Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/XI. Le Stanze

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XI. Le Stanze

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X. L'ultimo trecentista XII. Il Cinquecento
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XI

LE «STANZE»


[La scoperta del mondo classico — Diffusione per tutta Italia della nuova cultura — Carattere letterario di essa — La forma astratta come fine — Assenza di forza spirituale: solo contenuto, la quiete idillica e lo spirito comico — Pontano e Poliziano — Il latino vivo — Persistenza e difesa della letteratura volgare in Firenze — Le laude e i misteri: tendenza di essi verso il «rispetto» popolare e la novella — Isterilimento dell’elemento sacro — Il vero «mistero sacro» di quel tempo: l’Orfeo — Il Poliziano: eliminazione dei contrasti che erano nel Petrarca e nel Boccaccio: l’umanista compiuto — Significato e forma dell’Orfeo — Le Stanze. Loro unitá, il mondo della natura e della bellezza — La forma; l’ottava del Poliziano — Rispondenza allo spirito del tempo — Lorenzo de’ Medici: suo carattere — I petrarchisti del Quattrocento — La poesia di Lorenzo a paragone con quella del Poliziano — La poesia popolare e burlesca: la Nencia, i Beoni — I canti carnascialeschi — La poesia popolareggiante del Poliziano — I romanzi: la Tavola rotonda e i paladini di Carlo magno — Decadenza interiore del mondo cavalleresco, e sua sopravvivenza come mondo dell’immaginazione e del maraviglioso — Serietá di propositi del Boiardo e comicitá involontaria: crudezza di colori — Luigi Pulci e il Morgante — Contraffazione del concepire plebeo — Morgante e Margutte — La figura di Astarotte e il suo significato storico — Leon Battista Alberti, l’immagine piú compiuta del secolo in tutte le sue tendenze — Fisonomia dell’uomo nuovo in lui: disinteresse per le lotte politiche e religiose: calma, vita campestre, occupazioni letterarie e artistiche — La prosa dell’Alberti — Il Quattrocento, etá di gestazione e di elaborazione: mancanza del capolavoro rappresentativo — Indifferenza religiosa, morale e politica, e apoteosi della cultura e dell’arte — Vano tentativo reazionario del Savonarola — Trionfo del Rinascimento.]

Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L’Italia ritrova i suoi antenati, e i [p. 340 modifica]Boccacci si moltiplicano: l’impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre o, per dir meglio, quella tale corrente elettrica che in certi momenti investe tutta una societá e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attivitá, che gittava l’Europa crociata in Palestina e piú tardi, spingendola verso le Indie, le fará trovare l’America, tira ora gl’italiani a disseppellire il mondo civile, rimasto per cosi lungo tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl’italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di se stessi, essere rinati alla civiltá. E la nuova èra fu chiamata il «Rinascimento». Né questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl’italiani erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la loro lingua parlata era chiamata il «latino volgare», un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava piú tardi l’Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene il sentimento di tutti e dá la sua impronta al secolo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in Oriente e in Occidente, vengono le letture, i comenti, le traduzioni. Il latino è giá cosi diffuso, che i classici greci si volgono in latino perché se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi cittá: a Roma, a Napoli, a Firenze; piú tardi a Ferrara, intorno agli Estensi. E quei centri si organizzano e diventano accademie. Sorge la pontaniana a Napoli, l’accademia platonica a Firenze, quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze. Gemistio spiega Platone a’ mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, [p. 341 modifica]come la Bibbia. Pico della Mirandola, morto a trentun anno, stupisce l’Italia con la sua dottrina, ed, oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltá.

I caratteri di questa coltura sono palpabili.

Innanzi tutto ti colpisce la sua universalitá. Il centro del movimento non è piú solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il Mezzodí dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il Panormita fa giá presentire il Pontano e il Sannazaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalitá di Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.

Ma è l’Italia de’ letterati, col suo centro di gravitá nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche, mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla romorosa gioia delle corti e de’ letterati, esalata in versi latini. A’ letterati fama, onori e quattrini; a’ principi incensi, tra il fumo de’ quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e piú tardi Lorenzo il magnifico, e Leone decimo e i duchi di Este. I etterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell’oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all’incanto.

