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Della Nuova Istoria/Libro V

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Libro V

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Zosimo - Della Nuova Istoria (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1850)
Libro V
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DI ZOSIMO

CONTE ED AVVOCATO DEL FISCO


DELLA NUOVA ISTORIA


LIBRO QUINTO




Arcadio ed Onorio, pervenuti al supremo comando, sì pareano di solo nome imperadori, essendo in effetto il principato Orientale nelle mani di Rufino e quello d’Occidente abbandonato all’arbitrio di Stelicone. Tutte le controversie a simile venivano da loro con grande licenza diffinite, riuscendone vittorioso chi mediante danaro comperava il giudizio, ovvero in forza di tal quale amistà conciliavasi il buon volere del giudice. Di questo modo eglino rendeansi possessori dei beni di coloro che la comune degli uomini reputa fortunati. Altri parimente allettandoli con doni evitavano le calunnie, ed eranvi pur di quelli, i quali da lor posta cedeano il proprio all’uopo di ottenere magistrature, o di promovere sinistri alle città. Moltiplicatasi ne’ popoli, senza eccezione, ogni maniera di scelleraggini, le ricchezze da ovunque si fosse riboccavano in copia negli abituri di Rufino e Stelicone, i principi non attendendo un vero nulla agli affari, e qualunque [p. Tav. VIII modifica] [p. 237 modifica]ordinamento dei loro governatori tenendolo per non iscritta legge. Rufino dunque, accumulate unitamente al collega immense facultadi, già sognava farsi via infino all’impero, unendo al principe in matrimonio sua figlia nubile, come opportuno mezzo di conseguire l’intento. Si vale imperò con segretezza di gente al servigio della corte onde proferiscanne parola ad Arcadio: se non che, mentr’egli supponea occultissimo il suo divisamento, la fama avea propagato anche tra la plebe siffatti maneggi, argomentando ognuno dalla stessa crescente di lui superbia, e dalla tracotanza di giorno in giorno appalesantesi maggiore, i concepiti suoi disegni, e quindi vie meglio era il bersaglio d’un generale sdegno. Egli poi, quasi volendo a bello studio con più gravi scelleraggini occultare i minori delitti, ebbe ricorso alla seguente fellonia.

Fiorenzo, prefetto del pretorio appo le genti di là dalle Alpi quando il gran Giuliano fregiavasi della cesarea dignità, avea un figlio nomato Luciano, il quale erasi privo delle sue campagne di assai valore ad ottenere con tal dono il patrocinio di Rufino; laonde questi mai sempre dichiaravasi grato verso del giovane, e con lode parlandone all’imperatore Arcadio gli procacciò l’onoranza di conte dell’Oriente, magistratura che al suo possessore conferiva autorità sopra tutti gli amministratori di quelle provincie, potendone correggere il male operato. Ora Luciano mostrandosi ai subalterni ricco d’ogni virtù degna d’un presidente, per la sua giustizia, temperanza e tutte le altre doti atte ad illustrare un magistrato, riscuotea celebrità [p. 238 modifica]somma: nè presso a lui aveanvi personali differenze, il suo animo nulla curando salvo il prescritto dalle leggi; di maniera che giunse talvolta a rigettare una inchiesta fuor di ragione avanzatagli da Eucherio zio dell’imperatore. Al quale atto di rettitudine il chiamatosi offeso calunniollo, vampante d’ira, presso del trono. Arcadio pertanto accagionando Rufino dell’averlo inalzato a si grande potere, il ministro, colta l’opportunità, quasi offeso della riprensione, senza comunicare ad alcuno il proprio divisamento avviasi con pochi seguaci ad Antiochia, ed a notte ben ferma entrato nella città v’arresta il conte e costringelo, privo affatto di accusatori, a produrre le sue difese, comandando infine che percosso vengagli il capo con isfere di piombo. Rendutolo cadavere procura sia trasportato entro coperta lettiga, inducendo il popolo a credere che potesse il meschino, rimanendogli tuttora un resto di vita, addivenire meritevole di qualche umanità. La stessa Antiochia poi assai molestamente comportando così altiero procedere, egli a cattivarsi la plebe costruì nella città un regal portico superiore in magnificenza ad ogni edificio ivi eretto. Di ritorno quindi a Costantinopoli tende a conseguire l’affinità imperiale, e con fervore mai più per lo avanti sì eccessivo studiasi collocare la figlia in matrimonio col principe. Ma intrappostisi nuovi garbugli, fuor d’ogni aspettazione, a travolgerne le pratiche, cadde affatto di speranza. Due figli di Promoto dal tempo in cui vivea Teodosio cresciuti erano ad una coll’imperiale prole. Altri di essi avea seco una vergine di maravigliosa bellezza. Eutropio, tale degli eunuchi [p. 239 modifica]all’imperial servigio, esorta il principe, celebratagli l’avvenenza della fanciulla, ad impalmarla, ed osservandolo non mal volentieri udirne parlare mostragliene il ritratto, ch’ebbe possa di invaghirlo maggiormente; persuasegli infine di sposarla. Rufino ignorante di queste faccende ritenea in breve compiersi le imperiali nozze con sua figlia, e tra poco addivenire egli stesso collega del principe nell’impero. L’eunuco poi condotte a termine le sue pratiche ordina al popolo di tripudiare, e cingersi il capo di ghirlande, giusta la usanza nelle imperiali nozze. Pigliate in seguito dalla reggia le vestimenta convenevoli alla principessa ed i femminili ornamenti consegnali agli imperiali servi; quindi preceduto dal popolo attraversa con essi la città. Tutti, nella credenza che fossersi arnesi destinati alla figlia di Rufino, unisconsi al convoglio. Venuti, col proceder oltre, alla casa di Promoto, e date queste arre sponsalizie alla vergine donzella educata presso di lui, appalesano qual sia per essere la imperiale sposa1. Rufino al mirare il principe contrarre matrimonio con altro suggetto, conoscendo le sue speranze deluse, escogita nuova impresa tendente a levar di mezzo Eutropio.

Tale andando gli affari sotto l’imperatore Arcadio, Stelicone, posto al governo dell’Occidentale impero, sposa al principe Onorio la figlia avuta da Serena, prole di altro Onorio fratello di Teodosio genitore dei principi. Consolidata pertanto in grazia della [p. 240 modifica]ottenuta affinità la sua possanza, il comando avea poco meno di tutte le imperiali milizie. Poichè, rimosso dal trono Eugenio ed avvenuta in Italia la morte di Teodosio, egli, capitanando tutto l’esercito, ritenute erasi le più robuste ed agguerrite genti, e spedito avea nell’Oriente le disagiate e da purgarne i ruoli. Stabiliti questi affari e mal comportando che Rufino pretendesse in que’ luoghi potestà eguale alla sua, pensava indirizzarsi ad Arcadio, bramoso di governarne a volere gli stati, dicendo tra’varj comandi avuti da Teodosio in punto di morte, esservi anche quello di assistere diligentissimamente ambo i monarchi. Rufino accortosi delle costui mire studiavasi impedirne la partenza ver l’Orientale impero; nè cessava infrattanto di sparpagliare le truppe d’Arcadio a renderle così più deboli. Fermato dunque di menare sagacemente ad effetto i concepiti disegni trovò per la esecuzione loro uomini assai più malvagi di quanto desiderava, cagionando con essi al Romano impero gravi sciagure: ed ecco il come.

Musonio, di greca stirpe e giunto all’apice del sapere, ebbe tre figli, Musonio, Antioco ed Assioco. Il primo ed il terzo gareggiavano nel superare così in dottrina come in probità le paterne virtudi. Il secondo lieto andava di ben contrarie inclinazioni, essendo stiuma di ribaldi. Or bene, Rufino conosciutolo adatto a’ suoi divisamenti gli dà, nella qualità di proconsolo, la Greca amministrazione, procurando in pari tempo agevolare alle barbariche scorrerie la rovina di quello stato. Fida inoltre a Geronzio il presidio delle Termopili, pronto [p. 241 modifica]anche questi a secondarne i consigli dannosi alla repubblica. Fatti così turpi regolamenti, allorchè vide Alarico propenso a sedizioni ed alla disubbidienza delle leggi (perchè non iscelto a duce supremo delle milizie, lasciatigli que’ soli barbari da Teodosio ricevuti quando seco distrutto avea la Eugeniana tirannide), in segreto lo avvisa che se inoltrasse co’ suoi barbari, o con altre collettizie truppe raccolte da varie genti, renderebbesi di leggieri padrone della Grecia intera. Alarico avvalorato da tali detti abbandona la Tracia e messo piede nella Macedonia e nella Tessaglia sperpera quanto aveavi di mezzo2. Avvicinatosi quindi vie più alle Termopili manda occultamente annunziando il suo arrivo al proconsolo Antioco ed a Geronzio prefetto della guernigione postavi a difesa. Questi ritiratosi col presidio libera da impedimenti il passo nella Grecia ai barbari, che lo valicano guastando a bell’agio le campagne e sfolgorando affatto le cittadi. Uccidonvi eziandio il sesso virile arrivato alla pubertà, e menan via in frotte, quasi conquistata preda, e fanciulli e donne col rimanente bottino. Tutta la Beozia di parità ed il resto delle Greche popolazioni, ovunque i barbari penetrarono dopo l’ingresso dalle Termopili, giaceansi avvilite, e da quell’ora insino ad oggi presentano agli occhi degli osservatori il sofferto disastro. I soli Tebani andarono da sì gravi mali esenti così per le fortificazioni della città loro, come perché Alarico, sollecitar [p. 242 modifica]volendo la occupazione di Atene, risoluto avea di non perdere tempo in quell’assedio. Egli dunque, risparmiando ai Tebani tanta sciagura, camminò ad Atene sperando insignorirsene agevolmente, essendo per la sua interna grandezza incapace di resistenza. Possessore inoltre del contiguo Pireo confidavasi presto ridurre gli abitatori per mancanza di fodero all’arrendimento.

Da questa fiducia senza dubbio egli sentivasi animato. Ma la vetustà di quelle mura non potea a meno di conciliarsi una divina provvidenza in sì tremende congiunture, onde essere preservata dalle nemiche vessazioni. Gioverà quindi riferire il prodigio, al certo divino ed inspirante pietà negli uditori, che apportò salvezza ad Atene. Alarico, pervenutovi coll’esercito, nello spiarne all’intorno le mura vedevi alla difesa Minerva sotto le forme rappresentateci dai simulacri, dir vogliamo in armi, come pronta a respignere gli assalitori; mira eziandio avanti esse l’eroe Achille, quale appuntino Omero mostravalo ai Troiani, allorchè vampante di sdegno combattevali per vendicare la morte di Patroclo. Egli allora non comportando la terribile visione, sospeso ogni tentativo contro della città, mandovvi entro banditori coll’offerta di pace. Consentitosi alla proposta dal popolo e giurati da ambe le fazioni gli accordi, il barbaro scortato da pochi si fa in Atene. Urbanissimamente accolto, dopo essersi lavato, aver banchettato cogli ottimati della cittadinanza ed anche ricevuto doni, partì di là e da tutta l’Attica non commettendovi guasto veruno. Atene dunque fu la sola città rispettata dal tremuoto, che sotto l’imperator [p. 243 modifica]Valente scosse la intera Grecia, come narravamo nel precedente libro, ed in questa occasione dal nemico, il quale minacciavala di estrema rovina.

Alarico impaurito dalle visioni apparsegli, lasciata l’Attica libera interamente dalle sue rapine, dirizzò il passo alla Megaride e di subito impossessatosene, corre alla volta del Peloponneso non rinvenendo lungo quella via opposizione alcuna. Accordatogli poscia da Geronzio il valico dell’istmo potè senza fatica e battaglie impadronirsi di tutte le città prive affatto di mura, provveduto essendo alla sicurezza loro colla guarnigione dell’istmo. Laonde prima Corinto e le prossimane cittadi arrendonsi tosto alle sue armi; dopo lei Argo unitamente ai luoghi di mezzo infino a Sparta, pur ella soggiacendo all’egual sorte della rimanente Grecia, non provveduta, colpa la Romana avarizia, nè di armi, nè di gente adatta alle pugne3; ma subordinata a ministri traditori e studiosissimi nel secondare, in ogni cosa funesta alla repubblica, la cupidigia di coloro che aveano il comando. In Rufino spasimante l’impero, alla nuova delle Greche disavventure, vie più crebbene la bramosia, sperando, turbato l’ordine pubblico, non incontrare ostacoli ne’ suoi conati. Ma Stelicone, imbarcate le truppe, mette alla vela per soccorrere la disgraziata Acaia. Afferrato nel Peloponneso costrinse i barbari a fuggire in Foloe, e distrutti avrebbeli agevolmente per mancanza di annona, se dato non [p. 244 modifica]si fosse ai piaceri, alle buffonerie de’ mimi ed alle invereconde zambracche; nè conceduto avesse ai militi il predare quel poco lasciato dai barbari, ed al nemico l’agio di uscire del Peloponneso col fatto bottino, tragittare nell’Epiro e porvi a sacco quelle genti. Al porgere quindi orecchio alle notizie delle costoro vessazioni, perduta l’acconciatura, volge le prore agli Italiani lidi, recato avendo maggiori e più gravi sinistri ai Greci colla sfrenatezza de’ militi condotti seco.

