Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani/Capitolo IX

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Capitolo IX

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Capitolo VIII
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IX.

Della Decadenza della Lingua, e dell' Elo-
quenza dei Romani nei due primi Secoli
dopo la nascita di Cristo.


La lingua è non meno che la Religione, le Leggi, e il Governo una prova sincera dell’originaria disposizione, della maggiore, o minor cultura, e de’ buoni, o cattivi costumi d’un popolo. Le nazioni generose, illuminate, e incorrotte hanno senza dubbio altre, e migliori lingue di quelle che sono vili, rozze, e viziate; ed è ugualmente certo che la lingua di un’istesso popolo soffre favorevoli, o svantaggiosi cambiamenti a misura che il medesimo divien culto, o ignorante, puro o impuro di costumi. Le lingue dei Greci, e dei Romani furono in un modo eguale, e parimente degno di osservazione formate, e quindi corrotte da simili cause; ed il paragone che se ne fa con altre lingue dimostra che la coltura, i buoni costumi, la libertà, e la prosperità, e viceversa la barbarie, i vizj, la schiavitù, la [p. 120 modifica]decadenza delle Scienze, e dell’Arti, e la pubblica miseria hanno prodotto fra tutti gli altri popoli somiglianti effetti. La lingua Greca, e la lingua Romana non ottennero una certa eleganza fino a tanto che i popoli che le parlavano non si furono resi alquanto colti, ed illuminati; ed il successivo progresso delle medesime andò d’ugual passo con quello dei lumi, e delle cognizioni. Le dette due lingue giunsero finalmente all’apice della perfezione allorquando tutte le utili, o belle Arti, e Scienze trovavansi già sotto i Greci, e i Romani nel loro maggior splendore o venivano da essi sommamente stimate, e protette; ma questo sublime, e florido stato dell’Arti, delle Scienze, e della Lingua decadde in Grecia come in Roma all’epoca in cui i costumi, e le virtù degli antichi disparvero colla semplicità, e povertà dei medesimi; in cui l’illimitata ambizione o vanagloria, la brama d’un ingiusto potere, e la rapace avarizia soffocarono il vero amor della Patria, il rispetto alle leggi, e l’antica frugalità; in cui ad un tempo quelle ardenti passioni tesero al maggior segno tutti i nervi dello spirito, e del corpo di qualunque individuo, ed eccitarono segnatamente i superbi, gli ambiziosi, e gli avari capi dei suddetti due popoli, ad abbellire, e corredar la lor mente di tutte quelle cognizioni, ed abilità colle quali potevano essi [p. 121 modifica]comandarsi alla volgar moltitudine datrice delle più brillanti ricompense, vincere i proprj Emuli, e competitori, e come Oratori, o Comandanti, o Giureconsulti acquistar gloria, dignità, autorità, e ricchezze. Quando adunque fra i Greci e i Romani non solo si estinsero le antiche virtù, ma allentaronsi altresì le potenti molle, che senza dubbio prodotte avevano e leggi e costituzione, non che risvegliate e animate numerose schiere di uomini straordinarj; e tostochè per conseguenza l’innatural voluttà, la crapula, e la mollezza sostituite furono all’irrequieta ambizione, vanagloria, e brama di comandare, e che unitamente al corrotto cuore s’indebolirono ancora lo spirito, e il corpo dei Greci, e de’ Romani, allora le Arti, le Scienze, e la favella di ambidue quei popoli andarono immediatamente a perire colle loro virtù, e colle loro forze, nella guisa appunto che con queste si erano le medesime per l’avanti innalzate alla maggiore sublimità; e sì l’una che l’altra delle mentovate lingue divennero così voluttuose, e molli, conforme già lo erano le infingarde, e schiave genti dalle quali venivano parlate, e scritte. I contrassegni, e i gradi della decadenza della Greca, e Romana favella possono, o piuttosto dovrebbero essere considerati da tutte le Nazioni come altrettanti sicuri, e matematici istruttori [p. 122 modifica]dello stato della loro cultura, e dei lor costumi; e per questo motivo specialmente sono essi meritevoli di un più accurato, e distinto esame.

La lingua de’ Romani venne certamente formata col mezzo di qualsivoglia pericolosa guerra, ed importante conquista da loro intrapresa, e fatta, poichè ogni guerra esercitava, ed accresceva le loro forze, ed ogni vittoria gli istruiva di nuovi fenomeni, e di nuove opere della natura, di nuovi oggetti d’arti, e di nuove, e d’utili cognizioni. Ma quest’influenza che le guerre d’Italia, e le prime al di fuori di quella regione ebbero sulla lingua dei Romani era così piccola, e ci resta per la quasi total mancanza di monumenti di quei lontani tempi talmente oscura, che noti potressimo precisamente additarla, e calcolarla con esattezza. Tuttavolta è indubitato che i Romani avanti la seconda guerra Punica, in cui essi possedevano già una gran parte dell’Italia, e della Spagna oltre alla Sicilia, ed alla Sardegna non avevano ancora prodotto un solo Istorico, e Poeta nazionale di qualche considerazione, imperocchè Livio  1 il quale nell’anno 514. della fondazione di Roma diede loro singolarmente le prime sceniche composizioni, era nato in Grecia. Dopo la fine della seconda guerra Punica, e segnatamente dopo le luminose vittorie, che i Romani nell’ultima metà del sesto [p. 123 modifica]secolo della fondazione della loro Metropoli riportarano sopra Filippo Re di Macedonia; sopra Antioco Re di Siria, sopra gli Etoli, e i Galati, e finalmente sopra Perseo  2 ne nacquero senza dubbio molti Poeti, ed Istorici; ma fra tanti Poeti, ed Istorici non ve ne fu alcuno, eccettuato il solo Terenzio, che nell’età di Cicerone negletto non fosse, o disprezzato a cagione della sua rozza, e antiquata lingua1. Nulladimeno al terminar del sesto, e sul principio del settimo secolo dell’Era Romana sorse quell’epoca fortunata in cui la Romana favella acquistò il primo grado di una notabile perfezione. Essa l’ottenne al certo nella città capitale ove concorrevano i più spiritosi, i più ricchi, e meglio educati cittadini, ma l’ottenne soltanto nelle case delle più nobili famiglie, e non già per opera de’ Poeti, degli Istorici, e di altri celebri Scrittori di quell’età. Nelle più cospicue famiglie di Roma procurarono prima gli uomini, e poscia le donne, e i lor figli di assuefarsi a parlare correttamente, con grazia, ed eleganza la propria lingua; e tanto le frasi, e le parole di cui facevasi uso nelle dette case per denotare i pensieri, e gli oggetti, quanto la maniera colla quale si pronunziava qualunque vocabolo [p. 124 modifica]formarono la più sublime, e graziosa lingua civile, e le diedero quella così detta urbanità, che anche in appresso venne del continuo contrapposta ai dialetti provinciali, ed alla rozza pronunzia delle persone, e delle città di campagna2. Cicerone ripete in più luoghi che la gloria di parlar bene la madre lingua era stata propria dell’età del giovine Scipione, e di Lelio, e che questa stessa gloria devesi particolarmente attribuire alle famiglie dei Lelj, degli Scipioni, dei Gracchi, dei Catuli, dei Cesari, e di altri non escluse le loro [p. 125 modifica]donne, e i lor figli; e non già ai Poeti, ed agli Scrittori di quei tempi3. Fa altrettanto specie che i primi Romani Istorici i quali erano per lo meno mediocri, o un poco più che mediocri scrivessero in Greco nella stessa età di Scipione, e di Lelio4 quanto che la Romana favella incominciasse così tardi ad essere coltivata.

