri io t’accarezzi?
Ix>co questo ti sembra atto ai diletti?
Serba (ti prego) a miglior tempo i vezzi,
piú ch’oportuni, or importuni affetti.
Attendi pur, che s’apra, o che si spezzi
la prigione, onde trarmi oggi prometti;
né creder ch’ai trastulli io possa pria
teco tornar, che libero ne sia.

153.Bástiti, ch’io di te non ardo meno:
abita il corpo qui d’anima privo,
l’anima alberga teco, e nel tuo seno
vive vita miglior, ch’io qui non vivo.
Né del carcere antico il duro freno
d’altra beltá mi lascia esser cattivo;
né quantunque dannata a sí rea sorte,
la mia vita per te teme la morte.

154.L’oro crespo e sottil, l’oro lucente
di quella bionda treccia, ond’io fui preso,
quanto oh quanto è piú forte e piú possente
di questo ricco mio tenace peso!
Questa catena è tal, che solamente
ritiene il corpo, e non n’è il core offeso.
Quella che mi legò la prima volta
mi stringe il core, e non sará mai sciolta. —

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155.Cosí dicea dissimulando, e certo
ogni altro, a cui da l’Orator d’Egitto
stato non fusse un tanto inganno aperto,
o che non fusse in léaltate invitto,
dal dolce oggetto a la sua vista offerto
fuggir non potea giá d’esser trafitto.
Volgendo alfin l’ingannatrice il tergo
desperata partí da quell’albergo.

156.E con Idonia far l’ultime prove
del beveraggio magico risolve.
Qual guastada abbia a tórre, e come, e dove
le ’nsegna, e qual licor misto a qual polve.
Quella il silopo a preparar si move,
che gli umani desir cangia e travolve;
e nel secreto studio, ove la Fata
chiude gli arcani suoi, s’apre l’entrata.

157.Prende l’ampolla abominanda e ria,
e quel forte velen tempra e compone,
che se fusse qual crede, e qual desia,
non che le voglie infervorar d’Adone,
far vaneggiar Senocrate poria,
e d’illecite fiamme arder Catone.
Ma non tutto quel male e quello scempio
permette il Ciel, che si promette l’empio.

158.La rea ministra, ch’ai Garzon la mensa
dopo la Nana ha d’apprestare in uso,
mesce il vin con quel sugo, e gli dispensa
ne l’aurea coppa il maleficio infuso.
Ma non pari l’effetto a quel che pensa,
il disegno fellon lascia deluso.
A pena ei l’acqua perfida ha bevuta,
che súbito di fuor tutto si muta.

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159.Tutte le membra sue (mirabil mostro!)
impicciolirò, e si velár di penne:
e di verde, e d’azurro, e d’oro, e d’ostro
piumato il corpo in aria si sostenne.
S’ascose il labro, anzi aguzzossi in rostro,
la bocca, il mento, il naso osso divenne.
Divenne carne l’incarnata vesta,
e si fece il cappel purpurea cresta.

160.Ne le dita, che fatte ha piú sottili,
spuntan curve e dorate unghie novelle;
fregian ristretto il collo aurei monili,
si raccoglie ogni braccio entro la pelle,
si ritiran le man bianche e gentili,
e s’allargano in ali ambe l’ascelle.
Due gemme ha in fronte, ond’esce un dolce lume,
sí che piú vago augel non batte piume.

161.Venere bella, ahi qual perfidia, ahi quale
forte ventura il tuo bel Sol t’ha tolto?
La beltá, del tuo foco ésca immortale,
ecco prende altra spoglia, ed altro volto.
Strano malor del calice infernale,
in cui tosco maligno era raccolto.
L’incantata bevanda ebbe tal forza,
che fu possente a trasformar la scorza.

162.Fusse del Nume che ’l difende e guarda
providenza divina, o fusse caso,
quando il vetro pigliò la Maliarda
scambiò per fretta e per errore il vaso.
Quel che fa che d’amore ogni cor arda
(simile in tutto a questo) era rimaso;
ed ingannata da l’istessa forma
in sua vece adoprò quel che trasforma.

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163.Tosto che s’è del fallo Idonia accorta,
mezo riman tra stupida e dolente.
Per trascuragin sua vede che porta
l’amoroso rimedio altro accidente.
— Oimè misera — grida — oimè son morta —
e piagne invano, invan s’adira e pente.
11 crin si svelle, il petto si percote,
stracciasi i panni, e graffiasi le gote.

164.Giá fuor de la prigion libero vola
d’abito novo il novo augel vestito.
Lamentarsi vorria, ma la parola
non forma (come suol) senso spedito,
e gorgheggiando da l’angusta gola
de la favella in vece esce il garrito;
né de l’umana sua prima sembianza
(tranne sol l’intelletto) altro gli avanza.

165.L’intelletto e ’l discorso ha solo intero,
onde qual è, qual fu conosce a pieno.
Rimembra il dolce suo stato primiero,
e disegna al suo ben tornar in seno.
Foi sentendosi andar cosí leggiero
per l’immenso del Ciel campo sereno,
mentre a l’albergo usato il camin piglia,
di tanta agilitá si meraviglia.

166.Lascia di quella ricca aurea contrada
il sotterraneo infausto empio soggiorno,
passa le grotta, e per la nota strada
fa nel superior mondo ritorno.
Ferma il Sole i destrieri, ovunque ei vada,
férmansi i vènti a vagheggiarlo intorno,
e secondando il va da tutti i lati
musico stuol di cortigiani alati.

