Morgante maggiore/Canto decimo

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Canto decimo

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Canto nono Canto decimoprimo
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CANTO DECIMO.




ARGOMENTO.

È soccorso Parigi, e Gano accende
Romor, che Carlo è in lega co’ Pagani.
Stuol maganzese la città difende;
Rinaldo ed Erminion menan le mani:
A’ paladin la libertà si rende.
Rinaldo e Orlando han de’ pensieri strani,
E Malagigi n’è la cagion forte:
Vegurto da Morgante è posto a morte.


1 Te Deum laudamus, sommo Padre;
     Te confessiam, Signor giusto e verace;
     Laudata sia la tua benigna madre;
     Donami grazia, Signor, se ti piace,
     Ch’io conduca a Parigi le mie squadre,
     E tragga Carlo fuor di contumace;1
     E ch’io ritorni ov’io lasciai il mio canto
     Colla virtù dello Spirito Santo.

2 Era già presso a Parigi a tre miglia
     Faburro, ch’era innanzi all’altra gente;
     Mentre che Carlo voltava le ciglia,
     Vide le schiere, e gli stormenti sente:
     Non sa che fussin della sua famiglia,
     E più che prima fu fatto dolente;
     Pur così afflitto alla sua gente è corso,
     E chiama Gan, che debba dar soccorso.

3 Gano appellò il suo capitan Magagna,
     E disse: Presto alla porta n’andate,
     Chè nuove gente vien per la campagna;
     Quivi la vostra prodezza mostrate,
     Chè starsi drento poco si guadagna.
     Furno in Parigi molte gente armate;
     Ognun del caso nuovo si sconforta,
     E tutti si ridussono alla porta.

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4 Faburro è giunto, valoroso, ardito,
     Che cavalcava un possente cavallo;
     La lancia abbassa, un Cristiano ha ferito,
     E morto in terra faceva cascallo;
     Gan di Maganza incontro gli fu ito,
     E disse: Aspetta, traditor vassallo;
     La lancia abbassa, e lo scudo percosse,
     Ma dell’arcion Faburro non si mosse.

5 Al conte Gano un colpo della spada
     Dette, che presto trovò la pianura;
     Molti cader ne fece in sulla strada,
     Tanto ch’assai ne fuggon per paura.
     Gan si rilieva, e non istette a bada,
     E riprovar volea la sua ventura;
     E fece quel che potea il fraudolente,
     Ma in questo tempo giunse l’altra gente.

6 Per Parigi era levato il romore,
     E Carlo era montato in sul destriere.
     Giunto alla porta, con molto dolore
     Subito riconobbe le bandiere
     Del suo nipote Orlando e ’l corridore,
     Ch’avea scoperto il segno del quartiere;
     E già Faburro incontro gli è venuto,
     E dismontato, e fatto il suo dovuto.

7 È questo Carlo, c’ho bramato tanto
     Di vederti una volta? or son contento;
     Non dubitar, pon fine al lungo pianto;
     Qua è Orlando, che già presso il sento.
     Carlo si trasse per dolcezza il guanto,
     E disse: Lieva, baron d’ardimento.
     Ed a Faburro toccava la mano;
     In questo, giunse il sir di Montalbano.

8 E saltò di Baiardo, e ’nginocchiossi;
     Ecco Ulivier che facea similmente.
     Non sapea Carlo in qual mondo si fossi,
     Tanta allegrezza nel suo petto sente.
     Non si son questi pria di terra mossi
     Che ’l suo nipote giugneva presente,
     E saltò armato fuor di Vegliantino,
     E ’nginocchiossi al figliuol di Pipino.

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9 Carlo gli abbraccia con amor perfetto,
     E benedice mille volte o piue:
     Meridiana giugneva in effetto;
     E dismontata, poi che in terra fue,
     S’inginocchiò dinanzi al suo cospetto.
     Disse Ulivier: Questa crede in Gesue,
     E sua prodezza non ha pari al mondo;
     Viene a veder te, imperador giocondo.

10 Ed è figliuola d’un gran re pagano,
     E molta gente ha qui del suo paese,
     E vengono aiutar te, Carlo Mano.
     Subito Carlo le braccia distese,
     E prese la donzella per la mano,
     E ringraziolla di sì fatte imprese;
     E grand’onore alla gente pagana
     Facea far Carlo di Meridiana.

11 Disse Ulivieri alla gentil donzella:
     Che ti par, dama, detto imperadore?
     Disse la donna graziosa e bella:
     Degno di gloria e di pregio e d’onore;
     E certo chi di sue laude favella,
     Al mio parer, non può pigliare errore;
     Non minuisce già la sua presenzia
     La fama, il grido, e la magnificenzia.

12 Carlo la fece cavalcar davante,
     E poi appresso il duca Borgognone;
     Ecco apparir col battaglio Morgante.
     Carlo guardava questo compagnone,
     E disse: Mai non vidi un tal gigante!
     Ebbe di sua grandezza ammirazione.
     Morgante ginocchion lo superava,
     E così Carlo la man gli toccava.

13 Verso il palazzo Carlo s’invioe,
     Più che mai fussi in sua vita contento;
     Gan, come Orlando vide, si pensoe,
     Che questo fussi il suo disfacimento;2
     E come disperato, a sè chiamoe
     Magagna, e fece un altro tradimento,
     Dicendo: Poi che questa gente pazza
     Entrata è drento, soccorriam la piazza.

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14 Gridiam che Carlo tradimento ha fatto,
     E ch’egli ha dato Parigi a’ Pagani,
     E come alcun di lor v’è contraffatto,
     Che pare Orlando e gli altri capitani.
     E tutto il popol sollevò in un tratto;
     Corse alla piazza con armate mani;
     Il popol parigin dava favore
     A Gan, chiamando Carlo traditore.

15 Non si cognosce ancor per molti Orlando
     O gli altri, perchè l’elmo aveano in testa;
     I Maganzesi la piazza pigliando,
     Fu la novella a Carlo manifesta,
     Che tutto il popol si veniva armando:
     Parvegli segno di cattiva festa.
     Rinaldo presto correva alle sbarre
     Co’ Saracin, ch’avean le scimitarre.

16 Furno in un tratto le sbarre tagliate,
     E in ogni parte, ove Gan fe serraglio;
     Meridiana è tra sue gente armate,
     E fe gran cose in sì fatto travaglio;
     Orlando corse coll’altre brigate;
     Giunse Morgante, e diguazza il battaglio;
     Ed Ulivieri innanzi alla sua dama
     Dava gran colpi, per acquistar fama.

17 Rinaldo, in mezzo di que’ Maganzesi,
     Quanto poteva Frusberta menava,
     Tagliando a chi i bracciali,3 a chi gli arnesi,4
     E molti in terra morti ne cacciava;
     Molti ne fur feriti e molti presi:
     Ecco il Magagna, che quivi arrivava;
     Rinaldo al capo un gran colpo gli mena,
     E fessel come tinca per ischiena.

18 Ma poi che fu cognosciuto Rinaldo
     E gli altri, ognun per paura fuggia,
     Che lo vedieno infuriato e caldo;
     Tosto la piazza sgomberar facia,
     Dicendo: Ov’è quel traditor ribaldo
     Gan da Pontier? Ma fuggia tuttavia:
     Non si fidò di star drento alle mura,
     Perch’egli avea di Rinaldo paura.

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19 Così fu presto cessato il furore;
     E conosciuti i nostri buon guerrieri,
     Ognun gli abbraccia con molto fervore;
     Tutto il popol gli vide volentieri;
     Ognun si scusa collo ’mperadore,
     Nessun si vede di que’ da Pontieri:
     E con gran festa e piacere e sollazzo,
     Tutti n’andorno a smontare al palazzo.

20 Era venuta intanto Alda la bella,
     Per rivedere Orlando il suo marito;
     Rinaldo una corona ricca e bella
     Donava a questa, ov’era stabilito5
     Un bel rubin che valea due castella:
     Alda la bella col viso pulito,
     Gran festa fe del marito, e di quello,
     E d’Ulivieri il suo caro fratello.

21 Poi che furono alquanto riposati,
     Queste parole Rinaldo dicia:
     O Carlo, io non ci veggo, bench’io guati,
     Uggieri, o Namo, o l’altra baronia;
     Che n’hai tu fatto? hagli tu sotterrati,
     O son prigioni andati in Pagania?
     Carlo a Rinaldo subito ha risposto:
     Tutti son vivi, e qui gli vedrai tosto.

22 E raccontò com’andata è la guerra,
     E ciò ch’è stato dopo il suo partire;
     Come il re Erminion Montalban serra,
     E i suoi baron minaccia far morire;
     E come Astolfo è drento nella terra,
     E Ricciardetto suo c’ha tanto ardire.
     Parve a Rinaldo e gli altri il caso strano
     De’ paladini, e sì di Montalbano.

23 Diceva Orlando: Presto i paladini
     Si bisogna, Rinaldo, riscattare;
     Io vo’ che ’l campo là de’ Saracini
     Domani a spasso andiamo a vicitare,
     Che trenta miglia son presso a’ confini.
     Meridiana cominciò a parlare:
     Io vo’ venir, se la domanda è degna,
     E ’l mio Morgante vo’ che meco vegna.

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24 Così Faburro, e così il buon marchese:
     Vedremo un poco come il campo sta,
     Diceva Orlando; e ’l partito si prese;
     Ognun presto portar l’arme si fa.
     Così coperti di piastra6 e d’arnese,
     Usciron tutti fuor della città
     Quella mattina al cominciare il giorno,
     E ’nverso Montalban la via pigliorno.

25 Eran qualche otto leghe7 cavalcati,
     Quando a lor si scoperse il padiglione
     D’Erminion, dove stavan legati
     Berlinghier nostro, e Namo, e Salomone,
     E ’l buon Danese, e gli altri sventurati;
     E se non fussi che il re Erminione
     Sentito avea come Orlando venia,
     Tutti impiccare e squartar gli facia.

