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Adone/Canto V

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Canto V

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Canto IV Canto VI
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LA TRAGEDIA

CANTO QUINTO

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ALLEGORIA

Per Mercurio, che mettendo Adone in parole, gli persuade con diversi essempi a ben amar Venere, si dimostra la forza d’una lingua efficace, e come l’essortazioni de’ perversi Ruffiani sogliono facilmente corrompere un pensier giovanile. Ne’ favolosi avvenimenti di que’ Giovani da esso Mercurio raccontati, si dà per lo più ad intendere la leggerezza ed incostanza puerile. In Narciso è disegnata la vanità degli uomini morbidi e deliziosi, i quali non ad altro intesi che a compiacersi di se medesimi, e disprezzatori di Eco, ch’è figura della immortalità de’ nomi, alla fine si trasformano in fiori, cioè a dire che se ne muoiono miseramente senza alcun pregio, poi che niuna cosa più di essi fiori è caduca e corrottibile. In Ganimede fatto coppier di Giove, vien compreso il segno d’Aquario, il qual con larghissime e copiosissime piogge dà da bere a tutto il mondo. Per Ciparisso mutato in cipresso, siamo avertiti a non porre con ismoderamento la nostra affezzione alle cose mortali, acciò che poi mancandoci, non abbiamo a menar la vita sempre in lagrime, e in dolori. Hila (come accenna l’importanza della voce greca) non vuol dir altro che Selva; ed è amato da Hercole, perciò che Hercole come cacciatore di mostri, era solito di frequentar le foreste. Athide infuriato prima, e poi divenuto pino per opera di Cibele, ci discopre quanto possa la rabbia della gelosia nelle Donne attempate, quando con isproporzionato maritaggio si ritrovano a giovane sposo congiunte. La rappresentazione d’Attheone ci dà ammaestramento quanto sia dannosa cosa il volere irreverentemente, e con soverchia curiosità conoscere de’ secreti divini più di quel che si conviene; e quanto pericolo corra la gioventù di essere divorata dalle proprie passioni, seguitando gli appetiti ferini. [p. 278 modifica]

ARGOMENTO

Entra il Garzon per dilettosa strada
nel bel Palagio in fra delizie nove.
Seco divisa il Messaggier di Giove,
poi con Scene festive il tiene a bada.






1.L’umana lingua è quasi fren, che regge
de la ragion precipitosa il morso.
Timon, ch’è dato a regolar con legge
de la nave de l’alma il dubbio corso.
Chiave ch’apre i pensier, man che corregge
de la mente gli errori, e del discorso.
Penna e pennello, che con note vive,
e con vivi color dipinge e scrive.

2.Istromento sonoro, or grati, or gravi,
or di latte, or di mèl sparge torrenti.
Son del suo dire in un fieri e soavi
tuoni le voci, e fulmini gli accenti.
Accoppia in sé de l’Api e gli aghi e i favi,
atti a ferire, a raddolcir possenti.
Divin suggel, che mentr’esprime i detti,
imprime altrui negli animi i concetti.

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3.Ma come spada, che difende o fère,
s’avien che bene o male oprata sia,
secondo il divers’uso, in più maniere
qualità cangia, e divien buona o ria.
E se dal dritto suo fuor del devere
in malvagio sermon torta travia,
trafige, uccide, e del mordace dente
(ben che tenera e molle) è più pungente.

4.Se ben però, qualor saetta o tocca,
stampa sempre in altrui piaghe mortali,
non fa colpo maggior, che quando scocca
in petto giovenil melati strali.
Versa catene d’or faconda bocca,
che molcendo e traendo i sensi frali,
tesson legame al cor dolce e tenace,
ch’imprigiona e lusinga, e nòce e piace.

5.Un mezano eloquente, un scaltro messo,
Paraninfo di cori innamorati,
che viene, e torna, e patteggiando spesso
de le compre d’Amor tratta i mercati,
con le parole sue fa quell’istesso
ne’ rozi petti, e ne’ desir gelati,
che suol ne’ ferri far la cote alpina,
che non ha taglio, e le coltella affina.

6.Oh vi fulmini il Ciel, v’assorba Dite,
infernali Himenei, sozzi Oratori,
Corrieri infami, a l’anime tradite
di scelerati annunzii Ambasciadori;
che con ragioni essortatrici ardite
di stimulare i semplicetti cori,
corrompendo i pensier con dolci inganni!
Qual ufficio più vil fa maggior danni?

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7.Qual meraviglia, se de’ sommi Eroi
l’Interprete immortal, l’astuto Araldo,
possente ad espugnar co’ detti suoi
ogni voler più pertinace e saldo,
su ’l fiore, o bell’Adon, degli anni tuoi
il tuo tenero cor rende sì caldo?
Virtù di quel ministro, il qual per prova
ne la casa d’Amor sempre si trova.

8.Somiglia Adone attonito Villano
uso in selvaggio e poverel ricetto,
se talora a mirar vien di lontano
pompa real di cittadino tetto.
Somiglia il domator de l’Oceano
quando, d’alto stupore ingombro il petto,
vide primiero in regïon remote
meraviglie novelle, e genti ignote.

9.Volge a tergo lo sguardo, e mira e spia
se calle v’ha per rinvenir l’uscita.
Ma la porta superba, ond’entrò pria,
con sue tante ricchezze è già sparita.
Né sa guado veder, né trovar via
per indietro tornar, che sia spedita;
e quasi Verme di bei stami cinto,
va tessendo a se stesso il labirinto.

10.Tosto ch’egli colà pose le piante,
ben d’Amor prigioniero esser s’accorse,
ma fra delizie sì soavi e tante
da la cara catena il piè non torse;
anzi spontaneo e volontario amante
al ceppo il piede, al giogo il collo porse;
e poi c’ha di tal carcere ventura,
servaggio apprezza, e libertà non cura.

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11.Non manca quivi a corteggiarlo accinta
di festevoli Ninfe accorta schiera,
né con piuma qual d’oro, e qual dipinta,
vago drappel di Gioventute arciera;
ch’al bel fanciul, da cui fu presa e vinta
la bella Dea che ’n quell’albergo impera,
stanno in guisa d’ancelle e di sergenti,
diversi uffici a ministrare intenti.

12.Chi d’ambrosia gl’impingua il crin sottile,
chi di rosa l’implica, e chi di persa,
chi di pomposo e barbaro monile
la bella gola e candida attraversa,
altri a l’orecchie di lavor simile
gemma gli appende folgorante e tersa;
tal che tutto si vede intorno intorno
di molli arnesi e feminili adorno.

13.Incantato da’ vezzi, e tutto inteso
a cose Adon sì disusate e nove,
parte d’alto stupor che l’ha sorpreso
vinto, bocca non apre, occhio non move,
parte sovra pensier, seco sospeso
volge suo stato, e con cui siasi, e dove;
e sparso intanto d’un gentil vermiglio
basso tien per vergogna a terra il ciglio.

14.Qui presente d’Atlante era il nipote,
perché non pur la sua natia Cillene
lascia talor, ma da l’eterne rote,
per scherzar con Amor, spesso ne viene.
Questi al Garzon s’accosta, e sì lo scote,
ch’alzar gli fa le luci alme e serene.
Favoleggiando poi dolce il consiglia,
e con modi piacevoli il ripiglia.