Benchè il vecchio Catone per tutto il corso della sua vita, a riserva degli ultimi anni della sua più avanzata età, inveisse contro tutte le Scienze Greche, supponendole corruttrici dei costumi; benchè fosse da lui imputato pubblicamente a delitto ad un Signor Romano l’aver portato seco in una provincia il Poeta Ennio; e benchè in fine ei cacciasse [p. 126 modifica]così bruscamente d’Italia Cameade  3, e i suoi compagni, conforme fece poco dopo l’Orature Crasso rapporto ai primi Retori Latini, tuttavia colla ricchezza dello Stato, e delle famiglie crebbe il trasporto per la Greca letteratura, ed il successivo progresso dei lumi, e delle cognizioni servì pure ad aumentare del continuo la coltura della Romana lingua. I due Gracchi, e il loro amico e maestro Marco Emilio Lepido furono tra i più cospicui Romani i primi Oratori, e uomini di Stato, i quali col seguire gli insegnamenti de’ Greci Retori, coll’imitare i Greci Oratori, e col dedicarsi allo studio della Greca filosofia procurarono d’inalzarsi al di sopra de’ loro contemporanei5. Gli esempj di tali soggetti infiammarono la gioventù Romana di un incredibile desiderio d’istruirsi6, e produssero in primo luogo Crasso ed Antonio, i quali al dire di Cicerone paragonar si possono francamente ai più grandi Oratori Greci7. Cicerone considerava l’età di questi uomini insigni, che fiorirono poco prima di lui, come quel periodo in cui la Romana eloquenza, e oratoria eransi avvicinate alla loro maturità8. Il più grande tra i Romani [p. 127 modifica]oratori avea ben ragione di sostenere, che la Romana eloquenza fosse giunta al suo tempo alla maggior perfezione9, (imperocchè il linguaggio degli Oratori Romani era allora capace di adottare tutte le bellezze, o gli abbellimenti con cui i Giureconsulti Greci ornate avevano le loro Opere, e poteva al pari della Greca favella esprimere e far nascere qualunque pensiero ed affetto, allorchè si parlava alla presenza del Popolo, del Senato, e dei Giudici) ma nel tempo stesso bisogna confessare, che fu in Cicerone un eccesso del maggior patriottismo il dire, che la lingua Romana della di cui povertà egli medesimo in molti luoghi, ed anche Lucrezio amaramente si dolsero, fosse del pari, ed inclusive più ricca di termini che la Greca10. La cultura della Romana lingua era nell’età di Cicerone molto parziale, e limitata. Questa lingua non mancava certamente dei necessari vocaboli per tutte le sorte di affari [p. 128 modifica]pubblici, e forensi, ma trattandosi di espressioni indicanti filosofici, ed altri scientifici pensieri ed oggetti, ella era prima di Cicerone talmente meschina, che questo gran Linguista dovette, per così dire, crear di nuovo l’idioma delle scienze, e formar nuovi termini per significare le più comuni idee scientifiche11. Inoltre l’età tormede[p. 129 modifica]medesima di Cicerone non produsse un solo famoso Istorico, ed un sol celebre Poeta, da cui veramente si procurasse d’ingentilire ed estendere la Romana favella, giacchè Lucrezio tanto nella tessitura de’ suoi versi, quanto nella scelta delle sue parole era così rozzo, e disarmonico, come lo furono i più antichi Poeti, i quali soprattutto per riguardo alla perfezione della Lingua rimasero molto addietro agli Oratori. Mi sembra una cosa degna d’osservazione, che da Lelio, e da Scipione12 fino a Tacito varj insigni Oratori, Istorici, e Poeti abbiano in tutte le età cercato di segnalarsi con un affettato uso di antiche, o antiquate parole, e costruzioni.

Già negli ultimi anni di Cicerone l’eloquenza politica dei Romani era decaduta in modo che Egli stesso non potè altrimenti descriverla che come vicinissima a divenir muta, o piuttosto resa tale, e quindi riputarla come perduta senza rimedio13. E per dire [p. 130 modifica]il vero essa non andò certamente a mancare perchè non potesse salir più oltre, o almeno conservarsi nello stato in cui trovavasi allora, ma perchè le cause dalle quali era stata prodotta, e perfezionata o si estinsero del tutto, ovvero tralasciaron di agire. Infatti nelle guerre civili, e molto più dopo le vittorie di Cesare l’eloquenza non produceva più, come per l’avanti, a’ suoi adoratori dignità, potere, e ricchezza, giacchè questi sommi beni dei corrotti Romani ottener potevansi unicamente col far uso di cabale, di sommissioni, o di zelo servile verso di quello, o di quei Potenti, che soggiogata avevano la Republica, e finalmente per scienza, e valor militare. Lo stesso popolo Romano, il quale doveva la sua sola, e principal coltura agli Oratori, ed ai Poeti Drammatici, e che coll’udire del continuo i maggiori esemplari dell’eloquenza, e della poesia acquistato aveva un’orecchio così delicato che la più [p. 131 modifica]piccola dissonanza egualmente che la felice armonìa di un periodo l’offendeva, o lo dilettava a segno da palesarne fin colle grida il suo disgusto, o la sua approvazione14, lo stesso popolo Romano ancora fu talmente corrotto dalla sempre crescente mescolanza dei Forestieri ammessi da Cesare medesimo in Senato, che eziandio i più miserabili ciarloni cantar potevano sul di lui applauso15. Questa medesima enorme affluenza di stranieri a Roma deturpò la lingua del Lazio con tanti vocaboli non Romani che Cicerone credè necessario d’avvertire il pubblico della nascente barbarie, e di condannare qual cattivo giudice il corrotto uso del discorso16. A [p. 132 modifica]malgrado però di questi suoi avvertimenti, e precetti, Cicerone stesso, ed altri Scrittori, che come conoscitori della propria lingua godevano con lui d’ugual fama fecero uso di termini non latini; dal che si rileva che in una preponderante corruttela della lingua del pari che in una generale, ed eccessiva scostumatezza è ugualmente difficile di preservarsi da ogni infezione.

Sotto il governo di Augusto fiorirono alcuni dei più insigni Storici, e cantarono i maggiori Poeti dei Romani; ma trattandosi di quest’ultimi non possono i medesimi esser paragonati ai migliori Poeti della Grecia, e degli illuminati moderni popoli se non se per rispetto alla bellezza della lor [p. 133 modifica]lingua, ed all’armonia, e melodia dei loro versi, e non già in riguardo della sublimità, e novità dei pensieri, e dell’originali, e robuste espressioni di sentimenti, e d’affetti. All’opposto l’eloquenza, l’oratoria, ed anche la lingua famigliare non solo furono trascurate, e neglette, ma vennero eziandio a bella posta avvilite, e atterrate da molti di coloro, che tanto nella propria quanto nelle susseguenti età ebbero il vanto d’essere venerati, e imitati come insigni oratori.

Quand’anche la eccessiva, ed universal corruttela de’ costumi17 prodotto non avesse una tale pigrizia nella Gioventù, una tale ignoranza ne’ maestri, ed una tale trascuraggine nei Genitori come realmente essa fece, tuttavia la sublime eloquenza del popolo, la quale nei tempi della libertà era stata la Regina di tutte le Arti, e le Scienze, avrebbe dovuto infallibilmente andar a perire a motivo della mutazion del Governo. Infatti sotto gli Imperatori18 cessarono immantinente le continue adunanze, e le deliberazioni del popolo sovrano del mondo sopra la guerra, e la pace, sopra la promulgazione o il rifiuto, e l’abolizione di varie leggi, sulla scelta de’ membri dei magistrati, e sul [p. 134 modifica]destino dei Re, e delle Nazioni; e perciò colla maestà, e col sapremo potere del popolo disparvero ancora le eterne dispute dei Plebei, e dei Grandi, quelle di quest’ultimi tra di loro, e l’emulazione dì tutti i Giovani, ed attempati pieni di speranza, e d’orgoglio di superarsi l’un l’altro. L’eloquenza non rimase più allora l’arbitra delle adunanze popolari, la maestra dei Giudici, e la guida del Senato, e del Popolo. Da lei non ottennero più i suoi adoratori, come nei tempi della libertà, onore, fama, luminosi impieghi, potere, e ricchezze, ma pericoli e morte ogni qual volta i medesimi non cercarono di renderla schiava del Despotismo, e nemica dell’innocenza, e della virtù. Essa finì inoltre di essere il più sicuro scudo contro i nemici, e le accuse, e l’arma più forte onde affrontare, ed abbattere i contradittori, e non fu quindi più necessaria per conservarsi le relazioni delle grandi famiglie, e far acquisto di nuovi Clienti, sebbene a dire il vero nei tempi della Repubblica si fosse piuttosto sofferta la morte che l’infamia di perdere per pigrizia le Clientele ereditate dai proprj antenati, e di ricorrere all’eloquenza, ed alla protezione di altre19. Se sotto gli Imperatori si parlava, non parlavasi però rapporto al danno, e all’utilità della [p. 135 modifica]guerra, e della pace, o di alcune leggi, e alleanze, non sui meriti, e demeriti di illustri cittadini, e famiglie, ma solamente circa ai trascorsi, o contrasti di alcuni semplici, ed insignificanti individui; dal che ne venne che colla grandezza, e colla ricchezza della materia decaddero per conseguenza ancora lo spirito, e gli sforzi degli Oratori.