26 Ma dubitò di quel che gli bisogna,
     Dicendo: Se morir facciam costoro,
     E’ ne potre’ seguir danno e vergogna,
     Ch’Orlando vendicar vorrà poi loro,
     E metter ci potrebbe in qualche gogna,8
     Che ci darebbe qualche stran martoro:
     Se vivi son, qualche buon tratto fare
     Si può con essi, e’ prigioni scambiare.

27 Vide tante trabacche e padiglioni,
     Destrier coperti d’arme rilucenti,
     E sentia trombe sonare e busoni,9
     E far pel campo variati strumenti,10
     Per Montalban gatti11, grilli e falconi,12
     Da combattervi su poi quelle genti;
     E disse: Erminion, per Dio, sollecita
     Pigliar la terra, e parmi cosa lecita.

28 Meridiana disse al conte Orlando:
     Se ti fussi in piacer, caro signore,
     Una grazia mi fa ch’io ti domando;
     Io vo’ pel mezzo entrar col corridore
     Del campo tutto, e venirlo assaltando,
     E trapassarlo via con gran furore,
     E fare un colpo degno alla mia vita:
     Così pregò questa dama gradita.

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29 Ma vo’ che presso Morgante a me vegna,
     Se bisognassi pur qualche soccorso,
     E forse arrecherotti qualche insegna;
     Anzi per certo, bench’io te lo ’nforso.13
     Rispose Orlando: La preghiera è degna
     D’avere il campo in tal modo trascorso;
     Non dubitar, sicuramente andrai:
     E tu, Morgante, l’accompagnerai.

30 Meridiana allor prese una lancia,
     Brocca il caval c’ha serpentina testa,
     E grida: Viva Carlo, e viva Francia!
     Quando fu tempo mise l’aste in resta,
     Truova un Pagano, e per mezzo la pancia
     Gli mise il ferro con molta tempesta;
     Poi trasse fuori una fulgente spada,
     E fe pel mezzo del campo la strada.

31 E come morto fu questo Pagano,
     Fu la novella a Salincorno detta,
     Ch’egli è venuto un cavalier villano,
     E molti in terra col suo brando getta;
     Salincorno s’armava a mano a mano,
     Però che far ne voleva vendetta:
     Verso Meridiana il cammin prese
     Questo giovan gentil, saggio e cortese.

32 E molta gente che fuggiva, scaccia:
     Tornate a drieto, per un sol fuggite?
     Arebbe costui d’Ercol mai le braccia?
     Fugli risposto in parole spedite:
     Egli è il diavol che tua gente spaccia:
     Se nol credete, a vederlo venite:
     Egli ha cacciato in terra ognun che trova,
     E parci cosa inusitata e nuova.

33 Rispose Salincorno: Io vo’ vedere
     Chi è costui, c’ha in sè tanta arroganza,
     Che sia passato tra le nostre schiere;
     Orlando non aría tanta possanza.
     Meridiana rivolse il destriere,
     Come di Salincorno ebbe certanza.
     Salincorno la lancia abbassa in quella,
     E ferì nello scudo la donzella.

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34 La lancia in aria n’andò in mille pezzi;
     Disse la dama: Ah, cavalier codardo,
     A questo modo la tua fama sprezzi?
     Questa non è usanza d’uom gagliardo,
     Ch’a ferir con la lancia alcun t’avvezzi
     Che sia col brando; e tu non v’hai riguardo:
     Volgiti a me, poi che tu m’hai percossa,
     Vedrai che dell’arcion non mi son mossa.

35 Ebbe vergogna Salincorno allora,
     E ritornava in drieto a fare scusa,
     Dicendo: Io non ave’ veduto ancora,
     Se tu t’avevi lancia o soda o busa.14
     Meridiana a quel sanza dimora
     Rispose: In Danismarche così s’usa?
     Così fanno i baron d’Erminione?
     Tu debbi esser per certo un gran poltrone.

36 Ma non si fa così di Carlo in corte,
     Dove fiorisce ogni gentil costume;
     Vedrem se tu sarai cavalier forte,
     E s’altra volta poi vedrai me’ lume:
     Prendi la spada, io ti disfido a morte,
     E farotti assaggiar d’un altro agrume.15
     Salincorno la spada trasse fore,
     Per acquistar, se poteva, il suo onore.

37 Poi che più colpi insieme si donorno,
     Nè l’un nè l'altro guadagna niente;16
     Un tratto volle ferir Salincorno
     La gentil donna, e dette al suo corrente;17
     E molto biasimato fu dintorno,
     Chè gli spiccava il capo del serpente,
     E ritrovossi in sull’erba la dama:
     Or questo è quel che gli tolse ogni fama.

38 Morgante volle il battaglio menare,
     Per ischiacciar la testa a quel Pagano;
     Meridiana gridava: Non fare;
     Vendetta ne farò colla mia mano.
     Salincorno s’aveva a disperare,
     E duolsi molto di quel caso strano;
     I Saracin ferno a Morgante cerchio,
     Tanto ch’al fin saranno di soperchio.

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39 E misson lui con la donzella in mezzo,
     E cominciorno una fera battaglia:
     Ma a molti dava il battaglio riprezzo,18
     A molti trita la falda e la maglia.19
     Dicea Rinaldo: Or non istiam più al rezzo,20
     Chè non è tempo; se Gesù mi vaglia,
     Io veggo a piede là Meridiana
     In mezzo a tutta la turba pagana.

40 Orlando sprona subito il destrieri,
     E ’nverso il campo girava la briglia,
     E ’l simigliante faceva Ulivieri;
     Così tutto quell’oste si scompiglia:
     Erminion sentì che que’ guerrieri
     Eran venuti e fanno maraviglia;
     E disse: Traditor di Macometto,
     E’ fia Rinaldo per più mio dispetto,

41 E ’l conte Orlando, che tornati sono:
     Altri non so ch’avessin tanto ardire,
     Di metter qua la vita in abbandono:
     Subito incontro gran gente fece ire,
     E disse: Io credo ancor che sarà buono
     Ch’io m’armi tosto; e l’arme fe venire,
     E ’l suo caval di fine acciaio coperto,
     Chè vincere o morir dispose certo.

42 Orlando in mezzo alla sua gente entrava,
     E una lancia, ch’egli aveva, abbassa;
     E ’l primo che allo scudo riscontrava,
     Lo scudo e l’arme e ’l petto gli trapassa:
     Poi trasse Durlindana, e martellava;
     Quant’arme truova, tante ne fracassa;
     Fece un macel di gente in poca dotta:21
     Rinaldo n’avea già morti una frotta.22

43 Ed Ulivier facea quel che far suole;
     Ma tuttavia tenea gli occhi a colei,
     Ch’era sua scorta, come agli orbi il sole,
     Colpi menando dispietati e rei,
     Perchè soccorrer la sua dama vuole;
     Ovunque e’ guata, facea l’agnusdei,23
     Rivolto sempre alla sua dama bella,
     E quanto può sempre s’appressa a quella.

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44 E non poteva ancor romper la calca,
     Che tuttavolta si facea più stretta;
     Pur sempre innanzi a suo poter cavalca,
     E ’n qua e ’n là come un leon si getta:
     E molti colla spada ne difalca
     Della turba bestiale e maladetta,
     E tristo a quel ch’aspettava Altachiara,24
     Chè gli facea costar la vita cara.

45 Morgante in mezzo stava dello stuolo,
     E col battaglio facea gran fracasso;
     Meridiana sentiva gran duolo,
     Chè ’l corpo femminil già era lasso:
     Nè fuggir può, se non si lieva a volo,
     Perchè non v’era onde fuggirsi il passo;
     Ma pur Morgante spesso la conforta,
     E molta gente avea dintorno morta.

46 Ed era tutto da’ dardi forato,
     E lance, e spiedi,25 e saette, e spuntoni;26
     E tutto quanto il corpo insanguinato;
     Chè le ferite parevan cannoni,27
     Che gettan sempre fuor da ogni lato:
     Avea nel capo cento verrettoni;28
     Ma tanti intorno avea fatti morire,
     Che già del cerchio non poteva uscire.

47 L’un sopra l’altro morto era caduto,
     E gli uomini e’ cavalli attraversati,
     Tal che miracol sarebbe tenuto,
     Quanti furon poi morti annumerati:
     Ave’ cinque ore o più già combattuto;
     Or pensi ognun quanti e’ n’abbi schiacciati,
     Che non potea più aggiugner colle mani,
     Tanto discosto gli erano i Pagani.

48 Meridiana assai s’era difesa,
     Ed or da’ dardi attendeva a schermirsi;
     Avea la faccia come un fuoco accesa,
     Nè potea più collo scudo coprirsi,
     Tanto era stanca, perchè troppo pesa,
     E non poteva del cerchio fuggirsi,
     E così afflitta, e sventurata a piede
     Morir vuol prima, che chiamar merzede.

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49 E pure ancora in Morgante si fida,
     E dicea spesso: Il mio fallar ti costa,
     Ch’io temo questa gente non t’uccida.
     Ecco Rinaldo ch’al cerchio s’accosta,
     E com’e’ giunse, metteva alte grida,
     Tanto che molto la gente discosta:
     Oltre, gente bestial sanza vergogna,
     Poi ch’a due a piè tanto popol bisogna.

50 Fatevi a drieto; e Frusberta menava:
     Tutti sarete, Saracin, qui morti.
     Meridiana, quando l’ascoltava,
     Subito par che tutta si conforti:
     Allor Rinaldo i colpi raddoppiava,
     E vendicava di lei mille torti;
     E poi in un tratto, com’un leopardo,
     In mezzo il cerchio fe saltar Baiardo.

51 E fe saltar Meridiana in groppa,
     Che si gittò di terra com’un gatto,
     Nè mica parve affaticata o zoppa;29
     E fuor del cerchio risaltò in un tratto:
     Così con essa pel campo galoppa.
     Ognun ch’il vide ne fu stupefatto:
     Quest’è Rinaldo, o ’l gran Signor d’Angrante,
     Dicevan tutti: e lasciorno il gigante.

