Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo VI

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Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII
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Capitolo Sesto.


I Piemontesi varcano il Ticino. — Il re Carlo Alberto e il maresciallo Radetscky. — Prime vittorie dei Piemontesi. — Ferdinando di Borbone e la Sicilia. — I volontari italiani. — Ostilità contro i gesuiti. — Documenti nuovi. — Dimostrazioni per l’invio dei due cannoni fatto dai Genovesi. — La processione pel ritrovamento del busto di sant’Andrea apostolo. — Esultanza soverchia e soverchi festeggiamenti. — La marcia delle legioni civiche romane. — Il mentitore visconte D’Arlincourt e il Comune di Monterosi. — Documenti nuovi. — Ordinanza per la compilazione delle liste elettorali politiche. — Insufficienza e ristrettezza dello Statuto papale. — Il generale Durando e il ministro Aldobrandini — Documenti nuovi. — Il cardinale Ciacchi, gli Austriaci e i Ferraresi. — L’ordine del giorno del generale Durando del 27 marzo. — Il direttore della Gazzetta di Roma abate Coppi e il dragone del ministro Aldobrandini — Il cardinale Antonelli direttore della politica a partita doppia. — Documenti nuovi. — Il proclama del generale Durando del 5 aprile. — Guelfi e romantici. — Alessandro III e Pio IX. — Evoluzioni storiche progressive, non ricorsi regressivi. — Smanie e proteste del tentennante Pontefice. — Tumulti socialisti. — Pane e lavoro — L’opera pacificatrice di Ciceruacchio. — Fermezza e abilità del ministro Galletti. — Le menzogne dello Spada smentite da documenti nuovi. — Le finanza pontificie e i due tesorieri monsignor Morichini e principe Simonetti. — La Dieta italiana. — Rappresentanti di Napoli e di Sicilia alla Dieta nazionale in Roma. — Discordie di popoli e gelosie di Principi. — Fraudi ed intrighi. — L’egemonia piemontese e il conte Cesare Balbo. — Gli Israeliti e le mura del ghetto. — Il cardinale Patrizi e Ciceruacchio. — Documenti nuovi. — Salvatore Betti e Luigi Carlo Farini. — La necessità della dichiarazione di guerra all’Austria. — Il generale Durando e il generale Nugent. — Le due divisioni romane a Ostiglia e a Rovigo. — Documenti nuovi. — La rimostranza dei Ministri a Pio IX. — Malafede papale. — La logica assalisce la contraddizione. — L’Allocuzione del 29 aprile. — La bomba scoppia e la contraddizione finisce.

L’esercito piemontese aveva varcato il Ticino, mentre le popolazioni lombardo-venete, insorte, un po’ più un po’ meno energicamente, da per tutto, avevano scompaginato e demoralizzato l’esercito austriaco, che era stato costretto a cercar rifugio entro la breve cerchia del quadrilatero, formato dalle fortezze di Peschiera, di Mantova, di Legnago e di Verona. Ma, se l’esercito piemontese era composto di soldati valorosissimi, animati [p. 334 modifica]da incrollabile fermezza di propositi, sobrii, pronti ed atti alle fatiche e alle privazioni, esso non aveva un abile, un esperto, un veggente capitano quale era il feld maresciallo Radetscky, che compensava quasi, in quei primi rovesci, con le grandi sue qualità morali ed intellettuali, lo scoraggiamento, le trepidazioni, la demoralizzazione in preda a cui si trovavano, in quel momento, la maggior parte delle sue soldatesche austriache, boeme, croate, ungheresi ed italiane.

Il Re Carlo Alberto, coraggiosissimo personalmente, prode cavaliere, sprezzatore quasi beffardo dei pericoli e della morte, ma incerto, esitante, dubbioso sempre, sempre stretto, in ogni militare sua deliberazione, fra considerazioni di indole politica e diplomatica, non aveva nessuna delle qualità che sono indispensabili a formare il grande capitano e - ciò che era ancora peggio - non aveva, fra i generali di cui più egli si fidava, nessuno che potesse supplire, con le proprie doti di mente e col frutto de’ suoi studi strategici, alle qualità che facevano difetto in lui. E poi si fidava proprio sicuramente di qualcuno il Re Carlo Alberto, che spesso si industriava ad accettare soltanto metà dei consigli che gli venivano dati da un lato, per conciliarli con la metà dei suggerimenti che gli venivano da un altro?

Ed ecco accennate subito le principali ragioni le quali impedirono che, in quella guerra gloriosa e sfortunata, un disegno ben maturato ed ordinato presiedesse all’azione: in quella guerra si combattè quasi a caso, con provvedimenti improvvisati, volta per volta, secondo i bisogni del momento, ma senza un esatto e consapevole concetto di un fine strategico preciso e determinato a cui la guerra fosse rivolta.

Non è mio ufficio esaminare i fatti d’armi, i combattimenti le mosse, le marcie e le contromarcie dei due eserciti in quella guerra: anzi i limiti in cui è circoscritta l’opera mia, un tale esame mi divietano; onde accennerò unicamente alle liete speranze che i primi successi, dalle armi piemontesi ottenuti sulle rive del Mincio, nei combattimenti di Goito, di Valleggio e di Monzambano, fra l’8 e il 10 di aprile, avevano destato in tutti i cuori italiani.

Da quelle vittorie un fiero sobbollimento era derivato, che si diffondeva da un capo all’altro d’Italia e le cui [p. 335 modifica]manifestazioni molteplici, spesso smodate e quali alla giovanile inconsideratezza sono confacevoli, irrompevano clamorose a Roma, come in ogni città della penisola.

A Napoli il 27 di marzo era stato costituito un nuovo Ministero più liberale, sotto la presidenza dell’illustre storico e letterato Carlo Troja e il Re, in presenza alle quasi quotidiane dimostrazioni popolari, invocanti la partecipazione del Reame napolitano alla guerra santa della nazionale indipendenza, aveva pubblicato il 7 aprile un proclama, nel quale annunziava il suo assentimento a quella guerra e l’invio, già ordinato, di una divisione e di una parte del naviglio per l’alta Italia. È vero che in quel proclama l’ansia e il desiderio della unione interna, alla quale ripetutamente si accennava, rivelavano chiaramente come quella partecipazione di Ferdinando di Borbone alla guerra nazionale italiana fosse un espediente suggerito dalla speranza di veder tornare la Sicilia in soggezione della borbonica dinastia, che il Parlamento siciliano, raccolto a Palermo sul finire di marzo, aveva dichiarata decaduta dal dominio dell’isola, nominando, frattanto, reggente di Sicilia l’ammiraglio Ruggero Settimo, per virtù civili, per esperienza e per canizie uomo onorandissimo. Ma quali che si fossero le ragioni che consigliavano Ferdinando di Borbone a partecipare alla guerra, allora poco importava discuterle: ciò che importava, in quel momento, si era che l’esercito e il naviglio napoletano concorressero efficacemente all’opera dell’italica redenzione.

Già parecchie centinaia di giovani volontari eran partiti da Napoli alla volta della Lombardia; poco più di un centinaio ne eran partiti sotto gli ordini del colonnello La Masa, dalla Sicilia; tremila circa muovevano dalla Toscana verso il Mincio e fra questi andavan segnalati gli studenti delle Università di Pisa e di Siena, capitanati dai loro professori Pilla, Montanelli, Zanetti, Mossotti, Pirla, Ferrucci.

Ai volontari toscani andavan congiunti tremila soldati dell’esercito regolare granducale, avviati anch’essi alla volta della Lombardia.

I Duchi di Parma e di Modena, dopo essere stati devoti agli Austriaci e aver palesato l’animo loro avversissimo al movimento nazionale, alle riforme, alle libertà costituzionali, ora che [p. 336 modifica]i Croati erano stati espulsi da Milano e da quasi tutta la Lombardia, ora che i Piemontesi irrompevano sul Mincio contro di essi, si trovarono a mal partito e, simulando sentimenti patriottici e liberali, da prima concessero i reclamati statuti liberali ai loro popoli, poscia, abbandonando i loro Stati, esularono, lasciando i Ducati in balia a Governi provvisori, i quali, intanto, cominciarono a industriarsi di venire, con tutti i mezzi che erano a loro disposizione, in aiuto della impresa del nazionale riscatto.

A Roma, come ho parecchie volte accennato, da un pezzo bolliva la pentola contro i gesuiti; e le ragioni dell’odio, onde gran parte della popolazione i reverendi padri proseguiva, io le ho anche notate: esse, da altra parte, sono cosi naturali ed evidenti che non abbisognano di ampia e diffusa illustrazione.

La Compagnia di Gesù, fondata dal fanatismo cattolico e dal mirabile fervore ascetico di don Inigo Lopez di Recalde, più noto sotto il nome di Ignazio di Loyola, nel 1540, quando metà dei Cristiani di Europa si erano sottratti alla supremazia del Papa e si erano rumorosamente staccati dalla Chiesa cattolica, rappresentava la legittima reazione dei seguaci delle dottrine ascetiche e dogmatiche contro la violenta azione dei Luterani e dei Zwingliani, i quali sostenevano il libero esame e la libera interpretazione del Vangelo. Essa era, adunque, per l’indole sua, pel momento di lotta terribile in cui nacque, sorta a sostegno della unità e della universalità della Chiesa cattolica, a sostegno del principio di autorità e di infallibilità, personificato nel Papa; per conseguenza essa doveva essere e fu sempre eminentemente autoritaria e dogmatica e, quindi, nemica di ogni libertà. Onde è naturale che - per le massime da essa sempre propugnate, per gl’insegnamenti dati e per i libri pubblicati dai suoi affiliati - essa fosse considerata, fin dall’innalzamento di Pio IX al soglio pontificio, acerrima avversatrice di ogni riforma, quale essa era realmente, quale naturalmente e logicamente doveva essere.

E quindi è chiaro altresì che, mentre la Compagnia di Gesù, di soppiatto, oppose tutte le resistenze e tutti gli ostacoli all’opera riformatrice di Pio IX, ne ebbe, in ricambio, l’avversione dei liberali, la quale si mutò poi in aperta ostilità e irruppe in nemiche e rumorose manifestazioni.

[p. 337 modifica]E, perciò, accadde finalmente ciò che logicamente doveva accadere e cioè, che quantunque il Papa difendesse la Compagnia di Gesù e la coprisse col manto della sua popolarità, egli non potè riuscire a impedire che, alla perfine, sotto la pressione della esecrazione popolare, essa soccombesse e che i gesuiti fossero espulsi dai loro conventi in quasi tutte le città d’Italia.

Infatti, fin dal febbraio, i gesuiti furono costretti ad esulare da Sassari e da Cagliari, poi da Genova e da Torino - non ostante la benevolenza e la venerazione che aveva sempre apertamente nutrita per loro il re Carlo Alberto. Nel marzo essi vennero scacciati da Napoli. E, poichè fin dagl’ultimi giorni di febbraio, erano incominciate in Roma le dimostrazioni ostili all’Ordine del Loyola e poichè di quelle dimostrazioni non erano riusciti a calmare l’ardore ed il succedersi i vari monitori papali, alcuno dei quali pur racchiudente oscure e misteriose minaccio o di scomunica contro gli avversari dei gesuiti, o di partenza del Papa da Roma, cosi il Pontefice stesso fini per subire, con manifeste dichiarazioni del suo mal animo, la necessità delle cose, la imponenza delle circostanze1 e, presi gli opportuni accordi col reverendo padre generale, acconsentì che il 31 marzo i gesuiti abbandonassero le loro case di Roma, affidando l’amministrazione dei beni della Compagnia al cardinale Vizzardelli.

Siccome poi intorno al fatto della partenza dei gesuiti piacque ai soliti favoleggiatori Balleydier, De Saint-Albin, Croce ed altri di tessere una rete di bugiarde e inventate avventure, come quella, per esempio, che un gruppo di Trasteverini andasse a offrire protezione e difesa al generale dei gesuiti padre Roothaan, e, che, rifiutato da questo il loro aiuto, i Trasteverini stessi si recassero al caffè delle Belle Arti, ritrovo dei liberali più esaltati, e, minacciando questi, li mettessero in fuga2, cose tutte delle quali non fanno menzione alcuna nè il Colombo, nè il Farini, [p. 338 modifica]nè il Rusconi, nè il Torre testimoni oculari, e neppure il Grandoni e neppure lo Spada, oculari testimoni anch’essi, cosi mi piace addurre qui documenti nuovi i quali proveranno come la guardia civica dovesse proteggere i gesuiti contro le persistenti dimostrazioni popolari3 e come, nel momento dell’uscita dei gesuiti dai loro monasteri di sant’Ignazio e del Gesù, il popolo, che era spettatore, fosse provocato da alcuni preti, i quali insultarono la guardia civica, i liberali e fino anche Pio IX e come uno di essi, armato di un paletto di ferro, bene affilato e tagliente, fosse arrestato. Il prete belligero si chiamava don Luigi Rocchetti di Venezia e colui che lo disarmò - onde rimase ferito in una mano fu il caporale Bertucci del 9° battaglione civico4. Del quale avvenimento, narrato dal Grandoni in tutti i suoi particolari5 e di cui io oggi produco le irrefiutabili prove, si guardarono bene dal fare la più lieve menzione gli storici-favolisti, inventori di fatti mai accaduti; e neppure lo Spada, così diligente raccoglitore e narratore cosi minuzioso anche di inconcludenti pettegolezzi, non ne fa il menomo cenno.

Il giorno 2 aprile giunsero a Roma da Civitavecchia due cannoni di bronzo, fabbricati nella regia fonderia di Torino col danaro ricavato dalle offerte spontaneamente raccolte fra i cittadini genovesi. Quei cannoni, a cui prima erano stati imposti i nomi di Balilla e di Colombo, che vennero poi cambiati in quelli di San Pietro e Pio IX, erano inviati in dono alla civica romana6. I due cannoni furono accolti con grandi festeggiamenti e con grandi plausi alla Commissione dei cittadini genovesi e civitavecchiesi, che li aveva scortati fino a Roma.

[p. 339 modifica]A questa Commissione fu offerto un banchetto nella cavallerizza del palazzo Doria a cui parteciparono duecento persone e durante il quale pronunziarono applauditi discorsi il genovese Carenzi e il romano Filippo Meucci e dissero acclamate poesie i romani Guerrini e Cagiati.

Una delle caratteristiche di quella efflorescenza primaverile di patriottismo, di quella spensierata giovinezza del nazionale risorgimento fu appunto la generale tendenza ai festeggiamenti giocondi, agli applausi continui, tendenza per effetto della quale quello stesso popolo e quegli stessi Circoli che avevano, con manifestazioni pubbliche di gioia accolto il patriottico dono dei cittadini genovesi il giorno 2 aprile, il giorno 5 partecipavano, con maggiore compostezza e solennità, serrati attorno alle nazionali bandiere, alla processione ordinata dal Papa per ricondurre nella chiesa di san Pietro in Vaticano, donde era stato derubato il 10 marzo, con grande dolore di Pio IX, il busto in argento di sant’Andrea apostolo, contenente le reliquie della testa di lui e che era stato ritrovato il 1° aprile, fuori di porta san Pancrazio.

Il Papa intervenne a piedi a quella imponente e maestosa processione, accompagnato da tutti i Cardinali residenti in Roma, dalla Corte pontificia, da tutte le corporazioni religiose, dalla guardia civica in armi, dai soci dei Circoli e da numerosissimo popolo.

E questa, che, a prima vista, parrebbe contradizione, non è: perchè il popolo era, nella sua maggioranza, liberale, ma era anche nella sua maggioranza e voleva rimanere, religioso; e siccome il Papa gli aveva fatto credere fin li - avvegnachè l’avesse creduto lui stesso e lealmente - che fede e libertà, patria e religione potessero essere simultaneamente ed ugualmente amate e venerate, cosi esso festeggiava, con uguale effusione di cuore, tanto il dono dei due cannoni, i quali dovevan servire per redimere la patria dallo straniero, quanto il ritrovamento della reliquia di sant’Andrea, che era e doveva essere gradito al Papa e ai ferventi Cattolici. E anche quelli fra i liberali, che erano increduli, ed erano, probabilmente, molti, non disdegnavano partecipare alla festiva processione, per riguardo e per rispetto di quel Pontefice, che aveva dato libertà e che essi credevano [p. 340 modifica]ancora deciso a coadiuvare efficacemente l’opera santa della nazionale indipendenza.