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167.Del superbo diadema e del bel manto
le pompe a prova ammirano e i colori;
e con ossequii di festivo canto
gli fan per tutto il Ciel publici onori.
Non ha mai la Fenice applauso tanto
da l’umil plebe degli augei minori
qualor cangiando il suo sepolcro in culla
ritorna di decrepita fanciulla.

168.Ma chi può dir quante fortune, e quanti
gravi passò tra via rischi e perigli?
quai rapaci incontrò mostri volanti,
che vòlser nel suo sen tinger gli artigli?
Aquile e Nibi, a cui scampar davanti
poco giovato avrian forze o consigli,
se ’l celeste Tutor che n’avea cura
non gli avesse la vía fatta secuia.

169.Non però d’augel fiero unghia né rostro
gli nocque tanto in quella sorte aversa,
quanto il mostro peggior d’ogni altro mostro,
dico la Gelosia cruda e perversa.
Uscita questa del suo cieco chiostro,
con l’amaro velen che sparge e versa,
lo Dio del ferro armar gli parve poco,
se non facea gelar lo Dio del foco.

170.Venne a Vulcano, e le fu facil cosa
far nel suo core impression tenace,
ché per prova ei sapea l’infida sposa
d’ogni fraude in tai casi esser capace.
Rode men la sua lima e piú riposa,
attizzata da lui, la sua fornace,
che non fa di quel tarlo il morso fiero,
che non fa la sua mente, e ’l suo pensiero.

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171.Mentre di rabbia freme, e di dispetto,
dal dolor, dal furor trafitto e vinto,
a raddoppiargli ancor stimuli al petto
vi sovragiunge il biondo Arcier di Cinto.
Questi de la cagion di quel sospetto
gli dá piú certo aviso, e piú distinto,
onde il misero Zoppo aggiunger sente
sovra il ghiaccio de l’alma incendio ardente.

172.Somiglia il monte istesso ov’ei dimora,
che tutto è carco di nevosa bruma
ma da l’interne viscere di fora
le faville essalando, avampa e fuma.
Né cosí i proprio mantice talora
le fiamme incita, e i pigri ardori alluma,
come quell’instigar gli soffia e spira
negli spirti inquieti impeto d’ira.

173.Da lo sdegno che l’agita e l’irrita
sospinto fuor del nero albergo orrendo,
con la scorta di Febo e con l’aita
tra sé machine nove ei va volgendo.
Quindi fu poscia di sua mano ordita
la catena ch’Adon strinse dormendo.
L’aurea catena, che ’n prigion legollo,
fu lavor di Vulcan, pensier d’Apollo.

174.E non solo il lavor de la catena
l’un di lor consigliò, l’altro esseguio,
ma l’istessa prigion di Falsirena
fu fabricata dal medesmo Dio.
Come ciò fusse, o se notizia piena
11’ebbe la Fata allor, non so dir io.
Prese d’un vái magnan vesta e figura,
e di tesser que’ ferri ebbe la cura.

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I2Ó

LA PRIGIONE

175.Tuttavia d’or in or quanto succede
gli va scoprendo il condottier del giorno,
che del vaticinar l’arte possiede
e d’ogni lume è di scienza adorno;
e si come colui che ’l tutto vede
scorrendo i poli e circondando intorno
de la terra e del Ciel la cima e ’l fondo,
può ben saver ciò che si fa nel mondo.

176.— Tu sai ben — gli dicea — quanto mi calse
del tuo mai sempre, anzi pur nostro onore,
e che ’n me questo debito prevalse
a l’odio istesso de la Dea d’Amore,
la qual per tua cagion, ben che con false
dimostranze il velen copra del core,
per la memoria de l’ingiuria antica
mi fu da indi in poi sempre nemica.

177.Or che pur d’Himeneo le sacre piume
questa indegna del Ciel Furia d’inferno
con novo scorno di macchiar presume,
vuoisi ancora punir con novo scherno;
e poscia che ’l suo indomito costume
a corregger non vai freno o governo,
de la stirpe commun pensar bisogna
a cancellar la publica vergogna.

178.Se l’obbrobrio e l’infamia in ciò non vale,
vágliane omai la crudeltate e ’l sangue.
Io ti darò quest’arco, e questo strale,
che ’n Thessaglia ferí l’orribil angue.
Poi quel rozo berton, quel vii mortale,
per cui sospira innamorata e langue,
io vo’ ch’apposti si con la mia guida,
ch’oggi di propria man tu gliel’uccida. —

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179.Con questi detti a vendicar quel torto
il torto Dio perfidamente induce.
Poi lá donde passar deve di corto
il trasformato Giovane il conduce,
e di tutto il successo il rende accorto
il portator de la diurna luce.
Gli disegna l’augel, gl’insegna l’arte
del trattar l’arco, e gliel consegna, e parte.

180.Ma qual fatto è sí occulto, il qual non sia
al tuo divin saver palese e noto,
Virtú del tutto esploratrice e spia,
Intelligenza del secondo moto?
Non consente Mercurio opra sí ria,
ma vuol che quel pensier riesca a vóto,
e dal rischio mortai campando Adone,
l’arte schernir de l’assassin fellone.