52 E molti al padiglion si ritornorno,
     Veggendo cose far sopra natura;
     In questo tempo giunse Salincorno;
     Meridiana il vide per ventura:
     Rinaldo nostro cavaliere adorno,
     Che non tenea Frusberta alla cintura,
     Gli trasse d’un fendente in sull’elmetto,
     Che gli cacciò Frusberta insino al petto.

53 E Salincorno cadde in sul terreno,
     E vendicata fu la damigella;
     Rinaldo prese il suo caval pel freno,
     E fe montar Meridiana in sella,
     Che vi saltò su in manco d’un baleno:
     E Ulivier, che vide la donzella,
     Disse: Io venivo ben per darti aiuto,
     Ma le schiere passar non ho potuto.

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54 Avea Faburro, Ulivieri ed Orlando
     Morti quel dì migliaia già di Pagani,
     E tuttavia ne venien consumando;
     I Saracini ancor menan le mani;
     Ma tanto e tanto i paladini il brando
     Insanguinato avevan di que’ cani,
     Che per paura assai n’eran fuggiti
     A’ padiglioni, e gran parte feriti.

55 Erminion dicea pur: Chi vi caccia?
     Chè gli vedeva fuggir d’ogni parte.
     E’ rispondieno a quel che gli minaccia:
     Fuggiam dinanzi alla furia di Marte;
     E’ non c’è uom con sì sicura faccia,
     Che si confidi di sua forza o arte:
     Qua son venuti nuovi Ettorri al campo,
     Nè contro a’ colpi lor si truova scampo.

56 Noi vedemo Rinaldo, o fu il cugino,
     In mezzo un cerchio saltar col cavallo;
     Quivi era tutto il popol saracino,
     E non potemmo tanto contrastallo,
     Che pose in groppa un altro paladino,
     Ch’era assediato, e saltò fuor del ballo;30
     Ed a dispetto nostro il portò via:
     Mai vedemmo uom di tanta gagliardia.

57 E Salincorno ha morto, il tuo fratello.
     Erminione allor si dolse forte,
     E così disse: Poi ch’è morto è quello,
     Ch’era il più fier Pagan di nostra corte,
     A tradimento quel Rinaldo fello
     O ’l suo cugin gli arà data la morte.
     Fugli risposto: E’ non fu a tradimento,
     Chè chi l’uccise, n’uccidrebbe cento.

58 Allora Erminion: Sia maladetta
     Tua deità, Macon; più volte disse;
     E giurò far del suo fratel vendetta,
     Se mille volte come lui morisse:
     Dov’è Rinaldo a gran furia si getta,
     Ed una lancia ch’avea, in resta misse;
     E come egli ha Rinaldo conosciuto,
     Lo salutò con uno stran saluto.

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59 Dio ti sconfonda, disse Erminione,
     Se tu se’il prenze sir di Montalbano,
     Colui che porta sbarrato il lione,31
     Ch’ancor lui sbarrerò colla mia mano.
     Rinaldo, udendo sì fatto sermone,
     A lui rispose: Cavalier villano,
     Che di’ tu, re di farfalle o di pecchie?32
     Io t’ho a punir di mille ingiurie vecchie.

60 Rispose Erminion: Del tempo antico
     A vendicar m’ho io de’ miei parenti:
     Tu uccidesti come reo nimico
     Il re Mambrin con mille tradimenti.
     Disse Rinaldo: Ascolta quel ch’io dico:
     Per la tua gola, Erminion, ne menti;
     Ch’a tradimento vien tu qua, Pagano,
     Perch’io non c’ero, assediar Montalbano.

61 Ma tanto attraversato ho il piano e ’l monte,
     Ch’io t’ho trovato, e non ti puoi fuggire;
     E ’l tuo fratello uccisi Fieramonte,
     E detti al popol tuo giusto martìre;
     A Salincorno ho spezzata la fronte,
     Or farò te col mio brando morire.
     Quando il Pagan sentì rimproverarsi
     Tant’alte ingiurie, e’ cominciò a picchiarsi,

62 E in su l’arcion percuotersi l’elmetto
     E bestemiar Macon divotamente,
     E battersi col guanto tutto il petto:
     Are’ voluto morir veramente;
     E poi rispose: D’ogni tuo dispetto,
     Che fatto m’hai, ne sarai ancor dolente;
     E misse come disperato un grido:
     Prendi del campo tosto, ch’io ti sfido.

63 E poi soggiunse: Facciam questo patto;
     Dacchè tu m’hai cotanto offeso a torto,
     Che Montalban mi doni, s’io t’abbatto;
     E se tu vinci me, datti conforto,
     Che’ tuoi prigion ti renderò di fatto,
     Chè nessun n’ho danneggiato nè morto:
     E che s’intenda per un mese triegua,
     E poi ciascun quel che gli piace segua.

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64 Rinaldo disse: A ciò contento sono,
     E poi voltava in un tratto Baiardo,
     E dice: Se mai fusti ardito e buono,
     A questa volta fa che sia gagliardo.
     Poi si rivolse che pareva un tuono;
     Nè anche Erminion parve codardo;
     E quando insieme s’ebbono a colpire,
     Parve la terra si volessi aprire.

65 Erminion colla lancia percosse
     Sopra lo scudo il franco paladino;
     L’aste si ruppe, e d’arcion non lo mosse;
     Ma ’l pro’ Rinaldo giunse al Saracino
     D’un colpo tal, che, benchè forte fosse,
     Si ritrovò in sull’erba a capo chino,
     E disse: O Dio, che reggi sole e luna,
     Può far ch’io sia caduto la fortuna?

66 Egli è pur ver quel che si dice al mondo,
     Che questo è il fior de’ cavalier nomati!
     Rizzossi, e disse: Paladin giocondo,
     Or son puniti tutti i miei peccati,
     E come dianzi più non ti rispondo,
     D’avere i miei congiunti vendicati;
     Io ho perduto ogni cosa in un punto;
     D’ogni mia gloria e fama il fine è giunto.

67 Or sarà vendicato il mio parente,
     Or sarà vendicato Fieramonte,
     E Salincorno, e tutta l’altra gente:
     Però chi fa vendetta con sue onte,
     Al mio parere, è matto veramente,
     E spesso avvien che si batte la fronte:
     Or pel consiglio di dama Clemenzia
     Del suo peccato ho fatto penitenzia.

68 Chè chi governa per consiglio il regno
     Di femmina, non può durar per certo,
     Ch’e’ lor pensier non van diritti al segno;
     Qual maraviglia s’io ne son diserto?
     Or si cognosce il mio bestial disegno;
     Ogni cosa ci mostra il fine aperto:
     Così convien che spesso poi si rida,
     Di quel che troppo a fortuna si fida.

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69 Quel ch’io promisi, baron, vo’ servarti,
     Come pur giusto re ch’io sono ancora,
     E tutti i tuo’ prigion vo’ consegnarti;
     Andianne al padiglion sanza dimora,
     E la promessa tua vo’ ricordarti.
     Disse Rinaldo: Per lo Iddio ch’adora
     Re Carlo Magno e tutto il Cristianesimo,
     Ciò che tu vuoi chiederai tu medesimo.

70 Inverso il padiglion preson la volta:
     Erminion, ch’era uom molto da bene,
     Fece pel campo sonare a raccolta,
     Poi che fortuna nel fondo lo tiene:
     La gente sua parea smarrita e stolta,
     Come ne’ casi subito interviene;
     Rende i prigion ch’avea legati e presi,
     Co’ lor cavalli e tutti i loro arnesi.

71 Chi vedessi la festa e l’allegrezza
     Che fanno i nostri possenti baroni,
     Sare’ costretto per sua gentilezza
     Di lagrimar con pietosi sermoni:
     Diceva Uggier: Rinaldo, tua prodezza
     Ci ha tratto fuor di molti strani unghioni;
     A questa volta aremmo tutti quanti
     La vita data per quattro bisanti.

72 Noi abbiam sentito sì fatto romore
     Oggi pel campo, ch’io pensai che ’l mondo
     Fussi caduto, e giunto all’ultim’ ore,
     E lo stato di Carlo fussi al fondo;
     Ognuno avea della morte timore,
     Chè ’l Saracin crudele e rubicondo33
     D’impiccar tutti ci avea minacciati,
     E della vita stavam disperati.

73 Namo diceva: Il nostro buon Gesue
     Vi mandò qua per nostro aiuto solo,
     E siam salvati per la tua virtue,
     E liberati da gran pena e duolo.
     Diceva Orlando: Non ne parliam piue,
     Lasciam pur tosto de’ Pagan lo stuolo;
     Carlo non sa quel che seguíto abbiamo,
     Però verso Parigi ce n’andiamo.

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74 Erminion rimase assai scontento,
     E i paladini a Carlo ritornaro:
     Carlo gli abbraccia cento volte e cento,
     E fu cessato ogni suo duolo amaro;
     Fecesi festa per la città drento;
     Ma questo a Ganellon fu solo amaro,
     Che per paura fuor s’era fuggito,
     E dubitava non esser punito.

75 Poi ch’alcun giorno insieme riposârsi,
     Dicea Rinaldo un giorno a Carlo Mano,
     Ch’avea pur voglia da lui accomiatarsi,
     E ritornare insino a Montalbano,
     E qualche dì colla sua sposa starsi.
     Carlo contento gli toccò la mano,
     E menò solo un servo molto adatto
     Del conte Orlando, detto Ruinatto,

76 Ch’era scudier compagno di Terigi;
     E mentre che cavalca, s’è abbattuto,
     Forse sei leghe discosto a Parigi,
     Dove giaceva un bel vecchio canuto.
     Questo era, trasformato, Malagigi,
     Tal che Rinaldo non l’ha conosciuto,
     Sur una riva appoggiato alla grotta,
     E d’acqua piena aveva una barlotta.

77 Rinaldo il salutò cortesemente.
     E’ gli rispose: Ben venuto siete;
     Se voi volessi ber, baron possente,
     D’una certa cervogia assaggerete,
     Che doverrà piacervi veramente.
     Rinaldo disse: Io affogo di sete,
     E di ber acqua di fossato o fiume,
     Quando cavalco, non è mio costume.