Questa fiacchezza e servilitá di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da’ tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c’è, quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma, quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nuditá. È una letteratura senza veli, e piú sfacciata in latino che in volgare. [p. 342 modifica]

Ne nasce l’indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s’ha a dire, ma come s’ha a dire. I piú sono secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unitá della vita, come Dante l’aveva immaginata, la concordia amorosa dell’intelletto e dell’atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di conformarvi la vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate da ogni contenuto. Cosi nacque il letterato e la forma letteraria.

Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono piú confusi in una eguale adorazione: si giudicano, si classificano, pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte piú seria e piú durevole di questa coltura. Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dá giá la fisonomia del secolo.

Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, co’ suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l’inerzia del pensiero, l’imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l’uomo e la natura guardati attraverso di quelle forme. È una nuova trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perché non è l’immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio. Vede il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da’ classici; a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.

Ma non ci è guscio che tenga incontro all’arte. Dante potè spesso rompere quel guscio, perché era artista. E se in questa coltura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevateispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme [p. 343 modifica]latine. Ciò che ferve nell’intimo seno di una societá, tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si dá colpa al latino che questo non sia avvenuto; e se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza s’è infiacchito, la colpa è de’ classici che paganizzarono la vita e le lettere! La veritá è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo, il mondo di Orazio e di Virgilio, di Tucidide e di Livio non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che l’esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era nell’anima loro, e nessuno dá ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme piú artificiali e piú ripugnanti.

Leggete questi latinisti. Cosa c’è li dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio, che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell’eleganza nelle forme, accompagnato co’ tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della cittá, era in iscorcio tutta la vita del letterato.

Cosi, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico, dico il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta giá nel Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell’anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de’ sensi. Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose e allegrano le nozze della sua Lepidina. La crassa sensualitá è vaporizzata fra le grazie dell’immaginazione e i deliziosi profumi dell’eleganza. La sua musa, come la sua colomba, «fugit insulsos et parum venustos», «odit sorditiem», nega i suoi doni a quelli che sono «illepidi atque inelegates», e «gaudet [p. 344 modifica]nitore», e rassomiglia alla sua «puella», di cui nessuna «vivit mundior elegantiorve». Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l’eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra’ susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con piú immaginazione nel Pontano, con piú sentimento nel Poliziano. Piace la «cerula» ninfa Posilipo e la «candida» Mergellina; e quel voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una sensualitá dell’immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è piú semplice, piú vicino alla natura, e te ne dá l’impressione:

                               hic resonat blando libi pinus amata susurro;
hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:
hic scatebris salit et bullantibus incita venis
pura coloratos interstrepit unda lapíllos.
     

Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto come lingua morta, e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la «lingua nostra»: nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino, e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto «poeta da calzolai e da fornai». Non pareva impossibile continuare il latino come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istrutti.

Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare avea messo salde radici, illustrato da tanta gloria, né potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima l’ammirazione de’ classici; [p. 345 modifica]frequentatissimi gli studi del Landino, del Crisoloro, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite, senza conclusione e serietá pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell’Albiera o gli occhi di Lorenzo, «purus apollinei sideris nitor», come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e Lionardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com’era parlato a Roma, e Lorenzo de’ Medici preferiva il Petrarca a’ poeti latini, chiamava «unico» Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturitá di giudizio. Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, «rerum omnium ignarum», e che scrivea cosi male il latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare, caduto in mano a’ pedanti, vocaboli e frasi e giri di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non potè alterare le forme del volgare, cosi come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo. Né l’uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de’ santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt’i generi di lirica popolare legati con le feste e gl’intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata cosi intimamente con la vita.

La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile [p. 346 modifica]della societá nelle sue usanze e ne’ suoi sentimenti. Onde, se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell’uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto oramai al suo maggior grado di grazia e di finezza, e parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto piú risorgere di sotto a’ colpi del Petrarca e piú del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l’anima. Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la «gaia scienza», e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, «sei anni andata tapinando per lo mondo». Spesso c’entra il comico e il buffonesco, e ti par d’essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.

