Morgante maggiore/Canto decimottavo

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Canto decimottavo

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Morgante maggiore Canto decimonono
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CANTO DECIMOTTAVO.




ARGOMENTO.

     Rinaldo assente, condanna il Soldano
Alla forca Ulivieri e Ricciardetto.
S’arrosta Orlando, e non s’arrosta invano,
Perché in aria non facciano un balletto.
Rinaldo arriva, ed il Veglio montano
Al Soldan che basisce ammacca il petto.
Morgante s’accompagna con Margutte,
Gran professor di cose inique e brutte.


1 Magnifica, Signor, l’anima mia
     E lo spirito mio di tua salute:
     E tu, per cui fu detto Ave Maria,
     Esaltata con grazia e con virtute,
     O gloriosa Madre, o Virgo pia,
     Coll’altre grazie che m’hai concedute,
     Aiuta ancor con tue virtù divine
     La nostra storia, infin ch’io giunga al fine.

2 Io dissi che ’l Soldan mandato avea
     Al re Gostanzo, e scritto che venisse
     A veder la giustizia che facea;
     Ma come il messo par che comparisse,
     Subito il re la lettera leggea,
     E ’ntese quel che ’l traditore scrisse:
     La lettera ad Orlando pose in mano,
     Dicendo: Questo ha scritto il tuo Soldano.

3 Quando ebbe tutto inteso il conte Orlando,
     Si volse al re Gostanzo sbigottito,
     E disse: A Dio e a te mi raccomando:
     Vedi come il Soldan m’ha qui tradito;
     Aiuto in questo caso ti domando.
     Rispose il re: Tu non arai servito
     A questa volta ingrato, Orlando mio,
     Ch’io ti darò soccorso, pel mio Dio.

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4 Io farò centomila in un momento
     Cavalier della tavola ritonda:
     E se più ne volessi anche altri cento,
     Gente e tesoro il mio reame abbonda:
     Non dubitar, tu sarai ben contento,
     E vo’ che quel ribaldo si sconfonda;
     E mandò bandi, e messaggieri, e scorte,
     Ch’ognun venissi presto armato a corte.

5 In pochi giorni furono a cavallo,
     Ed ordinati stendardi e bandiere;
     Il suo bel gonfalone è nero e giallo;
     Mai non si vide meglio in punto schiere;
     E scrisse al gran Soldan, che sanza fallo
     Fra pochi giorni il verrebbe a vedere;
     Che l’aspettassi, e i prigion soprattenga,
     Tanto che lui, che già s’è mosso, venga.

6 Orlando aveva le squadre ordinate
     Colle sue mani, e pieno è d’allegrezza,
     E riguardava quelle gente armate,
     Che gli parevan di somma prodezza;
     Quella fanciulla con parole ornate
     Mostrava di ciò aver molta dolcezza,
     Ch’Orlando ristorato sia da quella;
     E vuol con esso andar la damigella.

7 Il re Gostanzo anco v’andò in persona,
     E vanno giorno e notte cavalcando,
     Tanto che son condotti a Babillona:
     Quivi di fuor si vennono accampando,
     E fingendo amicizia intera e buona,
     Il re Gostanzo insieme con Orlando
     Vanno al Soldan con molti caporali,
     Uomini degni, e tutti i principali.

8 Quando il Soldan costor vede venire,
     E vede tanta gente alla pianura,
     Sente stormenti, sentiva anitrire,
     Comincia a sospettar con gran paura,
     E come savio nel suo core a dire:
     Questa è troppo gran gente alle mie mura.
     Pur si mostrava allegro, ch’era saggio,
     E manda a Salincorno un suo messaggio;

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9 quel ch’avea con Orlando combattuto,
     E che volea combatter con Rinaldo:
     Che venga presto in là ben provveduto.
     E Salincorno mai non si fu saldo,
     Che diecimila ordinava in suo aiuto:
     Ed eron, perché e’ son di luogo caldo,
     Uomini neri e di statura giusti,
     E portati per ispade mazzafrusti.

10 Rappresentossi con questi al Soldano.
     Or ritorniamo a Rinaldo, ch’avea
     Già vinto il Veglio: un giorno quel Pagano
     Ch'avea con lui mandato prima Antea,
     Vide venir gran gente per un piano;
     E con Rinaldo e col Veglio dicea:
     Che gente è questa, che di qua ne viene?
     Non si conosce a’ contrassegni bene.

11 Rinaldo, come e’ furono appressati,
     S’accosta, e domandava uno scudiere:
     Chi son costoro? Ove siete avviati?
     Costui rispose: È il mastro giustiziere,
     Ch’a due Cristian, che sono imprigionati
     In Babillona, va a fare il dovere:
     Son paladini, e l’un di lor marchese,
     Ch’una figliuola del Soldan già prese.

12 In questo che Rinaldo domandava,
     Giugneva il giustizier sopra Baiardo;
     Quando Rinaldo il caval suo guardava,
     E’ diventò come un lion gagliardo:
     E ’l giustizier per la briglia pigliava.
     Disse il Pagan: Se non ch’io ti riguardo,
     Che qualche bestia nell’aspetto parmi,
     T’insegnerei per la briglia pigliarmi.

13 Rinaldo trasse Frusberta per dargli,
     Poi dubitava a Baiardo non dare:
     In questo il Veglio che vide appiccargli,
     Subito corre Rinaldo aiutare;
     Cominciò con la mazza a tramezzargli.
     Il giustizier non si potè parare,
     Chè con un colpo la testa gli spezza;
     E cascò giù come una pera mezza.

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14 Allor Rinaldo in su Baiardo salta;
     E come e’ fu sopra il caval salito,
     Presto levava Frusberta su alta,
     Ed un Pagano in sul capo ha ferito,
     Che del suo sangue la terra si smalta,
     E morto appiè del cavallo è giù ito:
     Il Veglio presto salì in sul destriere
     Di quel Pagan, come il vide cadere.

15 E tra la turba si mette pagana,
     Tanto che molto Rinaldo il commenda:
     Quanti ne giugne la sua mazza strana,
     Tanti convien che morti giù ne scenda.
     Il mamalucco, ch’aveva l’alfana,
     Non si stava anco, chè v’era faccenda;
     E tutta quella gente si sbaraglia,
     Che, più che gente, era o ciurma o canaglia.

16 Il Veglio pur colla mazza di ferro
     Ritocca e suona, e martella e forbotta,1
     Ch’era più dura che quercia o che cerro:
     Alcuna volta n’uccide una frotta.
     Rinaldo si scagliava come un verro
     Dove e’ vedeva la gente ridotta;
     E rompe, e urta, e taglia, e straccia, e spezza
     Ciò che trovava, per la sua fierezza.

17 Chi fuggì prima se n’andò col meglio;
     Ch’a tutti il segno faceva Frusberta,
     Ed ogni volta con la mazza il Veglio
     Diceva a molti che dava l’offerta:
     A questo modo, chi dormissi, sveglio.
     E rilevava la mazza su all’erta:
     E tutti in volta rotta si fuggieno,
     Anzi sparivan come fa il baleno.

18 Poi cominciò Rinaldo al Veglio a dire:
     Io vo’ ch’a Babillona presto andiamo,
     Perché il Soldan farà color morire.
     Rispose il Veglio: Tuo servo mi chiamo;
     Però comanda, ch’io voglio ubbidire,
     E vo’ che sempre insieme noi viviamo:
     Dove tu andrai, io sarò sempre teco,
     E basti solo un cenno, o — Vienne meco.

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19 Missonsi tutti a tre presto in cammino,
     Il Veglio con Rinaldo e ’l mamalucco:
     Rinaldo, come al campo fu vicino,
     Dicea: Se del veder non son ristucco,
     Io veggo tanto popol saracino,
     Che non ne fu più al tempo di Nabucco:
     D’insegne e padiglion coperto è il piano;
     Non so se amici si son del Soldano;

20 Ma ’l campo, ch’assediò Troia la grande,
     Non ebbe la metà di questa gente,
     Tante trabacche e padiglion si spande;
     Forse il Soldan vorrà fare al presente
     A que’ prigion gustar triste vivande;
     Ma pel mio Dio ch’io lo farò dolente!
     Questo con seco diceva Rinaldo,
     E venía tutto furioso e caldo.

21 Orlando disse un giorno a Spinellone:
     Io vo’ che noi veggiamo i prigion nostri;
     Ch’era col re Gostanzo un gran barone:
     Andiamo, e pregherrem che ce gli mostri,
     Sanza cavargli fuor della prigione.
     Disse il Pagan: Sempre a’ comandi vostri
     Sarò parato, e se non ci è d’avanzo,
     Sarebbe da menarvi il re Gostanzo;

22 Chè so che gli fia caro di vedere
     Due paladin di tanto pregio e fama.
     Orlando disse: Troppo m’è in piacere.
     E Spinellone il re Gostanzo chiama:
     Nella città ne vanno, a non tenere
     Più che bisogni lunga questa trama;
     E la licenzia lor dette il Soldano,
     E pon le chiavi al re Gostanzo in mano.

23 Alla prigion se n’andorno costoro:
     Come Ulivier sentiva aprir la porta,
     A Ricciardetto disse: Ecco coloro
     Che vengono arrecarci altro che torta:
     Questo sarà per l'ultimo martoro:
     E molto ognun di lor se ne sconforta.
     Orlando, quando Ulivier suo vedea
     E Ricciardetto, parlar non potea.

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24 Il re Gostanzo disse: Or m’intendete,
     Se voi volete adorar Macometto,
     Della prigione scampati sarete;
     Se non, che domattina, io vi prometto,
     Ch’al vento insieme de’ calci darete.
     Rispose alle parole Ricciardetto:
     Se ci darà pur morte il Soldan vostro,
     Contenti siam morir pel Signor nostro.

25 E se ci fussi il mio caro fratello
     Rinaldo, non saremo a questo porto,
     O ’l conte Orlando ch’è cugino a quello;
     Ma spero, poi ch’ognun di noi fia morto,
     Contro a questo crudel signore e fello
     Vendicheranno ancor sì fatto torto;
     E piangeranne Babillona tutta,
     Chè so per le lor man sarà distrutta.

26 Ma ben mi duol, che innanzi al mio morire
     Non vegga il mio fratello e ’l cugin mio;
     E tuttavolta me gli par sentire,
     Come forse spirato dal mio Dio.
     Orlando non potè più sofferire,
     Chè d’abbracciargli avea troppo disio:
     E mentre che ciò dice Ricciardetto,
     Alzava la visiera dell’elmetto.

27 E disse: Tu di’il ver ch’egli è qui presso
     Orlando, che non t’ha mai abbandonato.
     Ulivier guarda, e dice: Egli è pur desso!
     E Ricciardetto l’ha raffigurato;
     Subito il braccio al collo gli ebbe messo,
     Ed Ulivieri abbraccia il car cognato.
     Per tenerezza gran pianto facevano,
     E Spinellone e ’l re con lor piangevano.

28 Poi molte cose insieme ragionaro:
     Orlando disse, ignun non dubitassi,
     Ch’a ogni cosa ordinato ha riparo:
     Ch’ognun di buona voglia si posassi:
     E così insieme al Soldan riportaro
     Le chiavi, che sospetto non pigliassi,
     E ringraziorno la sua signoria
     Della sua gentilezza e cortesia.