78 Quando Rinaldo ha bevuto a suo modo,
     A Ruinatto il barletto porgeva,
     Dicendo: Peregrin, di te mi lodo;
     E Ruinatto come lui beeva;
     E non sa ben di Malagigi il frodo.
     Malagigi il barletto ritoglieva.
     Rinaldo poco e Ruinatto andava,
     Ch’ognuno scese, e di sonno cascava.

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79 Addormentati posonsi a giacere;
     Malagigi gli segue come saggio,
     E non poteva le risa tenere,
     Veggendo quel c’ha fatto il beveraggio:
     Tolse la spada a Rinaldo e ’l destriere,
     E prese inverso Parigi il viaggio;
     Messe Frusberta la spada sovrana
     Nella guaina ov’era Durlindana;

80 Così Baiardo ov’era Vegliantino;
     E ritornò a Rinaldo che dormia,
     E dettegli la spada del cugino,
     Così il cavallo, e poi disparì via;
     E misse sotto il capo al paladino
     Una certa erba che si risentia,
     E risentito poco seco bada,
     Chè del caval s’accòrse e della spada.

81 E volsesi a quel servo Ruinatto,
     E disse: Tu debbi essere un ghiottone:
     Dove è Baiardo mio? che n’hai tu fatto?
     Questo è il caval del figliuol di Milone.
     Rispose lo scudiere stupefatto:
     I’ho dormito qua com’un poltrone,
     Chè il sonno come te mi vinse dianzi,
     E non sono ito più indrieto o più innanzi.

82 Disse Rinaldo ravveduto un poco:
     Questo arà fatto far per certo Orlando;
     E’ vuol pigliar di me sempre mai giuoco,
     E fatto m’ha scambiar Baiardo e ’l brando;
     Tutto s’accese di rabbia e di fuoco,
     E fra sè disse: e’ ti verrà costando.
     A Montalban pien di sdegno n’andava,
     E Ruinatto in drieto rimandava.

83 E scrisse al conte Orlando: Tu m’hai tolto
     A tradimento pel cammin dormendo
     La spada e ’l mio cavallo, e come stolto
     Sempre mi tratti, e poi ne vien ridendo;
     E perchè più d’una volta m’hai còlto,
     Di sofferirlo a questa non intendo:
     Mandami in drieto e la spada e ’l cavallo,
     Se non, che caro ti farò costallo.

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84 Orlando per ventura avea trovato
     Il destriere e la spada di Rinaldo,
     Ed era forte con seco adirato,
     E tutto quanto inanimito e caldo,
     Dicendo: Come un putto son gabbato,
     E parmi un atto stato di ribaldo,
     E più che ’l fatto il modo mi dispiace.
     E non potea fra sè darsene pace.

85 Intanto Ruinatto gli portoe
     La lettera, che ’l suo cugino scrisse;
     Orlando molto si maraviglioe,
     E ’nverso Ruinatto così disse,
     Se sapea nulla come il fatto andoe,
     E quel che per cammino intervenisse;
     E Ruinatto rispondeva presto:
     Io ti dirò quel ch’io ne so di questo.

86 E raccontò, come trovò quel vecchio,
     E come poi si posono a dormire;
     Orlando pone al suo parlar l’orecchio,
     Di maraviglia credette stupire;
     Ma poi diceva: Un pulcin fra ’l capecchio
     Par che mi stimi Rinaldo al suo dire:
     E così indrieto a Rinaldo scrivea,
     Che del suo minacciar beffe facea.

87 E che quando e’ partì da re Carlone,
     Esser dovea per certo un poco in vino;
     Però scambiò la sua spada e ’l ronzone;34
     E che sia ver, che dormi pel cammino.
     Poi gli diceva per conclusione:
     Perchè tu se’, Rinaldo, mio cugino,
     Voler con teco quistion non m’aggrada,
     Però ti mando il cavallo e la spada.

88 Ma se ’l mio indrieto non rimanderai,
     Io ti dimosterrò che me ne duole;
     E se quistion di nuovo cercherai,
     Tu sai ch’io so far fatti, e tu parole:
     E poco meco alfin guadagnerai,
     Chè sai che gnun non temo sotto il sole:
     Or tu se’ savio, e so che tu m’intendi;
     Il mio cavallo e la spada mi rendi.

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89 Tornato Ruinatto a Montalbano
     Colla risposta del suo car signore,
     Subito il brando suo gli pose in mano,
     E consegnò Baiardo il corridore;
     Rinaldo sbuffa come un leo silvano,
     Per quel che scrisse il roman senatore,
     E rimandava indrieto un suo valletto,
     A dir così, chiamato Tesoretto:

90 Che non volea la spada rimandare,
     Nè Vegliantin, se non gli promettea
     Con lui doversi in sul campo provare,
     Che di minacce sa che non temea;
     E che nel pian lo voleva affrontare
     Di Montalban coll’armi, conchiudea.
     Tesoretto n’andò presto ad Orlando,
     E la ’mbasciata venne raccontando.

91 Orlando, ch’era e discreto e gentile,
     Ma molto fier quand’egli era adirato,
     Tanto che tutto il mondo avia35 poi vile,
     A Carlo tutto il fatto ha raccontato,
     E come fece la risposta umíle,
     Credendo aver Rinaldo umiliato:
     Ma poi ch’egli è per questo insuperbito,
     D’andarlo a ritrovar preso ha partito.

92 E che non ricusò battaglia mai,
     Che non intende aver questa vergogna.
     Carlo diceva: A tuo modo farai;
     Se così sta, combatter ti bisogna.
     Orlando disse a Tesoretto: Andrai
     Al prenze, e dì ch’io non so se si sogna;
     Ma se davver m’invita alla battaglia,
     Doman lo troverrò, se Dio mi vaglia.

93 E che m’aspetti, com’e’ dice, al piano,
     Dal campo un poco de’ Pagan discosto.
     Tesoretto ritorna a Montalbano,
     E disse quel che Orlando avea risposto.
     Armossi col nipote Carlo Mano,
     Poi che lo vide al combatter disposto;
     Però che Carlo molto Orlando amava,
     Così nel suo segreto il prenze odiava.

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94 Are’ voluto Carlo onestamente
     Un dì Rinaldo dinanzi levarsi,
     E conosceva Orlando sì possente,
     Che dice in questo modo potre’ farsi.
     Rinaldo era inquieto e ’mpaziente,
     Nè Carlo volse di lui mai fidarsi,
     Rispetto avendo alle sue pazze furie;
     Poi gli avea fatte a’ suo’ dì mille ingiurie,

95 E tratto la corona già di testa.
     E’ si perdona per certo ogni offesa,
     Ma sempre pur nella memoria resta,
     E così l’uno all’altro contrappesa.
     Carlo pensossi di farne la festa,
     Veggendo Orlando e la sua furia accesa;
     Orlando tolse Rondello e Cortana,
     Chè non ha Vegliantin nè Durlindana.

96 Meridiana e Morgante n’andorno
     Con Carlo e con Orlando, per vedere;
     I paladini assai lo confortorno,
     Che non si lasci il signor del quartiere
     Combatter col cugin suo tanto adorno,
     Ma contrappor non puossi allo ’mperiere;
     E molto Carlo Man fu biasimato,
     Quantunque s’è con lor giustificato.

97 Tutta la corte s’avviava drieto,
     Per veder questi due baron provare;
     Morgante avea, come savio e discreto,
     Isconfortato molto il loro andare:
     Gano il sapea, e molto n’era lieto,
     Dicendo: Orlando so che l’ha ammazzare
     Quel traditor di Rinaldo d’Amone,
     Il qual d’ogni mal mio sempre è cagione.

98 Altri dicien pur de’ baron di corte:
     Carlo mi par che perda il sentimento;
     Se muor Rinaldo, e ’l Conte sia più forte,
     Non una volta il piangerà, ma cento;
     Se ’l prenze dessi ad Orlando la morte,
     Carlo a suo' dì non sarà più contento;
     Vennon pur ier di paesi lontani,
     Per salvar noi dall’oste de’ Pagani:

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99 E tutto il popol rallegrato s’era;
     Ora è in un punto perturbato e mesto:
     Erminion colla sua gente fera
     Non s’è partito, e car gli sarà questo.
     Così si parla in diversa maniera,
     Tanto è che ’l caso a ciascuno è molesto,
     E sopra tutto la gente pagana
     Si condoleva con Meridiana.

100 E dicean tutti a lei: Magna regina,
     Deh non lasciate seguir tanto errore,
     Adoperate la vostra dottrina
     Col conte Orlando e collo ’mperadore;
     Benchè noi siam di legge saracina,
     E’ ce n'incresce, anzi ci scoppia il core.
     Meridiana con parole accorte
     Carlo ed Orlando sconfortava forte.

101 Orlando non ascolta ignun che parli,
     E dice: Io intendo una volta vedere
     S’io son Orlando, e vo’ il suo error mostrarli
     Di ritenermi la spada e ’l destriere;
     Non ch’io volessi però morte darli,
     Ma farlo discredente rimanere:
     E tanto finalmente cavalcorno,
     Ch’a Montalban furno il secondo giorno.

102 Rinaldo stava più che in orazione36
     D’appiccar con Orlando la battaglia;
     Vedi, che razza d’uomo o condizione!
     Vedi se sbergo37 era di fine maglia!
     E dice: s’io lo truovo in sull’arcione,
     Noi proverrem come ogni spada taglia.
     Ma poi che vide Orlando già in sul piano,
     Subito armato uscì di Montalbano.

103 E tolse Durlindana e Vegliantino,
     Seco dicendo: Se m’abbatte Orlando,
     Arà il cavallo e ’l brando a suo domino.
     Erminion, che veniva spiando
     Ch’egli è venuto il figliuol di Pipino,
     E la cagione, un messo vien mandando;
     E dice a Carlo Man, se gli è in piacere,
     Che vuol venir la battaglia a vedere.