Le stesse cause appunto, che produssero il despotismo, e la rovina dell’eloquenza corruppero in guisa tale anche i più insigni oratori, e scrittori dell’età d’Augusto che questi trattarono i medesimi oggetti, ed espressero i medesimi pensieri, ed affetti in un modo del tutto diverso da quello che praticato avevano gli oratori, e gli scrittori dei tempi della Libertà. Coloro, che prima degli altri deturparono l’eloquenza, e la lingua dei Romani furono Cassio Severo, Gallione, e Mecenate20. Tutti tre compartirono ai lord discorsi, ed ai loro scritti la stessa voluttà, mollezza, ed artificiosa negligenza, che dominavano nei loro costumi, ed in quelli degli altri primarj Romani.

Nulla havvi di più vero, scrive Seneca21, del Greco proverbio; che la lingua de gli uomini è come la loro vita. Quando la morale di un [p. 136 modifica]popolo si rilassa, allora la rilassatezza del discorso diviene una prova di quella de’ costumi. La mente, ed il cuore non possono mai essere d’un intonazione o colore del tutto dissimile. Quando il cuore è sano, e perfetto, lo debb’essere ancora il capo. Ma se il primo rimane sopraffatto dalla corruttela, allora questa invade anche l’altro. Uno spirito abbattuto, o fervido, ed elevato si manifesta con un lento, o veloce, ed alato passo, e movimento del corpo. Quanto più dunque le varietà dello spirito corrisponder non deggiono a quelle del cuore, mentre l’uno, e l’altro sono tra loro più strettamente d’accordo di quello che essi lo siano col corpo? — È noto come visse Mecenate, e perciò non deve recar meraviglia se il suo stile fu così libero, e vago come la sua vita, e se le sue parole, e le sue frasi spiravano quella medesima affettazione, e soverchia licenza, che già vedevansi ne’ suoi abiti, ed ornamenti, nel suo modo di camminare, nella sua casa; nelle persone del suo seguito, e nella stessa sua moglie — . Seneca, per convalidare il suo giudizio sopra costui riporta varj passi delle sue opere, i quali fanno pienamente conoscere che tanto Egli quanto Gallione, e Cassio Severo procurarono di distinguersi dai più antichi oratori e scrittori con nuove, ed ardite parole, ed immagini, con inaudite, ed [p. 137 modifica]iperboliche similitudini, con inusitate trasposizioni di parole, con un’artificiosa brevità d’espressione, e robustezza di pensieri, e in fine con una del pari ricercata rilassatezza, c dolcezza di termini, e di costruzioni22. Con ragione si è quindi asserito che lo stile di Mecenate, e di Gallione null’altro era molte volte che un dolce stucchevole tintinnio di parole — ovvero che il loro discorso abbondava di soverchj ricci, ed abbellimenti, e che questi, ed altri difetti non provenivano già da ignoranza, ma erano bensì a bella posta, e con diligenza inseriti dai suddetti due Autori nei proprj scritti, e discorsi23. [p. 138 modifica]

Benchè niuno abbia forse meglio di Seneca conosciuto, e biasimato i difetti tutti dello stile di Mecenate, e le loro cause, ciò non ostante questi stessi difetti non furono mai da alcun Autore così bene imitati e diffusi come dal celebre maestro di Nerone. Questo fenomeno è tanto più meritevole d’osservazione, in quanto che Seneca non solo non si assomigliava nè a Mecenate nè ai suoi proprj contemporanei per rispetto alla voluttà, alla crapula, ed alla mollezza, ma era più continente, più sobrio, e più austero del più rigoroso Stoico. Seneca trasportava quindi nelle sue opere non i proprj difetti, ma quelli de’ suoi contemporanei, e parlava, e scriveva come i più scostumati Romani perchè piacer voleva alle corrotte persone dell’età sua. Una vanità quasi incomprensibile coi di lui meriti, e talenti, ed un’avarizia non meno inesplicabile pel suo modo rigoroso di vivere erano le sole debolezze mediante le quali Seneca trovavasi consimile alle persone del suo tempo; e la prima di tali debolezze fu quella particolarmente, che contro la sua miglior opinione lo sedusse ad agguagliarsi a coloro cui Egli stesso accusati aveva come corruttori dei costumi, e della lingua. Quintiliano si espresse molto bene nel suo eccellente giudizio sopra Seneca24, dicendo, che gli scritti di [p. 139 modifica]quest’uomo sono pieni di quei dolci errori dai quali può essere facilmente corrotto un buono stile. Voci, e trasposizioni di parole inusitate, e ripugnanti allo spirito della Romana lingua, un dialetto oltremodo figurato, ed imaginoso, esagerate, e gigantesche metafore, e similitudini, intempestive declamazioni e descrizioni, freddi giuochi di parole, ed artificiose antitesi, mancanza d’ogni ordine, e di giusta conseguenza di pensieri, vergognosa incostanza d’opinioni; e di giudizj ed una all’estremo incommoda, e non periodica concisione di stile dominano in tutte le opere di Seneca. Questi difetti che già da se soli eccitato avrebbero il gusto dei corrotti Romani divennero tanto più lusinghieri, e pericolosi in quanto che essi molte volte trovavansi uniti colle più felici parole, ed immagini, coi più sublimi, e nuovi pensieri, e colle più mirabili descrizioni per riguardo specialmente ai costumi delle persone di quel tempo25. [p. 140 modifica]L’esuberante vanità, la piccolezza della mente, e l’incostanza dello spirito di Seneca si rilevano soprattutto [p. 141 modifica]dai frequenti contrapposti di giudizj da lui fatti sopra gli stessi individui, ed oggetti, dalle del pari frequenti contraddizioni di certi principj, ed insegnamenti, che solo gli erano importanti come materia di declamazione e non mai o di rado per lor medesimi, ovvero per istruire, correggere e tranquillizzare le altrui coscienze; dalla studiata esagerazione di stoiche sentenze già esagerate di lor natura; dall’esame di sottili dimande cui Egli stesso biasimava tante volte negli Stoici, ed anche in altri eruditi; e per ultimo dal desiderio, che ovunque ei manifesta di ottenere, cioè, per tutte le sorte di lavori di spirito, non l’applauso degli uomini saggi, e dabbene, ma quello delle persone più immeritevoli da lui disprezzate, e abborrite. Un certo carattere d’inverosimiglianza, o di superficialità, e di affettato entusiasmo, che in breve a ravvisar s’incomincia nell’Opere di Seneca indebolisce la loro impressione anche in quei passi medesimi ne’ quali esso era forse penetrato della sublimità di certi precetti, e dell’alto pregio della virtù. [p. 142 modifica]

Gli sforzi, che Seneca fece per adulare il gusto corrotto de’ suoi contemporanei, ed incontrare in tal modo il lor genio, ebbero un’esito pur troppo felice. Quando Quintiliano incominciò ad insegnare26 gli Scritti di Seneca si trovavano, e presso che soli, nelle mani di tutti; a segno tale che il medesimo Quintiliano mosse non poco a sdegno i numerosi ammiratori di quest’uomo, tosto che ei volle raccomandare, ed encomiare quai modelli, e maestri, i più antichi oratori, e scrittori, ed all’opposto biasimare tutti i difetti, che in Seneca meritano con ragione di esser ripresi. Non si lodava in Seneca il molto di buono che Egli realmente possiede, ma stimavansi, ed imitavansi particolarmente i suoi errori. I precetti e l’esempio di Quintiliano a corregger non valsero i costumi dei Romani, e perciò fu loro similmente impossibile di raffrenare la quindi nascente degenerazione della lingua. Gli antichi Scrittori non solo erano negletti e obbliati, ma venivano eziandio pubblicamente depressi, e scherniti conforme fatto aveva anche Seneca pel motivo che egli non ignorando quanto da loro si discostava accorgevasi bene che non poteva giammai piacere a quelli a cui essi [p. 143 modifica]andavano a genio27. Eravi persino chi accusava Cicerone, e molto più i suoi contemporanei d’una trista, e rabbuffata antichità, di parole arrugginite, di nojosi esordi, di freddi racconti, di scolaresche divisioni, di languide espressioni, ed emozioni d’affetti, di uniformità, o mancanza d’armonia, di un’estrema penuria di ricchi e pomposi ornamenti, e in fine d’essersi tenuti molto lontani da quei pensieri, che a causa della loro novità vengono tosto compresi, e facilmente notati28.

