Vai al contenuto

Il mio cuore fra i reticolati/Un uomo del passato

Da Wikisource.
../Frontespizio

../La divina realtà IncludiIntestazione 15 ottobre 2014 100% Da definire

Frontespizio La divina realtà
[p. 7 modifica]

PRIMA PARTE


UN UOMO DEL PASSATO


[p. 9 modifica] Il 24 maggio 1915, giorno in cui l'Italia dichiarò guerra all'Austria, Franco Arbace si trovava ad avere precisamente venticinque anni, un'amante ufficiale, ottantamila lire di debiti, e una grande stanchezza della vita.

Se queste quattro proprietà fossero intimamente concatenate fra di loro, così da imporre al loro possessore il seguente ragionamento: «Sono giovane, e perciò ho un'amante: ho un'amante e per conseguenza ho fatto dei debiti: non posso pagarli e l'angustia che mi deriva da questo fatto si generalizza in una stanchezza profonda della vita....» non è facile stabilire. Certo è che al momento della mobilitazione — crisi nazionale delle più formidabili — anche lo spirito di Franco Arbace si trovò in piena crisi.

Nulla è così interessante come il ricercare e analizzare le diverse ripercussioni intime che questo grandioso dramma collettivo ebbe su ogni giovane della nostra generazione, sia che abbia vestito più o meno prontamente il grigio-verde scagliandosi nella [p. 10 modifica]grande bufera, sia che non vi abbia partecipato direttamente ma di riflesso. Esso creò una infinità di drammi individuali: altri ne risolse, altri ne travolse. Ebbe una potente azione trasformatrice, non lasciò nulla intatto, non permise che uno stato d’animo o una situazione sentimentale, formatisi avanti la primavera del ’15, si mantenessero indisturbati nello spirito di coloro che venivano rapiti dalla vertiginosa velocità degli avvenimenti.

Franco Arbace, come tanti altri, si fece due domande. La prima: «Che cosa rappresenta per me la guerra?» La seconda: «Che devo io fare in presenza della guerra?»

In quei giorni di febbre, in quei giorni di risoluzioni virili, egli se le ripetè cento volte. Non riuscì a trovare subito una risposta, nè all’una nè all’altra. E alla fine decise di aspettare che le risposte maturassero da sè. Tanto, il manifesto della mobilitazione non lo riguardava ancora.

*

Maura Demauris, l’amante di Franco Arbace, era tutto ciò che restava delle sue complicate macchinazioni di giovine sensuale: troppo poco, quasi nulla, per un uomo come lui. A diciannove anni, incominciando [p. 11 modifica]la sua carriera erotica, aveva formulato un concreto programma di conquiste, che non era se non la realizzazione pratica del suo caratteristico temperamento, risoluto come un assioma. Non bello, ma simpaticamente virile, ricco di energia muscolare e di energia nervosa, che si equilibravano in lui con un’armonia non comune, elegante, intelligente, spiritoso, gaio e profondamente ottimista, egli si era giudicato subito con precisa intuizione «un maschio che aveva bisogno di molte donne per non amarne nessuna».

Esuberante e nello stesso tempo egoista, vedeva nell’«amore» una limitazione, un impoverimento del piacere (che per lui consisteva nella varietà e molteplicità), qualcosa come una legalizzazione del desiderio, un modo di arginare e stereotipare l’attività voluttuosa. Per conseguenza nell’eseguire il suo piano di vita, tutte le volte che ad uno svolto dei sensi si trovò ad inciampare nel sentimento, questo temuto nemico, seppe prontamente evitare con un abile sterzo il pericolo della sconfitta.

Si circondò di donne, di ogni tipo di ogni capigliatura e di ogni bellezza, ne tenne costantemente attorno a sè una collana brillante, i cui vuoti, dovuti sopratutto alla vigile volontà, non tardava a rimpiazzare con elementi nuovi.

[p. 12 modifica] I suoi amici lo chiamavano con una frase liturgica «il Martire delle sette Madonne.» Effettivamente qualcosa che odorava di tormento c’era in questa fuga implacabile davanti all’amore. Forse egli non fuggiva che il dolore. Era la solita vigliaccheria dei sensuali che non vogliono soffrire, quasi che la voluttà non sia la più acuta di tutte le sofferenze? o era una oscura coscienza di non sapere amare con tutta la generosità e con tutta la bellezza che occorre all’amore? Chi sa.....

Ma Arbace era punito, spietatamente punito del suo reato contro l’amore: in cinque anni, fra dozzine di amanti che gli saccheggiarono energie, intelligenza e denaro, non ne trovò una sola capace di dargli un brivido raro, una sensazione potente; capace di tracciare, sullo sfondo bianco di un letto d’amore, un gesto di bellezza esaltante, una parola di furore inebriante.

Nessuna fu artista, verso di lui. Quasi una rappresaglia del destino, egli in quei primi cinque anni non seppe che accumulare delle carezze mediocri, non conobbe che la piatta miseria di colui che possiede una moltitudine di monete di rame, pesantissime, il cui ingombro non costituisce ricchezza.

[p. 13 modifica]

*

Roma, splendida città regina dagli ardori esplodenti come un gran fiore del sud, fu la miniera alla quale egli attinse largamente, il gran Bazar dalle voluttà policrome e multiformi che si rinnova inesauribile.

Franco Arbace visse nella capitale i suoi troppi anni di studente elegante che dell'Università non conosce se non le lezioni di qualche professore alla moda, e tre o quattro di quelle studentesse che per approfondire gli studi di archeologia fanno sopralluoghi notturni al Colosseo, in compagnia di giovanotti magari futuristi.

Fra le innumerevoli avventure di quegli anni, fra gli innumerevoli profili di donne che sfilarono nel suo piccolo appartamento di Via Babuino prima, poi in quello più costoso di Via Boncompagni, qualcuna ebbe un rilievo più marcato, gli impose un ricordo di qualche settimana, lo costrinse, anche dopo la separazione, a tornare davanti a un ritratto con uno sguardo lievemente sfumato di rimpianto.

In mezzo alla folla di attrici, di dame, di mondane, di ballerine, di demi-vierges, di modelle, di manichini, i cui ritratti con dedica erano allineati per ordine cronologico e con cornici dorate o nere o castane, a [p. 14 modifica]seconda del colore dei capelli, in un salottino segreto, qualcuna spuntava con un sorriso particolare, brillava di un lampo più vivo, lo premeva con un piccolo peso di seduzione che approfondì nelle sue carni un ricordo discretamente più tenace e nostalgico.

Erano le amanti caratteristiche, quelle che possedevano una dose qualunque di personalità. Non troppe: quattro, cinque, sei: ciò che bastava a soddisfare quel bisogno di selezione che esisteva anche in lui, benchè devoto alla varietà: quattro, cinque, sei, il cui fascino riunito non riusciva a sostituire il fascino di quell'una che gli mancò per tutti quegli anni.

*

Nerina, la piccola modella dalle carni delicate come petali di rose, gli si era data in una sera di gennaio in cui era corsa da lui per confidargli che il pittore suo amante, amico intimo di Franco, l'aveva abbandonata. Dopo una lunga conversazione virgolata di lagrime, complice un temporale sopravvenuto con paraninfica opportunità, Nerina si decise a passare la notte presso di Franco, che, la notte, aveva l'abitudine di andare a letto.

E dopo quella, ne passò molte altre, con e senza temporale, ma sempre con molte lagrime e molti singhiozzi. Era la [p. 15 modifica]caratteristica di quella buona ragazza, il pianto: era la sua leva erotica.

Un giorno che egli la fece ridere di gusto con una vivace facezia, ella gli confessò che però per amare aveva bisogno di piangere: ogni volta. Ciò la metteva «in forma», le moltiplicava la sensibilità, le acuiva il desiderio. Aggiunse che quando si trovava fra le braccia di un uomo, anche il più seducente e carino, se per caso fosse stata di umore allegro, come in quel momento di pazzo ridere, non avrebbe avuto il più leggero brivido di amore. Così, in quei casi, era costretta a farsi venire in mente le scene più truci, i ricordi più angosciosi, i dolori più profondi della sua vita, e col loro aiuto, con quello sforzo di sofferenza artificiale, le lagrime sgorgavano copiose e tutte le sue fibre balzavano di straordinaria felicità!

Non era che una forma appena patologica dell’eterno connubio indissolubile del piacere col dolore; e inconsciamente Franco aveva della gratitudine per colei che il destino incaricava di portare in sè questa forma.

*

Un’altra, Edvige, aveva lo stile opposto. Donna normalissima ed equilibrata in tutte le altre funzioni dell’esistenza, veniva [p. 16 modifica]invasa da una ilarità epilettica non appena si trovava nell'intimità. Bastava il più effimero contatto di pelle, la carezza più fuggevole e distratta, per farla cadere in grandi scoppi di riso, in una lunga spasimosa serie di contrazioni nervose che dell'ilarità non avevano che l'apparenza. Effettivamente la persona della giovane in quei momenti era immersa in un abisso di sofferenza atroce, attraverso la quale la cercata voluttà si profilava con uno spaventoso ghigno di tragedia.

Ella era condannata, fra le braccia di un uomo, a ridere e ridere disperatamente, senza intervalli, con singulti frequenti che parevano la punteggiatura di quel lungo discorso, a ridere come si ride quando si è sui limiti della follia o della felicità. Lo guardava negli occhi, e rideva; premeva le sue labbra su quelle di lui con tenacia gommosa, e quando le staccava scoppiava in una lunga risata; gli diceva parole di passione, soavi, commosse, commoventi, e la frase veniva troncata da un croscio di ilarità.

Vi erano gradazioni in questa specie di musica dei nervi, così nuova e curiosa. Il suo corpo era come un sistema di tasti e di leve, che a toccarli davano suoni differenti. Quando Franco le ebbe tutte sperimentate, seppe le risonanze di tutte le corde sensibili di quella travolgente macchina umana, [p. 17 modifica]musicalissimo strumento di piacere, che dava risatine squillanti di gallinella mattiniera; scoppi di riso brevi e violenti come un fremito, che le faceva chiudere gli occhi ritmicamente; pioggerelle di risate in tono basso, a spruzzi. E da genialoide che trova il modo di sfruttare a proprio vantaggio le più strambe circostanze della vita, provava un gusto incredibile a costruire sulla persona vibrante di Edvige delle pazze sinfonie di riso, armonizzando con arte le voci dei diversi tasti d’amore: come su una tastiera.

E ci si divertivano insieme.

Ma un giorno, alla fine di un lungo amplesso che era stato una sola raffica di vibrazioni convulse, Edvige si sentì male. Schiantata dallo spasimo, s’abbattè bianca, muta, senza sguardo e senza respiro, e parve morta.

Franco ebbe una grande paura: quella di averla uccisa. E infatti la donna, quando rinvenne, traendolo a sè con dolcezza, gli mormorò senza tremare:

— Sai... tanto tempo fa... un medico mi ha detto che dovrò morire così... Mio marito, avvisato, non ha più voluto toccarmi. Per lui, potrei vivere cent’anni.

Fu il loro ultimo colloquio. Per fuggirla, per salvarla, Franco prese il treno la [p. 18 modifica]sera stessa, e rimase assente da Roma oltre due mesi.

Al suo ritorno, un amico, il primo che venne a visitarlo, gli annunciò che la signora Edvige era morta una settimana prima, improvvisamente, di un male misterioso, e che suo marito piangeva inconsolabile.

*

Donna Lauretta Moghi fu forse la più curiosa, la più caratteristica delle sue amanti. Signora di primissimo rango, moglie rispettata e madre fortunata, ricca, sana, socialmente quotatissima, Franco non seppe mai perchè tradì suo marito. Capriccio? vendetta? curiosità? vizio? Bah... Certo è che nel suo adulterio, nell'unico suo adulterio (come ella giurava) volle mettere un'ombra profondissima di mistero.

Quando si decise a cedere alla corte abile e ostinata di Franco, gli fece giurare che quello sarebbe stato l'unico loro colloquio, primo e ultimo della serie, senza mai il più piccolo addentellato, senza altro tentativo da parte di lui per ricominciare. Dopo quella sola e bizzarra ora d'amore, essi sarebbero ridivenuti degli estranei uno per l'altro, come se nulla fosse accaduto fra loro.

Di fronte a una proposta così strana, Fran[p. 19 modifica]co esitò un poco; poi, saggiamente, da buon cacciatore, giurò. E si portò a casa sua donna Lauretta. Nel lasciarsi, si dissero addio, si baciarono un'ultima volta ad occhi chiusi, un paio di lagrime sgorgarono da quelli della donna che alla fine, con un gesto risoluto e quasi disperato, se une andò... per sempre.

Senonchè tre pomeriggi dopo, mentre Franco pensava a lei, passeggiando nervosamente e fumando la pipa altrettanto nervosamente, Lauretta, la signora di primissimo rango, moglie rispettata ecc., ecc., tornò a fargli visita, e atteggiando il volto al più misterioso dei misteri, gli declamò che sarebbe stata sua ancora una volta, ma una volta sola, l'ultima, per sempre.

E Franco se la pigliò «per l'ultima volta» senza protestare, rigiurando che l'indomani sarebbero stati l'uno per l'altro due sconosciuti.

Ultimo addio, ultime lagrime, ultima e irrevocabile rinunzia.

Il terzo dei loro convegni... definitivi, ebbe luogo due giorni dopo; il quarto, il pomeriggio seguente. Poi ci fu una sosta di una settimana, causa una fortissima tonsillite sopraggiunta a donna Lauretta.

In questo intervallo silenzio assoluto. Franco che non sapeva della tonsillite, l'attese tutti i pomeriggi, passeggiando e fumando [p. 20 modifica]sempre nervosamente, ma sicuro che prima o poi sarebbe tornata.

Verso le ultime sere cominciò ad essere meno sicuro e più nervoso. Finalmente l'ottavo giorno, quando già il giovanotto non l'aspettava più e stava mettendo la mano al telefono per chiamare una Rosetta qualsiasi, la misteriosissima signora ricomparve. E la serie degli «ultimi» addii ricominciò, a sbalzi, a intervalli diversi.

Ma quello che Franco non seppe mai, e a cui non avrebbe mai creduto, è che donna Lauretta agiva in perfetta buona fede: era cioè pienamente convinta, ogni volta che andava da lui, che quella sarebbe stata proprio l'ultima. Ne era così convinta, che cercava di mettere in quelle ore di estasi una intensità, un ardore, una febbre di cui non era mai stata capace. E vi riusciva appunto perché sapeva suggestionarsi fino a credere davvero che non sarebbe più tornata a quelle carezze.

Immaginatevi un certo numero di isolotti, in un mare nel quale navigate placidamente. Essi non sono sulla vostra rotta. Approdate al primo, ritardando la vostra navigazione, scendete, indugiate a cogliere le incredibili delizie di quella terra privilegiata. Poi risalpate, pensosi per l'indugio colpevole; vi ripromettete di filar diritti fino alla meta, [p. 21 modifica]senza cedere più ad alcuna tentazione. Ma ecco un secondo isolotto, più bello, più fiorito, più ricco, del primo. C'è tutto: dalla flora primitiva o selvaggia al comfort più raffinatamente moderno. Bisogna scendere di nuovo, gustare, poi ripartire con una decisione più ferma, con una volontà inflessibile di non lasciarsi più affascinare.

E vi si para davanti il terzo isolotto.

Gli isolotti in cui sostò donna Lauretta furono, salvo errore, diciassette. L'intervallo fra l'uno e l'altro variò capricciosamente. Tanto capricciosamente, che dopo il diciassettesimo l'aristocratica signora fece passare lunghi giorni senza dar segno di vita.

E poichè Franco questa volta si era rassegnato a non aspettarla più, il pomeriggio che ella decise di approdare al diciottesimo isolotto, trovò l'ormeggio occupato da un'altra imbarcazione, e dovè tornarsene indietro silenziosamente, umiliata e convinta che la serie dei colloqui «unici» era davvero finita, e non per merito suo.

*

Ma quella che lasciò nel cuore di Franco la maggior propaggine di rimpianto fu Natalia, la bionda ricamatrice, la fedele per eccellenza, devota fino al martirio, capace di [p. 22 modifica]ogni sacrificio per eseguire la volontà di lui, suo dio e padrone. Franco la perdette per aver abusato di questo potere.

Un giorno, parlando di gelosia con un amico, egli giurò che non aveva mai provato questo sentimento, che anzi non riusciva neppure a concepirlo. Vanteria che doveva costargli cara! L'amico lo prese in parola, gli propose di metterlo alla prova: poichè Natalia era graziosissima, le avrebbe fatto la corte, avrebbe tentato di portargliela via sotto i suoi occhi.

Franco lo interruppe:

— Non vi riesciresti in cent'anni.

— Ebbene se davvero non sei geloso, devi essere tu stesso a convincerla di cedere a me..

— Ma poi?...

— Per una volta sola. Poi tornerà in tuo esclusivo possesso.

