Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani/Capitolo VIII

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Capitolo VIII

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Capitolo VII Capitolo IX
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VIII.

Della decadenza di tutte le arti, e le scienze
cagionata dalla corruttela dei costumi, e dal
Despotismo.


Dopochè ho per ordine esposti gli effetti del Despotismo, e dell’immoralità dei Romani rispetto al corpo, ed allo spirito di questo popolo degenerato, io spero che parte per far conoscere, e parte per confutare alcune false massime, e declamazioni riuscir possa di qualche vantaggio l’esaminar brevemente anche l’influenza, che lo stesso despotismo, ed il mal costume ebbero su le arti, e le scienze. Tra tutti i popoli decaduti i Greci, e i Romani ci offrono i più terribili esempj che l’eccessiva, ed universale scostumatezza, e l’assoluta tirannide corrompono altresì tutta l’indole delle più nobili nazioni, che per conseguente quelle due nemiche degli uomini non solo indeboliscono il corpo mediante la voluttà, la crapula, la mollezza, e la pigrizia, e non solo abbatton l’animo coll’estinguere ogni domestica e civile virtù, col soffocare [p. 53 modifica]tutti i più sublimi, ed umani sentimenti, e col favorire, o produrre per ultimo innaturali, e sregolati desideri, e appetiti, ma squarciano eziandio per così dire ogni nervo dello spirito, e rendono quindi l’uomo di già, sconvolto nel centro dell’esser suo così nemico, e incapace di forti, ed assidue occupazioni di mente come di qualunque fatica, ed esercizio del corpo, e d’illustri azioni, ed imprese. La storia dei Greci, e dei Romani dimostra pure in un modo incontrastabile che la moderazione, la castità, la modestia, il trasporto per le tranquille, e le domestiche contentezze, l’attività, l’amor della patria, e della libertà, il valore, la stima di se medesimo, e il sentimento del proprio grado, e decoro non sono più incompatibili con l’eccessiva crapula, voluttà, mollezza, sfacciataggine, pompa, vanità, profusione, avarizia, schiavitù, bassezza, e viltà, di quello che lo sieno i veri lumi, o la fervida, e felice coltura delle bell’arti, e dell’utili scienze; che le istesse cause le quali annullano le famiglie, le provincie, e i grandi Imperi, e distruggono l’agricoltura, il commercio, l’industria, la disciplina militare, la religione, e le leggi rovinano altresì le arti, le scienze, e la lingua; e che per conseguenza quest’ultime sostener non si possono lungamente oltre, o sopra alla rovina, e agli avanzi delle prime. [p. 54 modifica]

Le arti, e le scienze decadder tosto sotto i primi Imperatori in un modo così notabile che un tal fenomeno eccitò i lamenti, e le doglianze dei contemporanei. E a dir il vero la decadenza sì dell’une, che dell’altre non provenne certamente per mancanza di ricompense, che distribuite esser possano in oro, e in argento (mentre i capi d’opera non furono mai comprati ad un prezzo così esorbitante, ed i letterati, e gli artisti così largamente ricolmi di benefizj, e di premi come sotto la maggior parte degli Imperatori dei due primi secoli) ma bensì perchè i dominanti vizj estinguevano la facoltà creatrice, e quell’ardente entusiasmo con cui uno si dedica alle arti, e alle scienze solo per l’intera compiacenza, che ne deriva; e non pei vantaggi ch’esse procurano; perchè andavasi in traccia d’artefici, di capi d’opera, di letterati, e di biblioteche più per vanità, e per moda di quello che se ne avesse una vera stima fondata sopra giuste cognizioni, e come un puro sollievo dello spirito; perchè i bei giovani dell’uno, e dell’altro sesso, gli abili cuochi, i gladiatori, i cocchieri, ed i comici venivano amati, e premiati sopra tutti gli artefici, i filosofi, e gli oratori; perchè il diletto che dava il mestier di cuoco, di gladiatore, di comico, e d’auriga, ed i segreti artifizj, ed istrumenti della voluttà si anteponevano [p. 55 modifica]di gran lunga alle contentezze tutte, che ispirano le arti nobili, e belle, e le più sublimi scienze; e perché infìne le stesse bell’arti, e le scienze se trovar volevano qualche ingresso nelle voluttuose stanze, ed alle laute mense dei Grandi eran costrette di adulare piuttosto la più grossolana sensualità, di quello che d’istruire, e di dilettare i più nobili sensi, lo spunto, e il cuore.

Benché Augusto a prò dello Stato Romano, e Mecenate per Augusto si acquistassero immortali meriti, e prerogative, tutta volta si può così poco accordar con ragione al governo del primo il nome di aurea età dei Romani come a Mecenate quello di un vero protettore, e promotore dell’arti, e delle scienze. Tacito conosceva l’età di Augusto assai meglio che gli eccessivi ammiratori di Orazio, e di Virgilio i quali onoravano col titolo di aurei i tempi in cui questi due Poeti ebber vita. Quando, dice Tacito, dopo la vittoria Aziaca venne, conforme il riposo dello Stato lo richiedeva, conferito ad un solo il supremo potere allora finirono ad un tratto gli uomini, e gli ingegni straordinarj le cui sacre schiere negli ultimi tempi della Repubblica inalzato avevano al più alto grado la politica, la giurisprudenza, la lingua, l’oratoria, l’arte militare, e la filosofia, ed istupiditi tutti i popoli della terra coi loro fatti, discorsi, [p. 56 modifica]e scritti1. Ad onta delle opere insigni fatte eseguire, e perfezionare da Augusto, da Agrippa, e da altri non si formò in alcuna arte un solo maestro, che emular potesse i grandi ingegni dei passati secoli. La lingua, l’eloquenza, la filosofia, la politica, e la tattica militare decaddero immantinente; e lo stesso Orazio, e Virgilio, ai quali ognuno di buon grado accorda una eccellente verseggiatura, ed una felice, e giusta imitazione, ma niuno un’animo veramente creatore, e sublime, ed oltre a questi Livio più elegante scrittore che perfetto istorico furono piuttosto avanzi, ed effetti dei migliori tempi, che emanazioni proprie del governo di Augusto.

Verso quell’epoca per altro in cui le belle arti decadevano sempre più nella Grecia, ed in cui la lingua, e le scienze incominciavano a degenerare anche in Roma si rese comune in questa città, ed in Italia la greca favella nella guisa stessa che la lingua, le cognizioni, e le opere dei Romani si dilatarono maggiormente nelle Provincie [p. 57 modifica]conquistate, o del tutto sottomesse da Cesare e da Augusto. Nell’età di Giovenale, e di Quintiliano2 nelle primarie famiglie di Roma, e persino dalle stesse lor donne parlavasi più io Greco che in Latino, e ì figli dei Grandi di quella Metropoli imparavano il Greco idioma prima ancora della lor madre lingua. Fuori d’Italia gli abitanti della Spagna adottarono i primi i Romani costumi, ed il Romano linguaggio. Già da Sertorio  1 eransi fatti educare i figli de’ più illustri Spagnuoli sul gusto Romano3, e ai tempi di Strabone  2 i popoli soprattutto della Spagna meridionale avevano così bene imitati i Romani che non si ricordavano più della propria lor lingua, e sembravano persino, come dice lo stesso scrittore, divenuti quasi Romani4. Con non minore sollecitudine i valorosi abitatori dell’Illiria, e della Pannonia si appropriarono la lingua, la tattica militare, e le altre arti, e scienze Romane5. I Galli superarono ancora gli [p. 58 modifica]Spagnuoli, e i Pannonj nell’ardente brama di adottare straniere cognizioni, e favelle. Quando essi incominciarono finalmente sotto Angusto a godere di quella pace da lungo tempo generalmente desiderata, ed osservarono che i primarj Romani maudavano i proprj figli a Marsiglia per farli ivi educare da Greci Retori, e filosofi, non solo fecesi da loro il medesimo, ma tutte le grandi città della Gallia stabilirono ricchi stipendj a celebri medici, oratori, e filosofi affinchè questi avesser cura della salute de’ proprj concittadini, ed istruir potessero i loro figli6. Sotto Tiberio fiorì, e segnalossi Autun sopra tutte le altre galliche Città tanto per la fama de’ suoi maestri quanto per l’affluenza de’ più illustri giovani, che ivi concorrevano da tutta la Gallia a cagione de’ loro studj7. Alla detta Città fù in breve disputata una tal gloria da Lione, e da altre Città ancora nelle quali con istupore del giovine Plinio formaronsi rispettabili [p. 59 modifica]Biblioteche, e negozj di libri8. Comecchè la Brettagna, e la Germania di là dal ’Reno domate furono dopò l’Illiria, la Pannonia, la Gallia, e la Spagna  3 così quelle due provincie ricevettero un poco più tardi di queste Romaua lingua, e coltura. Gli orgogliosi Britanni si opposero per qualche tempo alla Romana favella come al giogo Romano. Il saggio Agricola peraltro con un mescuglio di severità, e di preghiere gli indusse a fabbricare Città, Templi, e case stabili, ad emulare i Romani nei bagni, ne’ portici, e ne’ lauti banchetti, e ad adottare Romano vestiario, e Romani costumi, e linguaggio; e per ultimo impegnò i figli delle loro più nobili famiglie a segnalarsi nell’eloquenza, e nelle altre arti, e scienze9. La prontezza, e la facilità con cui i [p. 60 modifica]barbari Celti accolsero le arti, e le scienze dei vincitori mi sembrano per alcuni rapporti così degne d’osservazione come appunto lo è il modo pel quale gli avanzi della Romana lingua a malgrado di tante, e si forti rivoluzioni accadute in seguito abbiano potuto conservarsi nell’antica Gallia, Spagna, e Dacia, laddovecchè lottato Romano, e la maggior parte dei monumenti della Romana grandezza, e magnificenza si trovano da oltre un migliajo d’anni rovinati, o sepolti. Se il governo di Augusto meritò il nome di aurea età dei Romani ciò già non avvenne perchè sotto di esso la lingua, le arti, e le scienze giungessero alla loro maggior perfezione, ma bensì a motivo che la lingua dei Romani, e dei Greci, e quanto rimaneva d’arti, e di scienze non era, o non venne così generalmente diffuso come nella lunga, e felice pace, che Augusto procurò alla spopolata, ed esausta Terra.

Quando venne in Roma scoperta, o perfezionata la sopraffina, e sublime arte di cucinare, di alloggiare con pompa, e mollezza, di vestirsi, adornarsi, e bagnarsi, la seria, o grande pantomima, ed ogni sorta di spettacoli, e di artifizj, e istrumenti di voluttà, la maniera di far tutto di marmo, d’argento, e d’oro, o di cuoprirlo, e guarnirlo con questi due metalli o con gemme, non [p. 61 modifica]meno che quella di scriver presto10, e di dipingere con pietruzze, in pietre, e sopra pietre11; e tostochè per conseguente le opere stesse degli ran[p. 62 modifica]antichi artefici venner comprate ad un prezzo il più esorbitante, e venderonsi a peso più dell’oro medesimo, allora decaddero, e si estinsero immediatamente tutte le bell’arti per la ragione che le loro illegittime ma vincitrici sorelle, e vale a dire la voluttà, la crapula, la mollezza e l’arte teatrale le privarono di tutti i maestri, e scolari capaci, e degni di coltivarle; mentre ognuno come cuoco, libertino, corteggiano, comico, castrato, lettore, ed usciere poteva molto prima conseguir la propria fortuna, ed acquistarsi immense ricchezze, autorità, ed onori di quello che se stato fosse in grado di formare de’ capi d’opera simili a quelli di Mirone, di Lisippo, e d’Apelle  4. Tra le belle arti la prima a decadere fù quella che venne assai più tardi dell’altre perfezionata, voglio dire la pittura. Plinio fa menzione della medesima come di un’arte già perduta, e della quale non si possano citar che gli avanzi per esser ella dapprima stata avvilita, ed espulsa dall’abuso, e dalla barbarica pompa dei marmi, e dell’oro, e quindi distrutta affatto dalla pigrizia, e dalla corruttela dei tempi.12 [p. 63 modifica]Di tutti que’ soggetti che ai tempi di Plinio imbrattavano di colori lastre, e pezzetti di marmo, o pareti non eravene alcuno il quale avuto avesse il coraggio, e la capacità di fare alcuni somiglianti ritratti di persone ragguardevoli.13 Perciò quando nelle case dei Grandi conservar volevasi la memoria di qualche loro defonto, allora invece della sua effigie si erigevano, o appendevano scudi di bronzo, o statue d’argento l’una all’altra così conformi come appunto lo sono gli argentei simulacri degli Apostoli, e dei Santi che si trovano nelle antiche chiese Cattoliche, e lasciavansi quinci da molti al dire di Plinio non le immagini’ de’ proprj congiunti, ma quelle bensì del proprio danaro, cosicchè venivano esse poi molte volte liquefatte, e distrutte dai lor più prossimi eredi. Plinio veramente non disapprovava del tutto il lavoro di coloro che al suo tempo dipingevano pareti, e muri, ma egli conosceva bene che essi non meritavano il nome [p. 64 modifica]di grandi artefici, e che in nessun modo paragonar potevansi ai famosi pittori degli antichi secoli, i quali s’occupavano solo per la gloria, e per l’abbellimento d’intere città, e venivano per conseguenza considerati come una particolare proprietà di qualsivoglia Stato, e paese.14