Presa terra in Italia macchinò di subito la morte di Rufino, ed eccone il modo. Riferisce al principe Onorio il bisogno di spedire al fratello Arcadio alcune coorti di militi a difesa delle nazioni per mala ventura in quella parte dell’impero travagliate. Riportato l’ordine di eseguire i menzionati divisamenti, appresta le truppe da mandare colà, e conferitane a Gaine la capitananza lo fa consapevole de’ suoi progetti verso Rufino. Pervenuti i soccorsi in vicinanza di Costantinopoli, Gaine, precedutili, ne partecipa l’arrivo ad Arcadio, annunziandogli essersi mossi col desiderio di aiutarlo in que’ trambusti. L’imperatore, all’udirne, allegratosi, è da Gaine esortato ad incontrarli nell’entrare in città, onore di consueto alle truppe concesso. Il principe, non rifiutandovisi, cammina ad incontrarli, ed avutene manifestazioni di rispetto pur egli cortesemente li accoglie; ma tosto, ad un segno di Gaine, tutti ad un tratto circondando Rufino di spada ferisconlo, e chi gli tronca la man destra, chi la manca, e chi spiccagli il capo dal collo, profferendo le ovazioni solite cantarsi nelle vittorie. Oltre di che, a maggior vitupero [p. 245 modifica]dell’ucciso, portanne da per tutto nella città in giro la mano, addimandando a quanti avvenivansi elemosina per lo incontentabile.

Rufino di questa guisa, dopo intollerabili mali recati a molti, pagò il giusto fio de’ commessi delitti alle infernali Furie. Compiute in ogni lor parte le trame di Stelicone contro a Rufino, Eutropio con assoluto potere soprantendea a quanto nella reggia era ponderato. Converti a simile in proprio il più de’ beni spettanti all’ucciso, concedendone pur altrui quel tanto ch’e’ si pareano averne qualche diritto. Alla consorte poi ed alla figlia di lui, rifuggitesi per lo timore nella chiesa de’ cristiani ad evitare egual morte, egli, obbligata la sua parola, permise di navigare alla città di Gerusalemme, domicilio una volta de’ giudei, ma poscia sotto l’impero dì Costantino abbellita con edifizj dai cristiani, ov’elle passarono il resto della vita. Determinatosi finalmente ad allontanare tutti gli autorevoli personaggi, onde non avessevi altri, da sè in fuori, che s’approssimasse in potenza al monarca, tende insidie, senza veruna legittima causa a Timasio, infino dall’impero di Valente fregiato dell’onoranza di maestro delle milizie, e che in più guerre prestato avea il suo aiuto; era la calunnia appostagli del tenore seguente.

Bargo, originario della Siriaca Laodicea e venditore di salsicce nel foro, campato per delitti commessi in Laodicea de’ Sardi, comportandosi da quel che era, acquistossi colle sue malvagità rinomanza. Timasio ito colà ed osservandolo faceto e di maraviglioso artificio nel conciliarsi facilmente, adulando, ogni ceto di gente [p. 246 modifica]in cui abbattevasi, annoveratolo infra suoi famigliari, tosto lo prepone ad una coorte di militi, nè pago ancora seco lo piglia nel battere la via di Costantinopoli. Tal procedere dispiacque ai magistrati, poichè interdetto aveano a Bargo per alcune sue turpi azioni di vivere in quella città; non di meno Eutropio rinvenutolo soggetto di cui valersi, come strumento idoneo a calunniare Timasio, induce sottomano questo accusatore ad allegare falsi libelli, onde incolparlo di avere aspirato all’impero; ed egli stesso, presente al giudizio ed a veruno secondo ne’ cubiculi augustali, possedea la facoltà di pronunciare sentenza. Ora tutti di mal animo tollerando che il salsicciaio movesse querele contro ad un personaggio per tante cariche e dignitadi illustre, il principe, ritiratosi dal giudizio, commette a Saturnino e Procopio di ultimarlo. Il primo di essi, più avanzato di età e chiaro per grandi magistrature sostenute, non era interamente libero da piagenteria, solito ne’ giudizj a secondare i desiderj e le mire de’ potentissimi dopo il sovrano. Procopio in cambio, suocero dell’imperator Valente, si parea in alcune congiunture franco nel dichiarare la verità, cosicchè allora nel processar Timasio contradiò Saturnino, dicendo essere sconvenevolezza lo ammettere le accuse di Bargo contro al duce, ed il fare opprimere dalle calunnie di vile ed affatto immondo omicciatto un personaggio cotanto distintosi nell’esercizio di così numerose magistrature e ricolmo di sublimi onoranze; come pure (assurdità somma a dirsi) il comportare che il benemerito pericoli mediante l’opera del beneficato; ma egli [p. 247 modifica]colla sua liberissima favella nulla ottenne, e la molto commendata sentenza di Saturnino vinse il partito.

Timasio condannato al bando ed a menar sua vita nell'Oasi4, èvvi da pubblici satelliti condotto; luogo in verità sterilissimo e donde niuno, messovi una volta piede, sperar può di sottrarsi. Poichè ai trasferiti là entro un suolo arenoso, vastissimo e deserto, vieta ogni comunicazione coll’esterno. I venti inoltre distruggono, empiendole d’arena, le orme impresse da viandanti, nè vi rinvieni albero o casa donde trarre qualche indizio per non ismarrirti. Corse non di meno voce generale che Timasio ne uscisse per opera del figlio Siagrio, il quale evitando i suoi persecutori ed assistito da qualche predoni, giunse a ritrarnelo. Ma se il grido fosse verità o sparso nel volgo dai favoreggiatori di Eutropio, non fuvvi alcuno pronto ad asserirlo con certezza, nè più da quel tempo comparvero così Timasio come Siagrio. Bargo, il quale campato avea dal timore d’ogni pericolo Eutropio, dileguatosi in costui il sospetto della nimicizia di Timasio, riceve la prefettura d’una coorte militare donde avere facile guadagno, e deluso nella speranza di maggiori doni parte, ignorando che Eutropio, dopo l’indegna sua azione contra il benemerito Timasio, pagato avrebbelo dell’egual moneta. Obbligato dunque dall’officio conferitogli ad allontanarsi dalla città, quegli persuadene la consorte, non senza motivo già in discordia col marito, di presentare al principe [p. 248 modifica]libelli, accusandolo di gravissimi delitti. Eutropio, lettili, ordina tosto di chiamarlo in giudizio, e lo sentenzia, convinto, al meritato gastigo. Dopo di che tutti incessantemente ammiravano e celebravano l’occhio di Adrastia5, il quale non può in modo veruno andar gabbato dai malfattori.

Eutropio, ebbro di sue ricchezze ed estimandosi elevato sopra le nubi, avea poco meno che presso tutte le genti esploratori solleciti nello spiarne con diligenza le azioni, e quali fossero di ciaschedun cittadino i possedimenti, nulla ommettendo per accumulare tesori. Invidia anch’essa ed avarizia lo istigano contro di Abondanzio. Era costui originario della Scizia, parte della Tracia, ed insino dai tempi di Graziano colà militato avea, ottenendo in seguito dall’imperatore Teodosio grandissime onoranze, compresavi eziandio la pretura ed il consolato. Ma volendo Eutropio privarlo de’ beni e delle onorevoli cariche, non a pena fattone il comando per iscritto dal principe, vien discacciato dalla reggia ed impostogli di abitare nella Fenicia Sidone, ove passò il resto di sua vita. Dopo di che il perfido ministro, non avendovi più in Costantinopoli chi osasse affisarlo, dirigeva tutti i suoi pensieri a Stelicone, governante di proprio arbitrio le occidentali provincie, e ad impedirgli lo avvicinarsi alla città regale escogita mezzo per chiudergliene l’entrata, persuadendo al [p. 249 modifica]principe il dichiararlo in pien senato, con pubblico decreto, avverso all’impero. Si lega poscia col duce Gildo, comandante le truppe dell’Africa unita a Cartagine, e tolta la provincia coll’opera di lui all’impero di Onorio, ponela sotto quello di Arcadio. Se non che sopravvenne a Stelicone fortuito caso mentr’egli a malincorpo soffriva l’Africana perdita, ed il suo animo forte aggiravasi nella incertezza. Gildo pigliato ad insidiare con barbarico furore il fratello nomato Masceldelo6, costrinselo a navigare verso l’Italia per abboccarsi con Stelicone e partecipargli le offese dal germano ricevute. Laonde Stelicone mandalo con truppe e sufficiente naviglio a guerreggiare il suo persecutore. Arrivato dunque laddove udito avealo a dimora, e fattoglisi repentinamente addosso coll’esercito, riuscì dopo fiera battaglia per modo vincitore, che Gildo risolvè darsi morte di laccio, preferendo l’uscire di vita al cadere in ostili mani. Masceldelo, ricongiunta l’Africa al regno di Onorio, passò di nuovo in Italia, ove Stelicone, quantunque punto da invidia per l’ottimo successo dell’impresa, finge non di meno con belle speranze onorarlo. Ma in determinato giorno camminando per un sobborgo della città accompagnato da altri e dallo stesso Masceldelo, giunti a non so che ponte del fiume, i satelliti, obbedienti al segno da lui ricevuto, gittan costui giù [p. 250 modifica]nell’acqua, facendone gran risa il traditore, e quel meschino, trascinato dall’impeto del fiume, rimanendovi affogato.

Le nimicizie di Stelicone ed Eutropio addivenute manifeste, vanno per le bocche di tutti, ed infra gli scambievoli odii degli animi loro, e’ scherniscono licenziosamente al sommo le popolari calamitadi, il primo unito già avendo in matrimonio la figlia Maria al principe Onorio, e l’altro governando quasi gregge i sudditi d’Arcadio. Poichè se aveavi qualche ottimo possedimento, egli, spogliatone il proprietario, lo annestavano al patrimonio loro; di pari guisa ove trovavasi oro ed argento, a sè il traevano senza riguardo veruno ai legittimi padroni, fidata essendo a copiosa turba di calunniatori la difesa di tali vituperj.

A questi andamenti di entrambe le monarchie, tutti gli ottimati dell’ordine senatorio con isdegno soffrivano l’oppressa e misera condizione de’ governati, ma Gaine particolarmente, il quale non riportava l’onoranza dovutagli come più anziano duce, nè la insaziabilità d’un barbarico animo esser potea sbramata con doni; vie peggio infine travagliato dal vedere tanto danaro scorrente nell’abituro d’Eutropio, nè moderare potendo la sua ira a cosiffatto procedere, strigne lega con Tribigildo, uomo pronto ad incontrare perigli, dispostissimo ad ogni cimento e comandante non delle equestri coorti Romane, ma delle barbariche di stanza nella Frigia, ricevutone dal principe il grado. Questi finge di volersi avviare colà per rassegnarvi le sue truppe, e così pretestando abbandona Costantinopoli. Quindi, postosi [p. 251 modifica]in cammino co’suoi militi, assale ovunque mette piede lungo la via, di maniera che facendo scempio d’uomini, donne e fanciulli, guastando tutti i luoghi a cui avvenivasi, e radunando in brevissimo tempo sterminato numero di saccardi ed altra consimile gente, riduce agli estremi l’Asia universa. Il perchè travagliatissimi i Lidii, fuggendo nella totalità, quasi direi, alle marittime piagge, navigavano colle proprie famiglie alle isole o altrove, paventando l’Asia medesima col mare a confine di partecipare l’imminente sconforto. Arcadio all’udirne, punto non curando le pubbliche sciagure (nè esser potea altramente a cagione della sua balordaggine fuor di misura) consegnò il generale governo dell’impero ad Eutropio. Questi sceglie a duci Gaine e Leone, divisando spedire l’ultimo in Asia per assalirvi gli usurpatori barbari o le ragunaticce milizie; ed il primo inviarlo nella Tracia e nelle strette dell’Ellesponto per combattervi le nemiche truppe, ove sieno quegli abitatori oppressi dalle molestie loro.

Leone, destinato a soccorrere l’Asia, era intieramente privo d’ogni virtù di assoluto bisogno ad un capitano, nè avea altra dote comunque, salvo la molta dimestichezza con Eutropio, per meritare il fortunatissimo inalzamento. Gaine spedivasi nella Tracia onde impedire alle milizie di Tribigildo il passo per l’Ellesponto, e chiamarle, se lo addimandasse la pratica di guerra, ad una battaglia navale. Entrambi, avutone il comando, muovono colle truppe a norma della propria destinazione. Gaine allora, sovvenutosi degli accordi [p. 252 modifica]fatti con Tribigildo, all’osservare propizio il tempo dì por mano ai concepiti disegni, ordinagli di condurre le milizie all’Ellesponto. Né v’ha dubbio ch’egli tenendo occulti i suoi pensamenti contro alla repubblica riuscito sarebbe, quetamente partitosi co’ barbari da Costantinopoli, ad effettuare le preparate novitadi, o sia la occupazione dell’Asia; nè incontrato avrebbe più ostacolo veruno ad impedire che la perdita di lei seguita fosse da quella di tutto l’Oriente. Ma la fortuna conservare volendo tuttavia salve le cittadi colà poste al Romano impero, egli, trasportato dall’impeto e fervore ingenito negli animi de’ barbari, si allontana da Costantinopoli, fornitogli quasi il general potere di condurre la guerra, ed a pena messo piede in Eraclea annunzia a Tribigildo quanto uop’era imprendere. Or questi risolvè di non avviarsi all’Ellesponto, paventando incontrare le truppe ivi di stanza; guastata in cambio pressoché in ogni parte la Frigia, investì la Pisidia, e dato ovunque, senza impaccio alcuno, il sacco, ritrassene il piede.

Gaine, alla notizia di tali eventi, e memore degli accordi fatti con Tribigildo, punto non badava ai popoli travagliati dalla guerra. Leone intanto sempre fermo ne’ luoghi presso all’Ellesponto, non osa venire a battaglia col ribello pretestando temere non costui per mala sorte, battendo altro straniero, mettesse improvvisamente a ferro e fuoco le campagne in vicinanza di quello stretto. Laonde volle il destino che, nulla ostando a Tribigildo, città qualunque cedere dovesse alla forza, e tutti gli abitatori, compresi gli stessi militi, [p. 253 modifica]soggiacessero a morte; nessuno de’ barbari porgendo aiuto alla imperiale fazione, anzi negli stessi aringhi, soccorrendo ai combattenti loro, avventavansi contro de’ Romani vessilli.

