Il mio cuore fra i reticolati/La divina realtà

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Seconda parte – La divina realtà

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SECONDA PARTE


LA DIVINA REALTÀ


[p. 123 modifica]Classe 1890. Terza Categoria. Riformato per nevrosi cardiaca.

Franco Arbace, di fronte alla guerra, si trovava dunque nella privilegiata ma non invidiabile condizione di poterla guardare da spettatore. Almeno per molti mesi.

Riformato per una malattia elegante ma grave, non poteva temere pel momento una revisione. Non era mai stato soldato. Di sensazioni militari non aveva che quella delle fanfare, alle quali da ragazzo usava accodarsi mettendosi al passo, e i suoi giudizi sulla giolittiana guerra libica, pieni di raffinato cinismo e di orgoglioso disprezzo.

Aveva anche frequentato il tiro a segno, rivelandosi un forte tiratore. Ma, come detestava il lavoro fisico, il disagio e la compagnia dei molti, aveva sempre considerato la vita militare con uno schifo invincibile che gl’impediva di vederne i lati estetici e affascinanti.

Ma ora c’era qualcosa di nuovo. Un [p. 124 modifica]brivido di idealismo che trasfigurava anche agli occhi suoi il sudicio, brutale e gelido organismo militare.

Già nelle giornate del maggio che precedettero la dichiarazione di guerra, scendendo con Maura per le vie del centro, s’era trovato più volte all’improvviso sbalzato in piena dimostrazione: e il contatto di quella folla generosa e schiettamente italiana di studenti, di lavoratori, d’impiegati, che avevano lasciato la scuola, l’officina, l’ufficio per scendere in piazza a gridare: «Vogliamo la guerra! Abbasso l’Austria!» gli era parso che accelerasse il ritmo della sua vita. La folla ripeteva con cadenza terribile di condanna il ritornello «Morte a Giolitti» morte all’uomo che rappresentava la tendenza neutrale burocratica e vigliacca in cui non poteva affogare la nostra sete di grandezza. Tutto ciò gli aveva agitato nel cuore uno stimolo nuovo: quello di slanciarsi, di entrare nella dimostrazione, di agitarsi e di gridare con essa.

Aveva sentito più tardi che un’ora decisiva e irrevocabile era scoccata per il suo paese, e che anch’egli, come tutti, non avrebbe più potuto separare il proprio destino da quello della Nazione che marciava verso l’avvenire con uno sfavillio di bellezza ideale.

Fu dunque incerto lungamente se prendere o no una decisione. Decidersi, per lui che [p. 125 modifica]orfano a diciotto anni, era sempre stato solo, indipendente, e non aveva mai obbedito che al proprio capriccio, voleva dire rinunziare a tutto: alla sua libertà, ai suoi comodi, alla sua indolenza, alla sua piacevole indecisione. Qualcosa e qualcuno gli diceva:

— Stai là! Non ti muovere! — Qualcosa era la sua naturale pigrizia che non gli aveva mai fatto alzare un dito in più del necessario. Qualcuno era la pelle floreale di Maura, che in quel maggio stava riprendendo tutta la sua potenza e che, proprio in quel momento in cui egli pensava se staccarsene o no, aveva riacquistato un incanto prodigioso.

Franco era però un uomo stanco. Ma la sua stanchezza era quella che non si rassegna a lasciar morire tutte le energie, e vede, o intravede, al di là, possibilità e risorse che potrebbero salvarlo. Ma come arrivare «al di là?»

Ora, risolta momentaneamente la questione economica con l’aiuto di Mario e di un nuovo strozzino pescato in una bisca, Franco preferiva restare quasi sempre solo.

Usciva la mattina prestissimo, ed errava senza scopo per le vie di Roma, cercando, cercando. Che cosa? Una risposta, un impulso, una volontà decisa.

Egli era così stanco! E tutto gli sembrava così vecchio e corroso! così sbiadito e [p. 126 modifica]sfinito! Tutto aveva così poca suggestione per lui! Egli era in quello stato dello spirito in cui la vita esteriore sembra essersi esaurita, e all’interno non vi sono più fiamme, e i visi che s’incontrano non fanno che riflettere la stessa pallida miseria, e pare che su ogni cosa sia passata un’ombra livellatrice che ha distrutto il rilievo, il colore e l’espressione. La sensibilità esausta vede nel mondo un campo squallido su cui l’inverno non tramonta mai, e nel quale è inutile vivere e sperare.

Perciò la pelle di Maura, ogni sera, gli sembrava necessaria, per affogare almeno in quel bagno di morbidità profumata la sua immensa stanchezza, per essere costretto a non pensare a nulla. E poi, al mattino fuggiva, si allontanava di schianto, cercando fuori da quel letto perfidamente soave, il lampo di energia che gli sarebbe occorso per ricominciare.

Ma la donna, che credeva vedere in quella sua regolarità d’orologio un ritorno d’amore, si era ancor più potentemente infiammata, e inconsciamente moltiplicava il peso della stanchezza mortale che trascinava Franco verso l’abbrutimento e l’apatia definitiva.

A destarlo, a sferzarlo, giunse un mattino una lettera.

Glorietta.

[p. 127 modifica]La giovinetta lontana, troppo amata da quest’uomo che non riusciva a dimenticarla, gli portava una voce d’esultanza e di ardimento per il grande fatto che aveva schierato l’Italia fra le Nazioni di primissimo ordine, e gli chiedeva se non fosse anch’egli soldato, e dove, e quale sorte stesse per attenderlo. E terminava con una tenerissima frase di augurio per la sua vita e per la sua giovinezza.

Franco si sentì colpito in pieno da questa lettera.

Non si aspettava una rivelazione simile: non aveva sospettato che Glorietta avrebbe potuto decidere la sua sorte. Uscì, umiliato ma traboccante di gioia, tremando di un’emozione mai provata, sentendo che tutte le sue energie rinascevano straripandogli nelle vene come torrenti scatenati. Questa volta vide tutto nuovo, tutto fresco, tutto giovine e allegro. Vide che il mondo non era un cimitero, e che la sua vita poteva ricominciare.

La manina di Glorietta, lontana, gli accennava un invito ad eroismi sublimi, e a conquiste sovrumane. Per giungere a quella piccola mano egli avrebbe trovata la forza di distruggere tutti i suoi veleni interni e di rifarsi una sensibilità, un istinto, una verginità sentimentale.

In Piazza Venezia incontrò un antico compagno di piacere. Lo abbordò.

[p. 128 modifica]— Senti, dovresti dirmi che cosa deve fare un riformato, per diventare soldato.

L’altro lo guardò con stupore.

— Che: vorresti?....

— Sì, ho intenzione di andare...

— Bravo furbo! Ma perchè vuoi scomodare il Governo, che non ti cerca....

— Questo non riguarda nè te nè il Governo. Dimmi, per favore se sai...

— Ma è semplicissimo. Tu vuoi andare alla guerra? Ebbene, presentati a una caserma qualunque, e fatti arruolare.

— Basta così?

— Certamente. Ma senti a me, vieni stasera all’Apollo, e ti farò passare io queste malinconie. Caspita! Sempre così nella vita: chi vorrebbe non può, chi potrebbe non vuole. Guarda me: io che vorrei starmene a casa tranquillo, sono costretto quanto prima a lasciare tutto...

— Ah dunque parti anche tu.

— Sì, eh! Sono della Croce Rossa, e dovrò andare come ufficiale d’amministrazione in qualche ospedale...

Franco toccò la mano del compagno, e saltò su una vettura. In quel momento, risalendo per via Nazionale, intoppò in una folla enorme che marciava lentamente verso la Stazione. In mezzo alla moltitudine, una schiera movimentata e baldanzosa di [p. 129 modifica]giovanotti che avevano tutti qualcosa di rosso al collo: o un fazzoletto, o una camicia, o una cravatta.

Franco si sporse dalla vettura. Domandò:

— Chi sono?

— Sono i volontari garibaldini che vanno ad arruolarsi nella Brigata Alpi.

— E per dove partono?

— Per Perugia o Spoleto, dove li vestiranno.

— Dove si sono arruolati?

— Al Distretto.

Franco non chiese altro. Ordinò al vetturino di seguire la folla fino alla Stazione. Là vide partire i volontari tra il delirio e le lacrime delle donne, li vide correre all’assalto dei vagoni con una violenza che sentiva già la battaglia, e partire cantando e vociando tra le fronde verdi che sembravano nascere dai vagoni. Poi tornò rapidamente in città, si recò al Distretto.

Molta gente. Studenti, operai, contadini, donne. Tutti si agitavano nel cortile, si incanalavano nelle scale strettissime, si pigiavano davanti agli sportelli, nei corridoi. Salì anche lui, domandò, ebbe qualche risposta distratta. Finalmente ebbe un foglio tra le mani, lo riempì.

«Il sottoscritto Arbace Franco, della classe 1890, distretto di Roma, di terza [p. 130 modifica]categoria, già riformato per nevrosi cardiaca, chiede di essere sottoposto a nuova visita, per essere arruolato come volontario di guerra, e per la durata della guerra, in uno dei reggimenti della Brigata Alpi».

Consegnò la domanda al maresciallo di servizio, e seppe che avrebbe dovuto attendere qualche giorno. Sarebbe stato chiamato d’ufficio: in ogni modo, non era male che passasse tulle le mattine a sentire se c’erano novità.

Uscendo dalla caserma di Via Paolina, si sentì soddisfatto: leggero e rinnovato come se avesse già compiuto un’impresa virile che gli avesse restituito la fiducia in sè stesso.

Tornò a casa. Maura era uscita. Ne approfittò per scrivere a Glorietta.

«Amica mia,

Vi ringrazio di avermi illuminato. A voi sola dovrò se un giorno riuscirò ad essere veramente un uomo. Senza la vostra lettera incitatrice, io sarei ancora nell’inerzia più completa, nella stanchezza e nella tristezza più profonda. Sentivo il bisogno di liberarmi, di scrollare da me un peso insopportabile, di ritrovare l’energia e l’amore di vivere, ma non c’era uno stimolo che mi spingesse, mi mancava qualcosa o qualcuno che avesse il [p. 131 modifica]potere di scuotermi. È venuta la vostra lettera; che sia benedetta! Voi non immaginate quanto bene mi avete fatto. Se mi aveste scritto che mi amate, che avete deciso di appartenermi, io non ne avrei avuto forse tanta gioia e tanto beneficio.

È la mia forza che ritorna, o almeno la speranza di ritrovarla. E ne avevo bisogno, perchè mai come in questo momento sentivo tutta l’inutilità della mia vita mediocrissima. Pensate, Glorietta. L’unica speranza, quella di ottenere il vostro amore, era stata sepolta per sempre. Vivevo di schiavitù, di abitudine, di residui del passato, di nausea infinita. Meditavo il suicidio, e avevo conosciuto anche la vigliaccheria di non saper affrontare la morte. Che cosa sarebbe stato di me, se la guerra non fosse sopraggiunta, e non avessi avuto il vostro invito all’eroismo? Sì, perchè io lo considero un vero e proprio incitamento, il vostro, ed è con la più ferma calma che io assumo, in questo momento, il sacro impegno di essere degno di voi e dell’Italia, di non adattarmi a scivolare nella grande tempesta di fuoco senza scottarmi, ma di entrarvi risolutamente in mezzo scagliando la mia pigra anima di gaudente verso tutti i pericoli, tutti i sacrifici, tutte le torture, affrontando ciò che può esservi di più atroce di più spaventoso di più massacrante. Ho bisogno di [p. 132 modifica]questo uragano di ferro e fuoco, io uomo dell’indolenza e di tulle le eleganze, ho bisogno di iniettare dell’acciaio nelle mie carni vili, per ritrovarmi, per rinnovarmi, o per morire se sarà necessario.

Oggi sento, Glorietta, che un’ora divina sta scoccando sulla mia vita. Se voi non mi aveste sospinto, io sarei irremissibilmente perduto. Mi avete salvato; grazie. A voi debbo assai più della vita, perchè quella che mi sarebbe rimasta era assai meno della vita. È un istante pieno di profondità, di supremi risvegli e di meravigliosi presentimenti, questo. A voi lo debbo, Voi siete dunque la vergine privilegiata che ha il potere di destare gli eroi dal loro letargo. voi farete di me forse un eroe, o forse un uomo che non rimpiangerà di morire, se, oltre questo vertice a cui lo avete sollevato, egli non avrebbe mai più conosciuto nulla di così pieno, di così puro, di così stellare, nella vita. Vi bacio il lembo delle vesti, in ginocchio.

Franco».


Maura, tornando a casa, lo abbracciò con passione, e gli disse:

— Ho visto tante donne in lacrime! Madri, mogli, amanti..... Che fortuna che tu non debba partire! Sento che non saprei adattarmi a questo dolore.

[p. 133 modifica]Franco rispose:

– Già, che fortuna!

Poi si chiuse in camera sua, e vi rimase molto tempo.

L’indomani cominciò le visite al Distretto.

— C’è nulla?

— Nulla ancora.

Ogni mattina così.

*

Dopo tre giorni Glorietta rispose.

«Mio caro amico,

Ahimè, quale enorme responsabilità mi avete addossata! Io non immaginavo, facendovi quelle domande innocenti, che avrei deciso del vostro destino. Io vi credevo già mobilizzato e non sapevo che avreste potuto scegliere. La vostra sublime decisione mi riempie di sgomento e di orgoglio. Sgomento per ciò che ho fatto io, orgoglio per ciò che starete per fare voi. Sento nel vostro linguaggio il fremito delle grandi anime che stanno per spiccare il volo verso l’immensità. Voi mi fate sentire quanto io sia piccola vicina a voi. È a causa di questa piccolezza, che io oso per una volta sola, per un attimo solo, chiedervi: Amico, avete pensato bene a ciò [p. 134 modifica]che state per fare? Siete ben sicuro che questo gesto sia proprio necessario? O non è un voler sfidare il destino, risalirlo a ritroso, quando si potrebbe invece lasciarsi portare da esso? Ma subito dopo questo impulso troppo femminile, io torno ad ammirarvi, ad ammirarvi come si ammira la luce che sale, l’anima che si stacca dal corpo, gli scafi che partono per gloriose navigazioni, e solo rimpiango una cosa, amico: di non poter essere in quest’ora suprema, quella che voi vorreste: di non potervi offrire con queste mani di pallore che ho troppo immerse nella notte, il dono caldo e luminoso che mi chiedeste: l’amore. Perdonate se non so, se non posso. Io mi detesto per ciò. Ma vi voglio bene. Vi voglio tutto il mio bene di sorella. E vi seguirò nella vostra corsa luminosa, con la trepidazione e l’ammirazione di una sorella felice. Vi tendo le mani.

Glorietta.»


Franco baciò, ribaciò, questa lettera, sulla quale scesero le sue lacrime. Egli piangeva di commozione, di gratitudine, e di disperazione: sì, perchè quelle ultime parole della sua adorata lo convincevano ancora una volta che non c’era nulla da sperare per il suo terribile amore. La sua decisione acquistava un [p. 135 modifica]colore più eroico, un sapore più amaro, un fascino più tragico, perchè era forse inutile: perchè ormai, nella vita, egli non sarebbe mai più «un uomo felice».

Ma gli piaceva torturarsi così, gli piaceva sapere che tutto era perduto, gli piaceva compiere un gesto che non avrebbe avuto mai compenso: sentiva veramente di respirare una atmosfera grandiosa, dove non restava più nulla d’impuro, di egoistico, di calcolato.

Baciò, ribaciò il nome di Glorietta, scritto in fondo alla lettera con un carattere più chiaro e più inciso del solito, quasi per solennità; e ripose il foglietto nella piega più intima del portafogli.

La mattina del sesto giorno, al Distretto, domandò:

— C’è nulla?

— Sì, c’è — rispose il maresciallo e sorrise, scrutando con sospetto, quasi per capire se la notizia rallegrava o affliggeva il giovanotto. Franco ebbe un sorriso silenzioso, di quelli che, senza contrarre le linee del volto illuminano internamente. Prese il foglio, che il maresciallo gli tendeva, e chiese:

— Che debbo fare adesso?

— Dopodomani mattina, alle 8, con questo, al Celio, per la visita sanitaria.

— Benissimo. Grazie.

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*

Due giorni dopo, al Celio.

Un corridoio, affollato di borghesi: tutti giovanotti, e qualcuno anziano, che si arruolavano, come lui, volontari. Dovè attendere il suo turno: un paio d’ore. Qualcuno lo riconobbe. Vecchi compagni di scuola, il suo garzone di barbiere, un cameriere del Marinese. Ascoltò con rassegnazione delle lunghe chiacchierate. Un tale, bel tipo, vivace, elastico, inesauribile conversatore, reduce delle Argonne, raccontò episodi interessanti della guerra garibaldina in Francia.

Diceva:

— Era tempo di venire a morire per l’Italia! Possibile che gli italiani debbano battersi sempre su suolo straniero? – e fischiettava allegramente le canzoni dei Poilus.

Finalmente venne chiamato. Si cacciò in una piccola sala con un gran tavolo rotondo in mezzo, e incominciò a spogliarsi. Quando fu nudo completamente, i medici gli misurarono la statura, il torace, gli toccarono i testicoli, gli osservarono i denti, e gli ascoltarono il cuore, dettando allo scriba: — Altezza 1 metro e settantacinque..... circonferenza toracica 1.10... dentatura sana... — A questo punto gli chiesero:

— Che cosa ti senti?

[p. 137 modifica]— Nulla — rispose.

— Ma qui risulta che sei affetto da nevrosi cardiaca.

— Sì, una volta, quando fui di leva. Ora sto bene.

— Ci tieni a fare il guerriero?

— Sì.

– E allora vai. Tanto peggio per te.

E lo congedarono con un sorrisetto ironico di scettici consumati.

Quella balordaggine lo disgustò. Gli parve che avessero macchiato con una manata di fango il vestito nuovo di luce che aveva la sua anima.

Dichiarato «Idoneo» tornò al Distretto, dove fu avvertito, che la sera del quarto giorno, alle sette e mezza, sarebbe partito per Spoleto.

Questa notizia piena di immediatezza, lo rese giubilante. Finalmente il sogno cominciava a concretarsi. Egli stava per partire, per liberarsi, per uscire finalmente dal suo mondo stanco e vuoto, per disfarsi del suo passato meschino e vigliacco.

Quando lo sentì rientrare, Maura, per uno di quegli avvertimenti misteriosi che hanno le donne radicalmente votate ad un solo uomo, gli corse incontro e lo interrogò affannosa:

— Perchè, perchè hai tardato tanto? [p. 138 modifica]— e subito lesse sul suo volto la «novità».

Franco la trascinò nella camera da letto, con serietà, le appoggiò le mani sotto le ascelle, come nei momenti di grande tenerezza, e l’osservò. Vide che era molto turbata. Per il momento non ebbe il coraggio di dire. Poi, sentendo la sua muta domanda angosciosa, si decise.

— Maura, bisogna che tu abbia del coraggio... molto coraggio...

Maura rispose: Sì. E pensò: Ci siamo. È finita.

— Dimmi, Maura, — proseguì Franco – tu, come donna, non preferisci che l’uomo che ami sia un forte, un audace, un aggressivo, piuttosto che un poltrone vigliacco?...

— Basta! basta! Non dire altro! — urlò Maura. Tu mi lasci.....

E cominciò a dibattersi spaventosamente alterata, premendosi il cuore con una mano, contraendo dolorosamente la maschera.

— Maura, ascolta: — disse ancora Franco — non pensare nulla di male. Nulla finisce fra noi. Saremo amanti come prima. Io sarò soldato, ma verrò spesso a trovarti, o cercherò di farti venire da me, finchè non sarò al fronte...

— Al fronte! Tu andrai al fronte!

— O dio, certo, prima o poi dovrò andarci: non potevi pensare che restassi [p. 139 modifica]eternamente a passeggiare in pigiama nelle nostre stanze....

— Ma tu! proprio tu, no! non voglio! non voglio!

— Mia cara, ragiona, ti prego. La guerra prende tutti, travolge tutti. Non è possibile restarne estranei, non è possibile costruire tanti singoli egoismi in un avvenimento grandioso che si estende a tutta la razza. E poi, tu, proprio tu dovresti essere orgogliosa...

— Ah non dire! non dire! Io non aspiro all’orgoglio di mandare alla morte l’essere che adoro.... No, piuttosto morire anch’io, ma rinunziare a te, mai!

— Eppure, bisogna che ti rassegni...

– Ah sì? dunque è deciso? Ah sì? tu partirai? Ebbene, senti: tu mi conosci. Tu sai quanta forza di volontà, quanta energia io possegga. Se tu parti, Franco, ti giuro che mi faccio stritolare dal tuo stesso treno.

— Ma andiamo, sei pazza! che ti salta in testa? Ma se tutte le amanti e le mogli dei nostri soldati avessero fatto così, davanti ai treni si sarebbe formata una montagna di cadaveri: e invece.....

— Io lo faccio.

— Ma no...

— Bada! Non mi tentare. Non mettermi alla prova. Mi conosci.

Franco cominciò a impazientirsi.

[p. 140 modifica]— Bene. Intanto devi sapere che in stazione le donne non entrano; e poi avvertirò la questura.

— Ah! in stazione... non si entra... Dunque tu partirai... e io non ti vedrò nemmeno partire....

— Già. Proprio così. Bisognerà che ci lasciamo qui.

— E quando dovresti partire?

- C’è tempo. Martedì sera.

— Va bene.

*

La notte seguente, baci, lagrime, preghiere della donna, esaltazione dell’uomo già lontano di spirito, già immerso nel suo futuro eroico. Glorietta fu presente a quella lunga scena. Parve che avesse pietà della povera amante scagliata in un pozzo di disperazione, e sorrise a Franco che sapeva dare un’ora suprema di gioia, gli ultimi baci, a questa disperazione.

Franco sentì che la fanciulla lo accompagnava da vicino, senza più pudore di fronte al dolore, sentì che quasi gli guidava le mani e le labbra nel carezzare e nel baciare le carni febbrili di Maura.

Glorietta fu quella notte l’angelo della voluttà, la purissima spettatrice di una [p. 141 modifica]terribile miscela di angoscia e di ebbrezza, dalla quale doveva staccarsi, trionfante e fatale, l’eroismo virile.

Il martedì, dopo colazione, Franco uscì di casa per fare un’ultima spesa prima di partire. Sulla soglia, Maura lo trasse a sè d’improvviso e lo baciò lungamente con una strana veemenza.

Era appena sulla strada, quando dalla finestra la voce di Maura lo colpì come una sassata.

— Franco! Franco! vieni sù presto!

Si volse in sù, la vide stravolta, pallidissima. Intuendo qualche cosa di grave, risalì le scale, di corsa entrò nella camera di Maura, e la trovò che si dibatteva sopra una poltrona, convulsa, con un fazzoletto premuto sulle labbra.

Quando lo vide, staccò il fazzoletto, e singhiozzò:

— Addio! addio! è finita.... me ne vado...

Dalle labbra gorgogliò una specie di bava violetta, Franco capì fulmineamente. Del veleno!

Con violenza, senza parlare, la strappò dalla poltrona, la costrinse a piegare la testa, le cacciò in gola due dita, e le agitò nella strozza. Un fiotto di liquido denso e schiumoso, accompagnato dal noto rigurgito gutturale, sboccò da quella gola, chiazzando il [p. 142 modifica]pavimento. Le dita di Franco si agitarono con più forza. Il veleno traboccò tutto, schizzò sui mobili, sulla vestaglia di Maura, sulla giacca di Franco. Era un veleno orribile e suggestivo; violaceo: colore del vomito, della vinaccia, dei crepuscoli sporchi. Pareva il frutto di una ubriacatura vendemmiale. Franco ne ebbe una sensazione rovinosa.