Quasi nella stessa guisa di Plinio lagnavasi Petronio rapporto alla decadenza delle bell’arti, e specialmente della pittura. Se noi incominciamo, dice uno de’ suoi interlocutori,15 ad investigare perchè siano perite le belle arti, e perchè segnatamente la pittura lasciata non abbia neppure una traccia della sua esistenza16; il danaro, mi si risponderebbe, ha prodotto questo fatal cangiamento. Una volta i più valenti artisti procuravano con ardente zelo ed instancabile diligenza di formare de’ capi d’opera ad oggetto di [p. 65 modifica]ottenerne immortal fama, e non immense ricchezze. Noi al contrario, che siamo continuamente ebbri di vino, e d’amore non abbiamo neppur piacere di conservare ed apprendere le arti, e le cognizioni scoperte, o acquistate dai nostri antenati. Noi dileggiamo, e censuriamo l’antichità, e null’altro impariamo, ed insegniamo che vizj. Ove sono fuggite le più sublimi scienze, e particolarmente le vere nozioni di filosofia? Chi viene mai in un tempio a supplicare gli Dei di proteggere li studiosi suoi sforzi ond’egli riuscir possa un’abile oratore, ed un profondo filosofo? Niuno prega più i Numi ad oggetto di ottenerne un sano intelletto, o una buona salute; ma avvi persino chi prima di giungere alla soglia del Campidoglio promette a Giove un regalo qualora ei possa seppellir presto un suo facoltoso parente, o aver la sorte di mettere assieme un milione. Lo stesso Senato, il quale esser dovrebbe il modello, e il maestro di ogni buon’opera, è solito di promettere mille libbre d’oro al Dio Capitolino cercando in tal guisa di placar Giove stesso con un regalo affinchè niuno dubiti della sua avarizia. Non ti faccia adunque più meraviglia la decadenza della pittura mentre a tutti gli Dei, ed agli uomini una massa d’oro sembra più bella di ciò che quei ridicoli Greci, Apelle, e Fidia hanno fatto. Non si possono riputar esagerate queste [p. 66 modifica]lagnanze sulla decadenza della pittura allorquando si legge che Claudio uno dei più dotti Imperatori del primo secolo levar fece da due quadri di Apelle la testa di Alessandro magno, e dipingervi invece quella di Augusto.17

Benchè i Romani sotto i loro Imperatori non avessero altri vasi e piatti, ed altre tazze, e bottiglie che d’oro, e d’argento; benchè le pareti, i pavimenti, i soffitti, e i tetti de’ loro quartieri, bagni, e palazzi fossero coperti, o guarniti con ambedue quei metalli; benchè i loro corpi, ed i loro abiti comparissero piuttosto carichi che adorni di catene d’oro, d’anelli, e di fiori; e benchè in fine essi comprassero ad un prezzo esorbitante i lavori degli antichi artefici, tuttavia in un colla libertà si spense tra loro la maniera di fare dei capi d’opera d’oro, e d’argento, mentre gli ultimi maestri che avevano nella medesima potuto acquistarsi un nome vissuti erano nell’età di Pompeo18. Quest’arte, dice Plinio, di lavorare l’oro, e l’argento è così all’improvviso, e totalmente sparita che solo stimata viene da’ suoi pochi avanzi il di cui maggior pregio consiste nella più remota [p. 67 modifica]loro antichità imperocchè le più eccellenti di siffatte opere d’antichi artefici sonosi già talmente consunte che non se ne possono più ravvisar le figure19. È cosa sommamente notabile che i più prossimi forieri della decadenza di questa, come di tutte le altre arti furono certi lavori molto penosi, o delicati ma piccolissimi, inservìbili, e privi di gusto. Gli ultimi pittori della Grecia rappresentavano umili, e vili scene, ed oggetti, o certe figure che da qualunque parte vedute fossero, rimiravano del continuo chi le osservava20. In simil guisa gli ultimi scultori formavano piedi o altre piccole membra di formiche, e di simili animaletti, e certi cocchi coi respettivi loro cocchieri, che una mosca poteva cuoprirli21. Anche dagli ultimi argentieri lavorati furono alcuni bicchieri, e vasi così sottili, e delicati che non ebbesì dipoi neppur il coraggio di intraprenderne alcuna copia.22 [p. 68 modifica]

L’arte di formare delle opere perfette di bronzo andò a perire anche più presto di quella ultimamente accennata quantunque i Romani al tempo, dello stesso Plinio stimassero il metallo Corinzio più dell’argento, e dell’oro23, ed i loro Sovrani, e i lor Grandi nutrissero un tal affetto per alcuni capi d’opera di bronzo, che non volendoli perder, giammai di vista seco gli trasportavano ancora in tutti i lor piccoli, e grandi viaggi.24. Compra vansi i vasi, e le statue di antichi artefici per somme di danaro così esorbitanti che Tiberio trovò necessario di por freno con leggi, e gastighi alla manìa per siffatti oggetti d’arti di Delio e Corinzio metallo benchè sul principio del di lui governo, nel quale d’altronde si diportò con molta prudenza, e moderazione, non avesse potuto contenersi di levare dai bagni di Agrippa una statua in bronzo di Lisippo, che poi fu dal popolo qual sua proprietà richiesta col maggior trasporto.25. [p. 69 modifica]

A fronte di ciò la detta arte era già ai tempi di Plinio talmente decaduta che questo Scrittore dubitava se per rispetto alle opere che se ne facevano nell’età sua fosse meno valutabile la materia, o il lavoro; lo che gli arrecava tanto più meraviglia quanto che il prezzo di ogni oggetto di bronzo era andato all’eccesso.26. Plinio adduce nello stesso paragrafo la vera cagione di questo in apparenza contraddittorio fenomeno. I Romani, egli dice, non ivano già in traccia di vasi, e di statue di bronzo perchè essi sapessero distinguerne il merito, ma perchè così portava allora la moda, e perchè inoltre le opere di questo genere appartenevano alla mobilia, ed agli ornamenti delle case principali, e adulavano in tal guisa la vanità dei lor possessori. Nel mentre adunque che si profondevano tesori nella compra degli avanzi di cotest’arte antica trascuravansene, come accader doveva, i viventi maestri poichè niuno era più in istato di giudicare [p. 70 modifica]della bellezza dei lor lavori.27. Nerone, il quale certamente in materia di belle arti aveva più cognizione, e gusto della maggior parte de’ suoi contemporanei, preferendo dopo la statua d’un’Amazzone, cui egli sempre si traeva dietro, quella di Alessandro magno ad ogni altro oggetto d’arti da lui derubati a tutto lo Stato, e deposti nell’aurea sua casa, giudicò che quel suo diletto capo d’opera potesse riuscir più bello s’egli indorar lo faceva. La statua di Alessandro fu dunque realmente coperta d’oro che in seguito però a forza di raschiature le venne tolto giacchè il barbarismo non erasi ancora tanto inoltrato da non potersi comprendere che dessa perduta aveva una parte della sua bellezza con quell’aureo vestimento.28. Non tutti i capi d’opera peraltro cui erasi creduto abbellire coll’indorarli furono così felici come l’Alessandro di Lisippo da dovere, cioè, onde uscire da tal [p. 71 modifica]impaccio ricevere lacerazioni, e ferite dagli insulsi Romani, imperocchè Plinio fa menzione29 di una eccellente statua di Giano  5 che anche al suo tempo stava nascosta sotto una deformante tonaca d’oro30. Solo a tali persone, che indoravano i più insigni oggetti delle bell’arti, che si caricavano tutte le dita ed ogni parte delle medesime di anelli, e che ad un convito si cambiavano varie volte di abiti, solo a tali persone io dico poteva venir in mente l’insensata idea di servirsi degli stessi vasi Corinzj ora come bacili, ora come lampade, ed ora come catinelle onde tanto più spesso aver luogo di fame pompa31. L’arte di lavorare il bronzo disparve in Grecia unitamente alla libertà, ai buoni costumi, ed alla prosperità delle Greche republiche. Ella rivisse però, conforme accadde alle altr’arti, ed in parte ancora alle scienze verso la 155. Olimpiade  6 allorchè alcuni Re Greci dell’Asia, e particolarmente i Ricchi, e i Grandi di Roma incominciarono a stimare, e [p. 72 modifica]premiare gli artefici, e i letterali; ma in seguito perì per la seconda volta colla caduta della Romana repubblica, e non venne mai più rigenerata, o risvegliata fra i Greci, e i Romani.32

Tra le bell’arti quelle che più dell’altre si sostennero furono la scultura, e soprattutto l’architettura la quale anche in secoli barbari, sotto governi despotici, e fra popoli estremamente corrotti può giungere ad un non piccol grado di perfezione, e conservarvisi per lungo tempo. Le opere degli scultori vissuti sotto i primi Cesari riuscirono è vero molto inferiori ai capi-d’opera di un Lisippo, e di un Prasitele, tuttavia non mancarono esse di essere così plausibili che Plinio credette bene di doversi prender la pena di accennarle, e fame l’elogio.33. Le maraviglie della Romana architettura erette, ed ultimate sotto gli Imperatori dei due primi secoli non erano forse così concordi nel tutto, e così perfette in ognuna delle lor parti come gli edifizj de’ migliori tempi ma all’opposto esse superarono in grandezza, in arditezza, in durata, ed in parte anche in utilità non solo tutte le opere di simil genere, che prodotte avevano le [p. 73 modifica]età trascorse, ma eziandio quelle dei secoli susseguenti.  7

Le istesse cause che atterrarono le belle arti corruppero pure le scienze, e la lingua. Persone che fino dalla prima lor gioventù sì snervavano con tutte le sorte di vizj e di stravaganze, che passavano il giorno a laute mense, in debilitanti bagni, ed a voluttuosi, e sanguinarj spettacoli, e ravvolgevansi la notte nelle più impure compiacenze dei sensi non potevano sicuramente aver tempo, diletto, e vigore di dedicarsi a faticose, ed assidue occupazioni di mente. Una tale voluttà, crapula, mollezza, e manìa per ogni genere di spettacoli dalle quali fu sorpreso qualunque ceto, stato, ed età di persone sotto gli Imperatori, erano appunto colle scienze (da cui istruir debbesi lo spirito contra gli errori che specialmente hanno luogo circa al vero merito delle cose, e fortificar il cuore contro le pericolose passioni, ed i regnanti vizj) così opposte ed incompatibili come lo può essere il più alto splendore del Sole verso il meriggio colle più dense tenebre della mezza notte. Non riflettendo alla grandezza dello Stato Romano il quale abbracciava quasi tutti i popoli, che si trovano fra l’Eufrate, ed il mare Atlantico, sarebbe un’indissolubile enimma in qual modo con tali costumi, esempi, e governi si potessero ancora produr certi uomin [p. 74 modifica]di cui la setta stoica  8 ha con ragione motivo di andar fastosa. Questi formavano però, a dir il vero, un troppo piccol numero a confronto dell’infinita moltitudine di quelli indegni che null’altro avevano di filosofi se non che il nome, il vestito, e la barba, e trattavano la filosofia come un’arte onde introdursi nelle case dei Grandi, ed ivi dar pascolo agli occulti loro desiderj, e appetiti. Anche coloro i quali non dedicavansi al servizio, e alla schiavitù dei Grandi erano in sostanza o troppo scarsi di spirito per poter esaminare, schiarire, appropriarsi, ed estendere gli insegnamenti degli antichi, ovvero troppo vani, e corrotti, onde esser capaci di sentire l’alto pregio della virtù, ed encomiare, e raccomandare con energìa la felicità che deriva da una vita casta, moderata, e generalmente proficua. La maggior parte dei sedicenti filosofi, e maestri della virtù erano o secchi, e limitati interpreti dei più celebri autori della medesima setta da loro professata, o arguti, ed inutili sofisti oppure eccessivi fanatici, i quali non andavano in traccia della felicità, e della perfezione dell’uomo nella ricerca della verità, e nell’esercizio della virtù, ma solo nelle segrete, e sacre pratiche, ed azioni, e nel conversare con gli Esseri più sublimi, ed immaginarj. È cosa vergognosa, dice Seneca nel mentre ch’ei si scaglia con forza contro dei primi, [p. 75 modifica]per un vecchio, o per un uomo che già si accosta alla vecchiaja, l’attinger sempre tutto il suo sapere dai soli libri34. Ciò hanno detto Zenone, e Cleanto; ma cosa dici tu dunque? Fino a quando vuoi tu regolarti secondo i precetti, e gli esempi degli altri? Tutti quelli, aggiunge Seneca, i quali sono continuamente raccoglitori, ed interpreti dell’altrui massime, e non mai pensatori non hanno secondo la mia opinione nulla di nobile in lor medesimi, e non mai si cimentano di porre in esercizio ciò ch’essi furono capaci di apprendere dopo tanto tempo, e fatica. Costoro occupano soltanto la loro mente coi pensieri degli altri; ma è diverso l’imparare, e ritenere a memoria una cosa dal sapere. Imparare, e ritener a memoria vuol dire caricarsi il capo dell’altrui cognizioni. Sapere al contrario significa averne in proprio sopra qualunque oggetto, e non dipender sempre da un maestro, o appoggiarsi al di lui parere. Ci è necessariamente una differenza tra un uomo ed un libro; ma perchè debbo io ascoltare quello che legger posso da me medesimo con ugual profitto? - Il giurare adunque sulla parola di un maestro, e sulla penosa interpretazione di alcuni passi [p. 76 modifica]già letti era anche prima dei nuovi Platonici comune eziandio fra le altre Sette, ed ebbe origine dalla medesima povertà di pensieri, e timidezza di spirito le quali come un sistema d’insegnare, e d’apprendere lo riprodussero, e lo stabilirono in seguito per qualche tempo nell’età di mezzo.