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104 Carlo rispose a lui cortesemente,
     Ch’a suo piacer venisse Erminione;
     Venne, e con seco menò poca gente
     Per gentilezza e per sua discrezione:
     Carlo lo vide molto lietamente,
     E sempre a man sinistra se gli pone;
     Quantunque il re pagan ciò non volia,38
     Ma Carlo gliel domanda in cortesia.

105 Rinaldo venne, e seco ha Ricciardetto
     In compagnia, e ’l signor d’Inghilterra,
     Che molto gli ha quest’impresa disdetto,
     Che con Orlando non debbi far guerra;
     Abbraccia Orlando quanto può più stretto,
     Ed Ulivieri e Morgante poi afferra:
     Meridiana quanto puote onora,
     Perchè veduti non gli aveva ancora.

106 E poi diceva: O nostro Carlo Magno,
     Com'hai tu consentito a tanto errore?
     Tu non ci acquisti, al mio parer, guadagno,
     E non sai quanto tu perdi d’onore:
     Se tu perdessi un sì fatto compagno,
     Quant'è Rinaldo, saria il tuo peggiore;
     Se tu perdessi il tuo caro nipote,
     Di dolor poi graffieresti le gote.

107 Che cosa è questa? un sì piccolo sdegno
     Per due parole ancor non si perdona?
     O Carlo imperador famoso e degno,
     Questa non è giusta impresa nè buona:
     Per Dio, della ragion trapassi il segno.
     Carlo diceva fra sè: La corona
     Non mi torrà di testa più Rinaldo;
     E stava nel proposito suo saldo.

108 Orlando intanto a Rinaldo s’accosta,
     E dice: Se’ tu, cugino, ostinato
     Combatter meco? Se vuogli, a tua posta
     Piglia del campo, e ciascun sia sfidato.
     Rinaldo non gli fece altra risposta,
     Se non che presto il cavallo ha voltato.
     Carlo diceva: Io ne son malcontento;
     Dicea di fuor, ma nol diceva drento.

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109 Mai non si vide falcon peregrino
     Voltarsi così destro, o altro uccello,
     Come Rinaldo fece Vegliantino,
     O come il conte Orlando fe Rondello:
     Maravigliossi il gran re saracino
     Dell’atto fiero e valoroso e bello:
     Rinaldo volse a Vegliantino il freno,
     E così il conte, in manco d’un baleno.

110 Un mezzo miglio s’eran dilungati,
     E ritornavan con tanta fierezza
     Ch’e’ Saracin dicien tutti ammirati:
     Folgore certo va con men prestezza;
     Se questi son pel mondo ricordati,
     È ben ragione, e se Carlo gli apprezza.
     Erminion tenea ferme le ciglia,
     Chè gli parea veder gran maraviglia.

111 Ma quello Iddio che regge il mondo e’ cieli,
     Mostrò ch’egli è di giustizia la fonte,
     E quanto egli ama i suoi servi fedeli:
     Mentre che Vegliantin va inverso il conte,
     Par che in un tratto se gli arricci i peli,
     E volse indrieto a Rinaldo la fronte,
     Come se ’l suo signor riconoscessi,
     E d’andar contra a lui si ritenessi.

112 Gridò Rinaldo: Che diavolo è questo?
     Voltati in drieto; che fai tu, rozzone?
     Orlando gittò via la lancia presto:
     In questo apparve alla riva un lione,
     Il qual poi ch’ognun vide manifesto,
     Ebbe di questo fatto ammirazione.
     Il fer lione a Orlando n’andoe,
     Ed una zampa in alto su levoe;

113 Nella qual’era una lettera scritta,
     Che Malagigi a Orlando mandava;
     Orlando la pigliò colla man dritta,
     E come l’ebbe letta, sogghignava.
     Rinaldo colla mente irata e afflitta
     Di Vegliantin di subito smontava;
     Vide il lion, che gli pareva strano,
     E come Orlando il brieve aveva in mano.

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114 Maravigliato inverso lui venia.
     Orlando a dir gli cominciò discosto,
     Come Malgigi ingannati gli avia,
     E tutto il fatto gli contava tosto;
     E poco men che per la lor follia
     Non avea l’un di lor pagato il costo.
     Quando Rinaldo la lettera intende,
     Tosto il cavallo e ’l brando al conte rende.

115 E ringraziò l’eterno e giusto Dio,
     Ch’avea questo miracol lor mostrato;
     E disse: Or mi perdona, cugin mio,
     E Carlo e gli altri, ch’io ho troppo errato;
     Ma Gesù Cristo nostro umile e pio
     Veggo ch’al fin m’ha pur ralluminato:
     E riguardando ove il lione era ito,
     Non lo riveggon, ch’egli era sparito.

116 Carlo e’ baroni avien tutto veduto,
     E come Malagigi scrive loro,
     Che fu quel vecchio che trovò canuto,
     Ch’avea scambiati i cavalli a costoro;
     E ringraziava Iddio c’ha proveduto,
     Che duo baron non si dessin martoro.
     Erminion, che vedea tutto aperto,
     Parvegli questo un gran miracol certo.

117 E cominciò a dolersi di Macone,
     Dicendo: Tu se’ falso veramente,
     E quel che ci ha mandato quel lione,
     È il vero Dio e padre onnipotente;
     S’io ti fe’ sacrificio o orazione
     Alla mia vita mai, ne son dolente,
     E in ogni modo Cristo vo’ adorare:
     E cominciò con Carlo a lacrimare.

118 O Carlo avventurato, o Carlo nostro,
     Ogni grazia per certo a noi procede,
     Per quel ch’io veggo omai, da Gesù vostro;
     Veggo ch’egli ha de’ buon servi mercede,
     E ’l gran miracol ch’egli ha qui dimostro,
     E che Macone è falso e chi gli crede:
     Da ora innanzi, degno Carlo Mano,
     Io mi vo’ battezar colla tua mano.

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119 Carlo abbracciò con molta affezione
     Il re, che tutto parea cambiato
     Nel volto, e pien di molta contrizione;
     E disse: Cristo sia sempre laudato;
     Se vuoi ch’io ti battezzi, Erminione,
     Andianne al fiume che ci è qui da lato;
     E così finalmente andorno al fiume,
     E battezzòl secondo il lor costume.

120 Così fu battezzato il re Pagano,
     E battezzossi il famoso ammirante,
     Ch’era stato all’assedio a Montalbano,
     Com’io già dissi, detto Lionfante;
     E s’alcun pur non si vuol far Cristiano
     De’ Saracini, ritornò in levante.
     Carlo a Parigi con gran festa torna,
     Dove co’ suoi baron lieto soggiorna.

121 Ma il traditor di Gan, ch’era fuggito
     Fuor di Parigi, e stava di nascoso,
     Poi ch’egli intese come il fatto era ito,
     Drento al suo cor fu molto doloroso;
     E pensa come Carlo abbi tradito,
     E giorno e notte non truova riposo;
     Sente che in corte si faccia gran festa,
     La qual cosa più ch’altro gli è molesta.

122 Pensa e ripensa, e va sottilizzando
     Dove e’ potessi più metter la coda,39
     O dove e’ venga la rete cacciando:40
     D’ira e di rabbia par seco si roda;
     Pur finalmente si viene accordando
     Con seco stesso, e in su questo s’assoda,
     Di tentar Caradoro, se potessi,
     Tanto che qualche scandol si facessi.

123 E scrisse il traditor queste parole:
     O Carador, di te m’incresce assai,
     Che la tua figlia bella più che ’l sole
     In Francia meretrice mandata hai,
     E gravida è già fatta; onde e’ mi duole,
     Che tua stirpe real disprezzi omai:
     Com'hai tu consigliato mandar quella
     Tra gente strana, sì giovane e bella?

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124 Per tutta Francia d’altro non si dice,
     Che femmina tua figlia è diventata
     D’Ulivieri, anzi più che meretrice:
     Dov’è tua fama già tanto vulgata?
     Dov’è il tuo pregio e ’l tuo nome felice,
     Chè la tua schiatta hai sì vituperata?
     Ciò ch’io ti dico, è il ver, della tua figlia;
     Se tu se’ savio, or te stesso consiglia.

125 La lettera poi dette a un messaggio,
     Che a Carador ne va sanza dimoro,
     E ’n poco tempo spacciava il viaggio,
     E rappresenta il brieve a Caradoro;
     Il qual sentì di sua figlia l’oltraggio,
     E mai non ebbe sì grave martoro:
     E la sua donna ne fu molto grama,
     Però ch’al tutto ingannata si chiama.

126 E la figliuola sventurata piagne,
     Dicendo: Lassa, perchè ti mandai,
     Poi che scoperte son queste magagne?
     Mentre tu eri qui ne dubitai;
     Perchè già tese mi parvon le ragne
     E’ tradimenti, ma pur non pensai,
     Che tanto ingrata fussi quella gente:
     Ma chi tosto erra, a bell’agio si pente.

127 O Caradoro mio, quanta fatica,
     Quanti disagi, e quanti lunghi affanni
     Sofferti abbiam, tu ’l sai, sanza ch’io ’l dica,
     Per allevar costei da’ suoi prim’anni;
     Poi la dài in preda alla gente nimica,
     Piena di frode, e di doli,41 e d’inganni:
     Non rivedrai mai più tua figlia bella,
     E se pur torna, svergognata è quella.

128 Queste parole assai passano il core
     Al tristo padre, e non sapea che farsi,
     Di racquistar la sua figlia e l’onore
     Perchè tutti i rimedj erano scarsi:
     Pur dopo molti sospiri e dolore,
     Colla sua donna in tal modo accordârsi,
     Che si mandassi Vegurto il gigante
     A condolersi delle ingiurie tante.

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129 E che dovessi rimandar la figlia;
     E s’egli è imperador giusto e da bene,
     Del tristo caso assai si maraviglia,
     Poich’Ulivier per femmina la tiene,
     Di che per tutta Francia si bisbiglia:42
     E che il gigante per sua parte viene,
     Che subito gli dia Meridiana,
     E rimandassi sua gente pagana.