Quanto poi a quella tendenza ai festeggiamenti entusiastici — che io dissi una delle caratteristiche di quell’ambiente e di quel tempo — tendenza, cosi frequentemente e tanto severamente rimproverata ai nostri padri dagli storici subbiettivi, dagli scrittori dottrinari, cosi sapienti della sapienza del poi — era essa pure una legittima conseguenza delle premesse: era un effetto logico di quel tanto atteno, tanto invocato risveglio della coscienza nazionale; risveglio che, quantunque atteso, preparato, sperato, invocato, era avvenuto, innanzi agli occhi dei volghi, in modo cosi inopinato e prodigioso e aveva assunto proporzioni cosi ampie e imprevedute da superare le più lusinghiere aspettazioni e le più immoderate speranze. Quella tendenza festaiuola era, quindi, una naturale conseguenza delle premesse storiche; era la pazza gioia, scusabile, spiegabile, giustificabile in una frotta di giovanotti dinanzi a una splendidissima giornata primaverile, radiosa di sole e luccicante di azzurro, apparsa dopo un mese di tempo nero, uggioso, piovoso; era un inno giulivo, era una sfrenata allegria della giovinezza spensierata, la quale, piena di fede, ridondante di sentimento, ricca di roseo speranze, priva di esperienza, di senno, di riflessione, si abbandona, cieca e inconsiderata, ai gaudii del presente, non curante dei disinganni del domani e delle crude realtà dell’avvenire7.

E mi sono soffermato in questa digressione perché stimo indispensabile, a voler giudicare rettamente e onestamente di quei tempi, di quei casi e di quegli uomini, tenore sempre presente questa condiziono degli animi e dei pensieri dei padri nostri, senza la considerazione della quale molte cose non spiegheremmo, male spiegheremmo in riguardo alle vere cagioni che lo produssero.

Frattanto i volontari romani, incamminati verso i confini dello Stato, accolti con grandi feste a Civita Castellana, a Terni, [p. 341 modifica]a Spoleto, a Foligno, a Tolentino, a Macerata, a Loreto, a Ancona, a Senigallia, a Pesaro, venivano aumentando straordinariamente di numero, perchè, in ognuna di quelle stazioni» nuovi manipoli, nuove compagnie e, per conseguente, man mano, nuovi battaglioni si venivano aggregando ai primi partiti da Roma. Le marcie si compivano con ordine e con lodevole energia nel sostenerne i disagi per parte dei volontari, quasi tutti nuovissimi a quei faticosi esercizi8.

[p. 342 modifica]Il giorno 1° aprile il Consiglio dei ministri dello Stato romano, per dare esecuzione allo Statuto costituzionale, accordato dal Papa, pubblicava un regolamento provvisorio per la elezione dei deputati.

Venivano, in quel regolamento, dichiarati elettori tutti i magistrati de’ municipi, gonfalonieri, priori, sindaci ed anziani, e tutti i consiglieri provinciali e municipali, avessero censo o no; i cittadini inscritti al pubblico censimento per un capitale di romani scudi 300, e quelli che, non aventi un capitale censito, pagassero un’annua imposta o governativa, o provinciale di scudi dodici; i professori dei collegi delle facoltà, ed i professori nelle università degli studi; i membri dei Consigli di disciplina degli avvocati e procuratori presso i tribunali collegiali; i dottori in teologia, in filosofia, ed in filologia, laureati da sei anni; gli avvocati e procuratori inscritti da sei anni nell’albo dei collegi dei tribunali; i medici, i chirurghi, i notari, gl’ingegneri laureati da sei anni, i laureati ad honorem nelle università degli studi; i parrochi, i membri delle Camere di commercio, i capi di fabbriche o stabilimenti industriali; i maestri di arte, con venti operai a servizio; i capi o rappresentanti di società o congregazioni di qualsivoglia natura, censiti per 300 scudi di capitale, o paganti la tassa di dodici scudi. In quei collegi in cui il numero degli elettori inscritti, con simiglianti norme, non sommasse a cento, doveva compiersi questo numero, descrivendo nelle liste i cittadini forniti di un censo immediatamente inferiore al prescritto. Erano dichiarati eleggibili i cittadini inscritti al censo per un [p. 343 modifica]capitale di scudi tremila, o paganti 100 annui scudi di tassa; i consiglieri e magistrati municipali e provinciali; i dottori da sei anni; i laureati ad honorem; i parrochi, i membri delle Camere di commercio, i capi di fabbriche, di industrie, di associazioni d’arte e mestieri, che fossero inscritti per un capitale di millecinquecento scudi, o che pagassero cinquanta annui scudi di tassa; i membri dei collegi delle facoltà, i professori titolari delle università, gli avvocati e procuratori presso i tribunali collegiali. Al padre era computato il censo del figlio minorenne: la vedova poteva del proprio capitale far censo ad un figlio. Lo Stato era diviso in cento collegi elettorali, ognuno de’ quali manderebbe un deputato alla Camera: le discipline delle elezioni eran quali negli altri Stati costituzionali si praticano. Ai presidi delle provincie veniva ordinato di far le opportune diligenze, perchè le Magistrature municipali preparassero le liste elettorali9.

Questo regolamento provvisorio non era meno arrembato dello Statuto da cui derivava. Lasciando da parte ì criteri, spesso abbastanza strampalati, che avevano presieduto alla delimitazione delle circoscrizioni elettorali, osserverò soltanto come nessun ordine e nessun criterio razionale e direttivo informasse quel regolamento per ciò che riguardava il numero degli abitanti assegnato a ciascun collegio; cosicchè mentre, per esempio, vi era il collegio di Sarsina, nella provincia di Porli, che noverava soli diciassettemila ottocentonove abitanti, ed eleggeva un deputato; v’era poi quello di Spoleto in cui erano iscritti quarantottomila duecentotrentaquattro abitanti e il quale, con una popolazione quasi tripla del primo, eleggeva esso pure un solo deputato.

Su cento collegi ve ne avevano dodici, la cui popolazione era al disotto dei ventitremila abitanti, e quindici i cui abitanti superavano i trentacinquemila.

A dimostrare poi, non con vuote affermazioni e con sonore ciancie, come pure usano spesso di fare nelle loro affermazioni parecchi degli storici papalini, quanto fosse poco liberale, e poco larga la costituzione papale, basterebbe richiamare l’attenzione [p. 344 modifica]del lettore sulla previsione contenuta nel § 12 della ordinanza ministeriale, premessa al suddetto regolamento del 1* di aprile 1848, cioè che nel caso in cui in qualche collegio, con le categorie fissate nello Statuto, non si potesse raggiungere il numero di cento elettori, dovesse compiersi questa cifra, inscrivendo nelle liste cittadini forniti di censo immediatamente inferiore a quello stabilito nello Statuto.

La qual cosa significava che poteva avvenire il caso in cui, in un collegio di ventimila abitanti, non potessero trovare posto nelle liste elettorali neppure cento elettori!10 Checchè ne sia, il regolamento provvisorio pubblicato dava luogo ad un fatto, cioè alla preparazione delle liste elettorali, a cui dovevano attendere precipuamente le autorità municipali, coadiuvate dai parroci.

Intanto il generale Durando si avviava verso Bologna, ove intendeva di porre il suo quartier generale e donde, più tardi, dovrebbe muovere, d’accordo col re Carlo Alberto, alla guerra per l’indipendenza. Egli aveva avuto dal ministro della guerra, principe Aldobrandini, verbali precise istruzioni sui movimenti e suirazione che egli doveva compiere; poi ebbe, il 2S marzo, ordini in iscritto dallo stesso Ministro che gli imponevano di «mettersi tosto in corrispondenza col quartier generale di Sua Maestà e di operare di concordia col medesimo»11; il che, in lingua militare e in lingua povera, significa muoversi, [p. 345 modifica]agire e, all’uopo, combattere: avvegnachè operare non abbia mai significato, nell’italiana favella, stare immobile e fermo.

Ma, oltre il dispaccio del 28 marzo, di cui parlano il Minghetti, il Pasolini e il Farini, io ne ho trovato tre altri, inviati in data del 6, del 16 e del 18 aprile, dall’Aldobrandini al Durando - che riproduco fra i documenti - e nel primo di essi è scritto: «Ho ricevuto i suoi dispacci del 2 corrente, dai quali rilevo come le circostanze si facciano ognor più gravi, e potrebbero spingerla a una azione più decisiva. Il Ministero è unanime che ella debba regolarsi in quel modo che sia più conducente alla tranquillità e sicurezza dello Stato. Quindi l’autorizzo a prendere tutte quelle determinazioni ed a far fare alla sita armata quei movimenti che vedrà necessari al fine di cui sopra. - Sarà opportuno che, mentre ella si concerta con il Governo toscano, procuri che questo Governo faccia quei passi diplomatici verso la S. Sede, che in simili casi la regolarità richiede; dico ciò senza sospendere minimamente gli effetti che dai concerti medesimi possono derivare. - Similmente la esorto ad operare sempre di concordia con Sua Maestà il Re Carlo Alberto». Nel secondo di quei dispacci l’Aldobrandini scriveva al Durando: «non è mai venuta meno in me la fiducia che ho per lei, nè nel Ministero, nè nella Santità di Nostro Signore. Conosco i sentimenti generosi e patrii dai quali ella è animato e creda che ad essi lealmente e francamente rispondono i miei». E, dopo aver parlato dell’organizzazione dell’esercito, delle nomine degli ufficiali e di altre bisogne, soggiunge che «non intende minimamente derogare a quelle facoltà estese che fin dal suo partire a lui accordava e poscia più volte gli confermò. Le quali facoltà — dice il Ministro — io mi rallegro meco stesso di averle dato, vedendone i buoni effetti e non posso che ripeterle la mia intera fiducia», ecc. Nel terzo di quei documenti, al quale accennava il Farini ed altri degli storici di quegli avvenimenti, e che è un dispaccio del ministro Aldobrandini al Durando, è detto: «accuso ricevimento del gradito suo foglio del 14 corrente, che ho reso ostensibile subito al Santo Padre, il quale si è degnato rispondermi essere Vostra Eccellenza autorizzata a fare tutto ciò che giudicava necessario per la tranquillità [p. 346 modifica]ed il bene dello Stato pontificio, ed è pertanto che mi affretto a dartene comunicazione a mezzo di staffetta» 12.

E quindi più che mai confermato, non solo da questi» ma da altri documenti nuovi che io pubblico: primieramente che il Ministero romano fu sempre unanime nel volere che l’azione dell’esercito pontificio fosse concorde all’azione dell’esercito piemontese e che il generale Durando dipendesse dal re Carlo Alberto; in secondo luogo che il generale Durando ebbe sempre, dal giorno della sua partenza da Roma fino al giorno 29 aprile, completa ed intera la fiducia del Ministro della guerra, di tutto il Ministero e del pontefice Pio IX; e in terzo luogo che il generale Durando si attenne rigorosamente - e forse, nell’interesse della guerra nazionale, anche troppo rigorosamente a quegli ordini, come risulta, oltre che dai documenti già noti, dai nuovi che io adduco, relativi alla missione da lui affidata al segretario del suo Stato Maggiore Eugenio Alberi presso il re Carlo Alberto; alla missione affidata al marchese capitano Caraglio dal re Carlo Alberto presso lo stesso generale Durando; alle trattative da questo avviate col Governo provvisorio della Repubblica veneta, e finalmente a tutte le provvisioni da lui prese, sia sotto l’aspetto militare che sotto quello amministrativo, per ordinare e agguerrire quell’esercito quasi improvvisato e per condurlo, il 21 aprile, di là dal Po 13.

Fra i documenti nuovi che io pubblico avvi tutta la corrispondenza interceduta dal 26 marzo in poi fra il cardinale Luigi Ciacchi, Legato apostolico di Ferrara, e il conte Gaetano Recchi, Ministro dell’interno. Da tale corrispondenza, che a me sembra molto importante, perchè ritrae efficacemente l’accorrere tumultuoso dei battaglioni volontari da tutte le parti dello Stato sul Po, che ne segnava la linea di confine, e il loro muoversi, il loro agitarsi e le intemperanze, e le ardenti brame, e l’irrequieto entusiasmo di quelle migliaia di giovani, risultano parecchie cose. Anzitutto risulta lo zelo, l’avvedutezza, il tatto, l’abilità e il sentimento profondamente patriottico di cui fece prova e da cui era animato il cardinale Ciacchi, il quale a tutto intendeva [p. 347 modifica]ed attendeva e a tutto cercava di provvedere. Egli vigila perchè i volontari, che, a migliaia, si vanno agglomerando a Ferrara, siano alloggiati e non manchino di nulla; e vigila perchè non nascano collisioni fra essi; e cerca di rattemprare l’impeto dei più ardenti, i quali vogliono assalire subito la guarnigione austriaca, rinchiusa nella fortezza di Ferrara; e, poi, togliendo argomento dal fatto della capitolazione sottoscritta dalla piccola guarnigione croata del forte di Comacchio, cerca di persuadere in tutti i modi il colonnello conte Khuen ad arrendersi; e si accorge che c’è qualcuno il quale, in mezzo alla profusione di danaro che si fa, per conto dell’esercito, in quei giorni, abusa della fiducia in lui riposta dal Governo14.

È vero che non sempre e non in tutto egli riesce appieno nei suoi provvedimenti: onde avviene, per esempio, che egli resti ingannato, allorché, il 5 aprile, lascia rientrare nella fortezza, l’ufficiale austriaco che ne era uscito di soppiatto, per portare un dispaccio al generale D’Aspre e il quale aveva promesso di ritornare, dopo aver parlato col comandante conte Khuen e che non ritornò15. Ma di questa poca lealtà del colonnello Khuen, il Cardinale si ricatta ampiamente quando, con grande finezza, scrive di aver potuto soddisfare il desiderio del Colonnello stesso di leggere, cioè, dei fogli tedeschi, che parlassero delle cose presenti d’Italia. «Me ne sono procurato una buona serie da Venezia - scrive, con ingenua malizietta, il Cardinale - e dopo di avere scelto quelli che parlavano in favore della causa nostra, gliene ho fatto l’invio; e mi è stato abbondante di ringraziamenti. Me ne giungono ora degli altri - egli soggiunge - ma, prima di farne uso, mi servo di persona fida, che conosce la lingua tedesca, per vedere se posso valermene»16.

Risulta, in secondo luogo, da quella corrispondenza, che la violazione dei confini per parte dei volontari era stata già operata più volte, anche senza gli ordini, e contro il volere del generale Durando, assai prima del 21 aprile17. E risulta, in [p. 348 modifica]terzo luogo che il cardinale Ciacchi trova naturalissimi i Movimenti dell’esercito pontificio anche oltre il Po, e, in parecchi luoghi della sua corrispondenza, mostra anzi di desiderarli e se ne fa eccitatore.

E, da quella corrispondenza, risulta, da ultimo, con quanta ansietà il Ministero tutto e il Recchi in ispecie - come quegli che era ferrarese - seguissero gli avvenimenti, che si venivano succedendo a Ferrara, la quale, dagli ultimi di marzo agli ultimi di aprile, fu il punto cui convergevano tutti gli sguardi e tutte le menti, sia perchè era il più importante luogo di confine dove si andava raccogliendo il grosso dei volontari, sia perché dentro le sue mura sorgeva la cittadella, che era ancora occupata dagli Austriaci.

Quasi tutti gli storici della romana rivoluzione parlano diffusamente del proclama mandato fuori a Bologna dal generale Durando il 5 aprile e che fu poi sconfessato dalla Gazzetta di Roma e del quale mi occuperò fra breve io pure; ma nessuno parla d’un ordine, del giorno, pubblicato dal Durando, in data del 27 di marzo a Bologna, a tutti i soldati è militi, tanto delle schiere regolari, come delle volontarie, che erano state messe sotto il suo comando.

In quell’ordine del giorno - probabilmente dettato dal D’Azeglio, come quello posteriore del 5 aprile - che io riproduco fra i documenti, il generale Durando avverte i militi e soldati che presto saranno «forse chiamati ad adempiere grandi doveri, a compiere generosi sacrifici dalla voce della Patria e di Pio, suo santo rigeneratore»; ammonisce che occorre anzitutto l’osservanza dell’ordine e della disciplina; si offre fratello d’armi ed amico ai militi e soldati; ma assicura che «dell’osservanza della disciplina sarà saldo e severo mantenitore - e conclude - Militi e soldati! L’intero mondo affissa lo sguardo su voi e dice: vediamo all’opera le milizie italiane. Gli spiriti gloriosi di coloro che combatterono a Legnano vi sorridono dal cielo: il gran Pio vi dona la benedizione dell’Onnipotente: l’Italia confida nelle vostre virtù, spera che ognun di voi adempirà al dovere di cittadino e di soldato italiano. Viva Pio IX! vìva l’Indipendenza italiana!».