La più dannosa come la più superba classe di interpreti, o ripetitori degli altrui insegnamenti veniva formata da coloro, che tra le opere degli antichi studiavano soltanto le dialettiche, e credevano di essere i più grandi di tutti gli uomini allorchè gettato avevano a terra i loro emuli, e contraddittori con inestricabili sofismi, ed argute dimande. Tali soggetti erano quei medesimi de’ quali Seneca, Luciano, Antonino, Epitetto, ed altri favellando dicono ch’essi non insegnavano alla gioventù l’arte di vivere, ma quella di disputare, che convertivano tutto il sapere in un’inutile tintura di molte cose, che abbassavansi perfino a considerare, e distinguere le parole, e le sillabe, ed introducevano nella filosofia tutte le superflue sottigliezze dell’altre scienze.35. Non solo la filosofia ma tutte [p. 77 modifica]le altre scienze ancora, e soprattutto la così detta grammatica, ossia guida per imparare a conoscere la lingua, e ad intendere i Poeti, e gli Istorici, la quale formava l’unica istruzione dei fanciulli, trovavansi ripiene di siffatte inutili questioni, ed indagini. Esaminavasi in ampie opere se Ecuba era stata più vecchia d’Elena, se Anacreonte divenne più voluttuoso che bevitore, se Saffo si rese una pubblica meretrice, qual fosse la vera madre di Enea, quanto vissero Achille, e Patroclo, e quai capitani fecero dapprima combattere i leoni, e quai gli elefanti, e così discorrendo. Anche senza la testimonianza di Seneca credere si potrebbe che i maestri, e gli indagatori di simili inezie fossero a un tempo le persone più indegne, e bramose di compiacer se medesime, e che a motivo di cotesta loro inclinazione, e verbosità riuscir dovessero, estremamente nojose ed insopportabili a tutti.36. [p. 78 modifica]L’eccessiva corruttela de’ costumi, e la quindi nascente barbarie ebbero tra i Greci, i Romani, ed altri popoli l’uniforme, ed infallibile conseguenza di fare, cioè, per ogni lato retrocedere le respettive nazioni verso la debolezza, e l’ignoranza dell’età infantile, d’ispirar loro uno smodato trasporto a fanciullesche dimande, ed inutili ricerche del pari che a puerili artifizj, e trastulli, e di renderle quindi incapaci di conoscere, e apprezzare la nobiltà, e la bellezza dell’arti, egualmente che il merito, e l’utilità delle scienze.

Non meno orgogliosi degli arguti Dialettici, o Sofisti erano i Retori filosofi, i quali si servivano della filosofia come dì un’arte onde lusingare, e divertire le altrui orecchie, e convertirono tutto il loro sapere in una serie di pomposi, ed eleganti discorsi in cui venivano ad una ad una lodate tutte le virtù, e la filosofia, e combattuti i regnanti [p. 79 modifica]vizj con ogni mezzo della più vaga, e fiorita oratoria. L’abitudine d’esporre tutta quanta la filosofia in un seguito di declamazioni era già in voga fra gli antichi Sofisti Greci, rinacque in Grecia dopo la caduta della libertà, e si dilàtò poscia sotto il governo dei Romani Imperatori in tutte le Sette, e persino in quelle che già si erano fatte conoscere nemiche dichiarate di ogni sorta di parlare e di scrivere con eleganza, ed affettazione. I studiati parolai, che davansi il nome di filosofi non volevano già istruire, e correggere, ma unicamente figurare, e sorprendere. Essi non cercavano già di piacere ai Saggi ma alla volgar moltitudine, motivo per cui il loro discorso romoreggiava come un rapido torrente di altituonanti parole ad oggetto di scuotere soltanto le orecchie, e la fantasia degli uditori. Seneca, che come scrittore procurava sempre di comparir alquanto diverso, da ciò ch’egli era realmente, e che biasimava col maggior calore quei difetti medesimi a cui maggiormente inclinava, ci avverte in molti luoghi delle sue lettere a guardarci da questi apparenti Dotti i quali si vendevano come Istrioni, e deturpavano la venerabil Dea della sapienza col falso ornamento, e col belletto di una disonorata virtuosa di ballo.37. [p. 80 modifica]Siffatti declamatori non solo parlavano di frequente nei Ginnasj, ed in altri pubblici luoghi, ma eziandio nelle Biblioteche, sui Teatri, e negli stessi banchetti. I brillanti discorsi, e le verbose disfide dei Filosofi appartenevano ai divertimenti delle tavole dei primarj Romani come le pugne de’ Gladiatori, e dei feroci animali38.

Tali maestri, quali furono per la massima parte, i filosofi dei primi secoli dopo la nascita di Cristo39, avrebbero anche in tempi migliori [p. 81 modifica]difficilmente ispirato alla Gioventù un vivo desiderio di giungere al possesso di utili cognizioni, e di sane massime, e molto meno erano essi in grado di ampliare i confini di quella scienza di cui pretendevano di dar lezioni. I giovani Romani erano però allora così malamente occupati che anche gli uomini saggi, e virtuosi, che di tanto in tanto sorgevano, non trovavano che poco, ovvero alcun ascolto, mentre ogni persona a tutt’altro si applicava e con maggior zelo che allo studio della vera filosofia, e dell’altre scienze. In Roma sotto gli Imperatori ricomparve lo stesso fenomeno, che Cicerone alcune età avanti osservato aveva nella spossata, e languente Grecia.40. Benchè nelle Greche città tutti i Licei ripieni fossero di filosofi, tuttavolta i giovani Greci preferivano i più vani esercizj ginnastici all’esposizione, o spiegazione delle più importanti verità, ed abbandonavano i proprj maestri in mezzo ai loro discorsi tostochè veniva l’ora di ungersi il corpo con diversi unguenti41. [p. 82 modifica]Con egual leggerezza i Romani Giovani correvan in folla negli anfiteatri, nei bagni, nelle cucine dei Parasiti, nei luoghi io cui venivano istruiti, ed esercitati i comici, i ballerini, e i suonatori non che nelle case di pubblico bordello, e portavansi unicamente ad udire i filosofi quando gli tormentava la noja nelle giornate piovose, ed oscure, ovvero in quelle in cui essi procurar non potevansi una distrazione più dilettevole.42 V’erano persino varj soggetti così deboli di capo, i quali per molti anni stavano ad ascoltare un filosofo, e gli sedevano per così dire al fianco senza esserne perciò notabilmente istruiti, e corretti; ma la maggior parte degli uditori consisteva in certi individui i quali frequentavano le scuole dei filosofi per la medesima ragione con cui si trasferivano ai teatri.43 Costoro non vi andavano [p. 83 modifica]già per deporre ai piedi de’ maestri i propri vizj, o per riceverne massime, ed istruzioni onde regolar la lor vita, ma solo per divertire le loro orecchie. Alcuni pochi portavano seco varie tavolette nelle quali peraltro invece di nuovi, ed utili pensieri scrivevano piuttosto belle, ed eleganti parole. Or l’uno, or l’altro veniva è vero da qualche magnifico tratto di un discorso di tanto in tanto riscosso dal vaneggiamento de’ suoi piaceri, ma queste impressioni sparivano anche prima che essi se ne ritornassero alle proprie case, e rimanevano quindi così infruttuose come il sonoro, e pubblico applauso che alcuni bei squarci di commedie riscuotevano dalla corrotta moltitudine, ove le persone al maggior segno viziate mandavano spesso gridi di gioja nell’udir accennare, e riprendere con energia le loro scelleratezze, ed oscenità44. [p. 84 modifica]Gli stessi Giovani più diligenti non visitavano già i più celebri filosofi ad oggetto d’istruirsi il cuore, ma lo spirito, non per viver bene, ma per imparare a discorrere con eleganza45. A causa d’una tale depravazione, e incapacità dei maestri, e d’una tale freddezza negli scolari la filosofia, e le altre scienze dovevano necessariamente andar in rovina appunto come Seneca già se ne lagnava nell’età sua46.

La decadenza delle scienze fù tanto più veloce, ed irreparabile quanto che sotto i crudeli, e perciò sospettosi Imperatori, il Despotismo agiva di [p. 85 modifica]concerto con la corruttela dei costumi, e colla quindi nascente incapacità di prestarsi a qualsivoglia buon’opera. Sotto Tiberio, Nerone, Domiziano, ed altri consimili Regnanti il distinguersi in qualunque modo con un metodo particolare di vita, o coi proprj meriti era stimato una congiura, e veniva al pari dello zelo per la virtù, e dell’elogio degli uomini onesti, che si riputavano quai delitti di lesa maestà, punito con la proscrizione, o con la morte. Seneca stimolato dall’esempio di alcuni dei primarj fanatici erasi nella sua gioventù astenuto per un’anno intero dal far uso di carni allorchè Tiberio proibì in Italia la pratica di straniere Religioni, e il culto di Dei forestieri. Il giovine Seneca pertanto non si arrischiò di continuare la sua supposta pura, o pittagorica vita giacchè il non cibarsi di certi animali consideravasi come una prova di straniera superstizione47. Nerone venne da sua madre avvertito di guardarsi dalla filosofia, quasi ch’ella sia una nemica dei Sovrani, e dei Troni, nel modo stesso che Seneca lo distolse dallo studio degli antichi Oratori48. La stoica filosofia era quella, che particolarmente veniva odiata dandosele la taccia d’ispirare a’ suoi alunni uno smodato orgoglio, uno [p. 86 modifica]spirito oltremodo inquieto, e intrigante, ed un pericoloso sentimento di libertà. Tigellino addusse qual punto principale della sua accusa contro Plauto49 che costui abbracciato aveva la stoica filosofia, e d’imitar cercava gli antichi Romani. Questi medesimi delitti furono altresì nel modo il più odioso50 imputati dai rispettivi accusatori a Trasea Pelone, ed a Barea Sorano; e non molto avanti la morte dì questi due grand’uomini subìto avevano la proscrizione Virginio, e Rufo per essersi essi come celebri maestri della gioventù resi sospetti alla Corte.51. [p. 87 modifica]Tali persecuzioni, che Nerone, e i suoi favoriti esercitavano contro gli amici della virtù, e della sapienza sparsero un così general terrore che Plinio il vecchio negli ultimi anni dello stesso Imperatore non ebbe il coraggio di scrivere se non che sopra questioni grammaticali mentre le più libere, e sublimi ricerche unite andavano col pericolo della morte52.

Sotto Vespasiano vi fu Elvidio Prisco, il quale pel suo intempestivo orgoglio, e per la sua ostinata opposizione si meritò certamente se non la morte almeno l’esiglio a cui dapprima condannato venne da quel Monarca53. Domiziano peraltro non solo volle che giustiziati fossero il giovine Elvidio, Giunio Rustico, e Senecione pel motivo che essi nei loro elogj di Trasea e d’Elvidio Prisco dato avevano a costoro il nome di sacri, e di venerabili54; ma [p. 88 modifica]fece eziandio abbruciare i loro scritti, e cacciò da Roma, e dall’Italia tutti i filosofi affinchè, come dice Tacito, in niun luogo udir si potesse, e vedere alcuna cosa di sublime, e di buono55. Per quindici anni non fu intesa in Roma, e in Italia la voce di alcun maestro della gioventù, e in tutto questo spazio di tempo rimase chiusa la bocca degli amici della libertà, e inoperosa la mano dell’Istorico. Quando finalmente sotto il governo di Nerva, e di Trajano sparì colla dura schiavitù anche il silenzio di morte, che per tanti anni signoreggiato aveva in Roma, e in Italia, ed i pochi sopravvissuti ai proprj amici, ed in parte a se medesimi ardirono nuovamente di parlare, e di scrivere allora si avviddero essi col maggior spavento che a motivo di una si lunga inazione le loro [p. 89 modifica]lingue, e le loro penne erano divenute presso che imbecilli, o novizie. Lo stesso Tacito credette bene di chiedere scusa a’ suoi lettori se egli con una rozza, ed imperfetta lingua di conservar cercava la memoria di suo suocero. Niuno leggerà alcerto senza provare la più interna emozione l’eccellente pittura fatta da Tacito nel principio della sua vita di Agricola per rispetto alla terribile angustia di spirito, e d’ogni sentimento di libertà, che pur troppo regnava sotto il governo di Domiziano. Questa pittura merita d’esser sempre ponderata, e riletta qualora concepir si voglia la più forte avversione contro il despotismo natural nemico, e distruttore dell’ingegno, e della virtù56. [p. 90 modifica]