130 E che se mai potrà farne vendetta,
     Che la farà per ogni modo ancora;
     Ma, come savio, luogo e tempo aspetta.
     Il fier gigante non fece dimora:
     Subitamente una sua alfana assetta,
     E presto uscì de’ pagan regni fora;
     Tolse la fromba,43 ed altri suoi vestigi,44
     E ’n poco tempo a Carlo fu a Parigi.

131 Tutto il popol correva per vedere
     Questo gigante, ch’era smisurato;
     Morgante non pareva un suo scudiere;
     A Carlo nella sala ne fu andato,
     E con parole assai arrogante e fiere
     In modo molto stran l’ha salutato:
     Macon t’abbatta come traditore,
     E disleale e ’ngiusto imperadore.

132 Il mio signor mi manda a te, Carlone,
     Che subito mi dia la sua figliuola,
     E tutto quanto il popol di Macone
     Che ti mandò, sanza farne parola;
     Ed Ulivier, quel ribaldo ghiottone,
     Colle mie mani impicchi per la gola:
     Così farò come e’ m’ha comandato,
     E punirollo d’ogni suo peccato.

133 A Caradoro è stato scritto, o Carlo,
     O Carlo, o Carlo (e crollava la testa),
     Della tua corte, che non puoi negarlo,
     Della sua figlia cosa disonesta;
     Non doveresti in tal modo trattarlo:
     Quel ch’io ti dico è cosa manifesta:
     Ulivier tuo la tien per concubina
     Così famosa e nobil Saracina.

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134 Questo non è quel ch’egli are’ creduto,
     Questa non è gentilezza di Franza,
     Questo non è l’onor c’ha ricevuto,
     Questa non è d’imperadore usanza;
     Questa non è giustizia nè dovuto,
     Questo non è buon segno d’amistanza:
     Questa non è più la figliuola nostra,
     Poi ch’ella è fatta concubina vostra.

135 Questo non è quel che promisse il conte,
     Quand’e’ partì cogli altri del suo regno.
     Così dicendo scoteva la fronte;
     Ben parea pien di furore e di sdegno.
     Carlo, sentendo ricordar tante onte,
     Rispose: Ambasciador famoso e degno,
     Per quello Iddio ch’ogni Cristiano adora,
     Di ciò che di’ nulla ne ’ntendo ancora.

136 Tu m’hai fatto pensar per tutto il mondo,
     E cosa che tu dica ancor non truovo;
     Però questo al principio ti rispondo,
     Come colui che certo ne son nuovo:
     Il tuo signor famoso, alto e giocondo,
     Per vero amico e molto caro appruovo:
     Alla sua figlia ho fatto giusto onore,
     Per mia corona, come imperadore.

137 Nè Ulivieri ha fatto mancamento,
     Per quel ch’io sappi, o palese o coperto:
     Che se ciò fussi, i’ sarei malcontento,
     E non sarebbe giusto o degno merto.
     Quando Ulivier vedea tanto ardimento,
     Gridava: O imperador, troppo hai sofferto:
     Che dice questo traditor ribaldo?
     Così diceva il Danese e Rinaldo.

138 Meridiana, ch’era alla presenzia,
     Non potè far non si turbassi in volto,
     Quando sentì trattar di sua fallenzia,
     Chè tal segreto stimava sepolto:
     Perdonimi, dicea, la reverenzia
     Del padre mio, e’ parla come stolto;
     Chè sempre in questa corte sono stata
     Da Ulivier più che d’altro onorata.

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139 Ed or, che Carador facci richiamo
     Di questo, troppo in ver mi maraviglio.
     Disse Ulivier: Che tanto comportiamo?
     Subito dette a Altachiara di piglio;
     Ma tosto gliela prese il savio Namo,
     Dicendo a quel: Tu non hai buon consiglio:
     Questo gigante è di natura acerbo,
     E però parla arrogante e superbo.

140 Non si vuole agguagliar la lor natura
     Colla nostra, Ulivier, nella fierezza;
     Però che non risponde tal misura,
     Come non corrisponde la grandezza:
     Lo ’mbasciador dee dir sanza paura,
     E vuolsi sempre usargli gentilezza.
     Ma manco pazienzia ebbe Vegurto,
     E volle a Ulivier presto dar d’urto.

141 Come un dragon se gli scagliava addosso,
     E trassegli d’un colpo d’un’accetta,45
     Credendogli ammaccar la carne e l’osso;
     Ma Ulivier dall’un lato si getta:
     Carlo fu presto della sedia mosso;
     Ma il gran Morgante gli dava una stretta,
     E corselo abbracciar subitamente,
     Benchè Vegurto assai fussi possente.

142 Vegurto prese lui sotto le braccia:
     Or chi vedessi questi due giganti
     Provarsi quivi insieme a faccia a faccia,
     Maravigliato saria ne’ sembianti;
     Ma pur Morgante in terra al fin lo caccia,
     Tanto che rider facea tutti quanti;
     Chè quando e’ l’ebbe in sullo smalto a porre,
     Parve che in terra cadessi una torre.

143 E nel cader percoteva il Danese,
     Tal che ’l Danese sotto gli cascava:
     Orlando molto ne rise e ’l marchese;
     Ma Namo presto Carlo consigliava,
     Che si levassin così fatte offese.
     Così Vegurto ritto si levava,
     E come ritto fu, gridava forte,
     E tutti i paladin disfida a morte.

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144 Disse Ulivier: Sarestu Briareo,46
     Con Giuppiterre, o Fialte famoso,
     O quel superbo antico Capaneo?
     Da ora innanzi, gigante orgoglioso,
     Io ti disfido, se tu fussi Anteo:
     Lo ’mperador possente e glorioso
     Mi dia licenzia, e vo’ teco provarmi,
     E fammi il peggio poi che tu puoi farmi.

145 Ah, Ulivieri, Amor ti scalda il petto,
     Che sempre fa valoroso chi ama;
     Tu non aresti di Marte sospetto,
     Pur che vi fussi a vederti la dama.
     Disse Vegurto: Per Dio Macometto,
     Questo più ch’altro la mia voglia brama.
     Ulivier prestamente corse armarsi,
     Chè col gigante voleva provarsi.

146 Morgante non potè più sofferire,
     E disse a Carlo: O imperadore, io scoppio,
     S’io non lo fo colle mie man morire;
     Lascia ch’i’ suoni col battaglio a doppio,
     Al primo colpo il farò sbalordire,
     Che ti parrà ch’egli abbi bevuto oppio.
     Carlo risponde, ma non era inteso,
     Tanto ognuno era di furore acceso.

147 Non potea star Morgante più in guinzaglio,47
     Non aspettò di Carlo la risposta,
     Ma cominciava a calar giù il battaglio;
     E ’l fier Vegurto a Morgante s’accosta.
     Or chi vedessi giocar qui a sonaglio,48
     Non riterrebbe le risa a sua posta:
     L’un col battaglio, e l’altro colla scure,
     S’appiccon pesche49 che non son mature.

148 Non era tempo adoperar la fromba;
     E’ si sentiva alcuna volta un picchio,
     Quando Morgante il battaglio giù piomba,
     Che quel Vegurto si faceva un nicchio,50
     E tutta quanta la sala rimbomba;
     Ma coll’accetta ogni volta uno spicchio
     Del dosso leva al possente Morgante,
     Però che molto è feroce, il gigante.

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149 Ulivieri era ritornato in sala
     Armato, e con Vegurto vuol provarsi;
     Ma quando e’ vide Morgante che cala
     Il gran battaglio, e ’nsieme bastonarsi,
     Si ritenea volentieri in sull’ala,51
     Però che tempo non è d’accostarsi.
     Vegurto grida, e Morgante gridava,
     Tanto ch’ognun per la voce tremava.

150 E’ non si vide mai lioni irati
     Mugghiar sì forte, o far sì grande assalto,
     Nè duo serpenti insieme riscaldati:
     Sempre l’accetta o ’l battaglio è su alto:
     Alcuna volta invano eran cascati
     I colpi, e fatta una buca allo smalto:
     Due ore o più bastonati si sono,
     Ma del battaglio raddoppiava il suono.

151 Benchè Vegurto assai più alto fosse
     Che ’l gran Morgante, e’ non era più forte;
     E già tutte le carne avevon rosse;
     E a vedergli era tutta la corte:
     Morgante a un tratto Vegurto percosse,
     Deliberato di dargli la morte;
     Il gran battaglio in sul capo appiccoe,
     Tal che Vegurto morto rovinoe.

152 E parve nel cader quel torrione,
     Ch’un albero cadessi di gran nave;
     Fece tremar la terra il compagnone,52
     Non che la sala, tanto andò giù grave:
     Dovunque e’ giunse, lo smalto e ’l mattone
     Fracassò tutto, e ruppe una gran trave;
     Tanto che ’l palco sotto rovinava,
     E molta gente addosso gli cascava.

153 Così morì il superbo imbasciadore,
     E non tornò colla risposta a drieto:
     Meridiana pur n’avea dolore,
     Ma Ulivier di ciò troppo era lieto.
     Molto dispiacque a Carlo imperadore,
     Benchè nel petto il tenessi segreto,
     Perchè pur era imbasciador mandato,
     E pargli a Caradoro essere ingrato.

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154 Caradoro aspettò più tempo invano,
     Che ne dovessi la figlia venire.
     Lasciam costoro, e ritorniamo a Gano,
     Che non vide il disegno riuscire;
     E manda così a dire a Carlo Mano,
     Come nell’altro canto vo’ seguire;
     Chè so ch’io v’ho tenuto troppo a tedio.
     Cristo sia vostra salute e rimedio.

