Osservazioni intorno alle vipere/Testo
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OSSERVAZIONI
I N T O R N O
ALLE VIPERE
MIO SIGNORE.
Come le pecorelle escon dal chiuso
Ad una, a due, a tre, e l’altre stanno
Timidette atterrando l’occhio, e’l muso,
E ciò che fa la prima, e l’altre fanno
Addossandosi a lei, s’ella s’arresta
Semplici, e quete, e lo ’mperche non sanno.
In cotal guisa appunto, se uno de gli antichi Savi registrò per vero ne suoi volumi qualche racconto, dalla maggior parte di coloro, che son venuti dopo, alla cieca, e senza cercar’altro è stato creduto, è stato di nuovo scritto sotto la buona fede di quel primo, che lo scrisse, e così alla giornata si parla, come i pappagalli, e si scrivono, e si leggono, e si credono dal troppo credulo, ed inesperto volgo de letterati bugie solennissime, ed a chi ha fior d’ingegno stomachevoli. Io loderò sempre, e fin che avrò fiato celebrerò le glorie di Ferdinando Secondo Gran Duca di Toscana unico mio Signore, il quale se tal volta per breve ora deposti i più gravi affari del governo si diporta fra le amenità delle filosofiche speculazioni, lo fa non per un vano, ed ozioso divertimento, ma ben si per ritrovar delle cose la mera verità nuda, pura, e schietta, che però con reale, ed indefessa magnificenza somministra del continuo a molti valent’uominiFonte/commento: Pagina:Osservazioni intorno alle vipere.djvu/93 tutte quelle comoditàFonte/commento: Pagina:Osservazioni intorno alle vipere.djvu/93, che necessarie sono per arrivare ad un fine così lodevole. E se l’antica fama gia descrisse tanto liberale Alessandro in promuovere gli studi del suo Aristotile, il mio Signore, si come nella liberalità a quel Gran Monarca non cede, così nella cognizione delle cose, e nella prudenza di gran lunga lo si lascia indietro. E se a nostri giorni non vivono gli Aristotili, son però sempre stati trattenuti nella Toscana Corte soggetti ragguardevoli, ed insigni, ed oggi infin dalla da noi per così lungo spazio divisa Inghilterra, e da molte altre parti più remote del mondo vi son venuti uomini di alta fama, che con istupore anche de’ più dotti mostrano ogni giorno più d’avere.
Pien di Filosofia la lingua e ’l petto
Quindi è, che non potrei mai a bastanza, o Sig. Lorenzo, spiegarvi, quante esperienze in questa Corte dopo la vostra partenza si sono fatte, e per mezo di quelle a quante menzogne si è cavata la maschera. Per farvi gola, e per incitarvi ad un sollecito ritorno, voglio qui brevemente, in parole semplici, e senz’artifizio raccontarvi secondo che alla memoria mi verranno alcune osservazioni, che queste settimane addietro intorno alle Vipere si sono fatte. E poiche delle Vipere si ragiona, io per iscusa del mio temerario ardimento nell’imprendere materia, nella quale tanti, e così grand’uomini de presenti, e de’ passati secoli si sono abbagliati, mi varrò molto acconciamente delle parole del giovinetto Alcibiade nel Convito: Io sono (dic’egli) nel medesimo grado di coloro, i quali sono stati morsi dalla Vipera. Dicesi, che questi tali non vogliano sfogare la loro passione, se non con quelli, i quali dall’istesso animale sono stati parimente morsicati; conciossiecosa che son si acerbi i dolori, e si acuti gli spasimi, che la ferita di quel maligno dente ne imprime, che ad ogni altro fuori di quelli, che per prova imparato lo anno incredibili sarieno, e i gravi affanni, e le misere strida per troppo teneri lezi, e puerili sarebbono reputati. Ond’io, che da un più acuto morso ferito sono, cioè da quello dell’amore della Filosofia, il quale non men della Vipera miseramente pugne, particolarmente quando egli accarna ne i giovanili animi, o di coloro, i quali interamente privi di senno, o insensati affatto non sono, trovandomi da solo a solo con esso voi, non mi vergognerò di palesarvi le grandi smanie, che io ne meno, e come proccuriFonte/commento: Pagina:Osservazioni intorno alle vipere.djvu/93 col balsamo della verità risanarlo; benissimo sapendo, quanto in sul vivo, e niente meno di me ne siate punto ancor voi.
Da Napoli arrivarono al principio di Giugno le Vipere per compor la Triaca nella Spezieria di S. A. Ser. alla di cui presenza, e di tutti gli altri Serenissimi Principi favellandosi di questi animali, e della gran parte, che egli anno nella composizione di quel maraviglioso antidoto, si venne a dire del lor veleno, e di quel, ch’ei fosse, ed in qual parte del lor corpo n’avessero la miniera.
Alcuni dissero, non aver la Vipera altro veleno, che i propri denti, i quali asserivano esser lavorati d’una tal figura, che per l’acutezza della punta, o del taglio de biscanti invisibili delle loro facce per avventura incavate, o condotte con altro strano lavoro, ferendo le tenerelle fibre, ed i sottilissimi nervi, da questi ne maggiori rami l’acerbissime punture serpendo, quindi gli acutissimi dolori, e le mortali convulsioni derivino. Altri agramente impugnata questa opinione affermarono, non essere il dente, ne per se medesimo, ne per cagion della figura velenoso, ma che colla ferita faceva strada al veleno, che sta nascosto in alcune guaine, che coprono i denti alla Vipera, da’ Greci chiamate τω̃ν ὀδόντων χιτω̃νας e a queste guaine era tramandato dalla vescica del fiele per alcuni sottilissimi canaletti, che da quella alle gengive si diramano, soggiugnendo, che il fiele viperino beuto è un tossico de più mortiferi, che in terra trovar si possano. Da altri fu data la colpa alla bava, ed alla spuma, che fa la Vipera, quando quasi arrabbiata, e tutta gonfia per la stizza s’avventa a mordere. Alcuni scherzando suggerirono, che forse, conforme al parere di molti antichi, e conforme al trivial proverbio, il veleno altrove non istava, che nella coda, o nell’ultimo pungiglione di quella. Risero certi Cavalieri sentendo quest’ultima opinione, ed uno di loro soggiunse, che da tanta diversità di pareri ben appariva essere stato troppo ardito quell’antico Filosofo, che si era dato ad intendere di saper tutte le cose, e modesto quell’altro, che di tutte era dubbioso, e per far sovvenire il nome d’ambedue disse col Petrarca.
Vidd’Ippia il vecchiarel, che già fu oso
Dir’io so tutto, e poi di nulla certo,
Ma d’ogni cosa Archesilao dubbioso.
Stavasi così tenzonandoFonte/commento: Pagina:Osservazioni intorno alle vipere.djvu/93, quando S. A. Ser. comandò, che per ritrovare questa verità ogni esperienza si facesse, che più a ciascheduno per riprova di sua opinione fosse piaciuta di fare. E perche la maggior parte pareva, che aderisse a credere nel fiele annidarsi il mortal veleno, dal fiele fu determinato di cominciare, e tanto più, che un’uomo dotto, e molto pratico nella lettura de gli antichi, e de’ moderni Autori scommesso avrebbe tutto il suo, che ogni minima gocciola di fiel di Vipera beuta ammazzato avrebbe un’uomo de’ più robusti, e qual si sia bestia più feroce, soggiugnendo, che oggi mai questa era una cosa passata in giudicato, che insegnata a i Medici l’avea Galeno; che Plinio l’aveva detto a lettere di scatola, che Avicenna fu d’opinione, che poco giovassero i medicamenti a coloro, che’l fiel della Vipera beuto aveano, che Rasis avea tenuto, che non valesse alcun senno, ne medicinale provvedimento, ma che vi fosse necessario l’aiuto divino, che Alì Abate affermò, che quasi nessun riparo far si poteva a questo veleno infernale, che Albucasis ancora si fu di questo parere, e con Albucasis, e con tutti i sopracitati Autori lo anno riferito modernamente Guglielmo da Piacenza, Santi Arduino, il Cardinal di S. Pancrazio, Bertruccio Bolognese, il Cesalpino, Baldo Angelo Abati, il Cardano, Giulio Cesare Claudino, e tanti, e tanti altri, de’ quali onorata nominanza nelle bocche de’ Medici risuona, e che usciti dalla volgare schiera degnamente poterono.
Seder tra Filosofica Famiglia.
E se bene Giovan Battista Odierna in una sua curiosissima lettera al dottissimo Marc’Aurelio Severino scritto avea, di aver dato a mangiare ad un gatto un bocconcino di pane intinto nel fiel della Vipera senza vedersi effetto di veleno, con tutto ciò questa sola esperienza non era abile ad atterrare l’opinione di tanti Dottori massicci, e principali; oltre che il vedersi giornalmente, che i gatti trescano con le lucertole, co’ ramarri, e co’ serpi, e se gli trangugiano, ancor che Alberto Magno con magistrevole insegnamento lo neghi, potrebbe forse persuadere, che il gatto non fu animale proporzionato per fare una cotale esperienza, si come proporzionato non fu ancora quel pollo, a cui il suddetto Severino fece inghiottire un fiele, perche da i polli comunemente si mangiano le lucertole, le serpi, i ragnateli, ed altri animali velenosi.
Se ne stava in questo mentre ad ascoltare colà in un canto Iacopo Sozzi cacciator di Vipere, uomo da esser paragonato con gli antichi Marsi, e con gli antichi Psilli, ed appena dal ridere potendosi contenere, sogghigniando prese un fiel di Vipera, e stemperatolo in un mezzo bicchier d’acqua fresca, giù per la gola se lo gittò con volto intrepido, e diede a divedere quanto ingannati si fossero i suddetti Autori, e si offerse di bere tutta quella quantità di fiele, che più fosse aggradito. Ma perchè crederono alcuni, che il buon Iacopo ciurmato prima si fosse, ancorche francamente lo negasse, o con Mitridato, o con Triaca, o con altro alessifarmaco, fu stimato opportuno farne altre prove, che perciò a due piccion grossi fu fatto ingoiare un fiele per ciascheduno senza nocumento, e, che maggior cosa è, e quasi non credibile, un cane, a cui una mezz’oncia di fiele si diede per forza a bere, non ebbe un minimo accidente, e sano, e rigoglioso infino al giorno d’oggi è vissuto, e se altro mal non l’ammazza camperà eternamente. A i galletti ancora si è dato buona quantità di fiele, ed io due ne ho fitti nel gozzo di un Pavone, e di un gallo d’India, e quattro interiora senza levarne il fiele ho fatte mangiare ad un gatto, il quale vi so dire, che ghiottamente se ne leccò le labbra. In altri animali ne ho fatta più volte esperienza, ma però sempre di diversa spezie, perche, come voi ben sapete, vi sono molte cose, le quali ad una sorta d’animali servon di cibo, che ad un altra spezie producono effetti di veleno, o altri accidenti stravaganti, e noiosi; E per tacervi della Cicuta mangiata dalli storni, e dell’Elleboro dalle quaglie, e dalle capre, dirovvi, che pochi giorni fa abbiamo osservato, che un mezzo grano d’ostia unta con olio di ricino ha fatto ad un’omiciattolo vomiti, andate di corpo, e superpurgazioni angosciose, e terribili; e pure sei gocciole del medesimo olio messe in gola ad un galletto, non solo non l’anno ammazzato, ma non gli han fatto un minimo fastidio, ne data nausea, ne mosso il corpo.