Mentre rimestava sempre più energicamente con due dita la gola della donna, sentì che simultaneamente al fiotto di veleno che scendeva di là, un fiotto di odio iroso saliva alla sua gola. Quella donna che rigettava schifosamente il suo attimo di follia tragica, del quale aveva avuto paura, quella donna che aveva chiamato la morte e poi era fuggita davanti ad essa, gli fece orrore. Quel liquido denso e sporco che schizzava ferocemente dappertutto, spargeva in quella stanza la sensazione della viltà, della miseria, della sudiceria, del pessimismo. Quel veleno rifiutato avvelenava col suo colore, col suo rutto, con la sua schiuma orrenda, quella giornata eroica in cui Franco stava per staccarsi dal suo passato per slanciarsi verso idealità e rinascite meravigliose.

Il vero avvelenato fu lui. Fu il suo spirito che cercava di isolarsi nella trasfigurazione di tutti i suoi amori, furono le sue vene assetate di gesti supremi e di battiti eroici, che [p. 143 modifica]sentirono il contagio. Ancora una volta la donna, la piccola donna incosciente e sensuale, aveva tentato di insudiciare l’ora divina dell’uomo che voleva straripare in azione e affascinare la vita con un gesto di bellezza. Ancora una volta l’opaco volume della femminilità cieca, egoista, si gettava col peso di un cadavere davanti al passo dell’uomo proiettato verso la zona della libertà creatrice.

Franco trascinò la sua amante, pallida, stralunata, scarmigliata, giù per le scale, sulla strada, la scaraventò in una vettura, diede al vetturino l’indirizzo del più vicino Ospedale.

La donna aveva un tremito febbrile, le labbra erano tutte sbavate dell’immondo veleno. La gente si fermava, in Via Ludovisi, a osservare quella strana coppia. Franco non le risparmiava le ingiurie.

— Cretina! Idiota! Incosciente! Hai vomitato il tuo veleno di vipera sulla mia idealità! È bestiale, quello che hai fatto! È una cosa insulsa, ipocrita, volgare, bestiale! Bisogna saper morire, non fingere di voler morire!

All’Ospedale operarono la lavanda dello stomaco, con una serie interminabile di bicchieri colmi di un emetico biancastro, che un infermiere grosso e inesorabile come un giustiziere riempiva in un gran catino di ferro [p. 144 modifica]e mesceva energicamente nella gola della donna. Costei lasciava fare, con una contrazione di disgusto, ma con una certa avidità di resuscitante, bevendo, bevendo, bevendo, e rigettando con violenza venata di viola.

Dov’era andato il fascino di Maura? Dove s’era perduta la potenza di quella donna personalissima che un giorno aveva dato a Franco una sensazione di intensità mai conosciuta prima, di quella donna che gli aveva rivelato, nell’amore, l’istinto della forza serena, della sua animalità trionfante, e gli aveva destata nel sangue la coscienza di potere e di sapere amare con l’impeto delle razze primitive? Dov’era più la grande cortigiana fantasiosa che trasformava l’amplesso in una complicatissima opera d’arte?

Dopo tre quarti d’ora, l’emetico cominciò a non avere più tracce violette; Maura allora si abbandonò sulla sedia, mezzo svenuta.

Franco dovè dare al medico, e poi a un questurino, le sue generalità e quelle di Maura. L’interrogatorio di costui finì di colmare il suo disgusto. Quell’uomo che chiedeva senza riguardi il motivo dell’avvelenamento, e si mostrava esperto di questi casi, penetrando con la sua ricerca nell’intimità degli amanti, nei loro rapporti sentimentali, ricostruendo scene di discordia, e facendo una specie di morale erotica col tono [p. 145 modifica]presuntuoso dell’uomo autorizzato, rese folle l’irritazione di Franco.

Quando furono ancora in vettura, egli investì nuovamente la donna con insulti più atroci. A casa, l’obbligò a svestirsi e a mettersi subito a letto. Infatti Maura era assalita da una grossa febbre.

Egli ordinò alla cameriera di non abbandonarla un minuto, poi si ritirò nel suo studio. Fini di riempire la valigia che aspettava su una sedia, spalancata come uno sbadiglio. Cacciò dentro tutto senza guardare. La chiuse, mise la chiave in tasca. Poi si allungò in una poltrona, e si immerse nella visione dell’immediato domani: una grande fascia azzurra con venature rosse, sulla quale la mano di Glorietta tracciava piccoli segni come parole di luce: «Caro, grande, dolce, forte Amico».

Quando furono le sei del pomeriggio, Franco chiamò la cameriera:

— Andate a cercarmi una vettura e portate giù questa valigia.

Passò nella camera di Maura. La febbre era salita.

— Vuoi un medico? — le chiese con dolcezza.

La voce, rauca e fiochissima di Maura, gli fiatò:

— No. Voglio morire.

[p. 146 modifica]Franco le chiuse le labbra con un bacio.

— Taci. Oggi si muore per ben altro!

La baciò di nuovo, le carezzò i capelli bellissimi, sui quali la «ondulation-Marcel» sconvolta aveva dei lampi tragici in quel momento, e le rimboccò le coperte.

— Parti, già? – chiese la donna con ansia.

No, non subito. Esco un momento. Tornerò ancora a salutarti.

Lasciò tutto il suo denaro nella borsa di Maura. Diede ordine alla cameriera di telefonare al medico di casa. Baciò una volta ancora Maura sui capelli. Poi uscì. Non tornò più. Qualche ora dopo, sul malinconico treno di provincia che lo portava a Spoleto, Franco, guardando il sole che moriva all’orizzonte dalla parte dov’era Roma, pensò che quella fase della sua vita era proprio finita, e davanti a quel tramonto violaceo come il veleno di Maura, egli che stava per divenire un uomo nuovo, si lasciò scivolare una lacrima.

*

Alla Signorina Glorietta Crimi
Via Palestro

Ferrara.

Sono giunto stanotte a Spoleto, cara amica, ho dormito in una stalla, su della paglia. È [p. 147 modifica]la prima volta nella mia vita. È il prima passo. L’ho compiuto con un’ebbrezza che voi certo comprendete. Mi sento l’anima di un apostolo. Non so di che cosa, ancora: la patria, la nazione? o l’umanità? o soltanto l’individuo, per la purezza della sua anima? Non indago. Quello che è certo, è che mi sono votato alla rinuncia. Per trasformarsi bisogna rinunciare. E per essere degno di voi, della vostra purezza, della vostra spiritualità affascinante, è necessario trasformarsi completamente. Io vedo ora la vita come un distacco supremo da tutte le pesantezze ingombranti, da tutto ciò che tira in basso, da tutto ciò che impedisce all’anima di svitarsi nell’infinito, nell’azzurro dei mattini immacolati. Incomincio a spogliarmi della mia avidità di carnivoro. Lascio ai rovi del passato la mia presuntuosa animalità, e mi slancio verso l’avvenire, vestito di una fiamma di purissimo martirio.

Vi manderò spesso il mio diario spirituale. Quante cose divine intravedo da questo istante! Arrivederci. Scrivetemi. Vi depongo ai piedi la mia felicità.

Franco.

*

— Arbace Franco.

— Presente.

[p. 148 modifica]— Classe?

— 1890.

— Matricola?

— 16541.

— Distretto?

— Roma.

— Dite il numero.

— 23.

— Mestiere?

— Laureando in lettere.

— Ah siete istruito! Allora ci potrete aiutare in fureria...

— Sì... ma... vede... signor sergente...

— Signor sergente un c......o! Rispondete: volete o non volete stare in fureria?

— Preferirei fare istruzione, come gli altri.

— Fesso! — masticò fra i denti il furiere.

— Va bene; andate pure.

— Dove?

— Giù, in cortile. E aspettate.

— Che cosa?

— Ehi! non tante domande, signor laureando in lettere! Aspettate e basta.

— Va bene.

Quando la recluta Arbace Franco fu uscita, il furiere concluse:

— Tutti così, questi cittadini! Borghesi fino al midollo, non sanno che cos’è la vita militare. Eh, ma l’impareranno presto.

[p. 149 modifica]Il cortile della caserma era pieno di sole. Pareva una gran caldaia dove la luce bolliva come un liquido che non dà schiuma. Il pomeriggio di giugno pesava sul lastricato di sassi come un grosso materasso incandescente che vi si fosse coricato per soffocare qualcuno.

Solo una parete era fasciata da una sottile striscia d’ombra, e in quella striscia le sessanta reclute, vestite la mattina in tela grigia, nuova e rigida come della latta — grigio-verde: abito di luce — si sdraiarono, appoggiando la schiena al muro, e si dedicarono.... ad aspettare.

Chi prese sonno, chi accese un sigaro, chi si pose a chiacchierare sottovoce col compagno, chi a guardare inebetito attorno a sè.

Un caporaletto, che la sapeva lunga, sentenziò:

— Eh, sotto le armi, ragazzi miei, il più del tempo si passa ad aspettare. S’aspetta il superiore, si aspetta l’ordine, s’aspetta il contrordine, s’aspetta il rancio, si aspetta la cinquina, s’aspetta il cambio, s’aspetta la prigione, e così via. È il servizio più importante, per noi di truppa.

Difatti aspettarono quasi tre ore un ordine che non venne. Cioè, venne... l’ordine di tornare in camerata. Questa fu la prima [p. 150 modifica]istruzione delle reclute arrivate al Deposito del 52º Fanteria.

*

L’indomani, Franco fu comandato di corvèe per il rancio.

Con le quattro gavette che gli scampanavano nelle mani, si mise in riga, e partì coi compagni alla volta delle cucine.

Dalle caldaie enormi usciva un fumo accecante. Il grasso del brodo galleggiava lucente alla superficie. Un cuciniere prendeva con le dita i pezzetti di carne, li distribuiva nelle gavette, un altro vi gettava sopra un mescolo e mezzo di brodo. Il liquido colava fuori delle gavette, ungeva, schizzava, stagnava a terra, fra le pietre.

Franco consegnò le due coppie di gavette, un po’ intontito da quelle enormi caldaie fuligginose, da quel brodo grasso, da quelle mani di cucinieri. Quando gliele rimisero in mano, non si muoveva.

— Ehi, cappellone! — gli urlò il caporale di cucina. — Che aspetti: la giunta?

S’avviò coi compagni, che lo consigliarono di chiudere le gavette, perchè non si raffreddasse il rancio. In questa operazione un po’ di brodo gli si versò sui pantaloni.

Mangiò, nel cortile, il suo pezzetto di [p. 151 modifica]carne, ritagliò qualche fettolina di pagnotta pel brodo: tutto ciò gli parve soavemente disgustoso. Sorrise a sè stesso con un pacato compiacimento. Poi pulì bene la gavetta con della mollica di pane (consiglio del caporale), la sciacquò alla fontanella, e l’asciugò accuratamente.

— Quando s’incomincia l’istruzione? — domandò alla sveglia delle due al caporale.

— Domani, forse. —

L’indomani invece fu di corvèe alle latrine. La ramazza che gli consegnarono, era pesantissima nel manico, ma in compenso non aveva quasi più coda. Erano rimasti quattro stecchi consunti e rovinati: con quelli dovette trascinare verso la fogna tutto ciò che si trovava sul pavimento del cesso in comune.

L’operazione durò quasi un’ora, e fu ripresa più volte durante la giornata. Le sue narici trovarono soavemente disgustosa la sensazione. Come conseguenza di quel lavoro, non fu in grado di prendere il secondo rancio: si gettò sul pagliericcio, pallido, con lo stomaco in rivolta, e attese l’ora della libera uscita.

*

E ogni giorno conobbe qualche cosa di nuovo, ogni giorno si avvicinò a un nuovo [p. 152 modifica]aspetto della realtà concreta, alla quale era rimasto fino allora lontano ed ostile.

Si dedicò con slancio, con eroismo paziente, a tutti i lavori più grossolani, a tutte le fatiche più brutali, a tutti i sacrifici più nauseanti. Si sentiva stremare da quello sforzo, ma non indietreggiava davanti ad alcuna brutalità, ad alcuna nausea. Fu a vicenda, spazzino, facchino, sguattero, piantone, carceriere. Vinse ogni giorno una grande battaglia con sè stesso, sulle sue abitudini, sulla sua pigrizia, sulla sua sensibilità di aristocratico.

Certi momenti, si sentì vacillare. Ma bastava che pensasse un istante a Glorietta, perchè tutto il suo coraggio gli tornasse, perchè fosse ripreso da una volontà di sacrificio, di massacro, di inversione. Poi, si divertiva. Era la prima volta che gli accadeva di guardare da vicino le cose, le innumerevoli cose necessarie, che fino allora aveva ignorate o volute ignorare.

Gli aristocratici non conoscono la vita. Sono una minoranza, e quindi limitano a una minoranza anche gli oggetti e le forme del loro mondo. L’istinto della selezione li porta a disconoscere l’esistenza di tutto ciò che riguarda e interessa le masse, per non occuparsi che di quei pochi elementi essenziali e rari di cui si compone la loro sfera d’azione.

Domandate a un aristocratico come si [p. 153 modifica]cucinano i ceci. Ohibò! Egli si vanterà d’ignorare persino che esistono, i ceci. La sua attenzione non può essere attratta che da cinque o sei cose fondamentali, delle quali tutti gli altri uomini possono fare a meno e senza di cui egli non può vivere.

Questo va benone in regime di pace e di concordia, quando nè una guerra nè una rivoluzione minaccino di livellare gli strati sociali. Nessuno pensa allora di obbligare l’aristocratico a occuparsi dei milioni di cose che ignora, ad avvicinarsi con simpatia alla realtà, ad acquistare cognizioni tecniche e pratiche, ad osservare la materia multiforme da vicino.

Ma se la guerra o la rivoluzione intervengono, se l’aristocratico è sbalzato dal soffice divano, dal tepido salotto, dal vezzoso tea-room, alla grande atmosfera delle battaglie, al fango dei trinceramenti, alla fantasiosa barricata, alla bufera di neve e di vento tragico, allora fatalmente il suo istinto selezionatore deve cedere, ed egli deve affrontare con coraggio la realtà, la materia bruta, l’ingranaggio moltitudinario delle cose, questo proletariato pullulante che egli sdegnava di conoscere e che ora minaccia di stritolarlo.

Franco non conosceva la vita. Aveva vissuto troppo esclusivamente in un circolo limitatissimo di ambienti, di persone, di idee, di [p. 154 modifica]sensazioni, d’oggetti. Non aveva amato se non ciò che aveva conosciuto. E non aveva conosciuto che cinque o sei cose in tutto: donne di mondo, uomini di mondo, teatri, mobili costosi, vestiti eleganti, automobili, profumi, ghiottonerie. Ecco tutto il suo mondo. Ecco perchè adesso s’interessava così morbosamente di tutto ciò che era l’opposto, e che gli apriva degli spiragli su tanti orizzonti nuovi e sterminati.

Si dedicò dunque con energia a immergere le mani nella pasta densa e vitale della realtà. Ogni giorno ne conobbe un aspetto, ne scrutò un profilo, ne sondò una profondità. Le forze della materia gli si rivelavano una a una, con una specie di fretta convulsa, come se una mano febbrile strappasse i veli che finora gliele occultavano.

La durezza, il peso, la violenza, l’elasticità, l’energia dinamica furono per lui altrettante folgori vittoriose che spaccarono lo strato molliccio e sensitivo in cui s’era fino allora dondolato.

Cominciò ad avere una curiosità folle per tutto ciò che conteneva qualcuna di queste qualità.

Lo zaino gli parve un piccolo universo buffo, complicato e incasellato, nel quale il corpo umano deponesse i suoi segreti.

Le scarpe chiodate avevano una sagoma [p. 155 modifica]scolpita che imponeva l’ammirazione. Con quelle scarpe si poteva marciare alla conquista del mondo.

Il fucile gli sembrava una materializzazione dell’odio primitivo dell’uomo, una specie di feticcio di cui l’uomo si serviva per esprimere i propri istinti di violenza.

Tutte le cose utili, gagliarde, tagliate a linee decise, tutte le piccole e grandi cose che obbedivano a una volontà ed erano create ad un fine, lo interessavano, lo appassionavano, lo curvavano in una attenzione minuziosa, analitica. Il meccanismo della vita era un alfabeto nuovo per lui, era un motivo di studio intenso e di pronto assimilamento.

Vide che nel mondo esisteva un’anima cosmica che scorreva in tutte le sagome, vitalizzandole e unificandole. Tutte le cose sono legate fra loro, da una unicità di origine e di scopo. L’origine è la volontà di esistere: lo scopo è l’espressione della forza. Esprimersi con la maggiore intensità valorizzando tutti i propri caratteri, manifestando la maggior quantità di energia: ecco il fine di ogni vita, di ogni fiore e di ogni frutto del mondo.

Non è possibile che qualcuno non tenda ad esso: non è possibile che se ne ritragga senza aver fatto tutti gli sforzi per raggiungerlo: coloro che si uccidono, tendono pure a questa espressione di intensità, sostituendo una [p. 156 modifica]sintesi veloce a una lunga dispersione in cui non possono o non sanno affermare la propria energia di vivere.

Franco Arbace, ex-gaudente, ex-intellettuale, ex-aristocratico, uomo che non aveva trovato il suo stile nella vita elegante ed inutile, s’iniziò con ardore di neofita alla nuova religione della Realtà.

A contatto di questo nuovo idolo, sentiva che tutto il suo essere si svegliava, che tutte le sue energie si sgranchivano, che l’anima, i nervi, il sangue e il cervello partecipavano con pienezza, compenetrandosi, a questa esperienza.

Un mattino, in piazza d’armi, ebbe la rivelazione, per la prima volta, dopo tante voluttà laceranti, del suo essere fisico.

Fu quando un ufficiale diede l’attenti!, ed egli s’irrigidì con elasticità, sentendo che tutte le parti del suo corpo assumevano la posizione ordinata, e che l’armonia perfetta scorreva come un massaggio modellatore dai centri nervosi fino agli ultimi tendini che lo congiungevano alla terra.

In quel momento egli sentì il suo corpo, sentì la terra su cui poggiava agilmente, sentì l’atmosfera che gli si plasmava addosso come un fluido afferrante, sentì frescamente la rispondenza di tutto ciò che era lui e [p. 157 modifica]attorno a lui, i fili segreti che lo legavano alla creazione.

Marciando «coperto» dietro al suo compagno, Franco non aveva per orizzonte che le spalle grigie di costui, sulle quali doveva uniformarsi. La sua energia intellettuale, costretta nella tenaglia di un solo concetto — la precisione dei movimenti — si modulò metallicamente come un flauto portato in un ambiente più acustico. Egli sentì le proprie forze di memoria, di assimilazione, di attenzione, come altrettanti muscoli azionati, come dei tasti precisi di un meccanismo ben oleato.

Più tardi, al ritorno dalla piazza d’armi, Franco gustò la grande allegrezza di cantare a piena gola una canzone soldatesca in coro coi compagni, sulla strada polverosa della Stazione, mentre il sole massiccio di giugno cominciava ad affumicare rudemente il suo collo che non ricordava già più la cravatta bianca delle notti mondane.

          E tu biondina capricciosa
          garibaldina - trulla-llà
          tu sei la stella
          di noi soldàa.....

*

Poche settimane d’istruzione da recluta. Poi fu chiamato ad un plotone di [p. 158 modifica]allievi-ufficiali, che iniziò il suo corso sotto la guida di un brillante capitano da Piazza d’Armi, vero rodomonte dal vocione stentoreo, che quando dava un comando faceva impennare di soprassalto il cavallo del colonnello.

Il plotone era destinato a passare alla Scuola di Modena.

In questo periodo Franco scrisse spessissimo a Glorietta, ma lettere brevi, contratte, senza accennare minimamente alla sua evoluzione spirituale, che forse la sua amica non avrebbe potuto capire.

Una mattina il plotone fu adunato nella camerata durante il rancio, e un ufficiale annunziò che chi voleva, poteva recarsi a finire il corso al fronte, in un reggimento mobilitato.

Franco si mise in nota pel primo. Chiese solo che gli si accordassero due giorni di permesso per recarsi a Ferrara. L’ufficiale promise di ottenerglieli.

Ma l’indomani gli dissero che, per ordine superiore, non era possibile accordare alcun permesso, e che, se voleva, poteva ritirare la sua domanda. Non la ritirò.

Dopo tre giorni ebbe ordine di preparare lo zaino. Partirono in cinque, salutati alla stazione da tutti i compagni, frementi d’entusiasmo.

Prima di partire scrisse a Glorietta:

[p. 159 modifica]

Cara amica,

Mi hanno chiesto se volevo rompere la monotonia della vita di caserma, troppo lontana dal fuoco, e andare a finire il mio corso nella zona di combattimento. Ho accettato con gioia. Parto, per la seconda volta volontario, straziato solo dall’impossibilità di rivedervi prima di entrare nel vivo della guerra. Voi mi avreste portato fortuna. Il vostro addio sarebbe stato un auspicio di buona sorte.

Pazienza! Bisogna attendersi tutti i sacrifici, esser pronto a tutte le rinunzie. È questa l’estetica della bella guerra. Mi segua, ora e sempre, il vostro dolcissimo sorriso di sorella. Oh se potessi farvi piangere, un poco, dolcemente! Vi bacio le dita adorandovi.

Franco.


Da Mestre, dove ebbe la prospettiva di fermarsi qualche giorno, potè telegrafarle un indirizzo, e ricevette da lei questo espresso, che baciò con commozione indicibile:

«Amico — poche parole, subito, per dirvi tutta l’angoscia, tutta l’ansia che vorrei vi penetrasse, vi portasse veramente il mio cuore! O amico mio, mio unico amico, voi partite sprigionando tanta luce e tanta [p. 160 modifica]bellezza dal vostro gesto, e io non posso almeno vedervi, stringere la vostra mano fedele, dirvi che la mia anima, questa gelida gemma che ha la fragilità di un fiore, vi seguirà sempre, attraverso le nuove venture, vi sarà accanto come una sorella amorosa. Non avevo preveduto questo; mi avevate promesso che non sareste partito senza venire da me! Lo so, non dipenderà da voi; ma è triste per me, per le mie mani d’amica che volevano tendersi in un gesto affettuoso, in un augurio profondo.

Non potendo fare altro, vi penserò intensamente, e il mio pensiero sarà come una preghiera e vi preparerà il ritorno col mio desiderio.

Quello che avete fatto è bello, è giusto, è santo, è orgoglioso. Oh siete stato divinamente orgoglioso e divinamente egoista! Io vorrei trovare parole di bellezza, di soavità e di amore, per voi, dolce amico mio. Sì, soffro, soffro profondamente: siatene lieto, Franco. E per voi so piangere, castamente.

Vi prego di scrivermi spesso, tutti i giorni, se potete; una parola sola, ma tutti i giorni.

Vi tendo le mani, con tenerezza - e dinanzi a voi solo m’inchino.

Glorietta».


[p. 161 modifica]

*

Cervignano. Nuovo indugio. Fastidio intollerabile. Egli avrebbe voluto percorrere tutta d’un tratto la via saliente dell’azione e del tumulto: avrebbe voluto gettarsi a capofitto, di un solo colpo, nel crogiuolo in cui le forze più disparate, le volontà più diverse, e i cuori più estranei, si mescolavano in una fusione rossiccia, piena di tragico e di fangoso, di sublime e di orrendo.