Note

  1. [p. 232 modifica]1. contumace. Contumace dicesi colui che disobbedisce a’ giudici col non presentarsi, o col non farsi rappresentare, chiamato, innanzi loro. Qui è posto figuratamente.
  2. [p. 232 modifica]suo disfacimento. Sua ruina, suo danno.
  3. [p. 232 modifica]bracciali. Quella parte dell’armatura che arma il braccio.
  4. [p. 232 modifica]arnesi. Chiamasi arnese l’armatura; e perchè essa serve a difendere la persona, il Castelvetro ha creduto potesse esser nata dal verbo greco ἀρνυμαι, che significa liberare, difendere; adducendo per prova di ciò quel verso di Dante,

    Siede Peschiera, bello e furie arnese ec.;

    dove sembra che cotal voce sia usata appunto in senso di opera, o strumento di difesa. Il Bembo, il Varchi e il Pergamini credono invece tal voce provenzale; e il Menagio tedesca, derivandola da arnisch, che ha tutti i significati della parola italiana arnese, la quale si estende eziandio a significare qualunque specie di fornimenti o masserizie di casa, di botteghe, di città, di navigli, d’eserciti e simili; insomma qualunque mobile non informato d’anima, come dire il Castelvetro; il quale soggiunge: «e vogliono alcuni che sia detto arnese, quasi armese; sapendo che la significazione dell’arma si distende ad ogni mobile non animato. Il che nè approvo nè riprovo; ma dirò bene che si potrebbe credere che potesse venire da ornare quasi ornese, ed ornamento; poichè o passa senza difficoltà in a, come già è stato detto.»

  5. [p. 232 modifica]stabilito. Posto, collocato; chè il verbo stabilire ha, fra gli altri, anche questo significato.
  6. [p. 232 modifica]piastra. L’armatura del dosso, che era fatta di lamine o piastre di metallo unite insieme. Viene dal greco πλάσσειν, formare.
  7. [p. 232 modifica]qualche otto leghe. Circa otto leghe.
  8. [p. 232 modifica]E metter ci potrebbe in qualche gogna. Qui gogna è adoperato figuratamente in senso di impaccio, intrigo, o simili. In senso proprio però vale quel luogo ove si espongono in pubblico i malfattori, colle mani legate di dietro, e con sul petto un cartello indicante il delitto da essi commesso, e con un ferro al collo, il quale pure chiamasi gogna. Vogliono alcuni che questo ferro posto al collo dei malfattori sia una cosa stessa con quel che i Latini appellavan numellæ; e fanno da questa voce derivare berlina, che significa lo stesso che gogna, in questa forma: Numella, Numellina, Mellina, Merlina, Berlina. Ma checchè altri si dica, è chiaro che la gogna, più che alle numelle, rassomiglia al collare che i Romani ponevano al collo degli schiavi fuggitivi, e del quale parla Plauto nella commedia dei Captivi, Atto 2º, scena 2, Collus collaria caret; o Lucilio, appresso Nonio:

    Cum manieis catulo, collarique, ut fugitivum
    Deportem,

    [p. 233 modifica]Dopo che Costantino ebbe tolto il costumo di marcare in fronte i colpevoli, furon posti in maggior uso questi collari. La pena della gogna consisteva anticamente in Firenze nel legare il malfattore colle mani di dietro, e talvolta col corpo del delitto attaccato al collo, ad una colonna posta nel Mercato Vecchio, che è il luogo più frequentato della città. Quivi stando sul muricciolo che serve di base a detta colonna, e però alquanto elevato, era da tutti comodamente veduto, e insieme, da chiunque voleva, insultato. In appresso non si dette cotal pena che a quei condannati alla galera, i quali venivan posti, con sul petto una scritta indicante il delitto commesso, sulla porta del Palazzo del Bargello, e per tutto quel tempo che quivi stavano, si suonava la campana della torre di esso Palazzo. Attualmente questo castigo è stato affatto abolito. Quanto poi alla origine della voce gogna, tengo per più probabile che essa possa venire da ἀγωνία, affanno, travaglio, che i Greci moderni pronunziano agogna, e così ne parve anche al Salvini e al Menagio. È da osservare però che altri l’han fatta derivare da ignominia, per metalesi e sincope, come accenna il Biscioni nelle note al Malmantile, Canto III, St. 62; ed altri da vergogna, pure per sincope; per la qual cosa, stare o mettere in gogna, varrebbe quanto stare o mettere in ignominia, in vergogna.
  9. [p. 233 modifica]busoni. Busone, busino, busna; strumento antico da fiato, che forse viene dal latino buccina.
  10. [p. 233 modifica]E far pel campo variati strumenti. Il Vocabolario non nota questo modo, che sembra significare far risuonare varii strumenti. Fare strumento vale celebrare scritture in forma pubblica e provante, il che anche i Latini dicevano instrumentum conficere.
  11. [p. 233 modifica]gatti. Macchina da guerra fatta d’un solo tetto o tavolato intessuto di vinchi e coperto di cuoio, dal quale pendeva una gran trave ferrata, con che si battevano le mura nemiche, ed un forte rampicone di ferro chiamato falce, con che si aggrappavano e traevano al basso i merli e le pietre già smosse dall’urto del montone. Vedi più distesamente Vegezio. I Latini chiamavano una simile macchina testudo; e gli Italiani la chiamaron gatto forse per una certa analogia che poteva avere con tale animale questa macchina così coperta di cuoio e di pelle. È curiosa la origine che il Tassoni nei suoi Diversi pensieri, nel Libro V, Cap. XXXV, dà del nome gatto. Racconta egli, cavandolo da Ateneo, come fu già in Soria una reina chiamata Gattide, oltremodo ghiotta del pesce. Il perchè essendo il gatto, sopra ogni altro animale, avido di siffatto cibo, venne così appellato dal nome di quella reina. Egli è tuttavolta più verisimile che questa voce venir possa da catus, accorto, sagace; e l’accenna lo stesso Tassoni, appoggiato in ciò da parecchi antichi scrittori, dai quali si rileva che anche i Latini adopravono la voce Catus e Cattus in significazione di Gatto. Trovasi infatti nelle Glosse antiche: Catus, γαλῆ; in quelle d’Isidoro: murilegus, catus; e nel Lessico di Cirillo, αἴλουρος, felax, hæc catta. Lo Scoliaste poi di Callimaco sopra l’Inno di Cerere, dice espressamente: αἴλουρον, ἰδιωτικῶς κάττον; e Evagrio al Libro VI, cap. XXIV: ἐπυνθάνετο τί ἂν εἴη τοῦτο; ὁ δὲ ἔφηαἴλουρον εἶναι, ἣν κάττον ἡ συνήθεια λέγει. Alcuni, secondo il Menagio, deducono la voce latina cattus da ἰκτίς, ὀκτίς; che significa viverra, specie di donnola selvatica, della quale parla Plinio, Libro VIII, Cap. LV, De cuniculis; ma più verisimilmente viene essa dal verbo, pur latino, caveo. È da notare che per una particolar somiglianza di vocaboli, gli Arabi chiamano il gatto cotton ; e i Sirii catto o catolo.
  12. [p. 233 modifica]grilli e falconi. Il grillo era una macchina di legname, colla quale gli assedianti s’accostavano al coperto alle mura della città assediata, per discacciarne i difensori ed abbatterli. È preso il nome da quel piccolo animaletto che anche i Latini chiamaron grylus, o i Greci γρύλλος, con voce imitativa il suo canto stridulo [p. 234 modifica]e penetrante. Il falcone è anch’esso un antico istrumento da guerra atto a batter le mura, simile al montone, ma più leggiero e manesco. È forse l’aries dei Latini.
  13. [p. 234 modifica]bench’io te lo ’nforso. Inforsare vale mettere in dubbio, in forse.
  14. [p. 234 modifica]busa. Bucata.
  15. [p. 234 modifica]E farotti assaggiar d’un altro agrume. Detto metaforicamente. Agrume è nome generico di quelle specie d’ortaggi che hanno sapore forte e acuto, come di cipolle, agli, porri, e simili, i quali diconsi anche fortumi, in latino olera acria.
  16. [p. 234 modifica]guadagnava niente. Il Monosini, e innanzi di lui il Perionio, fanno derivare questo verbo da quello greco κερδαίνειν, questa forma: Κερδαίνειν, Kerdanare, guerdanare, guardanare, guadagnare.
  17. [p. 234 modifica]e dette al suo corrente. Corrente è qui in significato di cavallo corridore, che dicesi anche corsiero.
  18. [p. 234 modifica]riprezzo. Per ribrezzo; e l’usò anche Dante:

    Qual è colui c’ha sì presso il riprezzo
    Della quartana ec.

    Significa propriamente quel freddo che suol precedere la febbre; ma figuratamente si adopero eziandio in significato di raccapriccio, o simili. L’Ariosto l’usò pure in senso di freddo, prendendo forse l’effetto per la causa; perciocchè il freddo produce brividi e tremito, come a chi entra la febbre.

    Il merigge facea grato l’orezzo
    Al duro armento ed al pastore ignudo;
    Sì che nè Orlando sentia alcun ribrezzo,
    Chè la corazza avea, l’elmo, e lo scudo.
                   Furioso, Canto XXIII, St. 101.

    Da ciò fu tratto taluno a credere che ribrezzo potesse essere stato detto così da rinnuovare il brezzo, cioè il freddo. Ma, come nota il Menagio, brezzo non vuol dir freddo, ma vento freddo, e viene da rezzo. Onde è più verisimile che ribrezzo sia derivato dal verbo latino reprimere, in questa forma: reprimo, repressi, repressum, reprezzo, riprezzo, ribrezzo; e potrebbe essere stata adoprata tal voce a significare quel freddo che si ha sul rimettere della febbre, perchè in quel tempo il polso si fa più depresso, come notò il Goreo nelle sue definizioni, cavandolo dal primo delle Differenze delle febbri di Galeno: «Compressio pulsus, cum incipiente paroxysmo, pulsus admodum parvus, et inæqualis est, proprium est putridæ febris.»