La leggenda è un racconto maraviglioso, animato da uno spirito mistico o ascetico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de’ sensi, anzi sforza i sensi e dá loro le ali dell’immaginazione. Questo mondo miracoloso dello spirito, fatto cosi palpabile come fosse corpo, è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda verisimile, anzi con la piú grande ingenuitá, essendo quelle veritá incontrastate pel narratore e pe’ lettori. Questa impressione ti fanno le leggende del Passavano e le Vite del Cavalca.

Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche rappresentazioni, messe a nuovo, intonacate, imbiancate, a uso di un pubblico piú colto. Santo Abraam, Alessio, Abramo, Eugenia e la Maddalena, i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicitá e l’unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come [p. 347 modifica]miracolo, cioè a dire come una macchina del maraviglioso, a quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio. Il motivo drammatico è l’effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de’ personaggi, morale o materiale: perciò non gradazioni, non ombre, non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l’azione è tutta esteriore e superficiale, e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia, di dolore, di maraviglia. Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio. La lirica è sacra di nome, e non ha quell’elevazione dell’anima verso un mondo superiore, che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera, non ce n’è il sentimento. L’azione è pedestre e borghese, di una prosaica chiarezza, non animata dal sentimento, non trasformata dall’immaginazione. È il mondo dantesco vestito alla borghese, i cui accenti di dolore sono elegia, le cui mistiche gioie sono idilli: mancato è il senso del terribile e del sublime, mancata è l’indignazione e l’invettiva: se alcuna serietá rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni, apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni, è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite, che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano piú i contemporanei di Dante, e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle rappresentazioni come alle feste carnascialesche: per sollazzarsi. E si sollazzavano, come si conviene a gente colta e artistica, co’ piaceri dello spirito e dell’immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell’immaginazione, una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale, il dramma era cosi poco possibile come la tragedia o l’eloquenza sacra, o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie e non poterono mai acquistare la serietá e profonditá di un vero mondo drammatico, fu perché mancò all’Italia un ingegno drammatico, come affermano alcuni, quasi l’ingegno fosse un frutto miracoloso, generato senza radici e venuto espressamente [p. 348 modifica]dal cielo? O fu, come affermano altri, perché il latino attirò a sé gli uomini colti e il mistero fu trascurato come cosa del popolo, quasi che autori de’ misteri non fossero gli uomini piú colti di quel tempo, o il latino, che non potè uccidere il volgare, potesse uccidere l’anima di una nazione, quando un’anima ci fosse stata? La veritá è che il povero latino non potè uccider nulla, perché nulla ci era: niuna serietá di sentimento religioso, politico, morale, pubblico e privato, da cui potesse uscire il dramma. Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l’idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura, con tanta disposizione ed educazione artistica, non potea produrre che un mondo simile a sé, un mondo di pura immaginazione. Il mistero è un aborto, è una materia sacra che non dice piú nulla alla mente ed al cuore, senza alcuna serietá di motivi, e trasformata da uomini colti in un puro giuoco d’immaginazione; dove angioli e demòni, paradiso e inferno hanno cosi poca serietá come Apollo e Diana e Plutone. La serietá e solennitá della materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta superficie e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione, idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu, quale poteva realizzarlo l’Italia in questa disposizione dello spirito; e ci fu l’ingegno, quale poteva essere allora l’ingegno italiano. Quel mistero fu l’Orfeo, e quell’ingegno fu Angiolo Poliziano.

Il Poliziano è la piú spiccata espressione della letteratura in questo secolo. Ci è giá l’immagine schietta del letterato, fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica, vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale, cortigiano, amante del quieto vivere e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore, un amico; e divenne la sua ombra, il suo compagno ne’ sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita voltando l’Iliade in latino, grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la facilitá di un improvvisatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l’erudito, ma l’uomo di gusto e il poeta, che, ispirato, vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi [p. 349 modifica]carmi. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida, spenta a quarant’anni.

Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empi d’immagini e di armonie. Il mondo antico s’impossessò subito di un’anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio evo, e lo vedi alle prese co’ canoni e le scienze sacre e le forme dantesche; il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui, come nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è piú lotta. Teologia, scolasticismo, simbolismo, il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto, di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne’ misteri, è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve Io trova. Il sentimento della bella forma, giá cosí grande nel Petrarca e nel Boccaccio, in lui è tutto; e quel mondo della bella forma, appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da’ primi anni, è il mondo suo, e ci vive come fosse nato lá dentro, e ne ha non solo la conoscenza ma il gusto. Questo era la coltura, l’umanitá, il Risorgimento: orgoglio di una societá erudita, artistica, idillica, sensuale, quale il Boccaccio l’avea abbozzata e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale. Perché questa generazione, caduta cosí basso, fiacca di tempra e vuota di coscienza, aveva pure la sua idealitá, il suo divino; ed era l’orgoglio della coltura, il sentimento della forma. Le sue mascherate, le cacce, le serenate, le giostre, le feste, tanta parte di quella vita oziosa e allegra, erano nobilitate dalle arti dello spirito e da’ piaceri dell’immaginazione. E se il cardinale Gonzaga, rientrando nella patria, bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro, il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l’Orfeo. E che cosa è l’Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell’Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell’umanitá. Il rozzo Ameto, educato dalle arti e [p. 350 modifica]dalle muse, apre l’animo alla bellezza e all’amore, e di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in cittá, e vi marita le ninfe, e v’introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura, venuto dall’antichitá giovine e glorioso ne’ carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore dell’umanitá, col suono della lira e con la dolcezza del canto, mansueta le fiere e gli uomini, e impietosisce la Morte e incanta l’inferno. È il trionfo dell’arte e della coltura su’ rozzi istinti della natura, consacrato dal martirio, quando, sforzando le leggi naturali, è dato in balia all’ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie, Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltá, inaugurando il regno dell’umanitá o, per dir meglio, umanismo. Questo è il mistero del secolo, è l’ideale del Risorgimento. Le sacre rappresentazioni, cacciate dalle cittá, menano vita oscura nei contadi, e cadono in cosí profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.

L’Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico, fatto tradizionale e convenzionale, pur sempre reale per una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo, le driadi, le baccanti, le furie, Plutone e il suo inferno, sono creature dell’immaginazione. A quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco, i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co’ loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello quando Baccio Ugolini, vestito da Orfeo e con la cetra in mano, scendeva il monte, cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! «Redeunt saturnia regna». Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo, nunzio alle genti della nuova èra, della nuova civiltá. Nel medio evo si dicea «vivere in ispirito», ed era il ratto dell’anima alienata da’ sensi in un mondo superiore. Ciò, che una volta ispirava il sentimento religioso, oggi ispira il sentimento dell’arte, la sola religione sopravvissuta, e si vive in immaginazione. I ricchi, a quel [p. 351 modifica]modo che decorano i palagi degli avi, decorano con l’arte i loro piaceri.

E che decorazione è quest’Orfeo! dove sotto forme antiche vive e si move quella societá, idealizzata nell’anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale, a celeri apparizioni, e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale, incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un’elegia; l’inno è un idillio; e n’esce un mondo idillico-elegiaco, penetrato di un dolce lamento, che non ti turba, anzi ti lusinga e ti accarezza, insino a che questo bel mondo dell’arte ti si disfa come nebbia, e ti svegli violentemente tra il furore e l’ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo, il coro delle driadi, il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato, la cui quiete idillica, penetrata di flebile e molle elegia, si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un’adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l’entusiasmo e l’ebbrezza di una societá che ci vedea una cosí viva immagine di se stessa. Il suo ideale, il suo Orfeo, è una lieve apparizione, ondeggiante tra’ piú delicati profumi; a cui se troppo ti accosti, ti fuggirá come Euridice. E un mondo che non ha altra serietá se non quella che gli dá l’immaginazione: le passioni sono emozioni, gli avvenimenti sono apparizioni, i personaggi sono ombre; la vita danza e canta, e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle forme, flessibili, variamente modulate, e come tutta un’orchestra di metri, entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l’endecasillabo; la ballata dá le ali all’ottava; le rime si annodano ne’ piú voluttuosi intrecci; ora è il dialetto nella sua grazia, ora è la lingua nella sua maestá; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa, lá il tronco ti arresta e ti culla: con una facilitá e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.