Se Quintiliano, Plinio, e Luciano non si [p. 144 modifica]trovassero uniformi, ed irreprensibili a cagione di questa uniformità nelle loro testimonianze, dovrebbesi quasi credere che quanto i medesimi raccontano per rispetto ai proprj contemporanei fosse una totale invenzione, od una goffa, e ridicola esagerazione. Gli oratori, che ne vennero in seguito riputavano che fosse del tutto inutile d’acquistarsi un’esatta cognizione della lingua, della storia, delle leggi, del Governo, e dell’attuale situazione dello Stato; e perciò passando sopra con differenza, o disprezzo a tutte queste dottrine, correvano in vece nelle scuole dei Retori, i quali erano comunemente altrettanto ignoranti che avari, e adulavano la pigrizia, e la vanità dei Giovani ad oggetto di sempre più conciliarsi la loro benevolenza ed il lor concorso.29. Ivi declamavano essi per qualche tempo senz’avere altri uditori che i loro ignoranti condiscepoli; e per quanto tali oratorj esercizj fossero inconcludenti, e meschini, tuttavia coloro, che li praticavano erano del continuo sicuri del più generale e sonoro applauso per parte dei loro compagni, giacchè questi speravano di ottenerne in simili casi un’egual connivenza30. Quando siffatti Giovani si erano alquanto esercitati nelle scuole dei Retori, allora si inoltravano essi colla [p. 145 modifica]maggior impudenza davanti alle cattedre dei Giudici, senza che alcun Uomo di merito gli avesse prima resi noti, o presentati al Popolo, ed arrischiavansi di ciarlare al fianco de’ principali membri di magistrato31 dopo di essersi presa minor pena di pensar a ciò che dovevan dire di quello che al modo con cui volevano far comparsa, ed all’amabilità, e dolcezza della lor voce. Costoro facevansi quindi ivi vedere arricciati e forbiti colla maggior eleganza, coperti di molli, e preziosi abiti, e adorni de’ più stupendi anelli, ed invece di esprimersi con una voce, e con un gesto virile, e adattato ai pensieri, ed agli affetti cui esporre, o risvegliar volevano, cantavano, e gestivano piuttosto come altrettanti comici, e castrati32. [p. 146 modifica]Comecchè gli oratori aspiravano più al vanto di cantare con grazia, ed all’uso teatrale, di quello che di parlare con energia così per formarsi una buona voce, o conservarsela impiegavano essi una diligenza, ed una premura tale di cui piuttosto avrebbero dovuto far uso nel coltivare, e correggere la loro mente ed il lor carattere33. La voce, ed il gesto erano perfettamente consimili all’espressione, o esposizione delle cose. Siccome veniva preferito ogni corpo umano feminilmente arricciato e forbito, ed anche mostruoso, a tutti gli altri che risplendevano d’incorrotta bellezza, così stimavasi pure assai più una lingua affettata e ricca di soverchj vezzi ed abbellimenti di quello che [p. 147 modifica]una semplice e naturalmente bella. Il semplice, ed il naturale dispiaceva per la ragione appunto ch’egli era tale, e comune, ed il corrotto, e il non naturale al contrario andava a genio poichè questo sembrava nuovo, ed originale34. Non avevasi alcuna vergogna di commettere i più grossolani [p. 148 modifica]errori contro la lingua, e nel mentre che per ignoranza usavansi l’espressioni più basse, e volgari davasi ancora di piglio a termini, e fiori poetici, ed a sorprendenti antitesi, e concetti, a cui solamente prestavano orecchio gli uditori, e che poscia venivano trascritti, e spediti in lontane provincie, e colonie35. I pochi amici del buon gusto si lagnavano quinci che l’eloquenza dall’ampio regno, in cui aveva prima signoreggiato fosse stata rinchiusa nell’angusto recinto di alcuni pochi storti, ed arguti pensieri, e venisse appresa, ed esercitata come le arti più vili36. I migliori Oratori, Poeti, ed Istorici leggendo le loro Opere non trovavano alcuno, ovvero se non se qualche scarso, e svogliato uditore37, laddove al contrario i più miserabili ciarloni erano sicuri di un’artificioso teatrale applauso, giacchè questi andavano cercando e generosamente pagavano tutti coloro, che prender volevansi la pena d’ascoltarli, e batter loro le mani38. Siccome dunque i [p. 149 modifica]Romani nel loro vitto, e vestiario, non meno che dei loro piaceri, ed in tutto il lor modo di vivere abbandonavano, o sforzavano la natura: così praticavasi da essi il medesimo anche per riguardo al parlare, e allo scrivere, e la loro lingua, ed eloquenza come tutte le belle arti, e le scienze divennero corrispondenti ai dominanti costumi.

Tra gli Scrittori vissuti dopo Seneca, non ve ne fu alcuno, senza eccettuare gli stessi più zelanti amici dell’antichità, e i restauratori del buon gusto, il quale più o meno non adottasse i colori dell’età sua. Quest’osservazione ha luogo primieramente, e in special modo sul vecchio Plinio. Mancanza d’ordine, e di armonia ne’ pensieri, e ne’ fatti, contraddittoria miscredenza, superstizione, e credulità, trascuratezza estrema, e nel tempo stesso oscurità di stile, e per ultimo frequenti parole, e metafore improprie, o mostruose deporrebbero la nota sua opera, a malgrado delle felici immagini, e dei brillanti pensieri che in lei contengonsi, nella classe delle maldigerite, ed informi compilazioni, se dessa non fosse importante, ed indispensabile a causa [p. 150 modifica]delle molte notizie ivi raccolte da’ migliori libri  4 che più non esistono39. [p. 151 modifica]Fra i Romani Scrittori dei due primi secoli si segnalò in particolar modo Quintiliano a motivo dell’eccellenza de’ suoi precetti, della giustezza de’ suoi giudizj per rispetto agli Oratori, ai Poeti, ed agli Storici dei passati, e degli attuali suoi tempi, non che pel suo puro, e terso stile formato secondo quello dei migliori modelli. Se egli si accostò qualche volta alla falsa maniera di scrivere tanto della propria, quanto della precedente sua età ciò accadde soprattutto nell’aver fatto tropp’uso di brevi massime, e sentenze, che rapidamente si succedono l’una all’altra, come per esempio si osserva nel secondo capitolo del primo libro ove da lui si descrivono i costumi, e l’educazione della Gioventù del suo tempo. Le nuove parole, che in Quintiliano s’incontrano non gli possono essere attribuite a difetto, ne sottoporlo ad alcun rimprovero giacchè uno Scrittore il quale conosca così bene com’egli la propria lingua ha un diritto incontrastabile di crear nuovi termini40. Il più degno scuolaro di [p. 152 modifica]Quintiliano, vale a dire Plinio il giovine, ed il suo più vecchio amico, Tacito, si allontanarono entrambi in egual distanza dalle regole del buon gusto, e dai modelli degli antichi, quantunque l’uno e l’altro cadessero in errori del tutto opposti. Plinio adottò uno stile fiorito, e ricco di parole, e Tacito al contrario quello che n’è oltremodo scarso, e conciso, già da Cicerone rimproverato agli Asiatici oratori41. L’elogio di Plinio a Trajano contiene in mezzo all’astute adulazioni, che quell’oratore profuse al suo Monarca molte salutari verità per i Principi, e stupende descrizioni della violenza, e delle rapine da Domiziano esercitate sopra i suoi Sudditi. Nel tempo stesso però si può sostenere che quest’elogio è quasi una continua concatenazione di antitesi, le quali per quanto siano belle separatamente, tuttavolta il loro eccessivo numero in un’età, che ne fosse meno ricca, o bramosa di quella di Plinio annojano, e stancano qualsivoglia [p. 153 modifica]attento lettore. Le lettere di Plinio sono ugualmente interessanti come prove dell’amabile carattere del loro nobile autore, che come pitture dei costumi, e delle cognizioni di quei tempi. Si ha peraltro senza dubbio luogo di osservare che molte di queste lettere vennero da lui scritte ad oggetto di dar pascolo alla propria vanità, e inclinazione, o almeno non solo per divertire i suoi amici ma eziandio qualunque persona capace a leggere, giacchè in esse si incontrano frequenti traccie del gusto che allor dominava42. Nè Plinio però, nè alcun altro celebre Scrittor Romano di cui ci sono pervenute le Opere fece una così studiata violenza alla lingua come Tacito43, ed in niun altro trovansi [p. 154 modifica]quindi tal artificiosa, e spesse volte oscura brevità, tanti nuovi termini, o significati di parole antiche, tali costruzioni ripugnanti alla sintassi, [p. 155 modifica]tante, e così dure elissi come in quest’autore, il quale ad onta di tutti i suoi difetti è tuttavia il maggiore di qualunque Greco, e Romano Istorico. Mediante un siffatto esempio di libertà, e di plenipotenza dato da Tacito rapporto al proprio idioma vennero tolte tutte le antiche leggi che lo risguardavano di maniera che non rimase quasi più alcuna inesattezza, alcuna singolarità anzi alcun errore di lingua, il quale non potesse scusarsi, o cuoprirsi con passi di questo, e di altri simili autori  5.

