Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro II/Capo II
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Capo II.
Gramatici, Retori e Filosofi greci in Roma;
e studio della Filosofia tra Romani.
Quanto tardi s'introducessero in Roma le scuole di gramatica.
I. Sembra cosa presso che incredibile che per 500 e più anni niuno vi fosse in Roma che tenesse pubblica scuola di lingua latina non che di greca, e insegnasse a conoscerne e ad usarne la proprietà e l’eleganza. E nondimeno egli è certo che così fu. La gramatica, dice Svetonio, (De Ill. Gramm. c. 1) non che in onore, neppure in uso era anticamente in Roma, perciocchè rozza ancora essendo e guerriera la città tutta, poco attendevasi alle bell’arti. Plutarco scrive (Quaest Rom. 59) che
tardi incominciossi in Roma ad aprire scuola in cui s’insegnasse a prezzo, e che il primo ad aprirla fu Sp. Carbilio liberto di quel Carbilio che prima d’ogni altro fe’ divorzio in Roma dalla propria moglie. Il qual divorzio per testimonio di Gellio (l. 17. c. 21) accadde l’anno di Roma 519. Più tardi ancora vuole Svetonio
(ib. c. 2) che lo studio della grammatica avesse principio in Roma, perciocchè egli afferma che Cratete di Mallo fu il primo a tenerne scuola verso la fine del sesto secolo, come ora vedremo. Par nondimeno che questi due autori si possano agevolmente conciliare insieme. Perciocchè Plutarco parla solo, per quanto sembra, di una pubblica scuola in cui i principii della lingua si insegnassero. Svetonio al contrario intende, come appresso vedremo, una scuola in cui i libri degli antichi autori e si sponessero e si chiamassero ad esame, e dissertazioni e trattati si facessero ad altrui giovamento. Erano in fatti questi esercizi propri di coloro che in Roma si appellavan Gramatici. Quindi è che a ragione il Valchio afferma (Hist. Artis Crit. ap. Romanos § 12) che Cratete fu il primo il quale nell’arte critica, presa in questo senso, istruisse i Romani.
Cratete di Mallo è il primo a tenerla.
II. Cratete di Mallo, città della Cilicia, figliuol di Timocrate fu, come afferma Suida (in Lexic. ad V. “Crates„), filosofo stoico di professione, e detto per soprannome Omerico e Critico, a cagione dello studio con cui egli alla gramatica e alla poesia erasi applicato. Il tempo in cui venne a Roma, così da Svetonio si stabilisce (loc. cit.): Fu egli mandato da Attalo re (di Pergamo) al senato romano tra la seconda e la terza guerra Cartaginese, poco dopo la morte di Ennio. Come però, secondo il comun parere degli scrittori, Attalo non cominciò a regnare che l’anno 596 dopo la morte di Eumene suo fratello, ed Ennio, come detto abbiamo, morì l’anno 584; convien dire che o non subito dopo la morte di Ennio venisse Cratete a Roma, o se vennevi subito, ciò non fosse quando Attalo era re, ma quando era collega di Eumene suo fratello nell’amministrazione del regno. Venuto egli dunque a Roma, mentre vi trattava gli affari per cui da Attalo vi era stato spedito, caduto sventuratamente nell’apertura di un sotterraneo condotto, se gli spezzò una gamba; onde costretto a starsene lungamente in Roma, affine di passare con suo ed altrui vantaggio il noioso tempo di sua guarigione, prese a trattare con quelli, che a lui venivano, erudite questioni, e a disputare or su uno, or su altro degli antichi autori. Accorrevano molti ad udirlo; e dall’udirlo passando alla brama d’imitarlo, si fecero alcuni ancor tra’ Romani a praticare somiglianti esercizii, esaminando, spiegando, comentando i versi o de’ loro amici, o d’altri che di tal cura giudicassero degni. Quindi questo genere di studio venne in maggior nome che prima non era; e due cavalieri romani, L. Elio Lanuvino e Servio Claudio, ad esso applicatosi, grande perfezione e ornamento grande gli accrebbero. Tutto ciò Svetonio (loc. cit), il quale altri gramatici annovera che a quel tempo furono illustri, a’ quali per testimonio di Plutarco (Vit. Caton. Cens.) vuolsi aggiugnere un cotal Chilone schiavo di Catone Censore e a lui carissimo, il quale in quel tempo medesimo a più fanciulli avea aperta pubblica scuola.
Introduzione della greca filosofia in Roma.