181.Lá ’ve soggiorna il pargoletto alato
l’alato messaggier volando corse,
e per somma ventura addormentato
solo in disparte entro ’l Giardin lo scorse.
Discese a terra, e gli si mise a lato
leggier cosí, eh’Amor non se n’accorse.
Quivi pian pian, mentr’ei posava stanco,
un’aurea freccia gl’involò dal fianco.

182.È di tal qualitá la freccia d’oro,
che dolcezza con seco e gloria porta:
reca salute altrui, porge ristoro,
il cor rallegra e l’anima conforta,
ed ha virtú di risvegliare in loro
la fiamma ancor quand’è sopita o morta;
e se ’l foco non è morto o sopito,
riscalda almen l’amore intepidito.

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183.Senz’altro indugio ei se ne va con essa
dove il fabro crudel guarda la posta,
e con la sua sottil destrezza istessa,
gli scambia l’altra, c’ha nel suol deposta;
né veduto è da lui quando s’appressa,
ch’altrove intanto ogni sua cura ha posta,
mentre la caccia insieme e la vendetta,
insidioso uccellatore, aspetta.

184.Venia l’augel con ali basse il suolo
quasi radendo, e l’adocchiò Vulcano,
che per troncargli in un la; r ita e ’l volo
l’arco incurvò con la spietata mano,
e ’n quel petto scoccò, ch’avezzo solo
era ai colpi d’Amor, colpo inumano.
Ma la saetta d’òr da la ferita
sangue non trasse, e non tu pur sentita.

185.L’insensibile strale aventuroso
còlselo sí, ma fé* l’usato effetto,
che per novo miracolo amoroso,
in vece di dolor, gli diè diletto;
e quell’amor, che forse era dubbioso,
per sempre poi gli stabilí nel petto.
Cosí chi tende altrui froda ed inganno
è ministro talor del proprio danno.

186.Fuggito Adon lo scelerato oltraggio
del feritore infuriato e pazzo,
stanco, ma quasi a fin di suo viaggio
giunt’era a vista del divin Palazzo,
quando trovò sotto un ombroso faggio
due Ninfe de la Dea starsi a sollazzo,
ed avean quivi ai semplici usignuoli,
che tra’ rami venian, tesi i lacciuoli.

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187.Tra quelle fila sottilmente inteste
passò, ma nel passar diè ne la rete,
e le donzelle a corrervi fur preste
forte di preda tal contente e liete.
Belle serve d’Amor, se voi sapeste
qual sia l’augel, ch’imprigionato avete,
perch’a fuggir da voi mai piú non abbia,
oh come stretto il chiudereste in gabbia!

188.Corron liete a la preda, e tosto c’hanno
tra’ nodi indegni il semplicetto involto,
perché ben di Ciprigna il piacer sanno,
stimano che gradire il devrá molto.
Quindi a l’ostel del Tatto elle sen vanno,
e ’l lascian per quegli orti andar disciolto,
secure ben, che da Giardin sí bello,
ben che libero sia, non parte augello.

189.Giunto al nido primier de’ suoi diletti
su ’l ramoscel d’un platano si pose,
e vide (ahi dura vista!) in que’ boschetti
sovra un tapeto di purpuree rose
Venere e Marte che traean soletti
in trastulli d’Amor l’ore oziose,
alternando tra lor vezzi furtivi,
baci, motti, sorrisi, atti lascivi.

190.Pendean d’un verde mirto il brando crudo,
la lorica, l’elmetto, e l’altro arnese,
onde, mentr’ei facea senz’armi ignudo
a la bella nemica amiche offese,
era il limpido acciar del terso scudo
specchio lucente a le sue dolci imprese,
e con l’oggetto de’ piacer presenti
raddoppiava a l’ardor faville ardenti.

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191.Volava intorno a quel felice loco
Zefiro, il bel cultor del vicin prato,
e de’ sospiri lor temprando il foco
con la frescura del suo lieve fiato,
e con vago ondeggiar, quasi per gioco
sventolando il cimier de l’elmo aurato,
facea concorde a le frondose piante
l’armatura sonar vota e tremante.

192.Sopiti omai de la tenzon lasciva
gli scherzi, le lusinghe, e le carezze,
giunti eran giá trastulleggiando a riva
de l’amorose lor prime dolcezze.
Giá dormendo pian pian dolce languiva
la Reina immortai de le bellezze;
né men che ’l forte Dio, la bella Dea
tutte le spoglie sue deposte avea.

193.Pargoleggianti esserciti d’Amori
fan mille scherni al bellicoso Dio;
e qual guizza tra’ rami, e qual tra’ fiori,
qual fende l’aria, e qual diguazza il rio;
e perché carchi d’ire e di furori
non cede in tutto ancor gli occhi a l’oblio,
tal v’ha di lor, che ’n lui tacito aventa
un sonnacchioso strai, che l’addormenta.

194.Lasciasi tutto allor cader riverso
il feroce Motor del cerchio quinto,
e nel fondo di Lethe a pieno immerso
sembra vie piú ch’addormentato, estinto.
Di sangue molle, e di sudore asperso,
dal moto stanco, e dal letargo vinto,
rallentati, non sciolti i nodi cari,
soffia il sonno dal petto, e da le nari.

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195.Oh che riso, oh che giubilo, oh che festa
la schiera allor de’ pargoletti assale.
Scherzando van di quella parte in questa
a cento a cento, e dibattendo l’ale.
Un fugge, un torna, un salta, ed un s’arresta,
chi su le piume, e chi sotto il guanciale.
Le cortine apre l’un, l’altro s’asconde
tra le coltre odorate, e tra le fronde.