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15.— O damigel, che sott’umano velo
di consorzio divin sei fatto degno,
de la tua sorte invidïata in Cielo
ecco ch’io teco a rallegrar mi vegno.
Così ’l tuo foco mai non senta gelo,
come a curar non hai del patrio regno,
quando di sé lo scettro, e del suo stato,
la Reina de’ Regi in man t’ha dato.

16.Ma perché muto veggioti, e pensoso,
sia pensier, sia rispetto, o sia cordoglio,
consolar mesto, assecurar dubbioso,
consigliar sconsigliato oggi ti voglio.
Del bel, per cui ne vai forse fastoso,
ah non ti faccia insuperbire orgoglio:
però ch’è fior caduco, e, se nol sai,
fugge, e fuggito poi, non torna mai.

17.E ti vo’ raccontar, se non t’aggrava,
ciò ch’adivenne al misero Narciso.
Narciso era un fanciul, ch’innamorava
tutte le belle Ninfe di Cefiso.
La più bella di lor, che s’appellava
Eco per nome, ardea del suo bel viso,
ed adorando quel divin sembiante
parea fatta idolatra, e non amante.

18.Era un tempo costei Ninfa faconda,
e note sovr’ogni altra ebbe eloquenti:
ma da Giunon crucciosa ed iraconda
le fur lasciati sol gli ultimi accenti.
Pur, se ben la sua pena aspra e profonda
distinguer non sapean tronchi lamenti,
supplia pace chiedendo ai gran martiri
or con sguardi amorosi, or con sospiri.

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19.Ma l’ingrato Garzon chiuse le porte
tien di pietate al suo mortal dolore.
Porta negli occhi e ne le man la morte,
de le fere nemico, e più d’Amore.
Arma, crudo non men che bello e forte,
d’asprezza il volto, e di fierezza il core.
Di sé s’appaga, e lascia in dubbio altrui
se grazia o ferità prevaglia in lui.

20.«Amor» dicean le Verginelle amanti
«o da questo sord’Aspe Amor schernito,
dov’è l’arco e la face, onde ti vanti?
perché non ne rimane arso e ferito?
Deh fa’, Signor, che con sospiri e pianti
ami invan non amato e non gradito.
Come più tant’orgoglio omai sopporti?
Vendica i propri scorni, e gli altrui torti!»

21.A quel caldo pregar l’orecchie porse
l’Arcier contro il cui stral schermo val poco,
e ’l Cacciator superbo un giorno scòrse
tutto soletto in solitario loco.
Stanco egli di seguir Cinghiali ed Orse,
cerca riparo dal celeste foco.
Tace ogni augello al gran calor ch’essala,
salvo la roca e stridula Cicala.

22.Tra verdi colli in guisa di teatro
siede rustica valle e boschereccia.
Falce non osa qui, non osa aratro
di franger gleba, o di tagliar corteccia.
Fonticel di bell’ombre algente ed atro,
inghirlandato di fiorita treccia,
qui dal Sol si difende, e sì traluce,
ch’al fondo cristallin l’occhio conduce.

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23.Su la sponda letal di questo fonte,
che i circostanti fior di perle asperge,
e fa limpido specchio al cavo monte,
che lo copre dal Sol quando più s’erge,
appoggia il petto e l’affannata fronte,
le mani attuffa, e l’arse labra immerge.
E quivi Amor, mentr’egli a ber s’inchina,
vuol ch’impari a schernir virtù divina!

24.Ferma ne le bell’onde il guardo intento,
e la propria sembianza entro vi vede.
Sente di strano amor novo tormento
per lei, che finta imagine non crede.
Abbraccia l’ombra nel fugace argento,
e sospira e desia ciò che possiede.
Quel che cercando va, porta in se stesso,
miser!, né può trovar quel c’ha da presso.

25.Corre per refrigerio a l’onda fresca
ma maggior quindi al cor sete gli sorge.
Ivi sveglia la fiamma, accende l’ésca,
dove a temprar l’arsura il piè lo scòrge.
Arde, e perché l’ardor vie più s’accresca
la sua stessa beltà forza gli porge;
e ne l’incendio d’una fredda stampa
mentre il viso si bagna, il petto avampa.

26.La contempla, e saluta, e tragge (ahi folle!)
da mentito sembiante affanno vero.
Egli amante, egli amato, or gela, or bolle,
fatto è strale e bersaglio, arco ed arciero.
Invidia a quell’umor liquido e molle
la forma vaga e ’l simulacro altero,
e geloso del bene, ond’egli è privo,
suo rival su la riva appella il rivo.

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27.Mancando alfin lo spirto a l’infelice,
troppo a se stesso di piacer gli spiacque.
Depose a piè de l’onda ingannatrice
la vita, e morto in carne, in fior rinacque.
L’onda, che già l’uccise, or gli è nutrice,
perch’ogni suo vigor prende da l’acque.
Tal fu il destin del vaneggiante e vago
vagheggiator de la sua vana imago.

28.E così fece il Ciel del grave oltraggio
de la sprezzata Ninfa alta vendetta.
Ma tu (credo ben io), se sarai saggio,
aborrir non vorrai quel che diletta,
e sgombro il sen d’ogni rigor selvaggio
godrai l’età fiorita e giovinetta,
Idolo d’una Dea, dal cui bel viso
impara ad esser bello il Paradiso.

29.Di quella Dea, per cui strugger si sente
lo Dio del foco in maggior foco il petto,
e da martel più duro e più possente
batter il cor, d’amore, e di sospetto.
Quella che i danni de l’offesa gente
vendica sol col mansueto aspetto;
ché se ’l folgore suo percote altrui,
un sol guardo di lei trafige lui.

30.Di quella Dea, che può col seno ignudo
vincer l’invitto Dio d’armi guernito,
lo qual non può sì forte aver lo scudo
che non ne resti il feritor ferito,
né di sì salde tempre il ferro crudo
che tempri il mal da que’ begli occhi uscito.
Quella, che può bear l’alme beate,
beltà del Cielo, e Ciel d’ogni beltate.

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31.Giovane il mondo in altra età qual ebbe,
amato mai da Deïtate alcuna,
e qual cotanto al Cielo in grazia crebbe,
che possa pareggiar la tua fortuna?
Non quegli a te paragonar si debbe
ch’accese il cor de la gelata Luna.
Non l’altro, che ’n su ’l bel carro fiorito
fu da la bionda Aurora in Ciel rapito.

32.Mille di mille Dee, di mille Dei,
che quaggiù di lassù spiegaro il volo,
amori annoverar qui ti potrei,
ma lascio gli altri, e te ne sceglio un solo.
Oso di dir, che più felice sei
di quel che piacque al gran Rettor del polo.
Non so se ti sia nota, o forse oscura,
del Troiano donzel l’alta ventura.

33.Dal sovrano balcon rivolto avea
il Motor de le stelle a terra il ciglio,
quando mirò giù ne la valle Idea
del Re di Frigia il giovinetto figlio.
Mirollo, e n’arse. Amor, che l’accendea,
l’armò di curvo rostro e curvo artiglio,
gli prestò l’ali, e gli destò vaghezza
di rapir la veduta alta bellezza.