Per quanto grande fosse il danno cagionato dalla tirannia dì alcuni Imperatori, tuttavia avrebbe desso potuto essere facilmente risarcito da quella serie di buoni principi, che da Nerva fino ad Antonino il filosofo dominarono per quasi cent’anni consecutivi il Romano Impero. Privo però affatto di rimedio era il male cui pur troppo l’insanabil caterva de’ vizj aveva prodotto, talchè la distinta stima che Nerva, ed i suoi successori dimostrarono per tutte le specie di dotti non meno che le grandi ricompense colle quali gli arrichirono, furono al più capaci di trattener alcun poco, ma non d’impedire affatto la total rovina delle scienze, e dell’arti. Sotto gli stessi buoni, ed illuminati Imperatori i premj, e particolarmente gli annuali stipendj che i medesimi, e quasi tutte le grandi, e mediocri Città dello Stato destinato avevano pei [p. 91 modifica]maestri della lor gioventù venivano conferiti piuttosto a prediletti corteggiani, ed a cabalisti che a persone dotate di un vero merito57. Anche le contenziose dispute degli Oratori, e de’ Poeti istituite, e date da Caligola58, da Nerone,59 e persino da Domiziano60 considerate esser non possono come incoraggimenti alla poesia, ed all’eloqueuza, imperocchè era più l’onore, ed il lustro che i detti Professori, e le loro arti vi perdevano di quello che fosse il guadagno, che essi ne traevano in distintivi, o in danaro.61. In egual [p. 92 modifica]modo poco incoraggiante fu pure la generosità colla quale Claudio fondò in Alessandria accanto al vecchio un nuovo museo in cui venivano mantenuti a sue spese varj Letterati insigni, giacchè la causa di una tale fondazione non provenne già da un distinto zelo per le scienze, ma da uno spirito di vanagloria essendosi da quel monarca prescritto che in uno di detti musei legger si dovesse annualmente la Storia Tirrena, e nell’altro quella di Cartagine ambedue parto della sua penna62. I medici furono tra tutti gli eruditi i primi a ricevere ogni anno pensioni dalla Corte nella guisa stessa che innanzi all’altre le città della Gallia stabilirono annuali stipendj pei maestri della lor gioventù63. Le paghe dei medici stipendiati dalla Corte erano al meno tre volte, e mezzo, e persino cinque volte maggiori di quelle, che Vespasiano distribuir faceva ai Greci, e ai Romani Retori64 giacchè questi ricevevano soltanto tre mila talleri l’anno della nostra moneta laddove agli altri se ne [p. 93 modifica]contavano 7500, e inclusive quindici mila. Adriano fece di buon grado, e con frequenza ricerca di tutte le classi di dotti, e gli dotò di ricchi stipendj; e poscia trovandone alcuni impotenti, od inabili li congedava dopo di aver però da suo pari provveduto al loro sostentamento65. Antonino Pio non solo collocò in tutte le provincie grammatici, Retori, e filosofi stipendiati da lui ma gli innalzò ancora ad importanti impieghi onorifici66, come pure praticarono in seguito Antonino il filosofo67 e Alessandro severo68. Il favore, e la generosità, di cui i mentovati Romani Imperatori fecero uso verso tutti i Dotti eccitarono senza dubbio molte persone a tentare di segnalarsi nella poesia e nell’eloquenza69, ma questa piccola vanità, e il desiderio di formare la propria fortuna erano un contrappeso troppo debole a confronto della general impotenza, e scostumatezza. Anche sotto i Governi più miti e liberali pochi furono sempre coloro, i quali per un interno impulso del loro genio, e per l’eccellenza della lor natura si elevarono al [p. 94 modifica]sopra della debolezza, e dell’abjezione de’ proprj contemporanei, e questi pochi appunto eran quelli dai quali sentivasi, e compiangevasi l’impossibilità di far sussistere, o richiamare le già invecchiate, e moribonde Scienze70. Per quanto si può giudicare di que’ Soggetti di cui ci sono rimaste le opere, e che specialmente Plinio loda nelle sue lettere, i Governi di Trajano, e di Adriano furono più favorevoli alle Scienze, e più ricchi di autori insigni che lo stesso Governo di Augusto; imperocché sotto i medesimi verseggiarono, declamarono, e scrissero Tacito, Plinio il giovine, Giovenale, Marziale, Quintiliano, ed Epitteto  9 senza far menzione di molti altri i quali non meno di questi si resero a quel tempo rinomati, e famosi. Sotto gli Antonini, oltre ad Antonino il filosofo, Luciano, e Galeno furono gli ultimi figli del moribondo ingegno. Dopo di loro i Greci, e i Romani, e tutte le Scienze, e le arti degenerarono in guisa che in esse non si formò più un sol uomo veramente grande, ed un sol capo d’opera.

Una natural conseguenza del decadimento delle Scienze, e soprattutto della filosofia fu la smisurata preponderanza di qualunque specie di penosa, [p. 95 modifica]e corruttrice superstizione la quale infallibilmente s’impadronisce di ogni stato, ceto, ed età di persone tostochè si cessa di esaminare, e di riconoscere giustamente se stesso, la natura, e il sublime di lei autore. Fra tutti gli scrittori dei due primi secoli se ne possono appena nominare tre, o quattro, i quali ebbero tanta fortezza d’animo da sottrarsi al vergognoso dominio dell’anzidetta Tiranna dello spirito umano. Sotto i primi Imperatori si adoperarono furiosamente, e varie volte il ferro, ed il fuoco contro il successivo progresso della regnante superstizione; ma siccome ne sparivano sempre più i soli rimedj che sono una giusta cognizione di se medesimo, e della natura così la lotta coi nemici della verità, e coi seduttori dello spirito non ebbe miglior effetto di quella già intrapresa contro gli Antagonisti della virtù, e i corruttori del cuore  10. Si venerò in breve qual secreta, e divina sapienza ciò che i Padri cercato avevano di estinguere qual pericolosa, e vana credulità, e vennero umilmente onorati, e consultati come maestri degli uomini, e confidenti dei numi certi fanatici, ed impostori, che una, o poche età prima erano stati quai nemici della paterna religione, e come seduttori del popolo esiliati, e distrutti.

Il primo sorprendente effetto di quella [p. 96 modifica]debolezza di spirito prodotta dalla mancanza di coltura, e di giuste cognizioni fù un’insuperabile trasporto a stranieri Dei, che poscia venne seguito da un disprezzo per l’antica religione del popolo. Siccome una volta tutti i selvaggi, e persino le numerose nazioni pagane dell’Asia meridionale veneravano i Santi, e le Immagini dei Cristiani, e facevano orazione nelle Chiese dei medesimi; e siccome anche adesso tutti i popoli maomettani si fanno bene spesso dir delle messe nelle Chiese dei Cristiani non che recitare devoti preci all’Altissimo, e scrivere degli amuleti tanto da questi che dagli Ebrei allorchè essi hanno invano supplicato i loro Dei, o il loro Dio e Profeta, così gli incolti Greci, e Romani ricorrevano nel modo medesimo, e per la stessa causa agli Dei di straniere genti. Comecchè a quel tempo fra tutti i paesi soggiogati dai Romani non ve n’era alcuno, tolta la Grecia, il quale avesse una così stretta relazione coll’Italia come l’Egitto, e da cui, eccettuata parimenti la Grecia, venissero a stabilirsi ovvero a dimorare per molti anni in Roma tante migliaia di persone come dalla Giudea, non deve recar meraviglia se i Romani si abbandonarono primieramente al culto degli Dei Egizj, e concorsero anch’essi alla celebrazione dell’Egizie, e Giudaiche feste, e costumanze. Già sotto Tiberio la religione Egizia più [p. 97 modifica]volte proscritta anche nei tempi della republica, e quella degli Ebrei, che credevasi ad essa intimamente congiunta, trovati avevano in Roma tanti seguaci, e prodotte tante, e si notabili segrete società, e pericolose stravaganze che si giudicò necessario di proibire col maggior rigore d’ingerirsi in qual si voglia modo nell’Egizie, e Giudaiche feste, ed in qualunque altra straniera pratica, ed azion religiosa. Vennero trasportati in Sardegna col pretesto di por freno alle ruberie che commettevansi in quell’Isola quattro mila Liberti infetti, come dice Tacito, della medesima superstizione, e fu ingiunto a tutti gli altri nati liberi, che frequentato avevano i tempj degli Ebrei, e presa parte nelle divine Egizie cerimonie di abbandonare immediatamente l’Italia, se in un dato tempo distolti non si fossero dalle straniere empie religioni71. Questo comando ebbe però un così piccolo, e breve effetto, che già sotto Claudio allegavasi qual causa principale della [p. 98 modifica]decadenza dell’etica Etrusca Astrologia il sempre crescente numero, e dominio di Religioni, e costumanze straniere72. Dal Governo di Tiberio, e di Claudio fino all’epoca in cui il vero Dio, e i veri Santi dei Cristiani finiron di abbattere tutti i falsi Dei nello Stato Romano si accrebbero in ogni età il numero delle straniere Sette, e la moltitudine degli adoratori de’ Numi stranieri. La massima parte degli imperatori Romani adoravano più i forestieri che gli antichi Numi del loro popolo, e tra i primi soprattutto gli Egizj, ed in special modo Iside, che considerata veniva come la più sublime, o benefica divinità73. Colla moltitudine, [p. 99 modifica]e diversità degli Dei, si accrebbe pure in ugual proporzione il numero delle azioni, e delle feste religiose. Vedevansi in tutti i luoghi, e segnatamente in ogni strada sacre pietre, o zolle asperse d’olio, e d’altre libazioni; sacre colline, e grotte cinte di siepi, oppure ombreggiate da frasche; sacri faggi, e quercie da cui pendevano corna, e pelli di bestie; e per ultimo sacri altari che venivano giornalmente o in determinati tempi coronati [p. 100 modifica]di fiori; ed era difficile di trovare un viaggiatore così incurante dei numi il quale fermato non si fosse a far orazione presso questi sacri, e divini oggetti74. Apulejo tacciò come di una imperdonabile irreligione il suo avversario perchè questi offerto non aveva agli Dei, che lo vestivano, ed alimentavano nè le primizie dei frutti, nè quelle delle greggi, e delle viti; perchè non vedevansi ne’ suoi poderi, nè cappelle nè sacri boschi, o altri luoghi sacri, e nè tampoco una pietra unta, o una frasca guarnita e inghirlandata di fiori75. Tutti questi pubblici atti di religione non sembravano però sufficienti ai superstiziosi Greci e Romani per assicurarsi la grazia, e la protezione degli Dei. Essi facevansi iniziare ancora nei misteri della maggior parte delle straniere divinità, e le più stravaganti donne, e i più empj tiranni si compiacevano di soffrire per tali iniziazioni i digiuni, le astinenze, ed altre mortificazioni le più rigorose non meno che a deformarsi persino il corpo, e in special modo la testa76. Apulejo vantavasi perciò d’innanzi ai suoi Giudici delle proprie iniziazioni, e [p. 101 modifica]dei sacri segni che egli riportati ne aveva dicendo liberamente che un vero filosofo adorar deve tutti gli Dei, ed esser un perfetto indovino, od interprete delle viscere di tutte le bestie77. Quanto più si aumentavano gli Dei stranieri, e i loro superstiziosi aderenti tanto più cresceva il numero degli ingannatori, che si prevalevano della debolezza de’ proprj contemporanei ad oggetto di appagare i loro desideri, e appetiti, e segnatamente la loro avarizia. Per tutte le contrade d’Italia, e di Grecia andavano in giro i se dicenti Sacerdoti della Dea Siria, d’Iside, d’Osiride, e di Mitra  11, e colle loro ciarlatanerie, e predizioni non solo essi rubavano all’ignorante plebe gli ultimi oboli  12, che lasciati le aveva la rapacità dei comandanti, ma trovavano altresi la più favorevole accoglienza presso i Ricchi, ed i Grandi78. La mostruosa moltitudine degli Dei forestieri, e de’ loro Sacerdoti produsse in seguito ancor più che sotto Claudio la non curanza dei patemi numi, e della lor religione, a segno tale che niuno si prese più la minima cura [p. 102 modifica]di Giove, d’Apollo, e d’altre aotiche divinità Greche, e Romane, e de’ loro divini oracoli mentre i vagabondi, e dapertutto sparsi ingannatori pronunziar facevano sentenze ad ogni immagine, ad ogni pietra, a ogni altare e ad altre consimili inezie per pochi oboli79. A causa del crescente numero degli Dei, e de’ loro Sacerdoti, delle pubbliche, e segrete feste, ed altre azioni religiose disparvero sempre più tutte le giuste idee della natura della divinità, quelle del vero culto della medesima, e della vera virtù e pietà; e l’ignoranza, e la superstizione divennero tra i Greci, e i Romani come presso tutti gli altri popoli le più pericolose nemiche della virtù, e i più validi sostegni di quella medesima corruttela de’ costumi da’ cui erano esse state prodotte. I Greci, e i Romani consideravano è vero anche anticamente i loro Dei come altrettanti esseri vani, egoisti, parziali, e facili ad essere subornati, e corrotti ma non li credetter mai così consimili, o piuttosto uguali alle persone più deboli, e viziose conte nei tempi in cui essi erano al maggior segno divenuti tali. I contemporanei di Petronio, e di Seneca80 non supplicavano [p. 103 modifica]già gli Dei di conceder loro una piena vittoria contro il nemico, o una buona salute, o un felice avanzamento nelle scienze, e nell’arti, ma bensì pingui eredità, e la morte de’ proprj genitori, figli, congiunti’, ed amici. Essi chiedevano pertanto ai Sacrestani, o Custodi dei Tempj la facilità di accostarsi più che fosse stato posibile alle statue dei respettivi Dei sulla speranza di esser meglio ascoltati dai medesimi, e segnatamente ad oggetto di poter lor dire all’orecchio i proprj infami desiderj, e voti senza che alcuna persona arrivasse ad intenderli81. Nel Tempio di Giove Capitolino v’erano alcuni soggetti i quali riferivano a questo Dio i nomi de’ suoi presenti adoratori, o annunziavan le ore. Altri facevano le veci di Trabanti  13 o di unguentarj, e quest’ultimi agitavano le braccia, e le le mani come se realmente ungessero un uomo. Trovavansi ivi inoltre varie donne le quali acconciavano i capelli a Giunone, e a Minerva, e che quando riusciva loro di troppo incommodo um tal ufizio rimanevano lungi dai [p. 104 modifica]Templi, e movevano le dita, e le mani come appunto praticar solevano le pettinatrici in quel tempo. Altre tenevano lo specchio avanti a quelle Dee, o stavano a sedere nel Campidoglio credendo di essere amate da Giove. Nell’età medesima di Seneca molti uomini ferivansi e mutilavano persino il proprio individuo sull’esempio dei Sacerdoti della Dea Siria, e di altre deità feminili; ed intraprendevansi al dire dello stesso autore come atti di religione certe cose così improprie, indegne, e forsennate che quelli i quali le praticavano sarebbero stati senza difficoltà tenuti per pazzi qualora fossero essi stati pochi, ma allora il gran numero degli insensati era una prova del loro sano intelletto82. [p. 105 modifica]La stessa debolezza, ed ottusità di mente le quali nascer fecero nei Greci, e ne’ Romani il trasporto a straniere sette, e religioni li disposero altresì a credere di osservar da per tutto soprannaturali cause, ed effetti, a prestar fede a tutte le sorte di prognostici, e di vaticinj, e specialmente alla magia, ossia all’arte di tentare a forza di esorcismi, ed altri incantesimi di rendersi soggetti gli spiriti, e i numi, di richiamar dall’ombre le anime dei trapassati, di resuscitare i morti, di oscurare, e far discendere i corpi celesti, di comandare agli elementi, di prender, e depor varie forme, di convertire gli uomini in bestie, di rimovere, guarire, e produr malattie, di tormentare i nemici per mezzo di Demonj, di suscitar passioni indomabili, e in fine di sapere coll’ajuto di spiriti officiosi la sostanza, e l’avvenimento d’innumerevoli cose, e vicende.