— È una cosa ardua. Conosco Natalia....

— Ebbene, rinunzia allora, e dichiarati geloso, geloso come un Otello, come tutti gli Otelli di questo mondo.

— Ma neppure per sogno. È un terreno sul quale non cedo. Non sono geloso.

— Bisogna dimostrarlo. Finora io non ho elementi per crederlo.

E Franco Arbace, uomo così pratico in tutte le cose della vita, fu tanto sciocco da cedere alla tentazione, e compì la bravata. [p. 23 modifica] Una sera Natalia entrò come al solito nello scannatoio con la solita chiave d'amore, passò con disinvoltura nell'alcova, ed ebbe un balzo dì spavento nel trovarvi l'amico di Franco, il quale le venne incontro con un bel sorriso, le prese le mani, e le disse dolcemente:

— Scusi, signorina, Franco ha dovuto recarsi a una riunione, che avrà termine dopo la mezzanotte, e ha pregato me di tenerle compagnia nell'attesa. Segga, fumiamo qualche sigaretta, facciamo del the, e chiacchieriamo un poco. Le va?

Natalia ebbe presto la rivelazione di ciò che significava per l'amico di Franco «chiacchierare un poco». Naturalmente s'impuntò, resistè con tutte le sue forze, insolentì fieramente il giovine aggressore, e proprio mentre stava per sfuggire all'imboscata con un abile sterzo verso la porta, si trovò faccia a faccia con Franco, il quale dritto sull'uscio, la osservava impassibile e sarcastico. Fu una crisi di lacrime, dopo la quale Franco le impose il dilemma: o darsi all'amico (per una volta sola) o tutto sarebbe finito tra loro. Natalia, terrorizzata, chiese tempo per riflettere, e scappò via.

La sera dopo alla stessa ora tornò, mite, spaurita come un'agnella votata al sacrificio, si lasciò abbracciare automaticamente dall' [p. 24 modifica]amante avventizio, chiuse gli occhi. Ma appena si sentì le labbra dell'intruso sulle sue gridò con tutta la sua voce di intima, disperatamente supina: Franco! Franco! aiuto!...

Franco difatti comparve, col solito sguardo freddo e tagliente, e poiché la ragazza comprese che non poteva sperar nulla da quello sguardo, lo supplicò:

— Resta qui, resta qui almeno. Ti obbedirò, ma non te ne andare.

Situazione scabrosa, imbarazzo dell'amico, istantanea discesa del barometro erotico. Alla fine, visto che non era proprio possibile compiere il mostruosissimo rito, l'amico se ne andò insoddisfatto, stringendo con tutto il suo malumore la mano di Franco Arbace e proclamandolo il più amato, ma anche il più esclusivista degli uomini.

Senonchè due ore dopo, se ne andava anche Natalia, e per non più tornare.

*

Questi gli episodi più salienti di quel primo periodo della sua vita di amatore. Tutto il resto non fu che una ripetizione piatta e sbiadita degli stessi atti, con le stesse formule e gli stessi procedimenti. In fondo a questa lunga serie di avventure, nessuna delle quali gli portò l'amore, Franco Arbace credè [p. 25 modifica]sinceramente di avere acquistato, insieme a una definitiva invulnerabilità, una profonda esperienza della vita, delle donne, e del meccanismo d'amore.

Invece era ignaro come un fanciullo.

*

Ignaro e pieno di noia.

L'anima sua era tutta uno sbadiglio.

Lo sbadiglio è un vuoto che attira qualche cosa. Fatalmente, quando uno si annoia troppo, quando si accorge che quello stato di vacuità derivante dall'assenza di avvenimenti interessanti comincia ad essere intollerabile, qualcosa di grave si va maturando, qualcosa che forse, sconvolgerà tutti i suoi piani e tutte le sue concezioni della vita.

Diffidate dei periodi di noia e d'insoddisfazione. Attraverso quel prolungato sbadiglio del vostro spirito, può entrare quanto di più pericoloso esiste per voi: anche la possibilità di un delitto.

Ho creduto qualche volta, di fronte a prove indiscutibili, che molti grandi criminali fossero uomini che si annoiavano profondamente.

La noia è una leva quasi altrettanto potente della passione. Anzi con più iniziativa da parte vostra: perchè la passione vi [p. 26 modifica]trascina quasi automaticamente; mentre siete voi, proprio voi che volete fuggire la noia, e vi slanciate a occhi chiusi verso i più gravi pericoli.

Franco Arbace era arrivato a un punto in cui si sentiva costretto a riflettere, sul suo passato e sul suo prossimo futuro: a fare il bilancio della sua azione. E poichè la sua volontà tentava di ribellarsi a quest'impulso, qualcuno nella sua coscienza parlava e rifletteva per lui. Press'a poco così:

— Franco, amico mio, tu non sei un uomo comune: eppure fin'ora la tua vita è stata mediocrissima. Che cosa hai fatto, di bello, di utile, di geniale? Nulla. Di che cosa ti sei occupato? Di donne. Che scopo hai raggiunto con esse? La felicità? non ci credi. L'amore? non lo vuoi. Il piacere? forse qualche volta. Troppo poco, per una attività di parecchi anni. E poi? Ti senti in grado di seguitare così? Vale la pena di spendere una giovinezza fiorente, un'intelligenza non banale, una energia esuberante, nel collezionare capigliature femminili, il cui profumo non resta nella tua camera che l'intervallo di attesa fra l'una e l'altra? Ti sembra che questo dilettantismo erotico, questa ricerca dell'avventura per l'avventura, possa bastare a riempire un'esistenza? Il numero: ecco ciò che hai conquistato. Quale grossolanità di [p. 27 modifica]spirito può compiacersi di allineare nel ricordo cento amanti, tutte d'una taglia spirituale, tutte egualmente lontane e indifferenti al tuo cuore? Il cuore! sei ben sicuro di possederlo? L'amore! sei ben certo di poterne fare a meno, sempre, con la stessa baldanza? O non credi di averlo evitato finora per un puro caso, solo perchè non hai incontrata colei che il tuo spirito attende, in silenzio, nel silenzio profondo sul quale galleggia l'effimera fanfara delle tue rumorose conquiste? Taci un momento, ed ascolta. Dimentica un istante il tuo programma, e fissa le acque notturne della tua coscienza: vedrai, giù, nelle immobilità del fondo, l'attesa, l'inevitabile attesa di due occhi grandi e di due labbra rosse rosse: gli occhi e le labbra del tuo amore, del tuo unico amore non nato, della tua donna che non conosci, che non vuoi cercare, che allontani da te con ondate di sarcasmo e di orgoglio. Inutilmente, sempre inutilmente! Così come per tutti.... Vedrai.

Franco avrebbe voluto prendere a pugni questo qualcuno che gli ragionava così, suo malgrado, e la cui voce non era capace di spegnere. Si ostinava a non badargli, a fargli delle smorfie, a sogghignare con cinismo: come se realmente fosse un altro individuo quello che parlava, e fingendo di non [p. 28 modifica]interessarsi alle sue conclusioni. Ma effettivamente si annoiava, e ciò lo portava dieci, venti volte al giorno faccia a faccia col suo dannato interlocutore, che gli annunziava l'amore e il crollo delle sue ostinate teorie.

Aveva congedata l'ultima amante, e adesso era solo. Arido e secco come un bosco di aceri in estate: maturo per una grande tempesta. Sarebbe stato un violentissimo incendio che avrebbe scagliato il suo pennacchio di vampe e di scintille fino alle stelle? o una lenta lunga compatta nevicata che avrebbe sepolto la sua aridità sotto una coltre di frigidissima purezza? Egli non ammetteva nè l'una nè l'altra di queste possibilità. Eccessivo nel giudicare sè e la vita, cominciava a credere sul serio di avere ormai completamente vissuto, di aver toccato il fondo di ogni esperienza, di non aver più nulla da desiderare e da conoscere. Illusione comune ai gaudenti frettolosi che hanno voluto addensare in pochi anni il loro sforzo amatorio, e che nella fretta hanno dimenticato di vedere se per caso le donne che si stesero al loro fianco possedessero una piccola cosa: un'anima....

Perciò credeva sinceramente, Franco, di essere giunto al limite della sua operosità, giacchè il numero delle amanti possedute gli [p. 29 modifica]sembrava sufficiente a concludere una carriera di amatore.

Ho conosciuto un individuo che misurava a migliaia di versi la portata della propria opera poetica, e mi diceva che si sarebbe arrestato non appena ne avesse messi insieme venticinquemila. Questa cifra fu da lui raggiunta in due o tre anni, e da quel momento egli, giudicando compiuta l'opera propria, non ha più scritto un verso, per fortuna sua e nostra.

Franco agiva press'a poco così.

La nausea, la stanchezza fisica e morale, il grigiume uniforme in cui passava le sue giornate e sopratutto le sue notti, l'assenza di ogni delirio, di ogni febbre in ciascuno dei suoi incontri, la certezza di aver visto, desiderato, toccato, baciato tutto ciò che c'era da vedere, desiderare, toccare, baciare, lo convinsero a metter fine alla serie delle sue avventure.

Non voleva più vedere donne, non voleva più occuparsi di loro.

Ma non aveva che ventiquattr'anni. Come riempire la vita, così, senza uno scopo, un'idealità, un lavoro, senza una distrazione? Come uccidere la noia? Di che occuparsi, se, pur non essendo privo di una facile genialità che gli faceva comprendere e apprendere tutto, non si era mai dedicato a nulla? [p. 30 modifica]Quale compagnia scegliere, se dappertutto avrebbe trovato donne, donne e donne? È possibile frequentare un ambiente di soli maschi? No. Allora pensò ad isolarsi.

Pensò di comprare una villa, tra grandi boschi, di occuparsi di animali e di alberi, di caccia e di agricoltura, di rifarsi un programma, di marciare verso uno scopo. Sia pure lontano dalla realtà.

Ma il suo patrimonio era già massacrato; egli non possedeva abbastanza per procurarsi ciò che gli occorreva. E seguitò a cercare la soluzione di questo problema.

*

Un giorno, in casa, frugando in certe vecchie casse di libri, ripescò le sue dispense d'Università, che già da tre anni non toccava più. Fu una rivelazione.

Bisognava rimettersi a studiare, bisognava ricominciare là dove si era interrotto, tornare a scuola, leggere, ascoltare, imparare, come un fanciullo. Avere dei compiti, avere dei doveri. Dover obbedire a qualcuno, essere spinto a viva forza verso una meta, non potersi sottrarre a ciò sotto pena di castigo... Che gioia! che delizia! Che grande scoperta!

Ma come fare questo a Roma? Rumore, movimento, folla, amici; e donne donne [p. 31 modifica]donne! Allora uscire, cercare un angolo remoto, una quieta città provinciale, dove fosse qualche antico Ateneo. Ce ne sono tante in Italia! Padova, Urbino, Pisa, Ferrara, Pavia, Modena, Siena..... Dapprincipio fu incerto: poi, ricordandosi che aveva a Ferrara una vecchia zia che gli era assai cara, si decise per Ferrara.

Gli bastarono tre giorni per essere pronto a partire. E partì all'inglese, senza dir nulla a nessuno, senza salutare nessuno, senza lasciare l'indirizzo. Ma era così felice. Immaginarsi: un segreto e uno scopo nuovo! Gli pareva di essere un uomo sistemato, perfettamente a posto.

Questo avveniva nel Novembre 1914. Franco aveva esattamente ventiquattro anni e mezzo.

*

Ferrara, vista in quegli anni, passava, non del tutto ingiustamente, per una città morta: cosa non discutibile. Ma non bisogna dimenticare che anche allora era una città di Romagna, la più antica e la più illustre fra le città di Romagna.

Certamente c'è qualche cosa che le impediva di marciare verso gli splendori ultracivili: le Torri del Castello, pesantissime, con l'acqua attorno perchè non le raggiungesse [p. 32 modifica]il progresso; le grandi strade sassose, abitate solo dall'erba, sulle quali scivolava male la macchina da corsa; la vecchia Università con le urne e i capitelli sonnolenti, dove forse da secoli lo stesso occhialuto Segretario vigilava alla custodia degli archivi e delle pratiche scolastiche; le locande goliardiche, dove di generazione in generazione si son mangiate le stesse vivande; i postriboli appollaiati su scale impossibili, in fondo a vicoli da pipistrelli... Tutto ciò — ammetto — doveva gravitare terribilmente sul cervello di questa simpatica città, che, tuttavia, è sempre riescita ad avere donne bellissime e alberghi abbastanza comodi.

Ma, ripeto, non dimentichiamo che anche prima del soffio vivificatore fascista si era in Romagna. Se le strade e i palazzi dormono, il sangue di questa gente è vulcanico, e ha la forza di esplodere con una potenza insospettabile. Agli uomini rossi corrispondono donne di tutti i colori, cioè donne il cui cuore sa tingersi di tutti i colori dell'iride.

Vi sono quindi varietà innumerevoli di tipi: è forse l'unica città di provincia dove si possono trovare, vicine, le caratteristiche opposte: la vergine pallida e sognante, e la cortigiana di grande stile, carica di tutti i fascini, di tutti i vizi, e di tutti i profumi della modernità. [p. 33 modifica]Nella stessa giornata a poche ore di distanza, Franco Arbace s’imbattè nell’uno e nell’altro di questi due tipi della flora femminile.

*

— Come sono contenta — diceva a Franco la dolce adolescente che gli sedeva accanto, nel salotto di sua zia — come sono contenta che voi abbiate le stesse mie idee sull’amore, su questo inutile tormentatore degli spiriti! Non è vero che voi sarete per me un alleato e un amico?

— Io non chiedo di meglio — rispose Franco guardando con involontaria esaltazione Glorietta Crimi — ma com’è possibile, dite, che voi, non ancora diciannovenne, conosciate già così profondamente il dolore da giungere addirittura alla rinuncia totale di ciò che può generarlo; dell’amore, soprattutto?

Le guance pallidissime di Glorietta si animarono di una rapida fiamma. Ella abbassò lo sguardo, e strapazzò un poco con le dita i merletti della veste.

— Dio mio... voi vorreste saper troppo, non è un’ora che ci conosciamo, dovrei farvi una confessione... un po’ penosa...

Franco addolcì la voce.

— Ebbene, non avete detto che io sarò il vostro migliore amico? non siete convinta [p. 34 modifica]che io posso capirvi meglio e più acutamente di qualunque altro?

— Sì, avete ragione. Voi mi sembrate molto buono, e capace di intendere i sentimenti più intimi e complicati. Ma come si fa a spiegarsi? è così difficile.....

— Lo so. Forse è bene che ci avviciniamo. Volete che vi aiuti? Ecco, vediamo: si tratta forse di qualche flirt....

— Oh non dite questo. Nel mio cuore non c'è posto per il flirt, potrebbe esserci solo per la passione. Solo che, questa ha tali elementi di volgarità e di brutalità, che, dopo un brevissimo principio, in cui pareva dovessi anch'io soccombere agli istinti e le febbri della nostra fragilità, ho saputo liberarmene con violenza, e il disgusto che quella rapida prova mi ha lasciato è tale, da togliermi per sempre la voglia di ricominciare.

— Ma scusate una domanda: forse l'uomo che avete incontrato non vi piaceva?

— Al contrario: mi piaceva moltissimo. O almeno, credevo di esserne innamorata. Certo, se egli non avesse avuto fretta a rivelare il suo intimo carattere, se non mi avesse scoperto subito la grossolanità dei rapporti che corrono fra uomo e donna, io sarei ancora una illusa e mi sarei lasciata trascinare da lui fin dove avesse voluto. Pensate: prima di conoscerlo, io ero una bambina piena d' [p. 35 modifica]ingenuità e di spensieratezza. Grassoccia e robusta, giocavo, ridevo, follemente, con tutto: con le piante e le stelle, con le farfalle e i bambini piccini. Passavo le notti, alla finestra, conversando coi firmamenti che mi ascoltavano compiacenti, e all'alba mi mettevo a letto, dormendo senza sogni, un sonno di nove ore, in un'atmosfera di spruzzi di fontane e di risatine squillanti. Questa era la mia vita. E quando l'ho conosciuto, sono andata a lui con una fiducia infantile, con uno slancio perfetto di tutta me stessa, portandogli un'anima ignara e delicata che bisognava trattare come un fiore e coltivare pazientemente, graduando la luce e il calore. E invece lui, l'uomo, simile a tutti gli uomini, mi ha portata bruscamente nel mezzo del campo luminoso, in pieno sole torrido, e mi ha offerto, semplicemente così, l'amore. È perciò che io l'ho concepito come un enorme maglio incandescente che mi precipitasse addosso, come una massa ignuda e rovente che volesse plasmare colla sua cieca forza la mia sensibilità floreale di vergine. E ho urlato: — No, no! Mai! — e sono fuggita terrorizzata. Ho sofferto, è naturale, ho sofferto molto e profondamente. E questo dolore mi ha foggiata una nuova anima, sorda ad ogni richiamo della realtà, e dalla quale non mi distaccherò mai più. [p. 36 modifica]Glorietta sospirò, e aprì sul volto di Franco due grandi occhi fondi e rassegnati, due occhi intensi e vaporosi insieme, dove lo spirito affluiva con tutti i suoi fascini più segreti.