III. Mentre in tal maniera cominciarono i Romani ad amare e a coltivare le scienze, avvenne cosa che giovò non poco a scuotergli ancor maggiormente, ed animargli a tali studi. L’anno di Roma 586, dappoichè i Romani costretto ebbero Perseo re di Macedonia a soggettarsi al loro impero, e a venirsene a Roma, fecero diligente ricerca di que’ tra’ Greci che a quel re avean prestato favore, ed altri ne puniron di morte, altri in gran numero ne condussero a Roma, perchè ivi di loro si giudicasse (V. Histor. Rom. ad hunc an.). Tra questi molti vi avea uomini dotti, e nello studio della filosofia e dell’eloquenza versati assai, e singolarmente il celebre storico Polibio e il filosofo Panezio, cui Cicerone per poco non chiama il primo de’ filosofi stoici (Acad. Quaest. l 4, n. 33). Or questi, e in particolar maniera Polibio, concorsero maravigliosamente ad avvivare sempre più ne’ Romani quell’ardor per le scienze, da cui già cominciavano ad esser compresi. Non fermerommi io qui a tesser la vita di questo illustre scrittore, a cui dee la Grecia l’essere stata da’ Romani trattata con più dolcezza che non solessero usare co’ popoli da lor soggiogati (V. Freinshem. Suppl. Liv.l. 52 c. 21). Il giovane Scipione Africano singolarmente dal conversar di Polibio raccolse tal frutto, che come egli fu uno de’ più famosi condottieri d’armata che avesse Roma, così fu ancora uno de1 primi che nel coltivare e nell’onorare le scienze si renderono illustri. Io crederei di privare i lettori di uno de’ più bei passi che negli antichi scrittori ci sian rimasti, se a questo luogo non riferissi il ragionamento di Scipione ancor giovinetto con Polibio, che fu il principio dell’amore di cui egli si accese per lo studio delle bell’arti, e che da Polibio stesso così ci viene descritto (Exempl. Virt. et Vit c. 73).
Con qual occasione ad essa si rivolgesse il giovane Scipione Africano.
IV. Ho detto in addietro che la nostra amichevole corrispondenza avea avuto principio da’ ragionamenti che facevamo insieme su’ libri ch’ei mi prestava. Questa unione di cuori erasi già stretta alquanto, quando i Greci ch'erano stati chiamati a Roma, furono in varie città dispersi. Allora i due figliuoli di Paolo Emilio, Fabio e Publio Scipione, richiesero istantaneamente al Pretore ch’io potessi restar con loro; e l’ ottennero. Mentre io dunque stavami in Roma, una singolare avventura giovò assai a stringere vieppiù i nodi della nostra amicizia. Un giorno, mentre Fabio andavane verso il Foro, ed io e Scipione passeggiavamo insieme in altra parte, questo giovin Romano in un aria amorevole e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dolse che stando io alla mensa col suo fratello e con lui, io sempre a Fabio volgessi il discorso, non mai a lui; e io ben conosco, soggiunse, che questa vostra freddezza nasce dall'opinione in cui siete voi pure, come tutti i nostri concittadini, ch’io sia un giovine trascurato, che niun genio abbia per le scienze che al presente fioriscono in Roma; perciocchè non mi veggono applicarmi agli esercizii del Foro, nè volgermi all’eloquenza. Ma come, caro Polibio, come potrei io farlo? Mi si dice continuamente che dalla famiglia degli Scipioni non si aspetta già un oratore, ma un generale d'armata. Vi confesso che la vostra freddezza per me mi tocca e mi affligge sensibilmente. Io fui sorpreso, continua Polibio, all’udire un discorso cui certo non mi attendeva da un giovinetto di diciott'anni; e di grazia, gli dissi, caro Scipione, no non vogliate nè pensare, nè dire che se io comunemente rivolgo il discorso a vostro fratello, ciò nasca da mancamento di stima ch’io abbia per voi. Egli è primogenito; e perciò nelle conversazioni a lui mi rivolgo sempre anzi che a voi; e ciò ancora, perchè ben mi è noto che avete amendue i medesimi sentimenti. Ma io non posso non compiacermi di vedere che voi pur conoscete che a uno Scipione mal si conviene l’essere infingardo. E ben si vede quanto i vostri sentimenti siano superiori a que’ del volgo. Quanto a me, io tutto sinceramente mi offro al vostro servigio. Se voi mi credete opportuno a condurvi a un tenore di vita degno del vostro gran nome, potete di me disporre come meglio vi piace. Per ciò ch'è delle scienze alle quali vi veggo inclinato e disposto, voi troverete bastevoli aiuti in quel gran numero d’uomini dotti che ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestiere della guerra, di cui vorreste essere istruito, penso di potervi io stesso esser più utile di ogni altro. Scipione allora prendendomi le mani e stringendole tralle sue, e quando, disse, quando vedrò io quel dì felice in cui libero da ogni altro impegno, e standomi sempre al fianco, voi potrete applicarvi interamente a formarmi lo spirito e il cuore? Allora mi crederò degno de’ miei maggiori. D’allora in poi non più seppe staccarsi da me: il suo più grande piacere era lo starsi meco; e i diversi affari ne quali ci trovammo insieme, non fecero che stringere maggiormente i nodi della nostra amicizia. Egli mi rispettava come suo proprio padre, ed io lo amava non altrimenti che figlio. Fin qui Polibio, il quale continua poscia a descrivere le singolari virtù di cui questo gran generale si mostrò adornato.
Elogio di questo celebre generale.