Gaine poi, avvegnachè si paresse a malincuore tollerante le Romane disavventure, singe ammirare gli stratagemmi di Tribigildo, celebrandolo insuperabile nella prudenza, e meglio co’ suoi accorgimenti, che non colla forza vincitore del nemico. Passato quindi nell’Asia senza recare la minore offesa ai terrieri, alle città ed ai campi, detto lo avresti unicamente correr dietro ai ribelli, ed essere in certo modo spettatore degli eventi. Attende poscia l’inoltrare di Tribigildo nell’Oriente, inviandogli con segretezza milizie per averle quindi cooperatrici dei proprj disegni, e le sue determinazioni rimaneansi per ancora sconosciute. Ora, se Tribigildo penetrato nella Frigia tosto diretto si fosse, non curante la Pisidia, nella Libia, nulla rattenuto avrebbelo dal conquistare a suo bell’agio e lei e la Ionia; donde in seguito fatta vela per le isole e messa in punto un’armata navale, forte quanto si vorrebbe, navigar potea fuor fuore per l’Oriente, e libero da grandi ostili scontri, saccheggiare tutto il suolo insino all’Egitto. Ma non volto l’animo a così nobile impresa, e determinatosi a condurre le truppe nella Pamfilia contigua ai Pisidi, capita in sentieri difficili e non praticabili dai cavalli. Qui, avvegnachè non avessevi esercito veruno ad arrestarli, un Valentino, abitatore di Selga, piccola città della Pamfilia ed a cavaliere d’un colle, uomo passabilmente istrutto nè privo [p. 254 modifica]di qualche bellico sapere, assembrata quantità di mancipj e di agricoltori, esercitati negli assidui schermugi co’ vicini predoni, locolli ne’ poggi sovrastanti laddove tragittar e’ doveano perchè tenessero loro d’occhio, e fossersi eglino onninamente invisibili, sebbene il nemico battesse di giorno quella via. Tribigildo co’ suoi barbari per istrade men disagevoli cavalcato al suolo più basso della Pamfilia, e di notte giunto ne’ luoghi sottoposti a Selga, investito fu da continui tiri di frombe scaglianti sassi da empire la mano ed anche di maggior volume, facile essendo il gitto di assai grosse pietre da più elevata posizione. Nè v’era speranza di scampo (terminando il sentiero da un lato con profondo marese e paduli; dall’altro con angustissime salite capaci a pena di fornire il transito a due passeggieri di costa; la montata poi di orbicolare figura nomavasi dai paesani, per la simiglianza all’animale, chiocciola; il luogo inoltre guernito di gente comandata da un Fiorenzo, tutta in armi, e tale copiosa da resistere a chiunque tentassene il valico); di maniera che i barbari quivi sorpresi ed oppressi dalla moltitudine e grandezza de’ proiettili, vi giuntarono in altissimo numero la vita, non potendo a meno in quelle ristrettezze le pietre loro avventate di ucciderne qualcheduno. Manchevoli dunque sommamente di consiglio, molti ad uno coi destrieri calaronsi nei paduli, evitando così la morte dai sassi, ma rimanendo nelle acque spenti. Tribigildo allora con trecento militi ascesa la chiocciola ed a forza di danaro corrotto Fiorenzo e le truppe ivi di guardia, comperò il passo.

[p. 255 modifica]Campato di là non diedesi pensiero alcuno della totale rovina de’ suoi, e ritenendo cessati i pericoli, andò a precipitare in altri non minori de’ primi. Conciossiachè quasi tutti gli abitatori delle città, impugnate le armi venute loro alla mano, rinserraronlo co’ trecento seguaci intra’ fiumi Melane ed Eurimedonte, l’uno scorrendo oltre Sida, e l’altro per mezzo ad Aspendo. Ridotto pertanto alle strette, nè sapendo come torsi da quell’intrigo, mandane avviso a Gaine. Costui, dolentissimo dell’avvenuto ed occultando sempre l’animo suo intorno alla ribellione, spedisce Leone, duce aggiuntogli, a soccorrere i Pamfilii, ed assalire con Valentino le milizie di Tribigildo, non permettendo loro il transito de’ fiumi. Leone, quantunque stolido per natura ed inclinato ad ogni riprovevole passione, obbedisce agli ordini ricevuti. Ma Gaine, d’altronde, paventando non Tribigildo, all’essere da tutte le parti combattuto nè avendo milizie da pareggiare il nemico, venisse interamente distrutto, invia contro al campo Romano più e più coorti dei barbari da lui capitanati per consumarlo a poco a poco, e così procurare al suo fido l’opportunità alla fuga. Costoro dunque spediti da Gaine ad aiutare Leone, affrontati parecchi Romani e fattane strage guastano la regione perseverando nel dare un generale saccheggio, finattantochè non ebbero quasi tutto il paese rovinato e diserto, avvenendo così quanto Gaine ardentemente bramava. Tribigildo, egli stesso, nell’abbandonare la Pamfilia, diedesi a malmenare vie più di prima i popoli della Frigia. Gaine poi estollendo immensamente al monarca le imprese del ribello, [p. 256 modifica]reselo si tanto spaventevole al senato ed ai cortigiani, che infino dicevano essere per arrivare all’Ellesponto, ove metterebbe ogni cosa in iscompiglio, quando il principe non si degnasse farne le inchieste.

Egli con questi artifizj cercava di occultare ad Arcadio i suoi disegni e compiere, mediante il venire agli accordi con Tribigildo, i proprj desiderj, mordicandolo non tanto il dispregio in cui era tenuto, quanto l’inalzamento di Eutropio ad immenso potere, vedendolo infra de1 consoli annoverato, conservandone assai tempo il nome, e da ultimo ascritto alla onoranza de’ patrizj. Fatti, dond’egli ebbe fuor di misura forti stimoli di usurpare la repubblica, e trovandovisi di già l’anime suo apparecchiato stabilì da prima tendere insidie alla vita d’Eutropio. Al qual uopo, dimorando costui tuttora nella Frigia, mandò all’imperatore dicendo: esser egli scorato dal sublime ingegno di Tribigildo nelle belliche imprese, e cimenterebbesi indarno a vincerne il furore, ovvero a liberare l’Asia dai sovrastanti pericoli, quando e’ non si disponesse ad accordargli la dimandata consegnazione di Eutropio, autore principalissimo di tutti i mali, assoggettandolo pienamente ai voleri di lui.

Arcadio portovi orecchio manda per Eutropio, e, digradatolo, gli dà licenza. Questi corre al tempio dei cristiani, avendo il luogo ricevuto da esso ampio diritto d’asilo. Ma Gaine insistendo che Tribigildo rifiutavasi tuttavia di cessare menomamente dalle sue violenze, quando non si discacciasse lontano Eutropio, fu questi allora, in opposizione della stessa legge concedente il [p. 257 modifica]diritto d’asilo alle chiese, tolto di là e spedito in Cipro sotto la custodia di fidate guardie. Se non che Gaine, mettendo Arcadio alle strette, incitavalo a dargli morte. Alla per fine gli amministratori dell’impero, deludendo con sofismi il giuro fatto al prigioniero nel ritrarlo dalla chiesa, ordinano di ricondurlo da Cipro, e quasi sacramentato avessero di non sentenziarlo a morte durante la sua dimora in Costantinopoli, tradottolo a Calcedone comandanne la uccisione. La fortuna per verità comportossi ver lui, sì nel prospero che nell’avverso stato, in estraordinaria guisa, inalzandolo a quella sommità di onoranze cui nessuno degli eunuchi era unquemai pervenuto, e dannandolo a morte per l’odio col quale i nemici della repubblica davansi lagno d’essere da lui perseguitati.

Gaine del resto, avvegnachè i suoi pensieri diretti a novitadi fossero generalmente noti, opinavali sempre occulti. Possessore inoltre dell’animo di Tribigildo viene, rappresentandolo, col principe agli accordi, e giurate da entrambi le convenzioni, retrocede per la Frigia e la Lidia. Tribigildo seguelo dagli omeri senza volgere neppure lo sguardo a Sardi, metropoli di quella regione. Riunitoglisi poscia vicino a Tiatira città, destossi pentimento in lui di non aver messo a ferro e fuoco Sardi, potendola, priva d’ogni soccorso, con facilità grande occupare. Stabilì dunque, tornandovi con Gaine, di espugnarla; ma volendo accingersi all’opera, cadde grossissima pioggia che, inondando il suolo, gonfiò talmente i fiumi da impedirne il valico e quindi le minacciate ostilitadi. Egli di là, per differenti sentieri [p. 258 modifica]guidando le truppe, avviasi alla Bitinia, e Tribigildo all’Ellesponto, concedendo ai loro barbari il saccheggio ovunque mettevan piede. Arrivato l’uno a Calcedone ed occupato dall’altro il terreno a frontiera di Lampsaco, tanto Costantinopoli quanto il Romano impero aggiravansi in estremo pericolo, Gaine domandando che andasse a lui Arcadio stesso, risoluto di non voler favellare con altro qualunque. Il monarca pur ora consentitogli, ambedue convennero ad un luogo prima di Calcedone, ove sito era il tempio della pia7 martire Eufemia, in venerazione pel culto da lei tributato a Cristo. Quivi stabilirono di consegnare a Gaine e Tribigildo, passati dall’Asia in Europa, i più eminenti personaggi dell’impero onde venissero spenti; ed eran costoro Aureliano, console di quell’anno; Saturnino, consolare, e per terzo Giovanni, partecipe di tutti i segreti del principe e da molti creduto padre del supposto figlio di Arcadio.

Il monarca piegò anche a questa sebbene tirannica domanda, e Gaine impossessatosi degli antedetti personaggi, e fatte loro appressare le spade soltanto alla cute, si contentò sbandeggiarli. Passato quindi nella Tracia, coll’ordine a Tribigildo di seguirlo, giunse [p. 259 modifica]l’Asia a respirare, mirandosi in qualche modo libera da così gravi pericoli. Nella sua dimora poi in Costantinopoli sparge qua e là i militi destinati a difenderla, spogliando la città delle stesse guardie pretoriane, ed esorta di ascoso i barbari ad impadronirsene, ricevuto all’uopo il segnale partite le truppe; rimasa non altramente priva di soccorso gliene conferirebbono l’assoluto potere.

Fatti questi comandamenti alle coorti seco, esce di quelle mura, pretestando il suo corpo infermò per le sostenute belliche fatiche e bisognevole di riposo, del quale spererebbe indarno godere se non quando abbandonato si fosse ad una vita scevra da cure. Laonde lasciate nella città barbariche schiere, molto superiori di numero ai discacciati pretoriani, ritirossi in un borgo lontano di là quaranta stadj per attendere il momento di rivenirvi non a pena i barbari entrovi, giusta il convenuto, accinti fossersi all’opera. Egli si vivea con tale fiducia, e se prevenuto non avesse, stimolato dal barbarico furore, il tempo idoneo all’impresa, nulla potea contradiargli il possesso di quelle mura. Md condottivi i suoi militi senz’attendere lo stabilito segnale, que’ del presidio, spaventati, mandano forti grida. Suscitatosi allora grave ed universale tumulto, e postesi le donne a piangere ed urlare come se già fossevi penetrato il nemico, tutti g|i abitatori pigliano a combattere le truppe del ribello esistenti nella città, e dopo averne con spade, pietre ed altre armi presentatesi loro fatto eccidio, montano di corsa in su delle mura, ed insiem colla guernigione avventan dardi e proiettili [p. 260 modifica]comunque capitati loro alle mani ai militi di Gaine, perchè non fossero di forza espugnate.

Liberata la città dall’urgentissimo pericolo, i barbari, sette mila e più di numero, sopraffatti dalla popolazione riamarono entro la chiesa de’ cristiani vicina alla reggia, cercando per loro salvezza questo asilo. Ma l’imperatore comandane l’eccidio in quello stesso luogo, non giudicandolo a bastante idoneo a renderli esenti dalla giustissima punigione de’ commessi delitti. Ad un tal ordine del principe nessuno tuttavia osava strapparli di là, temendo non eglino facessero pruova di resistenza. Laonde si risolve di abbattere il tetto soprapposto alla mensa del sacrario (cosi denominata), acciocchè gli esecutori dell’imperiale comando gittassero dall’alto legni ardenti8 lor contro, e di tal modo, operando senza posa, tutti venissero dalle fiamme consunti. L’impresa di vero conseguì l’intento, i barbari dal primo all’ultimo rimanendovi uccisi, ma ne’ più fervorosi cristiani destossi lo scrupolo di essersi nel mezzo della città effettuato enorme sacrilegio.

Gaine, fallitogli questo gravissimo tentativo, passò a guerreggiare manifestamente la repubblica, ed assalite le campagne della Tracia, vi osservava murate le [p. 261 modifica]città e difese dai magistrati e dagli abitatori, i quali dalle precedenti scorrerie ammaestrati nell’arte delle armi, con tutte le forze loro uscivano a combattere. Egli pertanto, mirando fuori delle mura la sola gramigna, portativi entro i varj prodotti, il bestiame ed ogni altra provvigione da bocca, stabilì, abbandonata la Tracia, inviarsi al Chersoneso, e per le strette dell’Ellesponto retrocedere a fretta nell’Asia. Mentre poi così la pensava, il monarca ed il senato concordemente risolverono di scegliere a combatterlo il duce Fraiuto, barbaro costui di schiatta, e Greco in tutto il resto, non di costumi semplicemente e d’indole, ma d’animo determinatissimo a non abbiurare il professato culto de’ Numi. Egli dunque già illustre pel governo di molte preture, e liberatore di tutta l’orientale regione sita infra la Cilicia, la Fenicia e la Palestina dai guasti delle barbariche scorrerie, riceve l’esercito da opporre al ribello, onde chiudergli il passo nell’Asia per l’Ellesponto. Apparecchiasi quindi alla guerra, nè comportando intrattanto la disoccupazione delle truppe, le istruisce tenendole in continuo esercizio delle armi; e di tal modo aveale si forte incoraggiate, ch’elle, dato bando alla poltroneria ed infingardaggine de’ tempi addietro, comportavano molestissimamente gli indugi del nemico nel venire alla pugna.