Franco non poteva evitare un certo turbamento, che gli ridestava nell'intimo delle vibrazioni assopite, accatastate da anni senza cura, senza averle più richiamate, giù in fondo, dove si accumula la sostanza vera dell'anima, che poi risalirà al momento propizio per colorarla tutta, agitata da una scossa, premuta da una volontà di volo, da un trasalimento che fa balzare, da un richiamo dell'immensità.

Glorietta Crimi aveva quel giorno una strana e commovente bellezza.

I capelli cadenti dietro la nuca e sui lati in un fascio dolcemente stanco, il viso affilato e pallidissimo di un pallore quasi artificiale che pareva un velo deposto dal sogno, lo sguardo liricamente imbevuto di luci lontane, le spalle larghe, ma sottili, e un po' curve in un gesto di abbandono generoso che la faceva parere un po' malata, le mani di musicista, finissime e nervose. Vestiva una camicetta di velo di seta e tulle, azzurrina, assai poco scollata, che era anch'essa come una delicatissima epidermide di persona malata e sensibile. [p. 37 modifica]Glorietta respirava la grazia dei gelsomini, la fragilità dei cristalli, la inconsistenza delle nuvole, la purezza dei mattini bianchi e tremolanti. Le sue palpebre erano due petali di fiori, pallidi e sfumati in un'ombra violacea: ma sotto vi erano due occhi di mistero e di potenza.

Franco la contemplava con l'ammirazione che sanno suscitare i miracoli, le cose a cui non si crede.

Ma quel miracolo di purezza e di trasparenza, quello stelo gentilissimo in cui l'anima saliva perennemente sbocciando in sguardi e in parole siderali, aveva delle labbra rosse, carnose e un po' sporgenti. E dei piccoli denti scintillanti, compatti, meravigliosi. Franco a sua insaputa, si sorprese ad osservare attentamente quelle labbra e quei denti sanamente sensuali, mentre la fanciulla gli diceva ancora delle cose accorate.

— Bisogna superare l'amore. Bisogna rinunziare a questo sentimento che esclude la bontà e la purità. O meglio, estenderlo a tutte le creature, amarle tutte con la stessa forza e con la stessa dedizione: e allora l'amore diventa «l'Amore»: allora si possono compiere dei prodigi. Ma la passione per una sola persona, ahimè che cosa abbominevole! Non si cerca che della violenza, delle carezze bestiali, dalle quali l'anima fugge [p. 38 modifica]spaurita. Invece bisogna amare l'anima, comprenderla senza egoismo, accarezzarla, dirigerla verso mete luminose.

— Avete ragione, avete ragione. Noi siamo allo stesso punto preciso. Io vi comprendo perfettamente. Anch'io ho sempre rifiutato l'amore: e non ho avuto bisogno di farne la prova.

— Voi pure condannate questo distruttore di bellezze spirituali... Ma che cosa ha potuto convincervi a questo?

— Non so... Non so bene... non l'ho mai chiesto seriamente a me stesso... Credo però che sia la paura del dolore: non ho voluto soffrire per l'amore, non ho voluto mettermi in condizione di maledirlo. Ho preferito fuggirlo.

— Ma voi... uomo... con tanti contatti... con tante occasioni.... come avete potuto?

— Dio mio, si sa... c'è sempre un compromesso... si fugge l'amore, non si fuggono le donne... anzi la mia tattica è stata questa: barricarmi di donne per chiudere il passo all'amore.

— Ed esse non vi hanno fatto soffrire?

— No, perchè ho saputo restare sempre il più forte. Le sceglievo bene. Non mi hanno mai preso la mano.....

— Allora, solo dei contatti mediocri, delle avventure frivole.... [p. 39 modifica]— Naturalmente! È stata la mia tattica. Ed è riuscita splendidamente.

— E se aveste incontrato una donna meno volgare, un essere d'eccezione?

— Chissà... Ma forse non esiste. O se esiste, mi assomiglierebbe. E diverrebbe un'alleata, come ora voi... Credete, signorina, io non temo più nulla. Sono qui per farmi una nuova vita, per riempirla di cose luminose. Vorrei che mi aiutaste in questo. Sento in voi un'anima unica, piena di chiaroveggenza e di fascino. Dovreste aiutarmi a ritrovare la mia.

— Sì, ve lo prometto! — esclamò Glorietta con uno slancio che le mise le mani nelle mani di Franco.

— Vi prometto di condurvi alle altezze purissime dove io stessa spero di salire. Saremo grandi amici, lo sento. Noi potremo comporre un'amicizia che nessuno ha mai conosciuto, perchè nessuno ha saputo superare l'amore. Che gioia di avervi trovato! come sono contenta.

— Glorietta — chiamò sua madre — bisogna andare. Sai che alle cinque ti aspetta il professore.

— Il professore di pianoforte? — Domandò la zia di Franco.

— No, il medico. È così malata, questa bambina; è così gracile! La conduco ogni [p. 40 modifica]settimana dal Dott. Grazioli. Io non so che fare. Non mangia, non dorme. È sempre col suo violino alla gola, sempre. Ah una vera disperazione, creda!

*

Più tardi, uscendo di casa, Franco si diresse al Caffè Estense. Erano le cinque. C'era molta gente. Mentre cercava posto, si sentì chiamare, e volgendosi, vide un gruppetto di giovanotti più o meno eleganti, tra i quali riconobbe due colleghi d'Università.

— Vieni qui da noi: c'è posto.

— Permettete? Franco Arbace, laureando in lettere; Giorgio Fagioli, chauffeur... pardon! proprietario del Garage omonimo; Pietro Nava, pittore quasi futurista; Eugenio Deviti, gentiluomo, semi-milionario, esploratore di alcove proibite.

— Molto piacere! Fortunatissimo! ecc.

— Franco Arbace — continuò l'allegro goliardo — ci ha fatto il supremo onore di lasciare la capitale per portare le sue tende in questo villaggio antidiluviano....

Coro di proteste.

— Tu non conosci Ferrara! Tu non capisci la bellezza di questa città! Qui si vive meglio che a Roma! Le donne ferraresi valgono cento metropoli! Incosciente! Calunniatore! [p. 41 modifica]— A proposito di donne — fece lo studente senza scomporsi — Vogliamo invitare Arbace per questa sera?

La proposta fu approvata, sebbene con relativo entusiasmo.

— Dove volete condurmi? — chiese Franco, che cominciava ad annoiarsi.

— A teatro. Alla serata d'onore della Savelli — aggiunse ammiccando — tu probabilmente sarai troppo impegnato in camerino per onorarci della tua presenza nel nostro palco.

– E perché mai?

— Ma... dio mio... sai bene che non è un mistero per nessuno....

— Che cosa?

— Che tu sei stato, o sei tuttora, un grande amico della Savelli.

— Io? Ma tu sei pazzo.

Altro coro di proteste.

— Via! Perchè negare? Non è un disonore. La Savelli è la più bella ed elegante attrice italiana. Perchè fai la signorina pudica, dal momento che questa voce insistente ti fa una réclame tutt'altro che svantaggiosa?

— Ma perché non è vero.

— Non è vero? E allora perché ti hanno visto nel suo camerino a Napoli, a Roma, a Milano, a Bologna? perché si è letto sul «Carlino» un tuo articolo celebrativo [p. 42 modifica]sull'attrice? Perchè l'anno passato facevate i bagni insieme a Riccione? Credi che Vox populi...

— O bella! Sono tutti fatti che non dimostrano nulla. In ogni modo, se proprio ci tenete a credere questa cosa, accomodatevi.

— Sì, sì, ci teniamo. Ci teniamo per l'amore della verità, e per la stima che abbiamo di te. Dunque, se stasera hai intenzione di ammirare la tua Diana nella «Marcia Nuziale» sei avvertito che noi popoliamo il palco di prim'ordine N. 2, e che nello stesso palco ospitiamo la più bella donna di Ferrara, Maura Demauris.

— Ah davvero? Ma allora io sono di troppo.

— No, no — fece ridendo Eugenio Deviti — uno di più uno di meno.... tanto, non c'è niente da fare.

— È una signora?

— Così, così... soltanto che...

— Già piazzata?

— Ecco: precisamente. E piazzata bene.

— È presente il suo....?

— Oh no. Molto assente. Partito ieri per Londra. Appunto perciò Maura riesce a sgattaiolare in teatro con noi.

— È un caso comune.

— Sì, ma quello che non è comune...

Il gentiluomo volgendosi di un quarto di [p. 43 modifica]cerchio verso il centro della sala e abbassando la voce, riuscì ad appartarsi con Franco dalla conversazione degli amici — quello che non è comune è che questa magnifica donna, corteggiata e desiderata da tutti i giovani ferraresi, non ha finora fatto il più piccolo torto al suo protettore, al quale del resto è legata da molta riconoscenza. Era una piccola borghese, signorina uscita di collegio, ma rimasta orfana e povera troppo presto, era caduta nelle mani di un uomo disonesto, dal quale aveva avuto un figlio. Allora fu costretta a lavorare dieci ore al giorno per mantenere il bambino. Questo grosso uomo d'affari, questo Giglioli, l'ha comprata a poco a poco. Alle sue prime proposte, Maura rispose: picche. Poi si mise all'incanto. C'era un altro concorrente assai meno ricco, ma che piaceva a Laura più di Giglioli. Fu una lotta a colpi di biglietti da mille, e Giglioli vinse, naturalmente.

Attualmente Maura Demauris possiede il più bel villino, la più bella 80 HP, i più bei gioielli di Ferrara, e veste come una parigina. Lei capisce che — con tutto questo — bisogna che sia fedele al suo amico. Se egli la lasciasse, nessuno di noi potrebbe rimpiazzarlo in questa vita di fasto senza limite.

— Ed è proprio invulnerabile?

— Creda che ciascuno di noi ha provato: [p. 44 modifica]noi cinque qui presenti, uno dopo l'altro, ci siamo slanciati all'attacco, e uno dopo l'altro siamo stati graziosamente respinti.

— È un fenomeno spiegabile, più di quanto si immagina. Le donne che hanno bisogno di molto danaro, sono fedelissime a chi glielo procura, anche a costo di non avere amante.... del cuore.

Asserito questo assioma col tono di chi se ne intende profondamente, Franco Arbace si alzò per uscire.

— Verrai dunque stasera? — chiesero i due studenti, con una premura in cui forse era un segreto desiderio di associare il nuovo collega ai loro insuccessi verso Maura.

— Sì... forse... non ne sono ben certo.

— Diamine: due attrazioni così forti: Diana Savelli alla ribalta e Maura Demauris in palco!

— Per me non significano niente, nè l'una nè l'altra, ma tuttavia... è probabile che verrò.

*

Andò infatti a teatro. Un po' seccato che si potesse credere che fosse là per l'una o per l'altra delle due donne. Egli invece pensava molto a Glorietta Crimi: pensava a quell'apparizione di purità e di sogno che stava per guidarlo verso altre vie, forse verso una [p. 45 modifica]rinascita spirituale nella quale la sua vita si sarebbe illuminata e liberata da ogni pesantezza. Cominciava ad accarezzare la speranza di risolvere il vecchio e doloroso problema dell'amore con questa forma di amicizia cristallina e superiore, fatta di prodigiose ascensioni, di rinverginimento totale.

Con le mani nelle tasche dello smoking, la sigaretta tra le labbra, lo sguardo distratto, prese posto in una poltrona di terza fila. Ma subito da un palco di prim'ordine si sentì chiamare. Si aspettava quella chiamata, sebbene non la desiderasse. Alzando gli occhi lentamente verso quel palco, egli vide la meravigliosa donna che, sbocciando come una sontuosa orchidea dal velluto del parapetto, gli sorrideva con grazia contenuta. E, attorno a lei, come i tentacoli di una medusa, dieci braccia movimentate gli accennavano di salire.

Egli s'inchinò leggermente, intravide appena quelle braccia, e fissando con meraviglia gli occhi della donna, riconobbe con un brivido lo sguardo «precursore», uno di quegli sguardi lunghi e parlanti nei quali è già contenuto tutto: il bacio definitivo, la gola rovesciata, il letto nella penombra, le lacrime di voluttà.

Egli fu «succhiato» da quello sguardo, dovette avviarsi verso il palco: fece i primi [p. 46 modifica]passi con ostentata lentezza, ma appena fuori di platea, si accorse che correva.

Nel palco trovò subito la mano di Maura, che accostò con gesto deciso e dolce alle labbra.

— Mi hanno parlato molto di voi — disse Maura senza preamboli. — So già sul vostro conto quanto basta per interessare una donna. Mi si dice che siete un gran seduttore: è vero?

— (Ho capito — pensò Franco — vuol mostrare a tutti che saprà resistere anche ai veri seduttori) e rispose:

— Dio mio, non sono io il più adatto a darvi questa informazione.

— Infine — replicò la donna — potete almeno dire che avete avuto molte amanti.

— Lo ammetto....

— E per questo ci vuole dell'arte...

— Mestiere, soltanto mestiere. E un pizzico di fortuna.

— E dello charme, no? (Protesta di Franco) Sì, sì, dello charme. Credo che non vi manchi. Capisco anche che il vostro è particolarmente adatto per donne come la Savelli.

— Anche voi volete accusarmi?...

— Ma che sciocchezze! Perchè smentire ciò che tutti sanno? Vi faccio i miei complimenti invece. La vostra amante è la più bel[p. 47 modifica]la, e diverrà certo la più celebre, delle attrici italiane. Avete buon gusto e vi stimo.

— Ma insomma, si può sapere...

— Via, riconoscete che è deliziosa la Savelli. Non è vero che è deliziosa?

— Certo. Chi lo nega?

— E che ha dei capelli da regina?

— Certo.

— E degli occhi d'un azzurro così profondo?

— Ma sì.

— E una bocca voluttuosa?

— Ma sì.

— E che veste in un modo insuperabile?

— Ma sì.

— E che non avete mai visto una donna così adorabile?...

— Ma sì... cioè no, mi fate fare delle gaffes! Dacchè conosco voi...

Maura si stizzì femminilmente.

— Ecco il madrigale in ritardo! Ah dunque siete proprio innamorato della vostra Diana! Siete un pessimo soggetto, Voi! E non è vero niente che sia così bella, la vostra Diana! Ha la vita troppo lunga, ha le mani troppo grandi, ha i capelli di cento colori, ha la pelle porosa, ha un'eleganza di pessimo gusto: non è bella, non è affatto bella, sapete! Non andate orgoglioso della vostra [p. 48 modifica]conquista. Ce ne sono milioni, di donne così.

Maura era divina nella sua irritazione di donna colpita nella vanità. Le donne celebri o per la bellezza o per l'arte, sono come i poeti: provano la più grande soddisfazione nel sentir dire male di quelle altre che contendono il loro primato.

Se volete ingraziarvi una grande artista o una grande viveuse, dovete sparlare senza economia di tutte le altre del suo rango. Allora ella cercherà di attenuare sorridendo la vostra maldicenza, ma potete star sicuro che prima o poi vi getterà le braccia al collo con riconoscenza, o per lo meno vi stringerà forte forte le mani, mormorando: «Maligno, maligno! Direte così anche di me?»

La conversazione diventò vivacissima.

Franco contemplava la mondana con uno stupore crescente. Aveva creduto di dover conoscere una mediocrissima provinciale, accollata ad un uomo molto ricco ma grossolano, e invece si trovava di fronte una donna di prim'ordine, piena di spirito e di accortezza, vivace, curiosa, dall'eleganza signorile, senz'ombra di pacchianeria.

Le si riconosceva subito un temperamento bizzarro, capace della più ermetica frigidità e delle più folli esaltazioni. Ogni sua frase era un lampo di fantasia, ogni sua [p. 49 modifica]risata era una irradiazione di sensualità contagiosa.

Maura era uno stupendo blocco di voluttà: tutta la regione del collo, delle spalle, del petto e delle braccia ignude, d'un viola crepuscolo incipriato, dava una immediata sensazione di vertigine. Una bellezza a sonagli: fastosa e fragorosa. Un inno di vita, orchestrato con un gran ritmo di collane e di gioielli orientali. Quel seno largo e possente respirava le libertà sconfinate dei paesi del sole. Invece i polsi carichi d'oro pesantissimo parlavano della deliziosa schiavitù orientale di cui erano capaci quegli occhi pieni di luci aspre e di carezze morbidissime.

La volontà, la bizzaria, il capriccio, la perfidia, l'odio, la frenesia, tutto ciò che è febbrile, insolito, smodato, sfrenato, si leggevano chiaramente su quel corpo forte e armonioso di amatrice.