Ora è da sapere che quest’ordine del giorno fu riprodotto [p. 349 modifica]da tutti i giornali di Bologna e - ciò che non è noto, ma che merita di esser noto - esso apparve cosi onesto e legittimo al ministro della guerra, principe Aldobrandini, che egli lo spedì, per mezzo di un dragone, alla tipografia Salvinoci, ove si pubblicava la Gazzetta di Roma, che era il giornale ufficiale, perchè in essa fosse riprodotto. Ma quel potere occulto che dominava, al Quirinale, sull’animo del Pontefice e della cui esistenza e influenza verrò producendo, man mano, manifeste le prove, quel potere occulto, che si personificava - come già si è visto in parte e come meglio si vedrà in seguito - nel direttore della politica a partita doppia, l’astutissimo cardinale Antonelli, quel potere impedì che l’onesto e innocuo ordine del giorno Durando fosse riprodotto nella Gazzetta, come risulta irrefiutabilmente dalle seguenti linee, di tutto carattere del tipografo Giuseppe Salviucci, scritte sotto la bozza di stampa dell’ordine del giorno suddetto, che il Salviucci inviò al Ministro e che esiste ancora nella Miscellanea politica degli anni 1848-49 all’Archivio di Stato. Il tipografo scrive cosi: «Quando l’E. V. mandò il Dragone con il suddetto ordine del giorno, vi era il sig. abbate Coppi, che è direttore del giornale, ed intesi che rispose al detto Dragone di dire a Vostra Eccellenza che avevo, avuto ordine dalla Segreteria di Stato di non inserirlo nella Gazzetta: ma le mando il suddetto stampone per farle conoscere che lui aveva penzato (sic) di metterlo. Ecco quanto so. Sono suo Devotissimo Servo Gius. Salviucci 18.

Il che serve a sempre più comprovare ciò che ho molte volte di già affermato e, cioè che la contraddizione imperante^ generatrice dell’equivoco, era anche generatrice della politica a partita doppia, per effetto della quale il generale Durando era un degno e rispettabile uomo avanti ai soldati, ai volontari e ai liberali, ma non era più tale dinanzi al Collegio cardinalizio, alle congreghe sanfedistiche e gesuitesche; per effetto della quale un’attitudine si teneva all’interno e un’altra all’estero; una per dar la polvere negli occhi agli Italiani e l’altra per darla negli occhi agli Austriaci, onde lo stesso ordine del giorno poteva esser riprodotto dalla semi-ufficiale Gazzetta di Bologna [p. 350 modifica]e non poteva esser riprodotto dalla ufficiale Gazzetta di Roma. È quindi provato da questi, e da altri documenti che pubblico, che il Papa era perfettamente e quotidianamente informato dall’Aldobrandini, dal Recchi e dagli altri Ministri di tutto ciò che avveniva ai confini e dei movimenti dell’esercito e dei provvedimenti che facevano il Durando e il Ferrari; ed è provato altresì che, prima ancora che i suoi Ministri gli presentassero quella collettiva rimostranza, di cui perlerò fra breve, per eccitarlo a dichiarare la guerra all’Austria, egli già sapeva come questa dichiarazione fosse ad alta voce richiesta, a nome di tutti i dieci o dodici mila suoi sudditi, che trovavansi volontari ai confini, da Colonnelli, Tenenti-colonnelli e Maggiori delle legioni civiche, fra i quali eran pure uomini a lui devotissimi come il marchese Patrizi, il conte Carpegna, il De Angelis e il Tittoni; ed è provato, infine, che egli non solo non ignorava, il giorno 29 aprile, che i suoi soldati avessero già, da molti giorni, passati i confini e avessero invaso il territorio politicamente austriaco, ma che anzi egli stesso aveva annuito a quell’azione dell’esercito suo19; onde è più che mai chiaro che tutto, nell’animo del Papa e intorno al Papa, tutto era contraddizione. Ma egli è evidente che di quella contraddizione imperante e delle sue conseguenze, nessuno, o quasi nessuno, in quel momento si avvedeva: onde il generale Durando continuava, da un lato, a compire gli atti che esso stimava necessari ad eseguire gli ordini ricevuti dal Ministero, e, dall’altro lato, il conte de Lutzow, ambasciatore austriaco in Roma, d’accordo coi sanfedisti, coi gregoriani e coi nemici d’Italia esteri o interni, continuava a far di tutto perchè la guerra all’Austria non fosse dal Governo pontificio dichiarata. Il cardinale Antonelli solo che, palesemente era quel grande liberale e italianissimo uomo che si è già veduto e che si vedrà in seguito, e il quale, celatamente, presiedeva le conventicole austro-gesuitiche, il solo cardinale Antonelli vedeva la contraddizione e non sapeva neppure egli, allora, ai primi di aprile, quando e come ne sarebbe venuta la soluzione e quale delle due politiche avrebbe sull’altra definitivamente prevalso e trionfato.

[p. 351 modifica]Così avvenne adunque che il generale Durando mandasse fuori, il 5 aprile, quell’ordine del giorno nel quale a’ suoi soldati, frementi d’impazienza e alle popolazioni romagnole e venete mormoranti della inazione dell’esercito, rammentato Alessandro III, che benediceva i giuramenti di Pontida, ricordava ai soldati che anche essi erano stati benedetti da un gran Pontefice, il quale «santo, giusto, mansueto sopra tutti gli uomini» aveva pur conosciuto che «contro chi calpesta ogni diritto, ogni legge divina e umana, la ragione estrema era la sola giusta, la sola possibile». Indi il prode e leale soldato cercava di giustificare, agli occhi de’ suoi militi e delle popolazioni, la sua inazione, affermando che il «cuore celeste di Pio IX non poteva non venire contristato dai pensieri dei mali che seco conduce la guerra», e dalla preoccupazione che tutti i combattenti erano suoi figli; aver quindi egli indugiato per dar tempo al ravvedimento. E, detto qui come i massacri di Milano del 3 gennaio non fossero un fatto isolato, dovuto alla sfrenatezza delle soldatesche, come aveva potuto sperare il Pontefice e, ricordate, con fosche tìnte, tutte le nequizie austriache, il generale Durando concludeva: «Il santo Pontefice ha benedetto le vostre spade, che unite a quelle di Carlo Alberto debbono concordi muovere allo esterminio dei nemici di Dio.... una tal guerra della civiltà contro la barbarie, è guerra non solo nazionale, ma altamente cristiana. Soldati è convenevole dunque, ed ho stabilito che ad essa tutti moviamo fregiati della croce di Cristo. Quanti appartengono al corpo di operazione la porteranno sul cuore, della forma di quella che vedranno sul mio. Con essai ed in essa saremo vincitori, come furono i nostri padri. Sia nostro grido di guerra: Iddio lo vuole».

Quelle generose parole, che rianimarono i soldati e le popolazioni, erano anche belle parole, rispondenti, pel concetto, ai sentimenti che, necessariamente o logicamente, dovevano animaro ogni petto italiano in quei solenni e decisivi momenti 20. E quelle parole erano, anche per la forma, pienamente rispondenti alle fantasie dei nuovi guelfi - ed erano, a quei giorni. [p. 352 modifica]i più - cresciuti ed educati in quell’ambiente di fioritura romantica, olezzante da trenta anni nell’italico giardino; fioritura» che aveva cominciato a far palpitare i cuori italiani con la Francesca da Rimini di Silvio Pellico e, attraverso alle Ballate del Berchet, agl’Inni religiosi e ai Promessi Sposi del Manzoni, alle Novelle e ai poemetti del Grossi, e alle prose o alle poesie di altri cinquanta, di altri sessanta, di altri ottanta scrittori, sentimentalmente cristiani e convenzionalmente lacrimosi, aveva raggiunto il massimo grado del suo sviluppo, e del suo rigoglio con le Speranze d’Italia del Balbo, e col Primato del Gioberti, ed aveva preparato la coscienza nazionale al convincimento che fosse possibile un ricorso storico, pel quale un nuovo Alessandro III espellerebbe d’Italia il nuovo Federico Barbarossa21.

Il Durando, adunque, a quella guisa scrivendo, rispecchiava fedelmente i suoi e gli altrui sentimenti, le sue e le altrui fantasie, ma quel linguaggio non poteva non suonare ingrato all’orecchio del Pontefice, in cui il Durando, i suoi soldati e quasi tutti gl’Italiani si ostinavano a voler vedere, ad ogni costo, il preconizzato Alessandro III e il quale, invece si chiamava Giovanni Maria Mastai-Ferretti e non Rolando Bandinelli ed ora asceso al soglio pontificio non già quando il Papato e l’Impero erano in fierissima lotta di preminenza fra loro, ma sei secoli dopo e quando, cioè, non soltanto quella lotta era finita, ma quando, per un seguito di mirabili evoluzioni dell’intelletto umano e della umana coscienza - quali le crociate, le scoperte, l’umanesimo, l’invenzione della stampa e delle armi da fuoco, il risorgimento artistico, la rivoluziona protestante, l’insurrezione dei Fiamminghi, lo sperimentalismo di Galileo e di Bacone, la rivoluzione inglese, la guerra dei Trent’anni, la pubblicazione dell’Enciclopedia, la rivoluzione francese - quando, per questo seguito di mirabili evoluzioni, quell’elemento popolare, comunale italico di cui [p. 353 modifica]Alessandro III, si era, logicamente, fatto, ai suoi tempi, protettore ed alleato, ora, affermando solennemente sé stesso e sopraffacendo, ad un tempo, e l’autorità papale - rappresentante il diritto divino - e la potestà imperiale - rappresentante il diritto storico - si era levato - esso che rappresentava il diritto nuovo, il diritto moderno - contro il Papato e contro l’Impero, invano e troppo tardi alleatisi insieme per fare argine all’onda irresistibile dell’umanità irrompente, sotto l’alito vivificatore della scienza e della libertà, all’abbattimento di tutti i privilegi, di tutte le ingiustizie, di tutte le soperchierie sulle quali si erano eretti e, per dieci secoli mantenuti, il feudalismo e la chieresia.

Nella storia vi sono le evoluzioni progressive, non i ricorsi regressivi; onde le parole scritte dal D’Azeglio, a nome del Durando, se erano belle e commoventi per gl’Italiani, intenti alla guerra nazionale contro lo straniero, non potevano commuovere l’animo e mutare il pensiero pontificale di Pio IX. Esse producevano un solo beneficio: affrettavano lo scoppio e la fine di quella formidabilissima storica contraddizione, che durava da quasi ventidue mesi e ingombrava tutti gli intelletti e cullava nell’Illusione e nell’errore tutte le coscienze.

Già, senza che vi fosse necessità che i cardinali Lambruschini, Asquini, Vannicelli-Casoni, Patrizi, Brignole, Mattei, Della Genga ed altri fra i più reazionari del Sacro Collegio, senza bisogno che i nunzi monsignor Viale e monsignor Sacconi e che i molti prelati gregoriani, onde era accerchiato il Papa, levassero clamore presso di lui intorno a quel proclama del generale Durando, già Pio IX, cosi pauroso, cosi esitante e, sopra tutto, cosi scrupoloso, sarebbe da sé insorto, sgomento e tremebondo, contro le parole del capitano del suo esercito.

Ma è agevole immaginare poi quali fossero le smanie in cui irruppe il Papa, sotto la pressione delle lamentanze rivolte a lui dai rappresentanti di Prussia, di Baviera e d’Austria, che gli andavano velatamente minacciando, in ciò sostenuti dai nunzi suddetti Viale e Sacconi, uno scisma da parte dei cattolici alemanni; quali fossero le querimonie e le invettive che rivolse ai suoi Ministri dopo che, uno appresso all’altro, i Cardinali e i prelati più reazionari gli ebbero detto tutti che, continuando [p. 354 modifica]in quella politica, egli sarebbe andato dritto dritto alla ruina e allo sfacelo della Chiesa cattolica22.

«Questo proclama - scrive il Farini - sicurò gli spiriti che dubitavano, ed ogni militante fregiò il petto della croce a in colori, onde poi ebbero il nome di crociati. Ma quel proclama e quella insegna della croce furono causa di grande turbazione all’animo del Papa, il quale si dolse che si parlasse di lui e della religione in termini da offendere le timorate coscienze. Si dolse e dichiarò non potersi per lui tacere: il mondo cattolico am^ebbe scandalo e perturbazione da quelle parole di un generale pontificio; ei parlerebbe al mondo caitolico. Si adoperarono i Ministri a calmarlo e parve riescissero stampando, per volontà sua, nella gazzetta del 10 aprile le parole seguenti: " Un ordine del giorno di Bologna ai soldati, in data 5 aprile, esprime idee e sentimenti come fossero dettati dalla bocca di Sua Santità: il Papa, quando vuole fare dichiarazioni di sentimenti, parla ex se, non nrni per bocca di alcun subalterno23.

Ma non è in tutto esatto ciò che afferma il Farini, cioè: pare che riescissero a calmare il Papa: da un documento nuovo che io pubblico si avrebbe diritto di dire che riuscirono effettivamente i Ministri a calmare il sempre irresoluto Pontefice, il quale era solito dar ragione all’ultimo che parlava. In una lettera, infatti, del ministro Aldobrandini al generale Durandoin data 16 aprile, è scritto; «mi è gratissimo di poterle significare che, avendo fatto conoscere la sua lettera del 13 corrente alla Santità di Nostro Signore, esso raccolse benignissimamente e si mostrò pienamente soddisfatto delle ragioni che ella ha addotto rispetto all’ordine del giorno del 5 corrente. [p. 355 modifica]Mi affretto dunque a comunicarle questa piacevole cosa, e mi è grato che cosi sia terminato un tale affare. Quanto a me non posso che ripeterle di tenere la mia intera fiducia», ecc.24.

Ora intanto che Pio IX, spinto e sospinto da una parte e dall’altra, tirato di qua e di là, si dibatteva fra le morse della contraddizione, incalzato dai diplomatici reazionari e dai Cardinali e prelati sanfedisti a romperla col partito liberale e nazionale e, a stento, trattenuto dai Ministri, alcuni fatti tumultuosi venivano a turbare l’ordine e la quiete della città, nei giorni 11 e 12 aprile, sulla origine dei quali discordi sono gli storici, avvegnachè alcuni ne accusino promotori i radicali ed altri i clericali. E questa seconda opinione, io credo, per le ragioni e i documenti che addurrò, la vera.

Nelle ore pomeridiane del giorno 11 aprile si adunano manipoli di sfaccendati, di individui pregiudicati, cui si uniscono molti operai - di quelli occupati a quindici e a venti soldi al giorno, nei lavori detti di pubblica beneficenza - a piazza Colonna e a piazza di Montecitorio. Tanto il Gradoni quanto lo Spada, tanto la Pallade quanto il Contemporaneo sono concordi nel designare quella accozzaglia di gente con gli epiteti poco lusinghieri di feccia, plebaglia, insolenti, sfacciati, mascalzoni, vagabondi; insomma quella gente è indicata quale faecula urbis, come l’avrebbe chiamata Marco Tullio Cicerone.

Quell’accozzaglia di gente comincia a mormorare, a bisbigliare, poi a declamare intorno alla propria miseria e finisce per gridare che vuole pane e lavoro.

Alle notizie di quel rumore accorrono varie autorevoli persone ad arringare e a calmare quella ciurmaglia e, fra coloro che le rivolsero gagliarde e sentito parole, per ricondurla all’ordine, il Grandoni ricorda Pietro Sterbini.

Secondo il racconto dello Spada, il Ministro delle finanze, monsignor Morichini, fu il primo a dar prova di debolezza, egli che, dal palazzo di Montecitorio, dove risiedeva il Ministero a cui esso era preposto «più per ispavento forse che per compassione, fatti dar loro quindici balocchi a testa, li rimandò alle loro case»25.

[p. 356 modifica]Se non che questo racconto dello Spada non concorda punto con quello del Grandoni, il quale, mentre non fa menomamente cenno della elargizione di monsignor Morichini, afferma invece che «il principe Borghesie per sua parte somministrò danaro agli ammutinati, esortandoli a tornare all’ordine»26.

E poichè nè l’uno parla della elargizione fatta dal principe Borghese, nè l’altro di quella accordata da monsignor Morichini e poichè i giornali del tempo accennano a distribuzioni di elemosine, ma non nominano alcuno, così non si può stabilire, con certezza, quale dei due storici sia nel vero, o se nel vero siano ambedue. Ciò che si può stabilire con certezza, sopra uno dei documenti nuovi che io allego, è questo, che lo Spada cade in errore in quanto alla data di quei tumulti, perchè egli afferma avvenuto nella sera del 12 aprile, ciò che effettivamente - secondo il rapporto inviato dal comandante del 2° battaglione civico - avvenne la sera dell’11 di detto mese.