Cosí Orfeo, il figlio di Apollo e di Calliope, rinacque; cosí divenne il nunzio del Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; [p. 352 modifica]penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d’Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira, una storia in ottava rima. Personaggio indovinato, comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno, segnacolo e vessillo del secolo.

L’Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese della cortesia, cosí ben dipinto nel Decamerone, riproducea nelle sue giostre il mondo profano de’ romanzi e delle novelle, la cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba «le gloriose pompe e i fieri ludi» di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all’eroica: non ci era piú la realtá; ce n’era l’immaginazione. Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale, e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de’ romanzi; spettacolo continuato oggi nelle corse, con questo progresso: che gli attori sono i cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de’ giostranti come fossero Orlando e Carlomagno, con le frasi ampollose de’ romanzi, e descrivono minutamente gli abiti, le fogge, le divise, gli stemmi, gli scontri con una serietá frivola. Anche Giuliano de’ Medici fece la sua giostra, e divenne l’eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.

Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:

                               si che i gran nomi e’ fatti egregi e soli
fortuna o morte o tempo non involi.
     


Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti, di cui nessuno cerca il legame, ciascuna compiuta in sé. Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve, ci è Teocrito ed Euripide, ci è Ovidio con le sue Metamorfosi, ci è Virgilio con la sua Georgica, ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d’immagini fluttuanti, sciolte, disseminate come le stelle nel cielo all’occhio semplice del pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico; delle cui fila interrotte nessuno si cura, perché la giostra non è il motivo di questo mondo, è la semplice occasione. La sua unitá non è in un’azione frivola e incompiuta, debole trama. La sua unitá è in se stesso, nello spirito che lo move, ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.
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La primavera, la notte, la vita rustica, la caccia, la casa di Venere, il giardino d’Amore, gl’intagli, non sono giá episodi: sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza, animato da un solo soffio. Sono l’apoteosi di Venere e d’Amore, della bella natura, la nuova divinitá.

E la natura non ha giá quel vago che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de’ misteri e delle ombre, nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell’immaginazione. Venere è nuda, Iside ha alzato il velo. Non hai piú gli schizzi di Dante, hai i quadri del Boccaccio; non hai piú la faccia di Giotto, hai la figura del Perugino; non hai piú il terzetto nel suo raccoglimento, hai l’ottava rima nella sua espansione. Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio, e di cui senti la fragranza nella Lepidina e nel Rusticus: l’anima sta come rilassata in dolce riposo, non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando, quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non è la descrizione minuta, anatomica, spesso ottusa, del Boccaccio; ché, mentre la natura ti si offre distinta come un bel paesaggio, non sai onde o come ti giungono mormorii, concenti, note, come la voce di una divinitá nascosta nel suo grembo. La sensualitá, filtrata fra tanta dolcezza di note, lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio: è la casta musa del Parnaso, che copre la sua nuditá e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende l’immaginazione: nel Poliziano l’immaginazione è come un crogiuolo, dove l’oro si affina. La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea e diviene la gentile Simonetta: bellezza nuda, [p. 354 modifica]sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco, a contorni precisi e finiti, pur divina nella sua realtá:

                               nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.
     

Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio, Teocrito, Orazio, Stazio, Ovidio, che gli prestano le loro immagini e i loro colori. Ma egli ha un gusto cosí fine e un sentimento della forma cosí squisito, che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo, e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il piú bel fiore. L’insignificante, il rozzo, il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lí dentro è tutto elegante e profumato, e non cessa che non l’abbia reso con l’ultima finitezza e perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere, Diana, e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di lá della frase, attinge le cose nella loro vita, e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò, raro connubio, l’eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza, perché ha delle cose una impressione propria e schietta. La mammola, la rosa, l’ellera, la vite, il montone, la capra, gli uccelli, le aurette, l’erba e il fiore, tutto si anima e si configura e prende le piú vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica. Ciò che prova non è sensualitá: è voluttá, sensazione alzata a sentimento, che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicitá de’ mezzi; spesso col solo allogare gli oggetti, ora aggruppando, ora distinguendo, e tutto animando, come persone vive. Tale è la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa, e l’ellera che va carpone co’ piedi storti, o l’erba che si maraviglia della sua bellezza, bianca, cilestre, pallida e vermiglia. Il sentimento che n’esce non ha virtú di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene [p. 355 modifica]appagato, come fosse quella tutto il mondo, e non pensi di uscirne, e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietá. Perché il motivo dell’ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale, quale si mostra in Dante, ma il corpo; e non come un bel velo, una bella apparenza, ma terminato e tranquillo in se stesso, quale si mostra nel periodo e nell’ottava, le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio, divenute la base della nuova letteratura. L’ottava del Boccaccio, diffusa, pedestre, insignificante, qui si fissa, prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo mondo, dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione, ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo congegnato a modo di un quadro, dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie, dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante, e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l’insignificante e l’indifferente, e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non hai fusione, ma successione, che è la cosa come ti si spiega innanzi, prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti dá l’insieme, ma le parti; non ti dá la profonditá, ma la superficie, quello che si vede. Pure le parti sono cosí bene scelte e la serie è ordita con una gradazione cosí intelligente, che all’ultimo te ne viene l’insieme, prodotto non dalla descrizione, ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera, e ti dá una serie di fenomeni:

                                    Zefiro giá di be’ fioretti adorno
avea de’ monti tolta ogni pruina:
avea fatto al suo nido giá ritorno
la stanca rondinella peregrina;
risonava la selva intorno intorno
soavemente all’óra mattutina;
e la ingegnosa pecchia al primo albore
giva predando or uno or altro fiore.
     
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Questi fenomeni sono cosí bene scelti, legati con tanto accordo di pause e di tono, armonizzati con suoni cosí freschi e soavi, che sembrano le voci di un solo motivo, e te ne viene non all’occhio ma all’anima l’insieme; ed è quel senso d’intima soddisfazione, che ti dá la primavera, la voluttá della natura. In Dante non ci è voluttá, ma ebbrezza: cosí è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttá, ma sensualitá. La voluttá è la musa della nuova letteratura, è l’ideale della carne o del senso, è il senso trasportato nell’immaginazione e raffinato, divenuto sentimento. Qui è una voluttá tutta idillica, un godimento della natura senz’altro fine che il godimento, con perfetta obblivione di tutto l’altro: senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura, assaporato da un’anima il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione, un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza, sviluppato ed educato da’ classici, è uscito il nuovo ideale della letteratura, l’ideale delle Stanze: una tranquillitá e soddisfazione interiore, piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole «voluttá idillica». Il contenuto di questo ideale è l’etá dell’oro e la vita campestre, con tutto il corteggio della mitologia: ninfe, pastori, fauni, satiri, driadi, divinitá celesti e campestri, in una scala che dal piú puro e piú delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali, quale apparisce nell’Orfeo e nelle Stanze; i due modelli di questa letteratura, che, iniziata nel Boccaccio, andrá fino al Metastasio.