34.La maestà d’un sì sublime amante
bramoso d’involar corpo sì bello,
de la ministra sua prese sembiante,
ché non degnò cangiarsi in altro augello.
Però che tutto il popolo volante
più magnanimo alcun non n’ha di quello,
degno da che portò tanta beltate
d’aver di stelle in Ciel l’ali gemmate.

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35.Bello era, e non ancor gli uscìa su ’l mento
l’ombra ch’aduggia il fior de’ più begli anni.
Iva tendendo a roze prede intento
ai cervi erranti insidïosi inganni.
Ed ecco il predator, che ’n un momento
falcate l’unghie, e dilatati i vanni,
in alto il trasse, e per lo ciel sostenne
l’amato incarco in su le tese penne.

36.Mira da lunge stupido e deluso
lo stuol de’ servi il vago augel rapace.
Seguon latrando, e risguardando in suso,
i cani la volante ombra fugace.
Il volo oblia d’alto piacer confuso
Giove, e di gioia e di desir si sface,
gli occhi fiso volgendo, e le parole,
Aquila fortunata, al suo bel Sole.

37.«Fanciul» dicea «che piagni? a che paventi
cangiar col Cielo (ahi semplicetto) i boschi?
con l’auree sfere, e con le stelle ardenti
le tane alpestri, e gli antri ombrosi e foschi?
e con gli Dei benigni ed innocenti
le fere armate sol d’ire e di toschi?
fatto, mercé di lui, che ’l tutto move,
di rozo Cacciator Coppier di Giove?

38.Son Giove istesso. Amor m’ha giunto a tale,
non prestar fede a le mentite piume.
Aquila fatto son; ma che mi vale,
s’Aquila ancor m’abbaglio a tanto lume?
Io quel, quell’io, che col fulmineo strale
tonar sovra i Giganti ho per costume,
sì son pungenti i folgori che scocchi,
saëttato son già da’ tuoi begli occhi.

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39.Qual pro ti fia per balze e per caverne
seguir de’ mostri orribili la traccia?
Vienne vien’ meco a le delizie eterne,
maggior preda fia questa, e miglior caccia.
E s’avien che colà ne le superne
piagge i bei membri essercitar ti piaccia,
trarrai per le stellate ampie foreste
dietro a l’Orse del polo il Can celeste.

40.Lascia omai più di ricordar, rivolto
a le selve, agli armenti, Ida né Troia.
Sei celeste, e felice; avrai, raccolto
tra gli eterni conviti, eterna gioia.
E ne l’aspra stagion, quand’Austro sciolto
l’aria, la terra e ’l mar turba ed annoia,
visitata dal Sol, lucida e bella
scintillerà la tua feconda stella».

41.Così gli parla, e ’ntanto al sommo regno,
de la gente immortal patria serena,
non però senza scorno e senza sdegno
de la gelosa Dea, lo scòrge e mena,
dove del nobil grado il rende degno
che sempre in ogni prandio, in ogni cena
a mensa in cavo e lucido diamante
porga il nèttare eterno al gran Tonante.

42.Hebe e Vulcan, che poco dianzi quivi
de la gran tazza il ministero avieno,
già rifiutati, e de l’ufficio privi,
cedono al novo aventurier terreno.
Ei l’ama sì, ch’innanzi a Dive e Divi
quando il sacro teatro è tutto pieno,
ancor presente la ritrosa moglie,
da Ganimede suo mai non si scioglie.

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43.Non gli reca il Garzon già mai da bere
che pria nol baci il Re che ’n Ciel comanda,
e trae da quel baciar maggior piacere
che da la sua dolcissima bevanda.
Talvolta a studio, e senza sete avere,
per ribaciarlo sol, da ber dimanda.
Poi gli urta il braccio, o in qualche cosa intoppa,
spande il licore o fa cader la coppa.

44.Quando torna a portar l’amato paggio
il calice d’umor stillante e greve,
rivolti in prima i cupid’occhi al raggio
de’ bei lumi ridenti, egli il riceve,
e col gusto leggier fattone un saggio,
il porge a lui, ma mentr’ei poscia il beve,
di man gliel toglie, e le reliquie estreme
cerca nel vaso, e beve, e bacia insieme.

45.Ma che? Tu sovra questo, e sovra quanti
più pregiati ne furo unqua tra noi
darti ben a ragion titoli e vanti
d’aventuroso e fortunato puoi,
poi che ’l più bel de’ sette lumi erranti
hai potuto invaghir degli occhi tuoi,
e por te stesso in signoria di quella,
ch’influisce ogni grazia, amica stella.

46.E però ti consiglio, e ti ricordo,
che di tanto favor ringrazii il fato.
Non esser al tuo ben cieco, né sordo.
Sappi gioir di sì felice stato.
Né cagion lieve, o van desire ingordo
partir ti faccia mai dal fianco amato;
perché cose s’incontrano sovente
onde, quando non vale, altri si pente.

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47.La fanciullesca età tenera e molle
è quasi incauta e semplice fanciulla,
lo cui desir precipitoso e folle
corre a ciò che l’alletta e la trastulla.
Or piange, or ride, e mentr’ondeggia e bolle,
suole immenso dolor tragger di nulla,
e procacciar non senza gravi affanni
da leggieri accidenti eterni danni.

48.Troppo talvolta a vani oggetti intenta
quel che rileva più, sprezza ed oblia,
e così pargoleggia, e si lamenta
s’avien che perda poi ciò che desia.
Un essempio n’avrai, se ti rammenta,
degno ch’a mente ognor certo ti sia,
per cui l’alma anzi tempo uscì divisa
d’una spoglia leggiadra, odi in che guisa.

49.Vezzoso Cervo si nutriva in Cea,
di cui più bel non fu Daino, né Damma,
sacro a la casta e boschereccia Dea,
più vivace e leggier che vento o fiamma.
Quando a pena lasciato il nido avea,
d’una Capra poppò l’ispida mamma,
onde conforme a l’alimento ch’ebbe
qualità prese, e mansueto crebbe.

50.È canuto qual cigno, e ’l pelo ha bianco
più che latte rappreso o neve alpina;
sol di purpuree macchie il petto e ’l fianco
sparso a guisa di rose in su la brina.
Con le Ninfe conversa, e talor anco,
in udir chiamar Cinthia, egli s’inchina,
pur come a reverir nome sì degno
umano spirto il mova, umano ingegno.

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51.Tra Fauni e Driadi il dì spazia e soggiorna
in aperta campagna o in chiuso ovile,
che per fregiargli le ramose corna
van de le pompe sue spogliando Aprile.
D’oro l’orecchie, e d’or la fronte adorna,
gli circonda la gola aureo monile,
ch’un tal breve contien: “Ninfe e Pastori,
di Dïana son io, ciascun m’onori”.

52.Le Ninfe fontaniere e le montane
ne la stagion ch’al Cervo il corno casca,
onde povero ed orbo ei ne rimane
per più corsi di Sol pria che rinasca,
gli componeano in mille forme estrane
su la vedova fronte ombrosa frasca,
e con bell’arte il rifacean cornuto:
quel che già per natura avea perduto.

53.Tra quanti il favoriro e l’ebber caro
fu Ciparisso, un pellegrin donzello,
per cui languiva il gran Signor di Claro
che non vide già mai viso più bello.
L’età con la bellezza iva di paro,
ch’era degli anni ancor su ’l fior novello,
e del suo bel mattin l’Alba amorosa
le guance gli spargea di fresca rosa.