Di più, mentre nell’Asia rivolti erano i suoi pensieri a tali bisogne, di notte e di giorno visitando il campo ed indagando le nemiche insidie, non trascurava l’armata di mare avendo legni sufficienti per cimentarsi ad una battaglia navale. Questi legni nomati [p. 262 modifica]sono Liburne da una città d’Italia dove principiossi a fabbricarne di simigliante forma, e si ritengono veloci al par di quelli mossi da cinquanta remi, sebbene di gran lunga inferiori alle triremi; ora è assai tempo che la costruzione loro andò in disusanza. L’istorico Polibio narra anche di navi a sei ordini di remi, e si pare che i Romani ed i Cartaginesi, guerreggiantisi, di sovente ne profittassero.

Gaine del resto apertosi di forza uno scampo per lo muro lungo nel Chersoneso, locò i barbari in tutta la più elevata piaggia della Tracia ed estendentesi di contro ai luoghi aventi principio da Pario infino a Lampsaco, Abido ed al di là eziandio, giugnendo laddove rendesi più angusto il mare. Frausto, condottevi le navi, giorno e notte va esplorando i conati dei barbari; se non che il duce loro stretto finalmente dalla scarsezza di vittuaglia, comportando a malincorpo una maggior dilazione, tagliati nella selva del Chersoneso travi, li unì accuratissimamente insieme e renduti così acconci al trasporto d’uomini e cavalli vi soprappose gli uni e gli altri, lasciandoli in balla delle onde, non potendosi governare co’ remi o con arte comunque de’ piloti, costruiti essendo in fretta, senza veruno studio e di conformità alla barbarica esattezza.

Il duce, fermo sul lido, sperava onninamente sua la vittoria, quasi che nell’aringo gli avversarj non fossero per mostrarsi pari alle genti di lui in valore. Ma l’accorto Romano condottiero ben conoscendone i pensamenti e congetturato il tentativo, commette ai piloti di allontanare un poco le navi da terra, e vedendo [p. 263 modifica]le nemiche zattere a libito de’ flutti, ne assale quella precedente le altre della prima serie; col suo vascello, avente rostro di bronzo e superiore in tutto il resto alla barbarica zattera, lanciogliesi con violenza addosso rispignendola in un subito, e dardeggiandone i militi sopra affondala insiem con essi. In questa i condottieri delle rimanenti navi, osservata la prodezza del comandante loro, ed imitatone l’esempio, uccisero coi dardi quanti aveano di contro, e se alcuno dalle zattere cadea in mare trascinato era via dall’acqua, nessuno potendo evitare la morte. Gaine avvilito dal tremendo sinistro e perduto gran numero de’ suoi guerrieri, trasportato, privo di consiglio, il campo a breve distanza dal Cherroneso, passò di corsa nella Tracia. Fraiuto, determinatosi a non tenergli menomamente dietro, e contento della vittoria largitagli dalla fortuna, raccolse presso di sè, ove si trovava, le truppe. Qui sursero parecchi ad accusarlo d’essersi astenuto dall’incalciare il fuggente, liberando così ed esso ed i barbari seco in grazia della nazionale comunanza. Egli nulla di ciò sapevole torna alla reggia, lietissimo della conseguita vittoria, asserendola favore dei Numi da lui venerati. Nè arrossiva dichiararsi anche alla presenza dello stesso principe veneratore, giusta i paterni riti, degli Iddii, non potendo in conto veruno risolversi ad abbracciare in siffatto argomento l’opinione del volgo. Accolto dall’imperatore vien nomato console.

Gaine perduti molti guerrieri, di conformità all’esposto, dirigesi a fretta co’ rimanenti all’Istro, ed al rinvenire la Tracia di già saccheggiata dalle prime [p. 264 modifica]scorrerie, la spoglia del poco restatovi. Temendo in seguito la comparsa di qualche imperiale esercito ad assalirlo, e sospettoso insieme de’ Romani seco metteli a morte, affatto ignari della trista lor fine. Valica quindi coi barbari l’Istro per tornare in patria e passarvi gli ultimi giorni di sua vita.

Se non che, mentr’egli va eseguendo i concepiti disegni, Uldes, a que’ dì principe degli Unni, estimò periglioso il concedere ad un barbaro accompagnato dalle proprie milizie l’abitare oltre quel fiume, reputava a simile, discacciandolo, gratificare all’imperatore. Il di che prepaparatosi a movergli guerra, assembra le raccolte milizie per chiamarlo a battaglia. Gaine allora, chiusagli la via di riparare nel suolo Romano e costretto a battersi col nemico esercito, conduce i suoi armati alla volta degli Unni, e venutovi più e più siate a battaglia, giunge, mediante il coraggio delle sue truppe, ad opporgli valida resistenza; non di meno mancatagli poscia molta gente, egli stesso da forte e valoroso combattendo incontravi morte.

Terminata la guerra colla vita di Gaine, Uldes principe degli Unni, mandatane ad Arcadio la testa e riportati per la sua impresa larghi premj, legossi co’ Romani. Ma nulla tuttora avendovi di stabile sotto un imperatore manchevolissimo di prudenza, la Tracia soggiacque a nuove sciagure cagionatele dai fuggiaschi prigioni ad uno coi disertori, i quali affermandosi Unni ivan predando quanto eravi a cielo scoperto ne’ campi. Laonde Fraiuto speditevi le milizie e spentili unitamente ad ogni altro reo di ostilitadi, fe’ liberi da [p. 265 modifica]tema gli agricoltori9 ..... paventando cattivi trattamenti. Dopo di che, pigliarono terra nell’Epiro, e nel consultare intorno alla propria salvezza, incerta per P enormità del misfatto, accordarono mezzo alla fuga de’ loro prigioni; havvi parimente chi vuole fossero con danaro accommiatati; comunque sia, questi entrati fuor d’ogni speranza in Costantinopoli mostraronsi al principe, al senato ed a tutta la popolazione.

Crebbe in appresso l’odio portato dall’augusta10 a Giovanni pontefice de’ cristiani; ella ben anche precedentemente disamavalo, solita nelle pubbliche adunanze ad esser punta da lui concionando alla plebe. Non di meno solo in allora dopo il ritorno di esso [p. 266 modifica]e degli altri esuli cominciò a mostrarglisi apertamente irosa, ed operando mai sempre a capriccio, stimolava tutti li vescovi a discacciarlo dalla pontificale sede, infra de' quali primo e sommo era Teofilo11, pontefice della città d'Alessandria in Egitto, da cui fu mossa guerra agli antichi, sacri ed eterni riti. Proposta la disputa, Giovanni, osservando la sua causa con ingiustizia trattata, si allontanò spontaneamente da Costantinopoli. Sollevatasi per tanto la plebe (signoreggiandone costui con mirabil arte gli animi) tratto avea in iscompiglio l'intero popolo, ed erasi di già con insidie sorpreso il tempio de' cristiani dai nomati monaci. Guardansi costoro dal contrarre legittime nozze, e così nelle città come nelle borgate formano copiosissime adunanze di celibi, disadatti alla guerra ed ai bisognevoli uffizj della repubblica. Sospintisi quindi avanti da quel tempo infino ad oggi trasferirono in proprio gran parte delle campagne, e pretestando quasi dividerne i prodotti cogli indigenti, ridussero poco meno che ognuno alla miseria. Eglino di più occupato avendo le chiese12 impedivano alla plebe di farvi le consuete [p. 267 modifica]preghiere. Il volgo e le truppe allora, mal comportando un tal procedere, addimandarono il raffrenamento della monacale audacia. Dopo di che ad un convenuto segno diedersi con isfrenatezza somma a farne generale strage, empiendo le chiese di cadaveri e trafiggendo tutti i fuggenti coperti di nere vesti, fra quali perirono eziandio molti di quelli che per lutto od altro fortuito caso indossavano panni di tal colore.

Del resto, Giovanni richiamato alla sua vescovile sede, proseguiva a suscitare nella città scompigli non meno di prima. Cresciuta di più l’infame razza de’ calunniatori, e tenendosi continuamente ai fianchi degli eunuchi palatini, se qualche dovizioso partiva di questo mondo e’ correvano a dinunziarne il patrimonio, come se prole o parenti non avesse a succedergli nella eredità; producevansi quindi rescritti del monarca portanti l’ordine di trasferire i beni di Tizio a Sempronio, cedendoli, vogliam dire, a chi fatto aveagliene istanza, senza dare ascolto alle sospirevoli preghiere de’ presenti figli ed afsini. Quanto, in breve, operavasi empiva le città di lagni e recava immenso scapito ad ogni cittadino. Poiché la consorte dello stolidissimo principe [p. 268 modifica]al di là del femminile sesso presuntuosa e signoreggiata dalla insaziabile avarizia tanto degli eunuchi quanto delle donnicciole di sua confidenza e d’un poter sommo presso lei, ad ognuno rendeva penosissima la vita, al punto di ridurre le oneste persone bramose meglio di tutto il resto, della morte.

Siffatte sciagure quasi non bastassero, fu Costantinopoli esposta ad un pericolo maggiore di altro qualunque gravissimo, ed eccone il motivo: Giovanni, come narravamo, rivenuto dall’esilio, e nelle consuete sacre concioni sommovendo gli ascoltanti contro all’augusta, vedutosi in procinto d’essere cacciato dì nuovo dalla sede vescovile e da quelle mura, monta sopra nave e parte. I suoi favoreggiatori allora, mentre impedir tentano col massimo zelo che venga in luogo di lui sostituito altro vescovo, divisano d’incendiare la città. Di notte adunque appiccato fuoco alla chiesa 13 verso l’aurora di là ritrattisi onde rimanere occulti, all’aggiornare la popolazione mira lo spettacolo di Costantinopoli in tremendo pericolo, andando la chiesa ed i vicini caseggiati in fiamme: nè basta: venti procellosi levaronsi a rendere più luttuoso il disastro. L’incendio non sparagnò tampoco il palazzo destinato [p. 269 modifica]alle adunanze de’ senatori. Questa fabbrica sorgente rimpetto alla reggia era magnifica e vistosa al sommo, ricca altresì di statue, la cui maestà colpiva lo sguardo, ed il colorito de’ suoi marmi non soggiacque sin qui ad alterazione veruna. Corre di più la voce che eziandio le imagini delle Muse collocate un tempo sull’Elicone, e poscia, regnando Costantino, tolte violentemente di là con tutto il resto e quivi locate, distrutte fossero dal fuoco. Avventura, per verità, donde pronosticavansi contrarie le Muse, destando il predicamento serii pensieri nell’universale.

Egli è pure spediente di non passar con silenzio un miracolo osservato in allora. Abbellivan le porte di questo senatorio edifizio i simulacri di Giove e di Minerva eretti sopra basi di pietra, e quale avessero figura si può anche oggidì vedere. Corre voce a simile che fossevi altra statua di Giove Dodoneo da prima consacrata in Lindo. Dalle fiamme dunque per intiero cinto, il piombo a coprimento del tetto, liquefattosi, gocciolava sopra de’ mentovati simulacri, e venivano eziandio a cadere in su di essi le pietre, se aveanvene di quelle non resistenti alla violenza del fuoco. Ridotto ad una mora sì nobile abituro, il volgo opinava fatte similmente in polvere le statue. Ma purgato e disposto alla ristaurazione il luogo, soltanto i simulacri de’ prefati Numi apparvero salvi dalla generale rovina. Il perchè la più istrutta popolazione concepì migliori speranze intorno alla città, quasi, vogliam dire, i mentovati Iddii risoluto avessero di non privarla giammai del patrocinio loro: ma compiasi in tutto il voler del Nume.

[p. 270 modifica] Ognuno poi di mal animo comportando il danno alla città recato, nè rinvenendone cagione meno l’ombra dell’asino (proverbio noto), i famigliari del principe volgean la mente a riparare i sofferti guasti. Ecco intanto avviso ai palatini che grande caterva d’Isauri dimoranti al di sopra della Pamfilia e della Cilicia negli alpestrissimi ed inaccessibili gioghi del Tauro, divisi in compagnie di predatori mettevano a soqquadro la bassa regione. Nè danneggiare potendo le munite città, straziavano con iscorrerie le borgate prive di mura ed ovunque mettevan piede; questi saccheggi poi addivenivano più agevoli dall’essere quel suolo non guari prima caduto in potere de’ nemici, datosi Tribigildo co’ suoi barbari a sediziosi movimenti. Giuntone l’annunzio mandasi Arbazacio a porgere aiuto agli oppressi Pamfiliesi. Il duce fornito di acconcia milizia perseguitando que’ ladroni fuggenti in mezzo de’ poggi occupò molte città loro ed uccise quantità di armati: ben di leggieri inoltre ridotto avrebbe il resto sotto la sua obbedienza e procacciato agli abitatori delle città stabile sicurezza se per l’abuso de’ piaceri e delle turpi voluttadi non si fosse molto affievolito, ed allargando la mano al danaro anteposto non avesse lo arricchire al pubblico bene. Laonde in forza di tale prevaricazione richiamato alla reggia, niente meno attendevasi che di essere tradotto in giudizio. Ma, offerta all’augusta parte della pecunia dagli Isauri avuta, riuscì ad evitare il processo e prosondere le male acquistate ricchezze in urbani diletti.