V. Nè questo elogio che Polibio rende a Scipione, non deesi credere o esagerato, o sospetto; perciocchè tutti gli antichi scrittori concordemente ce lo rappresentano come uomo e di ogni più bella virtù e di ogni più bella letteratura adorno. E per parlare di questa sola, che sola al nostro argomento appartiene, Cicerone ci assicura ch’egli continuamente avea tra le mani l’opere di Senofonte (Tusc. Quaest. l. 2, n. 26); che avea sempre al fianco i più eruditi tra’ Greci che allora fossero in Roma (De Orat. l. 2, n. 3j), che a un’egregia natura un diligente coltivamento dello spirito congiunto avendo, un uom singolare divenne e veramente divino (Or. pro Archia n. 7). Ma niuno forse vi ha tra gli antichi scrittori che sì altamente lodato abbia il giovane Africano, come Velleio Patercolo. Egli, dice (l. 1 Hist. c. 13), fu sì valente coltivatore e ammiratore de’ liberali studi e di ogni genere di dottrina, che sempre aver volle a suoi compagni e in guerra e in pace que’ due uomini di eccellente ingegno, Polibio e Panezio. Niuno mai vi ebbe che meglio di Scipione occupasse il riposo che talvolta da’ pubblici affari gli si concedea; sempre intento a coltivar le arti civili e le guerriere, sempre in mezzo o alle armi o alle scienze, e esercitato tenne mai sempre o il corpo colle militari fatiche, o l’animo co’ più nobili studj. Somigliante lode deesi parimenti a Caio Lelio fedele amico e indivisibil compagno del giovane Africano. Egli di uguale amicizia onorò Polibio e gli altri eruditi Greci che allora erano in Roma, e con uguale fervore applicossi agli studi. Era già egli stato discepolo di un Diogene stoico, poscia frequentò la scuola e giovossi assai del sapere di Panezio (Cic. de Fin.l. 2, n. 8). A lui pure si aggiunsero e C. Furio e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevola, ed altri molti tra’ principali cavalieri romani. 1
I filosofi e i retori greci cacciati da Roma, e per qual ragione.
VI. Così cominciavano in Roma a fiorire gli studi, e cominciavano i Romani ad intendere che il valor militare non era la sola strada che conducesse all’immortalità del nome. I filosofi greci vedevano i più nobili cittadini farsi loro discepoli, e molti ancora ne vedevano alle loro scuole i greci retori ossia precettori dell’eloquenza. Di questi io non trovo veramente notizia alcuna distinta presso gli antichi scrittori. Ma che molti ve ne avesse in Roma, chiaro si rende e dal discorso di Polibio a Scipione riferito poc’anzi, e molto più dal decreto che ora riferiremo, e per cui poco mancò che sì lieti principii fino dalla radice non fosser troncati. L’anno 592, cioè sei soli anni dappoichè venuti erano a Roma i filosofi e i retori greci, ecco un severo editto del romano senato, che commette al pretore di fare in modo che retori e filosofi più non siano in Roma. Svetonio
(De Cl. Rhetor. c. 1) e Gellio (l. 15, c. 11) ce ne hanno conservate le precise parole: C. Fannio Strabone et M. Valerio Messala Coss. (questi furono appunto consoli nel detto an 592) Senatusconsultum de philosophis et rhetoribus factum est M. Pomponius Praetor Senatum consuluit, quod verba facta sunt de philosophis et rhetoribus. De ea re ita censuerunt, ut Marcus Pomponius praetor animadverteret, uti e Republica fideque sua videretur, Romae ne essent. Qual fosse il motivo di sì rigoroso decreto e qual ne fosse l’effetto, i sopraccitati scrittori nol dicono chiaramente. Quanto al motivo, pare che que’ severi Padri Coscritti, avvezzi a non conoscere altro studio che quello di soggiogare il mondo, temessero che l’applicarsi alle scienze dovesse seco portare lo sconvolgimento e la rovina della Repubblica, e che la gioventù romana non potesse avere amore alle scienze senza aver in odio la guerra. Se allor si fosse trovato nel senato romano un famoso moderno filosofo che con un eloquente patetico ragionamento ha preteso di mostrare il gran danno che dal coltivare le scienze ridonda negli uomini, avrebbe certo riscosso grandissimo plauso. È probabile che il decreto del senato avesse il suo effetto; che non erano allora que’ Padri soliti a soffrire che i loro editti fossero non curati. Ed io penso che la dispersione fatta de’ Greci in diverse città, che abbiam veduta rammentarsi da Polibio, fosse appunto effetto di tal decreto. Ma certo è che l’amor delle scienze non venne meno per tal decreto in Roma; anzi nacque quindi a non molto altra occasione che il fece sempre più vivo ed ardente.
Altri filosofi greci manfati in ambasciata a Roma.
VII. Saccheggiata aveano gli Ateniesi la città di Oropio nella Beozia; di che avendo que cittadini portate al romano senato le loro doglianze, questo commisse a’ Sicionii, che, esaminato l’affare, imponessero agli Ateniesi tal multa che i’ danni da loro recati ad Oropio fosse proporzionata. Furon perciò gli Ateniesi condannati da’ Sicionii a pagare a que’ di Oropio presso a cinquecento talenti. Troppo gravosa sembrò agli Ateniesi tal multa; e un’ambasciata inviarono essi al senato romano, perchè la pena fosse resa più mite (Gell. l. 7, c. 14; Plutarch. in Caton. Cens. ec.). Pare che in questa occasione volessero gli Ateniesi far pompa presso i Romani del lor valore nelle scienze, poichè a sostener l onore di quest’ambasciata scelsero i tre più rinomati filosofi che allor vivessero. Furon questi Carneade, Diogene, Critolao, capi delle tre filosofiche sette che fiorivano in Grecia, Carneade dell’accademica, Diogene della stoica, Critolao della peripatetica, uomini insieme valorosi in eloquenza, ed atti, benchè per diversa maniera, a persuadere altrui ciò che più loro piacesse.