54.Questo fanciul, da’ cui begli occhi acceso
più che da’ propri raggi ardeva Apollo,
sempre a seguirlo, a custodirlo inteso
in pregio l’ebbe, e sovr’ogni altro amollo.
Gli avea di propria man fatto ed appeso
di squillette d’argento un serto al collo,
perché qualor da lunge il suon n’udiva
lo potesse trovar, se si smarriva.

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55.Erra il giorno con lui, la sera riede
là ’ve d’erbe e di fior letto l’accoglie.
Spesso in braccio gli corre, in grembo siede,
e prende di sua mano or acque, or foglie.
Orgoglioso ei ne va, che lo possiede,
umil l’altro ubbidisce a le sue voglie,
e con serico fren pronto e leggiero
si lascia maneggiar, come un destriero.

56.Era nel tempo de le bionde spiche,
quando il Pianeta fervido di Delo
i raggi a piombo in su le piagge apriche
non vibra no, ma fulmina dal cielo.
Il bel Garzon fra molte querce antiche,
che tessean di folt’ombra un verde velo,
dopo lungo cacciar stanco ne venne,
e ’l domestico suo dietro gli tenne.

57.Or mentre il Cervo pasce, ed egli porge
riposo ai membri in mezo a la foresta,
erger vago Fagian non lunge scorge
fuor d’una macchia la purpurea testa.
Prende l’arco pian pian, da l’erba sorge,
e ’l miglior stral de la faretra appresta.
Tende prima la corda, indi l’allenta,
e la canna ferrata innanzi aventa.

58.Dove l’Arcier l’invia, lo stral protervo,
ma dov’ei non vorrebbe, i vanni affretta.
Dopo quel cespo il suo diletto Cervo
erasi posto a ruminar l’erbetta.
Onde scagliato dal possente nervo,
il fianco inerme al misero saetta.
Pènsati tu, s’a la mortal ferita
cade, e ’n vermiglio umor versa la vita!

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59.V’accorre il suo Signor, volgendo dritto
verso il flebil muggito il guardo pio.
E quando vede (ahi Cacciatore afflitto!)
in cambio de l’augel, quel che ferio,
e gemer sente il poverel trafitto,
che par gli voglia dir «Che t’ho fatt’io?»,
stupisce, e trema, e da gran doglia oppresso
vorria passarsi il cor col dardo istesso.

60.Scende colà lo Dio chiomato e biondo
dal suo carro lucente ed immortale,
e gli dimostra con parlar facondo
come quel che l’afflige è picciol male.
Ma nessuna ragion che porti al mondo
a consolar lo sconsolato vale.
Del cadavere freddo il collo amato
abbraccia, e bacia, e vuol morirgli a lato.

61.Sfoga con l’innocente arco infelice
il suo rabbioso e desperato sdegno.
Spezza l’empie quadrella, ed «Omai» dice
«non suggerete voi sangue men degno!
Ma te del fiero colpo essecutrice
mano ingrata e crude], perché sostegno?
Perché, s’hai con lo stral commesso errore,
non l’emendi col ferro in questo core?

62.Poi che perfido io stesso, e malaccorto,
di propria man d’ogni tesor m’ho privo,
e perduta ogni gioia, ogni conforto,
lieti oggetti e giocondi aborro e schivo,
fa’ (prego) o Ciel, senza il mio ben, ch’è morto,
ch’io fra tanto dolor non resti vivo.
Fa’ ch’io non senta almeno, e che non miri,
se non feretri, e lagrime, e sospiri».

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63.A pena egli ha vigor d’esprimer questo,
che la pelle gl’indura, e ’l busto ingrossa.
Sorge piramidal tronco funesto,
rozo legno si fan le polpe e l’ossa.
Verdeggia il crin frondoso, e quanto al resto
tutta da lui l’antica forma è scossa.
Funeral pianta e tragica diviene,
e quant’uom desïava, arbore ottiene.

64.S’un amante divin, più ch’una fera,
(come ragion chiedea) curato avesse,
forse non avria questi in tal maniera
dato campo al destin che poi l’oppresse.
Or tu non far ch’occasion leggiera
t’involi a lei che suo Signor t’elesse,
perché lontan da chi n’ha zelo e cura
scompagnata beltà non va secura.

65.So che sovente per le selve errando,
dove strani animali hanno ricetto,
di girne ardito e ’ntrepido cacciando
o con spiedo o con stral prendi diletto.
Deh non voler, tanto piacer lasciando,
tra i perigli de’ boschi entrar soletto.
S’al viver tuo troncar non vuoi le fila,
sovengati talor del caso d’Hila.

66.Era scudier del generoso Alcide
Hila, il vago figliuol di Theodamante.
Più bei crin, più begli occhi il Sol non vide,
più bel volto già mai, più bel sembiante.
Con la tenera man l’armi omicide
spesso stringea del bellicoso amante,
e de l’immensa e smisurata clava
fedelmente l’incarco in sé portava.

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67.Quando al fier Gerí’on, quando ad Anteo
tolse il forte Campion la vita e l’alma,
quando de l’Hidra e del Leon Xemeo,
del Cinghiale e del Tauro ebbe la palma,
fu sempre a parte d’ogni suo trofeo,
né lasciar volse mai la cara salma,
seguendo pur con pronte voglie amiche
de l’invitto Signor balte fatiche.

68.S’arinaro intanto per portar de l’oro
la ricca preda i Naviganti audaci,
del primo sprezzator d’Austro e di Coro,
quando a Coleo passò, fidi seguaci.
V’andár di Leda i figli, andò con loro
Theseo, andovvi il Cantor de’ boschi traci;
e fra gli altri guerrier de lo stuol greco
il gran figlio d’Almena, ed Hila seco.

69.Sorse di Misia, da buon vento scòrta,
tra i verdi lidi la famosa nave,
dove ferma su l’áncora ritorta
depose de’ suoi duci il peso grave.
Procaccia qui la gioventute accorta
per l’amene campagne ombra soave.
Chi le mense apparecchia in su le sponde,
chi fa letto o sedil d’erbe e di fronde.

70.Hila dal caldo e da la sete adusto
cerca ov’empir di gelid’onda un vaso,
onde d’urna dorata il tergo onusto
colá s’imbosca, ove lo porta il caso.
Crescer l’ombre fa giá del folto arbusto
il Sol, ch’ornai declina invèr l’Occaso;
ed ei per tutto spia se d’acqua sente
alcuna scaturigine cadente.

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71.Ed ecco giunge ove di musco e felce
tutta vestita, e d’edera selvaggia,
pendente costa di scabrosa selce
gran parte adombra de l’aprica spiaggia.
Quinci l’orno e la quercia e l’alno e l’elce
scacciano il Sol, qualor piú caldo irraggia,
spargendo intorno da la chioma oscura
opacata di fronde alta frescura.

72.Quasi cor de la selva, un fonte ombroso,
mormorando nel mezo, il prato aviva,
ed offre al peregrin fresco riposo,
chiuso dal verde, a la stagione estiva.
Dal sen profondo del suo fondo erboso
spira spirto vital d’aura lasciva,
e porge a l’erbe, agli arboscelli, ai fiori
per cento vene i nutritivi umori.