Franco sentì di trovarsi per la prima volta nella sua vita di fronte a un essere che forse avrebbe saputo dargli il brivido sconosciuto, l'attimo di follia travolgente, nel quale tutti i sensi urlano, come nelle stragi e nelle rivolte, i più frenetici spasimi dell'umanità.

Quando uscirono di teatro, qualche ora dopo, egli prese posto nell'automobile di Maura Demauris. E i cinque cavalieri dell' [p. 50 modifica]insuccesso, cavallerescamente fecero scorta all'automobile aggrappati tutt'intorno come in una impresa da cinematografo.

Ma giunti alla porta di casa, la mondana vi entrò sola, lasciando Franco in mezzo agli altri che strinsero calorosamente la mano a colui che giudicavano respinto al pari di loro.

Nessun uomo, credo, ha mai gustato questa gioia suprema: di essere accompagnato a casa da cinque donne innamorate, e di congedarle tutte sull'uscio del proprio appartamento, col più amabile dei sorrisi. Peccato!

*

L'indomani alle cinque Franco prese il the da Maura. Soli, in un piccolissimo salotto triangolare, dove bisognava manovrare delicatamente per non rovesciare tutto, e le cui dimensioni non permettevano neppure di contenere un divano, essi divennero uno verso l'altro aggressivi e mordaci.

Fu la lotta tra due personalità fortissime, tutte e due sature di orgoglio, desiderose di conquistarsi e di superarsi.

Franco fiutò subito una creatura «ammantata di superbia e inguainata di lussuria». Sentì scorrere sotto la seta di quelle [p. 51 modifica]magnifiche vesti, una vibratilità esplosiva e la coscienza assoluta di appartenere alla casta degli animali regali.

Si studiarono, si fiutarono a vicenda. Attraverso parole di esaltazione e di ironia esasperante, l'uno riconobbe nell'altro i segni della grande razza: si accordarono esattamente nel giudicarsi due nature superiori ed eguali. Questa certezza scese in entrambi come un fluido caldo, consolatore.

Allora la donna, obbedendo al suo dovere fondamentale, si abbandonò per prima: ebbe un irresistibile moto di supinità, che le scoperse tutta la gola. E il maschio le si gettò sopra con foga di felino e premette le labbra su quella gola, obbedendo al suo dovere fondamentale. Un bacio. Sintesi in cui c'è l'odio, la rivolta, la vendetta, la sopraffazione, il terrore, tutte le morti e le rinascite, tutte le tenebre e le luci, tutti gli abissi e tutti i vertici.

Ma le gioiose nozze dei loro sensi non dovevano aver luogo che l'indomani alla stessa ora. Per un ultimo scarto di belva ribelle, Maura volle attendere altre ventiquattr'ore prima di schiudere all'amante designato le porte della sua camera, misteriosa come un tempio. [p. 52 modifica]

*

L'indomani, nell'avviarsi alla casa di Maura, Franco si ricordò ad un tratto che proprio in quell'ora avrebbe dovuto fare la sua seconda visita a Glorietta. Si ricordò di questo, e si fermò un momento esitante.

Era precisamente davanti al Castello: Glorietta abitava in via Palestro, e per andarci bisognava volgere a destra: Maura aveva il suo villino sul viale Cavour, cioè dalla parte sinistra. A destra o a sinistra: il bivio.

Con un'ipocrita mossa con cui tendeva a giustificarsi davanti a sè stesso, finse di sentirsi trascinato dalla parte di Glorietta, e si incamminò per Corso Giovecca; poi, come per obbedire ad un ragionamento, tornò indietro e infilò risolutamente il Viale Cavour. Voleva darsi ad intendere di preferire colei che rifiutava l'amore, e invece marciava verso l'amore quasi per sfidarlo con una sicurezza che non possedeva affatto.

Per via, le immagini delle due donne gli camminarono al fianco parallele, guardandosi come due nemiche, minacciando colui che, nel mezzo, non aveva una opinione troppo decisa. Ma quale contrasto fra quelle due personalità, che erano come il simbolo di due tendenze opposte, di due concezioni diverse del mondo! [p. 53 modifica]Glorietta era pallida come una martire che stia per staccarsi dalla vita dei sensi: Maura aveva il pallore caldo, olivastro, delle meridionali appassionate.

Glorietta aveva degli occhi scavati dal pensiero e illuminati dalla bontà: negli occhi di Maura scintillavano tutte le perfidie e i contorcimenti di un essere sensualissimo.

La gola di Glorietta era sottile e lunga, e reggeva a fatica una testa espressiva e dolorosa: Maura aveva un collo solido, ben disegnato su due spalle da baccante, e calamitato.

Le vesti di Glorietta erano sete e veli vaporosi, chiare diafane: quelle di Maura, erano di crespi ricchi di charmeuse, maroquins e velluto, a colori fondi e cangianti.

Glorietta camminava con un passo un po' stanco e oscillante, come chi esca appena da una lotta sostenuta in un'atmosfera di nebbia e di paura: Maura aveva il passo ritmico e sereno delle danzatrici, e intorno a quel passo armonioso sciamavano stormi di brividi e di desideri.

Il sorriso timido, non del tutto fiorito, della vergine diceva «Rinuncia: non ti macchiare!» — quello trionfale della cortigiana gridava «Prendi tutto: non indugiare!»

L'una era la purità, inondata di dolcezza, la calma che vuol vincere la tempesta, il [p. 54 modifica]riflesso fermo e mite della perla che dal fondo oceanico illumina la superficie: l'altra era lo sfavillìo impetuoso del diamante poliedrico che vuole a balzi, ed attimi brevissimi, dominare e affascinare con cieca violenza.

Franco colse la perla, la baciò con rispetto e la chiuse in un profondo scrigno di velluto, nella cui ombra scomparve. E andò verso il diamante, con le mani tremanti di desiderio.

*

Quando usci d'all'appartamento di Maura, Franco comprese che qualche cosa di nuovo, di bello e di vitale era entrato nella sua esistenza. Egli che era stato un freddo sperimentatore di casi di realtà, ai quali non partecipava se non epidermicamente, ora si trovava ad aver fatto un tuffo in piena realtà. Un tuffo sonoro che forse schizzava più schiuma all'intorno di quanto non gli penetrasse nell'anima, ma insomma era uno slancio coraggioso verso un orizzonte nuovo, che fino allora si era ostinato a negare.

Uscendo da quella camera, egli sentiva che si era destato in lui un altro individuo: un essere capace di violenza e di soavità, che sapeva dare e prendere l'ebbrezza, non più a dosi pesate, non più come esperimento fisiologico, non più come valvola di sicurezza [p. 55 modifica]contro l'amore, ma in abbandono, in completa rinunzia di ogni controllo, con tutte le apparenze della passione.

Il corpo divino di Maura era stato per lui una rivelazione: era stata la formula concreta e assiomatica di questa nuova concezione del sesso. La raffinatezza, l'immaginazione, la potenza di quella carne di donna lo avevano ammonito che non si può vivere come egli aveva vissuto; che non si può essere avari, meschini, cinici e vili, con la propria giovinezza; che non si può fuggire la sofferenza se non a patto di non conoscere mai una vera gioia; che non si può negare l'amore, perchè l'amore è in noi, attorno a noi, nelle cose e nell'aria, dappertutto, come un gas invisibile, e quando ci sentiamo più garantiti dai suoi veleni, è allora che esso si insinua sottilmente fino alle radici della nostra vita.

C'è in noi una ricchezza di sensibilità e di sentimento, che, presto o tardi, bene o male, bisogna spendere. C'è chi la spende a piccole razioni giorno per giorno: e resta povero tutta la vita. C'è chi la spende in una stagione, tutta in un getto: e costui, se anche resterà povero, ha almeno vissuto per un giorno da milionario, e non può pentirsi. C'è chi per anni e anni non la spende affatto, e allora l'interesse capitalizzato gli moltiplica [p. 56 modifica]talmente il patrimonio, che con esso potrà vivere da gran signore per tutto il resto della vita. Fra questi ultimi era Franco.

Ora si accorgeva di possedere un immenso tesoro, che era rimasto intatto per tutti quegli anni di giovinezza, e cominciò subito a saccheggiarlo.

Si guardò indietro. Si vide un povero straccione, dall'anima vuota, dai sensi indisturbati, dal cuore meccanizzato come un sistema d'orologeria. Le sue cento avventure, le sue donne più ricordate: Lauretta, Edvige, Nerina, Natalia: miserabili surrogati della passione: gite in una vettura da piazza di una coppia che non saprà come pagare il vetturino. Ebbe pietà, ebbe orrore del suo passato. Capì di essersi profondamente sbagliato. E considerò Maura come una rivelazione.

La voluttà di quel corpo, in cui ogni nervo, ogni fibra, ogni atomo vibravano potentemente, gli parve un ammonimento solenne della realtà. La realtà gli si rivelava in tutta la sua pienezza concreta, e chiedeva di essere adorata come la sintesi di tutte le conquiste terrene. Era una vetta, un apice, uno slancio di suprema energia, un frammento di assoluto. Nella formula era racchiuso tutto un senso della vita: era il monito che bisognava cercare nella violenza e nella follia ciò che la squallida mediocrità di ogni giorno, ciò che [p. 57 modifica]la passione contenuta, lo slancio a metà, la ricerca del quieto vivere, non possono e non potranno mai dare. Che cosa? Franco credette dapprincipio di essere trascinato verso il vecchio nemico tanto temuto: verso l'amore. Ma non era, non era ancora l'amore.

*

Per un mese fu dunque la follia.

Franco non visse che di Maura. Passava le intere notti, e gran parte del giorno, in casa sua. Non ne uscivano che per recarsi insieme in qualche casa di mode o a prendere qualche fuggitivo the all'Estense. Franco non mise più piede all'Università nè a teatro. Sua zia non riusciva mai a vederlo: passava da lei per una mezz'ora, si cambiava d'abito, e scappava subito.

Era il delirio, la frenesia, l'assoluto.

Maura era veramente una donna d'eccezione. Non tanto per la sua bellezza quanto per il temperamento. Era veramente ciò che si chiama «un temperamento».

Si crede in generale che la provincia non dia e non possa dare che donne mediocri, borghesucce senza ambizioni, pseudo-intellettuali dalle mode in ritardo. È un errore. Dal fondo più abbandonato della provincia più sonnolenta escono a volte delle creature [p. 58 modifica]destinate a conquistare una Capitale, e forse una Nazione: escono, come tigri reali dal fondo di foreste inesplorate, le donne di razza scelte per la gloria, le regine designate al dominio.

A Ferrara si conosceva Maura Demauris per una bellissima mantenuta. Nessuno, compreso il suo protettore, sospettava le possibilità del suo temperamento.

Maura aveva vissuto quella parte di giovinezza fra due unici poli: il primo amore — il solito primo amore al quale si danno le mammelle della verginità, e dal quale si prendono busse, lacrime e gravidanza — e la relazione con l'industriale Giglioli, dalla quale era venuta la ricchezza, il lusso e la solitudine. Quei due anni di vita quasi coniugale, senz'altra compagnia di giorno che la cameriera, e di notte, quella di un uomo non bello e che russava, l'avevano ripiegata in sè stessa, avevano assopito il suo temperamento, avevano chiuso accuratamente le sue affilate unghie di animale predace in folti manicotti di velluto.

Aveva vissuto, la cortigiana di provincia, in quell'appartamento elegante al quale nessuno riusciva ad iniziarsi, fedelissima, mitissima e grassoccia come una ben nutrita e ben custodita sultana. Ma poichè il maggior tempo lo passava nel boudoir, a complicare [p. 59 modifica]profumi, a distillare essenze, a provare ciprie e vellutine, a foggiarsi i capelli, a brillantarsi le unghie, a bistrarsi le ciglia, ogni giorno in un modo nuovo, con sistemi nuovi che lei stessa inventava; poichè il suo sport si limitava a qualche rapida corsa in automobile, all'ora del passeggio, col suo amico; e la sua nutrizione era intensa e copiosa, basata sopratutto, su the, dolci, biscotti, miele e marmellate, — s'indovina facilmente che il sonno di quel temperamento non fosse che apparente, e che l'energia, la vitalità, la sensualità che vi si accumulavano senza tregua, dovessero prima o poi in qualche modo prorompere.

Il suo corpo non faceva che affinarsi e arricchirsi, come la sua fantasia non faceva che complicarsi: tutto questo, sotto l'apparenza della più arrendevole domesticità. La pantera pareva completamente addomesticata, ma non era.

Maura passava talvolta intere ore a sognare, distesa su un tappeto tempestato di cuscini, col suo gattone adorabile sulle cosce.

Quel grosso animale morbido, lento, elegante, silenzioso, con occhi fosforescenti, con mille agguati nei muscoli elastici, con sbadigli e stiracchiamenti che sembravano preludere a un lancio terribile, le piaceva [p. 60 modifica]perchè sentiva di assomigliargli. Ed era l'unico essere a cui voleva bene.

Maura sognava cose impossibili: amori eroici e crudeltà da imperatrice decadente. Ella non si sentiva «una borghese» e preferiva quella schiavitù non definitiva alla miseria di tutta una vita trascorsa in un onesto focolare, tra mobili demodés e fanciulli piagnucolosi. Sapeva che, un giorno o l'altro, la liberazione sarebbe venuta, e seguitava ad affilare le unghie, segretamente, nei suoi manicotti di velluto.

Quando Franco la trovò, ella era esasperata. Mai come in quel periodo aveva sentito tutta l'immensità del proprio isolamento e il peso dei suoi ori di schiava. E appena intravide in lui l'uomo, il liberatore per eccellenza, colui che avrebbe saputo sottrarla al mostro carceriere, e portarla via in un abbraccio frenetico, le sue unghie spuntarono, i suoi occhi ebbero una fosforescenza più verde, i suoi denti lampeggiarono crudeli, e la belva ebbe il lancio terribile.

Fu l'esplosione. La sua carne in agguato si spalancò come se una bufera le strappasse di dosso i veli della menzogna. I suoi capelli notturni si sciolsero e guizzarono come fasci di onde elettriche. I suoi piedi troppo riposati danzarono la danza della voluttà criminosa. Le sue mani ebbero gesti tentacolari, e la sua [p. 61 modifica]bocca non seppe dire che parole di delirio. Tutta la sua fantasia ebbe un balzo, trascinò con sè quel corpo degno di essa.

Maura si diede a quell'amore con fantasia, con volontà di assoluto. Non seppe trovare mezzi termini, sfumature, progressioni. Ella era più geniale che accorta, più complicata che artificiosa. Sapeva dare l'ebbrezza con un'intensità delirante, ma non sapeva mantenerla a lungo. Si offriva con una violenza che suscitava nell'uomo altrettanta violenza, ma dopo il primo impeto cadevano entrambi spossati ed inerti.

Questo fu il suo errore. Di non saper graduare il dono della sua bellezza, di non sapersi dare con quella sinuosa lentezza che fa sempre sembrare ardua la conquista al maschio desideroso di provarsi in imprese difficili. E sebbene nelle forme superiori, frenetiche, della voluttà, vi sia qualcosa che equivale all'amore e può surrogarlo a sufficienza, Franco si accorse ben presto che non era amore quello che provava per Maura: che anche questa era «una» delle sue avventure, la più folle e la più travolgente, ma non altro che un'avventura. Tentò allora di tornare indietro.

Era passato un mese dal primo incontro.

Un giorno che incontrò per la strada Glorietta Crimi, e vide nel suo sguardo [p. 62 modifica]accorato un rimprovero dolce e triste, quasi una espressione di pietà, egli sentì che Maura non gli bastava, perchè in quelle carezze incendiarie, in quegli spasimi che lo soverchiavano, in quelle furiose espressioni di sensualità, l'anima restava assente, ed egli non trovava che una sofferenza, uno strazio lacerante dei suoi nervi, null'altro. No, non era l'amore, non era l'amore. Era una voluttà più potente delle altre, era l'ebbrezza di un tuffo cieco in una marea voluttuosa: ma non era, non era l'amore. Per dimostrarselo, Franco si domandò se sarebbe stato capace di uccidersi per Maura. E dovette rispondersi di no. Era dunque evidente che non l'amava.

Per ciò che si ama, si deve poter morire, a un momento dato. Chi non sa concepire questa verità elementare, non ha mai amato e non è degno di amare.

Allora, inconsciamente, egli giunse ad associare nel suo sogno le immagini così diverse di Glorietta e di Maura. Le avvicinò, le pose a contatto, fece in modo che si sovrapponessero. La trasparenza della vergine davanti alla solidità carnosa della femmina ardente, non la cancellava, ma non ne veniva sopraffatta. Erano due ligure che si compenetravano completandosi. Se Maura avesse avuto la bellezza spirituale di Glorietta, egli l'avrebbe amata senza dubbio. E se Glorietta avesse [p. 63 modifica]accolto nel suo corpo la potenza sensuale di Maura, egli... No, non osava formulare questo pensiero. Non poteva credersi degno della fanciulla, che gli era apparsa in una aureola di purità immacolata e non superabile.