Siccome fra gli stessi Grandi Romani degli ultimi tempi della repubblica eravi appena un sol individuo il quale fosse libero da tutte le catene della superstizione, e segnatamente da ogni timore dei pretesi prognostici, e vaticinj dell’avvenire, così sarebbe superfluo, ed inconcludente il voler provare che anche tutti i Romani Imperatori, niuno eccettuato, e con essi la massima parte de’ primarj soggetti prestavan fede a siffatte inezie, e inganni. Perciò è assai più importante di osservare, che [p. 106 modifica]moltiplicandosi il numero dei superstiziosi aumentossi ancora la moltitudine dei misteri, e de’ loro interpreti, e che per conseguenza sotto i primi Imperatori ne nacquero immantinente molte specie di pretese divinazioni di cui nei tempi della libertà almeno nelle principali famiglie erasene appena fatta vedere una traccia. A queste false arti apparteneva singolarmente l’astrologia, che da Tiberio in poi divenne sotto il maggior numero dei susseguenti Romani Imperatori uno dei primi, ed indispensabili raggiri della corte conforme essa lo era, e lo è ancora presso tutte quelle degli Asiatici, e Africani despoti. Comecchè peraltro i primarj Romani non erano meno degli stessi loro Monarchi portati a credere all’astrologia, o come dir solevasi, alle arti dei Matematici, e de’ Caldei, e siccome alcuni intraprendenti, ed alteri superstiziosi sedur lasciaronsi dalle promesse degli Astrologi, e dei Maghi circa al formar congiure, e sollevazioni, così i primi Romani Imperatori fino a Vespasiano perseguitarono appunto quella scienza medesima da loro creduta soprannaturale, e che di buon grado voluto avrebbero appropriarsi, e posseder essi soli come un segreto. Benchè Tiberio annoverasse tra i suoi più confidenti amici l’astrologo Trasillo, e credesse di aver da costui imparata a fondo l’astrologia, e fosse anche da altri tenuto per un’abile e dotto [p. 107 modifica]astrologo83 tuttavia egli cacciò d’Italia tutti i Caldei, ed i Maghi, e ne fece persino giustiziar molti, dopochè Libone Druso  14 erasi dalle promesse degli uni, e degli altri lasciato sedurre ad ardite speranze84. Con uguale severità procedè Claudio contro questi ingannatori sul motivo che alcuni de’ primarj Romani voluto avevano indagar da essi il tempo, e il genere della di lui morte85. Nulla dimeno varj ne rimasero in Roma, o vi fecero ritorno prima ancora dell’avvelenamento di Claudio, giacchè Nerone non arrischiossi di portarsi dall’Imperial palazzo nel campo dei Pretoriani fintantochè i Caldei non gli ebbero annunziata l’ora propizia86. Nerone credeva così fermamente nella magia come nell’astrologia. Egli provò tutte le arti magiche, e fece con immensa spesa venir Tiridate in Italia onde potere col mezzo dei suoi segreti, e di quelli de’ suoi compagni scuoprire i pericoli che gli sovrastavano, ma segnatamente per richiamar dall’ombre la spenta sua [p. 108 modifica]genitrice, ed espiare l’innatural delitto da lui contro di essa ordinato87. Lo stesso Nerone però che profuse molti millioni in Tiridate, e nell’ingannevoli di lui arti, condannò una nobile, ed innocente romana fanciulla, cioè la figlia di Sorano alla morte, atteso che la medesima in quanto alle sue gioje, a’ suoi migliori abiti, ed a tutto ciò che ella possedeva di più singolare fatto avevane un regalo ai maghi, non già per arrecare con esorcismi, e scongiuri alcun pregiudizio al detto Nerone, o per sapere il termine della sua esistenza, e l’esito delle congiure tramate contro la di lui vita, ma solo ad oggetto di scuoprire se egli, o il Senato avrebbero assoluto il diletto suo padre88. Ottone non men di quel che Nerone avea fatto, credeva agli astrologi, e soprattutto a Tolemeo che era della scuola di Nerone, e di Poppea89. I medesimi astrologhi furono la causa [p. 109 modifica]principale per cui Ottone insorse contro Galba; ed a questo proposito esprime Tacito l’altrettanto vero che celebre suo giudizio sopra tali indovini dicendo, che essi erano una classe di persone pericolose ai Sovrani, ed infedeli nelle loro promesse, e che a forza di maneggi, e d’intrighi pervennero sempre a mantenersi in Roma benchè ne fossero del continuo proscritti90. La gran parte che ebbero gli astrologhi nella rivolta di Ottone diede probabilmente motivo all’Imperator Vitellio di scacciarli tutti dall’Italia91. Siffatto gastigo però da lui inflitto sopra costoro non valse a difenderlo dall’influenza della regnante superstizione, ch’egli estirpar voleva. Vespasiano prestava orecchio alle dicerie di tutti i profeti, e degli indovini, e tra queste specialmente alle decisioni degli astrologhi, e dei Maghi, talchè i più favorevoli augurj di tali ingannatori indur lo poterono a ribellarsi a Vitellio, siccome di già fatto avevano con Ottone [p. 110 modifica]rispetto a Galba92. Il medesimo Vespasiano allorchè fu Imperatore tenne del continuo presso di se l’astrologo Seleuco in qualità di uno de’ suoi più intimi consiglieri ed amici. Io ho già fatto altrove menzione dell’illimitata confidenza, che i successori di Vespasiano riponevano nell’astrologia, ed in tutte l’arti magiche93, onde altro quì non aggiungo, se non che nel secondo secolo ai tempi di Plinio, e di Luciano, tutte le sette dei filosofi94, e con questi i medici sedur lasciaronsi dalle stravaganze degli indovini, e degli astrologhi95; che similmente nel principio del terzo secolo la filosofia degenerò in un ammasso di arti magiche, ed astrologiche96; e che tutti gli Imperatori, ed i Grandi, porgevano del continuo maggior fede agli stranieri astrologhi, ed incantatori, vale a dire Egizj, Caldei, Siriaci, Arabi, ed Iperborei di quello che ai proprj Auguri per la ragione medesima che i caratteri, e i termini barbari, o non Greci [p. 111 modifica]sembravano loro più energici, ed espressivi dei Greci97. Da Vespasiano fino agli Imperatori cristiani gli astrologhi, e i maghi non solo non vennero più disturbati da alcuno, ma furono inclusive protetti, e stipendiati da varj di quei regnanti affinchè i medesimi insegnar potessero pubblicamente le loro arti stimate le più sublimi, ed importanti di tutte.98

Nell’opere de’ migliori scrittori dei due primi secoli s incontrano certi passi, i quali potendo far nascere alcuni dubbj per rispetto all’innegabile decadenza di tutte le arti, e scienze, non meno che sul quindi nascente progresso, e dilatamento di ogni genere di superstizione meritano perciò di essere riportati con qualche glossa, e dilucidazione. Chi v’ha tra di noi, dice Quintiliano, se non è l’uomo il più sciocco del mondo, il quale non parli di virtù, di equità, e di giustizia? Fra le istesse nostre genti di campagna pochi son quelli, che non abbiano, o non procurino di avere qualche lume sulle naturali cause delle cose99. Una volta^ il rozzo, e ignorante popolo, osserva il difensore della sua età nel discorso sul decadimento [p. 112 modifica] romana eloquenza, stava ad udire con piacere la mostruosa lunghezza dei discorsi di Cicerone, e de’ suoi contemporanei, e più antichi oratori; anzi stimavasi allora persino un prodigio se qualcuno arringava un giorno intero, ed esaltato veniva fino al Cielo quello il quale gettato avendo alcun poco gli sguardi nella filosofia ne inseriva qualche bel pensiere ne’ suoi discorsi.

Ciò non deve al certo in alcun modo recar maraviglia, mentre pochissimi erano allora gli stessi oratori, che conoscessero i precetti, e le massime de’ Retori, e de’ Filosofi. Siccome però adesso tutte queste cognizioni sono sparse generalmente, e fra i medesimi uditori appena se ne trova uno solo il quale appreso non abbia gli elementi delle scienze, così bisogna far uso di mezzi del tutto nuovi, ed insoliti per cattivarsi sempre più l’attenzione degli ascoltanti, e dei Giudici100.

Io non credo, scrive Seneca101, che io debba prendermi la pena di ripetere il canto di Epicuro, e di dimostrare in opere voluminose che il timore dei luoghi sotterranei è un vano oggetto; che nè Issione giri la sua ruota, nè Sisifo l’enorme suo sasso; che le viscere dei dannati non possono del [p. 113 modifica]continuo esser fatte in pezzi, e rimesse nel primiero lor stato. Niuno è tanto bambino da prestar fede a Cerbero, o all’oscurità del Tartaro, oppure alle vaganti ombre dei Defunti, Più di tali espressioni ancora son noti i versi di Giovenale ove questo poeta esprime un’egual miscredenza de’ suoi contemporanei102. La plebe di Atene, al dir di Luciano, non solo stava ad udire con indifferenza un’epicureo, ovvero uno stoico disputare contro la Provvidenza, ed attaccarla senza riguardo, ma inclinava persino dalla parte del di lei avversario, ed oppugnatore giacchè costui secondo il comun parere aveva meglio difeso il proprio argomento103.

Quand’anche io non fossi in grado di indicare il senso, e le restrizioni con cui intender si debbono i testè riferiti passi, tuttavolta questi universali giudizj non formerebbero alcuna prova contro le innegabili, ed uniformi cose di fatto da me narrate. Trovavansi allora, come si trovano anche adesso, fra i più celebri letterati varj partiti opposti, quando specialmente si trattava o si tratta [p. 114 modifica]di giudicare del merito della propria età. Ai tempi di Tacito, e di Quintiliano v’erano molti soggetti i quali inalzarono tanto il gusto e lo stile retorico, ed oratorio della loro età sopra quelli degli antichi secoli quanto altri gli depressero, ed avvilirono conforme per esempio praticato venne dall’oratore Aper nel discorso sul decadimento dell’eloquenza. D’altronde è molto verosimile che ai tempi di Quintiliano il volgo fosse in alcune cose più istruito che nell’età di Cicerone giacchè le scienze avevano per un intero secolo potuto spargersi nelle provincie, come nelle più infime classi del popolo. Questa piccola dose di scientifica coltura dei volgari Greci, e Romani non fù però sufficiente a difenderli contro la regnante superstizione da cui sopraffatti, e vinti rimasero i loro meglio educati, ed istruiti Monarchi, Grandi, e filosofi.

È un fenomeno così comune che tra i scrittori di un istesso tempo alcuni esaltino in tutto la propria età, ed altri la deprimino, come di frequente succede che varj autori particolari reputino qual general maniera di pensare dei loro contemporanei le proprie opinioni, e spesse volte quelle ancora che ad essi passano per la mente in certi momenti. Ciò accadde singolarmente a Giovenale, ed a Seneca allorchè i medesimi attribuirono eziandio ai loro [p. 115 modifica]contemporanei la propria incredulità per rapporto a tutte le dicerie popolari, e poetiche risguardanti lo stato delle anime dei defunti. Si può peraltro rilevare in parte dallo stesso Seneca, e da Giovenale, e molto più da Luciano, da Apulejo, e da altri Scrittori, ed Istorici di quei tempi, che i comuni Greci, e Romani nel primo, e secondo secolo dell’era Cristiana credevano più che mai fermamente, e generalmente in Caronte, in Stige, nelle Furie, e nei Giudici dell’altro mondo; e che gli stessi loro Imperatori, Grandi, e filosofi erano persuasi che si potesse col mezzo d incantesimi richiamar dal Tartaro, e far qua e la vagare le ombre dei defunti, non meno che dell’efficacia di tutte l’altre parti della magia104. Se finalmente la plebaglia di Atene applaudiva un’Epicureo nell’atto in cui questi disputava contro la Provvidenza ciò non proveniva al certo da una generale incredulità, ma bensì dal piacere, che i Greci provavano del continuo nell’udire sofistiche contese, ed un’abil difesa, delle cose più cattive, ed eterodosse.