A qual anno debbasi essa fissare.
VIII. È sembrato al Bruckero (Hist. Crit. Philos. t.2, p. 8) assai malagevole il fissare precisamente il tempo di quest’ambasciata, e il trovare un anno a cui possano convenire tutte le circostanze che di questo memorabil fatto ci han tramandato gli antichi scrittori. Io confesso che non vi scorgo difficoltà. Cicerone, citando ancora l’autorità di Clitomaco, dice (Acad. Quaest. I. n. 45) che’erano allora consoli P. Scipione e M. Marcello; e altrove aggiugne (Tusc. Quaest. l. 4, n. 3) che giovani erano allora Lelio e Scipione l’Africano. Abbiamo ancor da Plutarco (in Caton. Cens.) che Catone allora era vecchio. Or tutto ciò ottimamente convien all’anno 598. Furono allora consoli P. Scipione Nasica e M. Claudio Marcello, nè altro anno vi ebbe intorno a questi tempi medesimi, in cui due consoli fossero di tali famiglie. Scipione Africano e Lelio erano ancor giovani, come di sopra si è detto, e Catone era in età assai avanzata, perciocchè dic’egli stesso presso Cicerone (De Senect. n. 5), che avea 65 anni nel consolato di Cepione e di Filippo, che furon consoli l’anno 584, onde a quest’anno contava già Catone 79 anni di età. Non vi ha dunque ragione alcuna che renda dubbiosa l’epoca dell’ambasciata de’ filosofi greci da noi fissata all’anno di Roma 598.
Fervore ch'essi destano in Roma per lo studio della filosofia.
IX. Venuti a Roma i tre illustri filosofi, e ammessi al senato, esposero, secondo il costume, per mezzo d’interprete il soggetto della loro ambasciata. Ma perchè l’affare richiedeva matura deliberazione, costretti essi frattanto a fermarsi in Roma, cominciaron a far pompa del lor sapere e della loro eloquenza. Ne’ luoghi dunque più popolosi della città or l’uno, or l’altro prendevano a quistionare, e colla novità degli argomenti, colla sottigliezza de’ lor pensieri, coll’eleganza del favellare riscuotevano ammirazione ed applauso. Diversa era la lor maniera di ragionare, come osserva Gellio (l. 7, c. 14); allegando l’autorità di due antichi scrittori, Rutilio e Polibio. Diogene usava di uno stile parco e modesto, con cui semplicemente sponeva i suoi pensieri; fiorito ed elegante nel suo parlare era Critolao; forzoso ed eloquente Carneade, di cui Cicerone ancora dice (De Orat. l. 2, n. 38) che avea una forza e varietà incredibile di ragionare, e che niuna cosa prese mai a sostenere nelle sue aringhe cui non persuadesse, niuna a combattere cui totalmente non atterrasse. Di lui raccontasi (Quintil. l. 12, c. 1) che avendo un giorno in presenza di Catone e di altri molti eloquentemente parlato in lode della giustizia, e i vantaggi mostrati che ne derivano, il dì seguente per dar prova del suo ingegno parlò con uguale eloquenza contro la giustizia medesima, e mostrò esser questa l’origine di gravissimi danni. Questa maniera di favellare, e questo genere di eloquenza sconosciuto fin allora a’ Romani, li sorprese talmente che di altro quasi non parlavasi in Roma che de filosofi greci. Tutti i giovani, dice Plutarco (in Caton Cens.), che vogliosi erano delle scienze, ad essi ne andarono, e udendoli rimaser sorpresi per maraviglia. Ma singolarmente la grazia di favellare e la forza nulla minore di persuadere che avea Carneade, avendo a lui tratti gli uditori in gran folla, per tutta la città udivasene il nome, e pubblicamente diceasi che il filosofo greco, insinuandosi con ammirabil arte negli animi de’ giovani, all’amor delle scienze gli accendeva, da cui quasi da entusiasmo compresi, abbandonati tutti gli altri piaceri, volgevansi allo studio della filosofia.
Catone li fa congedare da Roma.
X. L’affollato concorso che a’ ragionamenti de’ greci filosofi faceasi da ogni parte, l’universal plauso con cui erano ascoltati, non piacque punto al severo Catone. Temeva egli, come dice Plutarco, che la gioventù romana di questi studi invaghita non anteponesse alla militare la letteraria lode. E questo timore molto più se gli accrebbe, quando avvertì che anche nel senato romano cominciava ad entrare il genio della greca filosofia. Perciocchè C. Acilio, uomo assai ragguardevole, ottenne di poter nel senato ripetere latinamente que’ discorsi che da’ filosofi greci uditi avea nella natia loro favella. Più non vi volle perchè Catone si risolvesse di rimandare onoratamente alle lor case questi tre, a suo parere, troppo perniciosi filosofi. Venuto dunque in senato prese a gravemente riprendere i magistrati, perchè permettessero che uomini i quali sì agevolmente potevano persuadere altrui checchè loro piacesse, più lungamente si fermassero in Roma; doversi spedir quanto prima l’affare per cui eran venuti, e quindi rimandare i filosofi alle loro scuole in Grecia, e fare in modo che i giovani romani seguissero, come usato aveano fino allora, ad aver per maestri le leggi e i magistrati. Era troppo grande l’autorità di Catone perchè il suo parere non prevalesse. Per agevolare ancor maggiormente la partenza de’ greci filosofi, il senato permise che la multa degli Ateniesi ristretta fosse a soli cento talenti. In tal maniera i filosofi lieti del felice riuscimento del loro affare, e del plauso da essi ottenuto in Roma, fecero alle lor patrie ritorno. Tutto ciò da Plutarco e da altri antichi autori presso il Freinshemio (Suppl. ad Liv. l. 47, c. 25).