Da queste osservazioni più volte fatte, toccato con mano, che il fiele della Vipera riceuto dentro per bocca non ammazza, si fece passaggio a considerare, se stillato nelle ferite, le attossicasse, e dopo molte esperienze in molti galletti, e piccioni, e da me privatamente, in un coniglio, in un’agnello, ed in una lepre, fu conosciuto, che non avea possanza di far loro alcun male, si come non ha virtù di fare alcun bene, ne di portar giovamento posto su i morsi della Vipera, che che in contrario si dica Baldo Angelo Abati nel capitolo quinto, e nel settimo, e lo Scrodero nella sua Farmacopea.
Nel fondo poi di quelle due guaine in cui si tien riposti i suoi denti la Vipera, stagna un cert’umore di colore, e di sapore somigliantissimo all’olio delle mandorle dolci, e questo è creduto, come di sopra ho scritto esser’ a quelle tramandato per alcuni sottilissimi canaletti dalla vescicaFonte/commento: Pagina:Osservazioni intorno alle vipere.djvu/93 del fiele. Cosa certa è, e da me molte volte osservata, che quando la Vipera sguaina i denti, e s’avventa a mordere, viene a schizzar per necessità su la ferita questo giallo liquore, non già perchè si rompano le guaine, come è stato creduto dal Mercuriale, dal Grevino, e da altri, che inventarono certe vesciche non mai vedute sotto la lingua, ma perchè in se medesime le guaine si ripiegano, e si raggrinzano, come fa il mantice nel mandar fuora il fiato, o come raggrinza le labbra il cane, quando digrigna i denti, e vuol mordere.
Fu proposto, se questo liquore preso per bocca potesse ammazzare, e fu da alcuni costantemente affermato, ma colla medesima costanza da altri negato, ed il suddetto Iacopo Viperaio si esibì a berne una cucchiaiata intiera, e de fatto fu veduto saporitamente più, e più volte lambirne.
Se tu se’ or Lettore a creder lento
Cio, ch’io dirò, non sarà meraviglia,
Che io che’l vidi appena il mi consento.
Prese Iacopo una Vipera delle più grosse, delle più bizzarre, e delle più adirose, e fece a lei schizzare in un mezzo bicchier di vino non solo tutto ’l liquore, che nelle guaine avea, ma ancora tutta la spuma, e tutta la bava, che questo serpentello agitato, percosso, premuto, irritato potè rigettare, e si bevve quel vino, come se fosse stato tanto giulebbo perlato. Ed il seguente giorno, con tre Vipere attorcigliate insieme, fece di nuovo il medesimo giuoco, senza una paura al mondo; ed avea ben ragione di non temere, perchè.
Temer si dee di sole quelle cose,
Ch’anno potenza di far’ altrui male,
Dell’altre no, che non son paurose.
Per lo che anch’io quattro capi di Vipera semivivi, e di sangue grondanti, e lordi, tuffai in una tazza d’acqua, e con una lancetta trinciai tutti i mollami del palato, e delle ganasce, e scaturir ne feci quanto più d’umidità v’era, a segno tale, che l’acqua ne divenne spumosa, torbida, e schifa, e poscia quasi tutta coll’imbuto la cacciai nello stomaco d’un capretto, e quel residuo, che n’avanzò, si fu la bevanda di un’Anitra assettata, e quello, e questa non anno mai dato contrassegno di veleno.
Non sarà dunque temerità il dire, che s’ingannarono Alberto Magno, l’eruditissimo Mercuriale, il sottilissimo Capo di Vacca, ed il celeberrimo Zacuto dicendo, che il vino, in cui sia affogata una Vipera, è sempre pessimo veleno, e mortale, e che prima di costoro ingannato si era Aezio, e prima di Aezio Dioscoride affermandolo non solo di quel vino, in cui sien morte le Vipere, ma ancora di quello, nel quale queste bestiole abbiano tuffato il capo per bere. Ma io non le veggo così ghiotte di questo preziosissimo liquore, come le fanno Aristotile, e Dioscoride, ne so, che orcioletti di vino nascosti fra le siepi sieno trappole proporzionatissime per pigliarle; Conciossiecosachè avendone io tenute alcune ciotolette piene dentro alle casse, dove esse stavano, non solo non mi son mai abbattuto a vederne loro lambire una gocciola, ma ne meno mi sono accorto, che quando io non vi era presente, ne bevessero, essendo che in processo di molto, e molto tempo non l’ho mai veduto scemare se non quel tanto, che la caldissima aria ambiente ne avea potuto succiare: E questo mi fa incontrar molte difficultà nel credere, che sia vera la Storia raccontata da Galeno nel libro undecimo delle virtù de’ medicamenti semplici, che essendo stato portato un’orciuolo di vino a certi mietitori, e posatolo nel campo non molto da quegli lontano, quando vollero mescerlo nelle tazze per berlo, si avveddero, che v’era entrata dentro una Vipera, ed affogatavi: Imperciocchè, dico io, a voler, che quella Vipera potesse entrare in quell’orciuolo, necessario era, che fosse aperto, e se aperto, con quella medesima facilità, con che vi entrò, con la medesima uscire ne avrebbe potuto, in quella guisa appunto, che ho veduto scappar le Vipere più volte da fiaschi di lunghissimo collo, e pieni, e mezzi di vino, ne quali rinchiuse io le avea; Che se pure si fosse dato il caso, che quella Vipera non avesse mai trovata la strada per poterne uscire, non per tanto ne segue, che ella vi dovesse così tosto affogare, perche le Vipere galleggiano qualche tempo su tutti i liquori, mercè di una certa vescica piena d’aria, che anno in corpo non molto dissimile da quella de pesci; Ne giova il replicare, che il vapore del vino può in un momento imbriacarle, e soffocarle, perche avend’io messe delle Vipere in vasi di vetro pieni di generosissimo vino di Chianti, e di altro vino fumosissimo di Napoli, e di Sicilia, ho sempre osservato, che vive si son mantenute a galla lo spazio di sei ore in circa, e quando per forza le ho tenute tutte coperte dal vino, colà sotto ancora si son mantenute un’ora, e mezza senza morire, ed alla per fine essendovi morte, ed avendo molti giorni lasciatevele stare ben serrata la stretta bocca de vasi, mi son chiarito, non esser vero quello, che raccontava Paolo Emilio Ferrallo, che cotali vasi si spezzino perlo soverchio calore delle carni Viperine la dentro macerate; e per conseguenza debol’, e cadente fondamento, è questo (ancorche messo in considerazione dal Severino) per determinare, che sieno di temperamento caldo questi serpentelli; de quali pur’anche vo dirvi, che più lungo tempo mantengonsi vivi sull’acqua, che sopra ’l vino, essendo i più sopra l’acqua arrivati al terzo giorno, e tenuti sott’acqua i più son campati lo spazio di dodici ore in circa, dopo ’l qual tempo essendo morti, ed aperti i loro cadaveri, e considerato il cuore, ho ritrovato sempre tutte due le auricule diventate molto più grandi del cuore medesimo, avvegnaddiochè nello stato naturale sieno piccolissime, ed a tal segno, che alcuni non ben’ aguzzando gli occhi al vero anno detto, il cuore Viperino avere una sola auricola.
Ma tralasciata questa digressione, torno a scriver di quel liquor giallo, che trovasi nelle guaine, che coprono i denti, il quale preso per bocca, non essendo ne a gli uomini, ne alle bestie mortifero, si andò facendo riflessione, se per fortuna messo su le ferite, fosse cagione di morte; Ed in verità, che in capo alle tre, o alle quattr’ore morirono tutti i galletti, e tutti i piccioni, su le ferite de’ quali fu posto, e tanto ammazza il liquor delle Vipere vive, quanto quello, che è cavato dal palato, e dalle guaine delle Vipere morte, e morte anche di due, o di tre giorni, avendone io fatte in diversi animali più di cento esperienze, le quali tutte mi fanno credere, che Cleopatra allor che volle morire, non si facesse mica mordere da un’Aspido, come riferiscono alcuni Storici, ma ben si, che ella con maniera più speditiva, più sicura, e più segreta, dopo essersi da se medesima ferito, o morsicato un braccio, stillasse su la ferita, come racconta l’Autore del libro della Triaca a Pisone, un veleno, che spremuto dall’Aspido in un bossoletto conservava a tal fine preparato; overo, secondo che riferisce Dione, che ella si ferisse il braccio con un’ago infetto di veleno, che portar soleva per ornamento del crine, ed era quel veleno di si fatta natura, che non faceva nocumento alcuno, se non quando pungendo toccava il sangue. E mi confermo in questo parere, perchè se bene dicono, l’aspido esser molto più velenoso della Vipera, il che per ora voglio concedere, nulla dimeno egli è di questa razza di serpi, che secondo la sentenza di Nicandro, d’Eliano, e di altri, anno i denti canini coperti dalle guaine, nelle quali conservano il veleno, e quel veleno schizza tutto fuora, se non al primo, almeno al secondo morso, si che il terzo (e più volte l’ho sperimentato) non è velenoso, e per questa cagione i Cerretani, ed i Cantanbanchi senza pericolo si fanno mordere dalle Vipere, onde non potè Cleopatra con un solo Aspido far morir Nacra, e Carmione sue Damigelle, e poscia ammazzar se medesima, e tanto più, che spesso questo animaletto nel primo morso si rompe i denti. Aggiungasi, che dopo la morte di Cleopatra non si trouò in quella stanza il micidial serpente, ed ognun sa il naturale aborrimento, che anno le donne tutte a vedere, non che a maneggiar le serpi; e non importa niente, che nel trionfo d’Augusto fosse veduta in Roma l’immagine di Cleopatra con un’Aspido in mano in atto di ferirle il braccio, perchè ciò si fu uno scherzo dello Scultore, o del Pittore, il quale in altro modo più evidente non poteva mostrare al popolo, qual maniera di morte quella Reina si era eletta per fuggire la schiavitudine del vincitore Augusto. Licenze non dissimili si pigliano bene spesso i moderni Pittori, e fra l’altre in questo proposito Pier Vettori gli biasima, perche dipingono Cleopatra morsa dall’Aspido nelle mammelle, narrando Plutarco, Properzio, Paolo, Orosio, e Paolo Diacono, che non nel petto, ma nel braccio ella morder si fece; E questa licenza pittoresca non è sola de moderni, ma ancora gli antichi l’usarono, conciossiecosachè trovasi una gemma presso al Gorleo, nella quale scolpita si vede Cleopatra punta dall’Aspido nella mammella. E se ben Pier Vettori vien ripreso di questa sua critica da Baldo Angelo Abati affermante, che è più verisimile, che si facesse pugner nel petto, come parte più vicina al cuore, con tutto ciò dottamente è stato difeso il Vettori da Gasparo Ofmanno Filologo, e Medico dottissimo de’ nostri tempi nel libro primo delle varie lezzioni.
Ma ritornando al nostro proposito, meco molto mi maraviglio che il savio, ed ottimo vecchio Marco Aurelio Severino versatissimo nella cognizione delle Vipere, ed esperimentatissimo dica indubitatamente, che quel liquor giallo stillato su le ferite non l’avveleni, persuaso da due sole esperienze, una su la cresta di un Gallo, e l’altra su la mano punta di un suo famiglio, perchè confessar bisogna, che, nel tentar l’esperienze.Veramente più volte appaion cose,
Che danno a dubitar falsa materia
Per le vere cagion, che son nascose.