Non v’è dubbio che le perturbazioni della sera dell’11 si ripeterono nella giornata e nella sera del 12, ma è indubitato altresì che il fatto avvenuto a piazza SS. Apostoli accadde effettivamente la sera dell’11 e non del 12, come erroneamente afferma lo Spada. Avvenne adunque che, non ostante la intromissione dello Sterbini e di altri e non ostante i sussidi accordati a quei facinorosi, essi si recarono in piazza SS. Apostoli e inviarono due deputazioni, una presso il banchiere Valentini e l’altra presso il principe Alessandro Torlonia, a chiedere soccorsi di danaro.

Lo Spada narra che egli trovavasi nel gabinetto del principe Torlonia quando i rappresentanti degli ammutinati «dopo essere stati dal banchiere Valentini, che aveva loro dato venticinque pezzi da cinque franchi», si recarono dal principe Torlonia, il quale domandò «se fossevi in compagnia degli ammutinati Ciceruacchio: rispostogli di si, che venga, soggiunse,

«Venne difatti il Ciceruacchio, accompagnato dal Materazzi e parve disapprovare ancor esso l’accaduto; ma disse che, per quella volta, trattandosi di comprar la quiete (stantechè gli ammutinati eran riuniti nelle vicinanze del suo palazzo), [p. 357 modifica]avrebbe potuto dar loro qualche soccorso pecuniario per riman- darli a casa. Il principe replicò che l’esempio era da riguardarsi come riprovevole e funesto, ma che non era esso che ne aveva presa l’iniziativa. Pur non ostante, e per quella volta soltanto, e purchè la cosa non si adducesse in esempio, darebbe trenta scudi.

«Il Ciceruacchio allora, mostrandosi sdegnato contro gli ammutinati, che eran riuniti nel cortile del possidente Senni, accanto al palazzo Valentini, invitò me ad assistere alla distribuzione del danaro, ed a sentire la predica che loro avrebbe fatta. Mi vi recai in sua compagnia, vidi distribuire un paolo, un paolo e mezzo a ciascuno di quei mascalzoni, che saranno stati un centinaio circa, ma la predica ancora l’attendo»27.

Questo il racconto dello Spada; il quale racconto, oltre ad essere smentito in alcune circostanze dal rapporto del maggiore Barberi, è sottilmente e perfidamente loiolesco e disonesto, perchè tende a far credere, col favoleggiatore Balleydier, che Ciceruacchio fosse alla testa dei perturbatori, mentre egli era sopraggiunto, perchè mandato a chiamare, affinchè, valendosi della sua popolarità e del suo ascendente sulle moltitudini, la facesse, anche in quei caso, da pacificatore. Egli infatti arrivò - lo afferma il rapporto del maggiore Barberi, scritto alle 7 1/2 di quella stessa sera28 - in piazza SS. Apostoli, quando già gli ammutinati vi si trovavano e quando già avevano inviato le deputazioni al palazzo Valentini e al palazzo Torlonia.

Prima cura di Ciceruacchio, appena giunse sulla piazza, fu di costringere gli ammutinati a entrare nel cortile del palazzo Di Pietro - lo stesso che il palazzo Senni - e di rinchiuderveli. E fu allora, certamente, che il principe Torlonia chiese di lui o lo mandò a chiamare. Quanto al non aver fatto la predica agli ammutinati, è probabile che ciò sia dipeso da circostanze di fatto e del momento che egli, il quale ben conosceva le plebi, era in grado di comprendere e di valutare assai meglio dello Spada, delle plebi nè amico, nè conoscitore29.

[p. 358 modifica] Tutti i bizantini ragionamenti poi che lo Spada intesse sopra gli avvenimenti di quei due giorni, per insinuare che quei disordini potessero essere stati promossi dai liberali stessi - opinione alla quale accenna velatamente anche il Farini, - per aver motivo di rendere sempre più impopolari i loro avversari, cadono però e si infrangono miseramente contro i fatti e i documenti che lo Spada o non conobbe, o stimò opportuno non ricordare.

E i fatti sono questi: che il Ministro di polizia, avv. Giuseppe Galletti, adoperò la massima abilità ed energia, accorrendo a piazza SS. Apostoli a sedare personalmente il tumulto30 e prendendo poscia avveduti ed efficacissimi provvedimenti; che nei due giorni 11 e 12 e nei successivi furono eseguiti dalla polizia e dalle pattuglie della guardia civica più di cento arresti di facinorosi e di precettati; che fra questi arresti tre ne furono eseguiti sul fatto, uno la sera dell’11 e l’altro nel pomeriggio del 12, nelle persone di tre fra i principali promotori dei disordini e cioè Antonio Ciucci «colpito già da rigoroso precetto di polizia, siccome ladro dei più ribaldi», e Filippo Belardinelli e Giuseppe Santoni, di professione becchini, e i quali furono ambedue trovati armati31; e finalmente che, anche nelle sere successive alle due dei tumulti, come risulta dai documenti nuovi che pubblico, continuarono le rapine a danno degli onesti cittadini, rapine che erano accompagnate da invettive e minaccio contro gli infamacci civici e da atti di spregio contro le coccarde tricolori32; il che prova quali fossero i pensieri e le opinioni degli autori dei disordini e delle rapine.

Fatto sta che, per effetto degli energici provvedimenti adoperati dal ministro Galletti e dalla guardia civica, i tumulti cessarono, né più avvenne nulla di consimile. «Ma quella guardia cittadina» - scrive il Labaro giornale religioso-politico che aveva cominciato, come si vedrà, le sue pubblicazioni fin dal 15 gennaio col motto Religione-Civiltà e che ora diretto dal canonico D. Stefano Ciccolini - «ma quella guardia cittadina che, sorta per incanto, liberò nel luglio la città dagli orrori [p. 359 modifica]della strage e dell’anarchia, l’ha oggi ancora salvata dagli altri disastri che le stavano sopra. La vigilanza del ministro Galletti, la sua energia seppe anch’essa difenderci: noi felici se potremo per tal guisa arginare il torrente, ogni volta minacci straripare»33.

Le finanze pontificie, intorno allo quali aveva presentato una elaborata relazione monsignor Morichini, con larghezza moderna di vedute e di concetti, facendone la storia, erano in condizioni non liete, avvegnaché in quel rapporto fosse segnalato che al finire del 1847 il bilancio presentava queste cifre: nove milioni e mezzo di scudi in rendite lorde, dieci milioni e mezzo di scudi n spese totali, e trentasette milioni di scudi in debiti.

Quindi fu necessario ricorrere ad un prestito di un milione di scudi, che fu contratto con la casa La Haute di Lione, a buone condizioni, il 12 gennaio. Ma la rivoluzione di Parigi del febbraio arrecò tale sgomento e scompiglio nella Borsa e nel mondo finanziario francese che la Banca La Haute, la quale aveva pagato soltanto una prima rata di centomila scudi, fu costretta a sospendere gli ulteriori versamenti, che essa doveva fare al tesoro romano. Cosi, con le nuove e non lievi spese che importavano l’armamento e il mantenimento dei diciassette mila uomini, inviati ai confini, il pubblico erario si trovò più di prima esausto e il Ministro delle finanze assai imbarazzato; onde monsignor Morichini cominciò ad insistere presso il Pontefice per essere esonerato dall’ufficio che occupava.

Nondimeno il Papa pregò l’egregio prelato a restare al suo posto e a escogitare i modi per provvedere ai bisogni dell’erario. E fu allora che monsignor Morichini pensò, dopo mature riflessioni, ad addivenire alla emissione di due milioni e mezzo di scudi in boni del tesoro, da cento, da cinquanta, da venti, da dieci e da cinque scudi.

L’emissione, approvata fin dal 25 aprile, non fu partecipata al pubblico che il 29 dello stesso mese, quando, cioè, a monsignor Morichini era succeduto nel Ministero delle finanze Annibale de' principi Simonetti il quale fu nominato Ministro il 25 appunto dello stesso mese di aprile. [p. 360 modifica]Per dare effetto al disegno sottoposto al Pontefice per la conclusione di una lega fra i Principi italiani e per la riunione dei rappresentanti dei vari Stati della penisola in Dieta nazionale in Roma, disegno concepito e svolto nelle sale del Circolo romano e di cui ho già parlato, giungevano a Roma il 19 di aprile i delegati dal Governo napoletano a formulare, d’accordo col Governo pontificio, i preliminari della lega e Dieta italiana. Essi erano il principe di Colobrano, il principe di Luparano, il colonnello Gamboa, Casimiro De Lieto, il duca di Proto Pallavicino, ai quali erano aggiunti come segretari Ruggero Bonghi e Alfonso Dragonetti.

Il successivo giorno 20 giunsero i delegati dal Governo provvisorio siciliano allo stesso effetto: essi erano quattro uomini valorosissimi e da onorare il paese che rappresentavano, Emerico Amari, Giuseppe La Farina, il barone Casimiro Pisani e il padre Gioacchino Ventura, al quale il Governo siciliano aveva già conferito, poichè egli risiedeva in Roma, l’ufficio di ministro accreditato presso la Santa Sede.

Queste due deputazioni videro separatamente il ministro degli esteri cardinale Antonelli; avvegnachè la Deputazione napoletana avesse espresso divieto di trovarsi insieme con la siciliana e di fare qualsiasi atto che potesse essere interpretato come riconoscimento di quella legittimità, che i Siciliani andavano vantando e che Ferdinando di Borbone, ad essi, come a’ suoi ribelli, assolutamente negava.

Perchè conseguenza, non ancora estinguibile, delle secolari divisioni dell’Italia erano le gelosie reciproche non soltanto dei principi, ma dei popoli; onde avveniva che, come già dissi nel capitolo primo di questo volume, se concordi erano gì’ intendimenti degli Italiani allorchè si trattava di espellere lo straniero dalla penisola, se concordi erano nel volere più o meno larghe libertà di regime costituzionale, più non eran concordi, anzi eran lontanissimi da ogni possibilità di concordia, allorchè si fosse parlato di vera unità nazionale.

Quindi e che i più prudenti ed avvisati, anche fra i repubblicani e fra i più convinti e risoluti unitarii - quali, ad esempio, fra i sottoscrittori dell’indirizzo inviato al Papa, il 24 marzo, per iniziativa do I Circolo romano, affinchè egli si ponesse a capo [p. 361 modifica]della Dieta italiana, da convocarsi in Roma, erano il Rusconi, il Dall'Ongaro, il Berti-Pichat, il Masi e lo Sterbini - persuasi della suprema necessità che incombeva su tutti di mantener la concordia, perchè tutte le schiere italiane potessero piombare contemporaneamente contro gli Austriaci, avevano immaginato una confederazione di popoli e una lega di principi, la quale si fondasse sopra una Dieta nazionale composta degli eletti della nazione e che avesse sede in Roma, sotto la presidenza del Pontefice e la quale intendesse a regolare gli affari comuni, come la pace, la guerra e i rapporti commerciali fra i vari Stati.

Ed ecco che, mentre mostrava di annuire a questo disegno, con tanto impeto d’affetto, il subdolo Re di Napoli, egli stesso opponeva il primo insormontabile ostacolo alla effettuazione di quel disegno, quando metteva per assoluta condizione che alla Lega e alla Dieta non dovessero partecipare i Siciliani. E questi, dal canto loro, più di odio contro il Borbone che di amore di Italia accesi, più di separarsi dal reame napoletano che di cacciar d’Italia lo straniero curanti, con lo aver dichiarata, con tanta precipitazione, a mezzo del loro Parlamento, la decadenza della borbonica dinastia e la indipendenza dell’isola, venivano, certo involontariamente, ad accrescere le cause di discordia già esistenti e a privare la guerra nazionale del loro concorso, poiché, minaccati da presso dal Borbone, essi dovevano provvedere alla propria difesa.

E, come se queste discordie non fossero gravi abbastanza, altre ne sorgevano per parte del re Carlo Alberto e dei suoi Ministri, i quali, un po’ inorgogliti dei primi successi militari ottenuti dall’eserito piemontese, non soltanto si ricusavano di inviare rappresentanti a Roma per la Dieta, ma chiedevano invece che il Papa, il Re di Napoli, il Granduca di Toscana inviassero al quartiere generale del Re nell’Alta Italia i loro legati, per stringere patti di alleanza offensiva e difensiva, affermando e sostenendo che, finché la guerra durava, finché lo straniero calpestava il suolo italiano, ogni discussione che trattasse di ordinamenti politici e che di guerra non trattasse si avesse a connsiderare come intempestiva e si dovesse rinviare a guerra finita.

Queste opposizioni all’idea di una Dieta nazionale a Roma, che provenivano più specialmente dal Ministero, presieduto dal [p. 362 modifica] conte Cesare Balbo e che erano prodotte, sopra tutto, da considerazioni di interesse piemontese34 e miravano a non ritardare, a non impedire la unione dei Ducati e della Lombardia col Piemonte, non ostante che siano spiegabili nelle condizioni di tempo e di spazio in cui avvennero, non sono per questo meno biasimate da molti e dai più autorevoli fra gli storici di cotali avvenimenti, come quelle che producevano funestissimi effetti.

[p. 363 modifica]E le conseguenze dell’opposizione piemontese a stabilire le norme della Dieta e a ritardarne la convocazione - che, lo ripeto, non sarebbe ugualmente potuta avvenire e non sarebbe ugualmente avvenuta, anche se il Governo subalpino vi avesse aderito, come dimostrerò fra poco - erano gravissime per due ragioni: primieramente perchè lasciavano isolato il Papa, cui non si poteva più forzare la mano a sottoscrivere, come principe italiano, la dichiarazione di guerra all’Austria; in secondo luogo perchè aumentavano e giustificavano il mal volere del re Ferdinando il quale, già, e per la ignoranza e superstizione sua e per la devozione all’Austria e ai principi della Santa Alleanza, era avverso al movimento riformista e nazionale italiano, e più doveva divenirlo e lo diveniva, quando vedeva che tutti gli utili, che egli ritrarrebbe dalla partecipazione sua a quel movimenti, sarebbero la perdita della Sicilia e un ampliamento territoriale estesissimo a vantaggio dell’odiato e temuto suo emulo, il Re di Sardegna35.

La conclusione di un patto federale e la esistenza di una Dieta nazionale in Roma sarebbero stati fatti che avrebbero, forse, potuto modificare e temperare l’atteggiamento di Pio IX e - chissà? - trarre il Pontefice a non osteggiare la guerra intimata all’Austria - sebbene io creda fermamente che, allo stringere dei conti, egli avrebbe finito por dire e per fare ciò che disse e fece - e avrebbero, ad ogni modo, tolto al Borbone ogni pretesto o ragione di scusare il suo mal animo verso la causa [p. 364 modifica]nazionale; avvegnachè egli a questa non si fosse, in apparenza, chiarito favorevole che con la sola speranza di riavere il dominio della Sicilia e di impedire lo ingrandimento del Re di Sardegna, o di avere accrescimento di territorio egli pure.

Poichè Ferdinando di Borbone, ne’ suoi consigli fraudolenti, mostrava di avere più assai ambizione che non avesse ingegno e assai più invidia che nobiltà di animo non avesse; giacchè, mentre tanto tenero del Papa si palesava, dopo le prime vittorie piemontesi sul Mincio, era stimolato dal desiderio di allargare i confini dei suoi Stati ai danni del Pontefice, a compenso e ad equilibrio degli aumenti di territorio che potesse conseguire nell’alta Italia il re Carlo Alberto36.

E siffattamente gli interessi particolari dei singoli Stati e le gelosie e le ambizioni personali dei diversi Principi intorbidavano quella situazione, che lo stesso Pio IX, con tutto il fardello di responsabilità che gli pesava sulle spalle e in mezzo a tutte le angustie in cui lo costringeva la contraddizione dei due uffici a lui affidati di Principe italiano e di Pontefice cattolico, trovava il tempo e la voglia, di andare arzigogolando, nel suo vanitoso pensiero, la possibilità di rivendicare alla Santa Sede i suoi diritti feudali sul reame di Napoli37.

Ma queste diffidenze, queste gelosie, questi opposti interessi io già lo avvertii - ed ora lo ripeto - non erano tanto dipendenti dall’animo e dalla volontà degli uomini, quanto dalle cause [p. 365 modifica]antichissime che quelle divisioni e quelle gelosie degli Stati italiani avevano preparato da parecchi secoli e mantenute; talchè, non essendo ancora finita la influenza delle cause, ne duravano - pur troppo e dolorosamente - ancora gli effetti, che dovevano ridondare tutti e ridondarono a danno della grande impresa, avente per fine la redenzione d’Italia e la quale doveva passare attraverso a quell’ambiente di gelosie, di emulazioni, di scissure, e di discordie, di foghe giovanili e di sconsiderate improntitudini, di subitanei entusiasmi e di facili scoraggiamenti, di errori e di colpe per poter giungere a quella concordia di intenti e a quella maturità di propositi che produssero, nel decennio 1859-70, l’attuazione di quel grande ideale.