Dalla corruttela dei costumi, e dalla decadenza delle scienze, cause principali di quella delle lingue, ne nacquero varie altre cause, che poi di comune accordo contribuirono [p. 156 modifica]all’immediata total rovina della Romana favella. La gran moltitudine dei Greci Schiavi, e Liberti dell’uno e dell’altro sesso, che trovavansi in tutte le primarie case di Roma, ed ai quali veniva particolarmente affidata la prima cura, ed educazione dei figli, resero il Greco idioma comune tra le persone colte, e civili, e per così dire la madre lingua della Gioventù Romana delle più cospicue famiglie. Una conseguenza naturale del sollecito, e comune uso della lingua Greca fra i Grandi fù una forte predilezione per questa, ed una poca stima, ovvero una non curanza della Ladina cui gli ingrecizzati Romani non imparavano neppure a ben pronunziare44. Il Greco nell’età di Quintiliano era talmente divenuto la prima lingua dei fanciulli, e l’idioma favorito de’ primarj Romani che questo scrittore non si arrischiò di proibirne l’apprendimento prima della Latina favella. Egli consigliò solamente a non istudiare la lingua Latina molto tempo’ dopo la Greca, imperocchè allora la prima sarebbesi resa straniera alla Gioventù Romana d’ambo i sessi. Quanto più la corruttela de’ costumi, ed il despotismo spopolavano l’Italia, e spegnevano le vere, ed antiche case Romane, tanto più si rendeva necessario di [p. 157 modifica]riempirne i nascenti vuoti nel Senato, nella Città, e nella campagna con famiglie, e persone delle provincie, le quali non solo colla difettosa loro pronunzia e coi lor dialetti, ma altresì col proprio lor modo di pensare, e di sentire corruppero pure non poco l’idioma: e il gusto Romano. Siccome ai tempi di Plinio il giovine la maggior parte dei Senatori non possedeva alcun benestabile in Italia45, così si può facilmente congetturare qual mescuglio, e confusione di dialetti nascer dovevano da tanti membri del Senato concorsi in Roma da tutti i luoghi della terra, e quanto per conseguenza la purezza della lingua Latina ne rimanesse adulterata, e corrotta. Nel secondo secolo dell’Era Cristiana vi furono persino alcuni stranieri nati fuori d’Italia i quali non solo pervennero ad essere ammessi nel Consiglio, ma poterono inoltre inalzarsi fino al Trono de’ Cesari. Quest’elevazione di Barbari  6 al soglio Imperiale si rese tanto più frequente nel terzo secolo, quanto più lo stato Romano veniva fatto in pezzi, e sconvolto. Benchè nessun Istorico abbia espressamente notato che anche tutti quegli avventurieri, dai quali ebbesi la sorte di giungere alla suprema dignità dell’Impero, e le grandi masse di confidenti, e di paesani, [p. 158 modifica]ch’essi traevansi dietro contribuissero similmente a depravare sempre più la Romana lingua ciò non ostante si può questo sostenere colla medesima sicurezza come se referito fosse dalle persone più degne di fede46. Fa spavento la subitanea degenerazione, che provò la lingua Romana nel breve spazio di tempo decorso fra il governo di Trajano, e quello degli Antonini allorchè si paragonano gli Scritti di Apulejo  7. con l’opere di Quintiliano, di Tacito, e del giovine Plinio, e si riflette che il primo fù nell’età sua egualmente applaudito, ovvero anche più ammirato di quel che gli altri lo fossero ai tempi loro. Miserabili giuochi di parole, freddi ed intempestivi racconti, lunghe, e soverchie descrizioni, ed ammucchiati poetici epiteti annunziano l’origine, e il genio Africano di Apulejo assai più che gli innumerevoli nuovi, ed estranei termini, che inutilmente si cercano nei [p. 159 modifica]precedenti buoni Scrittori. A malgrado di ciò vennero al suddetto Apulejo erette statue in Cartagine, ed in altre Città ancora, quasichè costui fosse stato il maggiore, o uno dei più grandi Oratori del suo tempo, ed Egli stesso credeva che niuno potesse incolparlo, o scusarlo d’aver commesso qualche sollecismo47.