E soventi volte accade, che queste vere cagioni per alcuni impedimenti ignoti, o non osservati, non possano dimostrare i loro effetti, e posso affermarvi, essermi intervenuto, che pecore, cani, galletti fatti rabbiosamente mordere dalle Vipere, pochi giorni avanti in campagna sul più fitto meriggio prese, non si sono morti, e per lo contrario si morì un pollastro morsicato da una Vipera, alla quale io aveva tagliata la punta de' denti, e fatto a bello studio schizzar fuora delle guaine quel mal liquore, che vi sta nascosto; e di quei tanti galletti, e piccioni, su le ferite de’ quali quel veleno fu messo, ne campò una volta uno, e campò forse, perchè quando con la punta sottilissima d’un temperino io lo ferij, percossi una vena grandetta, dalla quale in abbondanza spicciando il sangue, potè per avventura far si, che il veleno non penetrasse più addentro, anzi con lo sgorgar del sangue, che tanto, quanto durò qualche ora dopo ad uscire, fu il tosco fuor del corpo cacciato. E di qui io raccolgo, quanto possa giovare a quelli, che sono stati morsicati dalle Vipere lo scarificare secondo lo ’nsegnamento de gli antichi, il luogo, ch’è stato morso, per farne venire il sangue, o applicarvi sopra una coppetta, o attaccarvi una, o due mignatte ben purgate, o vero far succhiare da un’uomo la ferita. Ed osservate Signor Lorenzo, che Avicenna avvertì, che colui, che succhia tali ferite, non abbia i denti guasti, e tarlati, e prima d’Avicenna più giudiziosamente Cornelio Celso, ed Aezio ammonirono (ancorche il Severino ingannandosi giudichi frivola questa cautela) che non abbia ulcere, o piaghe nella bocca, perchè toccandole il succhiato veleno, potrebbe esser cagione di morte, che per altro ancor che nello stomaco andasse, ne alla sanità, ne alla vita sarebbe di pregiudizio; e questa non è mica dottrina nuova, ma bene antica, e dal suddetto Cornelio Celso insegnataci dicendo. Nam venenum serpentis, ut quædam etiam venatoria venena, quibus Galli præcipue utuntur, non gustu, sed in vulnere nocent; E dopo di Celso ce lo avvertirono ancora Galeno nel terzo libro de temperamenti, e l’Autore della Triaca a Pisone nel decimo capitolo; ma più gentilmente di tutti Lucano allor che descrisse Catone conducente il Romano esercito per le solitudini arenose della Libia.
Iam spissior ignis,
Et plaga, quam nullam superi mortalibus ultra
A medio fecere die, calcatur, ed unda
Rarior: inuentus medijs fons unus arenis
Largus aquæ; sed quem serpentum turba tenebat
Vix capiente loco, stabant in margine siccæ
Aspides, in medijs sitiebant dipsades undis.
Ductor ut aspexit perituros fonte relicto,
Alloquitur: vana specie conterrite lethi
Ne dubita miles tutos havrire liquores:
Noxia serpentum est admixto sanguine pestis:
Morsu virus habent, e fatum dente minantur.
Pocula morte carent: dixit, dubiumque venenum
Hausit.
Per confermatione di questo vero, quando non vi bastassero tutte le sopradette riprove, ed autorità, sappiate, che diverse persone si son cotti, e mangiati allegramente tutti quanti que’ buoni pollastri, e piccioni, e tutti gli altri animali, che le Vipere aveano morsi, che che si dica il Mattiolo non potersi ciò fare senza manifesto pericolo di veleno; e per tor via ogni dubbio, ed ogni scrupolo de’ crudi ancora, ed allora allora dalle Vipere ammazzati, ne ho fatti mangiare ad un cane, ad una civetta, ed ad uno di quegli uccelli di rapina, che gheppi sogliamo chiamare. Si è parimente esperimentato, che le spaventose, orribili, e micidiali frecce del Bantan’ ferendo conducono in brev’ora a morte, ma beuto il vino, o altro liquore, in cui per molti giorni sieno state infuse, non apporta una minima alterazione alla sanità. Leggesi nel sopracitato libro della Triaca a Pisone, che i Dalmati, ed i Saci avvelenavano i dardi fregandovi sopra l’Elenio, e con quelli anche leggiermente piagando, purchè toccassero il sangue, uccidevano, avvegnachè l’Elenio a mangiarlo fosse loro un cibo innocentissimo, ed i Cervi, e l’altre fiere uccise con quei dardi si mangiassero per tutti sicuramente.
Come dunque, se il veleno delle Vipere a gustarlo non solo non è mortale, ma ne meno in verun modo nocevole, come, dico, potrà esser mai vera la storia del Mattiolo, o quell’altra d’Amato Lusitano, che due giovani feriti dalla Vipera, si morissero, perchè da se medesimi succiati s’erano il luogo morsicato? Io per me penso, che più probabile sia il dire, che coloro morissero, non perchè succiata si avessero la ferita, ma ben si, perchè dalla Vipera erano stati morsi, o non aveano col succiare cavata tutta la velenosità, o avendo qualche piaga in bocca, gliele comunicarono, o finalmente per non aver’ auto il comodo di fare gli altri necessari medicamenti interni, come nel tempo, che fu Edile Pompeo Rufo avvenne in Roma ad un Ciurmadore, il quale nel mezzo della piazza essendosi fatto mordere un braccio da un’Aspido, se bene si succiò la morsicatura, con tutto ciò in capo a due giorni restò privo di vita; la qual cosa gli avvenne, per testimonio di Eliano, per essergli da’ suoi emuli stata tolta, o versata una cert’acqua medicinale, che egli si era preparata innanzi per bersela, e non per risciacquarsene la bocca, perchè in mancanza della dett’acqua, potea in un bisogno lavarsela, o con vino, o con acqua attinta dalla più vicina fontana. Ed ancorche dica Eliano, che a quel tale avanti che spirasse, gli marcirono, e le gengive, e la bocca; con tutto ciò questo non è argumento sufficiente per provare, che fosse effetto del succhiamento, perche Dioscoride, Attuario, ed il Cesalpino insegnano, che a coloro, che son dalla Vipera feriti, oltre a gli altri accidenti vien’ anche male nelle gengive, ed esala, come dice l’Aldrovando, fiato grave, e puzzolente dalla lor bocca, e per detto d’Avicenna, enfiano loro le labbra; il che non succede, com’ho per esperienza veduto infinite volte, a coloro, che lambiscono, e cacciansi giù per la gola il veleno della Vipera. Anzi un Cane, al quale feci attaccar’ il morso nella punta del naso, tanto se la forbì colla lingua, che campò da morte, ne in su la lingua, ne in su le gengive ebbe male alcuno: et anticamente vi erano uomini, che prezzolati facevano il mestiere di succhiare le attossicate morsure. Ed in questo proposito mi sovviene della bella carità pelosa d’Augusto, il quale, come si legge in Svetonio, et in Paolo Orosio, poichè fu morta Cleopatra, comandò, che da’ Marsi, e da gli Psilli succhiata le fosse la ferita, e questa infingevole pietà la trovo sovente in que’ tempi usata ne’ cominciamenti de’ grandi Imperi, onde non molti anni avanti su le spiagge di Alessandria.
Cesare poi che ’l traditor d’Egitto
Gli fece ’l don dell’onorata testa,
Celando l’allegrezza manifesta
Pianse per gli occhi fuor, si com’è scritto.
Catone ancora in Affrica, e lo riferisce Plutarco, manteneva nel suo esercito molti Psilli, acciò medicar potessero le ferite serpentine col succhiarne fuora il veleno; e non vi persuadete, che gli Psilli, i Marsi, e gli Ofiogeni di que’ tempi avessero più particolare, e propria virtù di quella, che si abbia ogni uomo piu triviale di oggi giorno, e benche Plinio in più luoghi, et Aulo Gellio, raccontino, che questo era un dono della provida natura, conceduto a que’ soli popoli, e che aveano per costume di far prova della pudicizia delle loro mogli, con esporre i tenerelli figliuoli in mezzo de’ più fieri serpenti, con tuttociò non mi sento da crederlo, ma voglio più tosto dar fede a Cornelio Celso, che molt’anni prima di Plinio, e di Gellio ci lasciò scritto: Neque, hercules, scientiam præcipuam habent hi, qui Psylli nominantur, sed audaciam usu ipso confirmatam, et appresso: Ergo quisquis exemplum Psylli secutus id vulnus exuxerit, et ipse tutus erit, et tutum hominem præstabit; e quei Psilli non meno de gli altri uomini erano morsicati da’ serpenti, e per guarire aveano bisogno de gli alessifarmaci, e lo raccolgo da quel libro, che Damocrate medico, e poeta Greco scrisse de gli antidoti, tra’ quali se ne legge uno, di cui egli afferma, che se ne servivano gli Psilli, allora quando erano dalle Vipere morsicati:
Σφόδρα ἀγαθὴ δύναμις, ἦ καὶ χρωμένους
Πίνοντας αὐτοὺς οἶδα, δηχθέντας κακῶς
Τοῖς ἀρτιθήροις ἒχεσι τοῖς καλουμένοις
Ψυλλίοις·
Vrbanus tibi Cæcili videris.
Non es, crede mihi: quid ergo? Verna es
Hoc quod transtiberinus ambulator,
Qui pallentia sulfurata fractis
Permutat vitreis: quod otiosæ
Vendit qui madidum cicer coronæ:
Quod custos, dominusque viperarum:
Quod viles pueri salariorum: etc.
Dall’avervi mostrato in sin qui, che senza pericolo succhiar si possono le morsicature viperine, vi potrete accorgere, qual fede si possa dare a quanto vien raccontato negl’infrascritti epigrammi, gli autori de’ quali si vede, che anno scritto quello, che è paruto loro, che sarebbe avvenuto, se i casi si fossero dati. E come che il mondo sia stato sempre a un modo, mi giova di credere, che si come noi vediamo al di d’oggi molti versificatori sovvenir loro qualche pensiero, che abbia del pellegrino, e del frizzante a’ loro gusti, vi adattano subito il concetto per un sonetto, onde osserviamo soventemente i primi quadernari, e tal volta il primo terzetto, di una tessitura, non come quella del Petrarca, e de gli altri migliori Poeti, ma ben si rada di concetti, e di nobili sentenze, e finalmente ripiena di parole, e non altrimenti di cose, e solamente quanto basta per condursi a que’ tre ultimi versi, che furono la cagione, ed il principio del sonetto; così poter esser forse avvenuto in que’ tempi; e che quegli Autori formassero il loro pensiero di pianta, fingendo il morso dato dalla Vipera alla mammella della Cervia, e della Capra salvatica, quindi la medicina del veleno per lo succhiamento de’ loro parti lattanti, e finalmente la morte di questi, e la vita resa alle madri. Gli epigrammi sono i seguenti.
ΠΟΛΥΑΙΝΟΥ
Δορκάδος ἀrτιτόκοιο τιθηνητήριον οὖθαρ
Ε´μπλεον εἰδοῦσα πικρος` ἒτυψεν ἒχισ.
Νεβροσ` δ᾽ἰομιγῆ θηλην` σπάσε, καὶ τὸ δὖσαλθὲς
Τράυματος ἐξ ὀλοῦ πικρον` ἒβρωξε γάλα.
Αδην δ᾽ῆλλάξαντο, καὶ ἀυτίκα νήλει μοίρη
Ην ἒπορεν γαστηρ`, μαστος` ἀφεῖλε χάριν.
ΤΙΒΕΡΙΟΥ ΙΛΛΟΥ.
Κεμμάδος ἀρτιτόκου μαζοῖς βρίθουσι γάλακτος
Ηφονίη δακετῶν ἰον` ἐνῆκεν ἒχις.
Φαρμαχθεν` δ᾽ἰῶ μητρος` γάλα νεβρὸς ἀμέλξας
Χείλεσι, τον` κείνης ἐξέπιεν θάνατον.