Frattanto avvenne a Roma un fatto, che era preparato da vario tempo per le sollecitazioni degli uomini più intelligenti, caritatevoli e liberali; le mura e le porte che recingevano il Ghetto degli Ebrei, separando questi, quasi come appestati, dal resto della popolazione, onde essi erano condannati a vivere ammonticchiati in buie, umide e fetide abitazioni, furono, nella notte dal 17 al 18 aprile, abbattute.

Ecco come il Grandoni, testimone oculare, narra nella sua ingenuità e nel suo stile ampollosamente barocco, l’avvenimento:

«La notte del 17 al 18 aprile segnerà nell’istoria di Pio IX una pagina gloriosa di vero progresso e filantropia. Ciò che dai savi e dai colti da tanto tempo bramavasi al fine si ottenne. Caddero le mura tutte di circuito e con esse le otto porte del claustro israelitico. Assicurato è per tal modo il primo passo all’emancipazione degli Ebrei, e l’antico carcere de’ liberi cittadini è stato distrutto. L’ordine savissimo è dato dal Principe, ma il disgustoso incarico38, affidato al cardinal vicario Costantino Patrizi, che esercita sopra il Ghetto assoluta giurisdizione. Ben cento muratori son già all’opra, diretti dal valente architetto romano Tommaso Bonelli, che contro quelle mura vibrò il primo colpo. Attoniti e timorosi, gl’Israeliti tremarono all’apparire di tante faci, e persone munite di scale e di picche, immaginando esser venuta l’ora, più [p. 366 modifica]volte minacciata, dell’ultimo loro esterminio: se non che la voce di Angelo Brunetti e il sopraggiungere di un popolo festevole, che cantava l’inno nazionale li rassicura d’un tratto e fa cangiare lo spavento in lagrime di gioia»39.

Il fatto fu lodato dalla stampa liberale40, ma porse motivo ai reazionari di suscitare il malumore e la collera del popolo minuto, ancora saturo dei pregiudizi instillati in esso da una falsa educazione, per effetto della quale gli Ebrei erano considerati eretici, empi, nemici della religione cattolica e crocifissori di Gesù41. I gregoriani e i nemici delle riforme soffiarono entro quelle vecchie faville: abilmente susurrarono e fecero credere, specialmente ai piccoli commercianti e ai lavoratori del rione Regola, confinante col Ghetto, che quella libertà concessa agli Ebrei si risolverebbe in grave danno per le loro industrie, cosi che, dal 18 sino al 30 di aprile, tumultuose raunanze di plebe avvennero nei dintorni del Ghetto, e furti e percosse a danno degli Israeliti, tumulti dei quali parla diffusamente il Grandoni, ma di cui lo Spada non fa neppure il più lieve cenno. Ed è cosa singolare questa, che può sembrare una voluta omissione, mentre traccie evidenti di quelle suggestioni e di quelle vessazioni rimangono nei rapporti dei comandanti di quei corpi di guardia della civica, situati in vicinanza dei luoghi nei quali i tumulti avvenivano42.

Ma l’esercito pontificio e i volontari, che si tenevano accampati sulla riva destra del Po, mentre sull’altra sponda i [p. 367 modifica]Piemontesi e i volontari lombardi e dei Ducati combattevano contro gli Austriaci, non potevano, evidentemente, rimanere a lungo in quella condizione di passivi spettatori, dolorosa per l’amor proprio dei soldati regolari, insopportabile al sentimento e all’entasiasmo dei volontari e vivamente biasimata dai giornali di Romagna e dei Ducati e dalle popolazioni dell’una e dell’altra riva, le quali, in varie guise, come già dissi e come risulta dai molti documenti uniti a questo volume e da me già indicati, manifestavano il loro malumore e chiedevano ad alta voce che si venisse alle armi e all’azione.

E tali rumori e tali querele eran venute crescendo, tanto fra i Volontari, quanto fra i Romagnoli e fra i Veneti, segnatamente dopo che si era diffusa fra essi la notizia di quella specie di smentita che la Gazzetta di Roma aveva, in nome del Pontefice, pubblicata contro il proclama Durando-D’Azeglio.

Per il che tanto il Durando, quanto il Ferrari ed il D’Azeglio tempestavano di lettere i Ministri a Roma perchè alle loro schiere fosse concessa la facoltà di passare i confini, rappresentando come ormai neppure a loro fosse dato di contenerne l’ardore - tanto è vero che, come emerge da taluno di quei documenti, alcuni distaccamenti, senza ordine, avevano già varcato il Po. - I generali delle schiere romane al confine manifestavano altresì che molti fra 1 militi volevano si cominciasse col porre l’assedio alla fortezza di Ferrara, ove stavano racchiusi gli Austriaci, a viva forza espugnandola.

E, siccome i Ministri facevan ressa appo Pio IX, cosi questi, a consiglio dell’astutissimo cardinale Antonelli, per guadagnar tempo e per aver agio di vedere quale piega fossero per prendere le cose della guerra, aveva delegato presso il campo del re Carlo Alberto, quale suo rappresentante monsignor Corboli-Bussi, perché persuadesse il Re ad aderire alla lega dei Principi italiani, inducendolo a inviare i suoi rappresentanti alla Dieta italiana, che doveva raccogliersi in Roma.

Che questo fosse un espediente di quel fine e sottile diplomatico che era il cardinale Giacomo Antonelli non v’ha dubbio43:

[p. 368 modifica]che monsignor Corboli-Bussi fosse, in piena buona fede, l’inconsapevole complice dei raggiri antonelliani, non può del pari negarsi; che Carlo Alberto dovesse essere, per lo meno stupito, per non dire indignato, che, mentre egli, con cinquantacinque mila dei suoi sudditi, stava pugnando in Lombardia, il Re di Napoli, il Principe dello Stato romano e il Granduca di Toscana, tergiversando, sottilizzando e diplomatizzando, lo lasciassero solo contro il fiero nemico, senza i loro immediati e, in quei supremi momenti, efficacissimi soccorsi, non può essere posto in discussione; che Pio IX poi, come alcuni storici credono, fosse veramente desideroso di essere, quasi a forza, tratto dai decreti della Dieta italiana, riunita in Roma, alla guerra contro l’Austria come Principe italiano, benchè altri lo affermi44, sarebbe dubbioso assai l’affermare, avvegnachè io, in ciò d’accordo con autorevoli scrittori45, sia persuaso, come già accennai, che, ad ogni modo, anche nel caso in cui la Dieta italica, rapidamente congregata, fulmineamente avesse deliberato che gli eserciti di tutti gli Stati in essa rappresentati dovessero accorrere immediatamente in soccorso degli Italiani combattenti fra il Mincio e l’Adige, Pio IX, qualunque potessero essere i suoi personali desideri, avrebbe sempre finito per fare ciò che la maggioranza del Sacro Collegio avrebbe voluto imporgli; e di non aiutare la guerra della indipendenza italiana la maggioranza dei Cardinali gli avrebbe, ad ogni modo, imposto, nè altrimenti essa avrebbe potuto diportarsi, nè cosa diversa imporgli.

I Piemontesi, frattanto, dopo aver tentato l’assalto di Peschiera, l’avevano cinta d’assedio, mentre col grosso delle loro schiere campeggiavano, più minacciosi in apparenza che efficacemente ostili, in azione vigorosa, sotto Mantova.

E, nel frattempo, un grosso nucleo di nuovi armati, per le energiche rimostranze di Radetscky, il Governo austriaco, ridotto allo stremo di ogni sua forza, ma non della costanza, andava ragunando.

E fu allora, allora soltanto, quando già le milizie raccolte dal generale Nugent cominciavano a muoversi e a rumoreggiare [p. 369 modifica]sull’Isonzo, che Massimo D’Azeglio, ito messaggero del generale Durando al re Carlo Alberto46, partecipava a questo l’ordine di varcare il Po, del quale il Durando comandò alle sue soldatesche il passaggio il 21 aprile, dopo che, per mezzo di staffetta il principe Aldobrandini, udito il Papa, lo aveva, in nome di lui, nuovamente autorizzato, con dispaccio del 18 aprile a «fare tutto ciò che giudicasse necessario per la tranquillità e il bene del Governo pontificio». Dai documenti nuovi che io pubblico sarà posto in maggiore rilievo ciò che, in genere si sa e si narra da parecchi fra gli storici di quegli avvenimenti e, cioè, che, lungamente, fu dibattuto fra il re Carlo Alberto, il generale Durando e Daniele Manin verso qual parte della sponda sinistra del Po l’esercito romano dovesse essere diretto. Da quei documenti si vedrà come, anche in ciò, la concordia degl’Italiani fosse turbata da considerazioni di indole politica e, sopra tutto, da spirito di interesse regionale. Si vedrà come il Governo provvisorio della Repubblica veneta mirasse ad avere l’esercito romano nel Polesine e nella Marca Trevigiana a propria tutela e difesa, mentre Carlo Alberto voleva, da prima, formarne la propria ala destra per l’investimento di Mantova. Il più singolare poi si era che, mentre, evidentemente, quell’esercito era stato raccolto per lanciarlo contro gli Austriaci, i Ferraresi, col cardinale Ciacchi alla testa, ne volevano serbata una parte a difesa della loro città contro la guarnigione austriaca, che stava racchiusa nella cittadella, il cardinale Marini, Legato di Forli, ne voleva lasciata a sé una parte per il mantenimento dell’ordine nella sua provincia e monsignor Ricci, Delegato di Ancona, ne reclamava una parte per la difesa di quella fortezza. Risulterà da questi documenti come, dopo lunghe controversie, si deliberasse di spartire l’esercito romano in due divisioni, delle quali l’una, formata quasi completamente di soldati regolari e capitanata dal Durando, doveva recarsi a Ostiglia ad aiutare il re Carlo Alberto, l’altra, composta quasi esclusivamente di volontari e condotta dal Ferrari doveva avanzarsi verso Padova, per accorrere sull’Isonzo o, almeno, sulla Piave a difendere il Veneto dall’esercito di Nugent; e risulteranno le alte querimonie del [p. 370 modifica]Ferrari, che desiderava fosse assegnata alla sua divisione una parte delle milizie regolari messe agli ordini del Durando e che a questo fosse data, in cambio, una parte dei volontari sottoposti a lui; e risulteranno le querimonie ancora più alte del Governo Veneto; querimonie tutte che spense, d’un tratto, Carlo Alberto il quale, accortosi, alla fine - e forse troppo tardi - che alle milizie del Nugent bisognava chiudere il varco, affinchè non venissero ad afforzare l’esercito del Radetscky sul Mincio, diede ordine anche al Durando di cooperare col Ferrari sulla Piave, per contenderne agli Austriaci il passaggio47.

Ma la notizia di questi fatti, logica conseguenza di tutte le premesse, e attesi, e affrettati, e invocati, se da un lato soddisfaceva la popolare aspettazione ed era perciò accolta con gioia nelle Provincie dello Stato ed in Roma, suscitava dall’altra parte vive apprensioni circa alle conseguenze che quei fatti trarrebbero con loro, se il Governo non dichiarava contemporaneamente la guerra all’Austria; giacchè i soldati romani, che andavano a combattere contro gli Austriaci, senza una dichiarazione di guerra da parte del Governo papale, non sarebbero stati trattati come belligeranti, secondo le leggi accettate del diritto delle genti, ma a guisa di briganti e di predoni.

Da quei documenti, a chi voglia e sappia leggerli, verrà più chiaramente dimostrata la poca autorità e la perpetua indecisione del Durando, la poca subordinazione del Ferrari, la mancanza di energia e di autorevolezza del ministro Aldobrandini - tuttochè animato dal più nobile patriottismo, dal più vivo zelo del bene e tuttochè solerte ed operosissimo; - la difettosa organizzazione delle due divisioni, la rigidezza soverchia - inopportuna trattandosi di volontari - del Durando, che pretendeva da quei giovani le qualità dei vecchi soldati e non sapeva apprezzare e, quindi, non sapeva valersi, delle buone qualità che pure erano in essi; la soverchia rilassatezza, per lo incontro, del Ferrari; e saranno chiaramente dimostrate le origini dei dissidi fra generale e generale, fra corpi e corpi e le cause genetiche dei [p. 371 modifica]futuri insuccessi e dei gravi errori che, quasi a gara, commisero il Durando ed il Ferrari. Intanto causa prima dei malumori e delle diffidenzo era la reluttauza del Papa - inesplicabile per i dodicimila volontari, che stavano ansiosamente aspettando a Bologna e a Ferrara - a dichiarare la guerra.

Onde vivamente e ragionevolmente si commoveva la pubblica opinione; e i giornali, nelle loro animate polemiche, e i Circoli romano, popolare e commerciale, nelle assidue ed accese loro discussioni, domandavano ad alta voce la dichiarazione di guerra; e, di riverbero, i Ministri domandavano al Papa la facoltà di farla essi, in suo nome, quella dichiarazione di guerra.

E in questo suo atteggiamento il Ministero aveva adiutatrice la vera opinione pubblica in tutte le sue gradazioni da quella moderatissima, rappresentata da Pellegrino Rossi, da Francesco Orioli e dal canonico Stefano Ciccolini, fino a quella più accesa, rappresentata dà Carlo Luciano Bonaparte di Canino, da Pietro Sterbini e da Ciceruacchio.

Infatti, su proposta di quest’ultimo, si era Costituito di quei giorni un Comitato di guerra, composto di godici membri eletti dai vari Circoli e destinato a cooperare alla guerra dell’indipendenza nazionale ed erano stati eletti a farne parte i seguenti cittadini:

Pel Circolo popolare: Massimo di Rignano duca Mario, Armellini Francesco.

Pel Circolo romano: Mamiani conte Terenzio, Berretta Cesare.

Pel Circolo commercianti: Fabi avv. Antonio, Galletti Vincenzo.

Pel Casino piazza Sciarra: Borgia conte Ettore, Giraud conte Ferdinando.

Per la Società artistica: Gajassi Vincenzo, Cremonesi Lorenzo.

Pel Casino palazzo Costa: Polverosi Bartolomeo, Mastricola dott. Luigi.

E non sarà inopportuno notare, qui, di passaggio, che questi egregi cittadini, nati a Roma quasi tutti, appartenevano quasi tutti al fiore della moderazione; e devotissimi al Papa erano allora e furono poi, il duca Massimo, il Polverosi, il Giraud, il Galletti, il Fabi; e moderati, anche in esilio, si serbarono poscia [p. 372 modifica]il Borgia e il Mastricola. Ecco quali erano i famosi rivoluzionari, i famosi esagerati contro i quali scaraventano, ad ogni voltar di pagina, i loro fulmini di stoppa il Balan, il Balleydier, il Lubienski, il De Saint’Albin, il D’Arlincourt e lo Spada!

I Ministri, intanto, dopo maturo esame della situazione e sgomenti dall’atteggiamento molto titubante e dal fare misterioso del Papa e dalle voci che correvano intorno alla allocuzione che il Pontefice doveva pronunciare fra giorni nel Concistoro dei Cardinali, stimarono utile presentare a lui una nota collettiva, nella quale essi esprimevano la loro concorde opinione sulla situazione e si industriavano di persuadere Pio IX della necessità ineluttabile, in cui egli si trovava, di dichiarare la guerra all’Austria.

Finalmente la logica inesorabile dei fatti precedenti doveva trarre e traeva i Ministri a voler la guerra e doveva trarre, finalmente, e traeva il Papa fuori dal tortuoso sentiero delle ambagi e delle simulazioni, lungo il quale aveva anguilleggiato fin lì, per condurlo sulla via della sincerità a dichiarare che egli la guerra non poteva volere e non voleva,

I nodi, aggrovigliatisi per ventidue mesi, finalmente venivano al pettine!

La rimostranza dei Ministri, che, avanti a tutte le altre firme, quella del cardinale Giacomo Antonelli, presidente del Consiglio, recava48, fu pubblicata per primo dal Farini e dopo di lui da altri storici: onde non è documento nuovo: ma è documento tanto importante, sia per il contenuto suo, sia per la forma, sia pel momento in cui fu dettata e firmata e, più specialmente, infine, per le conseguenze che so ne poterono trarre appresso, e per quelle che anche i lettori di questo mio libro potranno trarne, a dilucidamento e ad esplicazione di molti avvenimenti successivi, che io stimo necessario di riprodurre qui quella rimostranza.

«I sottoscritti ministri, riverentemente prostrati, pregano la S, V. a degnarsi di rivolgere la sua benigna attenzione su questo foglio, nel quale si discorre della situazione attuale del [p. 373 modifica]paese e del Governo rispetto alla pace ed alla guerra, E creda che non da presunzione o da orgoglio sono mosse le nostre parole, ma solo da profondo convincimento e da dovere di coscienza.