La prima sensazione di brutalità potente, scapaccione fierissimo alla sua sensibilità di raffinato, la ebbe la sera dell’arrivo a Cervignano.

Stazione tumultuosa, informe, tenebrosissima, fanali a spegnitoio che segnavano a terra un piccolo disco di luce misteriosa e paurosa, binari invisibili con invisibili treni scatenati da ogni parte, grida, comandi afoni, urto di vagoni, si salvi chi può, attenzione! porcoduncane! rumore di gavette danzanti, sugli zaini, in riga; avanti! nel buio, nel buio, nel buio dietro un sergente con la lanterna scossa al ritmo dei passi, avanti nella notte, per quattro, allineati, senza parlare, inciampando, urtando, sentendosi soli, sentendosi perduti, lontani dalla vita, affogati nella notte come in una enorme fogna nauseabonda, soli, senza ricordi, senza nome, senza volto.

[p. 162 modifica]Dormì in un’altra stalla, un sonno grosso e pieno di incubi. L’alba lo destò, ponendogli cinque dita fredde sulla fronte. Si alzò, stiracchiandosi. Uscì nella campagna friulana, nuda, sterminata, pallidissima.

Un sole sporco, sbavato da filacciature di nuvole malate, si arrampicava faticosamente sul mondo. Un sole di guerra, salutato da un rombo sordo di artiglierie, forze misteriose che affermavano il loro dominio sulla natura.

La natura infreddolita, il cielo pervertito, il sole impoverito, dissero a Franco che la guerra era ormai padrona del mondo, che la serenità, la primavera, la pace, la felicità erano tramontate per sempre. I mattini di purezza cristallina, le verginità perlacee dell’alba, le delicatezze smerlettate dei canti di usignuolo su ramoscelli immobili per lo stupore, le sfumature infantili dei cieli lirici rimanti con le bianche rinascite delle anime, erano cose perdute, lontane, finite da dimenticarsi per sempre.

Ora il sole stesso si copriva di un gagliardo cimiero d’acciaio, dalla fosca visiera. Grigio e metallico erano in ogni cosa: nell’aria, nella terra, negli uomini, nei colori, nei rumori, nei sentimenti, nelle parole. Tutto doveva essere grigio e metallico, se voleva vivere. Il resto non poteva esistere, non aveva posto nel mondo.

[p. 163 modifica]Franco comprese. Ebbe un lungo brivido, da eroe solitario. Accettò la nuova vita come un allegro martirio. Si sentì capace di affrontarla. Avviluppato nel suo mantello, pallido di volontà esasperata, fece alcuni passi nel mattino. Un soldato con un secchio di caffè si fermò davanti alla porta del dormitorio.

– Sveglia! Caffè, ragazzi! — gridò giovialmente.

Franco bevve avidamente la sua tazza di liquido caldo, e si sentì scorrere nel sangue un’onda di generoso ottimismo virile.

*

Come allievo ufficiale, era stato aggregato alla prima compagnia del terzo battaglione, e gli avevano dato il comando di una squadra di testa. Aveva con sè una ventina di uomini, alcuni dei quali già veterani della trincea, essendovi stati e ristati fra i brevissimi turni di riposo già tre o quattro volte: quattro mesi di quel tipo di guerra, di cui ogni minuto può essere l’ultimo e ogni giornata costituisce una somma di esperienze preziose che maturano rapidamente il soldato e quasi lo rivelano a sè stesso, son più che sufficienti a fare il veterano.

Eran partiti da Cervignano subito dopo il [p. 164 modifica]primo rancio, in autocarro, su per la strada di Villesse, e, dopo aver attraversato Gradisca, si dirigevano per Farra e S. Lorenzo, verso Lucinicco. I canti delle maschie voci arrocate dal sole e dalla polvere, sulla bianca via furlana spingentesi dritta e decisa in direzione dell’Isonzo senza mai rasentarlo come chi voglia evitare un desiderato e temutissimo incontro, frustavano le siepi in quel pomeriggio d’Ottobre quasi a svegliarne la vita incupita dal rombo lontano e vicino del cannone. Sembrava, quel rombo, un richiamo, una voce profondata nel sottosuolo, che invocasse quelle giovinezze come un cibo di drago affamato, e l’impeto dei canti sottolineati dal ritmo dei motori, accompagnamento orchestrale ininterrotto, pareva rispondere con una sfidante protesta al minaccioso richiamo del mostro. Alla sensibilità di Franco quegli echi di rombi inseguentisi nelle convalli, lungo l’azzurro fiume invisibile, fino alla riva intravista del mare, assumevano figure e voci e movimenti di miti mostruosi, di elementi antropomorfici in rissa tra loro, qualcosa come la insurrezione delle forze brute scatenatesi a parteggiar per gli uomini, da una parte e dall’altra dei due fronti, in una rissa paurosa di montagne contro fiumi, di mari contro montagne, e di caverne spalancate una contro l’altra come [p. 165 modifica]bocche di belve apocalittiche, nel ringhio del balzo sanguinoso.

Tutto questo, se impennava la sua fantasia, non impressionava i suoi nervi che dagli urti di rumori, dalle scosse esplodenti, dai colpi improvvisi dirompenti qua e là sulla linea dell’orizzonte, ricevevano continue frustate dalla realtà, quasi fosse una domatrice impegnata a spremere tutte le risorse della sua animalità aggressiva. Tutto il suo essere vibrava sotto i colpi di quella sinfonia selvaggia ed aizzante. Egli si andava di minuto in minuto acclimatando a quelle sinfonie frananti da crepacci di cielo infernale, e, sebbene i nervi non si possano contenere dal sussulto che sorprende qualunque tempra d’uomo in presenza al fragore dell’uragano, egli faceva seguire il sussulto da un sorriso che voleva dire la serenità intima con cui accoglieva la sensazione, che, sempre più, per il suo gusto di artista, diveniva un elemento di godimento immaginativo, lievito per ulteriori galoppate della fantasia. Gli pareva di percorrere in volata frenetica, seduto alla brava sul davanti dell’autocarro, alla sinistra del volantista, un pezzo della «Commedia», un autentico paesaggio dantesco, in cui la dolcezza del lirismo parlato veniva sopraffatta dalla rappresentazione plastica di forze ed elementi in rissa, nella bolgia vivente ed [p. 166 modifica]esplosiva dove ci si poteva anche pensare ombre senza rilievo, così mezzo rapite dal crepuscolo imminente, sfumate dalla polvere, scorporizzate dalla rombante atmosfera dei motori e delle artiglierie echeggianti. Riusciva a spersonalizzarsi a tal punto da restare impassibile a guardare l’effetto di una cannonata piombata sul margine della strada dove gli autocarri procedevano in fila, mentre volantisti e soldati si buttavano a destra, contro la roccia coperta, giù dall’autocarro sul quale egli restava ridendo, come immobilizzato al sedile. Poi, a un dato punto, in cui la strada s’allargava in un vasto piazzale per iniziare poi la breve salita del Podgora, venne l’ordine di scendere tutti dai camions, che diedero di volta e ripartirono verso la base. S’iniziò la marcia a piedi, su due file ai margini della strada.

Vicino al tramonto, la sfilata degli uomini sorpassava altre sfilate di muli stracarichi di provvigioni o d’acqua o di «cavalli di frisia», tesi con ogni tendine nello sforzo di raggiungere la meta sotto la traiettoria della fucileria, inconsci ma decisi strumenti della battaglia, lucidi di sudore e di volontà, condotti dai mulattieri a piedi, appesi alle briglie con disperata coscienza del pericolo, gli occhi sbarrati in cui l’immagine della morte vagolante nei pressi si specchiava con [p. 167 modifica]la lucidità dell’imminenza. Quegli occhi, non si sa bene se dilatati dal terrore o dalla volontà di superarlo, ebbero per Franco tutta l’eloquenza della «zona della morte»: mai più vide, poi, dipinta con tanta espressione, neppur sui volti dei morenti, l’immagine riassuntiva di quella linea che separa l’orbita della vita da quella della morte. A un certo punto la sensazione si precisò sempre più con l’ondata acre che invase le sue narici e della quale non seppe in un primo tempo rendersi conto: era un odore di decomposizione, di avaria disintegrante, di sfacelo degli elementi vitali. Subito dopo, Franco, guardandosi intorno, osservò cadaveri di soldati al margine della strada, riconobbe stinchi dissolventisi, crani staccati dal busto, busti seminudi e privi degli arti, e, qua e là, cadaveri di muli sventrati e spolpati dagli animali da preda. Tutto ciò costituiva un’atmosfera irrespirabile segnata da un tanfo di cimitero scoperchiato, come se la morte passeggiando su quei campi avesse aperto il suo mantello e lanciate al vento le esalazioni del suo putrefacente marciume.

Quest’orribile sensazione olfattiva fu la sola che colpì la sua sensibilità nel senso totalmente repulsivo.

Il suo primo entrare nel «ring del fuoco» fu invece una festa di sensi rivoluzionati, [p. 168 modifica]un’orgia di uragani artificiali che invase la fantasia e la travolse con sè in facile baldoria. Gli parve di trovarsi bene, con tutti i brividi del pericolo, in quel «piedigrotta» folleggiante di frenesie policrome, sinfonicamente strumentata. A un certo punto, il grande sabba di luci e rumori accavallantisi gli apparve come irresistibile splendore. La sera era scesa, e qualcosa di pazzamente lunare accorreva a inseguirla. Tutto l’orizzonte avanti a sè pareva convergere in un gran piazzale aereo, quasi un immenso dinamico lago di luce, abbagliato dal convergere di cento stazioni fotoelettriche e dal guizzare di mille razzi bianchi azzurri verdi rossi, svelti e maligni come diavoletti che sporgessero un istante le loro testine incandescenti per curiosare nel campo nemico, e poi vi cadessero dentro spegnendosi, con un guizzo rapido, un dopo l’altro, interminabili, inesauribili. E il lago di luce bianca era squartato ogni attimo da soli rossi esplodenti come rossi d’uovo miniati in una grande anfora di latte. Tutto ciò accompagnava l’orchestra tambureggiante dei rumori, voci dei draghi infuriati, voci delle caverne arroventate vomitanti fuoco, pietre, ferraglie, l’acqua rossa dell’Isonzo, in un furioso crescendo fatto dell’innumere universalità atomica, delle moltitudini di elementi concreti che [p. 169 modifica]parevano voler attingere il diapason del supremo scatenamento.

Quel centro di vita-morte fluttuante fra terra e cielo in mezzo alle ombre notturne che parevano circondarlo come un’anfiteatro di spettacoli al buio circonda il «ring» illuminato nelle notti sportive, diede a Franco la sensazione di una gran festa magica, e gli fece pensare a una gran sala da ballo per Valchirie ed Elfi, crivellata di luci danzanti, a un’adunata di spiriti pazzi sulla vetta ubriaca di luna del Kilimanjaro, polo bianco dell’Africa, a una gara-delirio di skjatori sulla bocca di un vulcano polare: tutto insomma gli parve fuorchè una notte di guerra, perchè se quella era la guerra (e non quel livido pantano sinistro e mortifero, senza luci e senza colori, che gli avevano descritto) egli la trovava prodigiosa di bellezza inedita.

A un tratto s’accorse che l’ufficiale che gli camminava davanti, tendeva la mano sulla fronte, sforzandosi di vedere qualcosa, sulla destra. Gli domandò che cosa guardasse. C’era, anche se invisibile, c’era il grande, maestoso mostruoso fiume rosso, alimentatore del mare con sangue di soldati morti per la Patria, insaziabile emorragia serpeggiante fra le colline del Carso come un cobra fra cuscini voluttuosi; c’era, e se ne avvertiva [p. 170 modifica]la presenza, più che dalla voce del suo corso, dal gran silenzio che gli si faceva intorno, che voleva significar la vicinanza del nemico, la mancanza di protezione naturale, la presenza di mille pericoli e insidie a ogni passo: i soldati chiamavano quella, la «zona minata».

Venne l’ordine di poggiare a sinistra staccandosi dalle immediate vicinanze del fiume per rasentare una collinetta, dietro la quale la truppa si sarebbe accampata. Ancora due o tre kilometri e poi si giunse al luogo designato: S. Lorenzo di Mossa. Quivi la truppa fu disposta a terra per passare la notte in angolo morto, e al mattino proseguire la marcia verso le posizioni in linea, per il «cambio» alle truppe che da quasi due mesi aspettavano di andare a riposo. Ma la notte non era tranquilla. Evidentemente si doveva preparare qualche cosa, da una parte o dall’altra, perchè quel che si chiamò poi «bombardamento tambureggiante», cioè senza un attimo d’intervallo, ululò tutta la notte sulla testa degli accampati, mostrando in lontananza le fiamme delle nostre bocche da fuoco che cercavano di guastare le difese nemiche, e gli scoppi paonazzi delle risposte avversarie, che cercavano paralizzare quel fuoco: il duello che s’incrociava a mezz’aria sul capo dei fanti spettatori, era quello di [p. 171 modifica]due giganti lontani che si scaraventavano a vicenda macigni di fuoco urlandosi insolenze mortali.

L’indomani all’alba ripresero la marcia verso Lucinico, e sulla strada li colpì per la prima volta un rumore nuovo: come l’andare di un treno in salita che faticosamente cercasse di aprirsi un cammino. «Che sarà mai questo?» pensava Franco. La strada fatta evidentemente dal nostro Genio, aveva tutt’attorno boschi distrutti dalle battaglie passate, e le calvizie dei bassi colli avrebbe lasciato la strada quasi allo scoperto, se non si fosse provveduto a coprirla agli sguardi nemici con una siepe di stuoie a cortina che rendeva invisibile ogni movimento dei nostri. A una svolta, Franco ebbe la spiegazione di quell’ansare asmatico e ossessionante che da alcuni minuti lo teneva attento: lungo la siepe di stuoie, procedevano con pesante lentezza verso la linea tre cannoni da 152, rimorchiati da una formidabile trattrice a pattini, ogni passo della quale s’imprimeva sul suolo col ritmo meccanico di un mostro d’acciaio dalle zampe elefantiache. Così i tre cannoni non visti dal nemico, avanzavano, avanzavano, lenti, pesanti, minacciosi, pronti a riabilitare in ruinosa musica di morte quel lento faticoso acciabattìo di pachidermi in salita.

[p. 172 modifica]La giornata era calda, e si procedeva con qualche lentezza, sulle solite due file ai margini della strada, cantando quando si poteva, masticando quel poco che restava nel tascapane, residui della vigilia mescolati alle cartucce sciolte, alle cartoline in franchigia, a mozziconi di sigari, a una immagine della Beata Vergine del Carmine, e all’ultima lettera di Mamma: «Torna presto, figlio mio, che tua Madre tiene ancora poca vita e ti vuol rivedere prima di andarsene, figlio caro del cuore di Mamma.....»

Già dall’alba il bombardamento s’era come assopito per dar luogo a quel rilassamento che segue una notte di orgia, mentre le mitragliatrici, a distanza, continuavano la conversazione col nemico, sotto voce, a spruzzi, a frasi smozzicate, quasi a sbadiglio, tanto per non dormire. Ora, nella stanca mattina, il procedere verso la prima linea, lasciati indietro i cannoni dalle zampe pattinate e mentre la fila dei muli procedeva più fitta e serrata in mezzo alla strada, in un sollevarsi di polvere rossastra quasi a segnalar la vicinanza carsica, aveva un ritmo di fatica che confinava con l’asma.

Intanto veniva giù della truppa di prima linea, che aveva avuto il cambio durante la notte. Gli ufficiali di testa si scambiarono alcune parole: era il 3º battaglione del [p. 173 modifica]reggimento che da due mesi teneva la sinistra del Podgora: c’erano dei malati e una leggera epidemia dissenterica. Mentre due Compagnie degli altri battaglioni si distendevano nel settore sgombrato, Franco guardava una a una le facce di quei veterani: eran facce devastate da solchi profondi come unghiate da cui calava una pelle rinsecchita con certe barbe senza nulla di spontaneo nel loro sviluppo uniforme, torno torno al viso, gli occhi stanchi e cisposi per il troppo vegliare e il continuo allarme, la divisa del fante in pieno disordine resa di un colore indefinibile per il continuo contatto con la terra e la forzata incuria, gli scarponi blindati di fango muratosi sotto e sopra nella prolungata infognatura, i galloni degli ufficiali sostituiti da stellette nascoste nel rovescio della manica, gli elmetti ammaccati, talvolta bucati da pallottole intelligenti, il combattente che usciva dalla trincea poteva ben somigliare all’anacoreta selvicola, con dipinta negli occhi quella tal durezza di spirito e quella tal rudezza di movimenti a cui abitua la persistente presenza del pericolo e la necessità di difendersi uccidendo, fuor da ogni transazione umana. Portavano dipinti sul volto i loro feroci due mesi di trincea, nei quali Franco si specchiava pensando: tra qualche settimana sarò anch’io così; e sorridendo fra sè [p. 174 modifica]sbirciava quei suoi compagni di battaglione che avevan mostrato abitudini supercittadine ve ambizioni mondane, come quella di radersi ogni mattina e di curarsi le unghie come se dovessero rendere conto in qualunque momento all’amante lontana o alla fidanzata esigente che pretende nell’uomo mani femminili; e commentava: «Le perderete, fra poco, vedrete che non tarderete a perderle». Egli le conosceva troppo berne, quelle stesse abitudini, che gli erano state care e gli eran sembrate indispensabili in momenti di esasperata vita elegante: oggi sentiva di poterne fare a meno con la massima facilità; non solo, ma concepiva quasi la voluttà di liberarsi da ogni infarinatura troppo civile, cittadina e mondana, per crearsi una scorza di rude primitività aderente alla nuova vita, intonata all’atmosfera e al compito impostosi, dandosi tutto ed intero al sacrificio, con la rinuncia totale di ogni vana civetteria. Voleva toccare il fondo della brutalizzazione, per non rimpiangere nulla di ciò che aveva lasciato, per ritrovare poi la piena gioia del ritorno, il premio per il lungo sacrificio.

Così egli intendeva spiritualizzare la missione impostasi, mentre il suo bisogno di concretezza lo portava sempre più verso una realtà categorica in cui incastrare la sua sensibilità, rivestendola di bruschi urti, di [p. 175 modifica]contatti brutali, di sgradite sorprese, minuto per minuto, come coloro che indossano un cilicio, e quanto più severo risulta tanto meglio ne gustano il sacrificio. Ammirando il fante «scalcinato» che scendeva dalla prima linea simile al missionario che torna dal deserto, tutta la sua volontà di dedizione si ergeva in uno sforzo di superare quel che la massa poteva dare e dava perchè costretta: egli vi aggiungeva l’accensione della sua anima, che attraverso una prova così formidabile si avviava a una totale rinnovazione, a rifarsi una linea, una nobiltà, una virilità inedita, identificando la sua personalità umana con le Cause gloriose che si chiamano Grandezza della Patria, elevazione di Popolo, Gloria militare, spirito di Razza, sete d’Impero. Sentiva nascere in sè, oltre al temperamento che fino allora aveva predominato come forza istintiva, il carattere: vale a dire quel complesso di elementi attivi e ideali che costituiscono la consapevolezza di superiori doveri in una personalità umana d’elezione: la coscienza dei doveri della parte verso il tutto, della subordinazione dell’individuo e dei suoi interessi a interessi e ad una morale superiore che nel caso attuale si chiamava Nazione, ed era rappresentata simbolicamente dalla parola «Patria» riassumente i concetti di territorio, di famiglia, di proprietà, di libertà, [p. 176 modifica]di coltura, di tradizione, di avvenire, di religione, di continuità della specie, di «tante cose care» da difendere fino all’ultima goccia di sangue.

Questi pensieri gli agitavano la mente, mentre con passo di baldanza, accompagnando con un mormorìo soffocato il coro ridotto a bassa voce della truppa che ormai s’appressava alla mèta, egli procedeva verso l’aspettante trincea. A una svolta del cammino, c’era una larga pozza d’acqua, di una recente pioggia: la sua attenzione fu richiamata dalla presenza del cadavere di un soldato austriaco con la testa e le braccia immerse nell’acqua, mentre le gambe e parte del busto erano all’asciutto.

— Perchè — domandò al tenente, che aveva inciampato nelle gambe di quel cadavere — non l’hanno ancora sepolto?

— Eh, caro mio — gli rispose ironico il tenente — non c’è mica il tempo di far complimenti, qui!

Un soldato, subito dopo, per non inciamparvi come il tenente, diede un tremendo calcio a quel nemico morto e lo scaraventò tutto nella pozzanghera. La marcia proseguiva con un ritmo più accelerato. Un soldato che marciava al fianco di Franco, e gli faceva un poco da attendente, gli chiese all’improvviso:

[p. 177 modifica]— Non hai bisogno di niente?

— Veramente, sì — fece Franco, quasi richiamato a una realtà che le sue riflessioni avevano assopita — ho un po’ di sete.

— Dammi allora la borraccia che te la riempio — propose il soldato.

Franco si tolse dal collo la borraccia e la passò al soldato: questi s’allontanò di corsa e dopo qualche minuto lo raggiunse con la borraccia piena, a cui Franco accostò le labbra avide, ne bevve metà, poi la richiuse rinfilandosela al collo. Fu dato l’alt. Erano ormai a 500 metri dal nemico. Avrebbero proseguito al tramonto per non destare allarme.

C’erano tiri, tutt’attorno alla colonna. Un aeroplano in esplorazione, con la croce nera sotto l’ala, aveva segnalato all’artiglieria austriaca l’avanzata della colonna. Qualche palletta di shrapnel aveva avuto il suo successo nelle nostre file, ferendo tre o quattro fanti: ciò che non aveva rallentato nè la marcia nè l’onda delle canzoni, che anzi si faceva più calda e voluminosa, con inserimento di parole gli sfida al nemico. Ora che stavan fermi, proprio nel punto dove si scaricavano i muli e si caricavano le spalle degli uomini, comandati a condividere con quel compagno d’armi la fatica e il pericolo, solo qualche leggero spruzzo di mitragliatrice li raggiungeva, passando alto sulle loro teste e solo [p. 178 modifica]ferendo di quando in quando i più alti e irrequieti fra i muli, che si dibattevano pietosamente in cerca d’aiuto, ma dovevano essere abbandonati se il primo soccorso non bastava.

Franco guardava attentamente quel nobile animale della guerra, a cui tanto deve il nostro Esercito per il contributo che portò alla Vittoria, e gli parve di vedere in lui il simbolo della guerra di posizione: compagno del fante nei pericoli, nelle fatiche, nei disagi della trincea e dei camminamenti, sempre pronto al lavoro, col basto a cui mai bastava il carico, ed eran montagne di materiale, calderoni di zuppa, cavalli di frisia, elmetti e maschere, casse di bombe e proiettili, coperte da campo, sacchetti a terra, e la posta dei combattenti, e i pacchi di casa, e le mille cose indispensabili alla difesa e all’offesa, utili al corpo, preziose allo spirito, quelle lettere di Mamma, quel fiore secco della fidanzata, quelle parole di tenerezza, di nostalgia, di richiamo, di speranza e di angoscia, a volte incoraggianti, più spesso demoralizzanti, anche se l’immagine della Vergine Maria correva diretta nella tasca della giubba sul cuore, perchè le lagrime di Mamma che spandevano e decoloravano l’inchiostro sul foglio di carta, volevano dire la disperazione di un cuore che non si rassegna e non sa incitare, ma spera conforto solo dal ritorno del figlio: [p. 179 modifica]— tutte con sè, sulla sua schiena paziente e volenterosa, queste cose il mulo portava nel suo cammino dal carreggio alla trincea, sotto la sferza del sole, sotto la pioggia spietata, nel fango e nella polvere, sudando e gelando, mentre la folgore del cielo si mescolava a quelle delle artiglierie, fatto segno all’ira di Dio e degli uomini, combattendo con gli uomini contro un nemico ignoto che non gli aveva fatto nulla di male, ma consapevole, oh senza alcun dubbio! consapevole che quel nemico bisognava vincere e disperdere, per la salvezza della terra dov’era nato e dove forse sarebbe morto senza averla vista vittoriosa.