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29 Orlando non s’avea mai l’elmo tratto,
     Onde il Soldano un giorno gli ebbe detto:
     Deh dimmi, cavalier, che stai di piatto,
     Per che cagion tu tien sempre l’elmetto?
     Ch’io non posso comprender questo fatto;
     Tu mi faresti pigliarne sospetto:
     Io vo’ che tu mel dica a ogni modo,
     Se non, ch’io crederò che ci sia frodo.

30 Diceva Orlando: Certa nimicizia
     Fa che questo elmo tengo così in testa,
     Acciò che non pigliassi ignun malizia
     Di farmi a tradimento un dì la festa.2
     Disse il Soldano: Qui è sotto tristizia;
     Non si riscontra ben la cosa a sesta:
     Sempre color che sconosciuti vanno,
     O per paura o per malizia il fanno.

31 Io ho disposto in viso di vederti,
     Se non, che mal te ne potrebbe incôrre.
     Diceva Orlando: In ciò non vo’ piacerti,
     D’ogni altra cosa puoi di me disporre.
     Disse il Soldano: E’ convien ch’io m’accerti.
     E vollegli la mano al viso porre:
     Orlando gli menava una gotata,
     Che in sul viso la man riman segnata.

32 Quivi il Soldan con gran furor si rizza,
     E grida a’ mamalucchi: Su, poltroni.
     Orlando fuor la spada non isguizza,
     Che conosciuta non sia da’ baroni:
     Rivoltossi a costor con molta stizza,
     E da lor si difende co’ punzoni;
     E pèsche sanza nocciolo appiccava,
     Che si ritrasse ognun che n’assaggiava.

33 E Spinellon, come fedel compagno,
     Subito pose alla spada la mano,
     E fe di sangue con essa un rigagno,
     Ché nessun colpo non menava invano.
     Ma poi che vide, e’ non v’era guadagno,
     Si fuggì in una camera il Soldano,
     E per paura si serrava drento:
     Orlando si ritrasse a salvamento.

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34 E Spinellone e ’l re Gostanzo è intorno,
     Con lui ristretti, e son di fuori usciti
     Di Babillona, e nel campo tornorno:
     I baron del Soldano sbigottiti,
     Chi qua chi là, tutti si scompigliorno,
     Maravigliati di que’ tanto arditi;
     E fu per la città molto romore,
     Che così fussi fatto al lor signore.

35 Quando il Soldan rassicurato fue,
     Fece venir tutta la baronia,
     E nella sedia si levava sue,
     Nè mai si fe sì bella diceria;
     E cominciò con le parole sue:
     Mai più fu tocca la persona mia,
     Ma a ogni cosa apparecchiato sono,
     E, come piace a voi, così perdono.

36 Il re Gostanzo ha tanti cavalieri,
     Che cuopron, voi il vedete, il piano e ’l monte:
     Non so qual si sien drento i suoi pensieri;
     Ma, per fuggir sospetto e maggiore onte,
     Mostrato ho di vederlo volentieri:
     Or con colui che mi battè la fronte
     Credo che buon sarà forse far triegua,
     Acciò che maggior mal di ciò non segua.

37 E dare alla giustizia esecuzione
     Intanto di que’ due ch’io tengo presi,
     Acciò che il re Gostanzo e Spinellone
     Ritornin con lor genti in lor paesi;
     Morti questi baron ch’abbiam prigione,
     Noi saren poi da tanti meno offesi;
     Che s’io mi fo nimico al re Gostanzo,
     Per al presente non ci veggo avanzo.

38 In questo mezzo Antea potre’ pigliare
     Quel Montalban che Gano ha consigliato:
     Rinaldo so che non dee mai tornare,
     Credo che ’l Veglio l’abbi ora ammazzato:
     A luogo e a tempo si potrà mostrare
     Al re Gostanzo che m’abbi ingiuriato,
     Ch’io non vo’ far vendetta con mio danno,
     Ma aspettar tempo, come i savi fanno.

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39 Salincorno riprese le parole:
     E’ non ha tempo mai chi tempo aspetta;
     Per nessun modo triegua non si vuole:
     Io vo’ con queste man farne vendetta,
     Prima che molti dì ritorni il sole:
     Della giustizia che in punto si metta,
     Questo mi piace, e facciasi pur presto.
     E tutti in fine s’accordaro a questo.

40 Al re Gostanzo va tosto una spia,
     E dice ciò che ordina il Soldano;
     Il re Gostanzo a Orlando il dicia;
     Orlando disse: In punto ci mettiamo,
     Ch’a’ prigion fatto non sia villania;
     E tutti si schierorno a mano a mano.
     In questo tempo il Soldano ordinava
     Ciò che bisogna, e ’l giustizier chiamava.

41 E messe bandi per le sue città,
     Ch’ognun ch’avessi armadura o cavallo
     Venga a veder la giustizia che fa,
     Che si farà il tal giorno sanza fallo:
     Un giovane, ch’avea molta bontà,
     Sentendo questo, venne a vicitallo,
     Chiamato Mariotto, un gran signore,
     Ch’era figliuol del loro imperadore.

42 Trentamila menò quel Mariotto,
     Onde al Soldan fu questo molto caro,
     Armati stranamente a cuoio cotto:
     Ben centomila a caval ragunaro
     In punto a modo lor di tutto botto,
     E di mandar la giustizia ordinaro;
     Il giustizier con molta gente andoe
     Alla prigione, e’ due baron legoe.

43 Poi gli legò a cavallo in sulla sella
     Pur sopra i lor destrier colle lor armi;
     Perchè il Soldano in tal modo favella:
     Che tu gli meni amendue armati parmi.
     E ’l giustizier, ch’al suo dir non appella,
     Rispose: Così avea pensato farmi.
     Questo non era il giustiziere usato,
     Chè ’l Veglio, com’io dissi, l’ha ammazzato.

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44 Di nuovo un’altra spia ne va volando,
     Che la giustizia uscirà presto fore;
     E Spinellone insieme con Orlando
     Rassetton le lor genti a gran furore.
     Il re Gostanzo al Conte vien parlando:
     E’ ci sarà fatica, car signore,
     Racquistar questi con ispada o lancia,
     Tanto in sul crollo son della bilancia.

45 Era a veder molta compassione,
     I due baron, come ciascun si lagna:
     O conte Orlando, o Rinaldo d’Amone,
     Dov’è la tua possanza tanto magna?
     Non aspettar più, vien col gonfalone,
     Però che noi darem tosto alla ragna.
     Queste parole van dicendo forte,
     Chè gran paura avevon della morte.

46 Già eron gli stendardi apparecchiati,
     E Mariotto è innanzi alla giustizia;
     Già fuor della città son capitati:
     Evvi il Soldan ch’avea molta letizia,
     E sempre per la via gli ha svergognati:
     Ribaldi, traditor, pien di malizia!
     Ma Ricciardetto a ogni sua parola
     Diceva: Tu ne menti per la gola.

47 Chè tu se’ tu ribaldo e traditore;
     Ma ne verrà Rinaldo in qualche modo,
     E caveratti con sue mani il core,
     Chè promettesti, e rimanesti in sodo,
     Renderci a lui, crudele e peccatore.
     Dicea il Soldano: Tu arai presto un nodo
     Che ti richiuderà cotesta strozza;
     Ma prima ti sarà la lingua mozza.

48 Orlando e ’l re Gostanzo hanno veduto
     E Spinellon, che la giustizia viene,
     E che ’l Soldan con essa è fuor venuto;
     Ognun la lancia in su la coscia tiene:
     Fannosi incontro, e Spinellon saputo3
     Verso quel Mariotto: E’ non è bene,
     Dicea, che questa giustizia si faccia,
     Acciò ch’al nostro Dio non si dispiaccia.

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49 Perchè il Soldan, secondo intender posso,
     Promisse pure a Rinaldo aspettarlo;
     Ed or che così a furia si sia mosso,
     Troppo mi par che sia da biasimarlo:
     Ed oltr’a questo, e’ vi verrà qua addosso,
     Come questo saprà, subito Carlo,
     E ne verrà Rinaldo e ’l suo fratello,
     E gran vendetta far vorrà di quello.

50 Ma pur, se non venissi mai persona,
     Pàrti che questo al Soldan si convenga?
     Dove è la fede della sua corona,
     Che par che sotto sè qua il mondo tenga?
     Ritorna, Mariotto, in Babillona,
     Acciò che scandol di ciò non avvenga.
     Diceva Spinellone iratamente,
     Che ’l re Gostanzo non vuol per niente.

51 Rispose Mariotto: Tu se’ errato:
     Se ci fussi al presente Carlo Mano,
     Orlando, e ’l suo cugin c’hai nominato,
     E se ci fussi il grande Ettor troiano,
     O con la scure il possente Burrato,
     Non s’opporrebbe di questo al Soldano;
     E se tu se ’in cotesta opinione,
     Io ti disfido, e guarti,4 Spinellone.

52 Ispinellon non istette a dir più:
     A drieto col caval presto si scosta,
     Poi si rivolge, e l’aste abbassa in giù;
     Sì che del petto passava ogni costa
     A Mariotto, sì gran colpo fu;
     La turba, ch’era dal lato, si scosta,
     E Spinellon cacciava mano al brando;
     Allor si mosse il re presto ed Orlando.

53 Orlando Vegliantin per modo serra,
     Che ’l primo Saracin, che vien davante
     Con l’urto e con la lancia abbatte in terra;
     Poi misse mano alla spada pesante,
     E colpo che menassi mai non erra;
     Convien che chi l’aspetta alzi le piante:
     E ’l re Gostanzo è nella zuffa entrato,
     E tutto il campo già s’è sbaragliato.

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54 Quando il Soldano il romore ha sentito,
     Subito disse: Quel ch’io mi pensai
     Sarà pur vero al fin, ch’io son tradito
     Dal re Gostanzo, com’io dubitai.
     Vede già il popol tutto sbigottito,
     Di questo caso dubitava assai:
     Pur si fe innanzi, e con la spada in mano
     Va confortando ogni suo capitano.

55 Orlando or qua or là si scaglia e getta,
     E dove e’ vede la gente calcata,
     Subito si metteva in quella stretta,
     E colla spada l’aveva allargata;
     E tristo a quel che Durlindana aspetta,
     Chè gli facea sentir s’ella è affilata:
     Quanti ne giugne, riscontra, o rintoppa,
     Faceva a tutti la barba di stoppa.5

56 Or diciam di Rinaldo, ch’è già presso
     Al campo, e vede quel rabbaruffato
     Per la battaglia, e dice fra sè stesso:
     O Ricciardetto mio, tu se’ spacciato;
     Ove è, Soldan, quel che tu m’hai promesso?
     Poi disse al Veglio: Io son suto ingannato,
     Io veggo segno assai tristo di questo;
     Però quanto possiam corriam là presto.

57 Furno in un tratto nella zuffa questi:
     Rinaldo non sapea quel ch’abbi a farsi:
     Un Saracin pregò che manifesti
     Per che cagione il campo abbi azzuffarsi.
     Colui rispose: Il Soldan ci ha richiesti
     Per due baron che doven giustiziarsi;
     Il re Gostanzo non vuol che gli uccida,
     Per questo il campo sol combatte e grida.

58 Intanto Spinellon, ch’era caduto
     D’un colpo che gli avea dato il gigante,
     Vede Rinaldo ch’è sopravvenuto,
     E che del caso pareva ignorante;
     Disse: Baron, come tu hai saputo,
     Vedi che va sozzopra qua Levante
     Per due cristian, che il gran Soldano a torto
     Volea ch’ognun di lor fussi oggi morto.