«Allorchè ebbe luogo la insurrezione lombarda, ed incom,inciò la guerra della indipendenza italiana, uno spirito ardentissimo di nazionalità si destò in tutte le popolazioni dello Stato pontificio del pari che nelle altre della Penisola, Fu per tutto un chieder armi, un raunarsi a milizia, un partire al soccorso degli Italiani, che già pugnavano contro lo straniero. Frenarle questo movimento, anche volendo, sarebbe stato impossibile. Il Governo di V. S. ebbe in mira di regolarlo e dirigerlo; gli diè strumenti, norme, condottieri; e questa operazione, che sembrava sì minaccevole, riuscl in modo mirabile, senza che alcun disordine sia accaduto nello Stato. Fin qui il Governo potè spiegare il fatto in questa guisa: che le truppe e le legioni volontarie andavano a guardare i confini pontifici.

«Ma tale concetto, che non assecondava lo spirito pubblico e il sentimento nazionale, doveva essere di sita natura precario, e cadde naturalmente quando, giunto l’esercito ai confini, mandò chiedendo di trapassarli.

«E nondimeno si potè ancora una volta evitare la esplicita dichiarazione di guerra rispondendo, secondo la mente della S. V.: facessero nella gravità delle circostanze ciò che era necessario alla sicurezza ed al bene dello Stato, Ma qui è necessario il dire realmente che, inviando questa istruzione ai generali, il Ministero non poteva dissimulare a sè stesso, come ciò equivalesse in fatto all’autorizzazione di passare il Po, ed entrare nella Lombardia; non poteva dissimularlo al paese cui comunicava le notizie ricevute; ne lo dissimulò alla S. V., poichè sarebbe stato tradire la fiducia della quale si vedeva onorato.

«Ma fin d’allora, e più volte in appresso i sottoscritti hanno indirizzato ora singolarmente, ora per mezzo del presidente del Consiglio, le più vive preghiere alla S. V., affinchè si degnasse di dichiarare precisamente i suoi pensieri intorno alla guerra, e determinare le norme politiche da seguirsi. Tale [p. 374 modifica] dichiarazione ogni di più diviene necessaria se si considerino la tranquillità del paese, la dignità del Governo e le attuali condizioni del Ministero e dell’esercito. Da questo supremo atto dipende in gran parte l’avvenire dello Stato e quello di Italia.

«Ora, Beatissimo Padre, voi vi siete degnato di assicurarci che la vostra parola era imminente ad uscire. Noi l’attendiamo adunque con l’ansietà la più viva e raccoglieremo, divotamente obbedienti, quale ella si sia; ma prima di udirla permettete, Beatissimo Padre, che con rispettosa franchezza vi rechiamo innanzi alcune considerazioni.

«Da duplice ordine d’idee parte la decisione delta S. V., secondo la doppia veste che ha Vostra Beatitudine, di capo della Chiesa cattolica, e di Principe di questi Stati.

«In quanto alla prima, il Ministero deve essere profondamente commosso della importanza del subbietto e dèlla posizione delicatissima di V. S., ma similmente deve conoscere che non gli è lecito formare o esprimere giudizi. In questa materia tutta estrinseca al nostro incarico, la S. V. prenderà le sue ispirazioni dà Dio e dalla propria coscienza.

«Ma, nella parte temporale, comechè per infinita distanza sottoposta alla prima, nondimeno è dovere nostro esaminare quale soluzione può avere la quistione, e quali conseguenze siano per derivarne.

«In tre modi può essere sciolta la questione:

« V. S. acconsente che i suoi sudditi facciano la guerra.

«O dichiara assolutamente che non vuole che là guerra si faccia.

«O finalmente dichiara che volendo la pace, non può impedire che la guerra sia fatta.

Quanto alla prima di queste dichiarazioni il Ministero opina che essa sia richiesta dalla necessità dei tempi e dallo spirito pubblico; opina che rialzerà l’autorità materiale e morale del Governo, e dominando fortemente il presente, preparerà tutta r efficacia d’azione nelV avvenire. Benché il Ministero, parlando anche solo temporalmente, consideri la guerra come un male; nell’attual caso la riguarda però come il minimo dei mali, la riguarda anzi come il solo mezzo di affrettare alla Italia [p. 375 modifica]scomposta quella pace naturale e duratura, che potrà avvenir solo dal giusto acquisto della Nazionalità.

«Per contrario è ferma opinione del Ministero che la Seconda soluzione arrecherebbe tutti i mali contrari alle sopradescritte utilità, e comprometterebbe gravissimamente il dominio temporale della Santa Sede. Nè si può senza ribrezzo, immaginare quali reazioni, quali disordini potrebbero accadere, se non nella Capitale, certo nelle Provincie, da una decisione che si opponesse di fronte all’entusiasmo di che i popoli oggi sono compresi.

«Rimane la terza ipotesi, Cioè che la S, V., dichiarandosi contraria alla guerra non solo in massima generale, ma anche in ispecie, pure affermasse di non poterla impedire. Una tale dichiarazione, commentata ed espressa in più chiara forma, suonerebbe in questo modo: che la guerra che V. S. medesima riconosce impossibile ad evitarsi, e fatta nondimeno, contro il suo consenso e la sua volontà, è l’effetto di un movimento anarchico cui il Governo è impotente a spegnere. Ciò posto, e lasciando stare che l’autorità morale del Governo è al tutto annullata, è evidente che, rispetto al paese le stesse conseguenze che abbiamo toccato della seconda dichiarazione deriverebbero, almeno in parte, anche da questa terza.

«I Principi ed i popoli italiani sentiranno il loro zelo raffreddarsi nella causa dell’indipendenza. Una parte dei volontari ritornerà, alle proprie case, un’altra parte rimarrà incerta, se in onta al Principe debba rimanersi al campo. Quanto a quelli che vorranno restare ad ogni modo, il vincolo di rispetto, di devozione, di amore che li collega oggi al Principe sarà sciolto forse per sempre.

«D’altra parte, lo straniero, nel proprio interesse, non si terrà d’interpretare malignamente quest’atto. Dirà, ciò essere un inganno fondato sulle parole, poichè se il Governo non può impedire questo movimento anarchico, deve almeno mostrare la sua buona fede, mettendo in opera tutti i mezzi che possiede a tal fine; ma se, per lo contrario, fornisce armi e munizioni ai volontari, se gli dà altresì dei generali per guidarli, è segno che, segretamente, approva questa guerra che, in apparenza, disdice. L’autorità pontificale non sarà meno attaccata [p. 376 modifica]dai perfidi di quello che lo sarebbe con una aperta dichiarazione di guerra.

«Finalmente le truppe assoldate e i volontari che, dopo questa dichiarazione, rimanessero di là del Po, si troverebbero del tutto privati di quei diritti che, anche nelle guerre più accanite, quando sono state preliminarmente dichiarate, il diritto delle genti concede.

«Questi invece sarebbero trattati come banditi, assassini, briganti, e sono pure sudditi pontifici, sotto il comando di generali scelti da V. S., indossano le divise papali, portano la sua bandiera e la croce. Tali considerazioni i sottoscritti umiliano alla S. V., profondamente inchinati baciano il sacro piede di Vostra Beatitudine.

«Roma, 25 aprile 1848,

«Umilissimi e devotissimi sudditi
«Antonelli - Recchi - Mlnghetti - Aldobrandini
Simonetti - Pasolini - Sturbinetti - Galletti»
.

Il Pasolini e il Farini, che facevan parte del Ministero - e probabilmente la surriferita rimostranza, chiara e vigorosa nella forma e serrata e poderosa nella logica, fu scritta proprio dal Farini - levano qui, e ben a ragione, alti lamenti e, in nome della verità storica, indignati, protestano perché, di fronte a quella nota cosi franca ed aperta, firmata per primo dal Cardinale Antonelli, si sia scritto e si sia detto e ripetuto, anche dopo molti anni, che i Ministri, profittando della concitazione degli animi, volessero costringere il Papa ad una dichiarazione di guerra49. I Ministri in quella nota, adempirono il loro dovere e misero chiaramente e nettamente dinanzi agli occhi del Pontefice la situazione tale quale era e ne posero in rilievo le contraddizioni. Essi, incaricati di difendere e tutelare, come rappresentanti politici del potere temporale, i diritti e gli interessi dei popoli dello Stato romano, mostrarono al Papa quali [p. 377 modifica]sarebbero stati i doveri di lui come Principe e non vollero entrare nei penetrali del cuore del Pontefice. Non erano essi che avevano creato quella situazione, non erano essi che avevano posto la persona di Pio IX nel terribile bivio dinanzi al quale ora esso si trovava: essi indicavano al Principe la via che egli avrebbe dovuto seguire come Principe; se un impulso più potente spingeva Pio IX a seguire, invece, la via tracciata da’ suoi doveri di Pontefice al Pontefice, che colpa ne avevano loro?..

Cosi avvenne che mentre i Ministri, lealmente adempiendo al loro dovere, si travagliavano a porre sotto gli occhi del Pontefice tutti i pericoli della situazione politica, continuavano assidue e pertinaci le trame degli ambasciatori di Russia, di Prussia, di Spagna, di Baviera e di Napoli e dei più reazionari fra i Cardinali attorno al perplesso e conturbato Pontefice, per mettere in rilievo, a’ suoi sguardi, i pericoli della situazione religiosa.

Di queste trame, da altra parte logiche e naturali, restano tali e tante e cosi evidenti traccio che sarebbe ormai puerile il negarle50. Per effetto delle insinuazioni, pertinacemente susurrate airorecchio di Pio IX, impressionevole, pauroso, scrupolosissimo, ogni sua reluttanza a troncare definitivamente gli equivoci e le illusioni fu vinta: a costo di perdere la tanto a lui cara popolarità, a costo di veder svanire per sempre il sogno carezzato di essere, o di apparire ed essere creduto almeno, il [p. 378 modifica]redentore d’Italia, egli era ormai deciso di parlare in nome delle tradizioni, delle dottrine, degli interessi della Chiesa e del Cattolicismo: cadesse pure il mondo, ogni più cara visione, ogni più vagheggiato ideale andasser perduti, purchè in calma potesse tornare la sua turbata coscienza di Pontefice.

E, nonostante le ripetute assicurazioni date dal Papa ai Ministri che nella Allocuzione, con cui egli paleserebbe il suo pensiero nel prossimo Concistoro, nulla vi sarebbe che potesse offendere i sentimenti patriottici degl’Italiani e dei Ministri stessi51, il 29 aprile, alle 9 antimeridiane, egli, con volto sereno e con tranquilla coscienza, lesse ai Cardinali, riuniti in Concistoro, quella famosa Allocuzione, che era già stampata e di cui, nondimeno, - e questo fatto solo basterebbe a provare la trama — nè al Ministro dell’interno, nè a quello di polizia, nè ad alcun altro dei membri del Consiglio dei ministri era stato dato di trapelare pur sillaba. Nel qual fatto, se soverchia lealtà, spinta fino alla ingenuità, vi fu, fu tutta dalla parte di quel Recchi e di quel Galletti dei quali gli storici papalini van predicando, con sfacciate menzogne, le arti subdole e gli intrighi rivoluzionari ai danni del Papa, di cui essi, invece, con preadamitica buona fede, erano stati fin li e si mantenevano fedeli servitori e ammiratori devoti.

E ormai provata la gioia del Lutzow e del Boutanieff, ambasciatori d’Austria e di Russia, prima che l’Allocuzione fosse [p. 379 modifica] pronunciata52; è ormai provato che al Pasolini, presentatosi il 28 aprile al Papa per manifestargli le sue ansietà, questi aveva risposto: «Ma no, non temete, non vi fidate di me? non avete dunque conosciuto chi è Pio IX? vedrete che sarete contenti»53; è ormai provato che il 1° maggio, dopo la sommossa prodotta dall’Allocuzione, il Papa aveva incaricato monsignor Pentini - e questi lo affermava parecchi anni appresso al dott. Diomede Pantaleoni - «di scrivere una notificazione in favore della guerra, o almeno tale che le ansie del Ministero liberale ne fossero quetate», ed è provato altresì che quella notificazione scritta e spedita nella stamperia segreta della Segreteria di Stato fu dal cardinale Antonelli sostanzialmente modificata, onde «ne uscì quella notificazione che senz’altro fu affissa per Roma e che presto venne lacerata dal popolo tumultuante»54; per il che restano provate e la mala fede di Pio IX verso i suoi Ministri e la callida e tenebrosa politica adoperata dal cardinale Antonelli e dagli altri Cardinali reazionari contro i desideri e le speranze liberali e nazionali della maggioranza delle popolazioni italiane.

Stabilite le quali cose, in ossequio alla verità storica, io ripubblicherò la famosa Allocuzione, di cui - benchè essa sia notissima - stimo opportuno che i miei lettori abbiano qui il testo, perchè essi possano confrontarlo con quello della rimostranza dei Ministri liberali di sopra riferita; avvegnachè i due documenti, nei quali si rispecchiano lucidamente il pensiero politico della nazione da un lato e il pensiero chiesastico del Papa dall’altro, siano testimonianza irrefiutabile della flagrante contraddizione, onde erano stati avvolti e travolti, dal 16 luglio ’46 fino al 28 aprile ’48, gl’Italiani e Pio IX.

Ecco l’importantissimo storico documento, che dissipò, con la forza dell’aquilone, la nebbia del sogno neo-guelfo e [p. 380 modifica]fu la causa determinante della fine del potere temporale dei Papi:

Allocuzione di Sua Santità papa Pio IX

detta nel Concistoro secreto del 29 aprile 1848.


«Venerabili fratelli!

«Più volle, venerabili fratelli, Noi abbiamo detestalo nel vostro Consesso l’audacia di alcuni che non avevano dubitato d’inferire ingiuria a Noi, e pertanto a questa Apostolica Sede, trovando falsamente Noi aver deviato, e non in un sol punto, dai tantissimi Instituti dei nostri predecessori, e (orribile a dirsi!) dalla dottrina medesima della Chiesa, Veramente nè oggi mancan di quelli che così favellano di Noi, quasi fossimo stati precipui autori dei pubblici commovimenti, che negli ultimi tempi avvennero non che in altri luoghi d’Europa, ma ancora in Italia, E specialmente dalle regioni austriache in Germania intendemmo ivi spargersi, e seminarsi nel popolo: il romano Pontefice avere mandato esploratori, ed usando altre arti, eccitato i popoli italiani a indurre nuovi mutamenti nelle pubbliche cose. Sapemmo altresì che alcuni nemici della religione cattolica ne presero occasione ad infiammare gli animi dei Germani nel fervore della vendetta e ad alienarsi dalla unità di questa Santa Sede. Ma, sebbene in Noi non ha il menomo dubbio che le genti della Germania cattolica e i nobilissimi Vescovi che la governano, non abborrano grandissimamente dalla costoro malvagità, pure vedemmo che a Noi s’apparteneva di riparare e antivenire lo scandalo, che alcuni uomini incauti e piuttosto semplici ne potrebbero prendere, nonché di ribattere la calunnia che ridonda non solo in contumelia della persona Nostra, ma eziandio del supremo apostolato che esercitiamo, e di questa Santa Sede, E perchè quei medesimi nostri biasimatori, non potendo portare in mezzo alcuna prova delle macchinazioni che ci appongono, si sforzano di recare a sospetto quelle cose che Noi facemmo nel prendere il governo del dominio temporale pontificio; pertanto, per tagliare loro quest’ansa alla calunnia, è Nostro consiglio di esplicare oggi chiaramente ed apertamente nel vostro Consesso tutta la causa di quelle cose.

[p. 381 modifica]«Non vi è ignoto, venerabili fratelli, già fin dagli ultimi tempi di Pio VII, predecessor nostro, i maggiori Principi del- l’Europa aver cercato d’insinuare all’Apostolica Sede, che nell’amministrazione delle cose civili usasse un cotal modo più agevole, e rispondente ai desideri dei laici. Li poi, nel 1831, questi loro voti e consigli più solennemente rifulsero per quel celebre Memorandum, che gl’imperatori d’Austria e di Russia, e i re di Francia, Gran Brettagna e Prussia stimarono d’inviare a Roma pei loro ambasciadori. In quella Nota, tra le altre cose, si ragionava di convocare a Roma una Consulta da tutto il dominio pontificio e d’instaurare od ampliare la costituzione dei Municipi, dell’instituire i Consigli provinciali, come altresì d’introdurre questi stessi ed altri Istituti in tutte le province a comune utilità, e di render accessibili ai laici tutti quegli uffici che ragguardassero o l’amministrazione delle cose pubbliche, o l’erdine dei giudizi, E questi due capi singolarmente si proponevano come principi vitali di governo. In altre note di ambasciadori si discorreva di dare un più ampio perdono a tutti o quasi tutti coloro che s’erano levati dalla fede del Principe nel dominio pontificio.