Note dell'autore

  1. Cicer. in Brut. c. 15. — 18. de Leg. l. c. 2.
  2. Rispetto all’urbanitas, in quanto che essa era una qualità necessaria del discorso, veggasi Cicerone Orat. III. 11. 12. non aspere Egli dice, non vaste, non rustice, non hiulce sed presse, et aequabiliter, et leniter. In Bruto c. 74- de Off. I. 37. Sonus erat dulcis, dice Cicerone dei Catuli, i quali avevano la riputazione di parlar meglio degli altri la propria lingua; litterae neque expressae, neque oppressae, ne aut obscurum esset, ant putidum. Sine contentione vox, nec languens, nec canora. Dopo Cicerone, Quintiliano stabilì l'urbanitas nel seguente modo VI. 4. Nam meo quidem judicio, illa est urbanitas, in qua nihil absonum, nihil agreste, nihil inconditum, nihil peregrinum, neque sensu, neque verbis. neque ore, gestuque possit deprehendi: ut non tam sit in singulis dictis, quam in toto colore dicendi: qualis apud Graecos atticismos ille redolens Athenarum proprium saporem.
  3. Cic. de Orat. III. 11. 12. de Off. 1. 37. Brut. 58. 74. c. mitto C. Laelium, P. Scipionem. Aetatis illius ista fuit laus, tanquam innocentiae, sic latine loquendi: nec omnium tamen. Nam illorum aequales Caecilium, et Pacuvium male locutos videmus. Cicerone avrebbe potuto nominar quì anche Catone, e molti Poeti di cui esso fa menzione nel suo Bruto l5: — 18. Terenzio non sarebbe al certo stato capace di scrivere così egregiamente dall’Affrica se non l’avessero ajutato Lelio, e Scipione, il che Egli non solo non negò, ma come giusto se lo attribuì eziandìo a grand’onore.
  4. Cic. in Brut. c. 19. 21. de Orat. III. 32 . eccettuato il solo Fannio, ed in appresso Q. Catulo. In Brut. c. 26. — 35.
  5. Cic. in Brut. c. 25. — 27.
  6. De Orat. I. 4.
  7. In Brut. C. 36. — 43.
  8. Ib. sed haec Crassi cura edita oratìo est, quam te saepe legisse certo scio, quatuor et triginta tum habebat annos, totidemque annis mihi praestabat. Quod idcirco posui, ut dicendi latine prima maturitas iu qua aetate extitisset, posset notari; et intelligeretur jam ad summum paene esse perductam, ut eo nihil ferme quis quam addere posset, nisi qui a philosophia, a jure civili, ab historia fuisset instructior.
  9. Tusc. Quaest. II. 2 .
  10. De Fin. I: c. 3.
  11. Ciò vien confessato da Cicerone medesimo. De Fin. III. c. 2. Prima di Cicerone (per non indicare che alcuni dei più sorprendenti esempj della povertà della lingua Romana rispetto alle voci scientifiche) ignoti eran quei periodi Orat. c. 61., ove le sensazioni si chiamassero visa Ac. Quaest. l. 7, gli affetti permotiones IV. 44, le idee, e le sensazioni notitiae, notio, intelligentia III. 6. IV. 7., l’inclinazione e il trasporlo appetitio III. 8., la conclusione rationis conclusio ib., gli assiomi decreta ib. c. 9. il consenso, e la riserva del consenso, assensio, et assensionis retentio. IV. 12. 18. Le passioni animi perturbationes de Fin. III. 10: Un punto matematico punctum Tusc. Quest. I. 7. L’invidia, o la gelosia invidentia ib. IV. 7. 9. La volontà voluntas IV. 9. L’incorporeo sine corpore ullo l. 12. de nat. Deor. Il cerchio, e la sfera circulus globus II. 18. ib. Lo Zodiaco signifer orbis II. 42. ib. Le linee che terminano all’Orizzonte finientes c. 44. ib. La Logica ratio disserendi, de Fato I. Le regole percepta artis ib. 6. et cetera. Lo stesso Cicerone fece qualche volta alcuni veri errori di lingua. Veggansi fra gli altri il cap. 3. dell’Epistola VII ad Attico, e il c. 13. dell’Orazione pro Sexto Roscio Amerino. Scelestum facinus, — quo uno maleficio scelera omnia complexa esse videantur. La seguente unione di immagini tra loro incompatibili equivale per lo meno ad un’errore di lingua: consentiens laus bonorum virtuti resonat tanquam imago. Tusc. quaest. III. 2.
  12. In Bruto c. 21. e seg.
  13. In Bruto c. 6. subito in civitate cum alla ceciderunt, tum etiam ea ipsa, de qua disputare ordimur, eloquentia obmutuit. Tusc. Quaest. II. 2. Atque oratorum quidem laus ita ducta ab humili, venit ad summum, ut jam, quod natura fert in omnibus fere rebus, senescat, brevique tempore ad nihilum ventura videatur. de Off. II. 19. Admonebat me res, ut hoc quoque loco intermissionem eloquentiae, ne dicam interitum, deplorarem . . . . Sed tamen videmus, quibus exstinctis oratoribus, quam in paucis spes, quanto in paucioribus facultas, quam in multis sit audacia.
  14. De Orat. III. 50. Quotus enim quisque est, qui teneat artem numerorum, ac modorum? At in bis si paullum modo offensum est, ut aut contractione brevius fieret, aut productione longius, theatra tota reclamant. Orat. c. 50. Conciones saepe exclamare vidi, cum apte verba cecidissent. Id enim exspectant aures, ut verbis colligentur sententiae. Veggasi ancora il c. 2. del Paradosso III.
  15. De Orat. I. c. 26., . si haec turba, et barbaria forensis dat locum vel vitiosissimis oratoribus . . . . .
  16. In Bruto c. 74. Sed hanc certe rem deteriorem vetustas fecit, et Romae, et in Graecia, Confluxerunt enim et Athenas, et in hanc urbem multi inquinate loquentes ex diversis locis. Quo magis expurgandus est sermo, et adhibenda tanquam obrussa, ratio, quae mutari non potest, nec utendum pravissima consuetudinis regula. Veggansi specialmente Cic. Epist. IX. 15.Quint. I. c. 5. Peregrina porro ex omnibus prope dixerim gentibus, ut homines, ut instituta etiam multa venerunt. Taceo de Tuscis, et Sabinis, et Praenestinis quoque: nam ut eorum sermone utentem Vectium Lucilius insectatur: quemadmodum Pollio deprehendit in Livio Patavinitatem. Licet omnia Italica pro Romanis habeam. Plurima Gallica ’ valuerunt, ut rheda ac Petoritum: quorum altero Cicero tamen, altero Horatius utitur. Quintiliano riferisce ancora molt’altre parole straniere, che al suo tempo avevano quasi ottenuto il diritto di cittadinanza.
  17. Dialog. de Orat. c. 28.
  18. Ib. C. 29. et seq.
  19. II. 20. Cic. de Off.
  20. Dialog. de Orat. c. 19. 26. Quint. X. 1.
  21. Ep. I. 14.
  22. Quid turpius amue, silvisque ripa comantibus? Vide ut alveum lintribus arent, versoque vado remittant hortos . Quid si quis foeminae cirro crispatae, et labris columbatur? — Incipitque suspirans, ut cervice laxa feratur. Nemo Tyranni. Irremediabilis factio rimantur, epulis, lagenaque tentant domos et saepe mortem exigunt. Genium festo vix suo testem, tennis cerei fila, et crepacem molam, focum mater aut uxor investiunt. — E all’Ep. 19. leggesi quanto segue: Ipsa enim altitudo attonat summa.
  23. Senec. et Dial. de claris Orat. ll. cc. Malim hercule C. Gracchi impetum, aut L. Crassi maturitatem, quam calamistros Maecenatis, aut tinnitos Gallionis. Adeo malim oratorem vel hirta toga induere, quam fucatis et meretriciis vestibus insignire. c. 26. Dial. de Orat.
  24. X. 1.
  25. Dalla nota che ho fatta dei termini nuovi, ed inusitati introdotti da Seneca nelle sue opere io non riporto quì che i seguenti, circa ai quali credo di poter sostenere con una certa fiducia che Cicerone, e Cesare non gli avrebbero giammai adottati, o che essi almeno erano del lutto inutili, e non vennero inventati che per dare una tal quale novità, ed energìa, allo stile. Consol. ad Helviam: ad vitiosam consuetudinem, cujus immensum et incomprehensibile arbitrium est. c. 11. vid. et Ep. 94. Paragonisi il repraesentare ad Marc. c. 3. e quello dell’Ep. XI. col repraesentare di Cicerone L. V. Ep. 16. incertissima dominia, de vita beata c. 5. Ita ne potest quidem ulla ejus (voluptatis) esse subtantia, quod venit transitve celerrime, ib: c. 7. infragilis animi rigor. ib. c. 9. rationabilem porro sortitis naturam. ib. c. 14. Nell’Ep. 41. trovasi; rationale enim animal est homo. Egli esprime ἀπάθεια per impatientia, ma poi s’accorge del doppio significato di questa parola. Ep. 9. A lui medesimo era noto quanto la lingua veniva, ed era già corrotta a motivò dei nuovi termini: Sed vide ne plus profectura sit oratio ordinaria, qnam haec, quae nunc vulgo breviarium dicitur, olim cum latine loqueremur, summarium vocabatur. Nella 58. lettera s’incontrano molti vocaboli nuovi, la maggior parte dei quali non servono che ad esprimere idee filosofiche per cui Cicerone ne aveva già ritrovati dei migliori. Inanimantia, per cose inanimate, corporalia, incorporalia, — posititio mentis. Ep. 64 de tranq. animi c. 2. Egli usa pure positus per situazione come processus per attività, o sforzo; cui quid abscedere potest id imperpetuum est. Ep. 72. indeclinabilis justitìae, per incorrottibile. Ep. 74. an ipse pecuniam impuravit? Ep. 87. Haec ejus initiamenta sunt. Ep. 90. Ratio in illis (Diis) consummata est, in nobis consummabilis. Ep. 92. ἡγεμονικόν vien da lui chiamato ora principale, ed ora principalis natura. Ep. 92. 93. tibi... tantìs clamoribus exsurdato. Ep. 94. pars philosophiae, praeceptiva, contemplativa, activa. Ep. 95. Istos satageos, et sibi molestos describain tibi. Ep. 98. Accipite Socratem perpessicium senem — Ep. 104. Multum dare solemus praesumtioni omnium hominum. Ep. .117.
  26. X. 1. in fine
  27. Quint. 1. c. Io ho già altrove fatta menzione che Seneca distolse anche Nerone dallo studio degli antichi oratori . Suet. in Nerone c. 52.