196.Tal, poi che lasso e disarmato il vide
dopo mille posar mostri abbattuti,
osò giá d’assalire il grande Alcide
turba importuna di Pigmei minuti.
Cosí su ’l lido, ove Cariddi stride,
soglion con tirsi e canne i Fauni astuti
del Ciclopo Pastor, mentre ch’ei dorme,
misurar Tossa immense, e ’l ciglio informe.

197.Altri il divin Guerrier con sferza molle
iíede di rose e lievemente offende.
Altri a la Dea piú baldanzoso e folle
fura gli arnesi, ed a trattargli intende.
Altri la cuffia, altri il grembial le tolle,
chi degli unguenti i bossoli le prende.
Chi lo specchio ha per mano, e chi ’l coturno,
chi si pettina il crin col rastro eburno.

198.Un ve n’ha poscia, il qual mentr’ella assonna,
del suo cinto divino il fianco cinge,
e veste i membri de la ricca gonna,
e con l’auree maniglie il braccio stringe,
ed ogni gesto e qualitá di donna
rappresenta, compone, imita e finge,
movendo sú per quegli erbosi prati,
grava al tenero piede, i socchi aurati.

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199.L’andatura donnesca e ’l portamento
ne’ passi suoi di contrafar presume,
e ’ntanto con un morbido stromento
di canute contesto e molli piume,
ond’allettare ed agitare il vento
Citherea ne’ gran Soli ha per costume,
un altro de la plebe fanciullesca,
l’aria scotendo, il volto gli rinfresca.

200.Un altro a l’armi ben forbite e belle
dato di piglio de l’Eroe celeste,
con vie piú audace man gl’invola e svelle
dal lucid’elmo le superbe creste;
e ’l viso ventilandogli con quelle,
ne sgombra l’aure fervide e moleste:
poi da la fronte gli rasciuga e terge
le calde stille, onde ’l sudor l’asperge.

201.Alcun’altri divisi a groppo a groppo
in varie legioni, in varie squadre,
con Tarmi dure e rigorose troppo
movon guerre tra lor vaghe e leggiadre.
Chi cavalca la lancia, e di galoppo
la sprona incontro a la vezzosa madre,
chi con un Capro fa giostre e tornei,
chi de la sua vittoria erge i trofei.

202.Parte piantan gli approcci, e vanno a porre
Tassedio a un tronco, e fan monton de Tasta:
batton la breccia, e son castello e torre
la gran goletta e la corazza vasta.
Chi combatte, chi corre, e chi soccorre,
altri fugge, altri fuga, altri contrasta,
altri per Tampie e spaziose strade
con amari vagiti inciampa e cade.

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203.Questi d’insegna in vece, il vel disciolto
volteggia a l’aura, e quei l’afferra e straccia.
Colui la testa impaurito e ’l volto
ne la celata per celarsi caccia,
e dentro vi riman tutto sepolto
col busto, con la gola, e con la faccia.
Costui volgendo a l’aversario il tergo
corre a salvarsi entro ’l capace usbergo.

204.Ma ecco intanto il Principe maggiore
de l’alato squadron, che lor comanda.
Comanda dico agli altri Amori Amore,
agli altri Amori, i quai gli fan ghirlanda,
ch’ad onta sia del militare onore
tosto legata a la purpurea banda
la brava spada, e ’n guisa tal s’adatti,
ch’a guisa di timon si tiri e tratti.

205.Senza dimora il grave ferro afferra
sudando a prova il piieril drappello.
Ciascuno in ciò s’essercita, e da terra
sollevarlo si sforza or questo, or quello.
Ma perché ’l peso è tal, ch’a pena in guerra
colui che ’l tratta sol può sostenello,
travaglian molto, ed han tra lor divise
le vicende e le cure in mille guise.

206.Chi curvo ed anelante andar si mira
sotto il gravoso e faticoso incarco.
Chi la gran mole assetta, e chi la gira
dov’è piú piano e piú spedito il varco.
Chi con la man la spinge, e chi la tira
o con la benda, o col cordon de l’arco.
L’orgoglioso fanciul guida la torma
tanto che con quell’asse un carro forma.

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207.Pon quasi trionfai carro lucente
del sovrano Campion lo scudo in opra,
e per seggio sublime ed eminente
alto v’acconcia il morion di sopra.
Quivi s’asside Amor, quivi sedente
trionfa del gran Dio che Tamii adopra.
Traendo intanto il van di loco in loco,
in vece di destrier’, lo Scherzo e ’l Gioco.

208.Acclama, applaude con le voci e i gesti
l’insana turba degli Arcier seguaci.
Dicean per onta e per dispregio: — È questi
l’invitto Duce, il domator de’ Traci?
10 stupor de’ mortali e de’ celesti?
11 terror de’ tremendi e degli audaci?
Chi vuol saver, chi vuol veder s’è quegli,
deh vengalo a mirar pria che si svegli.