«A niuno poi è nascosto, alcune di queste cose essere state mandate in atto da Gregorio XVI, nostro predecessore, e d’altre poi fatte promesse negli Editti che di suo ordine furono emanati nel 1831. Ma questi benefici del nostro predecessore non parvero cosi pienamente rispondere ai voti dei Principi, né bastar ad assicurare la pubblica utilità e la tranquillità in tutto lo Stato temporale della Santa Sede.

«Laonde Noi, come prima per imperscrutabile giudicio di Dio fummo sostituiti in suo luogo, non eccitati da conforto o consiglio, ma mossi dal nostro singolar affetto verso il popolo sottoposto al temporale dominio ecclesiastico, concedemmo un più largo perdono a coloro che s’erano partiti dalla fedeltà dovuta al Governo pontificio, e di poi ci affrettammo d’instituire alcune cose che avevamo giudicato dover conferire alla prosperità del medesimo popolo. E quelle tutte cose che facemmo nei primi principi del nostro pontificato, bene si convengon con quelle che sommamente avevan desiderate i Principi dell’Europa.

[p. 382 modifica]«Ma dappoichè, Dio aiutante, i consigli nostri furon condotti a termine, cosi i nostri come i finitimi popoli parvero esultare d’allegrezza e con pubbliche gratulazioni e significazioni d’osservanza acclamarci per modo che dovemmo curare che eziandio in quest’alma città si restringessero entro giusti confini i clamori popolari, i plausi e gli assembramenti che con troppo impeto prorompevano.

«Dipoi son note a tutti, o venerabili fratelli, le parole della Allocuzione che vi facemmo nel Concistoro tenuto il 4 ottobre del passato anno, con le quali commendammo la benignità e le più ammirevoli premure dei Principi verso i popoli a loro soggetti ed esortammo i popoli stessi alla fede ed obbedienza dovuta ai loro Principi. Nè poi lasciammo quanto in Noi fu, di ammonire ed esortar tutti efficacissimamente, che aderendo fermamente alla dottrina cattolica, ed osservando i precetti di Dio e della Chiesa, si studiassero di mutua concordia e di tranquillità e carità verso tutti.

« E deh! fosse stato in piacere di Dio che il desiderato successo avesse risposto alle nostre voci e ai nostri conforti paterni! Ma son chiari a ciascuno i pubblici commovimenti dei popoli d’Italia, di che toccammo di sopra, come gli altri eventi, che o fuor d’Italia, o nella stessa Italia, o prima erano accaduti, a di poi succedettero. Se alcuno poi volesse pretendere, che a tali eventi ha aperto alcun adito quello che con benevolenza e benignità fu per Noi fatto nell’inizio del nostro sacro principato, egli in nessun modo potrà ciò ascrivere ad opera nostra, non avendo noi fatto che quelle cose che alla prosperità del nostro temporale dominio eran parute opportune non solo a Noi ma anche ai Principi memorati. Rispetto poi a coloro, che in questo nostro dominio abusarono i nostri stessi benefici. Noi imitando l’esempio del Divin Principe dei pastori, perdoniamo loro di cuore e affezionatissimamente a più sano consiglio li richiamiamo, ed a Dio Padre delle misericordie supplichevolmente chieggiamo, che allontani clementemente dal loro capo i flagelli che sovrastano agli uomini ingrati.

«Senzachè non potrebbero aver ira con Noi i sopradetti popoli di Germania, se punto non ci fu possibile frenar [p. 383 modifica]l’ardore di coloro che dal nostro temporale dominio tollero applaudire alle cose fatte contro di loro nell’Italia superiore, e infiammati come gli altri di pari fervore verso la propria Nazione abbian posto opera alla stessa causa con gli altri popoli d’Italia.

«Imperocchè parecchi altri Principi d’Europa, che ci prevalgono d’assai di numero di soldati, non poterono resistere a questo tempo medesimo ai commovimenti dei loro popoli. Nella quelle condizione di cose. Noi pure ai nostri soldati, mandati ai confini del dominio pontificio, non volemmo che s’imponesse altro senonchè, difendessero l’integrità e la sicurezza dello Stato pontificio.

«Ma conciossiachè ora alcuni desiderino che Noi altresì con gli altri popoli e Principi d’Italia prendiamo guerra contro gli Austriaci, giudicammo conveniente di palesar chiaro ed apertamente in questa nostra solenne ragunanza che ciò si dilunga del tutto dai nostri consigli, essendochè Noi, sebbene indegni, facciamo in terra le veci di Colui che è autore di pace, e amatore di carità, e secondo l’ufficio del supremo nostro apostolato proseguiamo ed abbracciamo tutte le genti, popoli e nazioni con pari studio di paternale amore. Che se nondimeno non manchino tra i nostri sudditi di coloro che si lasciano trarre dall’esempio degli altri Italiani, in qual modo potremmo Noi contenere il costoro ardore?

«Ma qui non possiamo tenerci di non repudiare in cospetto di tutte le genti i subdoli consigli di coloro, palesati eziandio per giornali e per vari opuscoli, i quali vorrebbero che il Pontefice romano fosse capo e presiedesse a costituire una cotal nuova Repubblica degli universi popoli d’Italia. Anzi, in questa occasione, sommamente ammoniamo e confortiamo gli stessi popoli d’Italia, mossi a ciò dall’amore che loro portiamo, che si guardino diligentissimamente da siffatti astuti consigli, e perniciosi alla stessa Italia, e di restar attaccati fermamente ai loro Principi, di cui sperimentaron già la benevolenza, e non si lascino mai divellere dalla debita osservanza verso di loro. Imperocchè se altrimenti facessero, non solo verrebber meno del proprio debito, ma anche correrebber pericolo che la medesima Italia non si scindesse [p. 384 modifica]ogni di più in maggiori discordie, ed intestine fazioni. Per quello che a Noi tocca, Noi dichiariamo reiteratamente: il romano Pontefice intendere tutti i pensieri, le cure, gli studi suoi perchè il regno di Cristo, che è la Chiesa, prenda ogni dì maggiori incrementi, non perchè s’allarghino i termini del principato civile, che la Divina Provvidenza volle donare a questa Santa Sede, a sua dignità, e per sicurare il libero esercizio dell’apostolato supremo. In grande errore adunque si avvolgono coloro che pensano, l’anima nostro poter essere dalla lusinghiera grandezza di un più vasto temporale dominio sedotto a gettarci in mezzo ai tumulti dell’armi. Questo invece sarebbe giocondissimo al nostro cuore paterno, se con le opere, con le cure, con gli studi nostri ci fosse dato di conferire alcun che ad estinguere i fomiti delle discordie, a conciliar gli animai che si combattono, ed a restituir la pace fra loro.

«Intanto, mentre con non lieve consolazione dell’animo nostro intendemmo, in parecchi luoghi non pure in Italia, ma anche fuori di lei, in un cosi gran movimento delle pubbliche cose, i nostri figli non esser venuti meno della riverenza verso le cose sacre, e i ministri del culto; ci dolghiamo pure con tutto l’animo che quest’osservanza non sia stata mantenuta loro per ogni dove. Nè possiamo trattenerci dal lamentare finalmente nel vostro Consesso quella funestissima consuetudine, che principalmente imperversa nei nostri tempi, di mandare a luce libelli pestiferi di ogni genere, nei quali si fa fierissima guerra alla santissima nostra religione, e all’onestà dei costumai, o s’infiammano le perturbazioni e discordie cittadine, o si attaccano i beni della Chiesa, o si oppugnano i sacratissimi diritti di lei, o gli ottimi uomini si lacerano con false accuse.

«Queste cose, o venerabili fratelli, oggi estimammo dovervi comunicare. Resta ora che al medesimo tratto, nell’umiltà del nostro cuore offeriamo assidue e ferventi preci a Dio Ottimo Massimo, che voglia guardare la sua Santa Chiesa da ogni avversità e si degni rimirarci e difenderci benignamente da Sion, e revocar tutti i Principi e popoli agli studi della desiderata pace e concordia».

[p. 385 modifica]La dimostrazione era fatta finalmente! il Papato non poteva e non può essere italiano: esso era costretto a restare e solennemente lo affermava il Pontefice - cattolico e universale, cioè quale la essenza della sua costituzione organica, le sue tradizioni, i suoi interessi, la sua storia logicamente e inesorabilmente imponevano che restasse: la bomba era scoppiata e la contraddizione era, una buona volta finita e - non ostante tutte le rappezzature che dopo ancora si tentarono - era finita per sempre!