Quella sua prima impressione, sincerissima, s’andrà poi approfondendo fino a ispirargli un’antipatia decisa verso l’inutile cavallo, lussuoso arnese di pace, che non collaborò alla guerra, mentre l’affetto per «l’animale di trincea», per il mulo eroico e paziente, si sviluppò via via fino a divenire un vero e proprio «cameratismo» di commilitone.

Quando il sole fu caduto all’orizzonte, venne l’ordine di proseguir verso la posizione. Gli ufficiali raccomandarono il silenzio più assoluto. Il settore si era fatto calmo e non dava segno di allarme: ma c’era chi diceva che bisognava temere più da quelle calme [p. 180 modifica]ingannatrici, che non dai tiri continuati. Percorsero sveltamente, per tre camminamenti paralleli, in fila indiana, il mezzo chilometro che li separava dalla prima linea. Nel silenzio, qualche colpo di tosse involontario, seguito da mozziconi di «moccoli» toscani o romani, furono le uniche fratture che gli ufficiali repressero con qualche cazzotto nelle reni ai rumorosi.

Nelle prime ombre della sera, i fanti si diedero il cambio nella trincea, plotone per plotone, fra strette di mano silenziose, qualche «finalmente», qualche «buon riposo» e qualche «buona fortuna» sottovoce, tutto a schiena curva, mentre elmetti e fucili talvolta incontravansi con un leggero tintinnìo metallico che suscitava un «porco can!», un «te pòssino!», un «boja d’un mond lêder», e poi, fra urti di corpi e di tascapani e di giberne che la strettura dello spazio rendeva inevitabili, i vecchi inquilini sfilaron via con meno fretta dei nuovi che arrivavano con l’ansia della nuova abitazione, e disparvero nella notte, ombre inghiottite dall’ombra, fra un vago brontolio di scarpe chiodate sui sassi del Carso.

In quel momento, il soldato che sulla strada gli aveva riempito d’acqua la borraccia, gli si avvicinò toccandolo col gomito.

— Hai ancora sete?

[p. 181 modifica]Franco lo guardò di scorcio, e gli parve che avesse un sorrisino ironico all’angolo delle labbra.

— No, perchè?

— Volevo dirti... è meglio buttar via l’acqua rimasta nella borraccia...

— Perchè mai? L’acqua qui è preziosa.

Il soldatino esitava.

— Perchè dunque? Parla.

— Sai dove l’ho presa quell’acqua là?

— Io no.

— In quei fosso dove giaceva il cadavere dell’austriaco.

Franco fece una smorfia di disgusto, poi allungò un cazzotto nei fianco al soldato.

— Che schifo!

— Preferivi morir di sete?!

Franco cercò distrarsi collocando il suo «91» nella feritoia, mentre la sensazione di disgusto fu presto cancellata dalia parole di un fante sconosciuto che gli aveva brontolato all’orecchio: «Il nemico è lì, a quaranta metri». Poi si guardò attorno, con interesse. Silenzio su tutta la linea; come se le stelle che ammiccavano dall’alto, fosforescenti, vegliassero sul sonno pacifico degli uomini stanchi della giornata di azione, abbracciati alla terra materna con fiducia d’amore. E non gli parve affatto che, fuori di quel budello di terra che d’ora in poi avrebbe costituito [p. 182 modifica]tutta la sua casa, la morte vegliasse. Ebbe, come non mai, in quel budello cieco su cui lo stellato trepidava a piombo, la sensazione dell’infinito e dell’immensità di Dio.

*

                Amica mia,

Vi scrivo dalle trincee della prima linea. Non aggiungo alcun commento. Voi capite benissimo come io mi trovi, senza che ve lo descriva. Appena giunto, sono stato accolto da un bombardamento infernale. È stato il rumoroso saluto della guerra. D’altronde non mi aspettavo meno di così. È degno di me e della mia volontà di energia.

In questa prima lettera vi darò una volta tanto ragguaglio sulla mia nuova vita, per evitarvi poi la noia stereotipa dei racconti di guerra. Sappiate dunque che passo i miei giorni e le mie notti in un piccolo buco fetido e melmoso, lasciandomi rassegnatamente imbrattare tutta la persona. Di solito in Italia si parla di opere di fortificazione, camminamenti, caverne, ricoveri, doline. Qui non è nulla di tutto ciò. Un canaluccio per acque di scolo, con un rialzo di sassi davanti, e basta. A questo si dà il nome enfatico di trincea. Ma l’allegria non manca. Come affratella il pericolo! Come il disagio rende virili, [p. 183 modifica]agili, astuti! Mi sembra già di essere un pellirossa o un bisonte.

Comincio ad abituarmi a quella che si chiama «vita animale». Non ho mai fatto tanti chilometri in terreno scosceso, non ho mai dormito così duramente, non mi sono mai stancato così brutalmente. Ma è questa la vita che mi occorreva; «la vie au grand air»: vento, sole, tempesta, lampi guizzanti, fango fino alle cosce, fatica, sudore, pericolo, lotta...».

Seguitava raccontando la prima «pattuglia» fatta fuori dei reticolati, con tre compagni, nella notte insidiosa, e finiva:

«In questi momenti di imposizione brutale, lo spiritualismo mi sembra una vigliaccheria, un rifugio di codardi che disprezzano ciò che non è facile conquistare. Sento, Glorietta, che voi ed io siamo stati vittime di una grossolana illusione, finora. Sento che la nostra concezione della vita e dell’amore è sostanzialmente sbagliata, perchè nè io nè voi, fino ad oggi, abbiamo conosciuto la vita e l’amore. Io, forse mi sto iniziando ad un’esperienza che mi darà la soluzione dell’enigma. Ma voi, che potete saperne voi, chiusa come siete nella vostra anima pudicissima, nel vostro isolamento, nella vostra funebre città di provincia? Sono sicuro che noi subiamo l’ambiente, e che l’esperienza ci trasforma, in [p. 184 modifica]qualunque caso, facendoci amare ciò che si detestava, e viceversa. Amica, provatevi ad immergervi nei flutti amari e turbolenti della vita, provate una qualsiasi navigazione nella realtà; così solo potrete realmente approdare alle rive perlacee dell’Infinito. Ma come parlare di al-di-là, finchè si è così puerilmente al-di-qua?».

*

Per lui la guerra fu lo snebbiamento, la rivelazione.

La vita gli apparve come una «marcia»: un ritmo di pulsazioni proiettate in avanti, senza pausa, inesorabilmente. La staticità dei suoi anni passati gli sembrò, di fronte alla dinamica febbrile di quei giorni, una cosa paradossale, incredibile. Non poteva credere di aver tenuto per tanto tempo le proprie energie in un silenzio così vigliacco, in una immobilità così inattiva, in cui non era stato nè giovane nè bello nè forte nè vittorioso mai, in cui si era lasciato sopraffare da cento piccole fughe codarde, come un bimbo senza muscoli e senza volontà.

La guerra — disciplina, energia, pericolo, organizzazione — gli sguainava la sua forza con delle frustate terribili in cui la carne impreparata ululava di terrore e di gioia [p. 185 modifica]insieme. C’erano delle cadute brusche, dei capitomboli strazianti del suo essere poco allenato: ma si rialzava, riprendeva la marcia, spirito contuso e felice, verso nuovi ostacoli, nuove trincee morali da superare.

La guerra — esplosione di forze simultanee, ritmo velocizzato impresso alla natura dall’artificio dell’odio — faceva scaturire intorno a Franco miracoli d’amore, di bellezza, di energia, di primitiva salute. Egli ne era preso, travolto, sconvolto. Ammirava questi miracoli e si sentiva trascinato a superarli. Sentiva che le forze dello spirito non sono nulla, se non si traducono nella cifra gagliarda della materia innumerevole; e che la materia non trova la sua formula dinamica se non balza sulle ali issatrici dello spirito. Sentiva che l’odio e l’amore sono delle forze solamente se possono scagliare da lunghe braccia d’acciaio e da bocche infuocate parole di distruzione creatrice.

L’inno della Realtà gli cantò in quei giorni un tumultuoso rivoluzionario orgiastico invito alla violenza, alla conquista, alla metallicità che schianta e travolge. Gli destò la belva nel suo sangue di cittadino civilissimo e intellettuale. Da quel momento in poi il suo pensiero, le sue parole e i suoi gesti furono saturati esclusivamente di questa nuova [p. 186 modifica]tendenza: la tendenza alla violenza, alla conquista, alla metallicità.

Le sue lettere a Glorietta ne furono piene. Erano torrenti di sentimenti e di pensieri, caldi, travolgenti, che volevano rompere ad ogni costo l’austera corazza di trasfigurazione che vestiva la frigidissima vergine.

Ma Glorietta non capiva, non sentiva. Sepolta nell’antichissima casa materna, in cui tutto era statico, freddo, sonnolento, conventuale, non vedeva nelle frasi frementi di vita di Franco, che delle «astrazioni», dei ragionamenti senza appiglio nella sua realtà. I suoi occhi erano tuttora chiusi, i suoi sensi dormivano, il suo cervello solo vegliava, ma come un guardiano severo e inflessibile.

Difatti, come poteva capire Glorietta ciò che era avvenuto nel suo amico? Quale differenza tra l’atmosfera elettrica del fronte, e quella glaciale, ermetica di Ferrara, e delle sue stanze di fanciulla pallidissima!

*

«Ah io non sono un angelo — le scriveva Franco — e amo troppo la mostruosa realtà, per concepire la rinuncia. Mostruosa realtà, bellissima sirena carica di gioielli, vividi e carnosi come baci! Essa è noi. Strana cosa questo disprezzo per la parte più tangibile del nostro essere, che non inganna come il sogno, [p. 187 modifica]che ci dà con semplicità delle angosce autentiche e degli autentici godimenti! Quando smetteremo di mentire a noi stessi, e di lasciarci illudere da quelle tali atmosfere superiori, che sono unicamente il rifugio degli sconfitti di questa? La realtà contiene anche il cielo, come la carne contiene lo spirito. La realtà è il cristallo sapiente e colorato, attraverso il quale si può aver idea del fluido che racchiude. Io non posso più condividere, amica, i vostri sconfinamenti, le vostre evaporazioni, attraverso le quali purtroppo devo leggere talvolta la paura di vivere, una paura da solitari impotenti».

Ed ella rispondeva:

«No, caro amico lontano, la realtà non è che volgarità. Ed io la fugge con orrore. Nessun desiderio in me, se non di ascoltare. Ma che posso farci se tutto in me è ostile ad una forma di vita concreta e sensuale? Bisognerebbe che io sapessi morire, ecco. Sarebbe così bello sfaldarsi accuratamente di queste pesantissime vesti goffe e impacciose, e vibrare lietamente con la mia «unica» anima liberata!».

*

Era stata veramente infernale quella sua prima notte di trincea che si era iniziata così tranquilla e bonacciona. Anche la guerra fa [p. 188 modifica]spesso come il mare: sotto il velo di una bonaccia sonnolenta, cova l’uragano. Il nemico, che aveva saputo dalle segnalazioni aeree la faccenda del «cambio», aveva atteso che le truppe smontanti si fossero allontanate per far la sorpresa ai nuovi, che credeva dei «novellini», mentre eran quasi tutti vecchi lupi di trincea. A mezzanotte, dopo alcune ore di calma assoluta, all’improvviso sferrò un bombardamento serrato, asfissiante, di quelli che tolgono il fiato e impediscono di sentire gli ordini per il fracasso ininterrotto, senza interpunzione, che si scaraventa su tutta la linea. Questa si accese di luci e riverberi come nella notte precedente che gli aveva rivelato la battaglia come una sagra di divinità pagane, e le luci erano proiettate sulla nostra difesa per paralizzarne i movimenti.

— Allegri! — gridò qualcuno. — Si lavora a giorno! Abbiamo l’illuminazione gratis.

E il lavoro incominciò seriamente, allo scoperto, con tutto l’impeto di gente fresca che viene dal riposo e che conosce il mestiere. Le mitragliatrici furono piazzate nelle feritoie di punta, agli angoli più avanzati del settore. C’era un piccolo capitano, comandante della compagnia mitraglieri, che andava avanti e indietro lungo tutta la distesa del battaglione, dando ordini ai suoi uomini, correggendo le posizioni, animando, eccitando, [p. 189 modifica]spremendo il coraggio e la volontà di resistenza da ciascuno e da tutti. I fanti sparavano a gran lena, senza risparmio, con una passione da vecchi cacciatori di selvaggina.

Tra il baccano del fuoco si udivano imprecazioni e urla selvagge dei nostri in tutti i dialetti della Penisola: «Porconi, di qui non passerete!» - «A morte i mangiasego!» - «Il cuore in padella ti vogliamo cucinà!» - «Fioi de can, i credeva de trovar poenta e ghe demo pece calda!». E sparavano, sparavano, senza tregua, finchè si udì il primo colpo di risposta della nostra artiglieria.

— Adesso siam fregati! — disse un caporale che la sapeva lunga.

Dopo un poco, difatti, che i cannoni tiravano sul nemico, un colpo venne a cadere sulla nostra linea, spazzando via tre fanti e ferendone altri tre. Furon portati via alla svelta, e il vuoto venne riempito. Il comandante di battaglione fece subito il segnale all’artiglieria di allungare il tiro: quei quaranta metri di distanza fra le due trincee costituivano un pericolo serio per i nostri, inducendo in errore gli artiglieri. Il tiro fu rettificato e rapidamente divenne di una violenza eloquentissima: dopo una mezz’ora di quella fitta grandine, finì per togliere la parola all’iniziativa nemica, che si limitò a qualche monosillabo, qualche starnuto, qualche [p. 190 modifica]urlo scucito, uno dei quali tuttavia colse in pieno il piccolo capitano dei mitraglieri, inchiodandolo alla mitragliatrice che in quel momento aveva afferrata per rimpiazzare un mitragliere ferito. Il corpo del Capitano, a due passi da Franco, fu sollevato dai fanti e portato giù al posto di medicazione, ma troppo tardi.

Si sentì un grido:

— Vengono! Vengono! — e si rispose:

— Pronti!

Franco si gettò allora sull'arma, e fatto un cenno al servente, la sollevò di peso, si slanciò sulla trincea, e la collocò a dieci metri davanti alla linea, allo scoperto, iniziando un fuoco diabolico contro gli assalitori, mentre si voltava verso i nostri gridando: — Fuori! Fuori! tutti allo scoperto! Addosso a questa canaglia!

L'esempio fu imitato istantaneamente. Altre cinque mitragliatrici si collocarono allo scoperto, e i fanti con loro, su una nuova linea non protetta, sparando alla diavola, eccitati, irritati, disperati, decisi a farla finita con quel saluto insidioso di un nemico che cercava sempre l'inganno e l'agguato, e poi, di colpo, tutti insieme, scagliati come una massa incontenibile contro il reticolato nemico che già era guastato e mostrava i varchi. Il contrattacco riuscì gloriosamente [p. 191 modifica]travolgente: nella posizione nemica non rimase un solo uomo: chi non perì di baionetta, scomparve nella notte. Le grida di Viva l'Italia e di Savoia! già riempivano la trincea conquistata, allorchè venne, come un castigo, l'ordine di ripiegare sulla nostra posizione, essendo la nuova insostenibile, date le linee d'accesso e le opere preparate dal nemico a proprio favore e nostro danno: per tenerla, si sarebbe dovuto procedere almeno per oltre un chilometro, ciò che le nostre forze non ci permettevano di fare. Brontolando, maledicendo, i fanti raccolsero i feriti, spinsero avanti i prigionieri e rientrarono nella vecchia sede, mentre l'artiglieria nemica riapriva il fuoco.

Furono raccolte quattro mitragliatrici «schwarzlöse», un buon numero di fucili e di elmetti, alcune casse di munizioni.

Il tenente della prima compagnia si accorse che Franco, al ritorno, zoppicava.

— Che avete: siete ferito? — gli chiese.

Franco sorridendo negò: Ferito? Una sassata al piede: nient'altro.

Ma quando fece per saltare dentro la trincea, si dovette appoggiare al braccio di un soldato per non cadere. Fu chiamato un infermiere, che gli dovette tagliare la scarpa per levargliela: il piede era effettivamente ferito, ma da una pallottola di striscio, che [p. 192 modifica]gli aveva attraversato il lato esterno gonfiandolo. Il tenente diede ordine di portarlo al posto di medicazione. Franco rispose:

— Posso medicarmi qui: per sparare non ho bisogno del piede.

L'indomani ricevette l'ordine di recarsi, accompagnato da un porta-feriti, al Comando di Battaglione. Quando il Maggiore lo vide arrivare, zoppicando, col piede fasciato, gli andò incontro e gli strinse calorosamente la mano.

— So — gli disse — che stanotte avete dato voi il segnale e l'esempio dell'assalto. È un gesto bellissimo che merita una ricompensa. L'avrete.

— L'ho già avuta, signor Maggiore.

— Quale?

— La sassata al piede.

Il Maggiore sorrise.

— E la chiamate «sassata»?

— A me ha fatto quest'effetto.

— Quanto tempo avete di trincea, signor Allievo?

— Dieci ore, signor Maggiore.

— Vi si direbbe un veterano.

Il Maggiore pensò, diede un'occhiata al suo aiutante, poi decise:

— Volevo proporvi per una ricompensa al valore. Ma voi siete maturo per il comando. Vi proporrò per la nomina sul campo a [p. 193 modifica]Sottotenente per merito di guerra. Va bene così?

— Signor Maggiore, non ho ambizioni di comando. Desidero solo obbedire, l'importante è di vincere. Se vinceremo, l'Italia sarà una grande cosa. Se no, è meglio morire tutti.

— Vinceremo, vinceremo: siatene certo. Se tutti faranno con slancio il proprio dovere, come voi l'avete fatto stanotte, l'Italia non potrà che vincere.

E con una buona stretta di mano mentre un paterno sorriso gli si accendeva sotto i baffoni bianchi di vecchio soldato di Piemonte, lo congedò.

Tre giorni dopo, al Comando di Reggimento, Franco riceveva le insegne di ufficiale.

*

In quel tempo Mario, che era definitivamente riformato, gli scrisse varie volte da Roma, dandogli notizie del loro lavoro pellicolaio, un po' rallentato dalla guerra, e non facendogli mai il minimo accenno a Maura.

Solamente, verso la fine di ottobre, Franco ricevette un ritaglio di giornale cinematografico in cui un grosso segno rosso additava un piccolo stelloncino di cronaca:

«La Roma Film ha scritturato in questi giorni come prima attrice assoluta un'artista di rara bellezza e di bizzarra eleganza: [p. 194 modifica]Maura Demauris, la quale come primo film interpreterà «Il dramma dell'addio» di Mario Bonaldi».

*

Questa notizia gli giunse con la posta della sera. Era il crepuscolo. Proprio mentre metteva in tasca il foglietto, un porta-ordini l'avvertì che il comandante di compagnia lo desiderava.

Il capitano Dominici lo attendeva nel suo baracchino, formato da alcuni sacchi a terra con frasche e teli da tenda.

Bisognava curvarsi per entrare in quel covo da trogloditi.

— Arbace — gli disse subito — stasera le voglio dimostrare la stima che ho per lei, dandole un incarico di fiducia. Si tratta di andare col sergente Giunti, un ottimo sottufficiale e col caporale Alberti, a individuare la mitragliatrice austriaca che tira sul nostro fianco, dalla parte del Groviglio. È necessario che la nostra artiglieria conosca esattamente la postazione di quell'arma per poterla smontare. Vuole altri schiarimenti?

— Signor no, — rispose Franco.

— Allora fra due ore lei e i suoi compagni usciranno dalla linea, e cercheranno di giungere ai reticolati austriaci senza dar sospetto. [p. 195 modifica]— Va bene, signor Capitano. Ha altri comandi?

— No, grazie. Venga poi a riferirmi l'esito della sua esplorazione.

Franco salutò ed uscì dal baracchino, con un brivido di soddisfazione.

Era finalmente l'avventura rischiosa, che gli veniva offerta, l'impresa individuale, nella quale il suo istinto avrebbe sperimentato i giochi della sorte e del coraggio.

Alle 9 precise, uscì dalla linea, a fianco del sergente e del caporale, col fucile a tracolla sulle spalle, le giberne piene di caricatori, il tascapane di «thévénot», il cuore gonfio di ansia e teso in avanti.

La notte era calma. Una notte lunare, navigata da flottiglie di nuvole chiare, che spalmavano il cielo con larghi movimenti avvolgitori. La luna, nel mezzo, sorrideva sedotta.

Dalla linea nemica non s'alzavano i soliti razzi illuminanti. Dalla nostra partiva qualche colpo di fucile, rarissimo, stanco, quasi a ricordare che si vegliava.

L'aria era calda, quasi afosa, quasi temporalesca. La fine d'Ottobre regalava quell'atmosfera di confidenza autunnale in cui si poteva disfarsi della mantellina e guardare la luna sorridendo.

Il sergente cominciò a bestemmiare.

— Can da l'ostrega d'una luna! Se seguita [p. 196 modifica]a far lume, ci scoprono senza che possiamo muoverci.

Si gettarono a terra, sui sassi, cominciarono a strisciare senza rumore, regalandosi dei «Sst!» reciproci. Obliquavano a destra. La linea dei reticolati nemici era vicinissima, ma i tre pattuglieri avanzavano con una lentezza infinita, sostando ad ogni gioco di nuvole che li scoprisse.

— Dì un po' — fece Franco all'improvviso al caporale — hai data la parola d'ordine alle vedette?

— Signorsì — rispose questi — Non dubiti. Sono tutte avvisate.

Dopo mezz'ora erano ancora a mezza strada. Franco sentiva scendere sulle proprie ossa il peso snervante di quella notte lunare carica di umidità e di seduzione.

Il chiarore molle ondulato sinuoso di quegli isolotti aerei che si dondolavano sensualmente sul suo capo, gli filtravano un lento veleno che penetrava nelle sue ossa con uno stillicidio intollerabilmente soave.

L'immagine di Maura gli si presentò all'improvviso con una chiarezza provocante, uscita dalla luna, bianca, nitida, carnosa, come in un letto. Scivolò fra le nuvole, ignuda e supina come in un letto.

Franco ebbe alle tempie una martellata di sangue caldo. Si sentì gli occhi abbagliati. [p. 197 modifica]Il sergente strisciava davanti a lui. Una scarpa del sergente urtò contro la sua fronte. Sentì male e si scosse.

Avanti! bisogna guardare avanti, nell'ignoto, nel pericolo, nel groviglio delle forze ostili. Che cos'è quest'onda di sensibilità che ad un tratto s'è abbattuta su lui?

Seguitò a strisciare sui sassi, dietro al sergente. Questi si fermò. Si volse a lui.