Oltre al succhiar le piaghe, utilissimo ancora stimo essere, per consiglio di Galeno, fare una stretta legatura un poco lontana dalla ferita nella parte più alta, acciocchè col moto circolare del sangue non si porti il veleno al cuore, e tutta la sanguigna massa non se n’infetti. E non monta niente, che il legacciolo sia, o di lana, o di lino, o di seta, o di cuoio, perche fu dolcezza di buono, e semplice uomo, anzi di troppo superstizioso, quando Gilberto Anglico scrisse, che più giovevole era far la legatura con una correggia di pelle di Cervio. Sarà per tanto laudevol cosa il non prestar fede a simili bagattelle, e chi trova scritto in Plinio, in Aezio, ed in Quinto Sereno Sammonico, che il capo spiccato di fresco da una Vipera, e così caldo, e sanguinoso applicato in su la morsicatura è antidoto mirabile a quel veleno, ridasene senz’alcun dubbio, perchè ardisco dire essere una semplicità fanciullesca, se però molte prove, e riprove congiunte con la ragione non mi anno ingannato. Ingannato ben resterebbe, chi nel provveder rimedio alle avvelenate morsicature solamente si fidasse della maravigliosa potenza, che gli Scrittori anno attribuita al cedro; onde si legge in Ateneo, che due malfattori condennati ad esser fatti morire da gli Aspidi, e da quelli più volte fieramente morsicati, contuttociò non provarono la forza del veleno, perchè poco avanti, che quelli infelici arrivassero al patibolo, una certa compassionevole, e caritativa donnicciuola avea lor dato a mangiare un cedro. Più disgraziati di costoro furono due galletti, che da me per quattro giorni continui nutriti d’orzo, stato infuso nella decozzione del cedro, ed in fine empito loro il gozzo di pezzetti di cedro, e di cedrato, passato lo spazio di due ore, morder gli feci da due Vipere, ed unsi anche la ferita di uno con quint’essenza di scorze di cedro, ma in capo alle tre ore morendo tutti due, mi fecero accorgere, che questa medicina era vana, e la storia di Ateneo favolosa. Favoloso ancora è tutto ciò, che dell’astrale (così la chiamano), e magica virtù delle segnature dell’erbe anno sognato alcuni Autori, e particolarmente il valoroso chimico Osvaldo Crollio; e se un Virtuoso de’ nostri tempi, e da me molto stimato n’avesse fatto prima qualche esperimento, non si sarebbe lasciato uscir dalla penna, che per aver le spine del Cappero la segnatura de’ denti della Vipera, per questa ragione il Cappero sia per essere sommo, e possente medicamento da guarire i morsi viperini. Io ne ho fatta esperienza, non già perchè ne sperassi, o ne credessi vero l’effetto, ma per poter con verità scrivere d’averla fatta; e con questa verità medesima vi confesso, che di buon proposito hò esperimentate alcune altre famose erbe, da Dioscoride, e da Plinio descritte, e sempre ne son rimaso deluso, ne mai mi sono imbattuto a veder le gran maraviglie, che a quelle attribuiscono; onde mi fo lecito il credere, o ch’elle non anno avuto cotante doti, o che solamente l’ebbero.
Ne’ tempi antichi quando i buoi parlavano,
Che’l Ciel piu grazie allor solea producere.
Forse in quei tempi fortunati era il vero, che un capo di Vipera strozzata con un filo di seta tinta in chermisì, e portato al collo, restituisse la sanità a coloro, che avevano la squinanzia, e proibisse, che mai più da questo fiero, e precipitoso male non fossero assaliti, come lo scrive con molt’Autori Abimeron Abinzoar volgarmente detto Avenzoar, e come il volgo se lo crede; ed io conosco un uomo in una Città da Firenze non gran tratto lontana, che per qual si sia più prezioso tesoro, non si leverebbe dal collo un capo di Vipera, che continuamente vi tiene attaccato, e pure ogni anno, intorno al principio d’Aprile, infallibilmente vien tormentato da questo male, e se il suo medico, senza perder tempo, non lo soccorresse con buone cavate di sangue, e con altri efficaci rimedi, son di parere, che rimanendo soffocato, farebbe vera una parte del detto di Avenzoar. Forse in quell’anticha età non era menzogna, come oggi è, ciò che racconta Marc’Aurelio Severino, che i capponi morsi, ed ammazzati dalle Vipere, e mangiati da coloro, che anno la febbre quartana, sieno un sicuro medicamento per estinguer quel fuoco febbrile, che per lo spazio di molt’, e molt’anni suol ostinatamente mantenersi vivo negli umani corpi, a dispetto di tutti que’ rimedi, che da’ Medici sono somministrati.
Or per tornar colà, di dove s’era deviato il mio scrivere, parve degno da investigare, se veramente quel velenifero liquore, che scaturisce dalle guaine de’ denti, sia a quelle tramandato (come crede con molt’altri Baldo Angelo Abati, e trà più moderni l’eruditissimo Samuel Bocharto nella sua dottissima Geografia Sacra) dalla conserva del fiele mediante alcuni piccolissimi condotti, che alla testa arrivano, e benche verso questi più, e più volte io aguzzassi le ciglia
Com’ il vecchio sartor fa nella cruna.
Con tutto ciò non mi fù possibile il vederli, onde tengo fermissima opinione, che non abbia la Vipera questi tali canaletti dal fiele alla testa, se non quanto la pia meditazione di alcuni scrittori se gli sia immaginati. E me lo persuade il colore del fiele tinto d’un verde assai vivo, che pure dovrebbe facilitarne la veduta; Me lo persuade ancora il considerare, che il fiele, a giudizio del sapore, ha in se una piccante, e ruvida amarezza, dove quell’altro liquore, che gronda dalle guaine de’ denti ha un dolce insipido, e come di sopra ho detto, assai sull’andare di quello dell’olio delle mandorle dolci. Oltre che se vi è qualche piccolissimo canale, che vada dal fegato al fiele, è fatto per fare scorrere l’umor bilioso dal fegato alla vescica di esso fiele, e non dalla vescica alle parti superiori, ed acciò portar se ne possa tutta piena certezza, si prema la vescica del fiele, e si scorgerà, che è impossibile, che l’umor bilioso voglia salire allo ’nsù, e per lo contrario, se si preme allo ’ngiù a poco a poco si vede tutto gemere nelle budella.
Se non istimassi a vergogna scriver senz’altra riprova ciò, che mi passa per la immaginazione, direi forse, che quel liquor giallo, non per altra via mette capo nelle sopranominate guaine de’ denti, che per quei condotti salivali nuovamente ritrovati dal celeberrimo Tommaso Vuartono, ed in questa Corte da Lorenzo Bellini giovane dotto, e di grandissima espettazione mostrati in altri animali fuori della spezie dell’uomo, e particolarmente ne i cervi, e ne i picchi; oltre che sotto al fondo di quelle guaine vi sono due glandule da me in tutte le Vipere ritrovate. Non fate però capitale di questo mio pensiero, perche potrebbe essere una chimera, come chimera credo, che sia l’opinione di coloro, che anno detto, che quel liquore in bocca della Vipera diventa veleno, stante che, come riferisce Aristotile, Pausania, e l’autor del libro della Triaca a Pisone, la Vipera si pasce d’erbe mortifere, di scorpioni, di canterelle, di bruchi, e d’altri bacherozzoli velenosi. Chimera, dico, credo che sia, perchè senza noverare, che che si mangi la Vipera, basti il dire, che ella vive nelle scatole otto, nove, e più mesi senza cibo, e pure dopo così lungo digiuno mordendo avvelena; anzi Galeno in quel trattato, che scrisse a Panfiliano dell’uso della Triaca, vuole, che più sia velenosa così digiuna, che allora, quando di fresco è stata presa, e l’Autore del libro della Triaca a Pisone crede, che sia men pregna di veleno dopo, che si è pasciuta di quei bacherozzoli. Di più l’esperienza lo conferma. Si pigli una Vipera di quelle, che lungamente sono state nelle scatole: Se le faccia mordere due, o tre volte un pollastro a segno, che in mordendo abbia scaricato tutto il liquore contenuto nelle due guaine: Se a questa Vipera si farà mordere un’altro pollastro, questo secondo non morrà. Si rimetta poi la Vipera nella sua scatola, e si riosservi in capo a quattro, o cinque, o più giorni, e vedrassi, che il fondo delle guaine si è ripieno del solito liquore, e se allora di nuovo la Vipera morderà, cagionerà la morte, e pure tutti que’ giorni è stata digiuna, e non ha mangiato insetti velenosi, che abbiano potuto far’ a lei nascere in bocca il veleno.
Ma che vi dirò de’ denti? Moltissimi de piccoli se ne veggono in bocca della Vipera tanto nelle mascelle di sopra, quanto in quelle di sotto; Ma di questi ora non farò menzione, volendo favellar solamente di que’ più grandi, che canini si chiamano, de’ quali quanti la Vipera ne abbia è impossibile lo ’mpararlo da i libri. Nicandro antico Poeta Greco, che fiorì ne’ tempi di Tolomeo settimo, e di Attalo ultimo Re di Pergamo, disse, che il maschio ha due denti, e che la femmina ne ha più di due, ma non dichiarò quanti.
Τοῦ μεν` ὐπερ` κυνόδοντε δύο χροὶ τεκμάιρονται
Iον` ἐρευγόμενοι. πλέονες δέ τοι ἀιεν` ἐχίδνης.
A Nicandro aderì in tutto, e per tutto il di lui greco stampato Scoliaste, l’Autore del libro della Triaca a Pisone, Rafis, Avicenna, Attuario, e Giovanni Gorreo nelle note a Nicandro; Gli aderì ancora in gran parte l’Autore di quel greco trattatello, che porta in fronte il titolo ΔΙΟΣΚΟΡΙΔΟΥΣ ΠΕΡΙ ΑΝΤΙΦΑΡΜΑΚΩΝ. Quest’operetta non è per ancora stata stampata, e si conserva in Firenze nella famosa Medicea libreria di San Lorenzo nel banco ottantasei, in quel Codice, nel quale scritti sono i Commentari di Michele Efesio delle parti de gli Animali. Se fosse a me lecito dare il giudizio di quella scrittura direi, che falsamente da’ copiatori fosse stata attribuita a Dioscoride, e che fosse più tosto opera del Greco Eutecnio Sofista, che compilò a’ libri di Nicandro le parafrasi non per ancora date in luce, e conservate nella suddetta libreria, nel soprammentovato Codice di Michele Efesio; e sto per dire, che non credo d’ingannarmi, se non mi fanno travedere la maniera dello scrivere d’Eutecnio, o di chi si sia l’Autore di quelle parafrasi, ed una certa a lui consueta, e disordinata continuazione dell’ordine tenuto da Nicandro; oltre che l’opera non mantiene troppo bene, ciò che il titolo promette.
Aezio determinò il numero di due a’ maschi, e di quattro alle femmine, e così del medesimo sentimento di Aezio furono Isaac, Francesco Cavallo da Brescia, il Zacuto, il Mercuriale, Amato Lusitano, Francesco Sanchez, Gasparo Osmanno, ed altri di minor grido.
Ch’a nominar perduta opra sarebbe.