209.Ecco i fasti e i trionfi illustri ed alti,
ecco gli allori, ecco le palme e i fregi.
Piú non si vanti omai, piú non s’essalti
per tanti suoi sí gloriosi pregi.
Quant’ebbe unqua vittorie in mille assalti
soggiaccion tutte ai nostri fatti egregi.
Scrivasi questa impresa in bianchi marmi,
vincan vincan gli amori, e cedan l’armi. —

210.A quel gridar, dal sonno che l’aggrava
Marte si scote, e Citherea si desta,
e poi che gli occhi si forbisce e lava,
le sparse spoglie a rivestir s’appresta.
Adon, che lo spettacolo mirava,
non seppe contener la lingua mesta;
né potendo sfogar la doglia in pianto,
fu costretto addolcirla almen col canto.

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211.— Amor — cantò — nel piú felice stato
m’alzò, che mai godesse alma terrena,
e ’n sí nobile ardor mi fe’ beato,
che la gloria del mal temprò la pena.
Or col ricordo del piacer passato
dogliosi oggetti a risguardar mi mena,
lá dove in quel bel sen, che fu mio seggio,
altrui gradito, e me tradito io veggio.

212.La Dea che dal mar nacque, e da cui nacque
il crudo Arcier che m’arde e mi saetta,
si compiacque di me, né le dispiacque
a mortale amator farsi soggetta.
O piú del mar volubil, che tra Tacque
pur fermi scogli e stabili ricetta;
ma ’n te nata dal mare, oimè, s’asconde
un cor piú variabile de Tonde.

213.Io per serbar l’antico foco intatto
soffersi in ria prigion miserie tante,
né per che lieve augello ancor sia fatto,
fatto ancor lieve augel, son men costante.
E tu sí tosto il giuramento e ’l patto
ingrata hai rotto e disleale amante?
Ahi stolto è ben chi trovar piú mai crede,
poi che ’n Ciel non si trova, in terra fede. —

214.Qui tacque, e quel cantar, ben che da Marte
fusse o non ben udito, o mal inteso,
l’indusse pure a sospettare in parte
del suo rivale, e ne restò sospeso;
e temendo d’Amor l’inganno e l’arte,
e bramando d’averlo o morto o preso,
a Mercurio il mostrò, che quivi giunto
con Amor ragionando era in quel punto.

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215.Il peregrino augel súbito allora
fugge dal vicin ramo, e si dilegua,
e ’l messaggio divin non fa dimora
pur come sol per ritenerlo il segua.
Ma poi che son di quel boschetto fora,
del fugace il seguace il volo adegua,
e lá dove piú folta è la corona
de’ mirti ombrosi il ferma, e gli ragiona:

216.— O meschinel, che per quest’aere aperto
su le penne non tue ramingo vai,
di tanto mal senza ragion sofferto,
fuor che te stesso, ad incolpar non hai,
ch’essendo pur de l’altrui fraude certo,
dar volesti materia ai propri guai.
Non però desperar, poi ch’a ciascuno
fu l’aiuto del Ciel sempre oportuno.

217.Giá de la stella a te cruda e nemica
cessan gl’influssi omai maligni e tristi.
Ma pria che ’n un con la figura antica
la tua perduta ancor gemma racquisti,
durar ti converrá doppia fatica,
tornando al loco onde primier partisti,
e lavarti ben ben ne la fontana
possente a riformar la forma umana.

218.De l’acqua, ove la Fata entra a bagnarsi
quando depon la serpentina spoglia,
poi ch’avrai sette volte i membri sparsi,
fia che la larva magica si scioglia.
Tornato a Tesser tuo, vanne ove starsi
in guardia troverai di ricca soglia
mostro il piú stravagante, il piú diverso
che si scorgesse mai ne l’Universo.

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219.Ha fattezze di Sfinge, e tien confuse
quattr’orecchie, quattr’occhi, altrettant’ali.
Due luci ha sempre aperte, altre due chiuse,
e le piume e l’orecchie ancor son tali.
Lunghe l’orecchie, a’ bei discorsi ottuse,
non cedono d’Arcadia agli animali.
La sua faccia si muta e si trasforma,
quasi Camaleonte, in ogni forma.

220.Vario sempre il color lascia e ripiglia,
né mai certa sembianza in sé ritenne.
Come veggiam la cresta e la bargiglia
del Gallo altier, che d’india in prima venne,
bianca a un punto apparir, verde e vermiglia,
qualor gonfio d’orgoglio apre le penne,
cosí sua qualitá cangia sovente,
secondo quel che mira, e quel che sente.

221.La vesta ha parte d’òr, parte di squarci
divisata a quartieri, e fatta a spicchi,
quindi di cenci logorati e marci,
quinci di drappi preziosi e ricchi.
Non aspetti chi va per contrastarci
che ne le vene il dente ei gli conficchi,
però che morso ha di mignatta e d’angue,
che non straccia la carne, e sugge il sangue.

22 2. Tagliente, aguzza ed uncinuta ha l’ugna,
e diritto il piè manco, e zoppo il destro.

Ma nel corso però non è chi ’l ghigna,
ed è d’ogni arte perfida maestro.

Son l’armi sue, con cui combatte e pugna,
in mano un raffio, a cintola un capestro.

Tira con l’un le genti, e le soggioga,
con l’altro poi le strangola e l’affoga.

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223.Non si cura d’Amor questi ch’io dico:
altro che l’util proprio ama di rado;
e ne’ guadagni suoi sempre mendico,
sta sempre intento a custodir quel guado.
Sol per disegno applaude anco al nemico,
né conosce amistá, né parentado.
L’amicizie, le leggi, e le promesse
tutte son rotte alfin da l’Interesse.