Non perchè egli non fgsse uomo assai colto.
XI. Questo procedere di Catone non ci dà una troppo vantaggiosa idea del suo pensare in ciò che appartiene alle scienze. E sappiamo nondimeno che dotto uomo egli era, e in molti studi egregiamente versato. Anzi possiam dire a ragione che fu egli il primo che prendesse a illustrare in lingua latina molti argomenti che da’ romani scrittori non erano ancora stati trattati. Abbiamo tuttora i libri che intorno all’agricoltura egli scrisse, se pure a Catone debbonsi veramente attribuire que’ che ne portano il nome2. Perciocchè Giammattia Gesner che una bella edizione ci ha data di tutti gli antichi scrittori d’agricoltura, stampata in Lipsia l’anno 1735, con molte e forti ragioni ha mostrato che l’opera che abbiam di Catone non è che una informe raccolta di molti frammenti raccolti qua e là, e mal connessi tra loro, fra’ quali alcuni ve ne ha che forse non sono di Catone, ed altri ancora alterati e guasti. Egli ancora fu il primo che la storia romana scrivesse in prosa, e sette libri ei ne compose intitolati delle Origini, di cui vedremo fra poco quanta stima avesse Cicerone. Dell’arte militare ancora e dell’arte rettorica avea egli scritto il primo tra’ Latini, oltre molte lettere e molte orazioni, delle quali e di altre opere di questo grand’uomo si può vedere il Fabricio (Bibl. Lat. l. 1, c. 2). Abbiam parimenti alcuni distici morali che sotto il nome di Catone si veggono in molte edizioni. Ma egli è parere di molti ch’essi siano opera di troppo più giovane autore. Nel che però, come osserva l’ab. Goujet (Bibl. franc. t.5, p. 1, ec.). troppo oltre si avanzan coloro che vogliono farne autore qualche poeta cristiano del settimo o ottavo secolo. Ma veggasi singolarmente una dissertazione di Giovanni Ilderico Withofio, stampata in Amsterdam l’anno 1754, in cui con un diligentissimo esame di tutte le circostanze, assai probabile rende la sua opinione, che autor di essi sia il celebre medico Q. Sereno Sammonico al tempo dell’imperador Caracalla. A conoscere ancor meglio il letterario merito di Catone basta legger gli elogi che ce ne hanno lasciato gli antichi scrittori. Due soli io ne trascelgo, Cicerone e Livio. Il primo, oltrechè spesso ne parla, e sempre con somma lode, così una volta tra le altre di lui ragiona (De Cl. Orat. n. 17). Qual uomo fu egli mai Catone, Dei immortali! Lascio in disparte il cittadino, il senatore, il generale d’armata. A questo luogo cerco sol l’oratore. Chi più di lui grave in lodare? Chi più ingegnoso ne’ sentimenti? Chi più sottile nella disputa e nella sposizion della causa? Le cento cinquanta sue Orazioni (che tante ne ho io finora trovate e lette) piene sono di cose e di espressioni magnifiche.... tutte le virtù proprie di un oratore ivi si trovano. Le sue Origini poi qual bellezza e qual eloquenza non hanno esse?.... Egli è vero che alquanto antico n’è lo stile, e incolte ne sono alcune parole, che così allora parlavasi; ma prendi a mutarle, il che egli allora non potè fare, aggiugnivi l'armonia, rendine più adorno lo stile.... niuno certamente potrai tu allora anteporre a Catone. Più magnifico ancora, perchè più universale, si è l’elogio che ne fa Livio (l. 39, c. 40): M. Porcio Catone tutti superava di gran lunga i patrizii e i plebei tutti anche delle più illustri famiglie. Fu egli di sì grand’animo e di sì grande ingegno fornito che, in qualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbe egli stesso la sua fortuna. Non vi ha arte alcuna nel maneggio de’ pubblici e de privati affari che a lui fosse ignota. Amministrava con ugual senno gli affari della città e que’ della campagna. Altri salgono a sommi onori per lo studio delle leggi, altri per l’eloquenza, altri per la gloria dell’armi. Egli ebbe l’ingegno così ad ogni arte adattato, che l’avresti creduto nato unicamente a quella qualunque fosse a cui rivolgevasi. Coraggioso nelle battaglie e celebre per molte illustri vittorie, dopo essere salito a ragguardevoli onori, fu general supremo dell’armi. Nella pace ancora peritissimo delle leggi, eloquentissimo nell’aringare. Nè fu già egli tal uomo che vivo solamente fosse in gran pregio, e niun monumento lasciasse di se medesimo. Anzi ne vive tuttora, e n’è in onor l’eloquenza consecrata, per così dire, ne’ libri d’ogni argomento da lui composti. Fin qui Livio, il qual altre cose ancor prosiegue a dire in lode di questo illustre censore.