Fin qui gli imprendimenti degli Isauri limitavansi [p. 271 modifica]ad occulti ladroneggi, assalito non avendo per ancora alla scoperta le prossimane genti. Alarico, per tornare a lui, partitosi dal Peloponneso e dalla rimanente regione, come riferivamo, divisa per mezzo dal fiume Acheloo formatosi nell’Epiro laddove abitano e Molossi, e Tesproti ed altri insino ad Epidanno ed ai Taulanzj), attendeva l’esito degli accordi fatti con Stelicone, ed erano del tenore seguente: Questi vedendosi avversigli animi de’reggenti l’Arcadiano impero, legatosi con Alarico escogitava unire alla monarchia d’Onorio tutte le nazioni Illiriche, al qual uopo seco lui unitosi spiava l’occasione di eseguire prontamente il concepito disegno. Ora, mentre Alarico tende a compierne le brame, Rodogaiso14 ragunati infra le Celtiche e Germaniche nazioni di là dai fiumi Istro e Reno quattrocentomila combattenti, si dispone a passare in Italia suscitando, al primo annunzio, maraviglioso generale stupore. Disperatesi le città, e Roma stessa in grande ambascia alla minaccia d’un estremo pericolo, Stelicone muove con tutte le truppe di stanza in Ticino e nella Liguria (agguagliandone le coorti il numero trenta) e con altre [p. 272 modifica]schiere di confederati inviategli dalle genti Alane ed Unne, e senza attendere il nemico, tragittato coll’esercito l’Istro, d’improvviso lo assale, molti e molti uccidendone, per modo che ben pochi giunsero a campare la vita, i quali annoverati vennero infra’ Romani aiuti. Tronfio, nè a torto, per la riportata vittoria, quasi da tutti ricevendo corone, tornava colle milizie, liberato avendo, fuor dal comune pensamento, l’Italia dai temuti sinistri. Di là camminato a Ravenna (metropoli della Flaminia, vetustissima città e colonia de’ Tessali nomata Rene, mainò per essere stata edificata da Remo germano di Romolo, come scrive il Tebano Olimpiodoro, che dovuto avrebbe lasciare siffatto racconto a Quadrato, il quale nella storia dell’imperatore Marco tale parlò di lei), di là, ripeto, avviatosi a Ravenna onde coll’esercito volgere di subito il passo alle città Illiriche per distaccarle, insieme con Alarico, dall’impero d’Arcadio e unirle a quello di Onorio, incontrovvi due ostacoli, vogliam dire, la voce propalatasi della morte del suo alleato, ed una lettera del principe Onorio, portata da Roma, con entrovi la nuova che il ribello Costantino, uscito dell’isola Britannica, erasi avvicinato alle transalpine genti usurpando nelle città prerogative imperiali. Parve tuttavia dubbia la morte di Alarico infinattantochè persone arrivate palesarono qual fosse la verità; il grido poi diffuso all’intorno sopra i divisamenti di Costantino meritò general fede. Stelicone pertanto, impedito dallo accingersi alla spedizione Illirica, avviasi a Roma per consiglio sopra quanto fosse di convenienza operare.

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Terminato l’autunno, al cominciar del verno Basso e Filippo eletti furono consoli. Ora l’imperatore Onorio, passata di questa vita molto prima la consorte Maria, addimandava in matrimonio Termanzia sorella di lei. Stelicone mostravasi non favorevole a queste nozze, Serena, al contrario, insisteavi indotta dal seguente motivo: Allorquando Onorio sposò Maria, Serena, costei madre, vedendo la pulzella lunge ancora dall’età maritale nè, potendo risolversi a indugiare le nozze, nè ad esporre la immatura prole alle coniugali funzioni, pensò non avervi altro rimedio salvo quello di fare oltraggio alla natura. Trovata dunque una femmina sapevole di tali faccende, coll’opera di essa riuscì a far convivere la figlia col principe ed a parteciparne il letto nuziale, senza ch’egli volesse o potesse adempiere il fine dal matrimonio proposto. Morta quindi vergine la donzella, Serena, giustamente bramosissima di procurare l’imperiale figliolanza, per tema non venisse meno la sua tragrande autorità studiavasi nell’unire ad Onorio l’altra figlia; ma, conseguito l’intento, la donzella non guari tempo dopo mancò ai vivi, rimasa sterile pur ella non meno della germana.

Un messo quindi capitò a Stelicone coll’annunzio che Alarico partitosi dell’Epiro e superate le strette di ritegno al passaggio dalla Pannonia ai Veneti, erasi steccato vicino ad Emone città posta infra la più alta Pannonia ed il Norico. Qui giova riferire le notizie pertinenti a questa città ed in qual modo avvenissene da principio l’edificazione. È fama che gli Argonauti perseguitati da Eeta afferrassero alle bocche dell’Istro, [p. 274 modifica]donde il fiume scarica le sue acque nel Ponto, stimando opportuno il navigare breve tratto contro acqua spinti da remeggio e da propizio vento, infinattantochè vie meglio si accostassero al mare. Così fatto ed arrivati a questo luogo costruironvi per memoria della venuta loro Emone. Condotta poscia la nave Argo sopra macchine per lo spazio di quattrocento stadj al mare, approdarono alle piagge de’ Tessali. Non altramente scriveasi dal vate Pisandro, il quale sotto al titolo delle Eroiche divine nozze comprese poco meno che tutta la presente istoria. Alarico da Emone proceduto oltre valicò il fiume Aquili, e trapassati gli Apennini avvicinossi ai Norici. Questi poggi agli estremi confini della Pannonia forniscono strettissimo sentiero ai viandanti, alla cui difesa basta piccola guernigione, dato pur grande il numero delle genti ostinatesi di forza a valicarlo. Egli non di meno tragittatolo spedisce messi a Stelicone per averne danaro, protestando fatta a persuasione di lui così la sua permanenza nell’Epiro, come la gita in Italia e presso de’ Norici. Stelicone, alla costoro giunta lasciatili in Ravenna, prende la via di Roma onde consultare, unitamente all’imperatore ed al senato intorno agli affari del giorno. Ragunatisi nel palazzo i senatori per discutere se convenisse intraprendere la guerra, molti dichiararonsi d’un tal parere. Il solo Stelicone con altri pochi, vinti da timore aderendogli, erano ad essa contrarj, esortando la radunanza ad appagarsi col nemico. Qui li bramosi anzi di guerra che di pace, addimandavano a Stelicone il perchè, data la preferenza alle armi, con disonore della maestà Romana [p. 275 modifica]sostenesse di volersi comperare mediante danaro gli accordi. Egli rispondea, essersi Alarico intertenuto nell’Epiro per vantaggio del principe, onde congiuntamente colla sua opera mossa guerra ad Arcadio e toltegli le provincie Illiriche unirle all’impero d’Onorio. E tanto in realtà avvenuto sarebbe qualora impedita non si fosse per lo addietro la partenza verso l’oriente della scritta dal principe, nella cui attesa quegli perduto avea colà sì lungo tempo. Mentre poi tale ragiona mostra la prefata lettera chiamando in colpa della contrammandata spedizione Serena, la quale desiderava non venisse punto meno la concordia degli imperanti.

Approvate dalla generalità siccome giuste le udite considerazioni, piacque al senato di trasmettere ad Alarico, a titolo di pace, quattromila libbre d’oro, sottoscrittosi da molti il senatoconsulto non di moto proprio, ma da temenza indotti. Lampadio allora, di chiarissima prosapia e dignità, proferì nel paterno idioma le seguenti parole: Non pace è questa, bensì convenzione di servaggio. Dopo di che, scioltosi il senato, egli, paventando per così libero favellare non avvenissegli qualche disgrazia, riparò ad una vicina chiesa de’ cristiani.

Stelicone, fatti di tal modo gli accordi con Alarico, apparecchiasi alla partenza, risoluto di mettere ad effetto i suoi disegni. Onorio poi statuito avea da Roma passare a Ravenna per rassegnarvi l’esercito e benignamente aringarlo, stimolato in ispecie dall’avere sì forte nemico messo piede in Italia. Aggiugneva in oltre di secondare nella presa determinazione meno la propria volontà, che i consigli di Serena, bramosa mirarlo [p. 276 modifica]vivere in più sicuro luogo, onde Alarico, violata la pace ed occupando Roma, non avesse in poter suo ancora il monarca, desiderandone ella sommamente la conservazione come se dalla costui salvezza dipendesse eziandio la sua. Stelicone frattanto, poco disposto a consentire al divisamento del principe, escogita molte difficoltà ad impacciarlo, e quegli in cambio, ognor più fermo nel suo proposito, va sollecitando l’andata. Saro allora, barbaro di stirpe ed in Ravenna comandante delle barbariche milizie, animato da Stelicone, piglia a tumultuare, mirando non già a sconvolgere l’ordine pubblico, ma in forza del timore a distornare l’augusto dallo stabilito viaggio. All’osservarsi impertanto sempre più ostinato nel suo proposito, Giustiniano, chiaro in Roma nel Collegio degli avvocati ed eletto da Stelicone assessore e consigliere, pervenne coll’acume del penetrante suo ingegno, nè forse andremmo errati così dicendo, a riporre il motivo di quell’imperiale disegno nelle truppe a guardia di Ticino, le quali male affette a Stelicone, giuntovi appena il monarca, ridotto avrebbonlo a pericolosissima ventura. Egli dunque non cessa di esortarlo a cangiare consiglio, ma in fine avvedutosi trar via la fatica, e dottando per la nota famigliarità sua coll’opponente di parteciparne le triste conseguenze, lascialo in pace.

Per tutta Roma correa di già la voce della morte di Arcadio, confermatasi dopo la partita d’Onorio alla volta di Ravenna, ove di quel tempo soggiornava Stelicone. Il principe quindi recossi a Bologna, città dell’Emilia lontana da Ravenna settanta miglia, vocabolo colà [p. 277 modifica]in uso. Arrivatovi manda per Stelicone, volendo ch’ei raffrenasse con gastighi le truppe venute nel viaggio infra loro a contesa. Laonde quegli ragunati li sediziosi, ed appalesando loro il ricevuto imperiale comando non solo di punirli, ma eziandio colla decimazione di mettere i più colpevoli a morie, destò in essi tale perturbamento che, tutti con dirotto pianto riusciti a farlo pietoso, n’ebbero promessa di ottenere dalla sovrana clemenza il perdono, ed Onorio confermatane la data parola, intrattennelo seco a consultare intorno alle pubbliche occorrenze. Imperciocchè Stelicone desiava farsi nell’Oriente per mettere in assetto gli affari di Teodosio, figlio di Arcadio, ed in bisogno di tutela; ed anch’egli Onorio avea intenzione di calcare quella via e disporre il tutto onde assodarvi l’impero del pupillo. Se non che Stelicone pur ora contrariavalo, e adducendo la molta spesa dell’imperiale gita pervenne a dissuaderlo. Mostravagli inoltre non convenire assolutamente, ribellatosi Costantinopoli, che il principe si allontanasse cotanto dall’Italia ed abbandonasse le urgenze di Roma stessa, quando il ribello Costantino, trascorsa dall’un capo all’altro tutta la Gallia, trovavasi ora in Arelate. Aggiugnea di più a tali osservazioni, avvegnachè bastevolissime a richiedere la presenza ed i provvedimenti del monarca, la venuta di Alarico, barbaro, a non dubitarne, disleale, con seco numerosissime barbariche truppe, il quale, rinvenendo l’Italia senza difesa, tosto la occuperebbe. Essere dunque ottimo consiglio il commettergli una spedizione contro al sedizioso composta d’una parte delle schiere da lui comandate e [p. 278 modifica]di Romane legioni co’ loro duci, onde tutti insieme partecipassero i pericoli di questa guerra. Egli poi andrebbe nell’Oriente, avutone dal principe il comando, munito di lettera colle istruzioni di quanto doveavi operare.

L’Augusto, pronto a reputarne conforme a giustizia ogni parola, scritto all’Orientale imperatore e ad Alarico, partì da Bologna. Stelicone trattanto soggiornatovi omise l’andata nell’Oriente ed il recare ad effetto veruna delle convenute deliberazioni, trascurando pure di mandare a Ravenna o altrove le milizie a quartiere in Ticino, ond’elle, colta l’opportunità di presentarsi, nel passaggio, al principe, non lo stimolassero ad intraprese di nocumento alla sua persona.

Egli consapevole, per verità, a sè stesso di nessun cattivo consiglio verso l’imperatore e le truppe, così operava. Un Olimpio in cambio, originario del Ponto Eussino, elevato ad illustre grado nella palatina milizia, covando nel suo interno, sotto colore di cristiana pietà, grande fellonia, spesso nel praticare col principe, fingendo probità e modestia, dava stato, omericamente esprimendomi, a molti imprudenti ragionari per renderne l’animo avverso a Stelicone, dichiarandogli che questi brigato avea l’andata in Oriente per insidiare alla vita del minorenne Teodosio, e mettere in trono il proprio figlio Eucherio; nè altramente la discorrea coll’imperatore, offertoglisi acconcio tempo nel viaggiare insieme. Arrivato di più a Ticino, egli, visitando i militi infermi (altro principale scopo della mentita sua modestia) spargeva eziandio infra essi eguali [p. 279 modifica]calunnie15. Scorso a pena il quarto giorno dall’imperiale entrata in quella città, l’augusto, chiamate al pretorio le truppe, si mostra loro ed eccitale a guerreggiare il ribello Costantino. Quindi perfetto silenzio osservatosi rapporto a Stelicone, parve a molti che Olimpio accennasse palesemente ai congregati di rammentare i parlari da lui sottomano fatti. Le truppe allora addivenute quasi furenti uccidono Limenio, prefetto del pretorio appo le nazioni di là dalle Alpi, e Cariobaude, ivi maestro de’ militi, sfuggito avendo entrambi per ventura il tiranno, ed in Ticino raggiunto l’imperatore. Tolgon di vita a simile Vincenzo e Salvio, l’uno maestro de’ cavalieri e l’altro prefetto dei domestici. Cresciuta la sedizione, ritiratosi l’augusto nel pretorio ed alcuni magistrati messa in salvo colla fuga la vita, le truppe spantesi per la intera città fanno strage di tutti que’ magistrati che rinvenir possono, cavandoli dalle case ove speravan salute, e pongono a sacco le generali sustanze. Sì tanto propagatosi il male da non avervi più fiducia di sanarlo, Onorio, indossata una piccola tunica, senza paludamento e diadema comparso nel mezzo della città, [p. 280 modifica]giunse con grandissima fatica a comprimere l’impeto militare. Furono poscia eziandio spenti que’ magistrati presi dopo la fuga, vo’ dire Nemorio, maestro delle palatine coorti, e Patronio, prefetto del fisco e conte del privato patrimonio del monarca. In seguito ebbe morte Salvio, dettatore degli imperiali ordinamenti, ed ai tempi di Costantino elevato alla questura, indarno egli sperando, coll’abbracciare le imperiali gambe, d’impetrare la vita. Protrattasi la commozione fino a notte, Onorio forte paventando qualche oltraggio alla sua persona, ritirossi. Longiniano intanto, prefetto del pretorio d’Italia, caduto in potere de’ sediziosi, vien fatto anch’esso cadavere. Questi, senza replica, furono i personaggi colpiti dal ferro della militare demenza. Perirono di più tutti coloro che per mala sorte abbatteronsi in lei, e tanta ne fu la moltitudine che malagevole sarebbe il numerarla.