Fra tutte le scienze non esclusa la stessa filosofia non avvene alcuna la quale risentisse così presto [p. 116 modifica]la terribile influenza del Despotismo come la Storia. Sotto il dolce governo di Augusto insigni Storici raccontarono colla maggior libertà, e sicurezza non solo gli antichi fatti, e destini del loro Popolo ma eziandio quelli dei precedenti, ed attuali lor tempi. Il medesimo Augusto conobbe bene, ma non per questo punì Tito Livio, che favorito aveva più il partito di Pompeo che quel di Cesare dittatore105. Da Tiberio fino a Vespasiano, e molto più sotto Domiziano non arrischiossi a scrivere la storia dei viventi Imperatori se non chi ebbe l’idea di guadagnarsene con servili adulazioni la grazia, e dopo la loro morte era tale, e tanta l’amarezza, e la rabbia dei superstiti, che imputaronsi a varj di quei tiranni molti misfatti di cui essi non renderonsi giammai colpevoli106. Sotto i sospettosi, [p. 117 modifica]e crudeli Imperatori andava così unito coll’evidente pericolo di perder la vita l’encomiare gli uomini grandi dei passati tempi come il biasimare i viventi Monarchi, o quelli che loro somigliavano che per l’uno, e l’altro motivo giustiziati vennero non pochi istorici, e molt’altri scrittori. A ciò si aggiunse ancora per ultimo che le cause, o molle dei politici avvenimenti non essendo più discusse, e decise nel foro alla presenza di tutto il popolo, ovvero in senato, ma nelle più secrete stanze dei respettivi Sovrani, e loro favoriti, ne accadde per conseguente ch’esse divennero sempre più tenebrose, ed incerte, e la materia dello storico si rese appunto così uniforme, e meschina siccome era di già pericoloso il trattarne. L’istorico non aveva più lunghe guerre, e gloriose battaglie da descrivere, ma piccole somosse ai confini, o nell’interno delle provincie; non più eroismi d’illustri capitani, e legioni ma rivolte degli uni, e ammutinamenti dell’altre; non più disfatte, e prigionie di Re, e conquiste di celebri Città, ma continue accuse, e supplizj d’innocenti, i quali perir dovevano pel tradimento de’ loro amici, e per la crudeltà de’ proprj Monarchi107. Solamente al tempo de’ buoni [p. 118 modifica]Imperatori in cui ebbesi la sorte di poter pensare come si voleva, e di dire tutto ciò che pensavasi108 scrissero Tacito, Plutarco, e Svetonio, che peraltro non hanno mai avuto imitatori insigni, e degni di loro poiché ognuno si rese sempre più così nemico, e incapace di esaminare e scrivere istorie come d’intraprendere qualunqu’altra seria, e costante occupazione di spirito.

Note dell'autore

  1. Veggasi Tac. Dialog. de Orat, atque Hist. I. 1. Postquam bellatum apud Actium, atque omnem potestatem ad unum conferri pacis interfuit, magna illa ingenia cessere.
  2. Quint. I. c. 2 . juven. Sat. VI.
  3. Plutarch. III. 533. p.
  4. III. 214. 225.
  5. In omnibus autem Pannoniis non disciplinae tantummodo, sed linguae quoque notitia Romanae: plerisque etiam literarum usus, et familiaris animonim erat exercittlio. II. 110. Vellej. Pater. Le due Pannonie trovavansi in tale stato anche al tempo di Augusto.
  6. Strab. IV. 273.
  7. Tacit. III. 43. Augustodunum, caput gentis armatis cohortibus Sacrovir occupaverat, nobilissimam Galliarum sobolem, liberalibus studiis ibi operatam etc.
  8. Plin. Epist. IX. Ep. II.
  9. Agric. vit. script. Tac. c. 21. hortari privatim, adjuvare publice, ut templa, fora, domes exstruerent . . . jam vero principum filios liberalibus artibus erudire, et ingenia Brittannorum studiis Gallorum anteferre, ut qui modo linguam Romanam abnuebant, eloquentiam concupiscerent. Inde etiam habitus nostri honor et frequens toga. Paulatimque discessum ad delinimenta vitiorum, porticus, et balnea, et conviviorum elegantiam. Idque apud imperitos humanitas vocabatur, cum pars servitutis esset.
  10. Quaedam nostra demum prodisse memoria seimus, ut speculariorum usum, perlucente testa, clarum transmittentium lumen, ut suspensurus balneorum, et impressos parietibus tubos per quos circumfundcretur calor, qui ima simul et summa foveret aequaliter. Quid loquar marmora, quibus templa, quibus domus fulgent? . . . Quid verborum notas, quibus quamvis citata excipitur oratio, et celeritatem linguae manus sequitur? — Vilissimorum mancipiorum (aggiunge Seneca) ista commenta sunt. Ep. 90.
  11. Plin. 35. c. 1. nec tantum, ut parietes toti (marmoribus, et auro) operiantur, verum et interraso marmore, vermiculatis ad effigies rerum et animalium crustis; — coepimus et lapidem pingere. Hoc Claudii principatu inventum; Neronis vero, maculas quae non essent, in crustis inserendo unitatem variare, ut ovatus esset Numidicus, ut purpura distingueretur Sinnadicus, qualiter illos nasci optarent deliciae: et c. 10. non fraudando et Ludio Divi Augusti aetate, qui primus instituit amœnissimam parietum picturam, villas, et porticus, ac topiaria opera, lucos, nemora, colles, piscinas, euripos, amnes, littora . . . varias ibi obambulantium species, aut navigantium terraeque villas adeuntium asellis aut vehiculis, jam piscantes aucupantesque aut venantes, aut etiam vindemiantes.
  12. L. 35. 1. Primumque dieemus, quae restant de pictura arte quondam nobili, tunc cum expeteretur a regibus, populisque, et illos nobilitante, quos esset dignata posferts tradere: nunc vero in totum marmoribus pulsa jam quidem et auro. e al c. 2. ei dice: et ita profecto est, artes desidia perdidit.
  13. Lib. 35. c. 2. Imaginum quidem pictura quam maxime similes in aevum propagabantur figuræ: quod in totum exolevit.
  14. 35. 10. Sed nulla gloria artificum est, nisi eorum, qui tabulas pingere: eoque venerabilior apparet antiquitas . . . Wulia in Appellis tectoriis pictura erat. Nondum libebat parietes totos pingere. Omnis eorum ars urbibus excubabat, pictorque res communis terrarum erat.
  15. p. m. 146. 147.
  16. p. m. 146. 147. coepi . . . causa desidiæ praesentis excutere, cur pulcherrimæ artes periissent, inter quas pictura ne minimum quidem sui vestigium reliquisset.
  17. Lib. 35. c. 10. Plin.
  18. Plin. 33. c. 12.
  19. Subitoque haec ars ita exolevit, ut sola jam vetustate censeatur, usque adeo attritis cælaturis ne figura discerni possit, auctoritas constet. l. c.
  20. 35. 10. Plin.
  21. ib. 36. c. s.
  22. ib. 33. c. 12.
  23. 34. 1. Plin.
  24. ib. c. 8.
  25. Plurima Lysippus ex omnibus signa fecit . . . inter quae distringentem se, quem Marcus Agrippa ante thermas suas dicavit, mire gratum Tiberio principi: qui non quivit temperare sibi in eo, quanquam imperiosus sui inter initia principatus, transtulitque in cubiculum, alio ibi signo substituto: cum quidem tanta populi Romani contumacia fuit, ut magnis theatri clamoribus reponi Apoxyomenon flagitaverit, princepsque quanquam adamatum reposuerit. 34. 8. Plin.
  26. ib. c. 2. Quondam æs confusum auro, argentoque miscebatur, et tamen ars pretiosior erat: nunc incertum est; pejor hæc sit an materia.
  27. At mihi major pars elegantiorum simulare eam scientiam videtur, ad segregandos se a cæteris magis quam intelligere aliquid ibi subtilius.
  28. 34. 8. Quam statuam inaurari jussit Nero princeps delectatus admodum illa. Dein cum pretio perisset gratia artis, detractum est aurum: pretiosiorque talis existimatur etiam cicatricibus operis, atque conscissuris in quibus aurum hæserat, remaoentibus.
  29. 36. s.
  30. 36. s.
  31. 34. 2 . Sunt ergo vasa tantum Corinthia, quae isti elegantiores modo in esculenta transferunt, modo in lucernas, aut trullas, nullo munditiarum respectu.
  32. 34. 8. Plin.
  33. 36. s.
  34. Epist. 33.
  35. Senec. Ep. 88. Ipsi quoque philosophi ad syllabarum distinctiones . . . descenderunt, et invidere Grammaticis invidere Geometris. Quidquid in illorum artibus supervacum erat transtulere in suam. E all’epistola 108. egli dice, aliquid præcipientium vitio peccatur, qui nos docent disputare, non vivere. Itaque quæ philosophia fuit, facta philologia est.
  36. Ep. 88. An tu quidquam in istis credis boni, quorum professores turpissimos omnium, ac flagitiosissimos cernis? — Quidquod ista liberalium artium consectatio molestos, verbosos, intempestivos sibi placentes facit, et ideo non discentes necessaria, quia supervacua didicerunt? e al cap. 13. de brevit. vitæ si legge quanto segue. Nam de illis nemo dubitavit, quin operose nihil agant, qui in litterarum inutilium studiis detinentur: quæ jam apud Romanos quoque magna manus est. Græcorum iste morbus fuit. Ecce Romanos quoque invasit inane studium supervacua discendi.
  37. Epist. 40. Hæc popularis nihil habet veri. Movere vult turbam, et inconsultas aures impetu rapere: tractandam se non praebet, aufertur. Quomodo autem regere potest quae regi non potest? . . Remedia non prosunt nisi immorentur. Multum præterea habet inanitatis, et vani: plus sonat qaam valet. — Quis medicus ægros in transitu curat? Ep. 52. Quid turpius philosophia captante clamores? — intersit aliquid inter clamorem theatri, et scholæ . . . Damnum quidem fecisse pbilosophiam, non erit dubium, postquam prostituta est. etc.
  38. XIV. 16. Annal. Tac. Etiam sapientiæ doctoribus tempus impertiebat (Nero) post epulas, utque contraria asseverantium discordiæ eruerentur. Nec deerant qui ore vultuque tristi inter oblectamenta regia spectari cuperent.
  39. Io non faccio quì alcuna menzione di tali fanatici avendone già parlato nella mia Storia dei nuovi Platonici.
  40. Tusc. quaest. II. 2. jam languenti Graeciae.
  41. Cicer. de Orat. II. 5. Nam et saeculis multis ante gymnasia inventa sunt quam in his philosophi garrire coeperunt, et hoc ipso tempore, cum omnia gymnasia philosophi teneant, tamen eorum auditores discum audire quam philosophum malunt, qui simul ut increpuit in media oratione de maximis rebus, et gravissimis disputantem philosophum omnes unctionis caussa relinquunt. Ita levissimam delectationem gravissimae, ut ipsi ferunt, utilitati anteponunt.
  42. VII. 32. Quaest. Nat. Sen. Ad sapientiam quis accedit? quis dignum judicat, nisi quam in transitu noverit? Quis phiiosophiam, aut ullum liberale respicit studium, nisi cum ludi intercalantur, aut aliquis pluvius intervenit dies, quem perdere licet?
  43. Ep. 108. Senec. Quid ergo? non novimus quosdam qui multis apud pliilosophum annis persederint, et ne colorem quidem duxerint? . . . quos ego non discipulos philosophorum sed inquilinos voco . . . Magnam hanc auditorum partem videbis, cui philosophi schola diversorium otii sit.
  44. Ib. Quidem ad magnificas voces excitantur, et transeunt in affectum dicentium: nec aliter concitantur, quam solent Phrygii, tibicinis sono semiviri et ex imperio furentis . . . . Pauci illam, quam conceperant mentem, domum perferre potuerunt. Facile est auditorem excitare ad cupiditatem recti . . . Non vides, quemadmodum theatra consonent, quoties aliqua dicta sunt, quae puplice agnoscimus, et consensu vera esse testamur?

    Desunt inopiae multa, avaritiae omnia.
    In nullum avarus bonus est, in se pessimus.

    Ad hos versus ille sordidissimus plaudit, et vitiis suis convitium fieri gaudet.