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59 Il mio signor Gostanzo re non vuole,
     E siam qui tutti a lor difensione,
     Perchè di que’ baron troppo ci duole,
     Chè l’un fratel di Rinaldo è d’Amone;
     E perch’io non ti tenga più a parole,
     Nella battaglia è il figliuol di Milone,
     E fa gran cose per campar costoro,
     Ed io combatto qui pedon per loro.

60 Nè posso ancor rimontare a cavallo,
     Dond’io fu’ tratto da un Salicorno:
     Tutti color del contrassegno giallo
     Pel mio signor combatton questo giorno.
     Disse Rinaldo: Io vorrei sanza fallo
     Sapere il nome tuo, barone adorno.
     Disse il Pagano: Spinellon mi chiamo,
     E molto Orlando e Rinaldo suo amo.

61 Allor gridò Rinaldo: O Saracino,
     Io son Rinaldo, e son qui capitato
     Per ritrovare Orlando mio cugino;
     Monta a cavallo: e ’l Pagano è montato:
     Menami ove combatte il paladino.
     E Spinellon fu tutto consolato,
     E disse: Vincitor saremo omai,
     Andianne dove Orlando tuo lasciai.

62 E tanto per lo campo insieme vanno,
     Che lo condusse ove combatte Orlando,
     Ch’era pien tutto di sangue e d’affanno.
     Disse Rinaldo: Posa un poco il brando,
     Dimmi, i prigion, cugin mio, come stanno?
     Allora Orlando il vien raffigurando:
     Abbracciò questo, e pianse per letizia,
     E del Soldan contoe la sua tristizia.

63 Poi disse: Tempo non è farsi festa,
     Qui si conviene i prigioni aiutare.
     Non va lion per fame per foresta,
     Come Rinaldo cominciò a mugghiare,
     A questo e quello spezzando la testa,
     Le strette schiere faccendo allargare:
     Qui il Veglio e Spinellone e ’l Conte sono,
     E paion tutti a quattro insieme un tuono.

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64 Nè prima detton tra le schiere drento,
     Che si vedeva sbaragliar la gente;
     Ch’egli eran quattro lupi in un armento,
     E pur s’alcun non fugge, se ne pente,
     Ch’ogni cosa abbattevon come un vento:
     E inverso il gonfalon subitamente,
     Dove è il Soldan, con gran furor n’andorno;
     Or qui le spade ben s’insanguinorno.

65 Era il Soldan sopra un caval morello,
     Co’ mamalucchi suoi quivi ristretto;
     Giunson costoro insieme a un drappello,
     Gridando: Muoia il Soldan maladetto!
     Ma come il Veglio ha conosciuto quello,
     Prese una lancia, e posesela al petto,
     E disse: Io vo’ veder se la tua morte
     Si serba a me per distino o per sorte.

66 Quando il Soldan vide abbassar la lancia,
     Subito anch’egli il suo caval moveva,
     Perch’e’ vedeva che costui non ciancia,
     E nello scudo del Veglio giugneva;
     Pensò passargli la falda e la pancia:
     L’asta si ruppe, come il ciel voleva,
     E in molti pezzi per l’aria trovossi,
     Chè quel che è distinato tòr non puossi.

67 Ebbe pur luogo alfin la visione,
     Ch’una montagna gli cadeva addosso:
     Chè, come il Veglio allo scudo gli pone,
     Subito lo passò, ch’era pur grosso,
     E la corazza, e lo sbergo, e ’l giubbone
     Che è di catarzo,6 e poi la carne e l’osso;
     E con la furia del caval l’urtoe,
     Tanto ch’addosso al Soldan rovinoe.

68 Ma il caval si rizzò del Veglio tosto;
     Quel del Soldan col suo signore è in terra,
     E morto l’uno e l’altro a giacer posto:
     Così il giudicio del ciel mai non erra;
     Era così preveduto e disposto.
     Or qui fu quasi finita la guerra:
     Morto il Soldano, ognun verso le porte
     Correva sbigottito di tal morte.

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69 Rinaldo, che ’l Soldan vide cadere,
     Diceva al Veglio: Per la fede mia,
     Che non era di matto il suo temere;
     Vedi che luogo ha pur la profezia!
     Or oltre in rotta si fuggon le schiere,
     Dunque mostrian la nostra gagliardia.
     E vanno trascorrendo ove e’ vedieno
     I Saracin che indrieto si fuggieno.

70 Rinaldo il giustizier trasse per morto
     Di sella con un colpo con Frusberta,
     Onde e’ gli disse: Tu m’hai fatto torto;
     A questo modo il mio ben far non merta,
     C’ho dato aiuto a’ prigioni e conforto.
     Disse Rinaldo: Dove e’ sien m’accerta,
     E in questo modo camperai la vita,
     Se no, da me tu non farai partita.

71 Il giustiziere allor Rinaldo mena,
     Dove i prigion si stavan dall’un canto
     Afflitti, dolorosi, con gran pena,
     Ed avean fatto quel giorno gran pianto;
     Tanto che più gli riconosce appena:
     Che pagheresti voi, ditemi il quanto,
     Dicea Rinaldo, allor chi vi scampassi?
     Ed Ulivier, come e’ suol, cheto stassi.

72 Ma Ricciardetto rispose: Niente;
     Noi non abbiam danar nè cosa alcuna;
     Siam qui condotti sì miseramente,
     Sanza speranza, come vuol fortuna:
     Ma se qui fussi Rinaldo al presente,
     Non temeremo di cosa nessuna;
     O se ci fussi il conte Orlando appresso,
     Che di camparci pur ci avea promesso.

73 Disse Rinaldo: Siete voi Cristiani?
     Rispose Ricciardetto: Sì, messere,
     E paladin già fummo alti e sovrani.
     Rinaldo più non si potea tenere:
     Alla visiera si pose le mani,
     Acciò che in viso il potessin vedere;
     Donde ciascun lo riconobbe presto,
     Ma, volendo, abbracciar non posson questo.

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74 Allor Rinaldo gli scioglie ed abbraccia,
     E dice: Non sapete voi ch’Orlando
     È qui nel campo, e questa gente scaccia,
     Per venir voi da morte liberando?
     Per mio consiglio mi par che si faccia,
     Acciò che vi vegnate riposando:
     Col giustizier qui ve n’andrete vostro
     Al padiglion del re Gostanzo nostro.

75 E tutti a tre n’andorno al padiglione;
     Ma in questo tempo quel gigante forte
     Uccise il re Gostanzo in sull’arcione,
     Che molto pianse Orlando cotal morte;
     Poi abbattè d’un colpo Spinellone:
     Qui sopravvenne Orlando a caso e sorte,
     E tanto fe che si fece cristiano,
     E battezzollo con sua propria mano.

76 E fu cosa mirabil quel che disse
     Ispinellone in questo suo morire;
     Credo che ’l ciel per grazia se gli aprisse,
     Dove l’anima presto dovea gire;
     Perchè e’ teneva in su le luci fisse,
     Che gli pareva gli Angioli sentire,
     E disse con Orlando: Orlando, certo
     Io veggo il paradiso tutto aperto.

77 Non vedi tu lassù quel che vegg’io?
     Chi è colui ch’ognuno onora e teme,
     In sedia coronato, e giusto e pio,
     Fra mille lumi e mille diademe?
     Rispose Orlando: È Gesù nostro Iddio,
     Che pasce tutti di gaudio e di speme,
     Colui ch’adora ogni fedel Cristiano.
     Allor gli fe reverenzia il Pagano.

78 Chi è colei che siede allato a quello,
     Che sopra tutte par donna serena,
     E presso a lei un Angel così bello?
     È la sua Madre Vergin Nazzarena;
     E l’Angel che gli è appresso è Gabriello,
     Colui che gli disse: Ave, gratia plena.
     Allor le braccia il Saracino stende,
     Ed umilmente grazia a quella rende.

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79 E poi diceva: Io veggo intorno a quella
     Dodici in sedia tutti coronati.
     Rispose Orlando: Questa brigatella
     Son gli apostoli suoi glorificati.
     Quell’altro con la croce in man sì bella,
     Che par che molto fisso Gesù guati,
     E non si sazi di veder sua vista?
     Rispose Orlando: È il suo cugin Battista.

80 Quelle tre donne accosto sì al Signore?
     Rispose Orlando: Son le tre Marie,
     Ch’al suo sepulcro andâr con tanto amore,
     Poi che fu crucifisso il terzo die.
     Chi è a colui che guarda il suo Fattore,
     Quasi dicessi: Io ti disubbidie?
     Rispose Orlando: Sarà il nostro Adamo,
     Pel cui peccato dannati savamo.

81 Chi è quel vecchierel con tanta fede,
     Che non si sazia di cantare Osanna,
     E par che di Maria si goda al piede?
     Colui che fu con lei nella capanna.
     Quell’altro vecchio ch’appresso si vede
     Colla sua sposa? è Giovacchino ed Anna,
     Rispose Orlando, il padre di Maria,
     E la sua madre gloriosa e pia.

82 Color che paion sì giusti e discreti
     Co’ libri in man, sai tu quel che si sia?
     Rispose Orlando: Saranno i profeti,
     Che predisson l’annunzio di Maria:
     Quivi è Davidde, e gli altri sempre lieti,
     E Moisè legista, e Geremia.
     L’altre corone ch’io vi veggo tante?
     Rispose Orlando: Gli altri santi e sante,

83 E martir, patriarchi, e confessori.
     Tante altre cose ch’io vi veggo belle?
     Rispose Orlando: Celesti splendori,
     Come i pianeti, e sole, e luna, e stelle.
     Que’ dolci gaudi, e que’ soavi odori,
     Tante dolce armonie, tante fiammelle?
     Rispose Orlando: È il gaudio sempiterno,
     E ’l sommo ben di quel Signore eterno.

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84 Color che cantan, che paion di foco,
     Con l’alie intorno alla sedia vicini?
     Rispose Orlando: Qui ti ferma un poco,
     Sono altre spezie di spirti divini,
     Ed ha ciascuno ordinato il suo loco:
     Que’ primi, Cherubini e Serafini;
     E gli altri, Troni, che sì presso stanno,
     Sìcche tre gerarchie que’ cori fanno.

85 Gli altri che seguon questo primo coro
     De’ Serafin, Cherubini e de’ Troni,
     Virtute e Potestà son con costoro;
     Ma innanzi a questi le Dominazioni,
     Poi Principati, e gli Arcangel con loro,
     Ed Angel par che d’un canto risuoni.
     Disse il Pagan: Come tu m’hai diviso
     Costor, così gli veggo in paradiso.

86 Ah! disse Orlando, e’ non passerà molto
     Che tu gli potrai me’ vedere in cielo;
     Dirizza i tuoi pensier, la mente, e ’l volto
     A quel Signor con puro amore e zelo,
     E ’ncréscati di me, che resto involto
     In questo cieco mondo al caldo e al gielo.
     E poi gli diè la sua benedizione,
     E l’anima spirò di Spinellone.