  28. Quint. XII. 10. Dialog. de Orat. 19. 20. sed potius 22. 23. Io voglio qui riportare solamente i seguenti passi di un nemico dell’antichità: Nam priores ejus (Ciceronis) orationes, non carent vitiis antiquitatis. Lentus est in principiis, longus in narrationibus, otiosus circa excessus; tarde commovetur, raro incalescit: pauci sensus — et cum quodam lumine terminantur. Nihil excerpere, nihil referre possis: et yelut in rudi aedificio, firmus sane paries, et duraturus, sed non satis expolitus et splendens — Nullum sit verbum velut rubigine infectum, nulli sensus tarda, et inerti structura, in morem annalium componantur: fugiat foedam, et insulsam scurrilitatem, variet compositionem, nec omnes clausulas uuo, et eodem modo terminet.
  29. c. 29, 32. Dial. de Oratoribus:
  30. II. 2. Quint.
  31. Plin II. 14. Ad hoc perpauci cum quibus juvet dicere. Caeteri audaces, atque etiam magna ex parte adolescentuli obscuri ad declamaudum huc transeunt, tam irreverenter, et temere. — Nunc refractis pudoris et reverentiae claustris omnia patent omnibus. Nec inducuntur, sed irrumpunt.
  32. De Orat. Dial. c. 26. Neque enim oratorius iste, imo hercule ne virilis quidem cultus est, quo plerique temporum nostrorum actores ita utuntur, ut lascivia verborum, et levitate sententiarum, et licentia compositionis, histrionales modos exprimant. Quodque vix auditu fas esse debeat, laudis, et gloriae, et ingenii loco plerique jactant, cantari, saltarique commentarios suos. Unde oritur illa foeda, et praepostera sed tamen frequens quibusdam exclamatio, ut oratores nostri tenere dicere, histriones diserte saltare dicantur.
  33. Casaubono ad Pers. p: 63. 67. 125. descrive i vergognosi sforzi che facevano gli Oratori ad oggetto di render dolce, e molle la loro voce. I Romani acquistarono dai Greci Retori, perciò biasimati da Tullio, questo trasporto, di formarsi una voce da donna. de Orat. I. 59. Quando Cesare udiva qualcuno leggere con una cantante voce feminile, ei diceva: si cantas, male cantas: si legis, cantas. Anche Quintiliano descrive la voce degli Oratori del suo tempo, come in canticum dissoluta, et plasmate effoeminata I. 8. Così Plinio II. 14. Ep.
  34. Quint. II. 5. Ostendique . . . quam multa impropria, obscura, tumida, humilia, sordida, lasciva, effoeminata sint; quae non laudantur modo a plerisque, sed (quod pejus est) propter hoc ipsum quod sunt prava, laudantur. Nam sermo rectus, et secundum naturam enuntiatus, nihil habere ex ingenio videtur: illa vero, quae uteunque deflexa sunt, tanquam exquisitiora miramur: non aliter quam distortis, et quocunque modo prodigiosis corporibus apud quosdam majus est pretium, quam iis, quae nihil ex communis habitus bonis perdiderunt: atque etiam qui specie capiuntur, vulsis, laevatisque, et inustas comas acu comentibus et non suo colore nitidis, plus esse formae putant, quam possit tribuere incorrupta natura: ut pulchritudo corporis venire videatur ex malis moribus. et Lib. VIII. Prooem. Quid, quod nihil jam proprium placet, dum parum credtlur disertum, quod et alius dixisset? A corruptissmo quoque poetarum figuras, seu translationes mutuamur; tum demum ingeniosi scilicet, si ad intelligendos nos opus sit ingenio. Lo stesso accadeva ancora rispetto ai Greci Retori. Lucian. I. 839 II. 317. 830. 63. III. 32.
  35. Dialog. de Orat. c. 20. 26. 32.
  36. Ib. c. 32.
  37. I. 13. Plin. Ep. Plinio fa un eccezione IV. 16.
  38. Ib. II. 14. Ep. sequuntur auditores actoribus similes, conducti, et redempti mancipes: convenitur in media basilica, ubi tam palam sportulae, quam in triclinio dantur. Ex judicio in judicium pari mercede situr. Inde jam non inurbane σοφοκλεῖς vocantur: iisdem latinum nomen impositum est, laudicoeni. Et tamen crescit in dies foeditas utraque lingua notata.
  39. Per dimostrare l’inesattezza, l’incongruenza, il gusto straniero, e persino la mostruosità dell’espressioni, e dell’immagini del vecchio Plinio io non riporto quì che i seguenti passi, e immediatamente il principio della prefazione del primo libro. Libros naturalis historiae novitium Camoenis Quiritium tuorum opus natum apud me proxima foetura etc. — Lucilius, qui primus condidit styli nasum, ib. — Quanto nos caussatius etc. ib. — In divo Augusto — Magna sortis humanae reperiuntur volumina. VII. 45. Parum scilicet fuerat in gulas condi muria, nisi manibus, auribus, capite, totoque corpore a foeminis juxta virisque gestarentur. Quid mari cum vestibus? Quid undis fluctibusque cum vellere? Non recte recipit haec nos rerum natura nisi nudos. Esto, sit tanta ventri cum eo societas, quid tergori? Parum est, nisi qui vescimur periculis, etiam vestiamur. Tali immagini, e pensieri quali son quelli che contengonsi nei surriferiti passi, erano per certo i sensus, le argutae, et breves sententiae, i loci exquisito, et poetico cultu enitentes, lodati e stimati ai tempi di Plinio. Dial. de Orat. c. 20. Duratque immenso exemplo Deciorum patris, filiique, quo se devovere, carmen. Similmente nel c. 2. del L.xxx. 3. si trova, immensum et indubitatum exemplum, et falsae artis, quam dereliquit Nero. E nel xxxii. Proem. leggesi immensum potentiae occultae documentum. Le parole, immensum, infinitum, incomprehensibile, ed altre, venivano nei tempi del cadente gusto dei Romani così di leggieri, e male a proposito usate, come i termini horrible, execrable, e simili erano varj anni sono in voga tra i nostri vicini di là dal Reno.
  40. Fra i nuovi vocaboli introdotti da Quintiliano hanno luogo soprattutto i seguenti: praecepta perpetualia, come sinonimo di universalia, II. 13. juridicialis, inficialis, e molti altri, III. 6. Veggasi inoltre il cap. 3. del lib. VIII. At ille fecit hoc etiam favorabile, conjungendo cum judicibus dignitatem suam. XI. 1.
  41. Plinio descrive il suo proprio gusto nei seguenti passi. Lib. I. Ep. 2. 20. II. 5. VII. 12. IX. 26. Plinio, e Tacito si mandavano scambievolmente i loro scritti per la correzione. VII. 17. 20. VIII. 7.
  42. Io qui riporto solamente alcune delle straniere frasi delle Lettere del giovine Plinio. Cum non tantum amitae ejus, verum etiam patris amissi affectum repraesentes. IV. 19. validissime vereor. VI. 8. Est enim probitate morum, ingeiiii elegantia, operum varietate monstrabilis. VI. 21. Nonnullus et in illo labor, ut barbara et fera nomina, inprimis regis ipsius, Graecis versibus non resultent. VIIi. 4 literarum jam senescientium reformator. VIII. 12.
  43. I seguenti esempj possono giustificare il mio giudizio sopra Tacito: et hortante senatu, ut augeret, jurejurando obstrinxit, se non excessurum. Annal. I. 14. Tutto il Capitolo 41. del primo libro è ripieno di duri elissi, e costruzioni, e perciò io non ne trascrivo qui che le seguenti parole: Foeminas illustres, non centurionem ad tutelam, non militem, nihil imperatoriae uxoris, aut comitatus soliti, pergere ad Treveros, et externae fidei. — Inoltre: ubi principem longa experientia, eundemque severitatis, et munificentiae summum vidissent. I. 46. Quos igitur anteferret? ac ne postpositi contumelia incenderentur. I. 47. Neque odio patriae — verum quia Romanis Germanisque idem conducere, et pacem quam bellum probabam. I. 58. incedunt moestos locos. I. 61. sive exercitum imagine caesorum insepultorumque tardatum ad proelia, et formidolosiorem hostium credebat. I. 62. quanto inopina tanto majora. I. 68. Vix Tiberio concedere; liberos ejus ut multum infra despectare. II. 43. artes tam feliciter expertas verteret in Agrippinam. III. 17. Is finis fuit ulciscenda Germanici morte. ib. 19. Sobolem studiis ibi operatam. III. 43. Ego me P. C. mortalem esse, et hominum officia fungi — iv. 38. Quod scientiae caerimoniarumque vetus, (per dotato di lunga esperienza) vi. 12. Casus Mithridati datus est, occupandi Armeniam. xi. 9. Nihil tam ignarum barbaris quam machinamenta etc. xii. 45. Ubi quati uterus, et viscera vibrantur. xii. 51. Vologesi vetus et infixum erat, arma Romana vitandi, xv. 5. Ut vi nocendi — etiam malos praemineret. xv. 34. Maxime Aegyptum secretis imaginationibus agitans. xv. 36. non accusatore existente xv. 69. pavorem eorum . . . imaginatus et irridens Nero. ib. Neronem . . . adulatus est. xvi. 19. Opus opinum casibus. Hist. I. 2. recentem aliorum felicitatem aegris oculis introspicere. II. 20. praecipuum destinationis meae documentum habete. II 47. Neque enim societatem (per socios) ut olim, sed tamquam mancipia haberi. iv. 14. Sed vulgus, more humanae cupidinis, sibi tantam fatorum magnitudinem interpretati, ne adversis quidem ad vera mutabantur. V. 13. postremum illud tempus, quo Domitianus non jam per intervalla ac spiramenta temporum, sed continuo, et velut uno ictu rempublicam exhausit. c. 44. Agricolae vit.
  44. Quint. I. 2.
  45. Ep. VI. 19.
  46. Allorchè Adriano, come Questore, recitò in Senato un discorso di Trajano ei fu deriso a motivo della sua rozza pronunzia. Spart. in ej. vita c. 3. Severo conservò fino alla morte la sua pronunzia, e il suo dialetto Affricano. Spart. in ej. vit. c. 19. La di lui sorella potè appena arrivare a parlar latino; per il che egli se ne vergognava talmente, che la rimandò alla sua Patria. c. 15. ib.
  47. p. 223. 236. 237. Edit. Colvii.