  45. Sed aliquid praecipientium vitio peccatur . . . aliquid discentium, qui propositum afferunt ad suos praeceptores, non animum excolendi, sed ingenium. ib.
  46. Nat. Quaest. VII. 32. Itaque tot familiae philosophorum sine successore deficiunt; — adeoque nihil invenitur ex his, quae parum investigata antiqui reliquerunt, ut multa quae inventa erant, obliterentur. — Quis est, qui tradat praecepta Pyrrhonis etc.
  47. Ep. 108.
  48. C. 52. Suet. in Neron. Vita.
  49. Plantum — veterum Romanorum imitamenta praeferre: assumta etiam stoicorum arrogantia, sectaque quae, turbidos, et negotiorum appetentes faciat. XIV. 57. Annal. Tacit.
  50. XVI. 22 . ib. Isla secta Tuberones, et Favonios veteri quoque reipublicae ingrata nomina genuit. Ut imperium evertant, libertatem praeferunt: si perverterint libertatem ipsam aggredientur. Frustra Cassium amovisti, si gliscere, et vigere Brutorum aemulos passurus es.
  51. XV. 71. Verginium et Rufum claritudo nominis expulit: nam Verginius studia juvenum eloquentia, Musonius praeceptis sapientiae fovebat. Quintiliano non pensava certamente ne a Seneca, ne a Trasea, ne a Sorano, ne ad Elvidio prisco, allorchè ei distese il seguente suo giudizio. Quapropter haec exhortatio mea non eo pertinet, ut esse oratorem philosophum velim, quando non alla vitae secta longius a civilibus officiis, atque ab omni munere oratoris recessit. Nani quis philosophorum aut in judiciìs frequens, aut clarus in concionibus fuit? Quis denique in ipsa, quam maxime plerique praecipiunt reipublicae administratione versatus est? Instit. Orat. XII. c. 2.
  52. Plin. Epist. III. 5. Dubii sermonis octo scripsit sub Nerone novissimis annis cum omne studiorum genus paulo liberius, et erectius periculosum servitus fecisset.
  53. Suet. in Vesp. c 15.
  54. Suet. in Domit. c. 10. Tac. Vit. Agr. c. 2. et 3. et Plin. Ep. III. 11.
  55. Tac. l. c. legimus cum Aruleno Rustico (Suetonio lo chiama Giunio) Paetus Thrasea, Herennio Senecioni Priscus Helvidius laudati essent, capitale fuisse: neque in ipsos modo auctores, sed in libros quoque eorum saevitum, delegato triumviris ministerio ut monumenta clarissimorum ingeniorum in comitio ac foro urerentur. Scilicet illo igne vocem Pop. Rom. et libertatem senatus, et conscientiam generis humani aboleri arbitrabantur, expulsis insuper sapientiae professoribus, atque omni bona arte in exilium acta ne quid usquam honestum occurreret.
  56. C. 3. Nunc demum redit animus, et quanquam primo statim beatissimi saeculi ortu Nerva Caesar res olim dissociabiles miscuerit, principatum ac libertatem, augeatque cottidie felicitatem imperii Nerva Trajanus, nec spem modo, ac votum securitas publica, sed ipsius voti fiduciam, ac robur assumpserit: natura tamen infìrmitatis humanae tardiora sunt remedia, quam mala. Et ut corpora lente augescunt, cito extinguuntur sic ingenia studiaque oppresseris facilius, quam revocaveris. Subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo: et invisa primo desidia postremo amatur. Quid? Si per quindecim annos, grande mortalis aevi spatium, multi fortuitis casibus, promtissimus quisque saevitia principis interciderunt? Pauci et, ut ita dixerim non modo aliorum sed etiam nostri superstites sumus, exemtis e media vita tot annis, quibus juvenes ad senectutem, senes prope ad ipsos exactae aetatis terminos per silentium venimus. Non tamen pigebit vel incondita ad rudi voce memoriam prioris servitutis, ac testimonium praesentium bonorum composuisse. Paragonisi con ciò la 13. lettera del 9. libro del giovine Plinio ove questo scrittore descrive l’angustia che provò il Senato allorquando esso intimò l’autore della morte di Elvidio a render conto del suo operato.
  57. Il giovine Plinio promise di dare agli abitanti di Como la terza parte degli onorarj, che essi assegnato avrebbero ai nuovi maestri della lor gioventù; Totum, prosegue egli, etiam pollicerer nisi timerem, ne hoc munus meum quandoque ambitu corrumperetur: ut accidere multis in locis video in quibus praeceptores publice conducuntur. Huic vitio uno remedio occurri potest, si parentibus solis jus conducendi relinquatur, iisdemque religio recte judicandi necessitate collationis addatur. Nam qui fortasse de alieno negligentes, certe de suo diligentes erunt: etc. IV. 13. Epist.
  58. Suet. in ej. vita. c. 20.
  59. Veggasi il precedente capitolo
  60. Suet. in ej. vita c. 4.
  61. Caligola obbligava i vinti a pagare i premj ai lor vincitori, ed a farne di più l’elogio. Coloro che maggiormente avevano la disgrazia di dispiacergli dovevano con una spugna, o colla propria lingua raschiare i loro discorsi, e poemi s’essi non volevano essere frustati, o gettati nel fiume più prossimo.
  62. C. 42 . Suet. in ej. vita
  63. Plin. 29. c. 1. Strabo IV. 273. 303.
  64. C. 18. Suet. in ej. vita.
  65. Spart. in ej. vita c. 16.
  66. C. II. Capitol. in ejus vita.
  67. Lucian. II. 352. et seq.
  68. Lamp. in ej. vita 3. 34. 35. 44. c.
  69. Plin. Epist. 1. 10. 13.
  70. . . . . senescentium litterarum . . . Plin. Epist. VIII. 12.
  71. Tac. Annal. II. 85. actum et de sacris Aegyptiis judaicisque pellendis: factumque patrum consultum ut quatuor millia libertini generis ea superstitione infecta, quis idonea aetas, in insulam Sardiniam veherentur, coercendis illis latrociniis, et si ob gravitatem coeli interissent, vile damnum: caeteri cederent Italia, nisi certam ante diem profanos ritus exuissent.
  72. XI. 15. Annal. Tac. Retulit deinde (Claudius) ad Senatum saper collegio haruspicum, ne vetustissima Italiae disciplina per desidiam exolesceret . . . primoresque Etruriae sponte, aut patrum Romanorum impulsu retinuisse scìentiam et in familias propagasse: quod nunc segnius fieri, publica circa bonas artes socordia, et quia externae superstitiones valescant . . . . .
  73. Anche Germanico, ed Agrippina consultavano, e adoravano molti Dei stranieri, e tra questi specialmente gli Egiziani. Tac. Annal. II. 54. 59. Ciò fu altresì praticato da Vespasiano. Tac. Hist. II. 78. IV. 82. Nerone disprezzava tutti gli Dei eccettuata la Dea Siria. Quando egli in seguito si prese a noja anche questa a segno tale che giunse a imbrattarla di orina, allora si abbandonò interamente alla protezione di un’icunculae puellaris, che ottenuto aveva in dono da un uomo ignoto, e volgare. Suet. in Ner. c. 56. Marc’Aurelio chiamò in suo soccorso tutti gli Dei forestieri, e loro Sacerdoti ad oggetto di salvare lo Stato Romano dall’irruzioni de’ Popoli Tedeschi. Capit. in ej. vita c. 13. Commodo solennizzava particolarmente le feste, e soprattutto i misteri d’Iside, e di Mitra. Lampr. in ej. vita c. 9. et Spart. in Pescenn. Nigro c. 6. Severo preferiva Serapide a tutti gli altri Dei: Spartian. in ej. vita c. 17. Lo stesso facevano Antonino Caracalla (Spartian. in ej. vita c. 9.) ed Eliogabalo (Lampr. in ejus vita c. 3 . 7.) rispetto ad Iside. Quel mostro di Eliogabalo adorava ancora molt’altre divinità forestiere, ed a loro sacrificava persino varie vittime umane. ib. c. 7. 8. 28. Alessandro Severo venerava gli Eroi, ei Santi egualmente che gli Dei di qualunque popolo. Lampr. 26. 29. 43. c. — Non è necessario di avvalorare la storia della preponderante straniera superstizione con gli esempi de’ susseguenti Imperatori.
  74. Apul. Flor. L. I. p. m. 217. Lucian. III. 534.
  75. Apul. I. p. m. 350.
  76. Veggasi Juv. Sat. VI. Apulej. nelle sue metamorfosi XI. p. 212. — 15. Spart. in Pesc. Nigr. c. 6.
  77. Apul. l. 348. 349. sed potius 351. An hariolis licet jocinora rimari, philosopho contemplari non licebit? qui se sciat omnium animalium aruspicem, omnium deum sacerdotem?
  78. Apul. metam. VIII. 141. 143. 147. 149.
  79. Lucian. l. c. III. 534.
  80. P. 146. 147. Petron. Io ne ho già riferito di sopra il passo a ciò relativo. Senec. Ep. 10. et. 41. et fragm. Senecae ap. Aug. de Civitate Dei VI. c. 10.
  81. Ep. 10. Nunc enim quanta dementia est hominum? turpissima vota diis insusurrant; si quis admoverit aurem, conticescent, et quod scire hominem nolunt, Deo narrant. Et Ep. 41. Nec exoraudus aedituus ut nos ad aures simulacri, quasi magis exaudiri possimus, admittat: etc.
  82. Fragm. Senec. sup. cit. Ille viriles sibi partes amputat, ille lacertos secat. — Tantus est perturbatae mentis, et sedibus suis pulsae furor, ut sic dii placentur, quemadmodum ne homines quidem saeviunt. Teterrimi — Tiranni laceraverunt aliquorum membra, neminem sua lacerare jusserunt. In regiae libidinis voluptatem castrati sunt quidam, sed nemo sibi ne vir esset jubente domino manus intulit. Se ipsi in templìs contrucidant, vulneribus suis ac sanguine supplicant. Si cui intueri vacet, quae faciunt, quaeque patiuntur inveniet tam indecora honestis, tam indigna liberis tam dissimilia sanis, ut nemo fuerit dubitaturus, furere eos si cum paucioribus furerent; nunc sanitatis patrocinium est insanientium turba.
  83. Annal. Tac. VI. 20. 21.
  84. II. 27. 32 . ib.
  85. XII. 52. ib. de mathematicis Italia pellendis factum Senatus consultum atrox et irritum.
  86. XII. 68. — tempusque prosperum ex monitis Chaldaeorum adventaret . . . .
  87. Plin. lib. 30. c. 2. Hist. Nat. Suet. in Ner. c. 34
  88. Nullos, dice l’innocente Servilia presso Tacito XVI. 31. ìmpios Deos, nullas devotiones nec aliud infelicibus precibus invocavi, quam ut hunc optimum patrem tu Caesar, et vos patres servaretis incolumem. Sic gemmas, et vestes, et dignitatis insignia dedi quomodo si sanguinem, et vitam poposcissent.
  89. Hist. Tac. I. 22. Multos secreta Poppaeae mathematicos, pessimum principalis matrimonii istrumentum habuerunt e quibus Ptolemaeus etc.
  90. Ib. urgentibus etiam Mathematicis, dum novos motus et clarum Othoni annum observatione siderum affirmant. Genus hominum potentibus infidum, sperantibus fallax, quod in civitate nostra et vetabitur semper et retinebitur. — Nec deerat Ptolemaeus, jam et sceleris instinctor . . . .
  91. II. 62.
  92. Ib. II, 78.
  93. Storia della maniera di pensare dei due primi secoli. c. 37. e seguenti
  94. Eccettuati gli Epicurei
  95. Plin. 30. c. 1. 2. Lucian. in Philops. III. 36. — 54.
  96. Ai tempi di Luciano cotesti maliardi usavano già per le loro stregonerie, e magiche operazioni le parole Τελεσιουργεῖν, e Τελεσιουργίαι. III. 42. p.
  97. Lucian l. c. p. 39. 41. 42. Apul. metamorph. II. p. 23. 31.
  98. Lamp. in Alex. Severo c. 26. 44.
  99. Instit. 1. c. 2.
  100. Dialog de Orat. c. 19.
  101. Ep. 24.
  102. II. 149. e seg.

    Esse aliquos manes, et subterranea regna,
    Et contum, et stygio ranas in gurgite nigras,
    Atque una transire vadum tot millia cymba,
    Nec pueri credunt, nisi qui nondun aere lavantur.

  103. Lucian. II. 661. p.
  104. Veggansi meglio Apulej I. p. 5. 43. 162. Lucian. I. 399. 462. 465. 470. 475. 579. II. 109. et seq. 640. et seq. 923. III. 36. et seq.
  105. Tacit. I. 1. Annal. Sed veteris populi Romani prospera vel adversa, claris scriptoribus memorata sunt. Temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrerentur.
  106. Tacit. l. c. Tiberii Cajique, et Claudii ac Neronis res florentibus ipsis, ob metum falsae; postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. et Hist. I. 1. Postquam bellatum apud Actium . . . veritas pluribus modis infracta; primum inscitia reipablicae ut alienae, mox libidine assentandi, aut rursus odio adversus dominantes. Ita neutris cura posteritatis, inter infensos, vel obnoxios.
  107. Tac. Annal. IV. 32. Pleraque eorum, quae retuli, quaeque referam, parva forsitan, et levia memoratu videri non nescius sum: sed nemo annales cum scriptura eorum contenderit, qui veteres populi R. res composuere. Ingentia illi bella, expugnationes urbium, fusos, captosque reges; aut si quando ad interna praeverterent, discordiam consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis, et optimatium certamina, libero egressu memorabant. Nobis in arto et inglorius labor. Immota quippe, aut modice lacessita pax, moestae urbis res, et princeps proferendi, imperii incuriosus erat. Ed al c. 33. Nam situs gentium, varietates praeliorum, clari ducum exitus, retinent ac redintegrant legentium animum: nos saeva jussa, continuas accusationes, fallaces amicitias, perniciem innocentium, et easdem exitu causas conjungimus; obvia rerum similitudine et satietate. Veggasi ancora al capitolo 16. dell’Annale XVI. il passo già da me riportato di sopra.
  108. Tac. Hist I. 1.