87 Rimase Orlando tutto consolato
     Del dolce fin che Spinellone ha fatto,
     E tutto collo spirito elevato,
     Tanto che Paul pareva al ciel ratto,
     Chiamando morto chi in vita è restato:
     Intanto Salicorno è quivi tratto,
     E scaccia ognun che innanzi se gli affronta:
     Orlando in sul caval presto rimonta,

88 E grida: A drieto tornate, canaglia,
     È altro che un Pagan quel che vi caccia?
     E’ rispondieno: Egli è nella battaglia
     Questo gigante, che Giove minaccia;
     E’ ci divora, non ferisce o taglia,
     Tanto ch’ognuno ha rivolta la faccia.
     Orlando pur gli sgrida e svergognava,
     E in questo quivi Rinaldo arrivava.

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89 E Salicorno avea già domandato:
     Dov’è Rinaldo? io vorrei pur trovarlo.
     Orlando, come lo vede appressato,
     Diceva: O Salicorno, or puoi provarlo:
     Ecco colui, ch’hai tanto minacciato:
     Questo è Rinaldo tuo, col quale io parlo.
     E volsesi a Rinaldo e disse seco:
     Questo gigante vuol provarsi teco.

90 Quando il gigante vedeva Rinaldo,
     Parvegli un uom nell’aspetto gagliardo,
     E tutto stupefatto stava saldo:
     Guarda il Cristiano, e guardava Baiardo,
     E raffreddossi, che parea sì caldo;
     Disse: Baron, s’ogni tuo effetto guardo,
     Non vidi mai il più bel combattitore,
     Ma tu se’ il capo d’ogni traditore.

91 Tu uccidesti già de’ miei consorti
     Quel Chiariel, che fu tanto nomato.
     De’ miei fratelli due n’avete morti,
     E Brunamonte sai che l’hai ammazzato
     Con mille tradimenti e mille torti;
     E Mambrin ch’era del mio sangue nato,
     E Gostantin con inganno uccidesti,
     E meritato hai già mille capresti.

92 Noi siam rimasi sei fratei carnali;
     Ma punirotti io sol, traditor fello.
     Rinaldo stava tuttavia in sull’ali,
     Come il terzuol, per dibattersi a quello;
     E disse: Badalon, se tanto vali,
     Come ti fe cader qui il mio fratello?
     Dunque tu chiami traditor Rinaldo,
     Che sai che tu se’ il fior d’ogni ribaldo?

93 Disse il gigante: Orlando, io mi ti scuso,
     Non può ciò comportar nostra natura;
     Costui mi par co’ giganti poco uso:
     Chè s’io comincio per la sua sciagura,
     Gli forbirò col mazzafrusto il muso.
     Rinaldo, che smarrita ha la paura,
     Gli volle dar col guanto nel mostaccio,
     Se non che Orlando gli pigliava il braccio.

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94 E disse: Fate battaglia reale.
     Rispose Salicorno: I’ ho combattuto
     Tutto dì d’oggi, e fatto tanto male,
     E Spinellone e Gostanzo abbattuto,
     Che far con esso or battaglia campale
     O in altro modo non sare’ dovuto;
     Ma domattina in sul campo saremo,
     E so che ’l lume e’ dadi pagheremo.7

95 Rinaldo fu contento; e Salicorno
     In Babillona si tornava drento,
     E così i nostri al padiglion tornorno.
     Diceva il Veglio: Ignun mio guernimento
     Non mi trarrò, Rinaldo, insino al giorno:
     Così ti priego che tu sia contento.
     Rispose Orlando: Il tuo consiglio parmi
     Di savio. E non si vollon cavar l’armi.

96 Il Veglio, come pratico, in aguato
     Con una schiera quella notte sta.
     Or Salicorno, come addormentato
     Crede sia il campo, uscì della città;
     Verso Rinaldo n’andava affilato,
     Chè di tradirlo pensato seco ha;
     Ma nell’uscir nella schiera scontrossi
     Del savio Veglio, e la zuffa appiccossi.

97 E cominciossi la gente a ferire:
     Questo romor ne va pel campo presto;
     Ma pur Rinaldo si stava a dormire:
     Baiardo che la notte stava desto,
     Comincia presso a Rinaldo anitrire:
     Non si sentendo, spezzava il capresto,
     E corse sanza sella, così ignudo,
     E dettegli del piè drento allo scudo.

98 Rinaldo allor si fu pur risentito,
     E Ricciardetto ed Ulivier destoe:
     Ognun s’armava tutto sbalordito;
     Orlando in sul caval presto montoe,
     Dove combatte il Veglio ne fu ito,
     E tutto il campo in là presto n’andoe:
     A Salicorno par la cosa guasta,
     E pentesi aver messo mano in pasta.

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99 Pur con Rinaldo domandò battaglia;
     Rinaldo disse del campo pigliasse;
     E par con gran furor l’un l’altro assaglia:
     Subito furno le lor lance basse:
     Era a veder la Pagana canaglia,
     Che si pensorno il mondo rovinasse,
     Quando Rinaldo s’accosta al gigante,
     Perch’e’ tremava la terra e le piante.

100 E Salicorno la lancia spezzava,
     Così Rinaldo, e’ lor destrier passorno,
     E quasi il colpo di lor s’agguagliava;
     Sì che di nuovo due lance pigliorno,
     E l’uno inverso l’altro ritornava:
     Trovò Rinaldo al cimier Salicorno,
     E con quel colpo dilacciò l’elmetto,
     E ’l suo pennacchio gli spiccò di netto.

101 Rinaldo nello scudo pose a lui
     Un colpo, che gli arebbe traboccato
     Se fussin tutti insieme i frate’ sui,
     E ’n sulla groppa a l’alfana è cascato.
     Gridava Salicorno: Mai non fui
     A questo modo più vituperato:
     O Macometto, becco can ribaldo,
     Tu hai pagato la balia a Rinaldo:8

102 Credo che tu t’intenda9 co’ Cristiani!
     E ’l me’ che può sopra l’arcion si rizza,
     E prese il mazzafrusto con due mani;
     Verso Rinaldo va con molta stizza
     Gridando: Tu n’andrai con gli altri cani,
     Se questa mazza di man non mi schizza;
     Chè se tu campi da me questa notte,
     Non tornerò mai più nelle mie grotte.

103 E d’una punta gli dette nel fianco,
     Che gli fe rimbalzar l’elmetto in testa;
     E benchè fussi il paladin sì franco,
     Per la percossa ebbe tanta molesta,
     Che poco men che non si venne manco,
     E non volea la seconda richiesta;
     E Frusberta di man gli era caduta,
     Se non che la catena l’ha tenuta.

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104 E l’elmetto pel colpo gli era uscito:
     Il Saracin se gli scagliava intanto
     Addosso, che pensò che sia fornito.
     Orlando, ch’a veder era da canto,
     Gridò: Pagan, se’ tu del senno uscito?
     Or che non ha più l’elmo, o ’l brando, al guanto,
     Gli credi addosso andar co’ mazzafrusti,
     Come un gaglioffo10 vil che sempre fusti?

105 E volle dargli un colpo con la spada.
     Quando il gigante Orlando irato vide,
     Diceva: E’ non è buon che innanzi vada,
     Chè questa spada il porfiro divide.
     Quando Rinaldo a queste cose bada,
     Per la vergogna il cuor se gli conquide,
     E ripigliato alquanto di vigore,
     Verso il Pagano andò con gran furore.

106 Rizzossi in sulle staffe, e ’l brando strinse,
     E Salicorno trovò in sul cappello;
     E fu tanto la rabbia che lo vinse,
     Che lo tagliò come il latte il coltello;
     Non domandar quanto sdegno il sospinse;
     E spezza il teschio duro, e poi il cervello
     E ’l collo e ’l petto, e fecene due parti,
     Che così appunto non tagliano i sarti.

107 Cadde il gigante dell’alfana in terra:
     Fece un fracasso, come quando taglia
     Il montanaro e qualche faggio atterra.
     I Saracin che son nella battaglia,
     Chi qua chi là per le fosse al buio erra;
     Ognuno inverso le porte si scaglia,
     Veggendo Salicorno giù cadere,
     Che lo sentì chi nol potea vedere.

108 Combattevon a lumi di lanterne
     Costor la notte, e fiaccole di pino;
     Sì che molti restàr per le caverne,
     Chi morto, e chi ferito, e chi meschino:
     Nostri cristian quanti potien vederne,
     Tanti uccidien del popol saracino:
     Buon per colui che fu prima alle porte,
     Chè tutti que’ da sezzo ebbon la morte.

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109 Nella città chi può si fuggì drento,
     E furon presto le porte serrate,
     E cominciorno a far provvedimento,
     Come le mura lor fussin guardate;
     Chè d’uscir fuor non avean più ardimento.
     Lasciam costoro e l’altre gente armate:
     E’ ci convien tornare un poco a Carlo,
     Che non si vuol però dimenticarlo.

110 Carlo in Parigi nella sua tornata
     Meridiana volse rimandare
     A Carador, che l’ha tanto aspettata,
     E lei più in Francia non volea già stare,
     Da poi ch’Ulivier suo l’avea lasciata:
     Morgante volle questa accompagnare,
     E finalmente, dopo alcun dimoro
     Rappresentolla al gran re Caradoro.

111 E pochi giorni con lei dimoroe,
     Perchè e’ voleva andar verso Soria,
     Dov’era Orlando, e licenzia piglioe,
     E sol soletto si messe per via:
     Meridiana al partir lo pregoe,
     Che l’avvisassi d’Ulivier che sia,
     E ritornassi qualche volta a quella,
     Che rimanea scontenta e meschinella.

112 Giunto Morgante un dì sur un crocicchio,
     Uscito d’una valle e d’un gran bosco,
     Vide venir di lungi per ispicchio
     Un uom che in volto parea tutto fosco.
     Dette del capo del battaglio un picchio
     In terra, e disse: Costui non conosco;
     E posesi a sedere in su ’n un sasso,
     Tanto che questo capitoe al passo.

113 Morgante guata le sue membra tutte
     Più e più volte dal capo alle piante,
     Che gli pareano strane, orride e brutte:
     Dimmi il tuo nome, dicea, viandante:
     Colui rispose: Il mio nome è Margutte,
     Ed ebbi voglia anch’io d’esser gigante,
     Poi mi penti’ quand'a mezzo fu’ giunto;
     Vedi che sette braccia sono appunto.

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114 Disse Morgante: Tu sia il ben venuto:
     Ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
     Che da due giorni in qua non ho bevuto;
     E se con meco sarai accompagnato,
     Io ti farò a cammin quel ch’è dovuto.
     Dimmi più oltre: io non t’ho domandato,
     Se se’ Cristiano, o se se’ Saracino,
     O se tu credi in Cristo o in Appollino.

115 Rispose allor Margutte: A dirtel tosto,
     Io non credo più al nero ch’all’azzurro,
     Ma nel cappone, o lesso, o vuogli arrosto,
     E credo alcuna volta anche nel burro;
     Nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
     E molto più nell’aspro che il mangurro;
     Ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
     E credo che sia salvo chi gli crede.

116 E credo nella torta e nel tortello,
     L’uno è la madre, e l’altro è il suo figliuolo;
     Il vero paternostro è il fegatello,
     E posson esser tre, e due, ed un solo,
     E diriva dal fegato almen quello;
     E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
     Se Macometto il mosto vieta e biasima,
     Credo che sia il sogno o la fantasima.