Note del traduttore

  1. [p. 179 modifica]Tredici furono le Opere teatrali, di cui la maggior parte sono Tragedie, che Livio Andronico compose pei Romani. Il Fabricio (Bibliotheca Latina Lib. 4. c. 1.) riporta tutti i titoli delle medesime tali quali si trovano nei Frammenti del suddetto autore pubblicati dagli Stefani.
  2. [p. 179 modifica]Perseo figlio, e successore di Filippo IV. fu interamente vinto dai Romani l’anno 168. prima di Gesù Cristo. Mediante la sua disfatta, e la sua prigionia la Macedonia con quanto ne dipendeva venne riunita all’Impero Romano dopo di essere stata governata da’ suoi proprj Re per lo spazio di 700. e più anni. Rollin.
  3. [p. 179 modifica]Era Carneade nativo di Cirene, ed un insigne Filosofo, ed Oratore, conforme rilevasi dalle notizie, che di esso ci ha lasciate Cicerone in una delle sue Epistole, il quale ne parla come di un uomo il più eloquente del Mondo [p. 180 modifica]Famosa è la sua ambasciata a Roma ov’ei si portò in compagnia di Diogene Stoico, e di Critolao onde indurre il Senato a liberare gli Ateniesi della gravosa multa, a cui i medesimi erano stati condannati dai Tribunali di Sicione per aver ingiustamente saccheggiati i Cittadini di Osopo.

    Nulla più si ha al presente dell’Opere di Carneade, ma ai tempi di Diogene Laerzio, che viveva sotto Antonino Pio, e ne ha falla una breve Vita, esistevano tuttora alcune delle di lui Lettere scritte ad Ariarate Re di Cappadocia.

  4. [p. 180 modifica]Plinio nel compilar la sua Storia Naturale si servì delle notizie sparse in due mila, e più Autori Greci, e Latini siccome afferma il Fabricio (Bibliot. Lat. Lib. 2. c. 13.), il quale riporta altresì per ordine alfabetico i nomi di coloro, di cui Plinio stesso confessa d’essersi prevalso nella predetta sua Opera.
  5. [p. 180 modifica]Rispetto a Cornelio Tacito non credo fuor di proposito di quì riportare il giudizio fattone da alcuni famosi Eruditi, tal quale si trova nell’Opera del celebre Tommaso Pope Blount intitolata, Censura celebriorum Auctorum «Dictio Taciti floridior, uberiorque in Historiarum est libris, pressior, sicciorque in Annalibus; scaber tamen quibusdam, et obscurus videtur; suo ne [p. 181 modifica]vitio, an ipsorum? Nam acute, arguteque scripsisse fateor, et tales esse debere qui cum legent « (Lipsius in Not. ad Polit. lib. 1. e. 9.)

    » Stylus (Taciti) magis gravis quam elegans; asper enim parumper, et duriusculus est, atque a Latinae linguae candore discedens. « (Carolus Sigonius.)

    «Magnis mentibus maxime convenit hic auctor, et praecipue iis, qui ad Reipub. clavum sedent « (Roland. Mares in Epist. pag, 23.)

    Veggasi ancora ciò che di tale impareggiabile Istorico dice il celebre Sig. Professor Lodovico Valeriani nella sua non mai abbastanza lodata Dissertazione da lui premessa alla dotta Versione, che egli ultimamente n’ha fatta.

  6. [p. 181 modifica]Il primo Imperatore, che veramente non può dirsi Romano, o Italiano, fu Nerva; imperocchè, sebbene egli nascesse in Narni, tuttavia era oriundo di Creta. In seguito ne vennero immediatamente Trajano, e Adriano, ambedue Spagnuoli della città d’Italica. (Gibbon.)
  7. [p. 181 modifica]Oltre all’Asino d’oro, ed alle Metamorfosi, abbiamo ancora di Apulejo alcune Opere, le quali trattano della Filosofa Platonica. Varj sono stati coloro, da cui si è scritto su i meriti, e su i difetti di questo Autore; ma io non ne riporterò quì che il parer di due soli, i quali vagliono [p. 182 modifica]per tutti gli altri. «Stylum ejus ineptum esse volunt; fatebor in parte (nec enim asperitatem illam, et horrorem quaesitae dictionis usquequaque excuso), sed tamen docte ineptum, et e quo multa bona selectaque hauriat bonae selectaeque mentis lector. «Lipsius Lib. II. Elect. c. 2.

    «Omnigenae vir eruditionis, in verbis novus, in sententiis creber, in inventione acutus, in translationibus audax, in elocutione varius. « (Volaterranus Lib. 13.

[p. 179 modifica]


Nel dar fine alle mie Annotazioni non posso dispensarmi dall’accennare che ben volentieri avrei tralasciate quelle, le quali risguardano gli Imperatori Romani, e varie altre, se non ne fossero di già stati stampati i corrispondenti numeri Arabici, che trovavansi nel mio manoscritto pel solo oggetto da me propostomi di riscontrare alcuni Classici Latini, e Greci citati dall’Autore.