Glorietta era una figura astratta, lontana dalla vita dei sensi; impossibile dunque qualunque innesto in lei, qualunque fusione con elementi che l'avrebbero contaminata e umiliata. Ma certo che quella sovrapposizione persisteva: egli non sapeva abolirla, ne era come ossessionato.

Ecco che involontariamente era giunto a desiderare l'amore: cioè un modo divino, nuovo, non ancora provato, di stringere fra le braccia una donna.

Desiderava l'amore: voleva inginocchiarsi davanti a una ragione suprema della vita.

Desiderava l'amore: era impaziente di dare, di dare, di dare, e di soffrire un martirio infinito.

Chi abusa dei dolciumi, finisce per prendere il caffè senza zucchero e per divorare le mandorle salate e i capperi sott'aceto. Chi per anni ed anni si lascia cullare, carezzare, adorare, con tranquilla passività, senza il più piccolo contrattempo e la più piccola delusione, prova alla fine il bisogno di dedicare a qualcuno un po' di sofferenza, di sacrificarsi volontariamente, di rinunciare al [p. 64 modifica]proprio equilibrio per qualche attimo di divina passione. Viene il momento, per tutti, in cui ci si accorge che non è la gioia che si cerca, che non è il quieto vivere, che non è la felicità: ma la vita.

La vita con le sue alternative e le sue incoerenze; la vita bella, la vita aspra, la vita tragica, la vita peccaminosa, la vita generosa. Sentirsi vivere in modo totale: sentire che tutti gli organi e i congegni della nostra individualità sono messi in moto e funzionano: che non esiste una parte qualunque di noi che resti inerte, arrugginita, dimenticata. Se un arresto si verifica in una rotella del meccanismo, bisogna subito ricercare il guasto e ripararlo. Ma per riparare bisogna possedere i ferri del mestiere. Bisogna conoscere alla perfezione l'organismo. E chi può dire di conoscere sè stesso alla perfezione? Se ciò fosse, non vi sarebbero più scontenti, depressi, pessimisti, onanisti.

In ogni modo Franco era riuscito a scoprire il motivo della sua insoddisfazione. Franco era molto intelligente. Soltanto, egli non seppe e non volle far nulla per riparare la falla del suo individuo.

Giudicando insufficiente Maura e inaccessibile Glorietta, egli comprese che era proprio l'amore che gli mancava, l'amore completo, l'amore con occhi veggenti e con [p. 65 modifica]chiome voluttuose, l'addizione della voluttà con qualcosa di aereo e di sconfinante che non si trovava nelle grigie pupille della cortigiana.

Franco non volle cercare altrove questo «qualcosa» perchè gli parve irraggiungibile. Vi rinunziò in precedenza, come ad un'utopia, a un sogno troppo lirico, e si riadagiò pigramente nel letto di Maura, che, del resto, era ricco di seduzione e pareva bastargli.

Vi si adagiò col cuore un po' oppresso di rimpianto, di quel rimpianto dolce e buono che ogni poeta ha per i propri sogni, che egli costruisce e poi disfa con le sue stesse mani, di fronte alla realtà categorica e possente che impone di essere ragionevoli.

Prima aveva creduto di poter deridere l'amore e sottrarsi alle sue spire. Vi era riuscito, ma a patto di non vivere. Ora che, per vivere, avrebbe voluto l'amore, l'avrebbe accettato con tutte le sue insidie e i suoi pericoli, si accorgeva di non poterlo raggiungere, di non esserne degno. E si rassegnava ai baci folli dell'amatrice, al dono di una carne voluttuosa e violenta, satura di febbri e di astuzie, dalla quale avrebbe potuto ricavare tutta la gioia che gli era necessaria.

Ma per Maura era un'altra cosa. Costei non aveva prodigato la propria giovinezza in avventure forsennate, non aveva [p. 66 modifica]collezionato uomini, non aveva avuto che due amanti, uno dei quali l'aveva picchiata e l'altro russava, era quindi venuta «vergine» a questo amore nuovo; vergine di sensibilità e di cuore, e con la fantasia gonfia di desideri sterminati.

Perciò si era attaccata a Franco con una tensione immensa, e già sentiva di essere la sua schiava, di non poter più rinunziare a lui, perchè Franco era per lei tutto l'amore, tutta la forza, tutto il fascino dell'uomo: era l'uomo giunto da lontananze meravigliose a sciogliere le sue catene di prigioniera, ed ella non poteva ormai che seguirlo dovunque come l'ombra.

*

Intanto a Ferrara non si parlava che di questo. Nei caffè, nei salotti, in teatro e all'università, non si parlava che della conquista di Franco. La Guerra Europea era passata in seconda linea: l'argomento che tutti appassionava era l'avventura di Maura. Naturale! Troppo bella era costei, e troppo inutilmente desiderata!

L'avventura, resa piccante dall'assenza del Giglioli che in tutto questo faceva la brillante parte del marito ingannato, aveva un fascino a cui nessuno sapeva resistere. Mai [p. 67 modifica]caduta di donna onesta aveva suscitato un tale scoppiettio di commenti e di dispute. Maura diventò di gran moda. Ebbe un quarto d'ora di celebrità.

È da immaginarsi che questa celebrità uscisse ben presto dalle mura non più custodite della città ducale, e si spandesse lontano, lontano, addirittura fino... a Londra.

Cinque giovanotti, che avevano qualche motivo di risentimento per la coppia felice, congiurarono, complottarono, misero insieme un piano. Da questo piano, non eccessivamente geniale, venne fuori una cosa miserabile, una piccola cosa triviale e cattiva: una lettera anonima. Questa portò a Giglioli la notizia che la sua Maura, approfittando della solitudine, gli aveva messo le corna: due corna così grandi, due corna spaventose, mostruose, tali che a portarle non sarebbe bastato un cranio vasto come la cupola del Duomo.

Giglioli la sera prima aveva telegrafato a Maura:

«Ormai quasi tutto sistemato partirò settimana ventura telegraferò ancora da Parigi. Baci.»

Invece, appena ricevuta la delazione, piantò ogni cosa, fece in fretta le valigie e salpò pel continente. Partì con propositi di vendetta e di giustizia sommaria. [p. 68 modifica] Ma il suo telegramma aveva già dato l'allarme. Maura lo mostrò a Franco col pianto alla gola:

— Vedi? Vedi? Sta per tornare! Ritornerà. È la schiavitù che ricomincia, è la solitudine, la tristezza, la fine di tutto.... Oh adesso sento che non potrò, che non potrò più....

— Ma noi ci vedremo, cara, ci vedremo sempre. Tu verrai da me. Io prenderò un appartamento.

— Sì, a Ferrara... tu credi che si possa fare... e con un uomo simile! Tu non sai che carceriere sia il mio... tu non sai com'egli sappia sorvegliarmi.... Non sarà possibile. Non potremo vederci...

— E non ci potremo vedere altrove? Fuori di qui: a Bologna, a Milano...

— Tu credi che mi lasci viaggiare? Nemmeno un passo mi lascia fare da sola. Ah non c'è che una cosa, una sola cosa!

— Quale?

— Fuggire.

— E dove?

— Dove vuoi. Dovunque, ma lontano da lui. Io non posso, non posso più essere sua, capisci? Ti amo, ti amo, non conosco che te, non voglio vivere che con te. Ormai non posso appartenere che a te. Prendimi, [p. 69 modifica]portami via, mio eroe, uomo mio caro, fa di me ciò che vuoi, ma portami via, portami via...

Franco riflettè un poco. Poi rispose, preso da una concitazione violenta:

— Ebbene sì. Partiremo. Andremo a Roma. Vivremo là, nella mia casa. È ancora tutto a posto, come due mesi fa, quando l'ho lasciata. Rinunzierò all'Università, ciò non m'interessa. Tu vivrai con me......

Maura era già ai suoi piedi, gli stringeva le ginocchia.

— Grazie...

— Però, ascolta, Maura. Io non sono ricco. Ho consumato tutto quello che possedevo. Non mi resta che una piccola rendita. Come potrai tu, abituata al fasto...

Ella gli chiuse la bocca con una mano.

— Taci. Io lo detesto questo fasto, quest'oro pesante di schiavitù. Io non voglio che l'amore. Tu non dovrai darmi altro. E poi, tutto ciò che vedi qui è mio, questa villa, questi abiti, questi mobili, tutto mi appartiene, mi è stato donato da lui con atto legale. Io venderò tutto, realizzeremo molto denaro, e lo faremo durare. E poi, quando sarà finito, io lavorerò, saprò guadagnare. Tu non conosci il mio talento: so danzare e cantare. Potrei essere un numero stupendo al Varietà. [p. 70 modifica]Franco la strinse fra le braccia con passione sincera.

— Mai! mai! sarò io che lavorerò, non tu, amore.

Nel pomeriggio Maura telefonò a un agente di affari. Dopo una breve discussione, la vendita della villa, staccata dai mobili, fu definita. Essa aveva un valore di centocinquantamila lire. Lo strozzino, vista la fretta e il bisogno, fece grandi difficoltà, e l'ottenne per quarantamila. Un vero furto! Ma Maura aveva fretta, e, convinta di essere derubata, accettò. Senonchè il denaro non era pronto, non lo avrebbe riscosso che due giorni dopo. Un'agonia di due giorni! Nell'attesa, preparò i bauli, con la cameriera: vi mise dentro i suoi cento vestiti, la sua biancheria spumeggiante: trine, veli, nastri, spuma di merletti, la sua divina guardaroba davanti alla quale il grosso commerciante e il fortunato amante restavano ugualmente estatici d'ammirazione.

Di sera, un carro d'Agenzia trasportò questi bauli alla stazione, dove furono spediti per Roma.

Ma l'affarista tardava a portare il denaro. I due giorni erano passati, e la mattina del terzo egli non si era ancora visto. Maura tempestò al telefono. Ebbe una promessa vaga per il pomeriggio. [p. 71 modifica]Franco, che aveva avuto la consegna di non andare alla villa se non di notte, e di non entrare se non trovando il cancello di servizio aperto, fu stupito quella sera di trovarlo chiuso, e di non vedere per oltre due ore alcuno che venisse ad aprirlo.

La camera di Maura era illuminata, si distingueva la luce dietro le persiane e i cortinaggi. Quella luce persisteva, ma nessun rumore dall'interno, nessuno che scendesse in giardino.

Provò ad emettere un breve sibilo sottile. Niente. Allora prese una manata di sassolini, e li scagliò contro le persiane. Niente. Sfiduciato, snervato, se ne tornò a casa, verso l'una, pensando che forse Maura si era addormentata senza spegnere la luce.

Ma alle otto di mattina la cameriera di sua zia venne a svegliarlo in fretta, annunciandogli che una signora lo attendeva in anticamera.

Franco infilò rapidamente il pigiama, uscì di camera, e trovò Maura anelante, ansante, che lo prese per una mano e fece il gesto di condurlo via:

— Vieni, vieni subito, andiamo via. C'è giù la macchina, presto, non c'è tempo da perdere, scappiamo.

— Ma che cosa è successo? Non vuoi nemmeno che mi vesta? [p. 72 modifica]È arrivato, è arrivato lui, all'improvviso, ieri sera, mi ha fatta una scena terribile. Poi ti dirò, vieni, partiamo in fretta. Ci potrebbe inseguire.

Franco finì di vestirsi, pregò la cameriera di preparargli la valigia, andò a salutare sua zia, che lo abbracciò con diffidenza e mormorò in un sospiro: «Ah le donne!» e scese giù con Maura.

Costei era vestita di gabardine nocciuola, aveva un gran velo bianco attorno alla faccia.

La bellissima «Lambda» chiusa, palpitava impaziente davanti al portone. Gli amanti vi salirono, e si chiusero dentro abbassando le tendine.

Lo chauffeur virò verso porta Romana e filò a tutta velocità alla volta di Bologna. A quell'ora mattutina nessuno fece caso alla notissima e lucidissima guida-interna che lasciava dietro di sè tanta invidia e tante discussioni.

Franco, strinse fra le braccia la sua meravigliosa amante, crivellandola di baci fittissimi. Ed essa con un leggero tremito nella voce:

— Ah, siamo fuori di pericolo finalmente! sai, alle 5 gli ho fatto prendere venti gocce di morfina nel caffè... [p. 73 modifica]

*

Roma, inverno meridionale, che piacere, dopo una notte d'amore, dopo un risveglio lento e pigro nel quale i baci hanno una pacatezza tranquilla che sa di religione, scendere verso mezzogiorno giù da via Veneto, sfiorando con la pelliccia le colonne lucide dei grandi Alberghi sonnolenti, scendere a piazza Barberini con la donna che ti si stringe al braccio scaldandosi al sole come un gatto di lusso, e passare in rivista una ad una le vetrine di Via del Tritone e del Corso: mobili di Ducrot, sete di Coen, sciarpe di Agostini, argenterie di Broggi, gioielli di Suscipj, ninnoli di Cagiati...

Che delizia, Roma invernale, i the da Babington e da Latour, i concerti all'Augusteo, le prime al Costanzi, sempre con la donna e al fianco, che ti si stringe sempre di più, che viene osservata sempre di più, che tutti ti cominciano a invidiare!

Che dolcezza, ogni tanto, salire al Pincio verso il tramonto, e contemplare Roma che affonda in una coppa di rosee liquidità spumeggianti!

Le prime settimane, Maura e Franco si dedicarono appunto a «gustare» Roma. Ahimè quanta letteratura sulla Roma degli amanti! Effettivamente, come c'è una Roma [p. 74 modifica]dei preti, una degli antiquari, e una degli uomini politici (quella dei romani sembra trascurabile!) ce n'è anche una per gli amanti.1 Non sono ben distinte, queste quattro facce della nostra metropoli, ma spesso si sovrappongono o s'incrociano. Le prime due, purtroppo le più marcate, hanno avuto finora il potere di escludere altre facce che si vorrebbero vedere: per esempio, la Roma dei costruttori, produttrice, ricca ed allegra. Ma forse non tarderà ad apparire.

«Gustare Roma» è dunque una missione per certe coppie sature di letteratura moderna.

Ma con ogni probabilità esse si limiteranno a gustarne la vita attuale, in ciò che essa ha di più elettrico e fuggitivo. I tempi di Stendhal e di Goethe sono lontani, e difficilmente vedrete degli amanti di buon gusto vagare tra le rovine del Foro e incorniciare le loro taglie alla moda sotto gli Archi dei vecchi imperatori romani.

Maura e Franco vissero, per un po' di tempo soli. Vissero di carezze ardenti, di passeggiate solitarie, di colazioni in accappatoio, lei sulle ginocchia di lui, di dolci e di dolcezze, di raffinamenti progressivi, di compere [p. 75 modifica]inutili e costose. In pochi giorni l'appartamento di Via Boncompagni fu un vero bazar dei più curiosi gingilli.

Quel treno di vita — automobile, chauffeur, cameriera, cuoco e prime rappresentazioni — aveva il costo di centomila lire l'anno. Ma essi non se ne accorgevano, e seguitavano a spendere allegramente.

Dopo due mesi i quaranta biglietti di banca di Maura erano ridotti a meno della metà.

Quando Franco se ne accorse, diventò pensoso, e poi disse:

— Difatti, spendiamo troppo. È stupido divorare il denaro così, senza far nulla.

Maura non rispose, ma si rannuvolò. Ebbe un piccolo flusso di malumore che la fece restar seria e muta tutta la giornata.

*

Non ci volle molto tempo perchè Franco si accorgesse che quella fiammata di passione per Maura si andava a poco a poco spegnendo nella sazietà.

Quando due amanti passano tutte le ore, tutti i minuti del giorno e della notte, insieme, quando ad un amore ci si dedica in modo totale, senz'avere altri motivi di vita in comune che la gioia del contatto reciproco, la sensazione della vicinanza, la simpatia [p. 76 modifica]della pelle, avviene che presto questa sensazione si atrofizza, questa gioia si spegne, e si finisce per meravigliarsi di vivere accanto ad un essere che, in fondo, ci è completamente estraneo, che non ha nulla in comune con noi, tranne..... la simpatia della pelle.

Franco capì che Maura non rappresentava per lui nulla di «diverso» dalle altre sue amanti. Era la stessa qualità d'incontro, con più violenza e più decisione. Un paesaggio in tutto simile agli altri per le linee e la prospettiva: diverso solo per l'intensità dei colori.

Dapprincipio si era un poco illuso. Aveva creduto di poter veramente coltivare una vibrazione superiore, attraverso lo spirito di Maura. Ma aveva finito per disingannarsi. Maura non poteva dargli che dei potenti brividi di sensualità: null'altro. E la sensualità può domare ed avvincere un individuo che la cerchi, o che l'abbia poco conosciuta, o che non sia troppo preparato a subirla, ma difficilmente riesce a ghermire un uomo vissuto, un uomo che, almeno rispetto ad essa, non ha più ingenuità.