Ma per l'odio che portava per diverse ragioni alla greca filosofia.
XII. Non fu dunque avversione che Catone avesse agli studi quella che lo indusse a cercare il congedamento de’ filosofi greci, nè fu timor che le scienze, qualunque esse si fossero, distogliessero dalla guerra i Romani. Sembra piuttosto che la sola greca letteratura fosse in odio a Catone, e la greca filosofia singolarmente. Abbiamo veduto di sopra che solo nell’estrema vecchiezza si diede allo studio di quella lingua. Il Bayle le ha voluto muover dubbio su questo punto (Diction. Art “Porcius Cato„), appoggiandosi all’autorità di Plutarco il quale racconta che Catone in età di circa 45 anni andato in Atene parlò per interprete a que’ cittadini, benchè potesse usare della lingua greca. Ma l’autorità di Plutarco non basta a rimpetto del testimonio di altri antichi scrittori di sopra allegati, e di Cicerone singolarmente. Anzi Plutarco medesimo si contradice, perciocchè riferisce egli stesso che la maggior parte degli autori affermano (parole che il Bayle non troppo fedelmente ha tradotte con un semplice on dit) ch’egli tardi apprendesse la lingua greca, poichè nell'estrema vecchiezza prendendo in mano i greci libri, alcune brevi annotazioni scrisse traendole da Tucidide, e più ancor da Demostene, di cui si sa che giovossi assai nel perorare le cause; e le sue opere di sentimenti e di storie greche ornò e sparse; e molte cose bene e ac conciamente dal greco traslatò in latino. Così Plutarco, il quale a questo luogo nulla dice a ribattere questo comun sentimento de’ più antichi scrittori, benchè nella stessa Vita ad altra occasione narri ciò che di sopra si è riferito. La tardanza di Catone nell'applicarsi alla greca letteratura ci mostra chiaramente ch’egli n’era nimico, non già per avversione agli studi, ma per una cotal romana alterigia che sdegnava di comparir bisognosa de’ soccorsi altrui, e che mirava singolarmente di mal occhio i Greci, rivali, in ciò che a lettere appartiene, troppo fastidiosi a’ Romani. Questo medesimo più apertamente ancor si raccoglie da’ discorsi che Plutarco racconta ch’egli era solito a tenere su tale argomento; perciocchè diceva egli che Socrate era stato un uom loquace e violento, il quale con novità perniciose sconvolta avea la patria; che Isocrate, facendo invecchiare i discepoli nella sua scuola, rendevali solo opportuni a trattare le cause ne’ campi Elisij; e innoltre veggendo suo figlio agli studi greci inclinato assai, soleva con grave e severa voce, quasi profetando, ripetere che i Romani allora perduto avrebbon l’impero, quando alle lettere greche si fosser rivolti. I medici greci ancora, che cominciavano, come poscia vedremo, a venirsene a Roma, aveva egli in orrore; poichè diceva aver essi conceputo il perverso disegno di toglier dal mondo sotto pretesto di medicina i barbari tutti, col qual nome comprendevano essi anche i Romani. Onde nascesse questo implacabil odio di Catone contro de’ Greci, e singolarmente contro de’ filosofi, non è difficil cosa a vedere. Osservava egli la Grecia divisa allora in tanti partiti, quante eran le sette de’ filosofi che vi regnavano, stoici, platonici, epicurei, peripatetici, tutti di massime, di sentimenti diversi, disputar gli uni contro degli altri, e nelle loro dispute cercare di far pompa d’ingegno, non di scoprire il vero; e frattanto lo stato politico della Grecia andare in rovina, ed essere omai fatto schiavo quel popolo che prima della sorte di tante provincie era arbitro e signore. Temeva egli dunque, se queste filosofiche sette ói fossero introdotte in Roma, seco ne recassero ancora i funesti effetti che prodotto aveano in Grecia. L’eloquenza di Carneade singolarmente doveva parergli pericolosa; e l’avvezzarsi i Romani a imitazione di lui a parlare in lode ugualmente che in biasimo di qualunque più pregevol virtù, dovea sembrargli principio troppo fatale al buon governo della repubblica. Quindi quel zelo che per la salvezza e per la gloria della sua patria avea Catone, non gli permise il tacere in tal occasione, e di tutta la sua autorità fece uso, perchè questo pericolo da essa si allontanasse.
Vi restan nondimeno Polibio e Panezio, e vi fomentan lo studio.