117 Ed Appollin debb'esser il farnetico,
     E Trivigante forse la tregenda;
     La fede è fatta, come fa il solletico:
     Per discrezion mi credo che tu intenda:
     Or tu potresti dir ch’io fussi eretico:
     Acciò che invan parola non ci spenda,
     Vedrai che la mia schiatta non traligna,
     E ch’io non son terren da porvi vigna.11

118 Questa fede è come l’uom se l’arreca:
     Vuoi tu veder che fede sia la mia?
     Che nato son d’una monaca greca,
     E d’un papasso in Bursia là in Turchia;
     E nel principio sonar la ribeca12
     Mi dilettai, perch’avea fantasia
     Cantar di Troia, e d’Ettore e d’Achille,
     Non una volta già, ma mille e mille.

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119 Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
     Io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso:
     Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,13
     E ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
     Mi posi allato questa scimitarra,
     E cominciai pel mondo andare a spasso;
     E per compagni ne menai con meco
     Tutt’i peccati o di turco o di greco.

120 Anzi quanti ne son giù nello inferno:
     Io n’ho settanta e sette de’ mortali,
     Che non mi lascian mai lo state o ’l verno;
     Pensa quanti io n’ho poi de’ veniali:
     Non credo, se durassi il mondo eterno,
     Si potessi commetter tanti mali
     Quant’ho commessi io solo alla mia vita,
     Ed ho per alfabeto ogni partita.

121 Non ti rincresca l’ascoltarmi un poco,
     Tu udirai per ordine la trama;
     Mentre ch’i’ho danar, s’io sono a giuoco,
     Rispondo come amico a chiunque chiama;
     E giuoco d’ogni tempo e in ogni loco,
     Tanto ch’al tutto e la roba e la fama
     Io m’ho giucati, e’ pel già della barba:
     Guarda se questo pel primo ti garba.

122 Non domandar quel ch’io so far d’un dado,
     O fiamma14 o traversin, testa o gattuccia,
     O lo spuntone; e va per parentado
     Chè tutti siam d’un pelo e d’una buccia:15
     E forse al camuffare16 inciampo o bado,
     O non so far la berta o la bertuccia,
     O in furba, o in calca, o in bestrica mi lodo:
     Io so di questo ogni malizia e frodo.

123 La gola ne vien poi drieto a quest’arte.
     Qui si conviene aver gran discrezione,
     Saper tutti i segreti, a quante carte,
     Del fagian, della starna, e del cappone;
     Di tutte le vivande a parte a parte,
     Dove si truovi morbido il boccone:
     E non ti fallirei di ciò parola,
     Come tener si debba unta la gola.

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124 S’io ti dicessi in che modo io pillotto,17
     O tu vedessi com’io fo col braccio,
     Tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto;
     O quante parte aver vuole un migliaccio,
     Che non vuole essere arso, ma ben cotto,
     Non molto caldo, e non anco di ghiaccio,
     Anzi in quel mezzo, e unto, ma non grasso
     Pàrti che il sappi? e non troppo alto o basso.

125 Del fegatel non ti dico niente:
     Vuol cinque parte: fa’ ch’alla man tenga;18
     Vuole esser tondo, nota sanamente,
     Acciò che ’l fuoco equal per tutto venga,
     E perchè non ne caggia, tieni a mente,
     La gocciola che morbido il mantenga:
     Dunque in due parte dividiam la prima,
     Chè l’una e l’altra si vuol farne stima.

126 Piccolo sia questo, ed è proverbio antico,
     E fa’ che non sia povero di panni;19
     Però che questo importa ch’io ti dico;
     Non molto cotto, guarda non t’inganni,
     Chè così verdemezzo come un fico,
     Par che si strugga quando tu l’azzanni;
     Fa’ che sia caldo; e puoi sonar le nacchere20
     Con spezie e melarance e l’altre zacchere.

127 Io ti darei qui cento colpi netti,
     Ma le cose sottil vo’ che tu creda,
     Consiston nelle torte e ne’ tocchetti,
     E ti fare’ paura una lampreda,
     In quanti modi si fanno i guazzetti:
     E pur chi l’ode poi convien che ceda,
     Perchè la gola ha settantadue punti,
     Sanza molt’altri poi ch’io ve n’ho aggiunti.

128 Un che manchi, guasta la cucina:
     Non vi potrebbe il ciel poi rimediare:
     Quanti segreti insino a domattina
     Ti potrei di quest’arte rivelare!
     Io fui ostiere alcun tempo in Egina,
     E volli queste cose disputare.
     Or lasciam questo, e d’udir non t’incresca
     Un’altra mia virtù cardinalesca.

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129 Ciò ch’io ti dico non va insino all’effe,
     Pensa quand’io sarò condotto al rue:
     Sappi ch’io aro,21 e non dico da beffe,
     Col cammello, e coll’asino, e col bue;
     E mille capannucci e mille gueffe22
     Ho meritato già per questo o piue;
     Dove il capo non va,23 metto la coda,
     E quel che più mi piace è ch’ognun l’oda.

130 Mettimi in ballo, mettimi in convito,
     Ch’io fo il dover co’ piedi e colle mani;
     Io son prosuntuoso, impronto, ardito,
     Non guardo più i parenti, che gli strani;
     Della vergogna io n’ho preso partito,
     E torno a chi mi caccia, come i cani;
     E dico ciò ch’io fo per ognun sette,
     E poi v’aggiungo mille novellette.

131 S’io ho tenute dell’oche in pastura24
     Non domandar, ch’io non te lo direi;
     S’io ti dicessi mille alla ventura,
     Di poche credo ch’io ti fallirei;
     S’io uso fra le donne per sciagura,
     S’elle son cinque, io ne corrompo sei:
     Ch’io le fo in modo diventar galante,
     Che non vi campa nè balia nè fante.

132 Or queste son le mie virtù morale,
     La gola, e ’l bere, e ’l dado ch’io t’ho detto;
     Odi la quarta, ch’è la principale,
     Acciò che ben si sgoccioli il barletto:25
     Non vi bisogna uncin nè porre scale.
     Dove con mano aggiungo, ti prometto;
     E mitere da papi ho già portate,26
     Col segno in testa, e drieto le granate.

133 E trapani, e paletti, e lime sorde,
     E succhi d’ogni fatta, e grimaldelli,
     E scale o vuoi di legno o vuoi di corde,
     E levane, e calcetti di feltrelli
     Che fanno, quand’io vo', ch’ognuno assorde,
     Lavoro di mia man puliti e belli:
     E fuoco che per sè lume non rende,
     Ma con lo sputo a mia posta s’accende.

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134 Stu mi vedessi in una chiesa solo,
     Io son più vago27 di spogliar gli altari,
     Che ’l messo di contado del paiuolo:
     Poi corro alla cassetta de’ danari;
     Ma sempre in sagrestia fo il primo volo,
     E se v’è croce o calici, io gli ho cari,
     E’ crucifissi scuopro tutti quanti,
     Poi vo spogliando le nunziate e’ santi.

135 Io ho scopato già forse un pollaio:
     Stu mi vedessi stendere un bucato,
     Diresti che non è donna o massaio
     Che l’abbi così presto rassettato:
     S’io dovessi spiccar, Morgante, il maio,
     Io rubo sempre, dov'io sono usato;
     Ch’io non istò a guardar più tuo che mio,
     Perch’ogni cosa al principio è di Dio.

136 Ma innanzi ch’io rubassi di nascoso,
     Io fui prima alle strade malandrino:
     Arei spogliato un santo il più famoso,
     Se santi son nel ciel, per un quattrino;
     Ma per istarmi in pace e 'n più riposo,
     Non volli poi più essere assassino;
     Non che la voglia non vi fussi pronta,
     Ma perché il furto spesso vi si sconta.

137 Le virtù teologiche ci resta:
     S’io so falsare un libro, Dio tel dica:
     D’uno iccasse farotti un fio, ch’a sesta
     Non si farebbe più bello a fatica;
     E traggone ogni carta, e poi con questa
     Raccordo l’alfabeto e la rubrica,
     E scambieréti, e non vedresti come,
     Il titol, la coverta, il segno e ’l nome.

138 I sacramenti falsi e gli spergiuri
     Mi sdrucciolan giù proprio per la bocca
     Come i fichi sampier que’ ben maturi,
     O le lasagne, o qualche cosa sciocca;
     Nè vo’ che tu credessi ch’io mi curi
     Contro a questo o colui: zara a chi tocca:28
     Ed ho commesso già scompiglio e scandolo,
     Che mai non s’è poi ravviato il bandolo.

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139 Sempre le brighe compero a contanti:
     Bestemmiator, non vi fo ignun divario
     Di bestemmiar più uomini che santi,
     E tutti appunto gli ho in sul calendario:
     Delle bugie ignun non se ne vanti,
     Chè ciò ch’io dico fia sempre il contrario:
     Vorrei veder più fuoco, ch’acqua o terra,
     E ’l mondo e ’l cielo in peste, e ’n fame e ’n guerra.

140 E carità, limosina o digiuno,
     Orazion non creder ch’io ne faccia;
     Per non parer prováno,29 chieggo a ognuno,
     E sempre dico cosa che dispiaccia;
     Superbo, invidioso e importuno:
     Questo si scrisse nella prima faccia:
     Chè i peccati mortal meco eran tutti,
     E gli altri vizj scelerati e brutti.

141 Tanto ch’io posso andar per tutto ’l mondo
     Col cappello in su gli occhi com’io voglio;
     Com’una schianceria son netto e mondo:
     Dovunque io vo, lasciarvi il segno soglio,
     Come fa la lumaca, e nol nascondo;
     E muto fede e legge, amici e scoglio,
     Di terra in terra, com’io veggo o truovo,
     Però ch’io fu’ cattivo insin nell’uovo.

142 Io t’ho lasciato indrieto un gran capitolo
     Di mille altri peccati in guazzabuglio;
     Cho s’io volessi leggerti ogni titolo,
     E’ ti parrebbe troppo gran mescuglio;
     E cominciando a sciorre ora il gomitolo,
     Ci sarebbe faccenda insino a luglio;
     Salvo che questo alla fine udirai,
     Che tradimento ignun non feci mai.

143 Morgante alle parole è stato attento
     Un’ora o più, che mai non mosse il volto;
     Rispose e disse: In fuor che tradimento,
     Per quel ch’io ho, Margutte mio, raccolto,
     Non vidi uom mai più tristo a compimento;
     E di’ che ’l sacco non hai tutto sciolto:
     Non crederei con ogni sua misura
     Ti rifacessi a punto più Natura,

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144 Nè tanto accomodato al voler mio:
     Noi staren bene insieme in un guinzaglio:
     Di tradimento guárdati, perch’io
     Vo’ che tu creda in questo mio battaglio,
     Da poi che tu non credi in cielo a Dio,
     Ch’io so domar le bestie nel travaglio:
     Del resto, come vuoi te ne governa:
     Co’ santi in chiesa, e co’ ghiotti in taverna.30

145 Io vo’ con meco ne venga, Margutte,
     E che di compagnia sempre viviamo;
     Io so per ogni parte le vie tutte:
     Vero che pochi danar ne portiamo;
     Ma mio costume all’oste è dar le frutte31
     Sempre al partir, quando il conto facciamo;
     E ’nsino a qui sempre all’oste ov’io fusse,
     Io gli ho pagato lo scotto di busse.

146 Disse Margutte: Tu mi piaci troppo,
     Ma resti tu contento a questo solo:
     Io rubo sempre ciò ch’io do d’intoppo,
     S’io ne dovessi portare un orciuolo;
     Poi al partir son mutol, ma non zoppo:
     Se tu dovessi tòrre un fusaiuolo,
     Dove tu vai, to’ sempre qualche cosa,
     Ch’io tirerei l’aiuolo32 a una chiosa.