— Vede? — gli fece in un soffio. — I reticolati sono lì, a dieci metri. Bisogna scoprire il covo della mitragliatrice.

Si guardarono attorno, sollevando appena il capo. A pochi passi una buca aperta da una granata invitava. Vi si gettaron dentro, uno a fianco all'altro, e continuarono a osservare.

In quel momento la luna si nascose: una nuvolaccia enorme le strisciò sopra come una cartasciugante. Il sergente urtò col gomito il compagno.

— Bene! — masticò.

Dopo un po' aggiunse:

— È lì: dietro quel mucchio di sassi. Son sicuro.

— Vado a vedere — fece Franco.

— No. Vado io. Aspetti qui. Torno subito.

Il sergente si allontanò come un lumacone serpeggiante. [p. 198 modifica]Un momento dopo si sentì un colpo sordo, come un sasso gettato a breve distanza. Poi un crepitio martellante metallico.

La mitragliatrice nemica, svegliata dal sasso, apriva il fuoco a ventaglio: voce serrata, battito di denti ugualissimi, pettine di acciaio che rastrellava la notte, tastiera percorsa da una mano febbrile con un ritmo pazzesco di ossessione.

Il sergente non tornava. Franco guardò dalla parte del rumore, vide la vampa dell'arma tra un mucchio di grossi sassi, all'altezza di un paio di metri, estrasse il notes, e aiutato dai razzi, fece un rapido schizzo della linea nemica. La mitragliatrice che sparava sul fianco dei nostri era individuata. In quel momento si accorse che il caporale usciva dalla buca per andare alla ricerca del sergente. Allora Franco si distese immobile, senza più guardar fuori. La mitragliatrice sparava, sparava sulla sua testa, ininterrotta.

Le «ffss» delle pallottole scivolavano, frusciavano come cavallette velocissime acuminate. Sembrava una danza di vesti di raso e di seta, che gli volteggiasse a pochi centimetri sulla testa, senza toccarlo.

Franco gustò tutta la gioia di essere immerso nel pericolo con tutto il suo corpo e con tutto il suo spirito. Ed ebbe in un baleno la misura di ciò che è la vita nel [p. 199 modifica]momento in cui la morte allunga i suoi artigli verso una preda. Col capo affondato nelle maniche, sentendosi nel sangue tutto il plenilunio e nell'anima il fiotto immenso del pericolo, egli lasciò che Maura, la bellissima amante perduta, la carne più calda, più violenta, più vibrante, più voluttuosa ch'egli avesse mai conosciuta, gli si presentasse davanti con la prepotenza del suo fascino irresistibile.

Tutta la linea si era destata. La mitragliatrice continuava a sputare la risata sibilante della sua dentiera maligna: le bombe a mano, gettate dai parapetti della trincea, venivano a schizzare contro i reticolati, e circondavano di fiamme rabbiose il piccolo rifugio di Franco. Razzi di una luce abbagliante si ergevano sulla linea come diavoletti con un occhio di magnesio che si rizzino in punta di piedi per vedere lontano. Anche l'artiglieria aveva aperto il suo fuoco sospettoso, sparpagliando i colpi su tutta l'estensione della linea.

E Franco Arbace, disteso con tutto il corpo sui sassi del Carso, la testa affondata nei gomiti, i sensi arroventati dal fiato della morte, evocò in quel momento il primo abbraccio di Maura, laggiù, nel letto fantasioso di Ferrara, in quel giorno di magica esaltazione.

La sua fantasia eccitata da quella notte di [p. 200 modifica]sensualità e di violenza, seppe trasformare in un corpo voluttuosissimo di amante la terra arsa e sassosa del campo di battaglia.

Egli si sentì illuso dal sadismo potente di possedere una donna ignuda, bianchissima, perfetta, in una notte infernale di pericolo, d'insidia e di lotta. Sui margini stessi della morte e della distruzione, sentì la carne in un modo nuovo, potente, soavissimo e complicato, come non aveva mai sentito.

Ma per un bizzarro fenomeno di sovrapposizione, tutta la sua anima in quel momento gridava soffocatamente:

— Glorietta! Glorietta! Glorietta!

*

Il fuoco lentamente digradò, e andò cessando. Allora, Franco ebbe un balzo d'ispirazione. Si guardò intorno: il sergente non tornava, il caporale era scomparso anche lui. La decisione fu presa di colpo: poi, strisciando carponi mentre solo qualche colpo isolato partiva dalla mitragliatrice individuata, riuscì a portarsi sotto il mucchio dei sassi, e quando si giudicò a brevissima distanza dall'arma, alzò gli occhi in aria per trovare una via d'accesso: invece si accorse che una parte di nastro della «schwarzlöse» (quello già usato) pendeva giù dai sassi della rocca, [p. 201 modifica]scendendo via via che nuovi colpi partivano dall'arma. Allora, senza esitazione, Franco afferrò il nastro e vi si appese con tutte le sue forze. Un rotolio di sassi frananti, poi l'arma gli cadde pesantemente addosso, mentre un grido di furore echeggiava sul suo capo e si udiva il rumore di una fuga precipitata dietro i sassi. Franco alzò gli occhi con la «schwarzlöse» fra le braccia, e vide la faccia del sergente col pugnale in bocca che lo cercava. Una risata contenuta, poi, egli precipitò giù abbracciando Franco.

— Nello stesso momento, signor Tenente!

— Lei ha fregato la macchina, io l'uomo.

— Che bel colpo! Altro che individuarla! L'abbiamo presa!

E tornarono in linea, strisciando, dopo aver affidata l'arma al caporale, sbucato fuori dal nido di sassi, mentre una rabbiosa cannonata nemica cadeva a pochi passi da loro, senza far danno.

*

La sua licenza invernale capitò verso la fine di gennaio. La chiese, naturalmente, per Ferrara.

Giunse nell'antica città medioevale una mattina che la neve tappezzava con cura di dettaglio fino all'ultimo sasso e all'ultima gronda della città. [p. 202 modifica]Un silenzio bianco soffocava la vita e i rumori, con un lento ritmo di ali angeliche, caste di ingenuità. A Franco che veniva direttamente dal Podgora, quel pavesamento di candore uniforme diede la sensazione di una gran tomba sorda e vuota, dove la vita e la morte fossero vestite di una agghiacciante interminabile camicia invernale. Egli sentì in essa l'anima di Gloria.

Salì da sua zia, che lo abbracciò commossa. Si trovò immerso subito in un'ondata di benessere e di tepore che lo rianimarono. Fece un bagno caldissimo, si cambiò, si ripulì, si azzimò.

Uscì verso le 11 con la sua pelliccia trinceresca, la sua cravache, un bel berrettone alto da sottotenente, col suo nuovo passo un po' spavaldo e martellato regalatogli dall'energia della guerra.

Casa Crimi in Via Palestro era inabissata nel sonno e nel silenzio.

Picchiò più volte, con ansia e accelerazione di sangue, e finalmente potè salire.

La signora era assente. La signorina stava facendo toilette. Franco si fece annunciare.

Dopo un quarto d'ora di attesa udì dei passi nel corridoio. Si mosse, non potendo frenare l'impazienza. Glorietta veniva verso di lui, bianca, snella, un po' oscillante nella [p. 203 modifica]lunga taglia sottile, con un passo di una grazia e di un'armonia che inducevano all'estasi estetica.

Di chi si ama, non si ama solamente la persona in sè: si ama anche il modo di camminare, di gestire, di guardare, di sospirare, di portare i vestiti, di parlare, di dormire.

È il modo di esprimersi, questa segreta emanazione psichica non sempre controllata, che in certe persone ha un fascino così potente da sovrapporsi alla stessa bellezza dei tratti. La linea è messa in valore dal movimento e dall'accentuazione, che fanno del corpo umano uno schema per dei ritmi diversi: dal temperamento che si nasconde in questo schema dipende che i ritmi siano delle melodie divine o dei versi zoppicanti.

Il passo di Glorietta Crimi che avanzava verso Franco tendendogli le mani, era una delle più divine melodie.

Franco si slanciò a quelle mani, le prese, le baciò due o tre volte. Poi balbettò qualche frase banale:

— Come state?... Come sono felice di vedervi!... Cara amica...

La guardò in faccia. Era anche più magra, più pallida, più delicata di un tempo, era un fiore lunare in cima a uno stelo di cristallo. Gli occhi immensi bruciati dall'anima, respiranti una concentrazione di [p. 204 modifica]pensiero che non riusciva a diffondersi sul resto della persona, avevano un'intensità paurosa, selvaggia e pacata insieme. Su quel volto era sintetizzata tutta la vita di Glorietta: molta anima, pochissima salute, un terribile orgoglio di pudore, nessuna esperienza di vita.

Immediatamente la soldatesca baldanza di Franco, che voleva far sentire a questa vergine ermetica il rude timbro energetico delle sue scarpe chiodate come un ammonimento decisivo, si ritrasse e svanì davanti al gelo irriducibile di quella carne che aveva dimenticato il sesso, di quel sesso che aveva dimenticato ogni civetteria.

I gesti impazienti che gli fremevano nelle mani e alle labbra, le carezze frenate che attendevano di sprigionarsi al primo contatto, si spensero deluse.

Egli lasciò quelle mani che non rispondevano alla sua stretta. Avrebbe voluto baciarle il lembo della veste: non lo fece. Sentì un freddo orribile al cuore, una delusione profonda allentò l'energia che possedeva i suoi nervi. Tutta la neve di quella città sepolta nell'inverno, gli entrò nel sangue.

Tuttavia il loro colloquio fu affettuoso, con grandi abbandoni dell'anima, con proteste d'amicizia esclusiva che avevano un vago profumo d'amore. [p. 205 modifica]Quando la signora Crimi rientrò per l'ora di colazione, volle ad ogni costo che Franco pranzasse con loro. Erano sole, le due donne, e la presenza del giovane che avrebbe raccontato tante cose della guerra, pareva indispensabile alla buona signora.

A tavola Franco notò che Glorietta mangiava pochissimo. Anzi la parola «mangiare» non si adattava a quello che si poteva definire «un solfeggio delle labbra».

Il giovane notò con meraviglia questo fatto, e la madre colse subito l'occasione per i suoi sfoghi, che dovevano essere abituali.

— Vede? È quello che io le dico continuamente. Come si può stare in piedi senza nutrirsi? Questa ragazza mi fa disperare: si ciba come un cardellino. Lei vivrebbe solo di musica e di fiori. Magari bastassero per vivere! ma non bastano....

Glorietta sorrideva un po' infastidita:

— Mammina, mammina, quando mi lascerai in pace?... Lo sai che non posso farci nulla: se non mangio è perchè non ne ho bisogno, perchè non ne sento il desiderio.

— Già, che cosa desideri tu!

— Ah nulla: puoi esserne sicura. Io non desidero che riassorbirmi in me stessa.

Franco pensò che forse tutto il problema era lì: in un fatto fisico. La salute. Glorietta non aveva salute. Non aveva forza. Non [p. 206 modifica]aveva muscoli. Se invece di essere una fanciulla esangue, cristallina, trasparente, fosse stata una forte ragazza dalle gote sanguigne, dal collo tarchiato, vitalità ed energia indiavolata, l'amore non sarebbe stato per lei un pauroso fantasma, il desiderio e la gioia dei sensi non le sarebbero parsi come cosa volgare.

Era la sua gracilità, era il suo stomaco debole, la sua anemia coltivata nella solitudine, che complicavano enormemente la sua psicologia di rinunziante. E questa psicologia si riversava sui suoi nervi, illudendola di averle rivelato una legge, un dogma inalterabile.

Dopo pranzo, seduti uno di fronte all'altro davanti un caminetto nostalgico, Franco le disse:

— Al fronte ho incominciato a capire molte cose. Io sono molto cambiato, Glorietta, e sono triste che voi vediate ancora il mondo bagnato nell'eterea luce fredda degli astri gelidissimi. Invece la vita è sole, è sangue, è calore, è forza, è violenza....

— Ahimè, amico! Io non amo nè la forza nè la violenza. Sono cose cattive, e ricadono su chi le adopera.

— Ma bisogna vederle nell'azione per giudicarle. Che ne sapete voi, dal chiuso della vostra casa monacale? [p. 207 modifica]— Dal chiuso del proprio cervello si può indovinare tutto il mondo.

— Illusione! Anch'io credevo così, prima. È bastato che appena sfiorassi la realtà, per capire che il cervello non sa niente finchè i sensi non hanno conosciuto. Bisogna uscire, uscire, ed osare. Voi non osate, voi avete paura: ecco tutto.

— Osare che cosa?

— Il contatto diretto con le cose, con la materia tanto odiata. Le magnifiche forze che sento latenti e addormentata nel fragile scrigno del vostro corpo adorabile, non osano schiudersi per paura che il sole della vita le abbagli. Ma voi barate alla vita. Ed essa si vendica. Attenta, Glorietta: essa ha pronte per chi non osa delle vendette piene di sottile perfidia.

Poi, la fanciulla prese il suo violino, e lo fece fremere con un'arte magica, misteriosa, terribile, in cui vibravano delle strane potenze, e che aveva un fascino nuovo, insospettato.

Egli non potè fare a meno di notare che in quella musica scorreva una fluida sensualità, accentuata da gridi di passione smisurata, che smentiva perfettamente tutte le parole e i programmi della fanciulla. Si sarebbe detto che nel violino passava singhiozzando la [p. 208 modifica]sua assopita sensibilità, il suo amore non nato e respinto dalla volontà implacabile.

Ella non si accorgeva di dare a quel violino tanta materialità, non sapeva di aver concretato così carnosamente i suoi sogni più lontani. Non se ne accorgeva: altrimenti avrebbe spezzato il suo violino, o sarebbe caduta al suolo fulminata dalla rivelazione, o forse avrebbe sorriso del suo stanco sorriso di malata e d'incredula.

*

I quindici giorni di licenza passarono con la consueta velocità delle cose godute.

I successivi colloqui fra i due giovani non ebbero altro risultato che di stabilire una maggiore confidenza e disinvoltura di rapporti.

Franco ogni giorno la supplicava di suonare delle cose patetiche, calde di passione.

Glorietta gli obbediva docilmente. Ed aveva per lui quelle piccole innocenti civetterie delle bambine carine verso un fratello maggiore. Giungeva a chiamarlo «fratellino», a prenderlo per mano nel condurlo da una stanza all'altra, a mettergli una mano sulla spalla nell'osservare qualcosa, a fare la vocina piagnucolosa e certi capriccetti infantili che facevano impazzire di amore Franco Arbace.

La sera della partenza, egli fece appello [p. 209 modifica]a tutta l'energia del suo carattere virilizzato per resistere allo strappo-strazio dell'addio.

Glorietta si mostrò dolcemente afflitta, gli fece in ultimo delle proteste di tenerezza, castissime, si fece promettere che le avrebbe scritto ogni giorno, e che non si sarebbe esposto al pericolo più del necessario.

Lo accompagnò fino al portone, giù nella strada, rabbrividendo di freddo nel suo golf azzurro.

Gloria aprì il battente. Una striscia di luna si adagiò rettangolare, senza complimenti, nel vuoto dell'ingresso. Parve un blocco di neve che dalla strada entrasse nel portone.

Franco riaccostò il battente. Si volse verso Glorietta, le prese le mani. Le accostò alle labbra. Le lasciò di nuovo. Poi le tenne strette fra le sue.

Rimasero qualche momento, uno di fronte all'altro, guardandosi senza parlare. Tutto a un tratto, socchiudendo gli occhi come chi si getta in un abisso, Franco prese Glorietta fra le sue braccia, l'avviluppò in un abbraccio silenzioso, premendole le labbra sulle labbra come un timbro rovente.

La vergine si lasciò ghermire senza resistere.

Non si abbandonò e non si rifiutò a quel bacio. Fu una cosa inerte, senza violenza, nella spirale di un desiderio violentissimo. [p. 210 modifica]Ma Franco sentì che quel bacio era troppo rosso per quella neve tanto bianca, e quel corpo di fanciulla troppo delicato per quella impetuosa vertigine.

E rallentò la stretta.

E staccò la sua bocca dalle labbra di colei che pareva una vittima.

Ma nel distacco sentì che tutta quella purezza ermetica aveva forse una banale origine, un'umile sorgente: ed era il disordine dello stomaco.

Il respiro malsano di colei che adorava, gli spiegò in un lampo tutta la negazione opposta ai suoi richiami di vita e d'amore. Era questione di salute fisiologica, e nient'altro.

Partì, convinto di aver fatto una importante scoperta.

*

Nel fango del Carso, nelle interminabili notti insonni di febbraio, egli ripensò sovente a quell'unico bacio che il suo desiderio aveva voluto strappare all'amore: timbro rosso su una gran busta bianchissima e suggellata: e ne scrisse timidamente a Glorietta chiedendole se quel gesto isolato di passione avesse lasciato qualche traccia sulla gran distesa di neve, o se fosse stato sepolto da una nuova nevicata cimiteriale. [p. 211 modifica]Glorietta gli rispose ingenuamente crudele non immaginando certo tutto il male che gli faceva:

        «Se anche non avessi capito di essere per sempre divisa da ogni brivido e da ogni accensione dei sensi, quella sera ne avrei avuta la certezza assoluta. Ero così lontana da ciò, mi sembrava una cosa perduta per sempre, e l'ho sentito nel brivido che è scivolato senza darmi una vena di tepore, ma solo una ribellione di fronte alla prova che io veramente possedessi la forma corporea che avevo completamente dimenticata...»

Quando lesse questa lettera, col respiro soffocato dal pianto che voleva esplodere, Franco ripetè nel suo pensiero:

— Non c'è che morire.... non c'è che morire....

E invocò una pallottola liberatrice, uno dei tanti ciechi proiettili che, partiti da una mano ignota e diretti a un ignoto bersaglio, stroncano a volte una vita felice, a volte risolvono felicemente un angoscioso nodo drammatico portando la liberazione.

Ma la pallottola invocata non venne.

*

Per fortuna!

Perché poi, Franco, in pieno giorno, ripensando al suo dramma, non lo trovò tanto [p. 212 modifica]strano e irreparabile, e potè capire, con l'aiuto del suo istinto giovane e ringagliardito, che era lei che sbagliava, che svisava la realtà, che si sfibrava accanto alla vita senza avere il coraggio luminoso di entrare in essa, e che forse un giorno la vicinanza, la logica e il calore del suo sentimento, sarebbero riusciti a trionfare di quell'apparente irriducibilità, di quella donna che pretendeva rinunziare a ciò che non conosceva.

*

Una mattina di marzo, nella vecchia casa dei Crimi, a Ferrara, giunse una lettera, grande, elegante, azzurrina, dalla scrittura un po' tremolante ma aristocratica.

Era la vecchia zia Noemi, da tanti anni cittadina di Napoli, che scriveva alla madre di Glorietta, dopo un lungo silenzio.

Diceva, zia Noemi, che ormai si era rassegnata a sapersi vicina alla tomba, e che, sentendosi troppo sola, voleva fare quegli ultimi passi della sua vita appoggiandosi al braccio di una creatura giovane e vezzosa, che sarebbe stata naturalmente l'erede della sua non disprezzabile fortuna. In sostanza ella chiamava Glorietta presso di sè, con la coscienza di sacrificarla, ma con la prospettiva [p. 213 modifica]di lasciarla sua erede universale: il che equivaleva a divenire una piccola milionaria.

— Mammina — disse Glorietta — dovrei separarmi da te?

— Sì, figliuola mia. Io mi adatterò. Mi sacrificherò per il tuo bene. Non pensare, non ti preoccupare di me. Va, va a Napoli. Che il cielo ti assista e che tu sia felice!

La partenza fu decisa per la settimana seguente.

*

Villa Noemi fioriva luminosamente a Posillipo.

La signora dai capelli tutti bianchi e dal sorriso ventenne, ne percorreva la stanza e il giardino per controllare la perfetta esecuzione dei suoi ordini.

Dalle prime ore del mattino i domestici erano impegnati ad appendere festoni di lampioncini giapponesi fra le piante del giardino, che si appoggiava alla montagna troppo soave di effluvi primaverili.

L'automobile di casa, fin dal mattino era andata alla stazione per portare Glorietta alla villa, ma la piccola ospite non era arrivata. E ora la festa preparata per lei, che doveva esserne la reginetta, avrebbe dovuto farsi senza di lei, e la vecchia signora canuta [p. 214 modifica]sarebbe stata tanto triste di non poter presentare ai suoi invitati la dolce nipote, la cui mano divina sapeva suscitare musiche prodigiose, la piccola artista di provincia, che le dame e i patrizi napoletani ardevano di conoscere, di ascoltare e di esaltare.

I primi ospiti giungevano nel pomeriggio tiepido e profumato, la fiumana si riversava attraverso ai salotti e nel giardino.

Si ballerebbe: — Sarebbe permesso? Veramente no: c'era la guerra. Lassù si moriva. Come si poteva pensare a ballare?

Ma ecco Ainardi che siede al pianoforte, sfrontatamente, e il primo one-step, martellato con un ritmo acerbo e furioso comincia a mettere in moto nervi, sangue e sensi.

— Volete una definizione del tango? — chiede Gigi Fregnetti alla sua ballerina. — È un ballo in cui la testa si annoia, e il resto si diverte.

Molti spruzzi di risate, molti veli agitati, molto francese, qualche primo assalto al buffet.

Ma la padrona di casa era molto seccata. Glorietta non arrivava, e gl'invitati ballavano. Due cose fuori programma.

Peppino Luppoli aveva preso di mira la magrissima signorina Lampina Lamponi stretta in una gran fasciatura di raso nero.

Sa poitrine! Mon dieu, ce ne sont pas [p. 215 modifica]des seins,ce sont des martyres! — disse egli a un grasso imboscato con caramella e brillanti.

Già, quasi tutti i giovani presenti erano imboscati, o riformati: oziosi, deficienti, inutili, frodatori del nome di uomini.

E le donne erano quasi tutte belle, giovani, elegantissime, spensierate e disoccupate: nevrotiche con chic.

*

Ma dalla porta di servizio, in sordina, una giovane viaggiatrice infilava il nasino nella villa, s'inoltrava nelle prime stanze, s'imbatteva in una cameriera, e supplicandola di non gettare l'allarme, si faceva accompagnare in incognito fino alla sua stanza bianca e rosa, designata e preparata dalle cure minuziose di zia Noemi.

Glorietta restò sola in quella camera, immersa in una sinfonia deliziosa di ninnoli, di fiori, di pizzi, di specchi, di confort d'ogni genere.

Ma in un attimo la voce del suo arrivo si sparse tra gli ospiti.

Il basso si addensò, e come ci fosse stata una parola d'ordine, una lunga colonna si formò, una colonna di vesti vaporose e di tights, una colonna di giovani facce che [p. 216 modifica]ridevano e che volevano far ridere. Si snodò per le scale, s'incanalò per i corridoi, giunse al secondo piano, si fermò davanti alla porta dell'ospite.

Glorietta, senza pur togliersi il cappello da viaggio, si era appoggiata alla finestra, contemplando lo spettacolo inverosimile del golfo ammaliatore, nel quale le vele, bianche come ali, erano l'unico palpito di fresca primitività. Tutto il resto aveva la totale accensione della violenta atmosfera meridionale, dove anche le cose semplici e pure si arroventano di passione. Senza saperlo, Glorietta seguiva con trepidazione l'oscillare di quelle alucce natanti sul mare, e le pareva che dovessero essere ad ogni istante sommerse nell'azzurro carico e profondo dei flutti, o rapite dall'altro azzurro suggestivo del cielo.