73.Sotto questa fontana a chiome sciolte
su ’l bel fitto meriggio aveano usanza
le Napee del bel loco in cerchio accolte
vaghe carole essercitare in danza.
Com’Hila in lor le luci ebbe rivolte,
d’infiammarle tra Tacque ebbe possanza,
onde nel vivo e lucido cristallo
rotto nel mezo abbandonaro il ballo.

74.Come stella nel mar divelta cade
da l’azurro seren del cielo estivo,
o qual strisciando per oblique strade
fende il notturno vel raggio festivo,
cosí la rara e singoiar beltade
rapita in giú dentro quel gorgo vivo,
precipitando tra le chiare linfe
trovossi in braccio a le gelate Ninfe.

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75.De le vezzose Dee l’umida schiera
consolandolo a prova, in sen l’asconde;
Driope, Egeria, Nicea, Nisa, Neera
gli asciugan gli occhi con le trecce bionde.
Ei la perduta libertá primiera
piagne, e col pianto amaro accresce Tonde.
Ahi che disse? ahi che fe’ per doglia insano
de’ mostri intanto il domator tebano?

76.Lungo il Pontico mar con piè veloce
cerca e ricerca ogni riposto calle.
Tien la gran mazza ne la man feroce,
la libica faretra ha da le spalle.
«Hila Hila» tre volte ad alta voce,
«Hila» chiamò per la solinga valle;
né fuor ch’un mormorio debile e basso,
gli fu risposto dal profondo sasso.

77.Poscia che ’ndarno il suo ritorno attese,
gemiti desperati al Ciel disciolse,
di rabbiosi sospiri il bosco accese,
de le stelle, d’Amor, di sé si dolse.
Tifi, poi che le vele a l’aura tese,
gl’incliti Eroi su l’alta poppa accolse.
Hercol restò con dolorosi stridi,
tapino amante, ad assordare i lidi.

78.Fra tante istorie, ch’io ti narro, e tante,
un punto principal non vo’ tacere.
Non esser in amor foglia incostante,
ch’ai primo soffio è facile a cadere.
Non esser alga in mar lieve e tremante,
che pieghi or quinci or quindi il tuo volere.
Stabile ai venti, a Tonde, in te raccogli
la fermezza de’ tronchi, e degli scogli.

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70.Vago è del bello, e di leggier s’accende
di duo begli occhi un giovanetto core.
Agitato vacilla, or lascia, or prende,
quasi Camaleonte, ogni colore.
Il pianeta volubile che splende
tra le fredd’ombre del notturno orrore,
tante forme non cangia incontro al Sole,
quant’egli in sé stampar sempre ne suole.

80.So che ’l ben si diffonde, e si diletta
communicarsi altrui per sua natura.
Ma chi giunge a goder beltá perfetta
non dev’ésca cercar di nova arsura.
Alma gentile in nobil laccio stretta
di publico giardin frutto non cura,
perché vulgare e prodiga bellezza
posseduta da molti, è vii ricchezza.

81.Cosa non è che tanto un core irriti,
quando Amor da ragion vinto si sdegna,
quanto il vedersi i suoi piacer rapiti
da mano ingrata, e per cagion men degna.
Tu gli altrui dolci e lusinghieri inviti
fuggir (s’hai senno) a piú poter t’ingegna,
perché di te non faccia Citherea
quel che d’Atide fece un’altra Dea.

82.Cibele degli Dei madre feconda
fu d’Ati un tempo innamorata assai,
e degna n’era ben l’aria gioconda
del viso, ch’avea bel, come tu l’hai.
Avea bocca purpurea, e chioma bionda,
e sotto oscure ciglia ardenti rai,
né de le prime lane ancor vestita
la guancia vermiglietta e colorita.

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CANTO QUINTO

Poscia che degno il fe’ ch’egli salisse
de la scala d’Amor su ’l grado estremo,

«Tu vedi ben» piú volte ella gli disse
«sí com’io sol per te languisco e gemo.

Non far torto a lo strai che mi trafisse,
sol perché troppo t’amo, io troppo temo.

A la giurata fé non far inganno,

se non vuoi che ’l favor ti torni in danno».

«No no» dicea ’l Garzon «beltá non veggio,
che mi possa adescar ne’ lacci suoi.

Dal dí ch’aveste in questo core il seggio,
per altr’occhi languir non seppi poi.
Qualunque, ovunque io siami, esser non deggio
altro giá mai che vostro, altro che voi.

Arderò, v’amerò (cosí prometto)

fin ch’avrò sangue in vena, anima in petto».

Non molto andò, che per riposte vie,
vago di refrigerio e di quiete,
mentre ne la piú alta ora del die
cercava umor per ammorzar la sete,
stelle il guidaro insidiose e rie
in certe solitudini secrete,
dove ombraggio cadea gelido e fosco
dal folto crin d’un taciturno bosco.

Tra discoscese e solitarie piagge
volge gran rupe al Sol le spalle alpine.

Ombran la fronte sua piante selvagge,
quasi de l’aspra testa ispido crine.

Per l’occhio d’un canal distilla e tragge
lagrime innargentate e cristalline.

Apre un antro le fauci a piè del fonte
quasi gran gola, e fa la bocca al monte.

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87.Quivi a seder Sangarida ritrova,
un’Amadriade assai vezzosa e bella.
L’aviso de la Dea poco gli giova,
la contempla furtivo, e non favella.
Scender si sente al cor dolcezza nova,
e gli lampeggia il cor com’una stella:
or avampa, or agghiaccia, e trema come
de’ vicini arboscei treman le chiome.

88.A l’ombra del suo bel tronco natio,
che tempesta di fior le piove in grembo,
steso su ’l verde margine del rio
la vaga Ninfa ha de la gonna il lembo,
ed ogni altro pensier posto in oblio,
coglie dal prato quel fiorito nembo,
dal prato, a cui piú che la man non prende,
con larghissima usura il guardo rende.

89.Mentre a l’errante crin tenero freno
di fior bianchi innanella, e di vermigli,
si specchia, e con l’umor chiaro e sereno
par che tacitamente si consigli.
Ma co’ fior del bel viso e del bel seno
perdon le rose assai, perdono i gigli;
e i fiati de la bocca aventurosa
vincon l’odor del giglio e de la rosa.

90.Ciò fatto, ne le pure onde tranquille
poi c’ha tre volte e quattro il volto immerso,
per le labra innaffiar di fresche stille
fa del concavo pugno un nappo terso.
Ahi che sugge ella umori, Ati faville,
quantunque abbiano in ciò fonte diverso.
Da la mano e dagli occhi a poco a poco,
mentre ch’ella bev’acqua, ei beve foco.

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91.Fuor del boschetto alfine il passo ei spinse,
e dal centro del cor trasse un sospiro:
un sospir, che lo spirto in aura strinse
e fu muto Orator del suo martiro.
L’una allor si riscosse, e l’altro tinse
la pura neve del color di Tiro.
Volea parlar, ma quasi ghiaccio al Sole,
venia meno la voce a le parole.

92.A la leggiadra Vergine da presso
si fe’ pur sospirando, e pur gemendo,
con sí caldo desio nel volto espresso
che ne’ sospiri suoi chiedea tacendo,
ma cosí reverente, e sí dimesso,
che ne’ gemiti suoi tacea chiedendo,
e spargea mille d’aurei strali armati
fuor de’ begli occhi spiritelli alati.