XIII. Partiron pertanto i filosofi greci da Roma, ma non partì con essi quel desiderio della filosofia e della letteratura greca ch’essi vi aveano risvegliato, e non ne partirono Polibio, Panezio, e forse ancora altri eruditi uomini greci. Non lasciarono questi di essere ancora sommamente cari al giovane Scipione, a Lelio, a Furio, a Filippo, a Gallo e ad altri de’ principali cavalieri romani (Cic. pro Muraena, n. 31). Era Panezio, come detto abbiamo, di setta stoico, e questa fu la cagione per cui questa più che le altre sette ebbe seguaci in Roma. Pareva inoltre ch’essa fosse la più opportuna a formar l’animo de’ cittadini e a scorgerli al buon governo della repubblica. Si può su questo punto vedere il Bruckero che lungamente ne ha favellato (t. 2, p. 17, e Append. p. 344)- Benchè, come egli stesso osserva (Append. p. 341), anche la filosofia di Pittagora, comunque la sua scuola fosse già dissipata e di sciolta, ebbe nondimeno in Roma non pochi seguaci, in quella parte singolarmente che al buon costume appartiene e alla civile economia. Altre sette ancora vi ebbero i lor seguaci; ma a parlare sinceramente, qualunque fosse la setta a cui i Romani si accostavano, non eran tanto, ne’ tempi di cui parliamo, le fisiche e le naturali questioni quelle in cui essi si esercitassero, quanto le politiche e le morali; perciocchè queste più che le altre giudicavansi vantaggiose e al ben privato de’ cittadini e al pubblico dello Stato.
L’astronomia comincia ad essere coltivata in Roma.
XIV. Nondimeno quella parte ancora di filosofia che si volge allo studio della natura, fu in Roma conosciuta ed abbracciata da alcuni. Questa lode deesi sopra tutti a C. Sulpicio Gallo. Cicerone lo annovera tra’ valenti oratori di quella età: Tra giovani, dic’egli (De Cl. Orat. n. 20), fu C. Sulpicio Gallo che fra i nobili romani fu il più studioso della greca letteratura. Egli ebbe fama di oratore, e nelle altre scienze ancora fu uom colto ed ornato. Nell’anno in cui egli era pretore, morì Ennio. Ma altrove de suoi studi astronomici più chiaramente ragiona, quando introduce il vecchio Catone a favellar per tal modo al giovine Africano (De Senect. n. 14): Noi vedevamo venir quasi meno pel grande studio di misurare, per così dire, la terra e il cielo C. Gallo amico intrinseco del padre tuo, o Scipione. Quante volte, avendo egli cominciato a scrivere alcune cose di notte tempo, fu sorpreso dal giorno! Quante volte sorpreso fu dalla notte, avendo egli cominciato a scrivere fin dal mattino! Quanto godeva egli nel predirci molto tempo innanzi le ecclissi del sole e della luna! E questo suo sapere d’astronomia non solo fu a lui di onore, ma di vantaggio ancora alla repubblica tutta. Perciocchè l’anno di Roma 585, essendo egli tribuno militare nell’esercito di Paolo Emilio, a’ tre di settembre radunato con licenza del console tutto l’esercito, avvertì i soldati, per usar le parole di Livio (l. 44 > c- 7), che la prossima notte dalle due ore fino alle quattro sarebbesi ecclissata la luna; niun credesse tal cosa prodigiosa e funesta; perciocchè, accadendo ciò per ordine della natura a’ tempi determinati, potersi ancora conoscere avanti tempo e predire; e come non si stupivano che ora intera fosse la luna, ed ora scema, perchè sapevano esser certo e determinato il sorgere e il tramontare di essa e del sole, così non doversi avere in conto di prodigio l'ecclissi, seguendo questa perchè la luna dall’ombra della terra viene oscurata. Il quale avvertimento giovò maravigliosamente a Romani, che il dì seguente venuti con animo lieto a battaglia co’ Macedoni condotti dal loro re Perseo, e trovandogli atterriti per la veduta ecclissi, li ruppero facilmente, e misergli in fuga. Questo fatto medesimo vien raccontato da Plinio (l. 2, c. 12) e da Valerio Massimo (l. 8, c. 11, n. 1); ma quest’ultimo diversamente dagli altri due, che certo son più degni di fede, vuole che Gallo rassicurasse l’esercito solamente allor quando era già cominciata l’ecclissi. Plinio aggiugne che Gallo in appresso sulle ecclissi compose e pubblicò un libro che fu certo il primo tra’ Romani su questo argomento. Io so che i Greci prima de’ Lalini ebbero un tal vanto; e oltre che Talete il primo vuolsi da alcuni che predicesse un’ecclisi (il che però da altri (V. Mém, de l’Ac ad. des Inscr. 1756, p. 70, ec.) recasi indubbio), Plinio afferma (loc. cit.) che
Ipparco fu il primo che intorno alle ecclissi accertatamente e diligentemente scrivesse. Ma non è perciò che gran lode non debbasi a Gallo di aver egli innanzi ad ogni altro, che a noi sia noto, coltivato sì fatti studi in Roma, e in un tempo in cui questa scienza era comunemente ignota, come chiaramente raccogliesi e dallo stupore che recò a Romani tal predizione, per cui divina fu da essi, creduta la scienza di Gallo, e dallo spavento che la veduta ecclissi destò nei Macedoni.
Amafanio scrive in latino delle cose fisiche.