All’annunzio di così triste nuove, Stelicone, dimorante allora in Bologna (città, come detto abbiamo, dell’Emilia) non poco turbossi, e ragunati li comandanti de’ barbari seco in lega, invitali a decidere che sia da fare. Tutti di concordia statuirono, che ove nella strage compreso trovisi il principe (mancandone sin qui certezza) agirebbero con rettitudine se anche i barbari alleati dell’impero si avventassero colle unite lor forze contro de’ Romani militi per ridurre in tal modo all’ordine i sopravviventi. Se poi chiaro apparisse non offeso il principe, limitatosi l’eccidio ai magistrati, gastigherebbero i soli autori del commovimento; così vien risoluto da Stelicone e dai barbari duci nell’intrapresa [p. 281 modifica]deliberazione. Conosciutosi quindi salvo Onorio da lesione comunque, Stelicone divisò convenirgli non di proceder oltre a punire l’esercito, ma di andare a Ravenna. Imperciocchè rammentava la moltitudine di quei soldanieri e, peggio ancora, osservava l’imperiale animo verso di lui mal fermo: reputava al postutto nè pio nè sicuro lo spedire barbari contro alle Romane truppe.

Egli poi, mentre inquieto va titubando intorno ai proprj disegni, vede i barbari seco bramosi di effettuare il convenuto nelle precedenti consultazioni ed intenti a distorlo dagli ultimi fatti propositi. Or questi invano tentato il persuaderlo, stabiliscono concordemente di arrestarsi in alcuni luoghi attendendovi che il principe meglio palesato abbia le disposizioni dell’animo suo verso Stelicone. Saro intanto, fortissimo di membra e superiore in grado agli altri confederati, col mezzo dei militi a lui sommessi, uccisi, mentre dormivano, tutti gli Unni, costante guardia di Stelicone, impadronitosi delle bagaglio che lo seguivano, e pervenutone al padiglione lo trova considerando i futuri eventi. Quegli dunque all’osservare anche i suoi barbari discordanti gli uni dagli altri, camminato a Ravenna, esorta le città ove dimoravano lor donne e prole a non permettere l’entrata a veruno di essi presentandosi alle porte.

Olimpio allora, in possesso dell’animo d’Onorio, spedisce alle truppe di Ravenna lettera del principe coll’ordine di fermare Stelicone e custodirlo in libero carcere; questi, avutone sentore, a notte scura riparò ad una chiesa de’ cristiani. Vulgatosi il comando, [p. 282 modifica]i barbari suoi favoreggiatori e gli altri famigliari, dato di piglio alle armi pongonsi ad aspettare l’esito di cosiffatte mene. Aggiornatosi, le truppe entrano, presente il vescovo, nella chiesa, e con giuro asseriscono al rifuggitovi che non aveano mandato di ucciderlo, ma solo di custodirlo. Uscito non di meno della chiesa, mentre era dai militi guardato, i portatori del primo foglio ne producono altro colla sentenza di morte per delitti commessi verso la repubblica. Eucherio, sua prole, intrattanto si diresse, fuggendo, a Roma. Quando poi dovessi condurre il prigione a subire la capitale condanna, i barbari, quanti professavangli benivolenza ed in addietro famigliarità, nè basso erane il numero, statuito aveano con pronto impeto di liberarlo, ed accinti sarebbonsi all’opera s’egli, usando minacce ed intimorendoli, riuscito non fosse ad impedirne l’attentato; dopo di che in certo qual modo presentò al ferro il collo, uomo per modestia superiore a tutti coloro surti allora al sommo potere. E di vero avvegnachè unito in matrimonio alla nipote del maggior Teodosio, fidati alla sua cura gli imperj d’ambo i costui figli, ed anni ventitrè ritenuto il comando supremo delle milizie, non videsi mai accordare, mediante danaro, magistrature, o trarre guadagno dalla militare annona. Padre inoltre d’unico figlio prefissegli a limite d’ogni elevazione di grado l’uffizio di tribuno de’ notai (nome della magistratura) senz’andare in cerca di altra più eminente onoranza. Acciocchè poi i bramosi di tutto conoscere non ignorino anche il tempo della sua morte la riferiamo avvenuta dieci giorni prima delle calende di [p. 283 modifica]calende di settembre sotto i consolati di Basso e Filippo, epoca similmente in cui l’imperatore Arcadio soggiacque all’estremo fato.

Spento Stelicone tutte le palatine faccende subordinate erano all’arbitrio d’Olimpio, fregiato ad una dell’autorità di maestro; oltredichè il principe distribuiva le altre magistrature ai dichiarati dal suo favorito meritevoli di ottenerle. Rintracciati di più ovunque i famigliari dello spento, e quelli che si pareano seguito averne le parti, assoggettati erano ad un giudizio, infra’ quali ebbonvi Deuterio prefetto dell’augustale cubiculo e Pietro tribuno della scuola de’ notai; ambo sottoposti ad un pubblico esame costretti furono a manifestare le proprie notizie riguardanti Stelicone, ma nulla potendosene ritrarre a danno così di lui come di loro stessi, Olimpio, delusi mirando i suoi avvisi, comanda vergheggiati sieno a morte. Più altri di parità inquisiti, quasi consapevoli di simiglianti fatti, e forzati a palesare se accorti tessersi che il morto aspirasse all’impero, tutti protestandosene ignari, desistettero i solleciti di queste ricerche da ogni ulteriore investigazione.

L’imperatore Onorio, scacciata dal trono la consorte Termanzia, sebbene libera d’ogni sospetto, comandò venisse consegnata alla genitrice; volle ad un tempo si cercasse ovunque Eucherio, prole di Stelicone, per metterlo a morte; rinvenuto, sottrattosi colla fuga entro una chiesa di Roma, per rispetto di quell’asilo ebbe allora salva la vita. Nella stessa città di Roma Eliocrate prefetto del fisco ricevuta lettera dal principe di [p. 284 modifica]vendere alla tromba i beni di chiunque, vivente Stelicone, ottenuto avesse magistrature, occupavasi tutto nell’accumulare danaro a vantaggio del pubblico tesoro. E come non bastevoli cotante dovizie a satollare il demone che incatenava coll’opera de’ malvagi, e nell’abbandonamento del Nume scompigliava le umane cose, un che di peggio ancora sopraggiunse ad accrescere le presenti sciagure.

Le truppe di presidio nelle città, udita la morte di Stelicone, tolgon di vita donne e la prole de’ barbari, e quasi ad un convenuto segno trucidatele mettonne a sacco le case. I parenti delle uccise, avutone avviso, accorsi da ogni luogo e gravemente commossi per la fede, chiamatone a testimone il Nume, in così empio modo violata dai Romani, statuiscono di confederarsi con Alarico e d’intraprendere insieme la guerra contro all’impero. Il di che ragunati da trentamila combattenti, o poco più, recansi tosto ovunque cade loro in pensiero. Alarico non di meno, quantunque stimolato da essi, rifiutasi dall’impugnare le armi anteponendo per ora la pace ai bellicosi aringhi, memore della tregua, vivente Stelicone, conchiusa. Al qual uopo, mandati ambasciadori, chiede, che si passi mediante non molta pecunia a ratificare gli accordi, e diensi per istatichi Aezio e Giasone, quegli prole di Giovio e questi di Gaudenzio, promettendo pur egli spedire sotto egual titolo parecchi de’ suoi illustri personaggi, ed a tali patti, osservando fedelmente la pace, ritirerebbe le truppe dal Norico nella Pannonia. Ma l’imperatore disdegnando consentire alle proposte fattegli [p. 285 modifica]videsi obbligato ad appigliarsi all’uno dei due partiti, onde provvedere acconciamente alle occorrenze della giornata: poichè gli conveniva o differire la guerra, ottenendo con poco danaro una tregua, o ragunare tutte le sparte milizie e porle ne’ luoghi soggetti al passaggio del nemico per impedirgli di venire più oltre. Eragli di necessità parimente il conferire a Saro il comando supremo della guerra, idoneissimo ad intimorire col suo valore e perizia nell’arte delle armi gli avversari, e capitanando moltitudine di barbari sufficiente ad una valida resistenza. Se non che trascurata la pace, l’amicizia di Saro ed il ragunamento de’ Romani eserciti, posta in cambio ogni sua speranza nei divisamenti di Olimpio, fu cagione di tante calamitadi alla repubblica. E di vero, mettendo a duci dell’esercito coloro i quali sarebbero di leggieri tenuti a vile dai nemici, sidò la cavalleria a Turpillione, i fanti a Varane e la coorte dei domestici a Vigilanzio. Laonde ognuno, disperando, crede essere di già spettatore della italiana rovina tali furono gli imperiali ordinamenti.

Alarico, beffato l’apparecchio d’Onorio, intraprese la romana spedizione, e divisando accingersi a tanta impresa non solo con eguali forze ma ben anche maggiori, chiamò dalla superiore Pannonia, desiderandolo seco, Ataulfo, germano di sua consorte, cui obbedivano le non dispregevoli truppe degli Unni e de’ Gotti. Nè attesone l’arrivo procedendo innanzi trapassò di fretta Aquilea e le città per ordine site oltre il fiume Eridano, appellate Concordia, Altino e dopo lei Cremona. Valicato poscia il fiume quasi in festiva pompa, [p. 286 modifica]incontrato non avendo uom de’ nemici, giunse ad un Bolognese castello nomato Icubaria. Di là trascorsa l’Emilia ed abbandonata Ravenna si accostò a Rimini, grande città della Flaminia. Quindi lasciatala prontamente colle altre della stessa provincia entrò nel Piceno a confine del seno Ionico. Direttosi in seguito alla volta di Roma saccheggia, passando, e cittadi e castelli, di maniera che se gli eunuchi Arsacio e Terenzio, prima della comparsa de’ barbari in que’ luoghi, non essersi a precipizio sottratti conducendo a Roma Eucherio di Stelicone per morirlo giusta il comandamento del principe ed ivi eseguita avessero la sentenza, il giovane capitato sarebbe nelle mani d’Alarico e rimaso in vita. Gli eunuchi, fatti i comandamenti del monarca e consegnata Termanzia, imperiale consorte, alla genitrice, nè potendo per la stessa via tornare all’augusto, montata una nave dirizzaronne la prora alla volta de’ Celti e de’ Galli, ove tuttora il principe soggiornava. Questi, giunti che furono, estimando assai vantaggioso alla repubblica il rimunerare entrambi dei grandi servigi prestatigli, procurando l’uccisione d’Eucherio e restituendo Termanzia alla madre, inalzò Terenzio alla prefettura dell’augustale cubicolo ed Arsacio al susseguente posto. Messo in fine a morte Batanario maestro de’ militi nella gran Libia e consorte della germana di Stelicone, diedene la provincia ad Eracliano uccisore colle proprie mani di quel misero, ed in premio di ciò salito a cotanta onoranza.

All’avvicinarsi di Alarico a Roma e cingerla d’assedio il senato cominciò ad insospettire di Serena, quasi [p. 287 modifica]tratto avesse colà il nemico. Laonde si propose, unitamente a Placidia, sorella uterina del principe, la morte di lei come autrice de’ presenti mali, opinando che toltala di mezzo Alarico ritirerebbesi dalla città, non avendovi più nessuno dal cui tradimento egli sperar potesse l’entrata in Roma. Il sospetto era tuttavia falso, ella giammai rivolto avendo la mente a tali ribalderie. Pagava non di meno il giusto fio delle commesse violazioni divine che prendiamo qui a narrare. Quando il maggior Teodosio, invanita la Eugeniana tirannide e messo piede in Roma, destò generalmente negli animi il dispregio del sacro culto, negando somministrare le spese occorrenti pe’ sagrifizj, discacciati eranne i sacerdoti d’ambo i sessi, nè più immolavansi vittime ne’ templi. Serena dunque facendone beffe si portò a visitare quello intitolato alla Madre degli Iddìi, ed osservata la collana pendente intorno al collo del simulacro di Rea non immeritevole di quella divinità, spiccola per ornarne sè stessa. A tale nequizia una vecchierella, unica vestale rimasavi, riprendendola di presenza dell’operato, venne da lei con sì gravi oltraggi schernita al punto di comandare al suo codazzo che fosse di là cacciata, e la vestale partendo fa contro ad essa, al consorte ed alla prole imprecazioni dicevoli a tanta enormezza. Ma Serena estimandone le parole un vero nulla e compiacendosi del suo misfatto usciva del tempio; spesso tuttavia, così dormendo come vegliando, apparivate qualche visione, anche da altri veduta, coll’annunzio d’una imminente morte. La Vendetta impertanto persecutrice de’ malvagi sì rettamante compiè il [p. 288 modifica]suo officio, che sebbene colei sapesse i proprj futuri destini, vano le addivenne il guardarsene; anzi presentò al laccio quel collo, intorno al quale posto avea gli ornamenti della Dea16. Narrasi eziandio che Stelicone per altra consimile nefandezza non evitasse la segreta punigione della Vendetta. Raccontano di fatto che egli ordinasse togliere dalle porte del Campidoglio romano le pesantissime auree lame di cui erano coperte, e di più che gli esecutori del comando rinvenissero da altro dei lati loro impressovi: SERBANSI AD UN MISERABILE GOVERNATORE; alla scrittura l’evento rispose, infelice e miserabile stato essendo il termine della sua mortale carriera.