93.Tosto ch’a quella luce il volto volse,
arse di pari ardor la Giovinetta.
Depose i fiori, ed ei quel fior si colse
ch’ai seguaci d’Amor tanto diletta.
Quando in letto odorifero gli accolse
la fresca molle e rugiadosa erbetta,
ne sussurrar, ne bisbigliar le fronde,
e dolce mormorio ne fu tra Tonde.

94.Ma la gelosa Dea, che ’l fallo ascolta
di quel suo disleal, che l’ha tradita,
tosto a le Furie infuriata e stolta
ricorre, e ’ncontr’al Giovane rináta.
Giá di squallide serpi il crine involta
vibra le faci sue d’Averno uscita,
e con foco e con tosco ecco ch’Aletto
gli coce il core, e gli flagella il petto.

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LA TRAGEDIA

Ferve d’insana ed arrabbiata voglia
di Tartaree fiammelle Atide acceso,
spuma, freme, il piè scalza, il manto spoglia,
sí lo strugge il velen che ’l cor gli ha preso.
La feconda radice ond’uom germoglia,
e l’un e l’altro suo pendente peso,
rei del suo mal, da gran furore indutto,
miseri, di propria man si tronca in tutto.

Testimonio pietoso al caso tristo
fu di Sinade allora il vicin colle,
che d’ognintorno rosseggiar fu visto
del sangue del Garzon rabbioso e folle.

Del sangue bel, che con la rupe misto
tutto il sasso lasciò macchiato e molle,
onde Frigia dipinti ancor ritiene
i marmi suoi di preziose vene.

Per trarsi poscia a precipizio, ascende
ripida cima d’aspro monte alpino;
ma mentre in giú trabocca, e in aria pende
co’ piedi in alto, e con la fronte al chino,
la Dea, che l’ama ancor, pietosa il prende,
l’affige in terra, e lo trasforma in pino.

Fd or da quel di pria cangiato tanto
in tenace licor distilla il pianto. —

Con queste fole e favolette avea
del sommo Giove il messaggier sagace
persuaso il Garzon; né qui ponea
freno al garrir, novellator loquace.

Ma troncando il cianciar, stese la Dea
la man di neve al foco suo vivace;
e parve il cor con un sospiro aprisse,
mentre queste parole ella gli disse:

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99.— Adon cor mio, mio core, omai serena
la mente ombrosa, e lascia ogni altra cura.
O tre volte mio cor, deh (prego) affrena
quel desio di cacciar ch’a me ti fura.
Non far (se m’ami) ch’acquistata a pena
perdano gli occhi miei tanta ventura.
Non voler dato a me, da me disgiunto,
e ricca farmi e povera in un punto.

100.Non sottopor de’ boschi ai duri oltraggi
le dilicate membra e giorno e notte.
Lascia a piú rozi cori, e piú selvaggi,
de le fere il commercio e de le grotte.
Che ti giova menar tra l’elci e i faggi
spezzati i sonni, e le vigilie rotte?
e in ozio travagliato e faticoso
inquieta quiete, aspro riposo?

101.Che ti vai la faretra ognor di strali,
e di mostri la selva impoverire?
De le Dive celesti ed immortali
bastiti co’ begli occhi il cor ferire,
senza voler de’ rigidi animali
con tuo danno, e mio duol, Torme seguire.
Perché di questo sen denno le selve,
e di me piú felici esser le belve?

102.Soffrir dunque poss’io, che da le braccia
rapita (oimè) mi sia tanta bellezza,
per darla a tal, che con l’artiglio straccia,
e col dente ferisce, e la disprezza?
O crude fere, o maledetta caccia,
o ricetti d’orrore e di fierezza,
indegne di mirar luci sí pure,
contumaci del Sol, foreste oscure!

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103.Possiate sempre le rabbiose strida
e i furori sentir d’Euro baccante.
Fiero fulmine i rami a voi recida,
sfrondi il crin, sfiori i fior, spianti le piante.
Rigorosa secure in voi divida
da l’amato arboscel l’arbore amante,
sí come voi spietatamente il mio
dividete da ine, dolce desio.

104.Sovra tutto il timor m’agghiaccia e coce
de la triforme Dea, ch’è donna anch’ella;
e se ben tanto incrudelí feroce
ne la misera sua giá ninfa, or stella,
(lascio il suo loco al ver) corre pur voce
che non fu sempre al mio figliuol rubella,
e coprendo il piacer con la vergogna,
sa goder, e tacer quando bisogna.

103.Ma siasi pur, qual i mortali sciocchi
la fanno a punto, e santa e casta ed alma.
Che fia, s’egli averrá che ’l sen le tocchi
quello strai che di me porto ia paima?
Fiamma di questo cor, Sol di quest’occhi,
vita de la mia vita, alma de l’alma,
sappi ch’un raggio sol de’ tuoi sembianti
può romper marmi, e calcinar diamanti. —

106.Risponde Adone: — O caramente cara,
certo a me, quanto cara, ingrata sei,
se creder puoi che possa (ancor che rara)
altra beltá di me portar trofei.
Il Sol degli occhi tuoi sol mi rischiara,
occhi piú cari a me che gli occhi miei.
Lá si gira il mio fato e la mia sorte,
essi son la mia vita, e la mia morte.

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107.Ben che tutto di luci il Ciel sia pieno,
solo il Sole è però, che ’l mondo alluma.
Non ha piú face Amor per questo seno,
sarò qual sono al foco ed a la bruma:
di sí dolce fontana esce il veleno
che dolcissimamente nu consuma.
Giunga il mio corso a riva o presto, o tardo,
vivrò qual vivo, ed arderò com’ardo.

108.Ma se costume, e naturale instinto,
che di fere affrontar mi dá baldanza,
da la beltá che m’ha legato e vinto
talor di desv’iarmi avrá possanza,
non te ne caglia no, ch’a ciò son spinto
sol da l’antica e dilettosa usanza;
né sdegnar te ne dèi, ché chi ben ama
il piacer del su’ amor seconda e brama.

109.Non sia prodigo Amor, perché talora
suole il cibo aborrir sazio appetito.
Passa l’uso in disprezzo, e spesso ancora
frequentato diletto è men gradito.
Né sí aspettato e desiato fora
s’April d’ogni stagion fusse fiorito.
Sempre quel ch’è vietato, e quel ch’è raro,
piú n’invoglia il desire, e piú n’è caro.

110.Non ch’io d’amarti o fastidito o stanco
possa aver mai di te l’anima sgombra;
anzi quando il tuo Sol mi verrá manco,
sarò qual ciel cui fosca notte adombra:
senz’occhi in fronte, e senza core al fianco,
senz’alma un corpo, e senza corpo un’ombra.
Ma se questo è destili, porta il devere
che quel che vole il Ciel, vogli volere. —

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111.Soggiunse allor Ciprigna: — Assai di questo
il saggio Dio del Nilo oggi t’ha detto.
Ma per darti a veder piú manifesto
che non fuor di ragione è il mio sospetto,
vo’ che tu miri il guiderdon funesto
che dá Diana a ciascun suo soggetto.
Molto move l’essempio, e per la vista
maggior che per l’udir, fede s’acquista. —

112.Qui tace, e poi di quella torta scala,
che di mezo al cortil gli archi distende,
gli eburnei gradi, onde si monta e cala,
preme, e col bell’Adone in alto ascende.
Qui per cento finestre immensa sala
di polito cristallo il giorno prende,
e in un bel quadro di mosaico terso
la figura contien de l’Universo.