224.Interesse s’appella il Mostro avaro
de le ricchezze e del tesor custode,
del tesoro, ove chiuso è l’anel raro:
non risguarda virtú, ragion non ode.
Tien ei le chiavi de l’albergo caro,
né vale ad ingannarlo astuzia o frode.
E perché vegghia ognor con occhi attenti,
vuoisi modo trovar che l’addormenti.

225.Per indurlo a dormir, de l’armonia
l’arte, ond’Argo delusi, in uso porre
vanitá fora inutile, e follia,
ch’ogni cosa gentile odia ed aborre,
e di qual pregio il suono e ’l canto sia
non conosce, non cura, e non discorre,
come colui che stupido ed inetto
d’Asino ha in un l’udito c l’intelletto.

226.A far però, ch’ebro del tutto e cieco
di sonno profondissimo trabocchi,
basterá che ’l baston, ch’io porto meco,
un tratto sol ben leggiermente il tocchi.
Farò né piú né men nel cavo speco
al Serpente incantato appannar gli occhi,
acciò che fuor di que’ dubbiosi passi
senza intoppo securo andar ti lassi.

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227.E mia cura sará far poi dormire
le guardiane ancor degli aurei frutti,
perché non ti difendano a l’uscire
la porta, che vietar sogliono a tutti.
Giunto a l’empia magion, mille apparire
aspetti vi vedrai squallidi e brutti.
Vedrai la Donna rea con altra faccia
a che sciagura, misera, soggiaccia.

228.Entra allor ne l’Erario, e quindi presto
prendi il gioiel che de la Dea fu dono,
ma null’altro toccar di tutto il resto,
ben ch’apparenza in vista abbia di buono.
Quante cose v’ha dentro (io ti protesto)
contagiose e sfortunate sono,
e ciascuna con seco avien che porte
augurio tristo di ruina o morte.

229.Uscito alfín de la gran pianta, avèrti,
poi ch’una noce d’òr còlta n’avrai,
fa’ ch’appo te ne’ tuoi viaggi incerti
la rechi ognor, senza lasciarla mai,
perché valloni sterili e deserti
passar convienti inabitati assai,
lá dove stanco da sí lunghi errori
penuria avrai di cibi e di licori.

230.11 guscio aprendo allor de l’aurea noce,
vedrai novo miracolo inudito.
Vedrai repente comparir veloce
sovra mensa reai lauto convito.
Da ministri incorporei e senza voce,
senza saver da cui, sarai servito.
Né mancherá dintorno in copia grande
apparato di vini e di vivande. —

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231.Con questi ultimi detti il Corner Divo
de’ Numi eterni il suo parlar conchiuse,
e lá tornato, ove lasciò Gradivo,
la bugia colorí d’argute scuse.
Ma poi con Citherea cheto e furtivo
lungamente in disparte ei si diffuse,
e le narrò dopo la ria prigione
il caso miserabile d’Adone.

232.Instrutto Adon dal consiglier divino,
per le due volte giá varcate vie
non tardò punto a prendere il camino
verso le case scelerate e rie.
Era quand’egli entrò nel bel Giardino
tra ’l fin de l’alba e ’l cominciar del die.
Giá s’apriva del Ciel l’occhio diurno,
ed era a punto il dí sacro a Saturno.

233.Ode intanto sonar tutto il Palagio
di lamenti che van fino a le stelle,
quasi infelice ed orrido presagio
di dolorose e tragiche novelle.
Ed ecco vede poi lo stuol malvagio
sbigottir, scolorir de le donzelle,
e quasi di cadavere, ogni guancia
di vermiglia tornar livida e rancia.

234.Vedele orribilmente ad una ad una
vestir di sozza squama il corpo vago,
e d’alcun verme putrido ciascuna
prender difforme e spaventosa imago.
Vede tra lor con non miglior fortuna
la Fata istessa trasformarsi in Drago,
e ’n fogge formidabili e lugubri
tutte alfin divenir bisce e colubri.

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235.Mira Adone, e stupisce, e su per l’erba
rimmondo seno a strascinar le lassa,
e poi ch’umiliar quella superba
in tal guisa ha veduta, al fonte passa;
e perché l’alto aviso in mente serba,
per purgarsi ne Tacque i vanni abbassa.
Sette volte s’attuffa, e si rimonda,
e ciò ch’egli ha d’augel, lascia ne Tonda.

236.Ritolto dunque a pien Tessere antiquo,
volge al tesor di Falsirena il passo,
e ritrova su l’uscio il Mostro iniquo
dormir si fortemente a capo basso,
che par mirato col suo sguardo obliquo
l’abbia Medusa, e convertito in sasso:
onde pria che si rompa il sonno grave,
non senza alcun timor gli tòe la chiave.

237.Quand’egli ha ben quelle sembianze scorte,
quando il crudo rampin gli mira a piedi,
e quando il tocca, non ha il cor sí forte
che non gli tremi da Tinterne sedi.
Pur la chiave sciogliendo, apre le porte
de la conserva de’ piú ricchi arredi.
Era grande la stanza oltremisura,
e di gemme avea ’l suolo, e d’òr le mura.

238.Di lampe in vece e di doppieri accesi
sfavillanti piropi ardono intorno,
ch’a meza notte a Tauree travi appesi
fanno l’ufficio del Rettor del giorno.
Dodici Segni ed altrettanti Mesi
rendono il loco illustremente adorno:
statue scolpite di ftnissim’oro,
che per ordine stan ne’ nicchi loro.