Era come angosciata dalla sorte di quei piccoli lembi bianchi, quasi che ad ognuno di essi fosse attaccato un filo della sua anima.

Si picchiò all'uscio, ma poichè la contemplatrice era troppo distratta per udire, la colonna mattacchiona spalancò la porta, si rovesciò nella stanza, e Glorietta stordita, spaventata come una lodola presa alla pania, si lasciò afferrare da dieci braccia, portare in trionfo giù per le scale, tra i fiori, le risa, le acclamazioni, l'entusiasmo inguantato di quella folla godereccia. [p. 217 modifica]La zia, che era rimasta giù, l'attrasse fra le braccia, se la tenne stretta qualche secondo baciandola nei capelli e sulle guance, tutta commossa e felice.

Trasognata e inanimata, sorridendo come ubriacata da tutta quella effervescenza, Glorietta si ritrovò davanti a un buffet, con un bicchiere di Champagne in mano, con diecine d'occhi e di mani turbinose che le danzavano intorno e con torrenti di parole dolcemente cascanti che le accarezzavano i nervi.

A poco a poco le pareva che in quell'atmosfera di tepore, di affettuosità e di vibrazioni gioconde, quei suoi nervi irrigiditi dalla volontà e dalla solitudine provinciale, si dilatassero e si distendessero riposando, invasi da un'ondata di benessere, come due mani gelate dall'aria di gennaio e immerse improvvisamente nell'acqua calda.

Nel suo vestito da viaggio, un po' timida e impacciata, un po' goffa e molto carina, Glorietta quel giorno si lasciò ridere, si lasciò chiacchierare, si lasciò anche innocentemente flirtare.

Poi, sebbene stanca del viaggio, acconsentì a prendere il violino; e trionfò incredibilmente su quella gente che nella sua frivolezza sapeva possedere una sensibilità musicale di prim'ordine. [p. 218 modifica]Il fenomeno del «trapiantamento» è piuttosto abituale, in botanica e in psicologia. Nell'uno e nell'altro campo, esso ha una caratteristica comune: portata una pianta o un'anima dal terreno e dal cielo meridionale al terreno ed al cielo nordico, quasi sempre intristisce e muore. Facendo l'inverso, si può essere quasi sicuri che la pianta e l'anima sbocceranno con più energia e con più generosa bellezza.

Questione di clima, di succhi vitali, di luce, di ambiente, di vicinanze e di contatti.

Glorietta era andata a Napoli con la convinzione di vivere isolata con una vecchia zia malinconica, che amasse la musica e se ne stesse chiusa in una remota villa silenziosa.

Forse, se avesse immaginato ciò che l'aspettava, non si sarebbe mossa da Ferrara. O sarebbe anche andata laggiù, ma armata di tutta la sua volontà per resistere e non lasciarsi schiantare dai veleni affascinanti del Golfo.

Invece, sorpresa, assediata fulmineamente da un mondo che non aveva sospettato, inerme bersaglio di cento malizie luminose e profumate, non aveva avuto neppure il tempo di capire, di mettersi in guardia, di tentare una qualunque resistenza: era stata subito [p. 219 modifica]travolta dal «maelstrom» di luci e di suoni, di calore e di colori, di malie e di gaiezza di quel mondo nuovo in cui la vita passava come un vento odoroso che si rinnova continuamente.

Zia Noemi, spirito moderno e giovanile, volle che la piccola provinciale s'iniziasse a tutte le occupazioni e a tutte le distrazioni della società mondana in cui l'aveva scaraventata.

La fece vestire dalla migliore sarta di Napoli, le chiamò un maestro d'equitazione, volle che imparasse a guidare l'automobile, le permise di dedicarsi largamente al giuoco del tennis.

La vecchia signora, pur non indovinando il dramma spirituale di Glorietta, comprese che la fanciulla, così pallida e delicata, ma non priva di temperamento, aveva bisogno di molto moto, di molta vita fisica, di molta libertà aerata, per sbocciare completamente. Ella la considerava un fiore ancora chiuso nella conchiglia del suo pallore, e che il cielo meraviglioso di Napoli avrebbe inondato di calore e di bellezza.

Le partite di tennis, le gite in barca da Mergellina e da Posillipo, le galoppate a cavallo per le strade soleggiate di Capodimonte e del Vomero, si erano moltiplicate, inseguite di giorno in giorno con un'ansia [p. 220 modifica]frettolosa, in cui Glorietta metteva lo stesso entusiasmo delle ragazze napoletane che l'accompagnavano.

In pochi giorni la sua grazia ingenua, la sua pronunzia nordica, la sua intelligenza penetrante, l'avevano fatta divenire l'idolo, il centro di quella comitiva scapigliata e gaudente che aveva fretta di spendere i suoi vent'anni, quasi per paura di vederseli rubare.

Ogni giorno era un'idea nuova, un progetto gaio, una gita emozionante e divertente. La comitiva non si riposava. Nelle giornate piovose si riunivano a Villa Noemi, e solo allora Glorietta riprendeva il suo violino, abbandonato in un angolo del salotto.

*

Un pomeriggio di quello stesso marzo, verso sera, Franco fu chiamato al Comando di Reggimento. Entrò correndo nel baracchino, credendo di ricevere un ordine per qualche azione notturna di pattuglia. Invece il Colonnello, ch'era un vecchio alpino, lo ricevette sorridendo, e gli tese la mano dicendogli:

— C'è una buona notizia per lei, tenente.

Franco lo guardò interrogativamemte, senza trovare una spiegazione a quell'annunzio.

— Il Comando della III Armata ha dato ordine telefonico di farla partire il più [p. 221 modifica]presto possibile per una nuova destinazione. Indovini un po'? È destinata al fronte della I Armata. In Trentino! Pensi che fortuna! Levarsi da questo fango infernale e andare a combattere fra le montagne, nella neve, in una guerra altrettanto pericolosa ma più attraente perchè movimentata, aerata, suggestiva. Corrono strane voci sulle intenzioni del nemico in quel settore, e il Comando Supremo vuol premunirsi rafforzando le posizioni. Il male è che ci tolgono i nostri migliori elementi. Ci va volentieri, tenente?

— Il mio compito è obbedire agli ordini — egli rispose — ma le confesso, signor Colonnello, che mi duole assai di lasciare il mio reggimento col quale ho fatto le prime armi e al quale sono legato da profondo affetto.

— Eh ne troverà un altro, al quale farà presto ad affezionarsi. Io, come alpino, La invidio. Certo che il Carso è più prodigo di gloria e di... morte, di quanto non lo sia il Trentino. Ma infine, per uomini del suo valore, c'è modo di farsi onore dovunque. Vada, e che la fortuna l'assista.

L'indomani Franco lasciava il Podgora, e dopo tre giorni di viaggio, parte in autocarro, parte in ferrovia, giungeva al Comando della I Armata in Vicenza, dove un ufficiale dello Stato Maggiore del Generale Brusati gli faceva un foglio di via per il Comando della [p. 222 modifica]15ª Divisione, di stanza a Castel Ivano. Uscendo dall'ufficio del Comando di Armata, Franco s'imbattè in una vecchia conoscenza romana in divisa da sergente, certo Romolo Bardelli, un giovanottone simpatico, intelligente e spigliato, che non vedeva da tanto tempo, e che trovava decorato di medaglia d'argento e di due ferite. Era diretto anch'egli a Castel Ivano, e si accordarono per percorrere insieme il tragitto sopra un autocarro del Comando, sul quale caricarono la cassetta d'ordinanza di Franco. I due uomini si scambiarono impressioni e reciproche congratulazioni.

— Ma non sai ancora dove ti destineranno? — domandò il Bardelli, quando furono partiti.

— Non so nulla. So che devo presentarmi al Comando della 15ª Divisione, il quale non so quel che farà di me. E tu, a che reparto vai?

Bardelli sorrise in tono misterioso, e poi fece un gesto d'intesa, come dire: «Acqua in bocca!».

— Non hai mai sentito parlare del Capitano Baseggio?

— Veramente sì... mi pare... credo sia un soldato di gran valore... ma non so bene che abbia fatto.

— Che ha fatto? Se avessimo nel nostro [p. 223 modifica]Esercito dieci uomini come questo, la guerra sarebbe già vinta da un pezzo.

— Racconta... racconta.

— È un po' difficile, raccontare. Le azioni di Baseggio superano già la verosimiglianza per sconfinare nella leggenda. Io sono con lui da sei mesi, e ne avrei già da raccontare quanto basta per fare un libro grosso così.

— Ma che reparto è il vostro?

— Ha un nome bello e terribile. Si chiama «la Compagnia della Morte». Questo è il nome che il nemico ci ha dato, per il terrore che gli abbiamo incusso in tante occasioni. Ma il vero nome del reparto è quello di «Compagnia Esploratori Volontari Arditi Baseggio».

— Vi si entra volontariamente?

— Sì, a patto di piacere al capitano. Prima di accettare un novizio, Baseggio lo squadra e lo studia da cima a fondo. Mette a dura prova i suoi muscoli, il suo coraggio, la sua decisione, il suo spirito militare. Prima di accettarti come suo soldato, vuol sapere per prova se sei pronto a vincere e a sacrificarti in ogni momento, se hai fegataccio da vendere anche con tutti i difetti del mondo. Chiude un occhio su molti vizi — di bere, di dar pizzicotti alle ragazze, di litigare, anche di saccheggiare (moderatamente però!) — tranne su quello di aver paura. E sai [p. 224 modifica]che se ne passano, di momenti brutti. Ma che importa? ogni spedizione è una vittoria, è un successo, una conquista. Quante posizioni abbiamo rettificate, quanti salienti occupati, quanti settori strappati al nemico, che diventava furibondo di rabbia ad ogni nostra sorpresa!

— Ma com'è costituita questa Compagnia? da chi dipende?

— Da nessuno. È un'invenzione genialissima dello stesso Baseggio. Questo splendido alpino già da tempo s'era accorto che sulle Alpi non si può fare la guerra di posizione, rigida, continuativa, staticamente inconcludente; mentre la costituzione stessa della montagna ti suggerisce il movimento a piccoli reparti, a gruppi, a manipoli, indipendenti dal grosso delle truppe; e aveva perciò concepita l'idea di una Compagnia Autonoma formata da gente arditissima, spregiudicata, pratica della manovra alpina, con la quale svolgere un largo programma di azioni tattiche di notevole importanza, dotata quindi di autonomia e, in conseguenza, di mezzi propri.

Accortosi che al comando di una compagnia regolare di fanteria, non si poteva far quasi nulla per sventare i tentativi del nemico, che si stava preparando a una grande offensiva rafforzando le posizioni dovunque, [p. 225 modifica]mentre nelle retrovie istituiva nuove comunicazioni stradali, ferroviarie e telefoniche per raccogliere e accumulare rifornimenti e sistemare servizi in grande stile.....

— Ma che linguaggio da stratega!...

— È lui che ci ha insegnato queste cose, lui, con la sua vecchia esperienza di combattente nato. Dunque, dicevo che, tanto fece, tanto fece parlando ai generali dei Comandi, che finalmente nell'Ottobre scorso, gli diedero il permesso di costituire la Compagnia Autonoma Esploratori Volontari, tatticamente alle dipendenze del Comando di Corpo d'Armata, ma con buona dose di autonomia per eseguire operazioni ardite, compiti di avanguardia, prese di posizioni, sorprese, colpi di mano, e via dicendo. Io ci sono dentro dal primo giorno, e mi son buscate due ferite serie e una medaglia. Ma chi può contare i nostri titoli alla ricompensa? Ce ne dovrebbero dare una alla settimana, di medaglie, se ci tenessimo, ma a noi basta la coscienza di fare il nostro dovere, di battersi per la Patria, e l'elogio del nostro Comandante. Dapprincipio, fra tutti, compresi i conducenti dei muli, eravamo circa 600. Oggi siam ridotti alla metà. Abbiamo avuto perdite a non finire, e non sempre i vuoti si possono rimpiazzare, malgrado le continue offerte che riceviamo. [p. 226 modifica]— Ma siete tutti di fanteria?

— Nooo! La Compagnia è divisa in sei plotoni, divisi per armi e Corpi: uno di Alpini, uno di Bersaglieri, uno di Guardie di Finanza, due di Fanteria, e uno misto. Vedessi che spettacolo pittoresco, la Compagnia in rango, armata di tutto punto! C'è dentro di tutto: militari di ogni età, di ogni classe sociale, di origini svariatissime: dal professore con barba ed occhiali alla guida alpina, dall'ufficiale di Cavalleria disoccupato e scocciato per l'inerzia forzata all'avventuriero avido di saccheggio, dal prete di montagna al contrabbandiere che una volta tanto va d'accordo con la guardia di finanza.

«C'è lo sportivo di professione e il giornalista, c'è il minatore e il sognatore idealista, c'è l'innamorato deluso e il soldataccio di temperamento. Insomma c'è buono e meno buono, ma tutta gente che si batte e si batte bene, e la cosa che li accomuna è l'ardimento e la fede e la fraternità di fronte alla gran Madre Italia, che vogliamo vittoriosa a tutt'i costi. Quando il Capitano ci schiera nella bella policromia di facce, di uniformi, di tipi e di espressioni, ci dichiara sempre che siamo una bella ciurma, con i nostri ghigni allegri e furiosi, arditi e fieri, sempre pronti a menar le mani, e ci ripete che, guardandoci, non ha mai alcuna [p. 227 modifica]preoccupazione sull'esito delle azioni più arrischiate. Qualche volta invece è costretto a frenarci nel nostro entusiasmo di Arditi insofferenti e spesso turbolenti, ma ci basta una sua occhiata e il suono della sua voce per renderci istantaneamente docili e obbedienti come agnellini, pronti a lanciarsi ad un suo cenno in qualunque inferno di morte. Bisogna riconoscere che il fascino del nostro Capo è grande, e per lui siam sempre disposti a dare la pellaccia, anche se qualche volta non rispettiamo troppo le forme della disciplina ufficiale. Ma che si può fare contro degli uomini che, se anche oggi catturano qualche gallina o si riforniscono di stoffe... per il dopoguerra in qualche Villa di signorazzo austriaco, o prosciugano qualche tinozza di vino disoccupato, domani vanno alla morte con la giocondità con cui si va a un appuntamento d'amore? Qualche volta abbiamo versato il nostro sangue per compiere opera di civiltà, come quella di uscire allo scoperto per trarre a salvamento le ricche masserizie di un grande Albergo di Roncegno e i preziosi cimeli artistici della Villa De Giovanni. Ma il prestigio del nostro Capo e della nostra Compagnia, si è talmente divulgato, che, quando si va all'assalto al grido di «Italia! Baseggio!» è un gran terrore che si sparge nella trincea nemica, perchè ci [p. 228 modifica]sanno dei diavoli disperati che piombano di sorpresa addosso a covi di mitragliatrici e di artiglieria da montagna e pugnalano senza pietà. Allora si sentono grida confuse di «Baseggio! Baseggio!» ed è un fuggi-fuggi generale.

— Qual'è la vostra arma abituale?

— Naturalmente il pugnale, del quale facciamo anche scuola nei momenti di sosta, allenandoci a lanciarlo a distanza, e la bomba a mano. Il «thévénot» è buono, ma il pugnale è migliore: fa meno baccano e decide più rapidamente.

— E quali sono i fatti d'arme principali ai quali hai finora partecipato?

— Caro Franco, mi pare che tu abbia spiccate attitudini giornalistiche: questa che mi fai, è una vera e propria intervista.

— M'interessa, m'interessa molto questo argomento, caro Romolo. Io credo che, se vorremo vincere bene e presto la guerra, si dovrà instituire un piccolo esercito di vèliti, truppe leggere, velocissime, astute, scelte fra le più coraggiose, capaci di generalizzare il metodo della sorpresa, della fulmineità, dell'autonomia, da tenersi il meno possibile soffocate nell'atmosfera snervante della trincea.

— E già: l'avvenire è degli Arditi. Si parla già di creare dei battaglioni speciali, [p. 229 modifica]autonomi, dislocati qua e là in ogni settore di Corpo d'Armata. E già incominciano ad apparire i primi plotoni di Arditi reggimentali, che però sono ancora dei semplici esploratori e guastatori. Bisognerà farne dei veri Reparti d'Assalto, armati di armi leggere e formidabili: bombe e pugnali. L'assalto di soldati di temperamento: ecco ciò che deciderà della guerra.

— Dunque, questi fatti d'arme?

— Eh, son parecchi. Basterebbe la scorreria di Roncegno, fatta a 5 Km. fuori delle linee di Borgo, dove raccogliemmo tutto il materiale artistico residuato dalla vandalica furia devastatrice dei croati, e lo trascinammo per i 5 Km., che dividono Roncegno da Borgo, marciando in pieno giorno con sfacciata imprudenza, sotto il tormento delle artiglierie nemiche, cantando a squarciagola, senza altre perdite che qualche ferito leggero. Poi ci fu quella su Cascina Palauro, su Torcegno, l'azione delle Sette Selle, l'episodio di Monte Valpiana, l'irruzione sul Montalone, la scorreria a Novaledo, l'occupazione di Marter, la scorreria sul Glockenthurm, dove perdemmo l'eroico tenente Vismara raccolto morente fra le braccia dallo stesso capitano Baseggio, con grave rischio della sua vita, la conquista del Monte Collo, [p. 230 modifica]la presa del Trincerone di Volto e del Monte S. Osvaldo...

Franco fermò l'eloquenza esuberante del sergente.

— Senti una cosa, Romolo — gli disse appoggiando la mano ferma sul braccio del compagno — come si può fare a raggiungere al più presto possibile la Compagnia Baseggio?

Romolo lo guardò bene in faccia senza meraviglia.

— Che, saresti... già deciso a venire con noi?

— Sì, per fare la guerra da italiano, da volontario di guerra, da pattugliere di istinto, da assalitore di temperamento, sì, per cercare un po' più di possibilità per l'iniziativa, per l'azione personale, per lo spirito di sacrificio, ed avere un po' più di contatto con la realtà e tentare di forgiarla secondo il genio italiano e la volontà vittoriosa della nostra razza. La spinta dinamica degli italiani che aspirano a una nuova Patria, a una matura coscienza, a un clima di vita più alto, in questo deve concretarsi, fin che siamo in tempo: nel dare più del richiesto, nel superare il dovere, nel creare l'aria nuova, la temperatura nuova, il nuovo livello di amor di Patria che, prima o poi, dovrà travolgere tutti e trascinare tutti in un'esaltazione di [p. 231 modifica]valori e di calorie da cui dovrà uscire l'Impero o lo sfacelo. Mai più sarà data, a noi giovinezza d'Italia, un'occasione come questa di uscire dalla mediocrità, per rifarci una era di grandezza che non sia inferiore a quella romana. Il problema totale della Nazione non fa che riflettere e riassumere i milioni di problemi individuali: io decido in questo momento di risolvere il mio problema individuale, arruolandomi nella Compagnia della Morte, agli ordini del Capitano Baseggio.

Romolo Bardelli scattò in un'espressione di entusiasmo che per poco non lo fece precipitare dal sedile dell'autocarro, mentre questo virava a secco in una svolta pericolosa.

— Bravo il nostro tenente! — gridò — Questo sì che è parlare da uomini! Quando si parla così, è segno che l'alba della Vittoria sta per sorgere. Quante cose belle faremo insieme, nel nome d'Italia!

Si abbracciarono. Alle 5 del pomeriggio giungevano a Strigno, donde proseguivano per Castel Ivano, sede del Comando della 15ª Divisione.

*

Al Comando di Divisione lo ricevette un vecchio Maggiore, tolto, non si capiva a prima vista perchè, dalla Riserva di un [p. 232 modifica]reggimento di Cavalleria, per essere mandato in un posto di battaglia poco adatto alla sua schiena curva, ai suoi baffi grigi spioventi, alla sua persona ossuta e cadente, ai suoi occhiali di uomo sradicato da un tavolo di contabilità e apparentemente negato alla guerra.

— Come, come? — esclamò quando ebbe sentito le intenzioni del giovane ufficiale. — Vuol fare anche lei l'Ardito? vuol entrare nella Compagnia della Morte? Ma dunque la rinomanza del nostro Capitano è arrivata ben lontano se viene gente dal Carso per combattere con lui! Virtù della sua virtù, veramente romana. Tutto riuscirà a quest'uomo, se trova seguaci così ardenti.

Il vecchio Maggiore, malgrado la sua apparenza, fu colto da una improvvisa simpatia per il volto deciso di Franco e per la semplicità dei suoi modi, e lì per lì, benchè preoccupato del pericolo a cui quella giovane vita correva sorridendo ad esporsi, dispose che l'indomani Franco raggiungesse la Compagnia, che si trovava a Roncegno Bagni, in attesa d'iniziare, con due battaglioni dell'84 Fanteria e una Compagnia Mitragliatrici, l'attacco del Monte S. Osvaldo, ultimo settore della linea avanzata delle Alpi di Fassa, la cui conquista avrebbe protetto le nostre difese di fondo Val [p. 233 modifica]Sugana, assicurandoci il possesso di quella formidabile barriera alpina.

Quando Franco, accompagnato dal sergente Bardelli, giunse a Roncegno, il Capitano Baseggio era in conferenza, con i due Comandanti di Battaglione, dal Colonnello comandante di tutta la truppa. Dopo circa un'ora, i quattro ufficiali uscirono dal loro ritrovo, e subito, dalle descrizioni udite Franco riconobbe l'alta figura del capitano Baseggio.

Magro, diritto, asciutto, capelli appena brizzolati, occhio sfavillante e deciso, viso di uomo sicuro di sè, fatto per la guerra, amico della montagna come chi ne ha lunga confidenza, con qualcosa di calmo e d'imperioso nel gesto e nella voce da domatore attento a tenere d'occhio una gabbia di tigri, Cristoforo Baseggio non somigliava ad alcun altro combattente sia pur valoroso: gli si leggeva sul volto e su tutta la persona l'impronta del guerriero di razza, il combattente nato, il soldato d'ispirazione, il capitano di ventura, scarso frequentatore di piazze d'armi ma sagomato per portare alle più rischiose avventure uomini senza paura, disperati incuranti della pellaccia, anime votate al sacrificio con la beffa alle labbra e la canzone in petto, schernitori del pericolo e ricercatori d'audacie nuove, veri equilibristi della morte, con cui giocano a rimpiattino. Di [p. 234 modifica]colpo intuì la personalità magnetica di Baseggio, e gli si legò con tutto il suo amore di soldato, pronto a seguirlo ad occhi chiusi: tale era la spontanea fiducia che ispirava quest'uomo leggendario dagli occhi chiari di arcangelo che comandava una Compagnia demoniaca, battezzata nel nome della Morte.

— Ai suoi ordini, Capitano! — disse con voce decisa Franco, presentandosi (e istintivamente abolì la parola «Signor» davanti al suggestivo titolo di Capitano).

— Da dove viene Lei? — domandò il Capitano al nuovo venuto, inquadrandolo nel suo colpo d'occhio.

— Dal Podgora.

— Quanto c'è stato e quante azioni ha fatto?

— Sette mesi, ventiquattro pattuglie, tre azioni di brigata, una dozzina di ammaccature, una ferita.

— Molto bene — disse il Capitano, squadrandolo dalla testa ai piedi e terminando l'indagine con un sorriso di simpatia. — Qui c'è da fare, e subito. Ha voglia di lavorare?

— Non sarei qui se non avessi voglia...

— . . . . di menar le mani, vero?