La potenza erotica di Maura, che le veniva dal suo temperamento fantastico, e dalla lunga solitudine, avrebbe certamente affascinato e legato per la vita un giovane ancora allo stato della sorpresa, un debuttante, [p. 77 modifica]un meditativo, un misantropo, o almeno un uomo che non avesse avuto che contatti di prostitute.

L'eccesso della sensazione carnale può a volte assumere l'aspetto di un sentimento. Gettate qualche velo attorno a un corpo che vibri come vibrava il corpo di Maura, e l'ingenuo studente avrà subito costruito la sua grande passione, «purissima e romanticissima.»

Ma per Franco non esistevano veli. Egli vedeva attraverso. Aveva l'occhio esercitato. Tanto esercitato che capì prestissimo quello che Maura avrebbe potuto diventare per lui.

Avrebbe potuto diventare la forza dell'abitudine, la vischiosità di un'adesione epidermica odiosa all'anima e tollerata dal cuore, il peso di una convivenza che assume dei diritti e impone dei sacrifici, la fonte di tutte le debolezze e di tutte le vigliaccherie, la rinunzia ad ogni volontà, l'inerzia stagnante dalla quale non ci si solleva mai più, se non si ha fibra di eroi. Maura era dunque l'amante classica: femminilmente deprimente o schiacciante, con in più la sua violenta passione insaziata, la sua ossessione di donna che costruisce un amore come si costruirebbe un monumento, e non può rassegnarsi mai a vederlo cadere.

Franco vide a tempo il pericolo. Fece una [p. 78 modifica]breve domanda a sè stesso, e la risposta fu, che ad allontanarlo, in quel momento i suoi nervi avrebbero sofferto un poco, ma un poco soltanto.

Ed era necessario allontanare il pericolo prima che fosse divenuto veramente serio. Finora non lo era. Maura gli dava il delizioso orgoglio di farsi ammirare al braccio di una bella ed elegante donnina, di condursela nei ritrovi e in vettura, tra la folla. Questo piacere vanitoso, non ha niente di comune con l'affetto: è la più egoistica forma d'attaccamento fra un sesso e l'altro, e può fare a meno della gelosia.

Finora Franco non era dunque in pericolo. Ma poteva darsi che questo pericolo si affacciasse col tempo, se l'abitudine avesse ribadito i vincoli che stavano per stringere i due giovani. Era dunque necessario sottrarsi a questa possibilità, liberarsi di Maura, isolare il suo fascino pericoloso.

Ma non era Maura una donna da liquidarsi con una scena brusca o con un pacchetto di biglietti di banca. La belva annidata in lei, e che le carezze dell'amante avevano apparentemente addomesticata, era pronta a sfoderare i suoi artigli.

Maura pareva invasata di Franco: il suo capriccio impetuoso aveva tutta l'apparenza di un sentimento tenace appassionato. [p. 79 modifica]Franco capì che bisognava agire con prudenza e pazienza.

Si mise subito all'opera.

*

Una sera al teatro Valle, sentirono picchiare alla porticina del palco.

— Avanti.

Un giovanotto elegantissimo entrò, s'inchinò, strinse la mano di Franco.

— Oh guarda chi si vede! Maura, ti presento l'amico Mario Bonaldi, direttore artistico della Roma Film, un mio vecchio compagno di... battaglie.

Il vecchio compagno, che aveva ventisette anni, e il monocolo aderente all'occhio sinistro, prese posto fra i due, e vi rimase fino al termine del secondo atto. In tutto questo tempo fu amabile, carino, sobriamente spiritoso. Nell'andarsene promise una visita a casa loro per il giorno dopo.

Appena rimasti soli, Franco mostrò una certa contrarietà.

— È un tipo abbastanza noioso. Petulante fino alla disperazione. Non si fa vedere per dei mesi: appena ti vede accanto a una donna, non ti si leva più dai piedi.

Maura, per istinto, contradisse. [p. 80 modifica]— Io lo trovo simpatico. Dopo tutto, viviamo così soli!....

Il giorno dopo Bonaldi venne puntualmente a casa loro. Fu ancora gentile, spiritoso, colorito: raccontò un'infinità di aneddoti cinematografici che incuriosirono e divertirono Maura.

Tre o quattro visite si succedettero a breve distanza. In una settimana Bonaldi era divenuto intimo, aveva assunto tutta l'apparenza del «migliore amico» di casa.

Intanto il denaro continuava a calare. Si videro costretti a licenziare lo chauffeur e a tenere la macchina nel garage.

— Perchè non ve ne disfate? Per quello che la adoperate, non vale la pena di tenere una così bella vettura.

E due giorni dopo propose di farla acquistare dalla Roma Film.

Maura, visto che Franco non era scontento, accettò le diecimila lire che Mario le portò, e ringrazio il buon amico che le aveva fatto concludere «un affare».

Quella vettura tornò spesso alla loro porta. Mario se ne serviva per venire a prendere i due amanti, la sera, e condurli fuori. Essi si lasciarono guidare in tutto da lui a occhi chiusi, come due bimbi docili. Franco non si era mai mostrato così innamorato: pareva perduto nel profumo della pelle bruna [p. 81 modifica]di Maura, nella marea della sua capigliatura lussureggiante.

Un giorno Mario gli disse, davanti alla donna:

— Le cose più evidenti non le vediamo mai subito. Sai che donna Maura sarebbe un'attrice di prim'ordine sulla scena muta?

Franco parve prendere in ischerzo l'osservazione.

— Beh, cosa c'è? Vorresti portarmela via?

– Oh no, no. Osservo solo che potrebbe diventare una diva di primissimo ordine. Peccato che vi amiate, ragazzi miei!....

Gli occhi di Maura luccicarono.

— Credete che riescirei?

— Ma certo. Quando si ha una testina come la vostra, una sagoma come la vostra, e una così naturale eleganza e libertà di movimenti, non si può temere il controllo con nessuna Bertini e nessuna Hesperia di questo mondo... pellicolaio.

Franco si fece serio.

— Ti prego di abbandonare questo argomento, Mario. Non mi piace. Sai bene che non potrei sopportare che Maura cadesse tra le vostre grinfie.

– Eh già, sei geloso, vecchio mio. E allora non parliamone più.

Invece se ne riparlò — ogni giorno e con insistenza. [p. 82 modifica]Mario cominciò a prendere delle fotografie alla ferrarese, in tulle le pose e in tutti gli abbigliamenti: Maura ci si divertiva enormemente, a farsi fotografare.

Un pomeriggio mentre si stava preparando, in attesa del «migliore amico» di casa, Franco le si presentò con un telegramma di sua zia.

— Vado a Ferrara. Mia zia sta male. Potrebbe morire, e non ha altri eredi. Mi chiama, vedi?

— Vengo anch’io!

— Ma no, sei pazza?

— Sì, sì, vengo anch’io. Mi annoio qui sola.

— Nemmeno per idea. Mario ti farà buona compagnia. Non posso condurti con me, dal momento che starò sempre da mia zia; e poi.... a Ferrara.... non devi farti vedere, per ora.

Maura fece il broncio, pianse un poco, diventò pallida e triste.

— Perchè fai così, cara? — le chiese Franco con tenerezza.

— Non so, vedi, è una cosa strana. Forse perchè è la prima volta che mi lasci. Sono così attaccata alla tua persona, al tuo sguardo, alle tue labbra, che mi sembra impossibile, di dovermene separare. Ma no, hai [p. 83 modifica]ragione, va, sono una pazza: ti attenderò. Quando ritorni?

— Oh spero fra tre o quattro giorni. Se davvero sta male, è probabile che muoia subito. Se invece vedo che guarisce, riprendo subito il treno.

Mario li accompagnò alla stazione con l'automobile.

Davanti a Valiani si separarono. Maura non scese di vettura, perchè volle piangere liberamente.

Dopo le lagrime della voluttà, erano quelle le prime lagrime di dolore che versava per Franco.

Mario la riaccompagnò a casa, e per non lasciarla sola pranzò da lei e si trattenne lassù tutta la sera, fino a ora tarda.

*

Per tre giorni Franco non diede segno di vita: nè una lettera nè un telegramma: nulla. Maura era furibonda: il terzo giorno venne Mario a visitarla, e si stupì che Franco non fosse ancora tornato. Poi trovò modo di persuaderla che Franco «doveva fare così e non poteva fare altrimenti».

Per distrarla, le propose di condurla al teatro di posa della Roma Film. È sempre una cosa interessante, un teatro di posa. Vi [p. 84 modifica]si vedono tutti i retroscena, i trucchi, le trovate, i giuochi di piani e i tessuti di luce con cui si costruisce una pellicola.

Maura ci si divertì infinitamente. Conobbe attori ed attrici, ammirò e fu ammirata.

Mario la presentò come una gran signora di Torino. Assistè con un interesse enorme a due quadri d'interno, diretti da Mario, che vestito in tunica di studio, una sigaretta spenta tra le labbra, il ciuffo in disordine e il monocolo esattamente a posto, si divertiva a gridare come un generale in piazza d'armi, strapazzando attori, operatori e meccanici, arbitro della situazione, padreterno di quel pittoresco mondo di eleganza apparente e di immoralità evidente.

Infine Mario la presentò al marchese Del Grippo, consigliere delegato e direttore amministrativo della Società. Anche da lui Maura ebbe un'infinità di complimenti, lodi alla sua eleganza «di gran dama»; nel lasciarla, questa specie di gentiluomo affarista le disse:

— Ricordatevi che la Roma Film sarebbe orgogliosa di avervi come prima attrice. Quando vorrete, ci sarà sempre un bel contratto per voi.

Maura se ne andò un po' turbata e inebriata.

Quel mondo mezzo artistico e mezzo mondano, con delle mescolanza di geniale e di [p. 85 modifica]grottesco, quel palcoscenico da cui ci si affaccia contemporaneamente sulle folle delle città più lontane, e dal quale una bella donna suscita un genere di curiosità molto simile a quella suscitata dai pesci di un acquario, una specie di gloria effimera in cui l'arte entra forse per un quinto, l'affascinava potentemente.

Durante il tragitto ebbe gli occhi fissi sul ricordo di ciò che aveva veduto, e per un momento le parve che non esistesse altro che quel sogno di celebrità.

Ma, rientrata nel suo appartamento, udito dalla cameriera che la posta non aveva recato nulla, il suo corruccio tornò ad opprimerla. Il pensiero dell'amante lontano che non le mandava nè pure una parola d'affetto, esasperava il suo orgoglio e colpiva crudelmente la sua tenerezza.

Sentì il bisogno di entrare nello studio di Franco, per venire a contatto con qualcosa di suo. Sulla scrivania c'erano molte carte ammucchiate in disordine, lasciate così nella fretta della partenza. Cosa insolita, perché Franco era ordinatissimo.

Si avvicinò, incominciò a farle passare, ad ordinarle. Dal mucchio spuntò una busta grande, color grigio-ferro, su cui il nome di Franco era scritto a grandi caratteri eleganti. [p. 86 modifica]Quella busta strana, aperta, con un margine di lettera sporgente, la mise in curiosità.

Guardò il timbro postale: Ferrara. Chi gli scriveva da Ferrara? Esclusa sua zia, di cui conosceva la scrittura, egli non aveva mantenuto corrispondenza con nessuno, neppure con i colleghi di Università. Dunque?

La busta era lacerata, un margine di lettera sporgeva: la tentazione era troppo forte. Tirò fuori il foglietto e lesse:


        Amico,

Sì, credo anch'io che possiamo rivederci senza alcun'ombra. Il vostro torto vi fu perdonato. Venite. Sono tanto sola quassù, e non vedo il sole da un mese: ci pensate? Questa città è grigia come un gatto e dispettosa come una scimmia. Portatemi voi un po' di sole romano. Vi attendo.

Glorietta.        


E attaccato sull'altra pagina del foglio, un ritaglio di giornale locale con questo annuncio:

«Domenica prossima alle 21 precise, nella Sala Ariosto, gentilmente concessa, la Società Filarmonica darà un concerto per beneficenza. Il numero di grande attrazione sarà costituito dalla violinista signorina [p. 87 modifica]Glorietta Crimi, che suonerà l'Autunno di Tchaikowsky, e altri pezzi di grande stile...».

*

Ah, perchè mai era andato a Ferrara! La vita ha delle sorprese così crudeli per i visionari! Ecco che vicino ad una realtà poderosa com'era la femminilità di Maura, egli, l'assurdo uomo incapace di vedere con chiarezza il proprio destino, sognava irrealtà disperate, tanto più fascinose perchè gli parevano irraggiungibili, sognava purezze e trasparenze d'anima dalle quali il passato e il presente lo avevano escluso e che egli credeva negate alla sua impurità, voleva conoscere quei mondi intravisti di ebbrezze spirituali, quegli sconfinamenti nel divino, quelle evasioni sovrumane che aveva sorpreso un giorno negli occhi di Gloria, e che ora lo tormentavano con una nostalgia implacabile.

Sognava di uscire dalla sua prigione di piccole ricerche e di pesanti godimenti, di affannose ingombranti sensazioni che lo riempivano di un'amarezza senza nome.

Sentiva tutta la propria miseria di uomo chiuso, incarcerato nelle morbidezze narcotizzanti di un abbraccio che toglie ogni forza per ascendere. Ogni volta che la sua maschera affondava tra i seni troppo voluttuosi di [p. 88 modifica]Maura, egli aveva una disperata voglia di piangere, e sentiva con un terribile smarrimento in quella sensazione abissale, perdersi e dissolversi tutte le luci azzurre e i fascini siderali che gli sorridevano a volte con tanta speranza.

Maura era uno spegnitoio mortale, un guanciale di dimenticanza, un tristissimo e soavissimo silenziatore dell'anima. Tutto ciò esasperava l'orgoglio di Franco, che vedeva le sue possibilità circoscritte sempre più ferreamente.

Un uomo è sereno, è generoso quando sente di poter raggiungere con la propria mano qualunque fiore della vita, lontano e prezioso. Ma egli diventa crudele come un cattivo ragazzo quando teme che qualcosa gli sfugga 0 possa essergli negato.

Franco giurava che non aveva mai conosciuto una gioia vera, completa, profonda e che non l'avrebbe mai conosciuta, se non avesse potuto avvicinarsi a Gloria, vivere della sua occulta essenza spirituale, confondere la sua anima con quella della dolce adolescente che aveva il pallore divino di un'alba paradisiaca.

Le aveva dunque scritto una lettera mortalmente disperata, nella quale si giudicava un uomo legato a un destino atroce di febbre carnale e di arido cerebralismo. Le chiedeva [p. 89 modifica]umilmente perdono del modo come aveva rinunziato alla vera felicità per inseguire una vertigine malsana. E, se questo perdono non fosse stato un sogno troppo assurdo, le chiedeva il permesso di farle una visita per abbeverarsi ai suoi occhi astrali, per conoscere in un colloquio di anime i segreti misteriosi di una vita a cui voleva accostarsi.

E Glorietta gli aveva permesso di andare. Ed era partito con un trasalimento tremolante del suo essere che si sfaldava e si alleggeriva per salire in una zona diversa, dove avrebbe finalmente conosciuto la vera, la grande felicità di non essere più solo.

Era andato con una preparazione di leggerezze vaporose, nelle quali si sentiva fluttuare come in un gran palpito di veli bianchi ed azzurri, e si avvicinava a quell'incontro come ad un calice, con una religione fatta di sospiri e di brividi trascoloranti.

Ma non appena si era trovato davanti a Glorietta, la sua gioia aerea, la sua dolcezza impalpabile era stata scossa come da una ventata nuova.

Rivedendo la sottile figura della violinista, dai capelli gonfi attorno alla testa come una aureola palpitante, egli rabbrividì come al contatto invisibile di un'ala divina, e intese tutta la sua anima fremere terribilmente in un ansare misterioso di tutte le sue forze [p. 90 modifica]contratte, violate, immiserite nel tentativo di realizzazione.

Ma perchè Glorietta era così deliziosamente femminile? Chi aveva deposto del velluto attorno ai suoi occhi profondi? Chi aveva dato tanta elasticità sinuosa alla sua snella figura di giovinetta? Il passo con cui gli venne incontro, quel silenzioso passo soffocato dai tappeti, fu per lui una canzone d'amore: palpitò di tutte le grazie più fresche della giovinezza.

E le parole di sogno e di trasparenza ch'egli avrebbe voluto dirle, ebbero come un rigurgito a rovescio, si ritrassero e si spensero senza poter più emergere sui flutti densi che turbavano la sua anima.

Sentì che ancora una volta era un'immagine di vita e non di sogno, clic gli veniva incontro. Era forse l'amore che gli balzava davanti con i suoi fascini finora ignoti, con la sua maestosa magia, che ha il potere di far tremare e inchinare i più forti, gli eroi e gli apostoli. Era forse l'amore, che gli sorrideva con quei piccoli denti bianchissimi come una scala di crepitanti faville; era forse l'amore che gli offriva il dono di quelle labbra rosse e violente come una ferita urlante in una carne spenta.