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239.Havvi ancora i Pianeti e gli Elementi,
tre Provincie del mondo, e quattro Etati,
rilievi pur d’artefici eccellenti,
del metallo medesimo intagliati.
Parte poi di bisanti e di talenti,
di medaglie e di stampe havvi dai lati,
parte di zolle cariche e di masse
ampi forzieri, e ben capaci casse.

240.Tra forziero e forzier v’ha tavolini
d’estranie pietre, e gabbinetti molti,
che di vezzi di perle e di rubini
tengon gran mucchi e cumuli raccolti.
Altri lapilli generosi e fini
in piú groppi vi son legati e sciolti.
Scettri e corone v’ha, branchigli e rose,
c catene, e cinture, ed altre cose.

241.Vi conobbe tra mille il bel diamante
Adon, che giá la Maga empia gli tolse.
Oh Dio con quanti baci, oh Dio con quante
affettuose lagrime il raccolse.
Ma quando poi col fido specchio avante
gli occhi a l’amata imagine rivolse,
traboccò di letizia in tanto eccesso
che ne l’imaginar resta inespresso.

242.Sorge in mezo a la sala aureo colosso
maggior degli altri assai tutto d’un pezzo,
d’un pezzo sol, ma sí massiccio e grosso
che non è fabro a fabricarne avezzo.
Di Fortuna ha l’effigie, e tiene addosso
tante gemme, e nel sen, che non han prezzo.
Tal è la rota ancor, tal è la palla,
tale il Delfin che la sostiene in spalla.

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243.A piè di questa un letturin d’argento
riccamente legato un libro regge,
e vergata ogni linea ed ogni accento
in idioma Arabico si legge.
De lo stranio volume a Tomamente
ornamento non è che si paregge.
La covertura in ogni parte è tutta
di fin topazio e lucido costrutta.

244.Son le fibbie a la spoglia ancor simili,
di zaffiri composte, e di giacinti.
Son d’or battuto in lamine sottili
i fogli in bei caratteri distinti.
Ha di fregi ogni foglio e di profili
d’azurro e minio i margini dipinti,
e figurate di grottesche antiche
le maiuscole tutte, e le rubriche.

245.Quanti ha tesori il mondo a parte a parte,
ciò che la terra ha in sen di prezioso,
opra sia di Natura, o lavor d’Arte,
in miniere diffuso, o in arche ascoso,
tutto scritto e notato in quelle carte
mostra l’indice pieno e copioso.
I propri siti insegna, e i lor custodi,
e per trovargli i contrasegni e i modi.

246.Gira Adon gli occhi, e ’n questa parte e ’n quella
scorge diverse, e ’n su diverse basi,
ricche reliquie, e ’n rotolo o in tabella
de le memorie lor descritti i casi.
V’ha de la pioggia, in cui per Danae bella
scese Giove dal Ciel, colmi gran vasi.
E verghe v’ha di traboccante pondo,
che dal tatto di Mida ebbero il biondo.

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247.V’ha l’aurea pelle che d’aver si vanta
rapita a Coleo il nobile Argonauta.
E v’ha le poma de l’Hesperia pianta,
ond’Alcide portò preda si lauta.
Le palle v’ha, che vinsero Atalanta,
pur troppo il corso ad arrestarvi incauta.
Ed havvi il ramo che sterpar dal piano
fé’ la Vecchia di Cuma al pio Troiano.

248.Vide fra l’altre pompe in un pilastro
pendere un fascio di selvaggi arnesi.
V’ha la faretra con sottile incastro
di perle riccamata, e di turchesi.
V’ha gli strali per man d’egregio mastro
di fin or lavorati insieme appesi.
N’avria (credo) non ch’altri, invidia Apollo,
né so se tale Amor la porta al collo.

249.L’arco non men de la faretra adorno
d’oro e seta ha la corda attorta insieme,
di nervo il busto, e di forbito corno
di questo capo e quel le punte estreme.
Brama Adon quelle spoglie aver intorno,
ma di Mercurio il duro annunzio teme.
Vede che de la scritta esplicatrice:

  • ’ Armi di Meleagro ” il breve dice.


250.Di tutto ciò ch’ivi raccolto ei vede,
nessuna punto aviditá l’invoglia,
si che di tante e si pregiate prede
pur una (ancor che minima) ne toglia.
Questa sola desia, perché la crede
per lui ben propria e necessaria spoglia;
ed essendo senz’arco, e senza strali,
aver non spera altronde armi mai tali.

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251.Adon che fai? deh qual follia ti tira
armi a toccar d’infernal tosco infette?
Ahi trascurato, ahi forsennato, mira
chi quell’arco adoprò, quelle saette!
Y’è di Diana ancor nascosta l’ira,
son fatalmente infauste e maledette.
Da che la Fera sua fu da lor morta,
infelici l’ha fatte a chi le porta.

252.Egli, ch’a ciò non pensa, o ciò non cura,
la faretra dispicca, e prende l’arco,
e di questa e di quel tiensi a ventura
render l’omero cinto, e ’l fianco carco.
Poi per la via piú breve e piú secura
del tronco d’òr si riconduce al varco,
né trova a córre il frutto impaccio o noia,
col favor di Mercurio, e de la gioia.