Note

  1. Sono parole contenute nell’articolo pubblicato nel giornale ufficiale, con cui si partecipa al pubblico, con tutte le espressioni del dolore provato dal Santo Padre, l’allontanamento dei gesuiti. Vedi Gazzetta di Roma del 30 marzo 1848, n. 52.
  2. A qualche cosa di simile allude, unico fra tutti gli altri storici non clericali di quella età da me veduti, il Minghetti in una lettera da lui scritta, in data 19 marzo, da Roma, ad una sua carissima amica e da lui riprodotta nell’appendice al, vol. I delle sue Memorie a pag. 389. Donde attingesse quella notizia il Minghetti io non saprei nè affermare, nè indovinare, perchè - lo ripeto - io non ne ho trovato traccia alcuna nè fra gli storici che furono testimoni oculari di quegli avvenimenti, nè nei giornali di quel tempo. Fu, forse, quella una voce messa in giro da qualche gesuitante, a quei giorni, e pervenuta così all’orecchio dello statista bolognese.
  3. Vedi i documenti 10, 11 e 12.
  4. Vedi i due documenti che io produco sotto i numeri 13 e 14.
  5. B. Grandoni, op. cit., pag. 165. Cf. Pallade del 2 aprile, n. 207.
  6. Vedi, fra i documenti, ai numeri 15 e 16, le due lettere del console generale coadiutore pontificio a Genova, F. Scorza, tratte dalle buste della Miscellanea politica degli anni 1848 e i849, esistenti nel R. archivio di Stato di Roma. Nelle buste 22 e 23 le lettere dallo Scorza indirizzate al Cardinale camerlengo sono assai frequenti: egli informa minutamente dei fatti politici, manifestazioni popolari, pubblicazioni, ecc. Nelle due lettere che io pubblico lo Scorza dà molti particolari sui due cannoni.
  7. «Nè vuolsi condannare l’universale, se passò il segno negli applausi; trattandosi di un fatto cosi inaudito e insperato come l’avvenimento di un papa liberatore». Così, sagacemente, il Gioberti nel Rinnovamento, vol. I, cap. XIII.
  8. Intorno alle marcie dei volontari il turpe libellista francese visconte D’Arlincourt (Italie rouge, già citata, cap. IV, pag. 65 e seg.), inventa come è suo costume - tutto un tessuto di calunnie, affermando che i volontari - fior di canaglia, dice lui - commisero rapine, saccheggi e ladrocinii dovunque passarono. Non v’è neppure bisogno di dire che queste spregevoli calunnie non sono confortate neppure dall’ombra della prova, ma importerà rammentare al lettore che esse sono anzi smentite dalle narrazioni degli altri storici - anche di sentimenti papalini - e dalle corrispondenze inviate, giorno per giorno, dalle varie città per le quali successivamente passavano i volontari, al giornali romani Contemporaneo, Pallade, Epoca, Labaro e da essi, man mano, pubblicate; corrispondenze da cui risulta evidente e lampante che la marcia dei volontari fu veramente trionfale. Ora la calunnia del D’Arlincourt ha origine dal fatto che, nella prima marcia da Roma a Monterosi, — paese dallo svergognato mentitore francese chiamato Monteroni - per la imprevidenza o dell’Intendenza militare, o dei comandanti, i quali non si fecero precedere dai forieri a preparare vettovaglie e foraggi, i volontari della prima spedizione giunsero colà a notte, stanchi ed affranti dal lungo cammino e non trovarono nulla di che ristorarsi e rifocillarsi «Affaticatisi li forieri e non forieri, il colonnello, i maggiori e tutti gli uffiziali onde provvedere del bisognevole; ma l’ora era tarda e la stanchezza ed il disagio molto, cosi che duravasi fatica a calmare il mal umore coltivato dalle grida di pochissimi, a cui patria e libertà parlavano meno forte, che appetito e lassezza. Come Dio volle acquietaronsi tutti, senza che avesse a lamentarsi un solo inconveniente». (Corrispondenza da Monterosi in data 26 marzo alla Pallade del 28 marzo, n. 203). E si noti che il corrispondente della Pallade era un uomo onorando e degno di ogni fede, e cioè il dottor Giuseppe Checchetelli, ufficiale nella legione volontaria romana e il quale, perciò, trovavasi sul posto e che era il direttore di quel giornale.
          Come si passassero le cose in quella circostanza e a che si riducessero effettivamente gli orrendi saccheggi e ladronecci di Monterosi, i lettori imparziali potranno vedere dagli otto documenti nuovi che io allego in fine di questo primo volume ai nn. 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23 e 24.
          Le concordi relazioni di uomini onorandi quali il generale Andrea Ferrari, l’intendente militare marchese F. A. Gualterio, il colonnello Del Grande e il maggiore Lombardi, scritte, lì per lì, senza che l’uno scrittore sapesse nulla di ciò che scrivesse l’altro, sono così evidenti e concludenti che, veramente, non abbisognano di lunghi e sottili commenti. I ladronecci e le rapine si riducono a lievissimi disordini, non scusabili soltanto ma legittimati ampiamente dalla mancanza di commestibili, di bevande, di ristori, e perfino dì paglia fresca e netta a cui si trovarono esposti, dopo venti miglia di marcia, — la prima marcia che i volontari facevano! — tutti quei giovani, che giungevano stanchi, affamati e assetati.
          Le pietose bugie onde la Magistratura municipale di Monterosi cerca di aggravare le piccolissime colpe dei volontari, sono solennemente smentite dal generale Ferrari, il quale informa come un battaglione di volontari, da lui fatto rientrare in paese, spegnesse l’incendio sviluppatosi casualmente nell’albergo della Posta, mentre inerti spettatori se ne stavano e Magistrati e popolazione.
          Del resto che i soldati romani fossero mal trattati lassù e che mancassero di tutto il bisognevole lo confessa implicitamente, ma chiarissimamente, la stessa Magistratura municipale di Monterosi nei due ultimi periodi della sua lettera. E si noti che le autorità municipali, intente a discolparsi per quanto potevano, non avrebbero omesso di indicare fatti di violenze, di rapine, di percosse..... se ne fossero avvenuti. Ma esse non possono denunciarne uno solo!
          Cosicché i saccheggi e i ladronecci del turpe D’Arlincourt si riducono a un incendio fortuito, spento dagli stessi volontari e a un ferito dalla parte di questi, e ferito nell’adoperarsi a salvare i cittadini di Monterosi dai danni del fuoco!.....
  9. L. C. Farini, op. cit., vol. II, lib. III, cap. III.
  10. Molti storici notano quanto e come restrittivo fosse lo Statuto papale e il Regolamento, che ne regolava l’applicazione, per quel che riguarda il diritto elettorale, destinato, per effetto dello Statuto e del Regolamento, ad essere privilegio di pochissimi cittadini. Ma, fra i molti che su ciò, giustamente, muovono lamento, mi piace accennare il dottor Luigi Carlo Farini, il quale, prima di divenire storico e uomo di Stato, quando ancora era medico primario e cittadino onorando ad Osimo, scriveva al Minghetti, in data 17 marzo, per eccitarlo a fare estendere il diritto elettorale soverchiamente ristretto. (Vedi M. Minghetti, op. cit., il quale, nell’appendice, al vol. I, pag. 899 riporta la lettera del Farini, che nello stesso senso, scriveva parimente da Osimo il 22 marzo al conte Pasolini). (Vedi le lettere del Farini pubblicate dal Borgognoni e già citate, let. XXX, pag. 88).
  11. Che l’ordine inviato dall’Aldobrandini al Durando fosse concepito nei termini di sopra riferiti, oltre all’affermazione di molti autorevoli scrittori, come il Belviglieri, il Bertolini, il Cantù il D’Azeglio, il Farini, il La Farina, il Ranalli, ecc., lo attestano, concordi due dei ministri di quel tempo, cioè il Minghetti, op. cit., vol. I, cap. V, pag. 864, e il Pasolini, op. cit., cap. VI, pag. 94).
  12. Vedi più specialmente, fra i documenti nuovi che io allego, quelli segnati coi nn. 46, 61 e 70.
  13. Vedi documenti 28, 29, 37, 38, 43, 44, 46, 53, 54, 61, 62, 63, 66, 67, 70 e 71.
  14. Vedi documenti nn. 25, 26, 27, 30, 31, 32, 33, 34, 36, 39, 40, 41, 42, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 64, 65, 68 e 69.
  15. Documento n. 47.
  16. Documento n. 52.
  17. Vedi documenti nn. 36, 40, 47, 51, 58 e 69.
  18. Vedi documento n. 29.
  19. Vedi i documenti nn. 45, 61, 62 e 70.
  20. Anche il cardinal Ciacchi per quel proclama andava in solluchero. (Vedi documento n. 48).
  21. Quel proclama, infatti, l’aveva dettato il romantico Massimo D’Azeglio, il quale lo confessa in una sua lettera al Minghetti, in data del 18 aprile 4a Bologna, in cui amaramente si lagna delle esitazioni del Ministero e del Papa e degli ostacoli frapposti al passaggio del Po e dell’incuria osservata verso l’esercito, che si fa difettare di tutto e si allieta poi, alla conclusione, di essersi rifatto di quelle opposizioni dei preti della Curia contro la guerra santa nel proclatna del 5 aprile (Vedi Minghetti, op. cit., appendice al voli, pag. 420).
  22. Intorno ai maneggi e alle pressioni adoperate dai Cardinali e dai gregoriani di Roma e dai diplomatici esteri presso Pio IX, possono vedersi quasi tutti gli storici che scrissero intorno a quegli avvenimenti e, più specialmente V. Gioberti, Rinnovamento, vol. I, cap. XIII; F. Torre, op. cit lib. I, pag. 12 e seguenti; G. La Farina, lib. III, cap. XXIII; B. Grandoni,op. cit., pag. 189 e seguenti; R. Rey, op, cit., lib. III, cap. VI; C. Rusconi, la Repubblica romana, Introduzione, pag. 10; Belviglieri, vol. III, lib. XVI, pag. 125; L. Anelli, op. cit., vol. II, capo III; {Ac}, vol. II, lib. III, cap. IV; C. Cantù, Cronistoria, vol. II, cap. XL, pag. 837, e Storia degl’Italiani, vol. XIV, cap. CXCII, e N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia, ecc, vol. V, cap. III, § 4.
  23. L. C. Farini, vol. II, lib. III, cap. III.
  24. Vedi documento n. 62.
  25. G. Spada, vol. II, cap. IX.
  26. B. Grandoni, op. cit., pag. 177.
  27. G. Spada, vol. II, cap. IX.
  28. Documento n. 72.
  29. G. Spada, vol. II, cap. IX; A. Balleydier, op. cit, cap. V, pag. 78.
  30. Rapporto del maggiore Barberi ff. di comandante del 2° battaglione civico. Vedi documento n. 72. Cf. col Contemporaneo, con la Speranza, con la Pallade, col Labaro o con l’Epoca di quei giorni.
  31. B. Grandoni, op. cit, pag. 177 e 178.
  32. Documenti 73 e 74.
  33. Labaro del 14 aprile n. 20.
  34. Il conte Cesare Balbo, per l’integrità del carattere, per le molte e belle virtù sue, per le doti dell’ingegno, per la svariata sua dottrina, per il suo grande patriottismo, fu uomo degno delle lodi dei contemporanei e dei posteri. Come storico però, egli fu sempre e così immoderatamente subiettivo, cosi sottopose l’esame di tutti gli avvenimenti storici, anche i più remoti, ai suoi preconcetti, alle sue idee, ai suoi desideri di italiano del secolo XIX che a leggere, oggi, gli scritti suoi, per esempio, il suo Sommario della Storia d’Italia, nel quale le querimonie del postero sapiente della sapienza del poi sono infinite, onde egli versa torrenti di lacrime sulle discordie dei comuni italiani, sulle guerre fratricide delle repubbliche di Genova e di Venezia e via di seguito, senza accorgersi menomamente che quelle erano necessità storiche di quell’ambiente, si è presi ad un tempo da un senso di ammirazione e di pietà; di ammirazione per quel suo profondo patriottismo, onde egli è tratto a desiderare che i fatti della storia, svoltisi necessariamente e logicamente come si svolsero e come si dovevano svolgere, avessero avuto, invece, uno sviluppo diverso e conforme alle sue aspirazioni patriottiche; di pietà nel vedere un uomo di forte ingegno e consumato negli studi pretendere di piegare le leggi storiche a cose impossibili e soltanto perctiò da lui desiderate; quasi che fosse stato possibile che l’unità d’Italia si fosse compiuta, per esempio, a metà del secolo xv, sotto la direzione di Amedeo Vili di Savoia.
          Ora il conte Cesare Balbo come fu storico subiettivo fu subiettivo ministro; e, sottoponendo la considerazione degli eventi complessivi dell’Italia nel 1848, non all’esame degl’interessi generali della nazione, ma a quello subiettivo e quasi personale della egemonia piemontese e opponendosi alla riunione della Dieta, compì, inconsapevolmente, opera che non fu, nei risultati, patriottica invero.
          E, quantunque, io mi spieghi, obiettivamente considerando le cose, quella politica del Balbo, dello Sclopis e del Pareto - che era pure del D'Azeglio, come risulta da molti suoi atti e da molte sue affermazioni, avvalorate dal documento nuovo che io pubblico sotto il n. 102 - e quantunque non, creda che, quand’anche il Ministero piemontese avesse aderito alla Dieta, questa si sarebbe riunita e avrebbe raggiunto efficaci e durevoli risultati, perchè troppe ragioni si opponevano alla sua riuscita, pur tuttavia non posso non unirmi a coloro che quella politica dal Balbo giudicano cattiva e funesta.
          Che il Balbo, poi, fosse mosso da considerazioni egemoniache piemontesi lo provino queste sue parole, contenute in una lettera indirizzata al conte di Castagneto, il 21 maggio dello stesso anno 1848, relativamente all’annessione della Lombardia al Piemonte, annessione che era stata dalle popolazioni votata colla condizione della Costituente. «Non si fa nulla di buono, né di grande - conclude, con ingenua sentenziosità, il Balbo - senza arrischiar talvolta tutto: e meglio vale arrischiarlo per unir l'italia settentrionale sotto il nostro re, che per non aver nulla». (C. Ricotti, Della vita e degli scritti del conte Cesare Balbo, Firenze, Felice Le Monnier, 1856, lib. V, cap. II, pag. 267. Cf. con V. Gioberti, Rinnovamento, ecc. vol. I, cap. I e XIII.
  35. Della mala fede e dai calcoli: malvagi e delle mal celate sue cupidlgrie di ingrandimento parlano L. C. Farini, op. cit., vol. II, lib III, cap. V; F. Ranalli, op. cit., vol. II, lib. IX, pag. 99 e seg.; L. Anelli, op. cit., vol. II, cap. III; G. La Farina, op. cit., lib. III, cap. XXIII; C. Cantù, Cronistoria, vol. II., cap. XL, pag. 885 e seg.; G. Massari, I casi di Napoli citati, pag. 49 a 61; N. Bianchi, Storia documentata, ecc., vol. V, cap. III, § 3°; Belviglieri, op. cit., vol. III, lib. XVI, pag. 147. Vedi anche la splendida lettera eccitatoria, indirizzata dal giovane Pasquale Stanislao Mancini al Re di Napoli per muoverlo alla guerra di indipendenza, in data 2 aprile 1848 nell’Archivio triennale italiano, vol. III, doc. 06, pag. 580 e seg.; N. Nisco, op. cit., vol. I, lib. I, cap. IV; P. Villari, Prefazione agli scritti di Luigi La Vista, Firenze, Le Monnier editore, 1803, pag. xxix e xxxvi; R. Bonghi, La vita e i tempi di Valentino Pasini, Firenze, G. Barbèra, editore, 1867, cap. VIII, pag. 198 e 194; John Webb Probyn, L’Italia dalla caduta di Napoleone I (1815) all’anno 1892, traduzione autorizzata di Sofia Fortini-Santarelli, Firenze, tipografia di G. Barbèra, 1892, cap. VII, pag. 189; G. Gabussi, op. cit., vol. I, cap. VIII, pag. 204 e seg.
  36. Francesco Carrano, Ricordanze storiche del Risorgimento italiano 1822-i870, Torino, F. Casanova, 1885, parte I, cap. XII; R. Rey, op. cit., lib. III, cap. V; Garnier-Pagès, op. cit, tome I, chap. II, §§ 11 e 12; Guglielmo Pepe, I casi d’Italia negli anni 1847, 48 e 49, Genova, 1851, pag. 63; G. Massari, I casi di Napoli cit., luogo cit.; N. Bianchi, Storia documentata, ecc., voi V, cap. III, § 3°; L. C. Farini, op.cit, vol.II, lib. III, cap. V; C. A. Vecchi, op. cit, vol. I, lib. V, pag. 115 e seg; Costa De Beauregard, Epilogue d’un règne, già citato, chap. VI, pag. 165 et suiv.; N. Nisco, op. cit. vol. I, lib. I, cap. V; Antonio Montanari, in alcune lettere indirizzate da Napoli e da Firenze, nel marzo e nell’aprile 1848, a Minghetti (Vedi M. Minghetti, op. cit., appendice al vol. I, pag. 409 a pag. 418); A. Oriani, op. cit, lib. V, cap. II, pag. 426.
  37. Ruggero Bonghi ha raccontato a Luigi Morandi che, allorquando egli, nell’aprile del 1848, trovavasi a Roma, segretario della deputazione napoletana, inviata da quel Governo per fermare i patti della Dieta «Pio IX lo prese a quattr’occhi e, senza accorgersi della sconvenienza che commetteva, gli fece intendere che se mai i Napoletani avessero voluto tentare qualche novità, si fossero sempre ricordati dei diritti della Santa Sede sul regno», (L. Morandi, op. cit., vol. I, pag. 218, in nota).
  38. Il Grandoni dice disgustoso l’incarico pel card. Patrizi, perchè erano note a lui, come a tutta la cittadinanza romana, le opinioni reazionarie del Cardinale stesso.
  39. B. Grandoni, op. cit., pag. 182.
  40. Pallade del 18 aprile, n. 221 e del 19 aprile, n. 222, in cui sono dedicati alla liberazione degl’Israeliti i due articoli di fondo; Contemporaneo del 20 aprile, anno II, n. 47; Epoca del 18 aprile, n. 28 e del 20 aprile, n. 30; Speranza del 20 aprile, anno II, n. 58.
  41. A dimostrare come e quanto questi sentimenti ostili agli Israeliti fossero profondi e potenti, produco un documento, al n. 75, assai importante, non tanto per le generose idee e i nobili sentimenti in esso espressi dal chiaro prof. Salvatore Betti, quanto per le riserve contenute nel rescritto di risposta, segnato a margine di quella lettera, di tutto carattere del sostituto ministro dell’interno dottor Luigi Carlo Farini. L’odio contro gl’Israeliti, non pur fra le plebi, ma anche fra il clero, era così radicato che un liberale sincero quale il Farini era costretto a dare, alla modesta e onesta richiesta dell’Università israelitica di Roma, tanto caldeggiata dal Betti, una così illiberale negativa.
  42. Documenti nn. 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, e 86. Cf. col Grandoni, op. cit, pag. 185 e 186.
  43. F. Ranalli, C. Rusconi, F. Torre. G. La Farina, V. Gioberti, P. D. Pasolini, A. Saffi, C. Cattaneo, M. Minghetti, Costa di Beauregard, E. Ruth, ecc.
  44. Pellegrino Rossi, L. C. Farini, Belviglieri, N. Bianchi, ecc., ecc.
  45. F. Ranalli, M. D'Azeglio, C. Rusconi, G. Montanelli, C. Cattaneo, G. La Farina, G. Ricciardi, L. Settembrini, G. Gabussi e parecchi altri.
  46. Vedi documento n. 67.
  47. Documenti nn. 25, 37, 38, 41, 44, 51, 53, 54, 61, 66, 67, 71, 86, 90 (una tremenda requisitoria contro tutte quelle incertezze, quelle rivalità e quel disordine del marchese F. A. Gualterio) 91, 92, 93, 94, 95, 96, 98, 99, 101, 102, 103, 104 104 e 107.
  48. Né anche gli storici papalini, che non siano mentitori per preconcetto, oggi non negano più nè l’autenticità del documento, né la veridicità della firma del cardinale Antonelli.
  49. L. C. Farini, op. cit., vol. II, lib. III, cap. V; P. D. Pasolini, op. cit, cap. VI, pag. 95 (ove è riportata una lettera scritta dal conte Giuseppe Pasolini al Farini il 25 giugno 1850). A questi due si associano il D’Azeglio, il Galletti, il Ranalli, il La Farina, il Torre, il Pinto, il Gabussi, il Rusconi, il Reuchlin, il Minghetti e molti altri.
  50. Di questo trame parlano, con asseveranza, dandone anche indizi e semi-prove, V. Gioberti, Rinnovamento citato, vol. I, cap. XIV; F. Torre, op. cit., lib. I, § 11, in cui si espongono tutti i particolari di quelle trame; E. Ruth, op. cit., vol. II, cap. VI, pag. 351 e 852; C. Rusconi, La Repubblica romana citata, Introduzione, pag. 9 a 11; Belviglieri, op. cit., vol. III, lib. XVI, pag. 125; C. Cattaneo, vol. cit. Proemio al primo volume dell’Archivio triennale italiano, pag. 282; F. Ranalli, op. cit, vol. II, lib. X, pag. 171 e 172; G. La Farina, lib. III, cap. XXIII; Garnier-Pagès, op. cit, tom. I, chap. IX, § 3° in cui mette in luce i tenebrosi raggiri dei reazionari attorno a Pio IX; C. A. Vecchi, op. cit, lib. I, pag. 18 e 19 e passim; B. Miraglia, Storia della rivoluzione romana citata, parte I, cap. III; P. D. Pasolini, op. cit., cap. VI, § 2° e 3°.
          E, dal più al meno, fan tutti cenno di quei raggiri e di quelle trame dei cardinali e degli ambasciatori, dei gesuiti e dei reazionari, oltre i suddetti, l’Anelli, l’Alison, il Bersezio, il Bertolini, il Bianchi-Giovini, il Bianchi N., il Bonola, il Carrano, il Costa di Beauregard, il Colombo, il D’Azeglio, il De Boni, il De La Forge, il Deschamps, il Delorde, il Dyer, il Farini, il Flathe, il Gabussi, il Galletti, il Gaiani, il Gavazzi, il Grandoni, il Guerzoni, il Lamartine, il Leopardi, il Mariani, il Massari, il Mazzini, il Martin, il Minghetti, il Montanelli, il Mickiowicz, il Nisco, l’Oriani, il Pallavicino-Trivulzio, il Pope, il Perrens, il Pianciani, il Pinto, il Reachlin, il Riccardi, il Ricciardi, il Saffi, il Settembrini, il Silvagrni, il Von Sybel, la White Mario, lo Zanoni, lo Zeller, lo Zobi.
          Quei raggiri negano, ovvero di essi tacciono, il Balan, il Balleydier, il Beaiimont-Vassy, il Croce, il D’Amelio, il D’Arlincourt, il De Saint-Albio, il D’Iderille, il Lubiensckl, il Rey e lo Spada.
          I giornali più diffusi, non pur di Roma ma d’Italia, furon tutti concordi, a quei dì, ad attribuire l’Allocuzione papale alla influenza dei reazionari non soltanto italiani, ma anche europei, rappresentati in Roma, perchè gli effetti di quella Allocuzione, tornando tutti a vantaggio dell’Austria e del partito reazionario e a danno dell’Italia e dei liberali, era evidente che doveva aver consigliato e sollecitata la pubblicazione di quella chi ne ritraeva utile non chi ne ritrarrebbe danno.
  51. Queste assicurazioni, cosi completamente smentite dal contenuto del. l’Allocuzione, sono concordemente affermate dal Farini, dal Pasolini, dal Minghetti, dal Galletti, che facean tutti quattro parte del Ministero; e le affermazioni di tali uomini onorandi sono avvalorate da quelle di parecchi degli storici suindicati e specialmente dal Torre, che raccoglie tutte le prove della malafede papale.
  52. P. D. Pasolini, op. cit., cap. VI, § 3, pagr. 108; F. Torre, op. cit. lib. I, pagr. 18 e 14; A. Saffi, op. cit, cap. IX, p. 245; D. Silvagni, op. cit., vol. III; cap. XIV; L. C. Farini, op. cit., lib. III, cap. V; G. La Farina, op. cit, lib. m, cap. XXIII; H. Reuchlin, op. cit., vol. II, cap. VI, pag. 191.
  53. P. D. Pasolini, F. Torre, loc. sopra cit; M. Minghetti, op. cit., vol. I, cap. V, da pag. 367 a 371; Costa de Beaubegard, Épilogue d’un Règne, chap. VII, pag. 198 et suiv.
  54. P. D. Pasolini, Costa de Beaubegabd, Minghetti, op. e luogo sopra citati.