Paolo Egineta, Alì Abate tanto nel maschio, quanto nella femmina fanno menzione di due soli. Vincenzio Belluacense dice, che sono tre, Baldo Angelo Abati, ed il Veslingio, che son quattro, ed Alberto Magno afferma, che il maschio delle Vipere ha due denti nella mascella di sopra, e due in quella di sotto corrispondenti fra di loro. Gio: Batista Odierna nella sua diligente, e curiosa lettera de dente viperino, dopo aver detto, che i denti minori son quarantotto, venendo a favellar de’ maggiori, passa sotto silenzio il loro numero. Marc’Aurelio Severino asserisce in ciascheduna delle mascelle superiori averne veduti almeno tre, quattro, ed anche cinque, e fors’anche sei. A chi creder dobbiamo? Dirovvi quello, che ho veduto in più di trecento Vipere. Le Vipere dell’uno, e dell’altro sesso anno solamente due denti canini, co’ quali mordono, stabili, e sodi, e spuntano dall’osso della mascella superiore uno per banda, e stanno coperti da quelle guaine, delle quali di sopra vi ho favellato in foggia non molto dissimile a quella, con la quale da me medesimo in quest’anno ho veduto i Leoni, ed i Gatti tener’ inguantate l’unghie delle zampe. È però vero, che dentro a queste guaine alle radici de’ suddetti due denti ne nascono molti altri minori, ed io ne ho contati fino a sette per ogni guaina, e tutti uniti insieme in un mazzetto, come nascono colà ne prati alcuni funghi minori alle radici del fungo maggiore, e non uguali in grandezza, ma uno ordinatamente minor dell’altro, e non son così duri, e così radicati nella ganascia, come il dente maggiore, anzi pochissimo s’attengono, e stuzzicati facilissimamente cascano, dove che il dente più grande non senza violenza si svelle. E se alle volte, che pur di rado avviene se ne trova qualcuno uguale al maggiore, si ponga mente, che uno de’ due tentenna, e dimena, ed è vicino al cascare, vicino al cascar dico, perchè vi sono Autori, che dottamente affermano, che ogni tanto tempo cadono, e rinascono i denti alla Vipera. Questi denti sono per di dentro voti, e accanalati, fino all’ultima punta, e gli anno veduti col microscopio i moderni scrittori, e senza microscopio veder’ anco si possono, quando son secchi, perchè leggiermente schiacciati si fendono per lo lungo dalla radice alla punta in tre, o quattro scheggiuole mostranti all’occhio l’interna cavità, la quale fu osservata ancora da gli Antichi, e particolarmente da Plinio, e dall’Autore del libro della Triaca a Pisone, allora, che disse, καὶ δὴ καὶ μάζας τινας` ἐπιδιδόντες ἐμφραττοὺσας τῶν ὀδόντων τὰ θρύμματα, καὶ ὀύτω τούτων ἀσθενῆ γίνεται τὰ δήγματα. Non credo però, che sia vero, che per essere internamente voti questi denti sieno il ricettacolo del veleno, e che per lo strettissimo forame di quelli schizzi nelle ferite, che fà la Vipera mordendo, perchè pigliandosi una Vipera, et aprendo a lei per forza la bocca, allorche se le scuoprono i denti, si scorge quel giallo, e pestilenzioso liquore scorrere giù per lo dente, non dentro la cavità, ma ben si fuora, dalle radici alla punta, e di ciò gli occhi miei ne anno presa più volte esperienza pienissima. Ma si come non sono i denti ricettacolo, o vasello della velenosità, così ne anche per se medesimi sono velenosi, imperciocche de gli uomini se gli sono inghiottiti, ed io intieri, intieri ingozzar ne ho fatti sei ad un cappone, che non solo non morì, ma non diede indizio alcuno di futura morte. Di più alla Vipera morta, ed alla Vipera viva cavati i denti, e con quelli avendo punto il collo, il petto, e le cosce di alcuni galletti, e lasciati anco i denti drento alla piaga, non si morirono; et un Nipote del sopranominato Iacopo Viperaio più volte co’ denti allora allora cavati, e caldi si punse le mani, e ne fece col pugnere uscire il sangue, et altro male non gl’intervenne, che quello avvenir suole dalla puntura de gli spilli, o delle spine. Ed or vengo in chiaro, che Baldo Angelo Abati, e lo Scrodero di loro capriccio, e non addottrinati dall’esperienza scrissero, che i denti della morta Vipera ammazzano; Ed il volgo potrà restar certo, che fu un trovato favoloso quello, che giornalmente si racconta della morte di quello speziale, che maneggiando un capo di Vipera un’anno avanti ammazzata, disavvedutamente si punse. Favola non è già, et io ne posso far fede di averlo veduto più volte, che il capo mezz’ora dopo troncato mentre ancora ha qualche residuo di moto, e per così dire, qualche favilluzza di vita, se morde uccide, come se fosse attaccato al busto, e non gioverebbe per guarire tutta quanta la soave musica del famoso Atto Melani, del Cavalier Cesti, o l’argentina voce del Ciecolino, con quanti stromenti musicali seppero inventare, e l’antiche, e le moderne scuole.
Non ridete Signor Lorenzo, e non vi paia, che qualche stravaganza io abbia detto. Ricordatevi, che i nostri Arcavoli, e particolarmente i Pittagorici furono tanto buoni, e corrivi al credere, che si dettero ad intendere, che la musica fosse di alcuni mali del corpo una possente medicina, e Teofrasto, come si legge nelle Notti Attiche di Aulo Gellio, affermò, che i bravi sonatori al paragone di qual si sia più celebre Medico possono render la sanità a coloro, che dalle Vipere sono stati morsi; E Marc’Aurelio Severino uomo dottissimo, e diligentissimo nella Vipera Pitia lo ridice, e lo tien per vero, et il Zacuto nel libro quinto dell’Istorie de Medici più principali anch’egli lo conferma, et affannandosi, e dibattendosi fa un lungo, e bizzarro discorso per additarne le naturali cagioni, e non si rammenta, che la giovane Euridice moglie del più gentil Musico dell’universo punta da una Vipera finì tutti i suoi giorni, senza che’l canoro marito potesse portarle un minimo profitto, et il medesimo accaderebbe a’ Medici d’oggi giorno, se volessero medicare a suon di Chitarrino le morsure di quella maligna bestiola. Se non temessi di allungarmi di soverchio, vi racconterei la bella burla, che intervenne una volta ad un certo Medico principiante, il quale avendo letto, che Ismenia Tebano guariva gli acerbissimi dolori della Sciatica non con altro, che col cantare alcune gentili canzonette, volle anch’egli posti in non cale i più generosi rimedi a questo solo della musica attenersi. Ma di ciò un’altra volta. Contentatevi per ora, che, per potermi quanto prima avvicinare al fine, io vi dica, che la Vipera non ha nella coda ago, o spina abile a poter pugnere, e che da ogni uomo francamente può, e per cibo, e per medicamento mangiarsi; e se quando le Vipere s’ammazzano per far la Triaca, si taglia col capo ancora la coda, si taglia, non perchè sieno parti velenose, ma perchè sono ossute, e non anno carne, e per una certa superstizione, che non so di dove abbia avuta origine, in quella maniera appunto, come dice il Severino nella Vipera Pitia, che il volgo ha una certa repugnanza a mangiare i capi, e le code dell’anguille. E se vi fosse alcuno, che pur volesse, che le code viperine fossero tossicose, e fosse ostinato a voler mantenere, che in compagnia di tanti antichi, e di tanti moderni il vecchio Andromaco mentir non poteo, quando cantò nella seconda parte del suo PoemettoΟὖλα γαρ` αμφοτέρω φέρει ἐπὶ τύμμασιν ἄχθη,
Λυγρον` ὕπ᾽ὀυράιην ἰον` ἒχων φολίδα.
Dite pure a costui da parte mia, che coloro, i quali anno una si fatta opinione, non anno veduto, come veduto ho io uomini, ed altri animali mangiarsi, non solo i capi delle Vipere, ma ancora le code cotte, e crude; ed anco di più quando le Vipere sono vive, per farle stizzare, ed irritare a mordere, mettersi le code di quelle in bocca, e fieramente co’ denti stringerle, e lacerarle.
Si che per raccorre il tutto in poche parole, dicovi, che la Vipera non ha umore, escremento, o parte alcuna, che beuta, o mangiata abbia forza d’ammazzare; Che la coda non ha con che pugnere; Che i denti canini tanto ne’ maschi, quanto nelle femmine non sono più, che due, e voti sono dalla radice alla punta, e se feriscono, non sono velenosi, ma solamente aprono la strada al veleno viperino, che non è veleno, se non tocca il sangue, e questo veleno altro non è, che quel liquore, che imbratta il palato, e che stagna in quelle guaine, che cuoprono i denti, non mandatovi dalla vescica del fiele, ma generato in tutto quanto il capo, e trasmesso forse alle guaine per alcuni condotti salivali, che forse metton capo in quelle. Ma di ciò aver potrete maggior contezza, quando leggerete un’altra lettera, che ho cominciat’a scrivere al nostro dottissimo, ed eruditissimo Signor Carlo Dati, e contiene l’anatomica descrizione di tutte le parti interne, ed esterne delle Vipere, e d’altri serpenti, che non son velenosi, e conoscer potrete, quanto falsamente alcuni Autori antichi scrissero, che a questi; ed alle Vipere mancano alcune parti, che pure se si guardano bene, le anno, e particolarmente i canali dell’urina, i quali dopo avere scorso per tutta la lunghezza de i reni, sboccano, non come parve all’avvedutissimo Giovanni Veslingio nell’intestino retto, ma in una piccola, e rilevata fessura situata nelle femmine tra l’una, e l’altra porta delle due gole uterine; e dentro a quei canali ho trovato alle volte qualche piccolo calculetto, si come ne ho trovati dentro alla carne de’ reni istessi. Leggerete ancora, che la Vipera non ha il cervello di color nericcio, come credette Baldo Angelo Abati, ma che ben si è bianco, e che non è di mole così piccolo, e così leggiere, come volle il suddetto Autore, dicendo, che appena arriva a quattro grani di miglio, avend’io posto mente, che per lo più è sempre di peso in circa dodici, o tredici grani del medesimo miglio; ma nella maravigliosa, e sottilissima fabbrica dell’occhio avrete grand’occasione di filosofare, e di risvegliarvi a nobilissime contemplazioni intorno alla origine de nervi, delle tuniche, e degli umori, tra quali il cristallino è di una perfetta sferica figura, come quella della maggior parte degli animali, che vivono nell’acqua.
Parmi, che adesso voi aspettiate, che io vi faccia qualche dotto, sottile, e ben ponderato discorso, favellandovi in qual modo il veleno viperino mandi via la vita, et introduca ne’ corpi la morte. Se egli ve l’introduca operando con un’occulta potenza, e dall’umano intendimento non penetrata, o se pure arrivato al cuore discacciandone gli atomi calorifici, del tutto lo raffreddi, e lo agghiadi; o pure multiplicando, e rendendo più vivi que’ medesimi atomi, di soverchio lo riscaldi, lo risecchi, ed affatto risolva, e strugga gli spiriti; overo se tolga a lui il senso; o se con dolorose punture stuzzicandolo, faccia si, che il sangue al cuore troppo dirottamente ritornando, lo soffochi; o se impedisca il moto del medesimo cuore, facendo congelare il sangue nell’una, e nell’altra cavità di lui, a segno tale, ch’e non possa più ristrignersi, e dilatarsi, o se pur faccia, che il sangue non solamente quagli nelle cavità del cuore, ma ancora, che si rappigli in tutte quante le vene.