147 Io ho cercato diversi paesi,
     Io ho solcata tutta la marina,
     Ed ho sempre rubato ciò ch’io spesi;
     Dunque, Morgante, a tua posta cammina.
     Così detton di piglio a’ loro arnesi;
     Morgante pel battaglio suo si china,
     E col compagno suo lieto ne gía,
     E dirizzossi andar verso Soría.

148 Margutte aveva una schiavina33 indosso,
     Ed un cappello a spicchi alla turchesca,
     Salvo ch’egli era fatto d’un certo osso
     Che gli spicchi eran d’altro che di pèsca,
     Ed era molto grave e molto grosso,
     Tanto che par che spesso gli rincresca:
     Un paio di stivaletti avea in piè gialli,
     Ferrato, e cogli spron come hanno i galli.

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149 Dicea Morgante, quando gli vedea:
     Saresti tu di schiatta di galletto?
     Tu hai gli spron di drieto; e sorridea.
     Disse Margutte: Questo è per rispetto,
     Ché spesso alcun, che non se n’accorgea,
     Se ne trovò ingannato, ti prometto:
     Campati ho già con questi molti casi,
     E molti a questa pania son rimasi.

150 Vannosi insieme ragionando il giorno:
     La sera capitorno a un ostiere,
     E come e’ giunson, costui domandorno:
     Aresti tu da mangiare e da bere?
     E págati in su l’asse, o vuoi nel forno.
     L’oste rispose: E’ ci fia da godere;
     E’ c'è avanzato un grosso e bel cappone.
     Disse Margutte: Oh, non fia un boccone.

151 Qui si conviene avere altre vivande:
     Noi siamo usati di far buona cera;
     Non vedi tu costui com’egli è grande?
     Cotesta è una pillola di pera.
     Rispose l’oste: Mangi delle ghiande;
     Che vuoi tu ch’io provegga, or ch’egli è sera?
     E cominciò a parlar superbamente,
     Tal che Morgante non fu paziente.

152 Comincial col battaglio a bastonare;
     L’oste gridava, e non gli parea giuoco.
     Disse Margutte: Lascia un poco stare,
     Io vo’ per casa cercare ogni loco;
     Io vidi dianzi un bufol drento entrare:
     E’ ti bisogna fare, oste, un gran fuoco,
     E che tu intenda a un fischiar di zufolo,
     Poi in qualche modo arrostire quel bufolo.

153 Il fuoco per paura si fe tosto;
     Margutte spicca di sala una stanga;
     L’oste borbotta, e Margutte ha risposto:
     Tu vai cercando il battaglio t’infranga;
     A voler far quello animale arrosto,
     Che vuoi tu tòrre un manico di vanga?
     Lascia ordinare a me, se vuoi, il convito.
     E finalmente il bufol fu arrostito;

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154 Non creder colla pelle scorticata:
     E’ lo sparò nel corpo solamente;
     Parea di casa più che la granata:
     Comanda e grida, e per tutto si sente:
     Un’asse molto lunga ha ritrovata;
     Apparecchiolla fuor subitamente,
     E vino, e carne, e del pan vi ponea,
     Perchè Morgante in casa non capea.

155 Quivi mangioron le reliquie tutte
     Del bufolo, e tre staia di pan o piue,
     E bevvono a bigonce; e poi Margutte
     Disse a quell’oste: Dimmi, aresti tue
     Da darci del formaggio o delle frutte,
     Chè questa è stata poca roba a due,
     O s’altra cosa tu ci hai di vantaggio?
     Or udirete come andò il formaggio.

156 L’oste una forma di cacio trovoe,
     Ch’era sei libbre o poco più o meno;
     Un canestretto di mele arrecoe
     D’un quarto o manco, e non era anche pieno.
     Quando Margutte ogni cosa guardoe,
     Disse a quell’oste: Bestia sanza freno,
     Ancor s’arà il battaglio adoperare,
     S’altro non credi trovar da mangiare.

157 È questo compagnon da fare a once?
     Aspetta tanto ch’io torni un miccino,34
     E servi intanto qui colle bigonce;
     Fa che non manchi al gigante del vino,
     Che non ti racconciassi l’ossa sconce:
     Io fo per casa come il topolino,
     Vedrai s’io so ritrovare ogni cosa,
     E s’io farò venir giù roba a iosa.35

158 Fece la cerca per tutta la casa
     Margutte, e spezza e sconficca ogni cassa,
     E rompe e guasta masserizie e vasa;
     Ciò che trovava, ogni cosa fracassa,
     Ch’una pentola sol non v’è rimasa:
     Di cacio e frutte raguna una massa,
     E portale a Morgante in un gran sacco,
     E cominciorno a rimangiare a macco.36

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159 L’oste co’ servi impauriti sono,
     E a servire attendon tutti quanti,
     E dice fra sè stesso: E’ sarà buono,
     Non ricettar mai più simil briganti;
     E’ pagheranno domattina al suono
     Di quel battaglio, e saranno contanti:
     Hanno mangiato tanto, che in un mese
     Non mangerà tutto questo paese.

160 Morgante poi che molto ebbe mangiato,
     Disse a quell’oste: A dormir ce n’andremo,
     E domattina, com’io sono usato,
     Sempre a cammino insieme conteremo;
     E d’ogni cosa sarai ben pagato,
     Per modo che d’accordo resteremo.
     E l’oste disse a suo modo pagasse;
     Chè gli parea mill’anni e’ se n’andasse.

161 Morgante andò a trovare un pagliaio
     Ed appoggiossi come il liofante;
     Margutte disse: Io spendo il mio danaio:
     Io non voglio, oste mio, come il gigante
     Far degli orecchi zufoli a rovaio;37
     Non so s’io son più pratico o ignorante,
     Ma ch’io non sono astrologo, so certo;
     Io vo’ con teco posarmi al coperto.

162 Vorrei, prima ch’e’ lumi sieno spenti,
     Che tu traessi ancora un po’ di vino;
     Chè non par mai la sera io m’addormenti,
     S’io non becco in sul legno un ciantellino,38
     Così per risciacquare un poco i denti;
     E goderenci in pace un canzoncino:
     E’ basta un bigonciuol così tra noi,
     Or che non ci è il gigante che c’ingoi.

163 Vedestu mai, Margutte soggiugnea,
     un uom più bello e di tale statura,
     E che tanto diluvi, e tanto bea?
     Non credo e’ ne facessi un più natura;
     E’ vuol, quando egli è all’oste, gli dicea,
     che l’oste gli trabocchi la misura;
     Ma al pagar poi mai più largo uom vedesti;
     Se tu nol provi, tu nol crederresti.

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164 Venne del mosto, e stanno a ragionare,
     E l’oste un poco si rassicurava;
     Margutte un canzoncin netto spiccare
     Comincia, e poi del camin domandava,
     Dicendo, a Babillona volea andare:
     L’oste rispose, che non si trovava
     Da trenta miglia in là casa nè tetto
     Per più giornate, e vassi con sospetto.

165 E disselo a Margutte, e non a sordo,
     Che vi pensò di subito malizia,
     E disse all’oste: Questo è buon ricordo,
     Poi che tu di’ che vi si fa tristizia:
     Or oltre a letto; e sarem ben d’accordo,
     Ch’io non istò a pagar con masserizia;39
     Io son lo spenditore degli scotti;
     Come tu stesso vorrai, pagherotti.

166 Io ho sempre calcata la scarsella:
     Deh dimmi tu, non debbi aver domata,
     Per quel ch’io ne comprenda, una cammella,
     Ch’io vidi nella stalla tua legata,
     Ch’io non vi veggo nè basto nè sella?
     Rispose l’oste: Io là tengo appiattata
     Una sua bardelletta,40 ch’io gli caccio,
     Nella camera mia sotto il primaccio.

167 Per quel ch’io il faccia, credo che tu intenda:
     Sai che qui arriva più d’un forestiere
     A cena, a desinare, ed a merenda.
     Disse Margutte: Lasciami vedere
     Un poco come sta questa faccenda,
     Poi che noi siam per ragionare e bere,
     E son le notte un gran cantar di cieco.
     E l’oste gli rispose: Io te l’arreco.

168 Recò quella bardella il sempliciotto:
     Margutte vi fe su tosto disegno,
     Che questa accorderà tutto lo scotto;
     E disse all’oste: E’ mi piace il tuo ingegno;
     Questo sarà il guancial ch’io terrò sotto,
     E dormirommi qui in su questo legno;
     So che letto non hai dov’io capessi,
     Tanto che tutto mi vi distendessi.

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169 Or vo’ saper come tu se’ chiamato.
     Disse l’ostier: Tu saprai tosto come,
     Io son il Dormi per tutto appellato.
     Disse Margutte: Fa’ come tu hai nome,
     Così fra sè, tu sarai ben destato
     Quando fia tempo, innanzi fien le some.
     Com'hai tu brigatella, o vuoi figliuoli?
     Disse l’ostier: La donna ed io siam soli.

170 Disse Margutte: Che puoi tu pigliarci
     La settimana in questa tua osteria?
     Come arai tu moneta da cambiarci
     Qualche dobbra da spender per la via?
     Rispose l’oste: Io non vo’ molto starci,
     Ch’io non ci ho preso per la fede mia
     Da quattro mesi in qua venti ducati,
     Che sono in quella cassetta serrati.

171 Disse Margutte: Oh solo in una volta
     Con esso noi più danar piglierai.
     Tu la tien quivi: s’ella fusse tolta?
     Disse l’ostier: Non mi fu tocca mai.
     Margutte un occhiolin chiuse, ed ascolta,
     E disse: A questa volta lo vedrai!
     E per fornire in tutto la campana,
     Un’altra malizietta trovò strana.

172 Perchè persona discreta e benigna,
     Dicea coll’oste, troppo a questo tratto
     Mi se’ paruto, io mi chiamo il Graffigna,
     E ’l profferir tra noi per sempre è fatto;
     Io sento un poco difetto di tigna,
     Ma sotto questo cappel pur l’appiatto:
     Io vo’ che tu mi doni un po’ di burro,
     Ed io ti donerò qualche mangurro.

173 L’oste rispose: Niente non voglio;
     Domanda arditamente il tuo bisogno,
     Chè di tal cose cortese esser soglio.
     Disse Margutte allora: Io mi vergogno:
     Sappi che mai la notte non mi spoglio,
     Per certo vizio ch’io mi lievo in sogno;
     Vorrei ch’un paio di fune mi recasse,
     E legherommi io stesso in su quest'asse:

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174 Ma serra l’uscio ben dove tu dormi,
     Ch’io non ti dessi qualche sergozzone;
     Se tu sentissi per disgrazia sciormi,
     E che per casa andassi a processione,
     Non uscir fuor. Rispose presto il Dormi,
     E disse: Io mi starò sodo al macchione;41
     Così voglio avvisar la mia brigata,
     Che non toccassin qualche tentennata.

175 Le fune e ’l burro a Margutte giù reca,
     E disse a’ servi di questo costume,
     Ch’ognun si guardi dalla fossa cieca,
     E non isbuchi ignun fuor delle piume:
     Odi ribaldo! odi malizia greca!
     Così soletto si restò col lume,
     E fece vista di legarsi stretto,
     Tanto che ’l Dormi se n’andò a letto.