113.Per quattro porte a’ quattro vènti esposte
s’entra, e tutte son d’òr schietto e forbito.
Ha quattro mura, le cui ricche croste
del fondo interior celano il sito.
Ne le facciate tra se stesse opposte
l’ordin degli elementi è compartito:
ed ha ciascun ne la sua propria sfera
ogni pesce, ogni augello, ed ogni fera.

114.In ogni spazio v’ha quel Dio ritratto
che di quell’elemento ha sommo impero,
e ciascuno elemento è sculto e fatto
d’una materia somigliante al vero.
Vermiglio il foco è d’un rubino intatto,
ceruleo l’aere è d’un zaffír sincero,
di smeraldo ridente e verdeggiante
fatta è la terra, e l’acqua è di diamante.

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115.Occupa il campo poi del pavimento
la regi’on del Tartaro profondo,
ch’a fogliami di gitto ha un partimento
fatto d’òr fino, e dilatato in tondo;
e quivi in atto tal, che dá spavento,
vedesi il Re del tenebroso mondo.
Seco ha Torride Dee di Flegetonte,
cui fa pompa di serpi ombra a la fronte.

116.Ne l’ampio tetto un Ciel sereno è finto,
opra maggior non lavorò Ciclopo.
Appo tante e tai gemme, ond’è distinto,
povero è l’Indo, e scorno ha TEthiòpo.
l utto di smalto, in mezo è di giacinto,
dove in forma di Sol raggia un piropo.
Di crisoliti intorno, e di baiassi,
splendon di stelle in vece alti compassi.

117.Veder si può d’ogni lumiera ardente
il fermo stato, e ’l peregrino errore.
Y’ha quel co’ mostri suoi torto e serpente,
che tre cerchi contien, cerchio maggiore.
Y’ha l’un e l’altro Tropico lucente,
che del lume e de l’ombra adeguan Tore.
Y’ha gli altri duo, che girano congiunti
co’ duo fissi de Torbe estremi punti.

118.Y’ha l’Equator, la cui gran linea eguale
tra le quattro compagne in mezo è posta,
di cui Testreme due l’una a l’Australe,
l’altra al confin di Borea è troppo esposta.
Ravvi degli alti Dei la via reale,
di spesse stelle e picciole composta,
lo cui candor, che ’l Ciel per mezo fende,
da’ Gemelli al Centauro il tratto stende.

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119.Nel centro de la sala un vasto Atlante
tutto d’un pezzo di diaspro fino
sostien la volta, e ferma ambe le piante
sovra un gran piedestallo adamantino:
e sotto l’alta cupula pesante
stassi con tergo curvo, e volto chino.
Tutto quel Ciel, che si ripiega in arco,
appoggia a questo il suo gravoso incarco.

120.La Notte intanto al rimbombar de’ baci
invida quasi in Ciel fece ritorno;
e portata da lievi Ore fugaci,
e di tenebre armata, uccise il giorno.
Il feretro del Sol con mille faci
le stelle amiche accompagnaro intorno;
e ’l mondo pien di nebbie, e d’ombre tinto,
parea fatto sepolcro al lume estinto.

121.Erano i cari amanti entrati a pena
l’un l’altro a braccio, in quella sala altera,
quand’ecco aprirsi una dorata Scena,
ch’emula al giorno illuminò la sera.
Fora di luce e d’or meri ricca e piena,
se s’aprisse (cred’io) la quarta sfera.
Selve, statue, palagi agli occhi offerse
la cortina reai quando s’aperse.

122.Spettacolo gentil Mercurio in questa
presentar vuole al fortunato Adone.
Mercurio è quei che i personaggi appresta,
ed essercita e prova ognTstrione;
e ciascun d’essi in lieta parte o mesta
secondo l’attitudine dispone.
Né seco giá di recitar consente
turba vulgar di mercenaria gente.

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123.L’Invenzion, la Favola, il Poema,
e l’Ordine e ’l Decoro e l’Armonia
de la Tragedia sua stendono il tema,
la Facezia, e l’Arguzia, e l’Energia.
L’Eloquenza è l’artefice suprema,
sovrastante con lei la Poesia.
Seco il Numero, il Metro, e la Misura
si prendon de la Musica la cura.

124.Dansi a la coppia bella i seggi d’oro,
donde quanto si fa tutto si sceme;
ed ecco il primo uscir di tutti loro
il portator de l’ambasciate eterne,
ch’a spiegar l’argomento in stil canoro
mostra venir da le magion superne;
e ’l suggetto proposto e persuaso
è d’Attheone il miserabil caso.

123.Ed Attheone al Prologo succede,
che vien con archi e dardi e cani e corni,
e da molti scudier cinto si vede
di spiedo armati, e nobilmente adorni;
e mentre ch’ei de le selvagge prede
parte d’essi a spiar manda i soggiorni,
e squadra i passi, ed ordina la traccia,
con diverse ragion loda la Caccia.

126.Ed ecco ad un squillar d’avorio torto
sbucar repente da cespugli e vepri
di mansuete Fere Adone ha scorto
piú d’uno stuol tra mirti e tra ginepri;
e dal Palco saltar con gran diporto
Damme e Camozze e Cavriuoli e Lepri,
e parte de la Dea fuggirsi al lembo,
e parte a lui ricoverarsi in grembo.

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127.Ma poco stante, si dilegua a volo
la caccia, e nova effigie il Palco prende,
perché, librato in un volubil polo,
se stesso in su quel cardine sospende,
lo qual in giro, e ben confitto al suolo,
volgesi agevolmente, or poggia, or scende,
e ’l mobil peso suo portando intorno
viene alfine a serrar corno con corno.

128.Come congiunti in un sol globo il Mondo
duo diversi Hemisperi insieme lega,
per l’Orizonte, che dal sommo al fondo
la rota universal per mezo sega:
cosí l’ordigno che si gira in tondo
vari teatri in un teatro spiega;
se non che dove quel n’abbraccia duo,
questo piú ne contien nel cerchio suo.

129.Sí che quantunque volte un novo gioco
agli occhi altrui rappresentar si vole,
fa mutar faccia in un instante al loco
l’orbicolare e spaziosa mole,
ch’entro concava vite a poco a poco
senza strepito alcun mover si suole,
e con tanto artificio or cala, or sorge,
che l’occhio spettator non se 11’accorge.

130.Reggon l’opra maggior vari sostegni,
e correnti e pendenti ed asse e travi,
e di bronzo ben saldo armati legni,
dure catene, e grossi ferri e gravi,
e con argani mille, e mille ingegni,
del medesmo metallo e chiodi e chiavi;
e questo ordine a quel sí ben risponde,
che nel numero lor non si confonde.

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131.Ed or che per cacciar dal verde prato
il Tebano Garzone il piè ritira,
tosto che su ’l gran vertice forato
il ferrato baston mosso si gira,
cangia sito la scena, e l’apparato
in altro aspetto trasformar si mira;
ed al cader de la primiera tela
differenti apparenze altrui rivela.