— Ai suoi ordini, pronto a tutto, capitano!

— D'accordo (e gli strinse a mano). Venga con me. E anche tu, Romoletto. [p. 235 modifica]Si avviarono, i tre, verso il comando della Compagnia, poco distante.

— Sono otto lunghi mesi — disse il Capitano al nuovo venuto, che gl'ispirava fiducia — che i miei Arditi agognano di salire su quella nera montagna là, il Monte S. Osvaldo, che ci guata e c'invita, e siamo convinti che la conquisteremo, non importa se a prezzo di sangue. Ma temo che le forze di cui ora disponiamo non siano sufficienti.

Difatti l'indomani mattina la Compagnia Baseggio, con la sua Sezione Mitragliatrici, più una Compagnia Mitragliatrici e tre Compagnie di Fanteria, mosse all'attacco di Volto; ma senz'altro risultato che di perdere molti uomini in un attacco non bene preparato, e di dover ripiegare sulle proprie posizioni.

Il Capitano decise allora che il 5 mattina, lasciate due Compagnie dell'84 a fronteggiare l'ala destra e il centro del trincerone per impedire infiltrazioni e aggiramenti del nemico, avrebbe tentato l'assalto a fondo sulla sinistra del trincerone, davanti alla quale il terreno permetteva di avvicinarsi al coperto. La notte del 4 al 5 fu per tutti triste e insonne; molti erano i feriti e i morenti, e il pensiero del domani gravava su tutti perchè gli Arditi sentivano nel loro Comandante il proposito deciso di conquistare ad ogni costo il [p. 236 modifica]trincerone. Irritato per l'insuccesso del giorno prima e per la perdita inutile di tante giovinezze preziose, Cristoforo Baseggio era deciso ad agire, supplendo con l'audacia e la volontà all'inferiorità di mezzi e di posizione.

All'alba del giorno 5 l'attacco fu iniziato. Il Comandante salì con la sua Compagnia attraverso il bosco, e giunse in breve sotto l'ala sinistra nemica sul trincerone, dove si trovava una capanna fortificata tipo «blockaus».

La salita fu superata rapidamente, in perfetto silenzio. Al centro dei suoi Arditi e con al fianco il suo nuovo amico Franco, traboccante di entusiasmo, il capitano procedeva deciso, mentre il fuoco di preparazione delle batterie da montagna e delle batterie pesanti di Bagni Sella battevano in breccia il trincerone, con effetto morale disastrosissimo.

Giunto a contatto col nemico, Baseggio fece cessare il fuoco delle batterie, che aprirono subito tiri d'interdizione sugli approcci che da S. Osvaldo potevano condurre rinforzi al Volto; poi si dispose all'attacco. Ordinati i plotoni, sbucò con essi all'improvviso fuori del bosco, lanciandosi sul pendio prativo, allo scoperto, sù verso il ridotto. Lo spettacolo dei bersaglieri caduti nell'assalto sfortunato del giorno innanzi, e giacenti in pose macabre sul prato, fu tale che esasperò [p. 237 modifica]ed eccitò furibondamente gli Arditi che, al grido del Capitano, urlando «A noi!» con furore di vendetta, si scagliarono come un uomo solo contro il baluardo nemico, dove le mitragliatrici invano tentavano ributtare l'assalto, che già si delineava vittorioso nella sorpresa e nell'impeto travolgente. Tra i primissimi, pugnale alla mano, Franco balzò all'assalto del trincerone, seguito e confuso immediatamente da centinaia di Arditi che, torrente irrefrenabile, invase col suo Capo il rifugio del nemico, pugnalando, baionettando, dissolvendo ogni difesa.

Cinque minuti dopo, Baseggio dava ordine di rovesciare il fronte del trincerone, e inseguire il nemico che a gruppi disordinati si ritirava per il bosco verso il sovrastante Colle di S. Osvaldo, inseguito dal fuoco efficacissimo delle nostre artiglierie e mitragliatrici. L'operazione del Volto era riuscita pienamente e Baseggio, per non dare respiro al nemico, dispose che la truppa proseguisse nella giornata stessa in ricognizione offensiva verso il Colle S. Osvaldo, e mentre, con Franco sempre al suo fianco, si accingeva ad esaminare il terreno boschivo, insidiosissimo, dove gruppi di tiratori bavaresi, ben nascosti, si accanivano nella resistenza, e stava per attraversare un piccolo burrone, il tenente Galante avendo visto una mitragliatrice appostata [p. 238 modifica]in alto al limite del bosco, lo trattenne per il mantello, gridandogli: — Attento alla mitragliatrice, Capitano! — ma Baseggio, scrollando le spalle, si svincolò di scatto e saltò dentro il burrone, seguito dal tenente che gli si gettò sopra per coprirlo dalla raffica. Ma i colpi della mitragliatrice, partiti col ritardo di un attimo, dopo aver disteso nell'eterna immobilità il Galante, giunsero a colpire la spalla di Franco, che cadde a terra ai piedi di Baseggio, col petto sanguinante. In quel mentre gli Arditi, che avevano visto il pericolo che correva il loro Comandante, penetrati nel bosco, s'erano slanciati in gruppo sulla mitragliatrice nemica, riducendola al silenzio con due o tre bombe a mano.

Giunsero i porta-feriti, e Franco fu istantaneamente sollevato e portato in salvo nel trincerone, semi-svenuto. Le medicazioni efficaci, le cure fraterne del medico della Compagnia, poterono risollevare in parte le forze del ferito, che, assalito dalla febbre, chiedeva di essere riportato sul luogo dell'azione, per assistere il suo Comandante nella difficile ricognizione; ma non glielo permisero, e il temente medico diede ordine a due infermieri di montargli la guardia, e la sua branda fu collocata in una grotta, al sicuro dal fuoco della battaglia.

La notte seguente passò in una relativa [p. 239 modifica]tranquillità, e Franco non udì quasi più rumore di colpo, di modo che si assopì pensando che tutto fosse finito.

Si svegliò l'indomani mattina in mezzo a un baccano d'inferno. Rivolto lo sguardo intorno, vide uno solo dei due infermieri, accovacciato ai piedi della sua branda.

— Che c'è dunque? — domandò balzando a sedere sulla cuccetta.

— Non si muova, signor Tenente, per carità! Il medico ha detto che non la devo far muovere.

— Ma che avviene? Fuori si combatte, no?

— Sì, signor Tenente: una battaglia d'inferno: e i nostri muoiono senza risparmio.

— C'è l'assalto a S. Osvaldo, allora?

— C'è, signor tenente. È già la seconda volta che conquistiamo la posizione e la riperdiamo. Il capitano fa prodigi, ma purtroppo....

— Ma allora io devo andare... — e Franco provò a buttarsi giù dal suo giaciglio, mentre il porta-feriti cercava di afferrarlo pei polsi e tenerlo immobile. Fu una breve lotta, nella quale la fasciatura alla spalla si allentò, e il sangue uscì a fiotti inondandogli tutta la camicia.

— Vede, vede, signor tenente, che non può... che non deve... Lei è ferito... Lei sta male... [p. 240 modifica]Difatti Franco si lasciò andare, fiaccato dallo sforzo, mentre il sangue seguitava a cospargergli il petto. Il porta-feriti lo medicò come poté, e gli fece una nuova fasciatura, mentre Franco in delirio gridava:

— Capitano... con Lei... con gli Arditi... sempre avanti... sempre più avanti... si difende l'Italia... si vince... a tutti i costi!...

Poi, stremato dallo sforzo, madido di sudore e per il sangue perduto, cadde in deliquio.

Passate alcune ore, dopo un sonno pesante, Franco si ridestò, e prima ancora di riaprire gli occhi, tese l'orecchio. Un silenzio assoluto dominava la montagna. Acuì bene l'udito, e non gli riuscì di percepire il più piccolo rumore... Solo qualche squittio di uccello che passava in volo davanti all'entrata della caverna gli testimoniava la presenza della vita. Aprì gli occhi: la caverna era vuota. Si guardò bene intorno: nessuno! Allora provò a sollevarsi pian piano, facendo uso più del braccio sinistro che di quello destro ferito, e raccogliendo tutte le energie, riuscì a sedersi, poi, sulle gambe traballanti, compì lo sforzo di ergersi in piedi. Fatti o pochi passi della caverna, si affacciò sulla montagna, e solo udì qualche colpo di fucile, qua e là, staccato. Mentre ne usciva, vide un ardito che rimorchiava un altro ardito zoppicante su per [p. 241 modifica]un sentiero in salita, a distanza di cinquanta metri. Chiamò. Quelli si voltarono, lo scorsero, si fermarono. E mentre l'ardito zoppicante si appoggiava ad un albero, l'accompagnatore balzò di corsa al suo fianco.

— Comandi, signor tenente!

— Dove andate?

— A raggiungere il Capitano.

— E dov'è il Capitano?

— Qui fuori: sullo spiazzo di Volto, di fronte al nemico.

— Abbiamo vinto anche oggi?

L'Ardito ebbe una lacrima al ciglio, e atteggiò il viso al più profondo dolore.

— Signor tenente, i nostri son quasi tutti morti. Restiamo in pochi, e il Capitano ci chiama tutti attorno a sè.

— Ma il Colle S. Osvaldo...

— Abbiamo dovuto lasciarlo, signor tenente, dopo averlo preso sette volte. Ora è finita; ma il colle non può tenerlo neppure il nemico.

— Bene, allora andiamo dal Capitano: lo riprenderemo l'ottava volta.

E Franco si appoggiò al braccio dell'Ardito che ritrovò l'altro compagno ferito, i tre raggiunsero, dopo pochi minuti di marcia, il trincerone di Volto. Qui uno spettacolo da epopea si presentò ai loro occhi.

Fuori del trincerone, sullo spiazzo [p. 242 modifica]fronteggiante il trincerone, sotto gli occhi del nemico che dopo aver sparato gli ultimi colpi, stava in ammirazione, tutto affacciato in piedi dalle sue posizioni, a 30 metri di distanza, un Eroe italiano che per tutta la giornata gli aveva conteso il possesso di quella posizione, ora lacero, ferito, contuso, a capo scoperto, allineava come in piazza d'armi il suo pugno d'uomini rimasti, e li passava in rassegna. Quando i tre sopraggiunti furono a un passo da lui, li squadrò ben bene e indicò loro la testa dell'allineamento, dove si collocarono.

Quando fu certo che non ce n'erano altri, quell'Uomo che in quella giornata di epopea aveva fatti più fitti i capelli grigi sulle tempie, postosi a cinque passi di distanza sul fronte della truppa, con tutta la sua voce gridò:

— Compagnia Baseggio, arditi della Morte, attenti!

Disposti su due righe, in linea di fronte, gli Arditi, ufficiali, sottufficiali e soldati, s'irrigidirono sulla posizione d'attenti. Non una voce da quelle labbra, non un soffio. Mai il silenzio in riga fu così ermetico, così rispettoso. Alto lo sguardo, diritto sulla persona avvolta di stracci, il Capitano guardò bene in faccia quel suo pugno d'eroi, poi ordinò ancora: [p. 243 modifica]— Compagnia, ispezion'arm!

Gli Arditi portarono il fucile a crociat'et, aprirono il cane, guardarono nella cassa della carica, poi all'imboccatura, e ritornarono a crociat'et.

Il Capitano passò lentamente in rassegna le due file di soldati, guardò in ciascuna delle canne, con tutte le regole della Piazza d'Armi, come se un Generale fosse lì in attesa, poi comandò:

— Compagnia, pied'arm!

Con movimento sincronico i fucili furono richiusi (nemmeno una cartuccia nel caricatore!) e portato d'un colpo secco al piede. La voce del Comandante gridò ancora:

— Per sfilare in parata, Compagnia avanti, marc!

E i 54 superstiti di una battaglia furiosa e sfortunata, i resti della Compagnia della Morte, laceri, feriti, zoppicanti e deformati, ma col volto fisso in alto, alle vette alpine inazzurrate di gloria, fieri e invincibili, pronti a morire anch'essi fino all'ultimo uomo ora che vincere non era più possibile, sfilarono in parata, per due, in perfetto ordine, a passo cadenzato, secondo il Regolamento prescrive, davanti al Capitano che, a capo scoperto, la mano destra orizzontale alla fronte, la sinistra verticale lungo la costa dei pantaloni, salutava militarmente. [p. 244 modifica]Allora si udì a duecento metri di distanza, dall'orlo della trincea nemica sul Colle S. Osvaldo, una voce metallica che, fra gli spettatori di quella scena, alzò un irrefrenabile grido di plauso di schietto timbro tedesco:

— Bravi taliani! Hip hip hip, urràh!

Così fu che la Compagnia della Morte, dalla morte, e solo da essa, fu sciolta.

*

Gloria aveva preso ad amare più la strada che la casa, più il mare che la musica, più l'odore resinoso del bosco che il profumo raccolto della sua camera di vergine.

Aveva scoperto in sè il gusto della libertà, della velocità e della violenza. Il movimento continuo, la frena irrequieta di cambiar luogo, di fare cose nuove, di vedere e di sentire l'insolito, davano alla sua giovine e sottile persona una vibrazione calda che contrastava col suo «stile» ferrarese.

Il suo corpo era dominato dal bisogno di correre e di agitarsi, i suoi nervi erano invasati dall'orrore dell'inerzia, ed erano in perpetua fuga davanti al cervello, che avrebbe voluto fermarli e frustarli.

Ella non ascoltava i rimbrotti di quel cervello cattivo e castigatore. Tutto le sembrava così luminoso dolce e infantile! [p. 245 modifica]L'ebbrezza di vivere le scorreva nelle vene come uno spruzzo biondissimo di champagne.

Poi, ogni tanto, aveva momenti di sosta, d'intontimento: non trovava più il desiderio, restava inerte, appassita, greve di tutte le ombre, di tutti i passati più grigi.

Poi si riprendeva ancora: e riprendeva la corsa spensierata della sua giovinezza.

Aveva scoperto la genialità della carne e la sensibilità delle vesti. Si faceva ogni giorno più primaverile, più carina, più solida, più elegante. La sua pelle aveva assunto i toni vellutati dei tramonti partenopei: si andava fondendo con i colori del Golfo, rapiva dei tocchi alle marine riderelle, agli orli dei colli appassionati, alle sfilacciature delle nuvole pazze di primavera.

I suoi grandi occhi pensosi si erano arricchiti di luci calde, che li rendevano meno terribili e profondi, ma ne dilatavano l'alone, come astri che si vadano volatizzando irradiandosi all'intorno in un pulviscolo opaco.

Una sera, dopo una lunga cavalcata sulla marina di Chiaia, ella diede per la prima volta a Franco l'annunzio della sua trasformazione. Gli scrisse così:

«Mi sembra di rifiorire nella bellezza che mi circonda, e ho l'animo pieno di una grande melanconia sorridente. Mi dimentico, mi [p. 246 modifica]trasfondo nelle cose, nella piena, sontuosa dolcezza di questa primavera languidissima. Non oso neppur pensare. Ho una folle paura di turbare questa semi-atonia del cervello pervasa da brividi sottilissimi, di dover tornare alle acri sofferenze passate, a tormenti di sensazioni e di battiti, a ribellioni e a imposizioni crudeli. Ho bisogno si ascoltare solamente senza capire, distendere le mie braccia come quelle viti laggiù, per ricevere la pioggia d'oro del crepuscolo: sono stanca».

*

Quando Franco ricevette questa rivelazione, all'ospedale dove era ricoverato, il suo primo impeto fu di telegrafare a Glorietta:

«Vedete? il mio istinto dunque non s'ingannava, quando vi dicevo che era questione d'ambiente!».

Poi trovò più prudente dire queste cose a sè stesso. Temette d'irritare la sua amica forzandola a riconoscere la verità, quando forse questa non era ancora maturata completamente. L'orgoglio avrebbe potuto anche render vana l'opera geniale delle circostanze, e la ragazza avrebbe potuto trovare la forza di rinserrarsi nell'antica corazza di rinuncia.

Perciò le rispose senza baldanza, felicitandosi con lei per questo primo incontro con [p. 247 modifica]la vita, e insinuò qualche innocente malignità, come questa:

«Immagino che gli eleganti napoletani non saranno indifferenti alla vostra grazia: e il vostro grande amico sarà dimenticato quassù, nel paese leggendario della morte».

Bastò questa frase per provocare una lettera tenerissima di Glorietta:

«Cattivo, cattivo amico! davvero meritereste che io vi dimenticassi, se osate pensarlo. Dunque credete ch'io sia divenuta così frivola e vana, da posporre una cara dolce profonda amicizia a qualche sciocchissima galanteria di bellimbusti «riformati»? Come volete ch'io dimentichi che da voi io ho udito le parole più penetranti, più nuove e commoventi che abbia finora ascoltato? E poi, caro, la vostra lontananza potrebb'essere un'attenuante per una donna obliosa, se voi non vi trovaste, come vi trovate, in un pericolo di ogni ora, di ogni minuto; ciò che vi fa molto molto più vicino al mio cuore che se voi foste qui; ciò che mi dà un'angoscia continua, ossessionante, che mi permette, sì, di fare tante altre cose, ma che tuttavia mi comprime giorno e notte la gola con una mano di ferro...».

Effettivamente Glorietta, attraverso le sue gite in canotto, in auto, a cavallo, non è posseduta che dal pensiero dell'assente. Il suo [p. 248 modifica]agitarsi vertiginoso, il suo parlare, il suo escogitare, il suo elettrizzarsi violento, hanno qualcosa di automatico e di febbrile. Si direbbe che ella non può fare a meno dell'esteriorità a cui si concede totalmente per non lasciarsi assorbire da un'idea fissa che le scava nel cuore e nel cervello un solco di angoscia dolorosissima.

Si direbbe che la Natura abbia preso questa creatura fra le sue braccia, e la voglia trasfigurare a tutti i costi, contro la sua stessa volontà, per presentarla poi a colui che l'attende con infinito amore e dolore infinito, che nell'attesa giuoca temerariamente con la morte.

Quando la Natura prende fra le sue braccia un essere umano, anche la Morte s'inchina, e si ritira rispettosamente.

Glorietta non resiste ormai più alla materna violenza della sua fatale trasfigurazione. Tutto il vigore del sole e tutta la densa forza dell'aria marina, tutte le sensuali congiure dei giardini scoppianti di profumo, le invadevano lentamente, inesorabilmente l'organismo. Le sue spalle scarne e un po' abbandonate, si riempiono, si arrotondano, il suo collo sempre più scoperto, si va incurvandosi armoniosamente verso le spalle. Quando ella torna da una gita, ha il petto balzante, le guance colorate di vermiglio, gli occhi [p. 249 modifica]sfavillanti, i capelli scomposti. Il sole, il vento e i profumi la vestono, la tingono, la pettinano, la plasmano, le danno l'espressione. Nessun artista è così potente come una primavera napoletana ad animare una creatura che esce da un passato di letargica rigidità.

Franco Arbace, si ricordava ora dell'impressione enigmatica che le fecero il giorno del primo incontro, le labbra rosse rosse e i dentini compatti e brillanti di Glorietta, sul fondo del viso pallidissimo e spirituale.

Comprendeva ora che cosa quelle labbra e quei dentini significavano. E cercò d'immaginarsi tutto il volto della fanciulla in armonia con quella promessa di bellezza forte, di sana sensualità.

Dal fondo del suo letto Franco pensò che i loro destini erano su un taglio di spada. Da una parte la morte minacciosa che aveva sfiorato l'uomo ad ogni minuto. Dall'altra l'insidia della giovinezza e della seduzione che avrebbe potuto gettare all'improvviso la donna fra le braccia di qualche conquistatore audace ed accorto.

E con questo pensiero che lo turbava, ma che non uccideva la sua fede possente nell'avvenire, Franco Arbace si rigirò fra le lenzuola, e attese l'alba senza dormire. [p. 250 modifica]

*

Glorietta aveva appena immerso nell'acqua tiepida della vasca le sue lunghe gambe ambrate, che udì dietro la porta, sul corridoio, prima un bisbiglio confuso, poi uno stropiccio di passi, un fruscio di vesti, e delle risatine fra sussurri di parole in sordina.

Allarmata, si appoggiò con le mani ai due parapetti della vasca e ascoltò. Poi, sentendo freddo, s'immerse fino al collo, suscitando un commento festoso di acque riderelle intorno ai suoi piccoli seni galleggianti.

Allora il bisbiglio, lo stropiccio, il fruscio, e i sussurri, divennero voci e rumori, poi schiamazzo, poi baccano.

Era l'allegra banda delle amiche e degli amici, che, alle nove di mattina, osavano venire a destare la principessina dormiente, per condurla alla consueta partita di tennis. La cameriera aveva rivelato che la signorina entrava allora allora nel bagno, ed ecco che la comitiva dava l'assalto al bagno.

— Vergogna! Non essere ancora pronta!

— A quest'ora: le 9 sonate!

— Pigrissima creatura!

— Ti vediamo, sai, attraverso il foro della chiave!

— Seguiamo tutte le tue evoluzioni.

Glorietta mandò uno strillo acutissimo, [p. 251 modifica]poi, grondante acqua, si allungò a coprire con un asciugatoio la serratura indiscreta.

Le risatine, i frizzi, i bons-mots continuarono attraverso la porta.

Glorietta, nel piegarsi per rientrare di nuovo nel bagno, si accorse di essere davanti allo specchio. Rimase un momento sospesa in una posa da danzatrice, con le dita di una mano a contatto dell'acqua, e con l'altro braccio disteso orizzontalmente all'altezza della spalla. Si guardò nello specchio, si afferrò bene tutta con gli occhi, per giudicarsi. Da quanto tempo non si vedeva! Da quanti anni non osservava la sua struttura!

Si ricordava di aver avuto sempre una vergogna pazza della sua nudità. Anche da bambina, quando la madre veniva a spogliarla o a vestirla, nel cambiarsi la camicia chiudeva gli occhi per essere ignota a sè stessa. Da giovinetta si era vista una volta o due allo specchio, e si era trovata così scimmiescamente magra, scura di pelle e angolosa, che poi aveva pianto sul guanciale e aveva giurato di non guardarsi mai più, restando ad occhi serrati tutte le volte che si fosse immersa in una vasca. Quel giorno invece osava tranquillamente mirarsi allo specchio, e sorrideva a sè stessa. Perchè? Era molto cambiata, la giovinetta pudicissima e selvaggia di un tempo. Era cambiata di struttura, di [p. 252 modifica]forme, di pelle, e di spirito. Osava guardarsi e sorrideva. Sì, sorrideva perchè in fondo poteva compiacersi di quella contemplazione. Ancora magra, ma liscia e armoniosa di linee, ella aveva la pelle bronzeo-olivastra di chi sta molto al sole, ma con una delicatezza rasata che rivela la razza. Il suo petto non tradiva un osso; il suo collo non lasciava emergere un'arteria; aveva, sotto gli orecchi e verso la nuca, delle nuances più calde, con propaggini di capelli sfumati in un viola fondo; e scendeva verso le spalle con una raffinata sinuosità, solidificandosi all'innesto delle braccia in un gesto largo e bravo di ginnasta che sa slanci temerari. Erano quelle spalle agili e piene che sorreggevano con tanta eleganza i due seni piccoli e sobri, che parevano modellati da due coppe di avorio, tanto erano fermi e sostenuti ai lati di quel petto largo abbastanza per sfidare una bufera di amore e di morte, una corsa nell'infinito, a ritroso dei venti più folli.