Note del traduttore

  1. [p. 169 modifica]Il famoso Sertorio, nativo di Norcia, fu da Perpenna ucciso in Huesca città dell’Aragona 73. anni prima di Gesù Cristo, talchè il punto della sua maggior fortuna in Ispagna può prendersi da qualche anno avanti. Gli sforzi, che egli fece per incivilire, e istruir gli Spagnuoli, indicano in lui la vera idea di rendersene assoluto Signore, non avendolo potuto fare in Roma, di dove perciò era stato obbligato a fuggire. Parlano di esso distintamente Vellejo Paterculo, Livio, Floro, Appiano, Lucano, e in ispecial modo Plutarco, che ne ha scritta la Vita.
  2. [p. 169 modifica]Strabone, celebre Filosofo, Geografo, ed Istorico Greco, fiorì sotto Augusto, e cessò di vivere sotto Tiberio. Delle molte Opere da lui composte non ci rimane al presente che la sua Geografia, la quale è la miglior cosa di quanto abbiamo ottenuto dagli antichi in questo genere. Leggansi rapporto al medesimo il Vossio nella sua Opera De Historicis Graecis Lib. 2. c. 2. e il Fabricio nella sua Biblioteca Greca; ma soprattutto le dotte Prefazioni premesse all’edizioni, che se ne son fatte in varj luoghi, e tra le quali merita di esser distinta quella del 1707. di Amsterdam.
  3. [p. 170 modifica]Giulio Cesare fu il primo General Romano, il quale penetrò nella Germania di là dal Reno, e nella Gran Brettagna; ma egli non fece che comparirvi, mentre la total sommissione di queste due Provincie venne, conforme si è in parte altrove accennato, eseguita molto tempo di poi. All’opposto l’Illiria, e per conseguente una porzione della Pannonia erano state soggiogate dai Romani quasi due secoli prima di Gesù Cristo. Le vittorie, che negli anni 627. 629, e 631. di Roma, vale a dire 125, 123, e 121. prima della nascita di Gesù Cristo, riportarono Fulvio, Sestio, Domizio, e Fabio sopra diversi Popoli della Gallia Transalpina, resero questa preziosa contrada per metà soggetta ai Romani. Per ultimo la Spagna avea già incominciato ad essere in parte domata dagli Scipioni, che ne intrapresero la conquista sopra i Cartaginesi nel tempo della seconda guerra Punica, che è quanto a dire più di 200. anni avanti l’Era Cristiana. Rollin, Istoria Romana.
  4. [p. 170 modifica]Le Opere più insigni di Apelle, a ragione chiamato comunemente il Principe degli antichi Pittori, furono soprattutto il quadro della Calunnia, e quello della Venere Anadiomene, cui i Poeti hanno tanto celebrato, e che Augusto [p. 171 modifica]comprò per cento talenti, vale a dire per cento mila scudi incirca. Questo esimio Artista dipinse altresì egregiamente Castore, e Polluce, il Clito, l’Alessandro, e Diana colle sue Ninfe, rispetto a cui Plinio così si esprime. «Quibus vicisse Homeri versus videtur idipsum describentis.

    Rapporto ai due famosi Scultori Mirone, e Lisippo, si citano del primo come sorprendenti la Statua di Bacco posta sul monte Elicona, quella di Eretea esistente in Atene, e in special modo la celebre Vacca di bronzo, la quale ha dato luogo a tanti graziosi Epigrammi, che si leggono nell’Antologia Greca. Il secondo si rese celebre al maggior segno per la sua famosa Quadriga del Sole, e per molte statue di Alessandro Magno trasportate in Roma da Metello, tra le quali quella, che Nerone fece indorare, era la più insigne. Plinio dice che egli formò 610. pezzi di scultura, e tutti così perfetti che ognun dei medesimi avrebbe reso immortale colui, che ne fosse stato l’autore. Mirone viveva nell’84. Olimpiade, ed era contemporaneo del divino Fidia (la cui bellissima statua di Minerva venne tanto lodata dagli antichi Scrittori, e il cui sorprendente Giove Olimpico meritò di esser considerato come una delle sette Meraviglie del Mondo,); e Lisippo al [p. 172 modifica]contrario fioriva come Apelle verso la 112. Olimpiade al tempo di Alessandro Magno, il quale non volle esser rappresentato che da questi due ultimi valenti Artisti.

  5. [p. 172 modifica]La celebre statua di Giano, della quale Plinio fa qui menzione, e che si vedeva nel Tempio di Augusto, era stata per ordine di questo Principe trasportata dall’Egitto in Roma. Non si sa peraltro chi ne fosse l’autore, mentre alcuni la volevano di Scopa, altri di Prassitele, vissuti entrambi poco prima di Alessandro Magno, e le cui due singolari statue di Venere hanno forse dato motivo a Cleomene di formarne una copia, che ora trovasi nell’Imperiale e Reale Galleria di Firenze. Rapporto a questa, e all’antecedente mia Nota si consulti l’Enciclopedia all’articolo «Scultura.
  6. [p. 172 modifica]L’uso di computare il corso del tempo colle Olimpiadi, ha, come quasi tutti sanno, avuto origine fra i Greci dall’istituzione dei Giuochi Olimpici. Lo spazio, che ognuna delle medesime comprende è di quattro anni, e non di cinque, conforme si è preteso da alcuni, mentre Ovidio ha solo detto per ischerzo quinquennis Olympias, volendo egli con ciò indicare un Lustro. La prima Olimpiade incominciò 776. anni avanti la Nascita di Gesù Cristo, ossia 24. [p. 173 modifica]anni prima della Fondazione di Roma, e non si trova più alcun computo del tempo col mezzo delle Olimpiadi dopo il 440. dell’Era Cristiana. Infinite sono le obbligazioni che i Dotti hanno alle Olimpiadi per aver queste sparsa la luce nel caos dell’Istoria, talchè lo stesso Scaligero si credette come in dovere di diriger loro il seguente grazioso complimento: Salve veneranda Olympias, custos temporum, vindex veritatis historiae, fraenatrix Chronologorum licentiae ec. (Ved. l’Opera sull’arte di verificare le Date).
  7. [p. 173 modifica]La Romana Architettura giunse, a dire il vero, alla sua maggior perfezione sotto il governo di Augusto, ed incominciò ad esser negletta, e a decadere immantinente a tempo di Tiberio, e moltopiù de’ suoi successori. Nerone medesimo ad onta della sua straordinaria passione per tutte le belle Arti, concorse più degli altri a rovinarla, volendo in tutte le cose far pompa della sua immensa prodigalità, e del suo lusso, piuttosto che seguire la vera magnificenza. Leggasi oltre a Vitruvio ciò che ne han scritto lo Scamozzi, il Vignola, ed ultimamente il celebre Milizia.
  8. [p. 173 modifica]La Setta Stoica, così detta da un luogo di Atene chiamato Stoa, ove Zenone, celebre filosofo Greco, e suo fondatore, andava ad [p. 174 modifica]insegnare, ebbe origine circa a 230. anni prima di Gesù Cristo. Essa derivava direttamente dalla Scuola Cinica, di cui veniva ad essere in sostanza una riforma, ed infatti si diceva che tra uno Stoico, ed un Cinico non eravi che l’abito di differenza. Lo Stoicismo aveva per principio fondamentale di far consistere il sommo bene nel vivere secondo la natura, e l’uso della sana ragione; non conosceva che un Dio solo, da lui creduto l’anima del Mondo, e sembrava ammettere in tutte le cose una necessità inevitabile. L’Advocat, e l’Enciclopedia.
  9. [p. 174 modifica]Molte furono le Opere insigni scritte, e dettate da Epitteto, celebre filosofo Stoico nativo di Gierapoli nella Frigia. Al presente però null’altro di lui ci rimane se non che quattro Libri de’ suoi discorsi lasciatici da Arriano suo discpolo, e de’ quali esistono varie Edizioni in Greco, in Latino, e in Francese. Leggansi le dotte Prefazioni alle medesime premesse.
  10. [p. 174 modifica]È fuor di dubbio che l’introduzione in Roma di tante, e sì diverse Sette, e Religioni contribuì più di tutto a corrompere i costumi dei Romani, e ad abbattere in seguito la loro smisurata potenza. Da esse peraltro fa d’uopo eccettuare la Religione Cristiana, la quale, se si fosse qualche secolo prima generalmente [p. 175 modifica]sparsa su tutta la Terra sottoposta al Romano Impero n’avrebbe al certo coll’unità, e santità dei suoi principi, e delle sue massime trattenuta ancora per molto tempo, e forse impedita affallo la total rovina.
  11. [p. 175 modifica]Antichissimo era il culto della Dea Siria, detta comunemente Astarte, pretendendosi che lo stesso Salomone l’introducesse nel suo Regno. Cicerone nel Libro 3. De natura Deorum dice, che i Teologi Fenicj asserivano esser questa Dea la Venere Siria oriunda di Tiro, sposa di Adone, e diversa da quella di Cipro. Luciano al contrario nel suo eccellente Trattato sulla Dea Siria crede, che la medesima sia la Luna, la quale nelle varie parti dell’Oriente veniva adorata sotto diversi nomi; ed aspetti. Non mi è precisamente noto quando venisse introdotto in Roma il culto di tale Divinità; ma sembrami indubitato che ciò possa essere accaduto poco dopo le prime vittorie, che i Romani riportaron nell’Asia, avendo essi per costume di adottare tutte le Religioni de’ Popoli da lor soggiogati.

    Iside, ed Osiride ebbero fin da tempi remotissimi il loro culto separato, benchè fossero stati insieme germani, e sposi; ma quello della prima di tali Divinità si rese oltremodo insigne, ed esteso. Apulejo nel Libro II. delle sue [p. 176 modifica]Metamorfosi fa fare ad Iside un discorso, nel quale ella si dichiara la madre Natura, la sovrana degli elementi ec. Si vuole che il culto di questa Dea si estendesse dall’Egitto persino nelle Gallie, e che ad Issì vi fosse un Tempio ad essa dedicato, conforme sembrano farne fede alcuni Monumenti ivi scoperti. Il Senato Romano, che aveva mostrata molla renitenza nell’ammettere le feste d’Iside, le abolì affatto nell’anno 696. di Roma, ossia 56 anni prima di Gesù Cristo, a motivo dell’iniquità, che, al dir degli Storici, vi si andavano praticando. Commodo peraltro le ristabilì circa 200. anni dopo, ed egli stesso si frammischiò coi Sacerdoti della suddetta Dea, e vi comparve a testa rasa portando Anubi.

    Il culto di Mitra prima di venire in Grecia, ed in Roma era dai Persi passato nella Cappadocia ove Strabone, che vi era stato, dice d’avervi veduti molti Sacerdoti di questa Divinità. Siffatto culto, come assicura Plutarco nella sua Vita di Pompeo, fu portato in Roma dopo la guerra dei Pirati, cioè 66. anni avanti l’Era Cristiana, e al pari di tutte le altre Sette vi divenne famosissimo nei secoli bassi dell’Impero.

    I Misteri di Mitra erano senza dubbio le cose più abominevoli, e nefande della Pagana [p. 177 modifica]superstizione; imperocchè vi si sacrificavano eziandio varie vittime umane. Dai Monumenti di questo Dio scoperti in molti luoghi si può ragionevolmente concludere, che il suo culto si era sparso in quasi tutto l’Impero Romano, e che vi durò moltissimo tempo, mentre se ne sono trovate ancora alcune tracce fino nel IV. Secolo della Chiesa. Mitra venne dai Romani figurato come un Giovine, il quale ha un ginocchio sopra un toro atterrato nell’atto che sostenendogli il muso colla mano sinistra gli immerge colla destra un pugnale nel collo, onde denotare la forza del Sole quando entra nel Segno del toro. Banier, Diz. Mit. Vossio de origine, et progressu Idololatriae, e specialmente l’eruditissimo Padre Calmet.

  12. [p. 177 modifica]L’obolo era una moneta Greca, la quale formava la sesta parte della dramma Attica, o del denaro Romano, il cui valore ascendeva a 9. crazie incirca.
  13. [p. 177 modifica]Trabanti chiama l’Autore una specie di Auguri, o per meglio dire di Guardie dei Tempj Pagani, e che oggidì non son che Soldati degli Imperatori Germanici. Il Salvini, ed il Biscioni pretendono che questo termine sia a noi provenuto dal vocabolo Latino trabeati.
  14. [p. 177 modifica]Scribonio Libonio sopracchiamato Druso aveva avuto per bisavolo Pompeo, e per zia [p. 178 modifica]Scribonia prima moglie di Augusto. Egli era per conseguente cugino dei Cesari, e per quanto sembra non tendeva niente meno che a salire sul loro Trono. Oltre a Tacito fanno di esso menzione Suetonio in Tiberio, e soprattutto Seneca, il quale nella sua LXXI. Epistola descrive con molta eleganza la tragica di lui morte.