  19. [p. 234 modifica]maglia. Piccolissimo cerchietto di ferro o d’altro metallo, de’ quali cerchietti concatenati si formano l’armadure.
  20. [p. 234 modifica]or non istiam più al rezzo. Non istiamo più oziosi.
  21. [p. 234 modifica]in poca dotta. Credo debba in cambio scriversi in poco d’otta; cioè in poco d’ora, in poco tempo.
  22. [p. 234 modifica]frotta. Quantità di gente insieme. Forse da fultus, dice il Menagio, in questa forma: fultus, fulta, fluta, fruta, frota, frotta.
  23. [p. 234 modifica]facea l’agnusdei. Il Vocabolario non reca questo modo. Credo che il Poeta abbia voluto scherzare, recandolo in contrario senso, su ciò che fanno i sacerdoti, i quali nella messa, mentre cantano l’Agnus Dei, si danno scambievolmente l’amplesso di pace; onde, far l’agnusdei, varrebbe quanto fare o recar guerra e sterminio. Si chiama Agnusdei quella cera consacrata, nella quale è impressa l’immagine dell’Agnello di Dio; e talora intendesi anche la figura di esso Agnello, benchè non impressa in cera. Prendesi eziandio per l’Ostia consacrata, come fece l’Ariosto quando disse:

    Il Re fece giurar sull’Agnusdei.
              Furioso, Canto XXVIII, St. 40.

    dama. Nulla si è finora detto intorno a questa voce, benchè ci siamo in essa assai sovente abbattuti; spacciamocene dunque adesso. Viene dama, come afferma il Monosini e la Crusca dopo di lui, dal greco δάμαρ, che così in quella lingua si chiamò la moglie, dal verbo δάμαω (domare), perchè è essa soggetta, e per così dire, domata dal giogo del marito; ovvero da δαμᾷ, terza persona del presente dell’indicativo del verbo medesimo, perchè essa presiede e comanda alla famiglia. S’inganna dunque il [p. 235 modifica]Pergamini, e seco chiunque altro la vuole voce di origine provenzale.
  24. [p. 235 modifica]Altachiara. La spada d’Ulivieri.
  25. [p. 235 modifica]spiedi. Spiedo è un’arme in asta fatta di un ferro acuto posto in cima ad un bastone, che si adoprava a ferire in caccia i cinghiali, e simili fiere salvatiche; ma che venne pure usato in guerra. I Latini lo chiamavan venablum. Il Menagio fa derivare questa voce dal tedesco spits, che vale acuto, pungente, e da spiculatum in questo modo: spiculatum, spiatum, spiadum, spiedum, spiedo.
  26. [p. 235 modifica]spuntoni. È questa pure un’arme in asta con lungo ferro quadro e non molto grosso, ma acuto. I Latini lo chiamavano verutum.
  27. [p. 235 modifica]cannoni. Cioè quei doccioni di terra o canali di piombo, coi quali si fanno i condotti dell’acqua, e chiamansi cannoni.
  28. [p. 235 modifica]verrettoni. Verrettone è verretta grossa; e verretta si chiamava una freccia a foggia di piccolo spiedo, da lanciar con mano o colle balestre. Viene dalla voce latina verutum, riportata di sopra; che si trova usata in significato di dardo in Giulio Cesare, e in Silio Italico.
  29. [p. 235 modifica]zoppa. Viene la voce zoppo da cloppus, usato dai Latini nella stessa significazione, e formato dal greco χώλιπους (zoppicante), uno degli epiteti di Vulcano.
  30. [p. 235 modifica]saltò fuor del ballo. Uscì dalla mischia.
  31. [p. 235 modifica]che porta sbarrato il lione. Che ha per insegna un leone colle sbarre.
  32. [p. 235 modifica]saltò fuor del ballo. Uscì dalla mischia.
  33. [p. 235 modifica]rubicondo. Rosseggiante, acceso d’ira nel volto.
  34. [p. 235 modifica]ronzone. Accrescitivo di ronzino, che è propriamente cavallo da viaggio.
  35. [p. 235 modifica]avia. Aveva.
  36. [p. 235 modifica]stava più che in orazione. Desiderava ardentissimamente. Il Vocabolario non nota questo modo.
  37. [p. 235 modifica]sbergo. Usbergo.
  38. [p. 235 modifica]volia. Volea.
  39. [p. 235 modifica]metter la coda. Entrare a cercar d’ottenere l’intento suo.
  40. [p. 235 modifica]la rete cacciando. Adoperando sue arti ed inganni.
  41. [p. 235 modifica]doli. Frodi. Dal latino dolus.
  42. [p. 235 modifica]si bisbiglia. Bisbigliare è il favellare pian piano, detto dal suono che si fa in favellando in quella maniera che diresi far pissi pissi. Celso Cittadini, nelle Origini della favella toscana: «Tale è similmente la voce bisbiglio e pispiglio, formata da quel bis bis e pis pis
  43. [p. 235 modifica]fromba. O frombola. Strumento (dice il Vocabolario) fatto di una funicella di lunghezza intorno a due braccia, nel mezzo alla quale è una piccola rete fatta a mandorla, dove si mette il sasso per iscagliare, il quale anch’esso si chiama frombola, forse così detto da quel rombo ch’e’ fa quando egli è in aria; il che si dice frullare. Lo stesso Vocabolario alla voce frombo pone strepito, fragore, κτύπος, ma non reca esempio di sorta. Il Menagio fa derivare questa voce dalla latina funda; interposta la r fra le due prime lettere, e cambiato la d in b; il qual cambiamento è assai naturale e comune.
  44. [p. 235 modifica]vestigi. Sembra che questa voce sia qui adoperata in senso di bagaglio e simili. Manca al Vocabolario.
  45. [p. 235 modifica]accetta. Arme simile alla scure. Checchè altri si dica, viene dal latino acies, che significa la punta e il filo tagliente delle armi. Cicerone adoperò tal voce a significare appunto l’affilatura o il taglio della scure: «Quod aciem tuarum securium vidisset.» Verrina ultima.
  46. [p. 235 modifica]Sarestu Briareo ec. uno sterminato gigante che aveva cento braccia e cinquanta teste vomitanti fuoco. Gli Dei lo appellavano Briareo, gli uomini Egeone, e fu figliuolo di Celo e della Terra, o, secondo altri, della Terra e del Ponto. Quando, suscitatasi guerra tra’ Numi, ebbero questi incatenato Giove, Egeone, a ciò esortato da Teti, lo sciolse dai lacci, e lo liberò. Alcuni mitologi vogliono che egli aiutasse Giove nella guerra [p. 236 modifica]contro i Giganti; altri, al contrario, che combattesse contro quel Dio e fosse da lui fulminato. Nettuno gli dette in moglie la sua figliuola Cimopolia, e per questo alcuni lo annoverano fra gli Dei del mare. Finalmente fu posto a guardia dei Titani che nell’Inferno giacevano incatenati. Giuppiterre, cioè Giove, era il Dio Massimo degli antichi, e così noto, che posso passarmela dal narrarne la lunga istoria. Fialte, o Efialte, fu figliuolo di Aloeo, e fratello di Oto. Questi due fratelli crescevano ciascun mese un cubito in larghezza, ed un braccio in lunghezza; talchè di nove anni eran già fatti giganti. Furono essi che imposer l’Ossa all’Olimpo, e a questo il Pelio per giungere al cielo e tòrsi in moglie l'uno Giunone, l’altro Diana, la quale ne scampò cangiandosi in cerva, e uccidendogli poscia ambedue colle sue freccie. Furon dannati a star nell’Inferno attaccati colle spalle ad una colonna di serpenti, in cima della quale sta un gufo, che del continuo gli tormenta colle sue grida, e rode lor le intestina. Capaneo fu quel che cadde a Tebe giù da’ muri, quando, essendo all’assedio di quella città in aiuto di Polinice, fu fulminato da Giove, in pena del disprezzo da lui dimostrato contro gli Dei. Evadne sua moglie si gettò da sè stessa sul rogo di lui. Vuolsi però che fosse da Esculapio risuscitata, e che ritornasse su dall’Inferno. Anteo, finalmente, fu un gigante figliuolo di Nettuno e della Terra, e re d’Irasa. Avea fatto voto al padre di cuoprirne il tempio di cranii d’uomini; il perchè scannava tutti i forestieri che giugnevano nel suo paese. Da ultimo Ercole, passando por colà mentre conduceva ad Euristeo i buoi di Gerione, combattè con esso, e per ben tre volte atterrollo; ma altrettante si rilevò più feroce, perocchè la madre ogni volta infondevagli novelle forze; di che avvedutosi Ercole, presolo e levatolo in aria, lo soffocò.
  47. [p. 236 modifica]guinzaglio. È nome generico di qualunque striscia che s’adoperi a qualche uso; ma più specialmente significa quella corda o altra cosa con che si legano i cani quando si conducono a caccia; e di qui è tolta dal Poeta la metafora; laonde, non potere stare più in guinzaglio, vale quanto non potere star più alle mosse. Viene da vincigrium, secondo il Menagio; e questo, certamente, dal verbo vinco; perchè col guinzaglio vincitur canis.
  48. [p. 236 modifica]giocar qui a sonaglio. Lo stesso che giuocare a mosca cicca, o a beccalaglio.
  49. [p. 236 modifica]S’appiccon pesche. Si dan d’acerbe percosse.
  50. [p. 236 modifica]si faceva un nicchio. Nicchio è lo stesso che conchiglia; onde qui vale si piegava, si curvava come una conchiglia. Nello stesso significato si trova nel Ciriffo Calvaneo: «E come un nicchio sul destrier si serra.» III, 75.
  51. [p. 236 modifica]sull’ala. In disparte.
  52. [p. 236 modifica]compagnone. Vale qui uomo di smisurata grandezza. In senso proprio però significa lo stesso che compagno, detto così alla francese, da compagnon. Fra le diverse etimologie della voce compagno o compagnone, taluno l’ha fatta derivare dal lat. combennones, che significa, secondo Festo: qui in cadem benna, idest vehiculo, sedent. Il Lipsio vuole invece farla derivare dal verbo combino, che vale quanto conjungo; e Francesco Rabelesio e Andrea de Chesoe da cum, e da panis; come chi dicesse, colui che mangia del medesimo pane. Tuttavolta pare più verisimile la etimologia che a questa voce assegna il Canino ne’ Canoni de’ Dialetti, facendola venire da compaganus, cioè abitatore dello stesso castello o paese. Potrebbe anche venire dal greco κομψέυομαι (scite, seu festive aliquid facio, aut dico). usandosi eziandio compagnone nel significato di uomo sollazzevole e di buon tempo.