176 Com'e’ sentì russar ch’ognun dormiva,
     E’ cominciò per casa a far fardello;
     Alla cassetta de’ danar ne giva,
     Ed ogni cosa pose in sul cammello:
     E come un uscio o qualche cosa apriva,
     Ugneva con quel burro il chiavistello;
     E come egli ebbe fuor la vettovaglia,
     Appiccò il fuoco in un monte di paglia.

177 E poi n’andava al pagliaio a Morgante:
     Non dormir più, dicea, dormito ha' assai;
     Non di’ tu che volevi ire in Levante?
     Io sono ito e tornato, e tu il vedrai:
     Non istiam qui, dà in terra delle piante,
     Se non che presto il fummo sentirai.
     Disse Morgante: Che diavolo è questo?
     Tu hai pur fatto, per Dio, netto e presto.

178 Poi s’avviava, ch’aveva timore,
     Perchè quivi era un gran borgo di case,
     Che non si lievi la gente a romore.
     Dicea Margutte: Di ciò che rimase
     All’oste, un birro non are’ rossore,
     Ch’io non istò a far mai le staia rase;
     Ma sempre in ogni parte dov’io fui,
     Sono stato cortese dell’altrui.

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179 Mentre che questi così se ne vanno,
     La casa ardeva tutta a poco a poco;
     Prima che ’l Dormi s’avvegga del danno,
     Era per tutto appiccato già il foco,
     E non credea che fussi stato inganno:
     Quivi la gente correa d’ogni loco,
     Ma con fatica scampò lui e la moglie;
     E così spesso de’ matti si coglie.

180 Quando fu giorno che l’alba apparie,
     Morgante vede insino alla grattugia,
     E fra sè stesso dicea: Tutto die
     De’ miglior certo s’impicca ed abbrugia;
     Guarda costui quante ciabatte42 ha quie!
     Per Dio, che troppo il capresto s’indugia!
     Disse Margutte: E’ c’è insino alla secchia;
     Non dubitar, questa è l’arte mia vecchia.

181 Noi abbiamo andar per un certo paese,
     Dove da sè non ha chi non vi porta;
     E pure arem danar da far le spese:
     E tutta la novella dicea scorta
     Della cassetta; e come il fuoco accese;
     Come egli ebbe il cammel fuor della porta;
     E come il Dormi se n’andò a dormire,
     Ma il fuoco l’arà fatto risentire.

182 Morgante le mascella ha sgangherate
     Per le risa talvolta che gli abbonda,
     E dicea pure: O forche sventurate,
     Ecco che boccon ghiotto o pèsca monda!
     Non vi rincresca s’un poco aspettate:
     Costui pur mena almen la mazza tonda:43
     Quanto piacer n’arà di questo Orlando,
     S’io lo vedrò mai più, che non so quando!

183 Dicea Margutte: In questo sta il guadagno;
     Quanto tu lasci più il brigante scusso,
     Tu puoi cercar per tutto d’un compagno,
     Che d’ogni cosa sia, com’io, malfusso.
     Nè, per ghermire, altro sparvier grifagno
     Non ti bisogna, o Zingaroo, Arabo o Usso;44
     Quel che si ruba non s’ha a saper grado,
     E sai ch’io comincio ora a trar pel dado.45

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184 Io chiesi insino al burro, e dissi a quello
     Oste ch’un poco di tigna sentivo,
     Per ugner poi gli arpioni e ’l chiavistello,
     Che non sentissi quando un uscio aprivo,
     Tanto ch’io avessi assettato il cammello;
     A ogni malizietta io son cattivo:
     Del livido mi guardo quant’io posso,
     Poi non mi curo più giallo che rosso.

185 Or mi piacesti tu, Margutte mio,
     Dicea Morgante. E ’ntanto un c’ha veduta
     Quella cammella, diceva: Per Dio!
     Ch’ell'è del Dormi ostier quella scrignuta.46
     Disse Margutte: Il Dormi sarò io;
     Non vedi tu, babbion, che si tramuta,
     E sgombera qua presso a un castello?
     E maggior bestia se’ tu che il cammello.

186 Tutto quel giorno e l’altro sono andati
     Per paesi dimestichi costoro:
     Il terzo dì in un bosco sono entrati,
     Dove aspre fere facevon dimoro;
     Ed eron pel cammin tutti affannati,
     Nè vin, nè pan non avean più con loro.
     Dicea Morgante: Che farem, Margutte?
     Vedi che mancan qui le cose tutte.

187 Cerchiamo almeno appiè là di quel monte,
     Se vi surgessi d’acqua alcun rampollo;
     Chè pur, se noi trovassin qualche fonte,
     La sete se n’andrebbe al primo crollo,
     Chè le parole più spedite o pronte
     Non sento, se la bocca non immollo:
     Quel mi par luogo d’esservi dell’acque.
     Onde a Margutte il suo consiglio piacque.

188 Vanno cercando tanto, che trovorno
     Una fontana assai nitida e fresca:
     Quivi a sedere un poco si posorno,
     Perchè e’ convien che ’l camminar rincresca.
     Ecco apparir di lungi un liocorno,
     Che va cercando ove la sete gli esca.
     Disse Margutte: Se tu guardi bene
     Quel liocorno in qua, per ber, ne viene.

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189 Questa sarà la nostra cena appunto,
     E’ si consuma di dar nella rete;
     Però t’appiatta, tanto che sia giunto,
     Che tragga a noi la fame e a sè la sete.
     Il liocorno dalla voglia è punto,
     E non sapea le trappole segrete;
     Venne alla fonte, e ’l corno vi metteva,
     E stato un poco, a suo modo beeva.

190 Morgante, che dallato era nascoso,
     Arrandellò il battaglio ch’egli ha in mano;
     Dettegli un colpo tanto grazioso,
     Che cadde stramazzato a mano a mano,
     E non battè poi più senso nè poso;
     E fu quel colpo sì feroce e strano,
     Che di rimbalzo in un masso percosse,
     E sfavillò, come di fuoco fosse.

191 Quando Margutte il vide sfavillare,
     Disse: Morgante, la cosa va gaia,
     Forse che cotto lo potren mangiare.
     Per quel che di quel sasso là mi paia,
     Noi gli faren del fuoco fuor gittare.
     Disse Morgante: Ogni prieta è focaia,
     Dove Morgante e ’l battaglio s’accosta:
     Sempre con esso ne fo a mia posta.

192 Ma tu che se’, Margutte, sì sottile,
     Ed hai condotte tante masserizie,
     Come non hai tu l’esca col fucile?
     Disse Margutte: Tra le mie malizie
     Nè cosa virtuosa nè gentile
     Non troverrai, ma fraude con tristizie.
     Disse Morgante: Piglia del fien secco:
     Vienne qua meco. E Margutte disse: Ecco.

193 Vanno a quel masso, e Morgante martella,
     Ch’arebbe fatto riscaldare il ghiaccio;
     Tal ch’a Margutte intruona le cervella,
     Sì che quel fien gli cadeva di braccio.
     Allor Morgante ridendo favella:
     Guarda se fuor le faville ti caccio.
     Margutte il fien per vergogna riprese
     E tennel tanto che ’l fuoco s’accese.

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194 Poi si cavò di dosso la schiavina,
     E scaricò la cammella a giacere,
     E trasse quivi fuori una cucina:
     Apparecchiò alle spese dell’ostiere;
     Ch’avea recato insino alla salina,47
     E tazze ed altre vasella da bere:
     Al liocorno abbruciò le caluggine,48
     E fece uno schidon d’un gran peruggine.49

195 Cosse la bestia, e pongonsi poi a cena:
     Morgante quasi intera la pilucca,
     Sì che Margutte n’assaggiava appena,
     E disse: Il sal ci avanza nella zucca:
     Per Dio, tu mangeresti una balena,
     Non è cotesta gola mai ristucca:
     Io ti vorrei per mio compagno avere
     A ogni cosa, eccetto ch’al tagliere.

196 Disse Morgante, io vedevo la fame
     In aria come un nugol d’acqua pregno,
     E certo una balena con le squame
     Arei mangiato sanza alcun ritegno,
     O vero un liofante con l’ossame;
     Io rido che tu vai leccando il legno.
     Disse Margutte: Stu ridi, ed io piango,
     Che con la fame in corpo mi rimango.

197 Quest’altra volta io ti ristorerò,
     Dicea Morgante, per la fede mia.
     Dicea Margutte: Anzi ne spiccherò
     La parte ch’io vedrò che giusta sia,
     E poi l’avanzo innanzi ti porrò,
     Sì ch’e’ possi durar la compagnia:
     Nell’altre cose io t’arò riverenza,
     Ma della gola io non v’ho pazienza.

198 Chi mi toglie il boccon, non è mio amico,
     Ma ogni volta par mi cavi un occhio:
     Per tutte l’altre volte te lo dico,
     Ch’io vo’ la parte mia insino al finocchio,
     S’a divider s’avessi solo un fico,
     Una castagna, un topo, o un ranocchio.
     Morgante rispondea: Tu mi chiarisci
     Di bene in meglio, e com’oro affinisci.

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199 Racconcia un poco il fuoco, ch’egli è spento:
     Margutte ritagliò di molte legne,
     Fece del fuoco, ed uno alloggiamento.
     Disse Morgante: Se quel non si spegne
     Per istanotte, io mi chiamo contento;
     Tu hai qui acconcio mille cose degne,
     Tu se’il maestro di color che sanno.
     Così la notte a dormir quivi stanno.

200 E la cammella si pasceva intorno;
     Ma poi che l’aurora si dimostra,
     Disse Margutte a Morgante: Egli è giorno,
     Levianci, e seguitiam l’andata nostra;
     Così tutte lor cose rassettorno.
     Or, perchè l’un cantar con l’altro giostra,
     Quel che seguì sarà nell’altro canto,
     E lauderemo il Padre nostro intanto.