132.Spelonche opache v’ha, foreste amene,
piagge fresche, ombre fosche, e chiari fonti.
Vivi argenti colá sparge Hippocrene,
qui Parnaso bicorne erge due fronti.
Con le sue dotte e vergini Sirene
discende Apollo da que’ verdi monti,
imitando quaggiú vaghe e leggiere
le danze che lassú fanno le sfere.

133.Ciascuno accorda a l’organo che tocca
i passi e i salti in un, gli atti e le note,
e con la inan, col piede, e con la bocca
l’aure a un punto, e le corde, e ’l suol percote.
Finito il ballo, in un momento scocca
il magistero de l’occulte rote,
e volgendosi il perno a cui s’appoggia,
riveste il Palco di novella foggia.

134.Dopo il primo Intermedio un’altra volta
videsi il bosco, e quivi Cinthia apparse,
che venne stanca a la verd’ombra e folta
de la valle Gargafía a rinfrescarse;
e d’ogni spoglia sua discinta e sciolta,
lavò le membra affaticate ed arse;
e tra le pure e cristalline linfe
si stette a divisar con l’altre Ninfe.

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135.Gira la Scena, e in un balen girando
di Centauri guerrier piena è la piazza;
chi d’acuto trafier la destra armando,
chi d’asta lieve, e chi di grave mazza.
Salvo in braccio lo scudo, in armeggiando
non han, che copra il resto, elmo o corazza.
Grida la tromba in bellicosí carmi
«A la guerra a la guerra, a l’armi a l’armi».

136.Giá par che con furor l’un l’altro assaglia,
giá giá par che di sangue il suol si sparga.
Armonica e per arte è la battaglia,
or s’intreccia, or fa testa, ed or s’allarga.
E mentre contra quel questo si scaglia,
fan cozzar clava a clava, e targa a targa,
e battendosi a tempo or tergo, or petto,
fan di mezo a l’orror nascer diletto.

137.Mentre Adone al bel gioco è tutto intento,
Amor pietoso a rinfrescarlo viene,
e gli reca una d’oro, una d’argento
coppe d’ambrosia e nèttare ripiene.
Ei quanto basta al debito alimento
n’assaggia sol per ristorar le vene:
ch’altr’ésca, onde maggior gusto riceve,
pasce con gli occhi, e per l’orecchie beve.

138.Ne l’Atto terzo in su ’l girevol fuso
la machina versatile si volve,
e ritorna Attheon sparso e diffuso
il volto di sudor tutto e di polve;
onde di dar al Veltro ed al Seguso
alquanto di quiete alfin risolve.
Coglie le reti, e ne l’ombrosa e fosca
selva per riposar solo s’imbosca.

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139.Or tra i confin di questo e de l’altr’Atto
non men bel si frapon novo intervallo.
Ondeggiar vedi un mar, non so se fatto
di zaffiro, o d’argento, o di cristallo,
e le sponde vestir tutte in un tratto
d’alga e di limo e d’ostro e di corallo:
e tremar Tonde con ceruleo moto,
e Delfini guizzar per entro a nuoto.

140.E quinci e quindi per l’instabil campo
spiegar turgide vele antenne alate,
urtar gli sproni e con rimbombo e vampo
venir in pugna due possenti armate.
Di Giove intanto il colorato lampo
listando il fosco ciel di linee aurate,
fa per l’aria vibrar con lunghe strisce
mille lingue di fiamma oblique bisce.

141.Folgora il cielo, e folgoran le spade,
gonfiansi Tonde tempestose e nere,
ed acqua e sangue per l’ondose strade
piovon le nubi, e piovono le schiere.
Chi fugge il ferro, e poi nel foco cade,
chi fugge il foco, e poi ne l’acqua pére,
chi di sangue, e di foco, e d’acqua asperso
more ucciso in un punto, arso, e sommerso.

142.Tale è la guerra, e la procella, e ’l gelo,
ch’agguagliato è quel ch’ò, da quel che pare.
Ma in breve poi rasserenarsi il cielo
vedi, e in un punto implacidirsi il mare,
ed Iri il suo dipinto umido velo
stender per l’aure rugiadose e chiare.
Spariscon le galee, svanisce il flutto,
struggesi l’arco, e si dilegua il tutto.

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143.Ciò fatto, il bel teatro ancor si chiude,
poi si vede sgorgar vaga fontana,
dove tra molte sue seguaci ignude
stassi Attheone a vagheggiar Diana.
Ed ella con le man leggiadre e crude
gli toglie dopo il cor la forma umana.
Con pelo irsuto, e con ramose corna
il miser Cacciator Cervo ritorna.

144.Nel fin di questo in un azurro puro
a l’improviso il ciel si discolora,
e fregiando d’argento il campo oscuro,
con le stelle la Luna ecco vien fora.
Poi dando volta il neghittoso Arturo,
col giorno a mano a man sorge l’Aurora.
Vero il Sol crederesti, e vera l’Alba,
che le nebbie rischiara, e l’ombre inalba.

145.S’alza il Palco di sotto a un tempo istesso,
e mezo Anfiteatro in giro spande.
Prospettiva superba appare in esso
con ricca mensa e sontuosa e grande:
e v’ha de’ sommi Dei tutto il consesso
con tal pompa d’arnesi e di vivande,
tanto tesor, tanto splendor disserra,
che sembra a punto il Ciel calato in terra.

146.Concerto allor di musici concenti
da basso incominciò, d’alto e da lato,
e concordi s’udir vari istromenti,
qual da man, qual da gamba, e qual da fiato,
ed acuti e veloci, e gravi e lenti
alternar versi al pasteggiar beato,
e rispondersi insieme in molti cori
mute di Ninfe, e sinfonie d’Amori.

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147.La Notte il sesto grado avea fornito
de la scala onde poggia a l’Orizonte,
quando da Cani e Cacciator seguito
comparve il Cervo, attraversando il monte.
Ma piú non potè Adone instupidito
sollevar gli occhi, o sostener la fronte:
onde in grembo a colei che gli è vicina,
sovravinto dal sonno, il capo inchina.

148.In quella guisa che dal primo Sole
tocco talor Papavero vermiglio
piegar la testa sonnacchiosa suole,
e tramortire in fra la rosa e ’l giglio;
abbassa in braccio a lei, che non si dole
di tal incarco, addormentato il ciglio;
né certo aver potea questa né quello
peso piú dolce, né guancial piú bello.

149.Questa fu la cagion, che non poteo
de la tragica strage il fin sentire,
né con che strazio doloroso e reo
venne sbranato il Giovane a morire,
né d’Autonoe i lamenti e d’Aristeo,
né de l’antico Cadmo i pianti udire;
ché la pietosa Dea, che ’n sen l’accolse,
infino al novo dí destar noi volse.

150.Giá richiamava i corridori alati
al giogo, al morso il portator del lume,
e giá desta dal suon de’ freni aurati,
e serena e ridente oltre il costume,
la Nutrice bellissima de’ prati
sorta era fuor de le purpuree piume
ad allattar de’ suoi celesti umori
herbe e le piante, e ne le piante i fiori,

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LA TRAGEDIA

3*6

151.quando svegliossi Adone, e sí s’accorse
che giá chiaro i balconi il Sol feriva.
Si terse i lumi col bel dito, e sorse
da Mercurio invitato, e da la Diva.
La bella Citherea la man gli porse,
e per la via che ne la corte usciva,
menollo in un Giardin, presso il cui verde
degli Elisi beati il pregio perde.