Franco sentì che certamente la felicità era lì: era sul volto di quella bambina divina, [p. 91 modifica]era in quel breve cerchio di ardore su quella maschera dolorosa di donna che ha tutto visto senza aver vissuto.

Egli le si inginocchiò davanti, le prese un lembo della veste, e lo baciò devotamente, balbettando:

— Perdono! Perdono! non sono degno di voi.

Glorietta ebbe un molo di tenerezza che si diffuse in un gesto largo di bontà serena sul capo del genuflesso:

— Amico mio! — mormorò e lo sollevò fino a lei.

— Grazie! — disse Franco. — Credevo che non poteste più stimarmi. Quello che ho fatto è talmente colpevole...

— Vi prego, non parliamone più. D'altra parte io non ho alcun diritto di giudicarvi.

— No, voi dovete giudicarmi e condannarmi. Io non conosco altri giudici che voi. Da voi voglio una parola di esaltazione o di castigo, qualcosa che mi faccia soffrire atrocemente o sperare divinamente.

— Sperare? E che cosa?...

— Oh, Glorietta, io non so bene quello che spero. Ma ora, vedendovi, sentendovi parlare, io ho come l'illuminazione di tutta la mia vita, io ho la certezza che dovrò vivere solo per voi, solo con voi, e che i nostri destini sono legati e paralleli. Glorietta, io ho [p. 92 modifica]un'improvvisa rivelazione della mia coscienza: sento che, se un giorno la parola «amore» dovrà essere pronunciata da me, è per voi che io la dirò la prima volta.

Ed ella, con un dondolio lento del capo, mentre lo fissava con tristezza:

— Ahimè, non dite queste cose. Non dite nulla che possa nuovamente staccarci. Voi sapete che è impossibile.

— Impossibile? Ma perchè? Che farò io se dovrò credere a questa impossibilità?

— Amico, amico mio, fermatevi, ve ne supplico. Voi precipitate verso un luogo dove io non potrò mai seguirvi...

— Ma allora, allora...

— Ecco, già voi soffrite. No, non voglio questo: sarebbe orribile. Fermatevi, siete ancora a tempo, vi supplico, fermatevi. Per questo siete venuto? per dirmi delle cose che vi fanno soffrire e delle quali io non posso consolarvi?

— Ma che posso fare io, che posso fare, se già sento di amarvi, se già sento che le nostre vite devono legarsi perchè voi siete l'unica donna...

— Zitto! Zitto! Non dite più! Voi volete che io fugga? Io non posso ascoltarvi, non posso udire nulla che tenti parlare al mio cuore. Il mio cuore è morto, per sempre. Io non posso più chiedere nè dare l'amore. Tutti i [p. 93 modifica]crepuscoli sono scesi su me, e ho dimenticato il mattino. Da moltissimo tempo io ho la sensazione netta e precisa di non vivere, di essere un'astrazione del corpo, mi pare che qualcosa si dilati in me ogni giorno, qualcosa che non so definire ma che assorbe tutti gli istinti e gl'impulsi umani, qualcosa di morbidissimo, lento, triste e divino. Tutti i giochi dei sensi si sono spenti in me. I ricordi più brucianti si sono fusi in una atmosfera di dolcezza greve. Il mondo che mi circonda è puro e fraterno. Non subisco nessun fascino di violenze che non siano spirituali. La mia anima musicale si è così profondata nella carne, che l'ha conquistata, facendola evaporare dolcemente. Io non appartengo neppure a me stessa, come volete che possa appartenere a qualcuno? Non pensate, non pensate a me, amico mio: io non sono una donna, io non sono che una fluidità incorporea sospesa tra cielo e terra, e che un giorno o l'altro scomparirà senza lasciar traccia. E se questo vi fa soffrire troppo, ebbene, fuggite, lasciatemi ancora, dimenticatemi.

Franco si era seduto accanto a lei, sul divano, e con la faccia nella conca delle mani, l'ascoltava piangendo.

Ella tacque. Egli non disse nulla, e pianse con più disperata energia. [p. 94 modifica]Ella sentì quel pianto, e gli posò una mano sui capelli.

— Povero, povero amico mio, io sento la vostra sofferenza, e sento che essa ha un'origine molto complicata che forse mi sfugge. Ma questo pianto è buono, è consolatore. Esso vi riconcilierà con voi stesso. Dopo, ripensando alle cose che vi ho detto, sentirete che non sono stata cattiva con voi, e che forse è possibile ugualmente la divina amicizia che abbiamo sognata; io vedo una gran luce sulle nostre fronti, noi potremo marciare insieme nella vita, se lo vorrete...

Egli le prese una mano, e con un tremito violento le chiese:

— Insieme? e come?

— Non so, non so bene. Ma voi sapete che la musica è la mia grande forza, è il mio solo amore: che io vivo di essa, e che solo la morte mi toglierà al suo fascino sovrumano.

Ora mi si dice che io potrei portare la mia musica, il mio violino, davanti alle folle di ogni paese che adorano questa ebbrezza. Ho in me un grande sogno di gloria, senza nulla di vanitoso: il sogno di inebriare le folle. Ma questo porta con sè una lotta. E io sono troppo debole per lottare da sola! sono troppo scettica per animare da sola questo sogno! E non posso, non posso rinunziare a ciò che vedo ancora confusamente, ma che [p. 95 modifica]può profilarsi orgoglioso sul cielo sconfinato delle grandi conquiste. Non posso rassegnarmi a restare una piccola creatura come tutte le altre, schiava delle volgarità abituali di una vita gretta e banale, che la ricchezza non riesce ad affinare e a trasfigurare. Ora chi potrebbe darmi questa forza, quest'aiuto, questa volontà di vincere, se non voi?

Franco le bevve tutto il viso con una immensa avidità di sguardo.

— Ma allora, amore mio, voi mi considerate necessario alla vostra vita, e avete fiducia in me?

— Certo. Io non so bene perchè, ma non posso pensare alla vita, alla mia vita inconsistente di fantasia, senza vedermi vicina a voi. Vi giudico forte e sensibile, credo nella vostra anima capace di tutte le squisitezze e di tutte le energie. E mi appoggio a voi come ad un tronco solido di grande albero fiorito. Non vi piace così?

La voce di Glorietta aveva diffuso in queste parole una tale grazia bambina, un tale incanto di inconsapevole civetteria, che Franco ne fu inebriato come di una parola di vero amore.

— Sì, sì. Anima mia. Appoggiatevi a me, siate la mia edera. Io non potrò vivere che per questo.

Poi si alzò nervosamente, si allontanò di [p. 96 modifica]qualche passo, e disse con un tono di allucinato:

— Dunque noi ci sposeremo.....

Glorietta lo guardò impaurita. Lo guardò più volte senza rispondere, infine abbassò gli occhi sulle proprie ginocchia, e li tenne così lungamente, senza tristezza.

Franco si fece orribilmente pallido. Ma poi ebbe un richiamo del suo istinto di maschio, le sedette accanto, le prese una mano, le strinse il polso gracilissimo in cui si sentiva un piccolo battito lontano, e insinuò:

— È vero che ci sposeremo? è vero che sarete la mia adorata compagna, la mia sposa dolcissima?

Ed ella — ferma come una statuetta d'avorio — sottovoce:

— No. Mai.

*

Franco era già da quattro giorni a Ferrara. La mattina del quinto, dopo una notte tormentata, si svegliò alle dieci.

Il cielo invernale sfaldava dei lunghi sbadigli grigi nella sua camera d'albergo. Si alzò lentamente, si abbigliò senza fretta, poi scese nella hall. Là rimase a passeggiare un quarto d'ora, riflettendo indecisissimo. Finalmente si avvicinò al «bureau» e chiese il conto. La signora si stupì. [p. 97 modifica]– Come! parte già, signor Arbace?

— Sì.

— Ma stasera c'è il concerto alla Sala Ariosto. Non le interessa?

— Sì, ma non posso fermarmi. Sono atteso a Roma.

– Quand'è così...

A mezzogiorno, col direttissimo, filava alla volta di Roma, tremando come un febbricitante e inghiottendo con rabbia i singhiozzi che volevano forzargli la gola.

Ah perché mai era andato a Ferrara!

*

Giunse a Roma alle otto di sera.

Maura non era in casa.

La cameriera gli apparecchiò la cena. Mangiò in silenzio, poi passò nel suo studio a fumare nella corta pipa e a sfogliare la corrispondenza.

Le carte lasciate sul tavolino nel partire erano un po' spostate, ma nessuna mancava. Cercò nel mucchio la lettera di Glorietta, la osservò un momento, e se la rimise in tasca. Infine rimase sdraiato sulla poltrona a fumare e a fantasticare. Teneva gli occhi chiusi. Era molto pallido.

Maura rientrò a mezzanotte. Non entrò subito nello studio. Prima si svestì, poi andò [p. 98 modifica]in sala da pranzo, bevve un bicchierino di Cherry Brandy, e di lì lo chiamò con voce carezzosa:

— Franco!

Egli pensò:

— Non sa niente.

E le andò incontro con premura. Si baciarono. Maura fece un viso dolce-severo di rimprovero-carezza:

— Tutti questi giorni, eh, cattivo signore! senza un solo rigo...

— Scusami. Hai ragione.

— E tua zia?

— Va meglio. È fuori pericolo.

— Ma che cosa ha?

— Mal di cuore.

— Ah!

— Ti sei annoiata, questi giorni?

— Non come temevo. Mario è stato un amore. Mi ha condotto alla Roma Film, mi ha fatto assistere alle pose, mi ha presentato a tutti. Figurati che Del Grippo...

— Chi?

— Del Grippo, il marchese, il consigliere delegato, il direttore, insomma il padrone della Roma. Figurati dunque che vuol scritturarmi a tutti i costi.

— E tu?

— Io? Ma! Ci sto pensando. La cosa mi tenta. Tu piuttosto che ne pensi? [p. 99 modifica]— Fa quello che vuoi.

Maura ebbe un lampo d'acciaio nello sguardo. Ma seguitò a simulare.

— E non ti dispiacerebbe perdermi?

— Non ti perderei affatto. Resteresti sempre la mia cara Maura....

— E se qualcuno riuscisse a conquistarmi, a portarmi via?...

— Ebbene... la vita.

— Ti farebbe piacere?

— Non dico.

— Ma neppur dispiacere?

— Ma sì...

– Ah come lo dici! Ho sentito nel tuo accento il peso esatto di quel «dispiacere»: è leggerissimo, sai.

— Perchè? Ti sbagli, invece.

— Oh non mi sbaglio. D'altronde, hai forse ragione. Io sono di quelle donne che stancano presto. E poi, lo so, lo vedo, comincio a pesarti.

— Maura!

— Sì, a pesarti. Tu spendi troppo per me, e io non ho più risorse. L'automobile è andata, i gioielli tu non vuoi che li venda, ma prima o poi bisognerà pur decidersi.....

— Maura!

— Lasciami dire. So bene che tu hai dell'orgoglio, che ti ripugna di accettare... la mia collaborazione. Ma tu sapessi la mia [p. 100 modifica]gioia di dare!... Che cosa non ti darei, se ciò valesse a tenerti! Ma purtroppo sento che ti perderò, e che questo accadrebbe anche se avessi molti milioni da offrirti...

Franco si alzò nervosissimo.

— Ti prego di smettere, e di non tornare mai più su questo argomento. Siamo intesi?

Maura lo abbracciò, ridendo.

— Hai ragione. Sono pazza, scusami. Però, credi, Del Grippo mi tenta. Non mi seccherebbe mica guadagnare tremila lire al mese. Noi abbiamo dei debiti, amico mio, e io mi sono ficcata in testa di pagarli. Sì, sì, sì.

— Maura! Ho detto che ti proibisco...

— Quest'argomento.... Va bene: ora basta. Vieni qui, bevi un bicchierino di Cherry.

— Grazie, non mi va.

— Ma bevi dunque, smorfioso!

Franco non bevve. Allora Maura gli si sedette sulle ginocchia. All'orecchio:

— Non hai nulla da dirmi stasera?

Franco la baciò tra i capelli.

– E poi?

Franco la baciò alla gola, sotto l'orecchio.

— E poi?

Franco la baciò sulla bocca con forza. Maura prese quel bacio come un frutto ghiottissimo.

— Ah — sospirò — che desiderio di esser rapita! [p. 101 modifica]Franco s'infiammò. Passò un braccio sotto le gambe dell'amante, l'altro alla vita, si fece circondare il collo col suo braccio nudo, e la portò di peso, ridente e guizzante, nell'alcova. La depose sul letto, e incominciò a slacciarle la vestaglia.

Ma quella sera Maura, non appena si sentì presa dalla forza dominatrice del maschio, scoppiò in un pianto nervoso e lacerante, che la spezzava in grandi scosse rovinose.

Franco capì che Maura sapeva tutto, ma eccitato sfrenato da quel pianto, egli la possedette con una violenza inaudita, rabbiosa.

Poi, quando staccò la sua faccia dalla spalla di Maura, e le vide tutto il viso inondato di lagrime, Franco sentì che in quel momento incominciava ad odiare la sua amante.

*

Tutta la notte quel pianto bagnò il guanciale comune.

Franco a poco a poco si distaccò dalla donna, e incapace di mostrarle in alcun modo della pietà, incapace di una sola carezza buona, restò supino a una certa distanza, a pugni chiusi, invocando disperatamente l'immagine di Gloria, lontana, sfuggente, perduta.

Maura, presso di lui, senza muoversi, [p. 102 modifica]scossa di tanto in tanto da brividi di sconforto, versò tutte le sue lacrime, povera donna qualsiasi, su quel guanciale stupito di non sentir più baci di felicità.

Dov'era andato il suo orgoglio di animale viziato? dov'era andata la sua potenza di amatrice fantasiosa? Era bastato il soffio di un dolore, il primo moto di distacco del suo amante, per renderla una piccola creatura vinta, senza difesa e senz'aiuto, che si faceva da sè un'immensa pietà.

Ma Franco che aveva nel cuore, nel cervello, nella fantasia e nei nervi la lontana fanciulla inafferrabile, Franco che respirava la sola disperata speranza di essere amato da Gloria, non solo non sentiva alcuna pietà per l'abbandonata, ma quel pianto che gli fluiva vicino con ostinazione e giungeva fin quasi a stillargli sul collo, lo irritava in una maniera folle, gli moltiplicava il rancore per la donna che da troppo tempo dominava il suo letto e che egli non poteva sostituire con altra più amata e desiderata.

Aveva un bel pensare che Glorietta era una cosa pura, una visione di sogno che mai avrebbe sfiorato un letto d'amore: finiva sempre col sentirsela fisicamente vicina, in uno sfioramento delizioso e tormentoso.

Era Maura che con la sua presenza lo eccitava involontariamente, così che ogni suo [p. 103 modifica]pensiero partiva verso Glorietta acceso di una sensualità, della quale aveva poi un morso cocente.

Alla fine si assopì. Nel prender sonno, il suo braccio destro si distese lungo il guanciale, e incontrato il collo di Maura, lo aggirò, restando in quella posa di antica tenerezza tutto il resto della notte.

E quel sonno fu illuminato da un sogno divino.

Egli vide Glorietta. La snella figura di Glorietta, un po' arrotondata e infemminita, aveva un incanto nuovo, fatto di passione e di dedizione. Gli pareva che ella finalmente si abbandonasse sul suo petto, sospirandogli amorosamente:

— Sì, sì, sono tua! non voglio essere che tua! — e che egli la sollevasse allora fra le braccia (così aveva fatto poche ore prima con Maura) conducendola via, tra foreste immense, verso lontananze affascinanti.

E Glorietta gli mormorava ancora, col viso irrorato di felicità:

— Portami con te, portami nel tuo cuore, dove vuoi. È questa la realtà: quello di prima era il sogno, un tristissimo sogno.

E correva, correva, con quel peso adorato sulle braccia, via, via, senza veder più nulla, tranne il sorriso di Glorietta, senza ascoltar più nulla, tranne la voce di Glorietta, [p. 104 modifica]senza avvertire sulla sua pelle altra sensazione che il collo di Glorietta sostenuto dal suo braccio.

Ma a un tratto gli parve di inciampare, di cadere a terra, in fascio col suo amore; e allora si svegliò e si trovò addosso il petto singhiozzante di Maura, e vide gli occhi arrossati della donna che lo guardavano con folle paura, e capì che il sogno era finito.

Franco avrebbe voluto stringere fra le dita la gola della sua amante non più amata, avrebbe voluto uccidere colei che lo faceva inciampare mentre camminava in sogno col suo amore.

Ma ebbe la certezza che sarebbe stato infelice lo stesso, e subito una profonda pietà per sè stesso gli dilatò il cuore, e le lagrime più disperate gli salirono agli occhi dandogli un grande snervamento.