E lo sguardo di Glorietta scendeva e continuava a sorridere, con ironia e con gusto, osservando la cintura esilissima e il bacino non grande ma dolcemente incurvato, da cui guizzavano due gambe snelle, nervose, diritte, due gambe tornite per marciare in cadenza appassionata accanto ad un uomo forte ed audace. [p. 253 modifica]Mentre la comitiva seguitava a tempestare dietro la porta, Glorietta, rapita dal proprio nudo, sorrideva, sorrideva, e non sapeva e non sentiva nulla. Un pensiero non espresso, una sensazione immensa senza parole, l'aveva avviluppata, e scorreva sotto tutta la sua pelle, dal tallone alla nuca, come un gran getto di sangue luminoso, che, difatti, le illuminò gli occhi che balenarono profondi e le agitò un brivido che le sciolse sulle spalle la vasta massa dei capelli nerissimi.

Allora sentì freddo, e si tuffò con violenza. Poi afferrò il sapone, e lo fece scivolare velocemente su tutta la pelle, senza più guardare lo specchio.

Si era accigliata. Un'ombra le annuvolava la faccia, dopo quel gran baleno di luce. Quando la sua pelle fu tutta schiuma, quando si trovò con le mani sui ginocchi che schioccavano felici dell'insaponatura, Glorietta udì finalmente che dal corridoio la si chiamava con seria insistenza:

— Glorietta! Ma sei sorda dunque? C'è un telegramma per te, hai capito? Un te-le-gram-ma!

Si fermò. Guardò davanti a sè, trasalendo, con un cipiglio di sospetto. Un telegramma?! Scherzavano!

— Guarda, lo infiliamo sotto la porta. [p. 254 modifica]Cerca di prenderlo. Potrebb'essere importante.

Lo vide difatti sbucare di sotto il tramezzo.

Disse:

— Grazie!

E così insaponata uscì dalla vasca, si curvò tremante un poco, raccolse la bustina terrea, la lacerò d'uno strappo. Ignuda davanti all'ignoto, con un'emozione traboccante, lesse queste parole:

«Ferito non gravemente braccio destro — pensovi serenamente soavemente — Ospedale da campo 271.

        Sottotenente Arbace.»

Quando Glorietta uscì di camera, le amiche intuirono subito qualcosa di grave e di doloroso. Ella scese di corsa nella sala da pranzo, cercò zia Noemi, e l'abbracciò teneramente.

— Aiutami, zia! — mormorò — Aiutami! Fammi partire..... Fammi andare lassù.....

Zia Noemi lesse il telegramma, si commosse, capì. Non fece una domanda nè una parola di commento. Zia Noemi era molto influente, conosceva tutta Napoli, e poteva chiedere qualunque cosa al Prefetto o al Generale di Corpo d'Armata, sicura che, per lei, non ci sarebbero state difficoltà.

Si vestì rapidamente, salì in automobile [p. 255 modifica]con Glorietta, e la condusse dal Prefetto e dal Generale.

In 24 ore il passaporto di Glorietta era firmato, vistato, bollato e consegnato. Solo le donne, qualche volta, hanno il potere di velocizzare il pachidermico meccanismo della burocrazia!

Alla stazione, zia Noemi, abbracciò la nipote, che aveva sul viso tutta la speranza e tutto il terrore, e le disse:

— Segui con coraggio il tuo destino di donna. Non temere mai nulla, se agisci con sincerità. Abbi fiducia nella vita!

Predica sintetica e sensata, che, venendo da una vecchia, fece a Glorietta l'effetto di una iniezione di energia.

Partì piena di coraggio e di ottimismo.

Durante il viaggio pensò a tante cose...

Anzitutto, le parve di essere una grande colpevole, una donna incosciente e indegna di vivere; aveva permesso che un uomo che l'amava profondamente, soffrisse per lei, e mentre egli si trovava nell'inferno della trincea, in pericoli incredibili, ella aveva pensato a divertirsi, a ballare, a gioire, come se la vita di Franco non l'interessasse minimamente.

Paragonava sè stessa a Franco, e di fronte a lui, così vivo e chiaroveggente, così buono, geniale ed eroico, ella si trovava [p. 256 modifica]così piccola e meschina, così chiusa ai divini ammonimenti della vita! Per tanti mesi non aveva capito, non aveva sentito, l'affascinante tragedia di quello spirito di uomo raffinato e avvelenato, che aveva voluto rifare la sua vita attraverso l'amore e la morte.

Era stata sorda ai richiami di quell'amore completo, e aveva permesso che «senza speranza», Franco s'immergesse nella zona arroventata della distruzione. E tutto questo perchè? Per un cocciuto illogico immorale sforzo d'immaterialità, che d'altronde le era costato poca fatica, dato il gelo dell'ambiente, la solitudine, e la delicata salute.

Adesso che il sole, il mare e la primavera di Napoli le avevano arricchito il sangue, rinsaldati i muscoli e abbronzita la pelle, Glorietta Crimi sentiva di essersi sbagliata, e riconosceva con un rimorso cocente i suoi grandi torti verso la giovinezza e l'amore.

Giovinezza ed amore che per lei, oramai, si chiamavano Franco Arbace.

*

Quei giorni di Ospedale, nei quali fu costretto all'immobilità assoluta, furono preziosi per Franco. Gli permisero di ricapitolare quella prima esperienza di guerra, che aveva sconvolto dal profondo la sua [p. 257 modifica]coscienza di uomo facendogli ritrovare il «sè stesso» sepolto sotto le sovrastrutture della civiltà artificiale, deformatrice di sensibilità. Rifacendo a ritroso la breve ma profonda storia della sua giovinezza colta di sorpresa da eventi spaccanti, Franco dovette riconoscere che, ben più energicamente di ogni altro fatto, la guerra incide situazioni e caratteri, sfodera armi e valori sconosciuti, dischiude risorse dello spirito, rivela possibilità insospettate, illumina abissi d'anima, scatena passioni nuove, forze nuove, tutt'un mondo che non si sospettava in noi stessi, suscettibile di immensi sviluppi. Attraverso quel collaudo elementare nel suo gigantesco, che è una guerra di popolo, si determina la grandezza o la bassezza di quel popolo: se, in questa fondamentale «prova del fuoco», l'eroismo, l'idealismo, lo spirito di sacrificio, la bellezza morale di una razza, si esprimono su larga scala, non come eccezione ma come sistema, come fenomeno collettivo, vuol dire che la razza è destinata a grandi cose; se, viceversa, essa non resiste alla prova, e la subisce passivamente, a schiena e a spirito proni, è segno che la razza non ha avvenire, è destinata a spegnersi.

L'Italia aveva affrontato quel primo anno di guerra con magnifica fierezza, rivelando virtù individuali e collettive da grande [p. 258 modifica]popolo guerriero, prontezza di spiriti e di muscoli come non si sarebbe mai creduto, qualità d'improvvisazione che, se nelle opere di pace possono scambiarsi per impreparazione e superficialità, in una guerra che ci trovò impreparati in ogni senso, si rivelarono provvidenziali. Senza la nostra inventiva, la nostra fantasia, la nostra iniziativa, non si sarebbe vinto una sola battaglia. Preziosa sensibilità immaginativa degli italiani! Ma perchè farci trovare impreparati, di coscienza e di armi? Ecco quel che Franco si domandava con preoccupata insistenza. Che cosa avevan fatto i Governi di destra o di sinistra, conservatori o democratici, da Porta Pia in poi, che cosa aveva fatto l'idea liberale, la democrazia, il parlamentarismo, la massoneria, se non avevano dato agli italiani un'idea dei loro doveri verso la Nazione, se non avevano impresso alla loro coscienza nazionale, giovane ma fino a un certo punto, l'orgoglio della Patria, della razza, del passato e del futuro, il sogno della grande stirpe di cui siamo eredi legittimi? Quarantacinque anni di sonno, dopo la conquista di Roma, che doveva essere un punto di partenza e non di arrivo, quarantacinque anni di ripiegamento, di vita tributaria, di umiltà di Nazione che vuol farsi perdonare l'unità raggiunta, l'indipendenza conquistata con fior [p. 259 modifica]di sangue, di eroismo, di sacrifici; l'unico concetto diffuso tra le masse: la coscienza di esser piccoli, di valer poco, di non contar nulla nel consorzio dei popoli, di esistere mercè la condiscendenza altrui, così che l'indipendenza politica partoriva la dipendenza morale, diplomatica, economica, concettuale.

E pure, un popolo allevato in quest'atmosfera di depressione, di umiltà, di pochezza, di scetticismo e di pessimismo, aveva già vinto ripetutamente sull'Isonzo e resisteva con ferma maschiezza sulle Alpi, osando l'inosabile là dove la guerra si presenta complicata dalle asprezze del terreno, dalle difficoltà di piazzare e di adoperare l'artiglieria ad altezze e per cammini impraticabili, dalla invisibilità dei bersagli, e dall'aver quasi sempre la posizione più bassa, mentre quella più alta è in mano al nemico fornito di uno degli eserciti più armati e più allenati d'Europa.

E allora? Allora il monito di questa constatazione era uno solo: che il popolo italiano, ben degno della tradizione romana, comunale, del Rinascimento e del Risorgimento, aveva mostrato una magnifica tempra sa cui si può ottenere qualunque miracolo; ma i suoi governanti, la sua classe politica, gli [p. 260 modifica]sono di mille cubiti inferiori, e non hanno il diritto di governarlo.

Franco lo vedeva anche nella vita militare. Dal giorno della sua visita al Distretto di Roma, in cui gli si rinfacciò il suo volontarismo come una forma di ridicola pazzìa, via via in tutti i Reparti per cui era passato, e fin quasi al limitare della Compagnia della Morte, l'ironia, lo scherno, la frecciata scettica avevano accompagnato il suo ardore e la sua dedizione alla Patria. Qualche vecchio generale aveva trovato il modo di «sfottere», con allusioni al medioevo e ai guerrieri di stagno, quella divisa di assalto che gli Arditi di Baseggio avevano indossato. I difetti e le debolezze della mentalità politica s'erano insinuati nel congegno militare, inquinato di massoneria e di professionismo pacifondaio, dandogli forme ed espressioni inadeguate a uno sforzo di guerra come quello che si tentava: troppa burocrazia, troppo formalismo senza contenuto, troppa disciplina formale e nessunissima spirituale, troppo orrore della responsabilità e nessuna coscienza di un superiore dovere, aveva riscontrato Franco nella sua rapida ma attenta esperienza di soldato. Egli comprendeva le ragioni di tutto ciò, e le faceva risalire all'anti-educazione politica che una classe dirigente frolla, marcia, [p. 261 modifica]antipatriottica o patriottarda alla vecchia maniera dell'êra cospiratoria, aveva diffuso sul corpo dell'Italia come un'atmosfera dissolvente da cui non avrebbe potuto uscire che il fenomeno del disfattismo, e, più tardi, del bolscevismo.

Ma il popolo italiano in grigioverde combatteva, e combatteva bene. Esso era già degno del suo destino. Solo che aveva bisogno di un'altra atmosfera morale, spirituale, politica. È quest'atmosfera che bisognava dargli. Franco ne sentiva l'imperiosa necessità, e meditava come e quando si sarebbe potuto pervenire a una radicale trasformazione della vita italiana, basandola su nuovi concetti, su nuove direttive, su nuovi sistemi di pensare, di agire, di sentire, di essere italiani. Trasformazione? Ma questa sarebbe una vera e propria Rivoluzione! A questa parola fremette.

Nel vecchio senso, rivoluzione è stata sempre sinonimo di disordine, di disgregazione, di anarchia. Da quella giacobina dell'89 fino a quella recentemente minacciata dal Socialismo internazionale, sgusciato fuori dagli ordini nazionali solo per il colpo datogli dai tedeschi, che avevano mostrato di farne una delle armi della Patria tedesca, tutta a danno altrui, quando si parlava di rivoluzione la s'intendeva contro la Patria, a [p. 262 modifica]base classista, cioè buona a smembrar le Nazioni, a dissolverne l'economia, a creare il disordine, abbattendo i principii basilari del reggimento politico dello Stato, le forme legittime della convivenza, le insegne dell'Autorità. Ma questo pericolo a Franco non pareva probabile, in quanto i socialisti italiani erano in maggioranza riformisti, e l'unico uomo che avrebbe potuto scatenare la rivoluzione del popolo in Italia, convertitosi spontaneamente alla Patria e alla Guerra, era al fronte a compiere il suo dovere di volontario in divisa di bersagliere.

Allora, la rieducazione italiana nel senso nazionale, l'eliminazione della vecchia classe dirigente formata di decrepiti e di mosci, di pedanti e d'incapaci (socialisti sì, ma anzitutto liberali, democratici e massoni) doveva avvenire attraverso un processo di auto-investitura di una coscienza collettiva della gioventù combattente, che, vinta la guerra, dato alla Patria sul fronte nemico quanto era in essa di dare, rovesciato il fronte, si voltasse contro il nemico interno, marciando con le stesse armi e lo stesso arditismo che piegava l'austriaco, a conquistarsi una Patria nuova, un'Italia ripulita e ringiovanita, nei Capi, nelle Idee, nello spirito animatore, nelle direttive, nelle volontà, sulle tracce [p. 263 modifica]lasciate dalla forza di Roma lungo le vie consolari.

Franco sognava ad occhi aperti. «A che varrebbe — pensava — il sacrificio di oggi, e di quanta guerra ancora ci resta, se, dopo aver ribaltato il nemico fuor dalle Alpi, dovessimo ricominciare da capo questo livello di vita inferiore, fra le idee mediocri che ci hanno educato, condotti da questi capi indegni? No, no, salvata ai confini, bisogna rifarla di dentro, la nostra Italia.»

Era il sogno febbrile di un generoso combattente, ferito, cui le membra dolenti dessero una visione utopistica e morbosa del futuro? O era lo scenario fatale dell'avvenire d'Italia che si prospettava alla sveglia coscienza di un consapevole, uno dei tanti, uno della moltitudine che dalle trincee, o dagli ospedali, dalla zona del fuoco o dai silenzi di una bianca corsia, anelava ad avere una Patria più grande, più bella, più ordinata, più rispettata, risorta sulle rovine della Vecchia Italia sempre umiliata e avvilita, serva di tutti, spregiata da amici e nemici? Era ora di finirla! e se il sacrificio della guerra, coi suoi morti, i suoi feriti e mutilati, le sue fatiche, i suoi disagi, il suo miracoloso inferno e il suo infinito patire, non avesse dovuto produrre la redenzione di una Patria rifatta e ingrandita nell'anima e nel [p. 264 modifica]volto, allora — oh Signore Iddio, fate che questo sia! — meglio morire tutti, meglio inabissarci in massa fino all'ultimo italiano, fino all'ultimo combattente, e che sia la fine di tutto, per sempre!

*

L'ospedale 271 era vicino a Primolano.

Glorietta vi giunse in un'alba perlata e ridente di maggio alpino, e fu invasa da una gioia infinita nell'entrare, lei, piccola donna sola ed inerme, in quell'atmosfera di fuoco, di grigia metallicità, di severa disciplina e di febbrile tensione.

Gioiva di trovarsi in un ambiente di energia e di movimento, che spalancava orizzonti sconfinati alla giovinezza edificatrice e rinnovatrice.

Ambiente rivoluzionario, così lontano dai vecchi ambienti cittadini convenzionali ed ipocriti. Là solo chi ha maggiori possibilità di lavoro e di lotta, può esistere e comandare. I vecchi, i fiacchi, gli anemici, sono esautorati e scartati brutalmente per selezione automatica.

Comprese in un attimo, Glorietta, l'evoluzione spontanea di Franco, e si sentì più che mai vicina a lui, desiderosa di lui, innamorata della forza e dell'eleganza suprema [p. 265 modifica]del suo spirito aderente ad una forma superiore di vita.

*

Quando lo vide, nella bianca corsia, casta e fresca di amorevole pietà per tutto il rosso e il rovente delle ferite che conteneva, Glorietta si slanciò verso il suo letto, gli si inginocchiò di fianco, prese la sua mano che usciva dalla fasciatura, la baciò lungamente, devotamente, come la reliquia di un grande, di un divino sacrificio.

Franco aveva un po' di febbre. E dagli occhi accesi ed intensi stillarono delle lacrime, gonfie di felicità e di gratitudine.

Non aveva immaginato, il ferito dolorante che in un attimo di disperazione aveva invocato la morte, che Glorietta, la lontanissima frigidissima irriducibile Glorietta, sarebbe volata a lui, con un così pronto e deciso slancio di donna innamorata, rivelandogli all'improvviso una realtà immensa e prodigiosa, alla quale egli non credeva ormai più.

L'infinita felicità di quella rivelazione lo avvolse di delirio. La sua febbre salì, gli arroventò le vene, lo squassò terribilmente per tutta la notte. Tutta la notte Glorietta fu al suo fianco, soave e angosciata, tremando per la sua vita e per la propria, e offrendo sè stessa e tutta la sua speranza di gioia perchè [p. 266 modifica]il suo adorato fosse sottratto alla nuova insidia.

Tutti erano preoccupati. Il capo-reparto lo esaminò con cura diverse volte, e verificò nei suoi documenti se l'iniezione anti-tetanica fosse stata eseguita. Risultava eseguita due volte.

E difatti l'indomani la febbre calò, il delirio si estinse, e il viso affilato del ferito ebbe dei bianchi sorrisi sereni che preannunciavano il mattino radioso della sua, della loro meravigliosa felicità.

Solo allora Gloria seppe che Franco era stato ferito otto giorni prima, e che si era deciso a informarla solo quando i medici l'avevano dichiarato fuori di pericolo.

*

Come seconda tappa ospedaliera, Franco passò a Ferrara, richiesto dalla Direzione degli Ospedali di quella città.

Vi restò ricoverato per due mesi e mezzo. Subì un'operazione al braccio destro, mediante la quale il nervo leso potè riprendere quasi completamente le primitive funzioni. Fu dichiarato permanentemente inabile alle fatiche di guerra, ed ebbe una licenza di un anno.

Egli portò questa notizia a Glorietta [p. 267 modifica]all'imbrunire del 9 Agosto 1916, e subito dopo le diede un giornale, nel quale era annunciata una grande vittoria italiana: la presa di Gorizia.

Quella sera la signora Crimi si era sentita male, ed era salita in camera sua senza cenare. Glorietta si dondolava sul suo sdraio nella terrazza straripante di fiori e di piante grasse.

L'aria premeva soavemente con un calore di serra viziata le sensibilità snervate da tutto un giorno di sole rovente. Franco si sedette di fronte alla sua adorata, e le baciò le mani.

— Amore — le disse, dopo un momento di silenzio — non vi sembra che possiamo ormai prendere una decisione?

— Di che genere? — fece, sorridendo, la ragazza.

— Ma... di genere... serio... — e Franco sorridendo — di genere sociale. Ora che ho un anno di libertà, che mi sento nuovamente forte ed energico, vorrei fare qualcosa.

— Per esempio?...

— .....sposarvi.

Glorietta scoppiò a ridere.

— Ma dite sul serio? Voi ed io, sposarci? io e voi divenire marito e moglie? ma sapete che sarebbe buffo!

Franco rimase un po' male. [p. 268 modifica]— Buffo? Perchè? Non ci amiamo forse?

— Ah questo sì! Io almeno... no, sono giusta, anche voi... sì, ci amiamo. Ma francamente, che questo dovesse condurre me e voi al matrimonio, non ci avevo proprio pensato.

— Cara: non possiamo mica seguitare in eterno a guardarci negli occhi senz'altra conseguenza.

— È giusto. Ma... insomma... al matrimonio non avevo pensato.... che so io... mi eran qualche volta balenate delle idee... delle possibilità... degli istinti indecifrabili... Avevo sentito il bisogno di dilatare l'orbita del sentimento in espressioni più calde, più complete, più degne di voi, amore...

— E di voi.

— Sì... ma è un'altra cosa. Voi avete ben più sofferto e aspettato perchè io possa preoccuparmi della mia felicità. Io non vedo che la vostra, io non sogno che voi, che tutto quanto può interessare voi e la vostra vita... Franco le si inginocchiò davanti. Le baciò avidamente le mani e le braccia ignude.

— Angelo mio! Amore dolce!

Glorietta gli carezzò la testa, immergendo le dita nei suoi folti capelli di giovane forte, glieli scompigliò smaniosamente, con un soavissimo lagno di gattina che sta per distendersi. Franco baciò baciò quelle mani [p. 269 modifica]azzurrine e palpitanti. Glorietta carezzò carezzò carezzò quei capelli neri e ricciuti.

La sera li avviluppava in un abbraccio violento e soffocante. Franco passò a poco a poco le sue braccia attorno alla vita di Glorietta, e la sentì vibrare elasticamente. Glorietta, scese a carezzare la nuca e il collo di Franco, e ne ebbe un brivido travolgente.

Le parole a poco a poco si spensero. I gesti si moltiplicarono.

Il firmamento acceso di curiosità, si chinò sensualmente verso questa terrazza, e rimase qualche istante appoggiato alle gronde delle case, soffitto di splendori silenziosi sopra un'alcova di profumi schiamazzanti.

La terrazza fiorita rimase sepolta in una sinfonia di bianco e nero, come un'acquaforte misteriosa.

In quel groviglio di rampicanti e di oleandri, in quella specie di alcova-giardino, nella quale si concentravano e si concretavano tutti i profumi, i sogni e i desideri della sera, Franco avvolse la sua divina donna nel profumo, nel sogno e nel desiderio del suo amore martirizzato da tanta attesa, e la fece sua con tutta l'energia, con tutta la febbre, con tutta l'intensità di uno schietto temperamento maschile, che l'esperienza e il dolore, la morte e il pericolo avevano [p. 270 modifica]sviscerato e piazzato nella luce palpitante della realtà.

E Glorietta, che pure aveva ritrovata sè stessa attraverso la libertà, l'esperienza fisica, il movimento, nel sole della vita e della gioia umana, si abbandonò al suo fidanzato con tutto l'impeto che fino allora una pallida ideologia scaturita dall'illusione, aveva incarcerato nella sua anima vergine.

Furono le nozze ardenti e felici degli istinti invano repressi, della natura invano negata, nella stagione culminante dell'uomo, su quel letto di fiori sparpagliati dall'esuberanza di una notte languidissima.

E furono le nozze spiraliche di due spiriti azzurri e geniali, irradiati nell'immensità di una notte stellatissima, in una propagazione di amore e di conquista siderale.

Mai forse un uomo e una donna si accoppiarono con così perfetta fusione di energie fisiche e spirituali.

La loro febbre espansiva potè raggiungere in quella notte tutti gli eccessi, tutte le violenze; e fu sempre trasfigurata e purificata dal ritmo stellare dei loro spiriti vigilanti.

Quella notte Franco comprese il grido dell'istinto fondamentale dell'uomo, e gli obbedì fedelmente: sicuro che quella [p. 271 modifica]combustione di carni era giustificata e difesa da quella accensione di anime.

Fu l'equilibrio perfetto.

Una vittoria della vita, che riuscì a fondere e parificare due forze rimate e nemiche: un firmamento ispirato e un giardino delirante.

La felicità di due bocche premute perdutamente ebbe per simbolo sconfinato un mondo di profumi terrestri che addentava voluttuosamente un mondo di luci celesti.

La pelle di Glorietta traspirava un inno di ringraziamento alla vita, mentre le sue labbra mormoravano nei baci senza fine:

— Caro... forte... generoso... dolcissimo amore...



Monte Grappa - Roma, Maggio - Dicembre 1918
Porto Alegre, Dicembre 1932 - XI