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Alarico impertanto, morta Serena, proseguiva, circondando tutte le porte, l’assedio, ed occupato il fiume Tevere impediva l’entrata della vittuaglia dal porto. I Romani a tal vista risolverono di non perdersi d’animo, aspettando quasi di giorno in giorno aiuti da Ravenna. Miratisi quindi privi d’ogni soccorso e caduti dalle concepite speranze opinarono diminuire la misura dell’annona facendone cuocere la metà di quella solita distribuirsi cotidianamente; aumentatone poscia il caro, venne ad un terzo ridotta. £ poichè vano era il cercare al male rimedio, presto mancarono tutti li conforti ai bisogni del ventre. Alla fame in seguito sopraggiunta la moria l’intera città ridondava di cadaveri, nè potendosi fuor delle mura seppellire, avendovi nemici ovunque, Roma stessa, ridotta quasi deserta, addivenuta era il sepolcro dei morti; cosicchè suppostavi eziandio quanta si vuole abbondanza di fodero il solo fetore esalato dai cadaveri stato sarebbe sufsiciente a contaminare e corrompere i corpi. Leta, un dì consorte del principe Graziano, e sua madre Pissamena somministrarono lunga pezza a molti il cibo. Imperciocchè il pubblico erario, per liberalità di Teodosio, fornendole di regal mensa, non pochi valendosi della benevolenza loro avean mezzo di acquetare gli stimoli della fame. Giunto in fine il male agli estremi, fatta pruova de’ più abbominevoli cibi, e temendo non gli uni divorassero gli altri, statuiscono mandare ambasceria al nemico annunziandogli disposti gli assediati alla pace, quando i patti non oltrepassino i limiti della mediocrità; ed anche, in caso contrario, alla guerra, [p. 290 modifica]avendo il continuo esercizio delle armi dato al popolo Romano attitudine di presentarsi in campo. Basilio originario di Spagna fu eletto a quest’ambasceria insiememente con Giovanni, prefetto in altri tempi degli imperiali notai, detti tribuni, siccome personaggio noto ad Alarico e valente pacificatore. I Romani poi non erano ben certi che lo stesso Alarico proseguisse a cingere d’assedio la città, racconsolati qualche poco da voce per lo innanzi propalatasi di aver egli spedito a far sue veci un favoreggiatore delle parti di Stelicone.

Gli ambasciadori venuti al nemico presero vergogna della ignoranza in cui il popolo Romano sì lungamente stato era, e manifestarongli ad una le proposte del senato. Alarico ascoltavali, e giunti alle parole che il popolo Romano trattando le armi era pronto ad usarne, rispose: Il fieno più è spesso, più agevolmente vien segato; e poscia con fortissimo sghignazzare motteggiò i legati. Rivolto quindi il discorso agli accordi, proferì termini eccedenti ogni barbarica insolenza, dichiarando che porrebbe soltanto fine all’assedio quando impossessato si fosse di tutto l’oro ed argento, di qualunque suppellettile e de’ barbari mancipj entro quelle mura. Qui addimandatogli da uno de’ legati, che mai rimarrebbe ai cittadini privandoli sì compiutamente del proprio? Le anime, fu la risposta. Gli ambasciatori, uditene le intenzioni, chiegongli licenza di abboccarsi cogli assediati per le opportune deliberazioni. Ottenuta una tregua e’ manifestano al senato i ragionari fatti da ambe le parti durante l’ambasceria. I Romani allora persuasi che Alarico e non altri molestasse la città [p. 291 modifica]colla guerra, e disperanti appieno delle umane risorse, rammentano quelli aiuti in precedenti simili congiunture da loro sperimentati, confessando ora che la violazione dei paterni riti tratti aveali in rovina.

Mentre volgean la mente a queste considerazioni, Pompeiano, prefetto della città, imbattesi in alcuni venuti dalla Toscana a Roma, i quali asseriscongli di aver liberato la città di Neveia17 da simiglianti calamitadi col porger voti e promettere il paterno culto al Nume, dopo di che un tremendo strepito di tuoni e folgori cacciato avea i barbari minaccianti d’entrarvi. Parlato a costoro osservò ne’ libri pontificali tutte le pratiche da eseguirsi all’uopo, e suggerendogli l’opinione a que’ dì predominante, comunica l’occorso, per mandare ad effetto con maggior sicurezza i suoi divisamenti, al vescovo di Roma. Questi era Innocenzo, il quale anteponendo ai proprj sentimenti la salvezza della città, di ascoso consentì ch’e’ ponessero mano a tutto quel mai da loro saputo. Ma queglino rispondendo che indarno spererebbonsi tali riti giovevoli a Roma, quando i sacrificj d’uso non venissero in pubblico fatti, il senato, asceso il monte Capitolino, e così quivi come in qualunque altro foro della città debitamente compiendoli, nessuno ardì comparire alla celebrazione giusta il paterno rito di essi. Mandati [p. 292 modifica]allora con Dio que’ Toscani, gli assediati cercan mezzo di raddolcire del meglio loro il barbaro. Tornano pertanto ad inviargli ambasciadori, e da ambe le parti molto questionatosi, elle da ultimo convennero che la città somministrasse cinquemila libbre d’oro, trentamila d’argento, quattromila tuniche di seta, tremila di lana chermisina e tremila libbre di pepe. Se non che, l’erario trovandosi affatto vuoto di pecunia, la necessità volea che i senatori possidenti supplissero del proprio con giusta proporzione tale mancanza. Datosi a Palladio il carico di stabilire la quota parte sopra i patrimonj de’ singuli, nè potendo egli compiutamente rinvenire detta somma vuoi per la mala fede usata da alcuni nel dichiarare i loro beni, vuoi per essere la città, in forza delle continue ed avide imperiali riscossioni, ridotta alla miseria, lo scellerato genio, disgraziatamente in allora al maneggio delle umane faccende, spinse gli incaricati di questo affare al colmo de’ guai. Poichè risolvono di procurare il resto co’ preziosi ornamenti dei simulacri divini, riducendo in cotal modo quelle imagini, sebbene dedicate coi sacri riti e colle debite cerimonie onde conservassero in perpetuo felice la città, del tutto inanimate e di nessun profitto. Acciocchè poi ogni mezzo concorresse alla rovina delle assediate mura, non solo privaronle de’ guernimenti, ma ne fusero eziandio parecchie composte d’oro e di argento, ed infra le altre quella della Fortezza, dai Romani appellata Virtù, distrutta la quale scomparve dal popolo traccia comunque di virtù e fortezza. Quanto inoltre fosse per avvenire da [p. 293 modifica]quinci innanzi pronosticaronlo uomini esperii nelle materie divine e ne’ paterni riti.

Raggruzzolato adunque nella prefata guisa il danaro, si convenne mandare un’ambasceria al principe, la quale seco lui conferisse della futura pace, manifestandogli ad un tempo volersi da Alarico non solo pecunia, ma di più per istatichi i figli de’ nobili, promettendo, fermi questi patti, dargli pace, essergli confederato in guerra, e presentarsi in campo unitamente ai Romani contro chiunque avesse animo di guerreggiarli. Il monarca venuto di parere che si conchiudessero gli accordi alle proposte condizioni, fu contato il danaro ai barbari. Alarico quindi per tre giorni concesse ai cittadini il mercato, loro permettendo l’uscita da varie porte, ed ancora la introduzione della vittuaglia dal porto. Mercè di che respirò la cittadinanza, e col vendere il sopravanzatole o cambiandolo con altri generi provvide ai bisogni della vita. Il nemico poscia ritiratosi dalla città andò a oste in luoghi di qua dalla Toscana. Allora quasi tutti gli schiavi entro Roma cotidianamente, o poco meno, fuggendone, passavano ai barbari, giuntane la moltitudine campata di questa guisa al numero di quarantamila. I barbari di poi mentre ivano all’intorno vagando assalirono i Romani condottisi al porto e retrocedenti con l’acquisto di qualche vittuaglia; ma Alarico, fattone sapevole, per mostrare non concorsavi la sua volontà, gastigati li colpevoli, ne vietò per l’avvenire con singolare accuratezza il rinnovamento. Si parvero alla per fine arrivati a godere d’un mediocre sollievo dalle molestie; a que’ dì [p. 294 modifica]l’imperatore Onorio cominciò il suo ottavo consolato in Ravenna, e Teodosio augusto il terzo in Oriente. Il tiranno Costantino18 manda in seguito eunuchi ad Onorio chiedendogli perdono della sua elevazione al trono, e adducendo che ben lunge dall’usurparlo di moto proprio, offertogli dalle sue truppe stato era costretto violentemente ad accettarlo. Il principe ascoltatili e considerando che non di leggieri penserebbe ad altra guerra infinattantochè i barbari militanti sotto Alarico fossersi così dappresso, rammentando inoltre i suoi parenti (19 Vereniano e Didimio) ritenuti in quelle carceri, consentito alla dimanda, inviogli di più una imperiale veste. Ma indarno pur troppo curavasi de’ prigioni spenti prima della inviatagli ambasceria; licenziò quindi gli eunuchi.

Del resto sin qui rimasa in pendente la pace con Alarico, l’imperatore consegnati non avendo gli statichi né soddisfatto ad altre condizioni, il senato manda a Ravenna gli ambasciadori Ceciliano, Attalo e Massimiano, i quali, avvegnachè deplorassero le sciagure della città ed amplificassero in tragico modo la copia dei morii, nulla ottennero, Olimpio sconvolgendo il tulio ed impedendo la esecuzione dei giusti provvedimenti. Dimessi dunque i legati senz’aderire allo scopo di lor [p. 295 modifica]missione, conferì la urbana prefettura, cacciatone Teodoro, a Ceciliano, ed inalzò Attalo a quella del fisco. Olimpio sittosi in capo di attendere unicamente alla ricerca dei riputati consapevoli di notizie intorno a Stelicone, chiamati furono per cosiffatta calunnia in giudizio Marcelliano e Salonio fratelli, militanti infra’ notai del principe, e rinchiusi nelle carceri del pretorio, ove, sebbene con ogni maniera di battiture tormentatine i corpi, e’ nulla proferirono di quanto il perfido bramava grandemente sapere.

In Roma gli affari non procedendo meglio di prima, Onorio levate dalle stanze loro nella Dalmazia cinque militari coorti le diresse colà di presidio. Tra queste, seicento guerrieri così per coraggio come per vigoria di membra, dir si poteano quasi il nerbo delle Romane truppe. Valente, lor duce, prontissimo ad ogni cimento estimò viltà il marciare per istrade non occupate dal nemico, ed Alarico, attesone il passaggio, strettosi loro addosso con tutte le sue genti feceli per intiero cadere nelle proprie mani. Soli cento riuscirono a sottrarsi colla fuga, avendovi nel numero lo stesso duce, il quale insiem con Attalo, mandato in addietro dal senato al principe, incamminatosi alla volta di Roma pervenne a salvamento. Ognor più crescendo i mali presenti colla unione di altri maggiori, Attalo, entrato in Roma, libera Eliocrate dall’officio ricevuto, a persuasione di Olimpio, dal principe, ed era di rintracciare le facoltadi spettanti ai proscritti in forza della famigliarità avuta con Stelicone e metterle nel fisco. Ma poichè, fornito d’un animo secondo giustizia, ritenea [p. 296 modifica]certamente empietà somma l’inveire contra gli oppressi, nè attendea a rigorose investigazioni, avvisando ben anche in segreto molti di occultare tutto quel mai potessero, giudicato venne privo affatto di meriti, e condotto a Ravenna, onde portare la pena dell’umanità accordata agli sventurati stato sarebbevi, a non dubitarne, condannato a morte dalla barbarie dominante in que’ tempi, se ritirato non si fosse in una chiesa de’ cristiani. Massimiliano caduto nelle mani de’ nemici fu redento dal genitore Mariniano collo sborso di trentamila aurei. Sospesa trattanto dal principe la confermagione della pace e non soddisfacendosi ai convenuti patti, li Romani più non aveano libertà di uscire delle mura. Laonde il senato inviagli novamente ambasciatori avendovi tra essi il Romano vescovo ed alcuni barbari da Alarico ricevuti per guardarli dai nemici che rendeano pericolose le vie.

Arrivati costoro presso l’imperatore, Ataulfo chiamato da Alarico, di conformità all’esposto precedentemente, valicò le Alpi estendentisi dalla Pannonia verso Venezia. L’augusto a tale annunzio, saputo il basso numero di quelle truppe, ordinò a tutte le milizie, cavalieri e fanti, a dimora nelle città di muovere co’ proprj duci ad incontrarlo. Olimpio comandante delle palatine coorti in Ravenna aggiunsevi trecento Unni. Costoro al grido che le genti di Ataulfo approssimate eransi ad una città di nome Pisa, uccisero in ostinata battaglia mille e cento Gotti, e perduti soltanto diciassette loro commilitoni arrivarono sani e salvi a Ravenna.