Allora abbandonò la sua faccia fra i capelli di Maura, e non sentì nessuna ribellione a starle vicino.

Maura gli chiese in un bisbiglio, all'orecchio:

— Dimmi: l'ami dunque tanto?

Franco non rispose, e pianse su di lei, con lei che fu riafferrata dai singhiozzi.

Maura se lo abbracciò stretto stretto, se lo tenne su di sè come un bambino ammalato, lo cullò fra le braccia, lo inondò di lacrime e [p. 105 modifica]di baci. E singhiozzando in quella stretta di infelicità, gli mormorava:

— Piangi, piangi con me piccino, piangi come me: noi siamo tanto infelici!....

Così, quei due dolori uguali e contrari, quelle due angosce nemiche, si fondevano in un solo pianto, in un solo abbraccio inutile, quel letto che non era più un letto d'amore.

L'alba era sorta sulla città.

*

Due giorni dopo.

Franco e Mario nella Pasticceria di Aragno.

— Sei un pessimo seduttore!

— Davvero?....

— Eh sì, mio caro, in un mese non hai saputo concluder nulla.

— Fai presto tu! Come se si trattasse dell'ultima sartina di Trastevere.

— Andiamo! con tutta la libertà che ti ho lasciato! Te l'ho messa fra le braccia, sono partito, non ho dato segno di vita per quattro giorni...

— Appunto questo è l'errore. Tu non hai saputo sradicarti dal suo cuore. Ogni tentativo era inizialmente sbagliato. Invece di apparirle sotto un aspetto odioso, o almeno [p. 106 modifica]poco amabile, tu hai eccitato la sua gelosia, il suo orgoglio, i suoi puntigli. Non si fa così, quando si vuol liberarsi di una donna.

— Lo so, è più facile conquistarle, le donne, che disfarsene.

— Naturale! Guai a far capire a una donna innamorata che la si pianta per un'altra! È l'unico modo per non levarsela più di torno.

– Ma se....

— Lasciami dire. Me ne intendo. Tu dovevi tenere segretissimo lo scopo del tuo viaggio, non lasciare quella lettera sul tavolo, telegrafarle ogni giorno da Ferrara, tenerla tranquilla e soddisfatta. Non avendo preoccupazioni su di te, sapendosi amata in pieno, si sarebbe prestata senza sforzo a un nuovo flirt, che avesse per lei un sapore di novità, di bizzaria, una cosa che eccitasse la sua curiosità di donna poco vissuta. Io me la sarei lavorata a meraviglia in quei quattro giorni: e l'ho anche fatto. Ma tutto il mio sapiente destreggiamento (corse in automobile, cenette in gabinetti riservati, tea-rooms alla moda, teatro di posa, contatti nuovi, ostentazione della mia potenza di direttore...) era inutilizzato, paralizzato dai fieri colpi che tu le vibravi alle spalle. Credimi, è tutta colpa tua se finora non ho potuto portartela via. [p. 107 modifica]E ti accerto che ci ho messo tutta la buona mia volontà: anche perchè...

— Perchè?...

— Ma... sono un idiota: che vuoi farci... temo di esserne cotto e biscotto.

— Aaah! benone! A meraviglia! La cosa dunque ti riuscirà più facile, adesso che....

— Anzi, al contrario. Finchè ero padrone dei miei nervi, potevo agire con fredda e calcolata prudenza. Adesso che comincio a sentirmi turbato ogni volta che la vedo o che la penso, temo di non poter più comandare al mio cervello.

— Va là che tutto andrà bene. Ti aiuterò io, vedrai.

— Sì, sto fresco! No, no, è meglio che tu non faccia nulla, otterresti il risultato opposto.

— Ma perchè?...

— Ti ama, capisci, ti ama, ed è una cosa delicatissima, pericolosissima strappare una donna dall'oggetto della sua passione...

— O del suo capriccio.

— No, no, credo che si tratti proprio di passione.

— Ma infine non bisogna disperare...

— Non dispero. Dico che è difficile. D'altronde Maura mi piace assai assai. Oh come mi piace! Tu sai che non rinunzio mai a ciò che mi piace. [p. 108 modifica]— Bene, senti. Concretiamo un nuovo piano d'azione. La prima cosa da fare, è, credo, di mostrarle che io l'amo ancora, anzi che sono, dopo questa bufera, più innamorato di prima. Ti pare?

— Va bene.

— Tu seguiterai le tue assiduità, che io fingerò di non gustare eccessivamente, e intensificherai la tua aureola di uomo alla moda, pieno di donne, pieno di successi artistici. Ricordati di mettere il tuo nome su tutti i manifesti dei Films che confezioni. Le donne sono ambiziose....

— Perfettamente.

— Un'altra cosa. Continua a solleticare la sua vanità di attrice, mentre io mostrerò di essere contrario al suo ingresso nel mondo cinematografico. Bisogna fare un tira-e-molla, nel quale tu darai lo strappo finale, e te la porterai via in trionfo.

— Benissimo. Siamo d'accordo. Ora dimmi un po': come stai a quattrini?...

— Male, molto male. Devo avere tre o quattro biglietti da cento.

— Niente paura: io seguiterò a prestarti quello che ti occorre. Tu però dovresti far credere a Maura di non avere più un centesimo di credito. Ti farai vedere preoccupato, truce, senza speranza. Qual'è il tuo passivo, finora? [p. 109 modifica]— Ottomila.

— Nessuna risorsa, all'infuori di me. Bisognerà costringerla a venire da me. Questo è affar tuo. Ma, mi raccomando, nessuna brutalità, nessun'altra donna in mezzo. È questione di tempo: un mese, non di più, e poi, caro amico, sei becco!

— Non domando di meglio.

— Bene, adesso bisogna che io vada. Ci vedremo oggi, alle 5. Vengo in macchina. Fatevi trovar pronti. A proposito, quanto devo portarti?

— Fa tu...

— Cinquemila?

— Ma sì...

— All right! A stasera!

— Arrivederci.

Così parlarono due mondani.

*

La fine dell'inverno e parte della primavera passarono senza che alcun cambiamento notevole si verificasse nella vita del terzetto Franco-Maura-Mario. Esteriormente le cose procedettero monotone e senza avvenimenti. Internamente, la passione che divorava i tre individui, s'intensificò e si radicò sempre di più.

L'aprile, coi suoi risvegli insidiosi, li [p. 110 modifica]trovò ancor più innamorati: Franco di Gloria, Maura di Franco, e Mario di Maura. Ciascuno troppo preoccupato della propria sofferenza, per interessarsi a quella degli altri. Tuttavia – poichè la loro vita era ormai tutta in comune — vi erano momenti in cui essi, riuniti nel salotto attorno a un tavolino, sentivano di sorbire da tre tazze ugualmente dipinte, con lo stesso the e lo stesso zucchero, la stessa angoscia avvelenatrice. Il liquido uscito dallo stesso samovar e versato in tre tazze separate, somigliava al loro dolore derivante dalla stessa unica fonte: l'amore irraggiungibile.

Col tempo infatti i loro caratteri così diversi si erano un poco assimilati e le intenzioni primitive si erano livellate. Essi erano come tre mendicanti davanti a una enorme porta di ferro, spietatamente chiusa. L'unica differenza stava in questo: che mentre Laura e Mario vivevano a contatto col loro amore, Franco ne era staccato senza speranza. E perciò soffriva molto di più.

Un giorno, a colazione, Maura saltò vivacemente sulle ginocchia di Franco, e gli domandò:

— Mi conduci stasera al Tabarin?

Franco rispose, cupo:

— Non posso.

— E perchè? [p. 111 modifica]

— Non domandarmelo.

— Invece voglio saperlo. Dimmi perchè...

—  Non posso risponderti.

— Un segreto! allora hai un altro appuntamento.

— Macchè! Resterò in casa.

— Ti senti male?

— No.

— E allora?

— Allora... c'è qualche cosa per cui non posso condurti al Tabarin...

— Dio mio, che può essere? Mi spaventi...

— Che posso farci!

— Forse non vuoi incontrarti con qualcuno...

— Insomma, senti, lo vuoi proprio sapere?

— Sì.

— Ebbene, ecco.

E Franco tirò fuori dalla tasca il portafogli, lo mise sotto gli occhi dell'amante, e ne estrasse una carta da dieci.

— Ecco tutto quello che posseggo.

Maura sbarrò due occhi tra meravigliati e contenti, e prese una mano di Franco con tenerezza:

— Piccino! a questo punto sei?

— A questo punto.

— E non hai alcuna risorsa?

— Nulla. Anche Mario mi ha dichiarato [p. 112 modifica]ieri che non può più aiutarmi. Bisognerà lavorare.

Maura ripetè come trasognata:

— Bisognerà lavorare.

Poi pronta:

— Sì, ma intanto...

— Intanto... crepare di fame.

— Ebbene no: vendo i miei gioielli.

— Sei pazza!

— Li vendo.

— Ma neanche se fossi all'ultimo centesimo.

— Li impegno.

— Peggio che mai. Ricordati che dal momento che io non posseggo più nulla, ho giurato di non dividere più un soldo che sia tuo.

— Stupido orgoglio!

— È così.

— Lasciami fare.

— Mai! Se vuoi, fai pure. Ma a patto di separarti da me.

— Bella trovata!

— Ti assicuro che non scherzo.

— Bene... allora... lasciami riflettere.

Nel pomeriggio Maura uscì. Prese il tram a S. Basilio, e scese a Piazza Quadrata. Un po' di polvere sul Viale dei Parioli, e finalmente fu annunciata alla Roma Film.

Mario, con le mani sporche, il camiciotto di lavoro, e il solito ciuffo penzoloni sulla [p. 113 modifica]fronte, le venne incontro con un sorriso consapevole.

— Come mai questa visita? È accaduto qualcosa?

– Sì, è accaduto che... Scritturatemi!

Mario fece un salto indietro, ma si rimise subito in equilibrio.

— Ah? È dunque deciso?

— Decisissimo.

— E Franco?

— Accetterà il fatto compiuto.

— Credete?

— Credo. D'altronde io voglio così, e nessuno mi può impedir nulla.

Mario la prese dolcemente per mano.

— Venite con me.

Attraversarono in silenzio un cortile, passarono sotto un colonnato di legno, entrarono in un piccolo studio pieno di luce e di fiori. Lo studio di Mario.

— Sedetevi.

Maura sedette, un po' commossa per la sua decisione, fulminea. Mille visioni, mille prospettive le balenavano nella testa: vedeva confusamente le conseguenze più complicate del suo gesto.

Mario tirò la tenda davanti alla vetrata. Lo studio rimase in una penombra dolce e sensuale. Poi il direttore artistico sedette al suo posto, davanti allo scrittoio. [p. 114 modifica]— Ecco, vedete, amica mia, le condizioni in cui si trova ora la nostra Casa non sarebbero troppo favorevoli al vostro ingresso immediato qua dentro. Noi abbiamo due prime attrici, la Martire e la Romanelli, molto quotate, molto belle, molto eleganti. Quando esse sono entrate alla Roma Film, avevano dei protettori che le fornivano largamente di vestiti, cosicchè gli stipendi della nostra Casa erano un di più, che esse accettavano per le spese minute, che so io, un superfluo sul quale non facevano assegnamento, perchè con quello solo, non avrebbero potuto farsi neppure un terzo dei vestiti occorrenti. Se dunque io vi dicessi: «Sta bene, vi scritturiamo», e vi conducessi dal Marchese Del Grippo per il contratto, egli vi offrirebbe cinquecento franchi al mese, e un contratto per sei mesi. Badate, gli affari sono gli affari, e con tutta l'ammirazione e il rispetto che il Marchese può avere per voi, non può sinceramente offrirvi di più. Voi siete una debuttante: molto carina, sì, ma una debuttante. Avete delle belle toilettes, non nego. Ma fra un mese non potrete più servirvene. La moda cambia fulmineamente, e non si fa a tempo a seguirla. Infine, vi assicuro che più di 500 franchi al mese non potrebbero darvi: e questo vi basterà appena per le vetture che prendete. [p. 115 modifica]Maura, sconcertata e delusa, lo guardava con apprensione e tormentava i suoi guanti.

— Ma allora.... che bisogna fare?

— Allora... un mezzo c'è... ma bisogna avere del coraggio....

— Chi: io?

— Voi, Maura, ascoltatemi, cercate di capirmi.

Il giovane le prese una mano e la tenne nervosamente nella sua.

— Fra un mese il contratto della Romanelli con la nostra Casa scadrà. Se io volessi, potrei non farlo rinnovare. Potrei farvi prendere il posto della Romanelli.

Brivido di gioia nella mano di Maura.

— Ma...

— Ma?...

— Bisognerebbe che voi sostituiste la Romanelli (che prende quattromila lire al mese) in tutto.

— Cioè?

— Via, c'è bisogno che mi spieghi? Lo sapete bene....

— Che cosa?

– Quello che sa tutta Roma.

— Ma che cosa?

— Che la Romanelli è la mia amante.

Maura scattò in piedi.

— Ah! [p. 116 modifica]Il suo sguardo a Mario fu di supremo stupore e di suprema delusione.

— Sapevo... sapevo queste cose... me l'avevano detto che il cinematografo è un covo di banditi... Ma che voi... proprio voi..... dopo tanta amicizia, dopo una intimità così affettuosa, dopo tante ore vissute insieme.... doveste parlarmi così per rivelarmi tutto lo sconcio del mondo in cui vivete, questo non me lo sarei mai aspettato!

Mario capì di aver vibrato un grave colpo. Volle rimediare.

— Maura... perdonate... Maura, non disprezzatemi completamente... Voi sapete che io vi amo, sì, vi amo, voi lo sapete perchè non si ignora mai il sentimento che si suscita negli altri... Se ora sono apparso come una belva in agguato, ho questa grande attenuante: che vi amo; e per avervi tenterei qualunque via, perchè so che non è facile conquistarvi, perchè la vostra bellezza, il vostro fascino, la vostra finezza, sono elementi indispensabili alla mia vita, e sento di non poterne fare a meno. Capite, Maura?

La donna si fece seria e triste. Si mise a guardar fuori della vetrata.

— Ahimè... — seguitò Mario — sento di avervi perduta, sento che ho messo un abisso fra il mio desiderio e voi. Dunque non mi perdonate? [p. 117 modifica]— Forse — e gli occhi di Maura s'inumidirono sfiorando una visione lontana. – Tutto si può perdonare all'amore. Di che cosa non è capace l'amore? Anch'io amo – lo sapete bene — , e amo in modo che mi farò sbranare, mi farò dissanguare, mi farò polverizzare, ma non rinunzierò mai e poi mai a lui. Capite? È per questo che rifiuto il vostro contratto, e me ne vado.

Mario sentì le lacrime.

— Maura, non mi perdonate? non ci vedremo più?

— Sì... forse... fra un po' di tempo. Tornate da noi fra un paio di settimane: prima no. Ah vi assicuro che siete stato poco abile. Dovevate prendermi a poco a poco, con finezza, e forse, chi sa... sareste riuscito. Ora è troppo tardi. Addio.

Mario si affannò a cercare un rimedio, disperatamente.

— Sentite, non rinunziate al lavoro. Vi scritturo io stesso. Vi darò quel che vorrete. Senza condizioni, senza patti. Cercate di dimenticare le mie parole, la mia stupida «gaffe»...

— È impossibile, amico mio, non tentate nulla, non potrei. Se non aveste parlato... Ma ormai è inutile. Lasciatemi andare.

Mario prese macchinalmente una mano della donna e la baciò due volte. La guardò [p. 118 modifica]partire senza muoversi, rigido davanti al suo tavolo di lavoro. Poi, quando l'elegante figura femminile fu scomparsa, si tolse il monocolo dall'occhio, lo pulì ben bene col fazzoletto, se lo rimise a posto, ricacciò indietro il ciuffo penzoloni dalla fronte, e premette ripetutamente, con nervosità, il bottone di un campanello.

Si presentò un giovanetto.

— È pronta la scena del ricatto?

— Non ancora. Si attendono le poltroncine e il signor Mateldi.

Mario battè un pugno formidabile sul tavolo.

— Ma perdio! — urlò — Quante volte devo dirvi che bisogna preparare tutto il giorno prima!

E uscì gridando e gesticolando verso il teatro di posa.

*

A questo punto erano le cose, quando il popolo d'Italia, lanciatosi volontariamente nella sublime avventura della conflagrazione, scompose il vecchio assestamento della Nazione, e ne creò uno nuovo che doveva portare una diretta ripercussione in tutte le coscienze e in tutte le esistenze.

24 Maggio 1915: data monumentale per la [p. 119 modifica]storia d'Italia, e per la vita spirituale degli italiani.

Franco Arbace aveva in quel tempo venticinque anni compiuti, Maura Demauris per amante, ottantamila lire di debiti, e una grande stanchezza della vita.

  1. Siamo nel 1915. Ma oggi c'è la "Roma di Mussolini" che ha cancellato tutte le altre.