Voi v’ingannate, se ciò da me pretendete, contentandomi, che questa sia una di quelle tante, e tante cose, che non so e che non ispero di sapere, perche dopo molte esperienze fatte a questo sol fine in Cani, Gatti, Pecore, Capre, Pavoni, Colombe, ed altri animali, non ho per ancora trovato cosa stabile, che intieramente mi satisfaccia, e da poterla scrivere per vera. E se bene in alcuni animali morti dalle Vipere si trova quel congelamento di sangue ne’ ventricoli del cuore, io però non l’ho sempre trovato in tutti, e per lo contrario quel medesimo congelamento molte volte l’ho veduto, e molte no in animali fatti morire con istento; l’ho veduto dentro al cuore di uomini morti di male naturale, ed ultimamente in un Cane ammazzato da una freccia del Bantan; e mi sia lecito per passaggio il dirvi, che quel Cane una mezz’ora dopo che fu ferito, cominciò ad avere vomiti frequenti, e faticosi, ed in fine con urli, e scontorcimenti orribili si morì, e in tutte quante le sue viscere non si trovò una minima lesione, e quel luogo istesso della coscia, nel quale la freccia si era fermata, non avea mutato ne meno colore, e di più vi dirò, che al diligentissimo, e bravissimo Notomista Tilmanno dal tagliar questo Cane, e dal maneggiar lungo tempo, e minutamente tutte le interiora, non accadde fastidio, ne malattia, e pure una volta voi mi diceste, che un gran valent’uomo raccontato vi avea, essere stato molto male un certo giovane, che fece notomia d’un Cane da quelle frecce ammazzato. Puo essere, che egli ne stesse male, ma io vi riferisco quello, che ho veduto, non movendomi allo scrivere altri, che l’amor del vero, il quale mi vieta il credere a coloro, che
A voce più, ch’al ver drizzan li volti,
E così ferman sua opinione.
Presenti furono a questa operazione que’ due dottissimi, e tanto rinominati Inglesi, vi era il celebre Matematico Gio: Alfonso Borelli, e l’ingegnosissimo Antonio Uliva; e se vi si fossero potuti trovare quegli Autori, che anno insegnato, che coloro, i quali maneggiano i corpi morti di veleno, si mettono a un pericolo grandissimo di vita, mi rendo certo che avrebbono confessato, che vano era il loro sospetto, e se il Capo di Vacca ebbe anch’egli una tale opinione, e se disse, che anticamente i condennati a bere il veleno erano soliti di lavarsi avanti d’inghiottire la velenosa bevanda, acciocche dall’esser lavati dopo morte, non ne restassero infettati coloro, a’ quali s’aspettava di far questa funzione, e se prese per testimonio di ciò alcune parole, che’l divino Filosofo nel Fedone fece dire a Socrate; mi perdoni il Capo di Vacca, ei non fa qui le parti di quel grandissimo, e stimatissimo Scrittore, ch’egli si è, e nel credere, che Socrate veramente credesse, che dal suo corpo avvelenato potesse uscire alcun mortifero alito dannoso a quelli, che lo aveano a rimaneggiare nel lavarlo, ha il torto per se, e grandissimo lo fa a quel sapientissimo uomo, il quale (come si vede chiaramente dalle sue parole riferite da Fedone) non s’indusse a lavarsi, perch’ei credesse questa baia, ne mostra, che tampoco la credessero quei valent’uomini, che erano quivi presenti: ma si lauò o per levare una certa ubbia a quelle volgari donnicciuole, che doveano lavarlo dopo morto, le quali, come troppo casose, schive, e guardinghe erano solite forse di fare grand’atti, e gran lezi, quando si dava il caso, che elle avessero a lavare i corpi di coloro, che erano fatti morire col veleno, o pure, che più verisimile mi pare, volle Socrate lavarsi, perchè potendo farlo da per se medesimo in vita, non volle dar questo impaccio, e questa briga dopo morte alle donne; E perchè veggiate, ch’io non son lontano dal vero, non tralascerò qui di trascrivere le parole istesse di Socrate, tali quali appunto nella Greca favella furono scritte, e vi aggiugnerò ancora, come io le trasporterei nel toscano idioma. Καὶ σχεδον´ τι μοι ὤρα τραπέσθαι προς` τό λευτρον`. δοκεῖ γαρ` ἤδη βέλτιον εἶναι λουσάμενον πίνειν τὸ φάρμακον, καὶ μὴ πράγματα ταῖς γυναιξὶ παρέχειν νεκρον` λόυειν. Già è tempo, ch’io vada a lavarmi, imperciocche mi pare più a proposito bere il veleno lavato che sarò, e non dare alle donne la briga di lavare il cadavero.
Io non vorrei già, che qualcuno si desse ad intendere, che fosse qui di mia intenzione torre al Capo di Vacca, ed a gli altri di sopra nominati Autori, ne anche una minima particella di quella grandissima stima, nella quale meritamente son tenuti, perchè non son tale, ne valevole a poterlo fare, ed in paragone di loro io son’uomo di queste cose materiale, e rozzo; oltre che in tutti quanti gli scrittori, somiglianti piccolissimi nei agevolmente si trovano, e particolarmente in quelli, che molto anno scritto. Siamo tutti uomini, e per conseguenza soggetti all’errare; Solo Iddio è tutto sapiente, il che ben conosciuto dal modestissimo Pittagora con molta ragione rifiutando il nome di Savio, si prese quello di amatore della sapienza. Io lodo tutte le Sette de’ Filosofi, ed in tutte trovo molte cose, che svelata ci mostrano la verità, ma ve ne trovo ben’anche molt’altre, che con la verità, ne poco, ne punto s’accordano. Amo Talete, amo Anassagora, Platone, Aristotile, Democrito, Epicuro, e tutti quanti i Principi delle Filosofiche Sette, ma non sia però, ch’io voglia servilmente legarmi a giurar per vero tutto quello, che anno detto, o scritto, come lo fa giornalmente la più minuta plebe di molti protervissimi settarij, i quali per lo soverchio, e per dir così, rabbioso amore, che portano al capo della loro scuola, non vogliono udire opinioni contrarie a quella, e forzati ad ascoltarle, e da evidenti ragioni alle volte convinti, non sapendo trovare altro scampo, o sutterfugio, ricorrono alle cavillazioni, a’ sofismi, ed in ultimo luogo alle strida, e se si vuol far veder loro qualche esperienza, si mettono le mani avanti a gli occhi; e so di certo, che un profondo Maestro in iscrittura peripatetica, e molto venerabile uomo, per non esser necessitato a confessar vere le non più vedute stelle, e l’altre curiose novità ritrovate in Cielo dal Galileo, non volle mai all’occhio adattarsi l’occhiale; ed un’altro, a cui io diceva, che quelle piccole Botte, che di State, quando comincia a piovere saltellano per le pubbliche polverose strade, non nascono in quell’istante dall’incorporamento della gocciola dell’acqua piovana con la polvere, ma ch’elle son di già nate molti giorni prima, e promettendo di dargliene esperienza vera, col fargli vedere, e toccar con mano, che tutte quelle, che egli si credeva allor’ allora nate, aveano lo stomaco per lo più ripieno d’erba, e gl’intestini d’escrementi, non fu mai possibile, che potessi indurlo a contentarsi, che in sua presenza io ne aprissi una, qual più a lui fosse piaciuta. Miglior costume fu quello di Potamone Alessandrino inventore della Setta, che fu chiamata Elettiva. A questo avveduto Filosofo, purche imparasse qualche verità, poco importava, se trovata l’avesse, o nella scuola Ionica in bocca d’Anassimandro, o nella Italiana su la cattedra di Pittagora, anzi da tutte le Sette indifferentemente coglieva il più bel fiore delle più vere, o per lo meno delle più probabili opinioni. Vado ingegnandomi anch’io d’imitarlo, avvengadiochè sappia, che ogni giorno potrà essermi detto con molta ragione
Or tu chi sè, che vuoi sedere a stranna,
Per giudicar da lungi mille miglia
Con la veduta corta d’una spanna?
Con tutto ciò nell’aborrire la menzogna viverò contento di me medesimo, e della mia naturale inclinazione, che nella faticosa inchiesta del vero.
Quanto più può col buon voler s’aita.
Aveva ormai stabilito di voler terminar qui la lettera, ma non me lo ha permesso un nuovo ordine di cose curiose, e non indegne da sapersi; e si è, che riferiscono alcuni, che alle Vipere femmine, allorche son vive, non nascon vermi nelle budella; ma l’esperienza m’insegna in contrario, ed a’ giorni passati ne trovai più di trenta vivi nello stomaco, ne gl’intestini, e giù per l’aspera arteria di una sola Vipera femmina; ed i minori di questi lombrichi erano di lunghezza, e di grossezza come gli spilli più piccoli, che adoperano le donne; ed i maggiori erano lunghi quattro dita a traverso, e grossi come quella corda del Violino, che chiamasi il Basso; i primi di color bianco, ed i secondi di rossigno, e dopo cavati dal ventre della Vipera vissero lo spazio di un terzo d’ora: e di questi vermi non intese a mio parere di favellar Seneca nel libro secondo delle naturali questioni dicendo. In venenatis corporibus vermis non nascitur. fulmine icta intra paucos dies verminant, perche si vede manifesto, che Seneca parla de’ vermi, che nascono dalla carne imputridita de’ corpi morti, facendo menzione de’ corpi percossi dal fulmine, e per consequenza da quello ammazzati, che dopo lo spazio di pochi giorni possono inverminare. E s’io m’inganno nella intelligenza di questo luogo di Seneca, avranno ragione il Mercuriale, ed il Severino, i quali tengono, che Seneca intendesse di quei vermi, che nascono ne’ corpi degli animali velenosi viventi. Ma sia com’esser si voglia, non si può negare, che, o in un modo, o nell’altro, sempre Seneca non si allontanasse dalla verità, giachè, com’ho detto, sovente nelle Vipere vive tanto maschi, quanto femmine trovansi quei vermi, ed i cadaveri delle morte inverminano, ancorche dal fulmine toccate non sieno; e non solamente inverminano questi cadaveri putrefacendosi, ma bacano ancora in processo di tempo le polveri viperine aride, secche, e con Elisirvite finissimo, per così dire, imbalsamate.
Dopo di che non sarà totalmente fuor di proposito l’investigare, se veramente i corpi delle Vipere, o i luoghi, dove si nascondono, o le casse, nelle quali si conservano spirino odor fetido, e spiacevole, come volle l’Aldrovando con molti altri moderni, ed anticamente MarzialeQuod Vulpis fuga, Viperæ cubile
Mallem, quam quod oles olere Bassa.
Al che rispondo, che ne le Vipere, ne le fecce de’ loro intestini non anno fetore, ne lasciano per questa ragione mal’odore ne’ luoghi da esse abitati; ed io nelle scatole, nelle quali si conservano, mentre non ve ne sieno state delle morte, e le scatole troppo anguste, e senza i convenienti spiragli, non ho mai sentito quel puzzo nauseoso, di che fà menzione l’Aldrovando. Affermo bene, che se al maschio della Vipera, si come anco a molti altri serpenti, si premano i due membri genitali, ed alla femmina le due quasi vesichette seminali, che pendono vicine alle due porte della Natura, ne schizza fuora una cert’acqua sottilissima di odore grave, odiosamente salvatico, e proprio serpentino: e qui prese l’errore il Gesnero, che non seppe distinguere, se quel fetore veniva dalle fecce intestinali, o pure dalla suddetta acqua, il che fu molto meglio osservato da Eliano nei libro nono de li animali, μιγνεύμενοι δὲ ἀλλήλοις ὀι ὄφεις βαρυτάτην᾽ôσμην' ἀφιᾶσι, onde per salvar Marziale, si potrebbe forse dire, che volend’egli spiegare il mal’odore, che avea Bassa in quelle parti, delle quali più bello è il tacere, che il dire, con ragione lo antepose a quello, che spirano le Vipere dà luoghi destinati alla generazione; e tanto più, che la voce Cubile usata da Marziale, non solo si può intendere del covacciolo, o luogo, dove dorme, e s’acquatta la Vipera, ma ancora, e forse più propriamente qui, pigliar si dee in quel significato, nel quale molti Latini se ne servirono, e particolarmente Cicerone in più luoghi, e la figliuola del Re Niso appresso Ovidio nell’ottavo delle Trasformazioni
Nam pereant potius sperata cubilia, quam sim
Proditione potens
Ed Atalanta nel decimo
quod si fælicior essem,
Nec mihi coniugium fata importuna negarent,
Unus eras, cum quo sociare cubilia vellem.