XV. Egli è però vero che, trattone questo illustre astronomo di cui ora abbiam parlato, appena troverassi altri tra’ Romani che a tali studi in questi tempi si rivolgesse. Cicerone istesso confessa che la filosofia fino a suoi giorni era stata negletta in Roma, nè con libri latini non era stata punto illustrata; e recandone un particolar esempio, presso i Greci, egli dice (Tusc. Quaest. l. 1, n. 3), fu la geometria in altissimo pregio; perciò tra essi erano i matematici sopra tutti gli altri famosi; noi al contrario di questa scienza altro non abbiam preso che il vantaggio di misurare e di computare. Un solo ho io trovato, di cui si narri aver lui le quistioni fisiche ancora latinamente esposte. Questi è un certo C. Amafanio, da altri detto Amafinio. Non sappiamo a qual tempo precisamente vivesse; ma da ciò che Cicerone ne dice, sembra ch’ei fosse un de’ più antichi, ma non de’ migliori filosofi, poichè egli ne parla con poca lode: Didiisti enim, dice (Acad Quaest. lib. 1, n. 2), non posse nos Amafanii aut Rabirii similes esse, qui, nulla arte adhibita, de rebus ante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil definiunt, nihil partiuntur, nihil apta interrogatione concludunt, nullam deniqne artem esse nec dicendi nec disserendi putant. E poco dopo più chiaramente afferma che anche il sistema fisico di Epicuro, di cui era Amifanio seguace, fu da lui spiegato: Jam vero physica, si Epicurum, idest si Democritum probarem, possem scribere ita plane ut Amafanius. Quid est enim magnum, cum causas rerum efficientium sustuleris, de corpusculorum (ita enim appellat atomos) concursione fortuita loqui? Avea dunque Amafanio il sistema fisico di Epicuro, ossia di Democrito, che consiste appunto nella fortuita congiunzione degli atomi, spiegato in latino linguaggio ma il sistema morale ancora avea spiegato, e i suoi libri perciò, in qualunque maniera fossero scritti, avean avuto gran nome, e molti seguaci la dottrina da lui proposta (Tusc. Quaest. l. 4, c. 3): Interim illis silentibus Amafanius exstitit dicens; cujus libris editis commota multitudo contulit se ad eandem disciplinam, sive quod erat cognita perfacilis, sive quod invitabatur illecebris voluptatis. sive etiam quia nihil probatum erat melius, illud, quod erat, tenebant. Anzi soggiugne che molti altri dopo Amafanio scrissero sull’argomento medesimo, e l’Italia tutta occuparono de' loro libri. Vorrebbesi qui aggiugnere ancora ciò che appartiene alla medicina, perciocchè Arcagato medico greco in quest’epoca stessa, cioè l’anno 535, venne a Roma, e prima d’ogni altro esercitovvi quest’arte. Ma come poco felice successo ella ebbe allora in Roma, ci riserberemo a parlarne all’epoca susseguente, e frattanto conchiuderemo questa col dir brevemente in quale stato fossero in essa le altre scienze in Roma.
Note
- ↑ Lo studio della lingua greca cominciò fin da questi tempi in Roma a rivolgersi in abuso. Narra Suida, e assai prima di lui avea narrato Polibio (Excerpta ex Legat. apud Vales. p. 189, 190) che Aulo Postumio, uomo di nobilissima nascita, ma leggero e loquace oltre modo, fin da fanciullo diedesi allo studio della lingua greca, ma in sì affettata maniera che la greca letteratura divenne odiosa a’ più saggi che erano in Roma. Volle poscia scrivere un poema e una storia delle cose della Grecia, e lusingossi di ottener lode presso i dotti, dicendo nell’esordio che era degno di compatimento se, essendo Romano, avea scritto in greco; ridicola scusa, dice Publio, e somigliante a quella di chi, essendosi spontaneamente offerto alla lotta, se ne scusasse poscia perchè non ha forze ad essa bastevoli.
- ↑ I Romani mostrarono assai presto quanto fosser solleciti di propagare lo studio dell’agricoltura; perciocchè avendo espugnata Cartagine, e trovati in essa ventotto volumi che intorno ad essa avea scritti Magone, portaronli a Roma; ed essi furono per ordine del senato tradotti in latino, come narrasi da Columella (l. 1, c. 1) il quale oltre Catone, Varrone, Virgilio e Igino nomina ancora alcuni scrittori latini che sullo stesso argomento avean pubblicati libri, cioè due Saserni. padre e figlio, e Scrofa Tremellio di cui dice che rendette eloquente l’agricoltura.
- Testi in cui è citato Gaio Svetonio Tranquillo
- Testi in cui è citato Plutarco
- Testi in cui è citato Guido da Suzzara
- Testi in cui è citato Polibio
- Testi in cui è citato Panezio
- Testi in cui è citato Marco Tullio Cicerone
- Testi in cui è citato Senofonte
- Testi in cui è citato Velleio Patercolo
- Testi in cui è citato Aulo Gellio
- Testi in cui è citato Carneade
- Testi in cui è citato Diogene di Sinope
- Testi in cui è citato Critolao
- Testi in cui è citato Johann Freinsheim
- Testi in cui è citato Johann Matthias Gesner
- Testi in cui è citato Johann Hildebrand Withof
- Testi in cui è citato Tito Livio
- Testi in cui è citato Pierre Bayle
- Testi in cui è citato Tucidide
- Testi in cui è citato Demostene
- Testi in cui è citato Socrate
- Testi in cui è citato Isocrate
- Testi in cui è citato Johann Jacob Brucker
- Testi in cui è citato Pitagora
- Testi in cui è citato Gaio Plinio Secondo
- Testi in cui è citato Valerio Massimo
- Testi in cui è citato Ipparco di Nicea
- Testi SAL 75%