I palatini eunuchi accusato avendo appo il sovrano [p. 297 modifica]Olimpio come autore delle calamitadi sorvenute alla repubblica, tanto insisterono che fu rimosso dal suo posto, ed egli paventando maggior disgrazia si trasferì colla fuga nella Dalmazia. Onorio, diligentissimo nel procurare che nulla di spettante al fisco detratto fosse, mandato a Roma Attalo prefetto della città, mette in luogo di lui e cogli stessi ordini Demetrio. Fatti di più molti cambiamenti, così nelle magistrature come nel resto, privandone i possessori per conferirle a nuovi personaggi, prepose anche Generido alle Dalmatine truppe aggiugnendogli la soprantendenza di tutte quelle sparte nella Pannonia superiore, nelle Noriche e Retiche regioni e ne' presidj infino alle Alpi. Questo Generido, quantunque barbaro, contratto area dalla natura eccellenti disposizioni ad ogni virtù ed abbonamento sommo all'avarizia. Fedele inoltre ai paterni riti non volea in conto alcuno rinunziare al culto degli Idoli, al promulgarsi per tanto la sovrana legge proibente il comparire nella reggia a qualunque milite non seguace della cristiana religione, egli avendo in que' dì la capitananza delle truppe Romane, scintosi il militare cingolo ritirossi in sua casa. Laonde ammonito dal principe che magistrato essendo intervenir dovea alla reggia, e prendervi regolarmente il suo posto, risponderli essere da legge vietato il cingere la spada o il ritenere magistrature a chiunque non professasse cristiani dogmi. Soggiuntogli dal principe esistere di fatto l'ordine, ma riguardare altri non lui, il quale sofferto avea tanti disagj a pro della repubblica; egli replicava che non accetterebbe giammai l'ingiuriosa [p. 298 modifica]onoranza, stante il pubblicato divieto a tutti li pagani duci. Nè tornò al suo ufficio infrattantochè l’imperatore, spinto dalla vergogna e necessità, non ebbe concesso, annullato il decreto, ad ognuno, comunque fossene il culto, di proseguire nelle cariche della milizia, e nelle magistrature.

Generido, con questa magnanimità dato principio alla sua capitananza, esercita di continuo le truppe ne’ lavori, e somministrando loro i bisogni della vita non permette il sottrarle, giusta la consuetudine, parte veruna. Col danaro a simile ricevuto dal pubblico tesoro guiderdonava in equa misura i più operosi, rendendosi di tal modo tremendo ai vicini barbari e difensore invitto delle governate genti. Le truppe intanto di Ravenna fossevatesi occupano il porto, e con turbolenti gridi chieggono la imperiale presenza. Giovio allora, patrizio e perfetto del pretorio, mentendo timore della sedizione, fattosi innanzi e sinto ignorarne il motivo (sebbene corresse voce esserne egli stesso l’autore in compagnia di Ellebico conte de’ cavalieri domestici) addimanda loro il perchè indotte fossersi alla sommossa. Rispostogli di voler nelle mani i duci Turpillione e Vigilanzio, ad una con Terenzio prefetto de’ reali cubicoli ed Arsacio a lui secondo in grado; il principe, dottandone il tumulto, condanna i due prefati duci ad un perpetuo esilio, il primo nell’oriente e l’altro in Milano, ma non a pena entrati nella nave pongonsi a morte dai marini per ordine del medesimo Giovio, onde tornati e scoperte le insidie tese loro non istimolassero il monarca a dargli il meritato gastigo. [p. 299 modifica]L’imperatore quindi surrogò in luogo di Terenzio alla prefettura del cubicolo, Eusebio, mise al posto di Turpillione Valente, ed alla prefettura di Vigilanzio Ellebico, pervenuto così in qualche modo a sedare quel commovimento.

Giovio prefetto del pretorio, fattosi il solo autorevolissimo presso del sovrano, mandò lettere ad Alarico esortandolo ad avvicinare Ravenna, ove conchiuderebbesi la pace. Il barbaro assentendo alla proposta contenuta nelle scrittegli dal principe e da Giovio, partì alla volta di Rimini, lontana trenta miglia da Ravenna, e presto accorsovi anche Giovio, addivenuto negli Epiri ospite ed amico di lui, si dà principio alla collazione degli accordi. Alarico addimandava annualmente una determinata somma d’oro, ed alcune misure d’annona; di più il dimorare con tutti i suoi nell’una e nell’altra Venezia, infra’ Norici, e nella Dalmazia. Giovio scritte, lui presente, queste condizioni all’imperatore inviagli dispersè altra lettera in cui animavalo a dichiarare l’avversario maestro d’ambe le milizie, acciocchè da tale onoranza aescato, raddolcendo alcun poco l’avversa delle sue pretensioni, venisse con più moderati e tollerabili patti ad una pace. Onorio ricevuti i due fogli condanna la temerità di Giovio, e riscrivegli trovar giusto ch’egli, prefetto del pretorio e conoscitore della copia e della possibilità de’ pubblici tributi, determini il quantitativo dell’oro e della vittuaglia; quanto al resto non accorderà giammai ad Alarico ed alle genti seco l’ufficio di comandante delle truppe. Giovio avuta la risposta lessela non da solo, ma [p. 300 modifica]porgendovi orecchio Alarico stesso, il quale, con moderazione comportato il resto, all’udire negato così alla sua persona come alle sue genti il magisterio delle milizie, tosto montando in collera ingiunse ai barbari di calcare la Romana via, quasi in vendetta della ingiuria ed a sè stesso ed a suoi fatta. Giovio quindi, mercè la imperiale risoluzione ridotto a mancanza di consiglio, tornò all’imperatore, cui giurò, bramando purgarsi da ogni colpa, inviolabile promessa di non venire in tempo veruno agli accordi col barbaro e di guerreggiarlo senza posa. Il principe a capo scoperto di parità sacramenta e comanda che tutti i possessori di magistrature eseguiscano il medesimo giuro.

Terminate queste faccende Onorio per muover guerra ad Alarico legossi con decimila Unni, e volendo che al giugner loro non mancassero le vittovaglie ordinò di provedere nella Dalmazia il minuto bestiame, i buoi ed il frumento. Invia parimente esploratori ad indagare in qual modo il nemico accingerebbesi al viaggio, e chiama da per tutto le sue truppe. Se non che Alarico pentitosi della intrapresa spedizione contro di Roma, manda i pontefici delle città ambasciatori ad Onorio per indurlo a non permettere che quella Roma la quale da più di mille anni comandato avea a gran parte del mondo al presente disastrata venga, per sua colpa, dai barbari, e dalle fiamme distruggansi gli amplissimi edificj entrovi contenuti; procurasse in cambio ottenere a moderate condizioni la pace. £ tanto più rinunziandosi da loro ad ogni onorevole magistratura ed al godimento delle Provincie da prima dimandate, onde stabilirvisi, [p. 301 modifica]mando soltanto ambedue i Norici situati alle estreme parti dell’Istro, esposti a continue scorrerie e di pochissimo profitto all’imperiale tesoro;come pure annualmente quel tanto d’annona ch’egli stesso di proprio arbitrio statuirebbe. Non più in fine dovrebbesi contribuire ad essi danaro comunque, riducendosi ogni loro desiderio a strignere amicizia e lega in guerra co’ Romani per combattere chiunque si movesse, impugnate le armi, ad assalire l’impero.

Da Alarico in urbana guisa e modestamente propostisi tali accordi tutti ammiraronne la moderazione; Giovio non di meno e gli autorevolissimi dopo il principe asserivano doversi rigettarli, avendo con giuro protestato di non appaciarsi giammai seco. Poiché se la fatta solenne dichiarazione riguardasse il Nume forse potuto sarebbesi non osservarla, dalla bontà divina sperando il perdono di così enorme delitto; ma giurato avendo per l’imperiale rapo non aveavi più mezzo di mancarvi. Tanto era guardinga la mente di coloro, i quali, nulla curando il Nume, governavano a que’ dì l’impero.


Note

  1. Eudocia, al cui incitamento fu sbandeggiato il Crisostomo dopo cinque anni di pontificato in Costantinopoli. T.S.
  2. Toccando pur egli qualche strage. V. Socr., lib. vii, della St. Eccl., cap. 10.
  3. Gli Spartani volevano che la città loro non fosse difesa da muro, dal valore bensì della popolazione. T. S.
  4. Ove, per decreto di Teodosio, fu anche Nestorio confinato. Evagrio, lib. I, c. 7.
  5. Nemesi altramente detta. Abbiamo da Strabone derivatole questo nome da Adrasto, che dedicolle il primo tempio, addicendone a pruova alcuni versi di Antimaco. T. S.
  6. Altri nomanlo Mazescele, o Mascelzele, come Diacono. T. S.
  7. Zosimo così parla giusta l’intendimento de’ cristiani, a nessuno di essi accordare solendo con tanta liberalità il nome di pio. In quanto ad Eufemia, dobbiamo ad Evagrio (lib. II, c. 3) la descrizione del tempio, i miracoli ed altre siffatte cose. In questo tempio fu celebrato sotto Marciano il Concilio Calcedonese. T. S.
  8. Socrate, nel lib. VI della Storia Eccl., c. 6, riferisce che la chiesa incendiata apparteneva ai Gotti, e narra il come pervenne a salvamento Costantinopoli, ridotta ad estremo pericolo se una turba d’angeli, in sembianza di guerrieri, non avesse all’improvvista empito di spavento i Tartari. T. S.
  9. Indarno si cercherà di supplire tal vano ove non ricorrasi a congetture. Il senso dunque che si può ricavare dagli antecedenti è questo. Da pezza Gaine addimandato avea che fossongli consegnati, onde punirli, Aureliano, Saturnino e Giovanni. Costoro, com’è ragionevole di supporre, messi furono da Gaine in carcere per gastigarli quindi a suo piacimento. Ora Fraiuto, dopo l’uccisione di Gaine, datosi a perseguitarne le poche truppe rimase, i custodi accordarono di proprio arbitrio la fuga ai prigioni loro consegnati, per tema di capitar male cadendo nelle mani del Romano duce. T. S.
  10. Eudossia, per la cui opera fu sbandeggiato il santo vescovo Giovanni Crisostomo, richiamato poco dopo da Arcadio, vedendo il popolo tumultuante a difesa del proprio pastore. Se non che, proseguendo questi di poi, armato dell’egual zelo, a riprendere l’augusta di colpe a lei ben note, fu novamente mandato in bando nel Caucaso. T. S.
  11. Costui nimicava il Crisostomo perché non avea potuto inalzare Isidoro, sacerdote della sua chiesa, al vescovato Costantinopolitano. V. Socrate, Ist. Eccl., lib. V, c. a.
  12. Surse, promotore essendone Teofilo, una forte disputa infra i lunghi monaci (Dioscoro, Atnmnio, Eusebio ed Eutimio, nomati lunghi a motivo della magrezza de' loro corpi. Socrate, lib. VI, c. 7). Teofilo dunque fomentandone i partiti si unì a que' monaci detti antropomorfiani, perché attribuivano umana forma al Nume; gli altri, avendovi tra essi Dioscoro, opponendomi, appellati erano Origenisti da Origene, dugento anni prima fiero impugnatore di tal dottrina. Dioscoro ed Isidoro Tenuti a Costantinopoli manifestano ad Arcadio e Giovanni le insidie lor tese da Teofilo, il quale mirandoli accolti benignamente da Giovanni, stabilì perseguitarli. Cagione questa dell’odio vicendevolmente portatosi da que’ monaci. V. Socrate, 1. c. T. S.
  13. Di questo incendio non vien fatta menzione dagli scrittori della istoria ecclesiastica, limitandosi eglino a riferire quello pertinente alla chiesa de’ Gotti, e già da noi rammentato. Accaddene altro assai più terribile sotto l’impero di Leone, ma esso non può assolutamente rapportarsi a questi tempi. T. S.
  14. Radagaso è nomato da Paolo diacono, il quale così narra di lui: Radagaso, divinamente sconfitto, viene assediato nell’alpestre sommità del Fiesolano poggio, ogni intorno sovrastandogli timori, e mentre le sue truppe, cui sembrava or ora angusta l’Italia, sospinte nella piccola cima un monte, costrette sono a morire di fame e sete, egli, lo re, da solo sperando salvezza nella fuga, è posto in carcere dai Romani, e dopo breve prigionia spento.
  15. Sozomeno (lib. IX, c. 4) così parla d’Olimpio. Stelicone con tutte le sue forze aspirando agli imperi, Olimpio, scopertane la frode, avverte Onorio delle costui pratiche tendenti a trasferire in sè stesso la signoria e prendere a collega il figlio Eucherio, gentile a non dubitarne ed avverso ai cristiani. Non maraviglieremo dunque vedendolo con tali colori dipinto, estimando Zosimo che la sola professione del cristianesimo sia il compendio di tutte le scelleratezze. T. S.
  16. Quale fosse la cagione della costei morte non trovo negli altri storici che ho per le mani. Stupirei tuttavia se Zosimo non riferisse fatti di tal natura al dispregio verso gli Dei, non avendovi patrocinio più acconcio ad un falso culto di quello tratto dalle favole. Può credersi dunque che Serena finisse di laccio la vita spintavi da ben altre considerazioni, dal tradito suo fasto e dall’inatteso ripudio della figlia, vedendo così terminata per lei ogni speranza d’impero, ed invanito l’impulso dell’animo suo tendente a salire più in alto. Dell’egual tempra sono le cose dal Nostro fantasticate rapporto a Stelicone, potendosene la morte ripetere da cause a bastanza patenti, avendo egli eccitato a prendere le anni gli Alemanni, gli Svevi, i Vandali ed i Borgognoni per rapire al genero l’impero e darlo ad Eucherio sua prole. Paolo Diac., lib XIII, così parla di lui: Per ornare della porpora il figlio versò il sangue di tutta l’umana schiatta. T. S.
  17. Detta Narni dal Sigonio con poca differenza da Sozomeno (cap. 6,1. e), che scrive Larnia. Ognuno poi ben s’accorge che tutto questo favoloso racconto è opera di Zosimo. T. S.
  18. Dai militi eletto senza merito di virtù, i quali fondavano loro speranze soltanto nel nome. T. S.
  19. Paolo diacono (lib. XIII) nomalo Veridiano. Il quale con Didimo, pigliati i proprii famigliari e servi, tentò liberare sè stesso e la patria dai tiranni. T. S.