Nel medesimo senso, ancora leggesi nella Genesi vulgat: vers. quia ascendisti Cubile patris tvi, et maculasti stratum eius; Ed il verbo cubitare in Plauto nel Curculione, nel Pseudolo, e nello Stico, ed ancora il verbo cubare, nell’Amfitrione anno il medesimo significato, e tralasciando i Greci per non mi allungar di soverchio, anche i nostri Toscani in questo proposito anno adoperato il giacere, e ne sono esempli nel Boccaccio nov: 29. tit: Giletta giacque con lui, ed ebbene due figliuoli, e nov: 63. 67. 72. e nel Maestro Aldobrandino. E ciò prova per isperienza, che egli dice, che chi tagliasse due vene, le quali sono dirieto alli orecchi, che colui, a cui fossero tagliate, ed aperte, non avrebbe podere di giacere con femmina, e nel mio testo a penna d’un’antichissima vita di Sant’Antonio. Tu hai giaciuto, o malvagia femmina col drudo tuo, e non hai temenza d’accostarti al santo Altare; Dalle sole parti genitali adunque nasce il mal’odore delle Vipere, e non da tutto il corpo, ne dal loro alito, ne da gli escrementi de gl’intestini, i quali escrementi si come non anno fetore, così anche non anno odore, del che per esperienza ogni curioso potrà chiarirsi; La onde non so con qual motivo dalla delicata fragranza dello sterco viperino, Lucio Mainero argomentar potesse, che il temperamento delle Vipere sia secco: Ed il dottissimo Pietro Castello nel libro dell’Iena odorifera, quando scrisse, che lo sterco d’alcuni Serpenti hà odore di muschio, se tra questi serpenti ebbe intenzione di noverare anche le Vipere, io credo, che s’ingannasse, ed il simile dico dell’eruditissimo Giovanni Rodio, che nelle osservazioni medicinali afferma di essersi pienamente certificato di quest’odore dello sterco serpentino in un viaggio, ch’ei fece nel monte Baldo, che da lui fu osservato essere abbondantissimo di Vipere.
Se trascorro or qua, ed or la senz’ordine alcuno, ed alla rinfusa, di grazia non aggrottate le ciglia, e non vi scandalezzate, ma rammentatevi, che nel bel principio mi protestai, che scrivere io voleva, ciò che di mano, in mano, alla memoria mi sarebbe venuto; ed or mi sovviene, che Galeno, e molti valent’uomini moderni insegnano, che il mangiar le carni viperine induce ardentissima, ed inestinguibile sete: Questo insegnamento ha patito eccezzione in un virtuoso, e nobilissimo gentiluomo di abito di corpo gracile più tosto, che no, e sul primo fiore di sua gioventù, il quale in questa presente state ha durato quattro settimane continue a bere ogni mattina per colezione una dramma di polvere viperina, stemperata in brodo fatto con una mezza Vipera di quelle prese nelle collinette Napoletane: a desinare poi mangiava una buona minestra fatta di pane inzuppato in brodo viperino, salpimentata (permettetemi questa voce) con polvere viperina, e regalata col cuore, col fegato, e con le carni sminuzzate di quella Vipera, che avea fatto il brodo: bevea il vino in cui affogate erano le Vipere: a merenda pigliava una emulsione apparecchiata con decozzione, e con carni viperine; e la sera la di lui cena era una minestra simile a quella della mattina; e pure egli mi ha sempre confessato, che non solo non ha mai in questo tempo auta sete, ma ne meno aderenza al bere, e non bevea se non quanto gli parea necessario per viver sano. Un vecchio ancora settuagenario non ebbe mai sete, e si mangiò in un mese, e mezzo più di novanta Vipere prese di state, ed arrostite, come sogliono i cuochi arrostire l’anguille, ed il simile intervenne ad una donna di venticinqu’anni, ed io nel far cuocere arrosto per mia curiosità alcune Vipere, non ho mai sentita quella soavissima fragranza, che da uomini degni di fede, fu detto al Severino che spiravano certe Vipere arrostite, a segno tale, che correr fecero tutto il vicinato in traccia dell’insolito delicatissimo odore: Se poi il mangiar queste carni produca ne’ giovanili corpi delle femmine (come vogliono molti autori) quella conveniente proporzione delle parti, e de colori, che chiamasi bellezza, e se alla senile etade il perduto bello restituisca, io non ne sono ancora venuto in chiaro: m’immagino però, quanto alla proporzione, ed alla leggiadria delle parti, che la Vipera non sia da meno della lepre, di cui Marziale scherzando favoleggiò
Si quando, leporem mittis mihi, Gellia, dicis
Formosus septem, Marce, diebus eris:
Si non derides, si verum, lux mea, narras
Edisti nunquam, Gellia, tu leporem.
In queste mie naturali osservazioni ho consumato gran quantità di Vipere facendone alla giornata uno strazio grandissimo, e per cavar, come si dice, il sottil del sottile, ho sempre messe da banda, e conservate tutte le loro carni, e l’ossa, che seccate in forno, e poscia al fuoco vivo con lungo, e faticosissimo lavorio abbruciate, e ridotte in cenere, con acqua di fonte n’ho cavato il Sale, e purificatolo, e ridottolo quas’in cristalli, ho voluto far’ esperienza di sua virtù, ed hò rinvenuto, ch’egli è per l’appunto, come son tutti quanti gli altri Sali, estratti dalle ceneri di tutti gli animali, e di tutte le piante, che indifferentemente dati al peso di due dramme, e mezza in circa evacuano il corpo, come se bevuto si fosse una di quelle consuete, ed ordinarie medicine, che Lenienti da’ Medici son dette. Questi Sali delle ceneri nel purgare anno tutti tra di loro ugual possanza, come s’è veduto centinaia di volte, tanto quel di Rabarbaro, di Sena, di Turbitti, d’Agarico, di Sciarappa, di Mecioacan, e degli altri simili; quanto quel di Piantaggine, di Cipresso, di Lentisco, di Sughero, di Scorza di Melagrane, di Scopa, di Sorbe, e di Corgniole; ne altra differenza ho mai saputo scorgervi, che quella delle figure, la quale però (per quanto con ogni curiosa diligenza ho potuto osservare) non rende ne più viva, ne più infingarda la loro facultà solutiva: quindi è che non senza ragione mi fò beffe di quegli Autori Chimici, che anno avuto gli occhi così lincei da poter ritrovare tante, e diverse, e tra di loro contrarie virtù, più in un Sale, che in un’altro; e mi rido della poca esperienza di quel tanto accreditato Basilio Valentino, il quale nella sua Aliografia, oltr’un’infinità di vane immaginazioni, scrisse, che sei soli grani di Sale di Rabarbaro, o di Sena, o di Esula son bastanti à far’una buona, ed aggiustata evacuazione. Ma di questa materia a bastanza ho favellato in quel Discorso, che l’anno passato abbozzai della natura de Sali, e delle loro figure.
Avendo letto nella Storia degli animali di Aristotile, che alle più delle bestie velenifere è nocevole la saliva umana, vennemi capriccio di far prova, se ciò fosse vero, e particolarmente nelle Vipere, e tanto più, che Nicandro dettolo avea, e trovasi confermato da Galeno in più luoghi, da Plinio, da Paolo Egineta, da Serapione, da Avicenna, e da Lucrezio, che filosofando cantò
Est itaque, vt serpens hominis quæ tacta salivis
Disperit, ac sese mandendo conficit ipsa.
E questi Antichi sono stati secondati da molti Moderni, e particolarmente dal Cardinal Ponzetto, da Bertruccio Bolognese, dal Gesnero, dal Zacuto, da Tommaso Campanella, da Marc’Antonio Alaimo, da Lelio Bisciola, e dal dottissimo, e celebratissimo Ulisse Aldrovando, il quale non solo tenne per fermo, che la saliva dell’uomo ammazz’i Serpenti, ma volle anco discorrervi sopra, e darne la ragione, riducendola in fine, a quel vano, e chimerico nome della tanto decantata antipatia; Ma Pier Giovanni Fabro, e Marc’Aurelio Severino poco prezzandola, addussero per efficacissima cagione il Sale Armoniaco, del quale pienissima dissero ogni sorte di saliva, ma sopra tutte l’umana. Io rinchiusi dunque sei Vipere scelte in una grande scatola, e per quindici mattine alla fila ad una ad una spalancando la gola, proccurai, che alcuni uomini digiuni gliela empissero di sputo, e serrando loro la bocca, le costrinsi per forza ad inghiottirlo, e tutte sono vissute, e vivono ancora, ne da malattia sono mai state sopraprese, anzi per la dolcezza del nuovo, ed inusitato alimento, mi rassembrano molto più belle, e guizzanti del solito: e perche l’Aldrovando scrive ancora, che i Ciarlatani tosto, che anno presi i Serpenti, gli aspergono di sciliva, per la virtù della quale s’avviliscono, e perdono la malizia del veleno, volli anco di questo far la prova, e restai certo, che non si accosta, ne poco, ne punto al vero, posciachè si morirono tutti gli animali, che mordere io feci dalle Vipere in quella guisa preparate, e le Vipere per lo bagnamento della saliva non infralirono mica, ma disdegnose, ed altiere più sovente vibravano l’acuta, e bipartita folgore della lingua.
Non mi apporta però maraviglia, che a tanti Scrittori questa verità sia stata incognita, perche andando dietro alle voci del volgo, non ne fecero forse esperienza, e tanto più, che lo stuzzicare le bocche delle Vipere non è il più bel trastullo del mondo, e chi ne restasse morso, farebbe il bel suo danno, e si potrebbe a lui dire coll’Ecclesiastico. Quis miserebitur incantatori à serpente percusso, ed omnibus, qui appropiant bestÿs? Stupiscomi bene di Galeno, il quale nel decimo libro delle potenze de i medicamenti semplici, dopo aver detto, che lo sputo dell’uomo digiuno ammazza gli Scorpioni, soggiugne d’averlo veduto con gli occhi suoi proprij, e d’averne fatta più, e più volte esperienza pienissima. Se gli uomini, e se gli Scorpioni, che nascevano a quei tempi in Roma, ed in Pergamo erano fatti, come gli uomini, e come gli Scorpioni della Toscana, mi sia lecito chieder perdono a Galeno (uomo per altro, che nella medicina dopo Ippocrate, non ha avuto uguale) se non voglio credere, che egli ne prendesse esperienza, e se pure la tentò, forse fu una sola volta, nella quale per caso fortuito, e non per cagione della saliva si morì lo Scorpione, perche molte volte ho durato sei giorni continui a fare ogni mattina sputare addosso ad alcuni Scorpioni da uomini digiuni, ed assetati, e gli Scorpioni non son mai morti; Muoiono bene infallibilmente in capo ad un terzo d’ora, se a ciascheduno di quelli si metta sopra la groppa tre o quattro gocciole d’olio di uliva; per lo che, se mi maravigliai di Galeno, molto più maravigliomi d’Alberto Magno, che nel libro de gli animali racconta d’aver immerso in un fiasco d’olio uno Scorpione, il quale visse lo spazio di ventun giorno movendosi, ed aggirandosi nel fondo di quell’olio. In un simil vaso poco men, che pieno d’olio io rinchiusi una Vipera, che vi galleggiò viva sessant’ore, ma vinta alla fine dalla stanchezza, si abbandonò a poco, a poco morta nel fondo del vaso, ed avanti, che morisse sforzavasi con tutta la natural possibilità di tenere per lo meno l’estrema parte del muso fuor di quel liquore, e se tal volta le riusciva cavarne fuora il capo, spalancava quanto più poteva la bocca, per ripigliar quell’aria, che sott’all’olio era a lei stata negata. Più violento dell’olio di uliva fu ad un’altra Vipera, il terribilissimo olio del Tabacco; imperciocchè avendola il valente Notomista Tilmanno ferita in pelle in pelle, su l’arco della schiena con un’ago infilato d’una agugliata di refe inzuppata di quell’olio, e trapassato il refe per la ferita, in meno d’un mezzo ottavo d’ora, dopo alcuni strani avvolgimenti, cascò morta, convulsa, ed intirizzata, come se stata fosse di bronzo, ed un momento dopo ritornò floscia, e pieghevole, come se due giorni avanti fosse stata ammazzata. Morte somigliantissima in tutto, e per tutto fece un’altra Vipera, a cui furono messe giù per la gola quattro, o cinque gocce del suddetto olio di Tabacco; ma se morì quest’ultima Vipera, non morirono alcune Anguille, a cui fatto il medesimo giuoco, furono in quell’istante gettate nell’acqua; e pure poco prima erano morte, ancorche gettate subito nell’acqua, molte altre Anguille ferite su la groppa con quell’istesso ago, che nella cruna avea il filo intinto nell’olio del Tabacco, e fu osservato, che queste Anguille morendo diventarono di un certo color biancheggiante, ancorche vive tendessero al nericcio.