253.Tutto quel giorno, che fra gli altri sette
è di riposo, ed ultimo si conta,
convertita in Dragon la Maga stette,
poco possente a vendicar quell’onta.
Nacquer le Fate a tal destin soggette,
che da che sorge il Sol fin che tramonta,
e dal porre al levar, la brutta scorza
ogni settimo dí prendono a forza.

254.Or qual doglia la punse e la trafisse,
poi che spuntar de l’altra luce i raggi?
Quanto allor si turbò? quanto s’afflisse
quando s’accorse de’ suoi novi oltraggi?
Ma — Vanne ingrato pur, vattene — disse —
ché la vendetta mia teco ne traggi. —
Tacque, ed a sé chiamò con fiera voce
de le sue guardie un Caporal feroce.

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255.Orgoglio ha nome, altri l’appella Orgonte,
de la Superbia e del Furore è figlio.
In bocca sempre ha le minacce e Tonte,
traverso il guardo, e nubiloso il ciglio.
Due gran corna di Toro ha su la fronte,
d’Orso la branca, e di Leon l’artiglio.
Ha zanne di Mastino, occhi di Drago:
figurar non si può piú sozza imago.

256.Grossa e rauca la voce, e la statura,
emula de le torri, ha di Gigante:
e del membruto corpo a la misura
lo smisurato spirto è ben sembiante.
Pietá, ragion, religion non cura,
perverso, inessorabile, arrogante,
bruno il viso, irto il crine, il pelo irsuto,
temerario cosí, come temuto.

257.Poi ch’a costui narrate ha Falsirena
l’ingiurie sue con pianti e con querele,
udita ei la cagion di tanta pena,
sorride d’un sorriso aspro e crudele,
e ne la faccia e ne la bocca piena
d’amaro assenzio, gli verdeggia il fiele;
e ’l parlar, ch’egli face a la Donzella,
è muggito, e ruggito, e non favella.

258.— Mandami tra le Sfingi e tra i Pithoni,
v’andrò — dicea — senza mestier d’aiuto.
Mandami tra i Centauri e i Lestrigoni,
dov’ogni altro valor resti perduto.
Pommi pur tra i Procusti e i Gerioni,
tutto ardisco per te, nulla rifiuto.
Darti in pezzi smembrato un vii fanciullo
fora di questa man scherzo e trastullo.

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259.Impommi cose pur, ch’altri non possa,
dimmi ch’io domi il domator d’Anteo.
Di’ che d’un calcio sol, d’una percossa
Polifemo t’abbatta, e Briareo.
Vuoi ch’io ponga sossovra Olimpo ed Ossa?
strozzi Efialte, e strangoli Tifeo?
Vuoi che sbrani ad un cenno, e che divori
del giardino di Coleo i Draghi e i Tori?

260.ch’io scacci di laggiú l’empie sorelle?
ch’io snidi di lassú la Luna e ’l Sole?
I denti svellerò da le mascelle
al rabbioso Mastin da le tre gole.
Catenato trarrò giú da le stelle
10 Dio ch’esser invitto in guerra suole.
Facil mi ha, se punto ira mi move,
tòr l’Inferno a Plutone, il Cielo a Giove.

261.Porterò sovra il tergo e su la fronte
soma maggior d’Atlante, e maggior pondo.
Del Nil sol con un sorso il vasto fonte
asciugherò quand’ha piú cupo il fondo.
Se venisse a cader novo Fetonte,
se minacciasse pur ruina il mondo,
meglio di chi l’ha fatto e stabilito
a forza il sosterrei con un sol dito.

262.I poli sgangherar de l’asse eterno
(pur che ’n grado ti sia) mi parrá poco.
II gran globo terren vo’ con un perno
a guisa di paleo librar per gioco.
11 fulmine passar del Re superno
al corso, e di vigor vincere il foco,
e stracciar a due man l’istesso Cielo
né piú né men come se fusse un velo. —

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I 4 S

LA PRIGIONE

263.Le bravure de l’un l’altra ascoltando,
si divora di stizza e di tormento.
— Tempo — dice — non è d’andar gittando
l’ore, o mio fido, e le parole al vento.
Malagevoli imprese io non dimando,
noto m’è troppo il tuo sommo ardimento.
So le tue forze, il tuo valor ben veggio:
ma molto men di quanto hai detto io cheggio.

264.Prendimi sol quel fuggitivo ingrato,
perfido, disleale, e traditore.
Prendilo, e trailo vivo a me legato,
ch’io sfoghi a senno mio l’ira e ’l dolore.
Vivo dammi il crudel che m’ha rubato —
disse «il tesor» ma vòlse dire «il core».
— Oltre via, farò pur — soggiunse Orgoglio —
quel che vuoi, quel che deggio, e quel che soglio. —

265.Non molto sta dopo tai detti a bada,
e s’accinge al partir l’anima altera.
Prende un scelto drappel di sua masnada,
gente simile a lui malvagia e fera.
Seguendo il van per non battuta strada
il Disprezzo e ’l Dispetto in una schiera.
Lo Scherno è seco, e seco ha per viaggio
l’Insolenza, il Terror, l’Onta e l’Oltraggio.

266.Trascorre i campi, e si raggira ed erra
spiando del Garzon la traccia invano.
Porta ovunqu’egli va tempesta e guerra,
fa tremar d’ognintorno il monte e ’l piano.
L’elci robuste e i grossi faggi atterra,
e pela i boschi con la sconcia mano.
Col soffio sol par ch’ammorzar presuma
la gran lampa del Ciel, che ’l mondo alluma.