  1. [p. 44 modifica]e forbotta. Forbottare significa dar busse, colpi, e percosse più e più volte; e viene, dice il Vocab., da botta, voce Toscana, che vale colpo e percossa, aggiuntavi la sillaba for, come in forfare. Il Menagio, con più verisimiglianza, tiene che venga da foris, e pultare, detto invece di pulsare. Potrebbe però venire anche da fuori, e bussare; poichè bussare propriamente significo il picchiare che si fa agli usci perchè sieno aperti.
  2. [p. 44 modifica]farmi... la festa. Far la festa a uno vale ucciderlo; ma è modo basso.
  3. [p. 44 modifica]saputo. Savio.
  4. [p. 44 modifica]guarti. Guárdati.
  5. [p. 44 modifica]Faceva... la barba di stoppa. Far la barba di stoppa, vale far qualche male ad alcuno che non ne tema, o non se lo pensi; e vale anche superarlo, vincerlo in checchessia.
  6. [p. 44 modifica]catarzo. Seta grossa, e inferiore. Forse dal greco καθάρμα, purgamentum.
  7. [p. 44 modifica]E so che ’l lume ec. Pagare il lume e i dadi, vale pagar del tutto, non lasciare addietro nulla; e anche dar soddisfazione e il conto suo.
  8. [p. 44 modifica]Tu hai pagata la balia a Rinaldo. Modo di dire, come se dicesse: tu lo proteggi, lo favorisci, e simili.
  9. [p. 44 modifica]che tu t’intenda. Che tu sii d’accordo.
  10. [p. 44 modifica]gaglioffo. Dallo spagnuolo gallofo, che vale mendico. Vedi anche Enrico Stefano (Apologia, cap. 23) che lo vuol far venire da gallefrotier, a scabis fricanda. Forse anche da calones, che erano, come si cava da Servio e da Festo, una specie di servi dei soldati romani, detti così perchè portavano le clave di legno dette in greco κάλα. Noi gli chiamiamo bagaglioni; il qual nome si dà eziandio a uomo abietto, e male in arnese; appunto come i Romani, i quali pure dicevan calones a gente di simil fatta.
  11. [p. 44 modifica]non son terren da porvi vigna. E’ non è terren da porvi vigna, vale non ci si può far fondamento, o porre speranza.
  12. [p. 45 modifica]ribeca. O ribeba; strumento di corde da suonare.
  13. [p. 45 modifica]sciarra. Rissa, contesa; dal verbo sciarrare, che vale dividere, sbaragliare, mettere in rotta, e simili.
  14. [p. 45 modifica]O fiamma ec. Termini de’ giuocatori de’ dadi, de’ quali si è in gran parte perduto il significato.
  15. [p. 45 modifica]d’un pelo e d’una buccia. Della medesima indole o qualità ; ejusdem farinæ.
  16. [p. 45 modifica]camuffare ec. Truffare, ingannare: ma propriamente travestire, imbacuccare, e simili, corrispondente al latino caput obtegere. Viene dalla greca voce κημός, che significava un certo velo col quale si nascondevano la faccia le donne; come si cava da quel d’Esichio κημός γυναικεῖον προκόσμημα.
  17. [p. 45 modifica]pillotto. Dicesi pillottare il gocciolar sopra gli arrosti lardone o simil materia strutta bollente, mentre si girano. Secondo la Crusca viene forse da biliottare, che significa asperger di macchie qua e lò a guisa di gocciole; maculis distinguere.
  18. [p. 45 modifica]ch’alla man tenga. Che corrisponda alla mano, cioè alle dita di essa, che son cinque.
  19. [p. 45 modifica]che non sia povero di panni. S'usa rinvoltare i fegatelli in rete di castrato; e quanto più sono con questa ben rinvolti, più vengon morbidi e saporiti. Di ciò suoi dirsi d'uno che sia bene imbacuccato, egli è rinvolto come un fegatello.
  20. [p. 45 modifica]e puoi sonar le nacchere. Suonar le nacchere vale dar delle busse; qui però metaforicamente par che significhi, far suonare i denti, mangiare.
  21. [p. 45 modifica]Sappi ch’io aro ec. Arar coll’asino e col bue, vale far le cose a ritroso. Tuttavolta qui potrebbe intendersi per arare con ogni sorta bestie, cioè fare d'ogni erba un fascio, o farne di tutte.
  22. [p. 45 modifica]gueffe. Prigioni.
  23. [p. 45 modifica]Dove il capo non va. Modo di dire che significa essere entrante, e cercar d’ottenere por ogni guisa l’intento suo.
  24. [p. 45 modifica]S’io ho tenute ec. Tenere oche in pastura vale tener femmine per prestarle altrui a prezzo; fare il ruffiano.
  25. [p. 45 modifica]si sgoccioli il barletto. Si dica tutto intero quello che c’è da dire.
  26. [p. 45 modifica]E mitere ec. Intendi, sono stato alla berlina.
  27. [p. 45 modifica]Io son più vago ec. Intendi: io son più vago di spogliare gli altari, di quello che l’esattore della giustizia, o il messo del Tribunale che va pel contado a far gravamenti a’ debitori, sia vago del paiuolo per torlo in pegno.
  28. [p. 45 modifica]zara a chi tocca. O zara all’avanzo; proverbii che vogliono a chi ella tocca suo danno. La zara era un giuoco aulico, che facevasi con tre dadi, ed è rammentato da Dante nel sesto del Purgatorio:

    Quando si parte il giuoco della zara ec.

    sul qual verso dice il Buti: «Questo giuoco si chiama zara, per li punti divietati, che sono in tre dadi, da sette in giù , e da quattordici in su; e però quando veggono quelli punti, dicono li giuocatori zara.» La qual voce vien forse da azzardare, sebbene alcuni, e Guglielmo Tirio infra gli altri, la facciano venire da Hasarth, nome dì un castello di Siria. Ecco le precise parole di esso Guglielmo: «Cum scilicet circa annum 1200 transfretarent Christianæ acies, ad dejiciendos Syria, Palestina ac Judea barbaros, et convenirent ad munitissimum Syriæ castellum, captum a Francis, cui nomen Hasart: tantaque frequentia, ut ludus Hazardi diceretur de more inter milites ludus alcatarius.»

  29. [p. 45 modifica]provano. Garoso, ostinato, caparbio.
  30. [p. 45 modifica]Co’ santi in chiesa. Da quel di Dante:

    .........nella chiesa
    Co’ santi, ed in taverna co’ ghiottoni,
                             Inf., XXII.

  31. [p. 45 modifica]dar la frutte. Bastonare.
  32. [p. 45 modifica]Ch’io tirerei l'aiuolo ec. Tirar l’aiuolo diciamo in proverbio, per non si lasciare uscir di mano nulla, nè perdere alcuna occasione, o guadagno, per quanto di poca importanza egli sia.
  33. [p. 46 modifica]schiavina ec. Veste da schiavi di panno grosso, e la portano anche i romiti e i pellegrini.
  34. [p. 46 modifica]un miccino. Un cotal poco, modicum.
  35. [p. 46 modifica]a iosa. In quantità grande, in abbondanza; e dicesi anche in chiocca, a biscia, a busone, a isonne, e i Francesi dicono à foison. Il Salvini tiene che tal voce sia corrotta da chiosa, che significa il cappello delle bullette e ogni piccola piastra di metallo ridotta tonda o modo delle monete; e di questo piastre si servivano, in cambio di monete, i ragazzi nei loro giuochi: laonde essendo queste chiose cosa di nessun valore, dicendosi che d’una tal cosa e’ ve n’è a chiosa, o a josa, s’intende che di essa cosa ve n’è sì grande abbondanza, e per questo a sì vil prezzo, ch'e' se ne può avere fino per una chiosa.
  36. [p. 46 modifica]a macco. A josa, a crepapelle.
  37. [p. 46 modifica]Far degli orecchi zufoli a rovaio. Dormire all’aria aperta, sicchè il vento, penetrando dentro agli orecchi, produca in essi quel suono che pare d’uno zufolo. Rovaio è propriamente il vento di tramontana, Borea; d’onde lo fa venire il Menagio a questo modo βορέας, borrarius, borrario, e per antitesi robario; onde poi robaio, e rovaio. Tuttavolta tengo per più probabile la derivazione seguente. Il vento settentrionale, facendo cader le fronde degli alberi, fa che questi rimangano dispogliati, o cogli stecchi del tutto nudi, e simili a quei pruni che i contadini adoperano a rinforzare le siepi e che si chiamano rovi. Onde dal ridur così a somiglianza de1 rovi le piante tutte, e’ si può credere ch’egli si sia detto rovaio.
  38. [p. 46 modifica]ciantellino. Centellino, piccola quantità, quasi una centesima parte.
  39. [p. 46 modifica]con masserizia. Con risparmio e con usura.
  40. [p. 46 modifica]bardelletta ec. Piccola bardella, che è una specie di sella con piccolo arcione dinanzi, della quale si servono i poveri uomini e i contadini; ed è anche quella imbottitura che si conficca sotto l’arcione delle selle, perchè non offenda il dosso della cavalcatura.
  41. [p. 46 modifica]mi starò sodo al macchione. Farò il formicon di sorbo, o il corbacchion di campanile.
  42. [p. 46 modifica]cibbatte ec. Ciabatte, che così si chiamano propriamente le scarpe vecchie e lacece, e quelle scarpe all’apostolica che usano i frati scalzi. E dicesi anche di quei frammenti di materiali di coloro che lavorano, o ogni sorta di masseriziuole vecchie e consumate, che i Latini chiamavano Scruta
  43. [p. 46 modifica]Costui pur mena ec. Menar la mazza tonda significo trattare senza rispetto ognuno a un modo, μηδενὸς ἐπιμέλειαν ἔχειν.
  44. [p. 46 modifica]Zingaro, Arabo o Usso. Sono gli zingari una generazione di vagabondi che dicono discendere ab antiquo dagli Egiziani, i quali van per lo mondo predicendo altrui le cose avvenire, e vivendo per lo più di rapina; il qual costume è così proprio di essi, che di qualunque ladroncello e mariuolo si suol dire, egli è leale come uno zingaro. Il Tassoni nei suoi Pensieri diversi (lib. VIII, cap. III) molto distesamente ragiona di questi zingani, e della origine del nome loro; e tiene che l’uso di andar del continuo rubacchiando sia loro nel sangue; perocchè è noto come Foroneo, che diede a’ popoli d'Egitto le leggi, non vietò loro il rubare; la qual costumanza par quasi di una in altro generazione trapassata ne’ discendenti. Il cardinal Baronio fa derivare il nome loro da Sangara città dell’Egitto, dalla quale gli tien da principio venuti, allorquando, fatto il vergognoso accordo, di cui parla Ammiano, da Gioviniano imperatore coi Persi, furon costretti a dovere a questi lasciar vuota lo patria loro. Il Valeriani, citato pur dal Tassoni, nel suo libro de’ Geroglifici , crede che questa gente sia così delta a cinclo, ave, il qual noi chiamiamo cutrettola, e gli antichi se ne servivano a dinotare lo povertà, per non aver quello uccello nido proprio, andando sempre a ricoverarsi negli altrui. Il Menagio finalmente, con [p. 47 modifica]meno verisimiglianza degli altri, si pensa che l’italiano zingano venga dal tedesco zigeuner, che significa lo stesso; ed è voce originata da ziehen, che val far viaggio. Gli Arabi sono un popolo cotanto noto che me ne passo col dire soltanto che è proverbiale la lor mania del rubare. Gli Ussi finalmente erano popoli della Persia, de’ quali Scilate, che scrisse delle cose di Costantinopoli, racconta che si sparsero per l’Europa sotto l’imperio di Michele Traulo, e andavano predicendo il futuro, a guisa degli zingani. Onde il Volaterrano venne in sospetto che questi da quelli fosser discesi; ma quanto a questo ben nota il Tassoni, che tra gli Ussi e gli Zingani è un gran divario di nome.
  45. [p. 47 modifica]trar pel dado. Tirare pel dado vale proverbialmente cominciare ora, o in quel punto; ed è tolta la metafora dal giuoco, quando si rimette alla sorte il vantaggio del tratto, della mano, o simili. Così il Vocabolario. Vedi ciò che intorno a questo proverbio dice il Minucci nelle noto al Malmantile, canto XII. st. 51.
  46. [p. 47 modifica]scrignuta. Che ha lo scrigno, il quale è propriamente quel rilevato che hanno in sulla schiena i cammelli, e gli uomini gobbi, e che i Greci chiamavan κυρτός.
  47. [p. 47 modifica]salina. Il luogo dove si cava e raffina il sale. Qui per sale assolutamente.
  48. [p. 47 modifica]caluggine, è propriamente quella prima peluria che incominciano a metter gli uccelli nel nido, e anche quella lanugine che rimane sulla carne ad essi quando sono pelati. Viene da lanugo.
  49. [p. 47 modifica]peruggine. Pero selvatico. Da pirum, perum, perugo, peruggine.