Lascio le Anguille, e ritorno alle Vipere, ed a gli altri Serpenti, intorno a quali favole infinite, e degne di riso state sono scritte da gli Autori, e fra gli altri Plinio seguitato con ammirabile simplicità dal Mercuriale, dal Mattiolo, e da Castor Durante, dice per esperienza, che i Serpi anno pubblica, e privata inimicizia col frassino, e con l’ombra di quello, a tal segno, che fatto un cerchio di frassino, e messavi dentro una Serpe, ed un monticello di brace accesa, quella Fiera si getta più volentieri nel fuoco, che tra le frondi dell’odiato albero. L’istesso Plinio, e Castor Durante copiando da Plinio, insieme con lo Scaligero raccontano, che se nel mezzo d’un cerchio fatto di foglie di bettonica si metterà un Serpente, vedrassi rabbiosamente imperversare, e con la coda flagellandosi ammazzarsi. Crede Andrea Lacuna, che se una Vipera toccata sia con un ramo di faggio rimanga attonita, ed immobile, come se udito avesse gli orrendi, ma, per mio credere, inutili, e bugiardi Susurri de’ Marsi incantatori. Costantino nell’Agricoltura afferma, che muoiono quelle Serpi, su le quali vengon gettate le foglie della quercia; ed Aezio e l’Autore de’ medicamenti semplici a Paterniano in compagnia di molti Moderni dicono, che la Conizza con l’acutezza del suo odore mette in fuga le Vipere, e gli altri Serpenti; e pure io trovo per esperienza molte volte fatta, che le foglie del Frassino, della Bettonica, del Faggio, della Quercia, della Conizza, del Dittamo, del Calamento, e dell’altre odorose, e fetide Erbe menzionate da Nicandro, non solo non sono schivate dalle Vipere, ma tra quelle frondi, e secche, e fresche tutti i Serpenti volontariamente si ricoverano, e volentierissimo vi soggiornano.
Ma già che siamo tra le favole, non voglio tralasciar di ridurvi in mente quella de gli amori della Vipera con la Murena, e le finezze affettuose, ed i teneri vezzi di quell’innamorato Serpentello con la notante sua Druda, allora quando a’ più fervidi raggi del Sole fattosi bello, e tutto postos’in gala, se ne passeggia su la riva del Mare, e con sibili amorosi la invita a lasciarsi vagheggiare, e mentr’ella dall’onde il capo solleva, ed al lido s’avvicina, egli con avvenente discretezza vomita sopra un sasso, e vi lascia in deposito tutto quel che di velenoso in bocca racchiude, per non amareggiare con quello i tanto desiati sponsali, che in fine consumati, e ritornatosene la dove del veleno sgravato si era, se per mala ventura non ve lo ritrova, s’accuora di subito così duramente, che disperato in brevissim’ora si muore. Udite come un Greco Versificatore detto Manuel File in certi suoi versi regolati a suo capriccio, e da lui dedicati a Michele Imperadore di Costantinopoli col titolo, Delle proprietà de gli Animali, tutto ciò descrive, ed in maniera così franca, e sicura, che sembra, che quasi quasi egli ci dica il vero.
Ε῎χις δὲ καὶ μύραινα συνδιαζέτην.
Ο῾ μεν` προς` ἀυτην` τῆς ὀπῆς ἐξερπύσας,
Η δὲ προς` ἀυτον` ἐκ ῤοῆς ἀνηγμένη.
Καὶ πριν` δὲ, βασιλεῦ συνδραμεῖν εἰς τον` γάμον,
Εμεῖ τον` ἰον` ὡς γλυκυς` ὁ νύμφιος,
Καὶ τοῦ συριγμοῦ ταῖς ιὔγξιν ἀυτίκα
Παρακαλεῖ προσ` γε λέκτρα την` ἐρωμένην.
Καὶ τοῦ παρ᾽ ἀμφοῖν συντελεσθέντος γάμου,
Ο μεν τον` ἰον αὖθις ἀνιμήσατο,
Η δέ κατὰ τῆς γῆς θᾶττον ἑρπύσας ἒδυ,
Η δέ προσ` ὑγρασ` ἀπενήξατο τρίβους.
Ma più diffusamente, e con maggior galanteria di costui, Oppiano in que’ libri, che della pescagione scrisse all’Imperadore Antonino Caracalla, ancorchè non paia, che si ristringa alla sola Vipera, ma parli generalmente de’ Serpenti.
Αμφὶ δὲ μυραίνης φάτις ἒρχεται ὀυκ ἄϊδηλος,
Ω῞ς μιν ὄφις γαμέει τέ, καὶ ἐξ ἁλος` ἒρχεται ἀυτὴ
Προφρων`, ἱμείρουσα παρ᾽ ἱμείροντι γάμοιο.
Ἤτοι ὁ μὲν φλογέη τεθοωμένος ἕνδοθι λύσσῃ
Μαίνεται εἰς φιλότητα, καὶ ἕγγυθι σύρεται ἀκτῆς
Πικρὸς ὄφις. τάχα δὲ γλαφυρὴν ἐσκέψατο πέτρην.
Τῆ δ´ἕνι λοίγιον ἰὸν ἀπήμεσε, πάντα δ´ὀδόντων
Ἔπτυσε πευκεδανὸν, ζαμενῆ χόλον, ὄλβον ὀλέθρου
Ὄφρα γάμῳ πρηΰς τε καὶ εὔδεος ἀντήσειε.
Στὰς δ´ἄρ ἐπὶ ῥηγμῖνος ἑὸν νόμον ἐῤῥοίζησε
Κικλήσκων φιλότητα. θοῶς δ' ἐσάκουσε κελαινὴ
Ἰϋγὴν μύραινα, καὶ ἕσσυτο θᾶσσον ὀίστοῦ.
Ἡ μὲν ἄῤ ἐκ πόντοιο τιταίνεται, αὐτὰρ ὁ πόντου
Ἐκ γαίης πολιοῖσιν ἐπεμβαίνει ῥοθίοισιν.
Ἄμφω δ´ἀλλήλοισιν ὁμιλῆσαι μεμαῶτε
Συμπεσέτην. ἕχιος δὲ κάρη κατέδεκτο χανοῦσα
Νύμφη φυσιόωσα. γάμω δ'ἐπιγηθήσαντες,
Ἠ μὲν ἁλὸς πάλιν εἶσι μετ' ἤθεα, τὸν δ'ἐπὶ χέρσον
Ὁλκὸς ἄγει, κρυερὸν δὲ πάλιν μεταχεύεται ἰὸν
Λάπτων ὃν πάρος ἧκη καὶ ἑξήφυσσεν ὀδόντων.
Η᾽ν` δ᾽ἄρα μή τι κίχη κεῖνον χόλον ὅνπερ ὁδίτης
Ατρεκέως ἐσιδὼν μιν, ἀπέκλυσεν ὔδατι λάβρω.
Αὐταρ` ὅγ᾽ἀσχαλόων ῤίπτει δέμας, εἰσόκε μοῖραν
Λευγαλέοιο λάβησιν ἀνώιστου θανάτοιο,
Αιδόμενος ὅτ᾽ἄναλκις ὄπλων γένεθ᾽, οἷς ἐπεπόιθει
Ε῎μμεν᾽ὄφις. πέτρη δὲ συνώλεσε καὶ δέμας ἰῶ.
Passo a bello studio sotto silenzio l’altre favole intorno al Coito, ed al Parto delle Vipere, come quelle che dottamente son già state confutate da molti Autori, ed in particolare da Marc’Aurelio Severino, e prima di lui da Francesco Fernandez di Cordova nel capitolo duodecimo della sua Didascalia: Ma non voglio tacervi quella contata dal Porta, che il suono delle corde, fatte di budella di queste bestiuole, sia cagione, che le donne gravide si sconcino, e la Creatura disperdano; e quest’altra narrata da Aristotile, che alle Bisce se sia troncata la coda, rigermoglia di nuovo, e rinasce, e che ripullulano ancora gli occhi, se sieno a loro cavati; e Rasis, che tra gli Arabi fu pur Medico di alto, e nobil grido racconta, che alla sola vista d’un buono smeraldo gli occhi alle Vipere subito si liquefanno, e schizzano fuor della fronte.
Dio buono! e vi sono scrittori solenni quasi in ogni professione, che vogliono a tutti i patti, che queste ciance sien vere, avendole dette la reverenda autorità de gli Antichi, e quella fede vi danno, che dar si può a qualunque verità più manifesta, e crederebbono tutto ciò, che della contrada di Bengodi, e della Pietra Elitropia favoleggiava un giorno Maso del Saggio col semplice, e credulo Calandrino; e se lo trovassero stampato avrebbon per vero, che i Campanili, quasi novelli Dedali de’ nostri tempi, spiegar potessero per l’aria il volo. Ma il mondo è stato sempre ad un modo, e fin ne’ tempi di Pittagora si trovava si fatta maniera d’uomini semplici, poveri di spirito, e di tutta credulità impastati, l’anime de quali, come sul fine del Timeo scrive Platone, dopo la morte de’ corpi trasferivansi ad albergare ne gli Uccelli, per lo che non è maraviglia, se cotali uomini anch’oggi comunemente in Toscana per ischerzo sien chiamati Uccellacci.
Non ragioniam di lor, ma guarda, e passa,
e volentieri desisto favellarne, perchè so molto bene quanto sieno a voi in ira, o Signor Lorenzo, e per lo contrario ognun sa, quanto voi saggiamente siete cauto, ed avveduto in non credere alla bella prima tutto ciò, che ne’ libri de’ Filosofi si trova scritto, se dove non s’arriva con le geometriche dimostrazioni, forza di possenti argumenti, o replicate esperienze maturamente non ve lo persuadono; ond’io spero, che l’Istoria, la quale v’è stato imposto di compilare di quelle naturali esperienze, che da tanti, e tanti anni in qua fannosi con nobile, e glorioso passatempo nella Filosofica Accademia della Corte di Toscana, sia per ricevere ogni applauso da tutti coloro, che da dovero sono della verità amatori. E questo sia il termine di così lunga, e tediosa lettera, non volendo per somiglianti bagattelle portarvi più noia, ne farvi perder più tempo.
Che ’l perder tempo, a chi più sa più spiace.
- Testi in cui è citato Alessandro Magno
- Testi in cui è citato Aristotele
- Testi in cui è citato Lorenzo Magalotti
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