La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto, ma è lo spirito stesso della societá, come si andava atteggiando, còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de’ Medici, col suo coro di dotti e di letterati: il Ficino, il Pico, i fratelli Pulci, il Poliziano, il Rucellai, il Benivieni e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti. [p. 357 modifica]

Lorenzo non avea la coltura e l’idealitá del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione, le due qualitá della colta borghesia italiana. Era il piú fiorentino tra’ fiorentini, non della vecchia stampa, s’intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola, in realtá epicureo e indifferente, sotto abito signorile popolano e mercante da’ motti arguti e dalle salse facezie, allegro, compagnevole, mezzo tra’ piaceri dello spirito e del corpo, usando a chiesa e nelle bettole, scrivendo laude e strambotti, alternando orgie notturne e disputazioni accademiche, corrotto e corruttore. Era classico di coltura, toscano di genio, invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilitá che governava il popolo, lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi comprende l’uomo è padrone dell’uomo. Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato, quale si richiedeva a quella societá, divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia, piú efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe, non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo, o, per dire piú giusto, Lorenzo non era che lo stesso popolo, studiato, compreso e realizzato, l’uno degno dell’altro. Tal popolo, tal principe. Quella corruzione era ancora piú pericolosa, perché si chiamava «civiltá» ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.

Il giovine Lorenzo, odorando ancora di scuola, tra il Landino e il Ficino, dantesco, petrarchesco, platonico, con reminiscenze e immagini classiche, entra nella folla de’ rimatori, i quali continuavano il mondo tradizionale de’ sonetti e delle canzoni. Ce n’erano a dozzina e in tutte le parti d’Italia: l’uomo colto esordiva col sonetto; uso giunto fino a’ tempi nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo: appena è se oggi si ricordi Giusto dei Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo, sviluppare quell’elemento sensuale, idillico, elegiaco, che giace sotto il suo strato platonico e che è l’elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato, e i sonettisti esalano sospiri poetici dall’anima vuota e [p. 358 modifica]indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria, senza base. Non c’è piú un mondo organico, ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l’immaginazione e la malinconia e l’estasi, i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito, congiunta l’insipidezza con le vuote sottigliezze, come nelle rime tanto celebrate del Ceo, del Notturno, del Serafino, del Sasso, del Cornazzano, del Tibaldeo. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova, e narra il suo innamoramento, con le occasioni e le spiegazioni de’ suoi sonetti, in una prosa grave e ampia alla maniera latina, pur disinvolta e franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito, di cui avea si gran dovizia. Ma c’è li una sua impronta: ci è un sentimento idillico e una vivacitá d’immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c’è versi assai belli e, qua e lá, paragoni, immagini, concetti che ti fermano.

Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili, dove nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili, senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma: l’ottava rima o la stanza. Vi apparisce l’amore idillico-elegiaco, proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne’ magnifici giri dell’ottava; non piú concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove il concetto è dantesco, come nelle stanze del Benivieni, che, lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena, si sente trasformato in lonza, la forma è lussureggiante e vezzosa e piú simile a sirena che a casta donna. Modello di questo genere è la Selva d’Amore di Lorenzo, composizione a stanze d’un fare largo e abbondante, alquanto sazievole, il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo, una realtá minuta, osservata e riprodotta esattamente ne’ suoi caratteri esterni, non fatta dall’arte mobile e leggiera, non [p. 359 modifica]idealizzata. Tra le sue piú ammirate descrizioni è quella dell’etá dell’oro, dove è patente questo difetto. Vedi l’uomo in villa che tutto osserva, e anima con l’immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è l’osservatore, manca l’artista.

Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all’illusione e addormenta l’immaginazione. Veggasi questa ottava:

                                    Siccome il cacciator ch’i cari figli
astutamente al fero tigre fura;
e benché innanzi assai campo gli pigli,
la fera, piú veloce di natura,
quasi giá il giunge e insanguina gli artigli;
ma, veggendo la sua propria figura
nello specchio che trova su la rena,
crede sia ’l figlio e ’l corso suo raffrena.
     

Ci si vede un uomo che in un fatto cosí pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico, e osserva e spiega il fenomeno e Io rende con evidenza, ma non ne riproduce il sentimento: c’è l’esattezza, manca il calore e l’armonia. Veggasi ora l’artista, il Poliziano:

                                    Qual tigre, a cui dalla pietrosa tana
ha tolto il cacciator gli suoi car figli,
rabbiosa il segue per la selva ircana,
che tosto crede insanguinar gli artigli:
poi resta d’uno specchio all’ombra vana,
all’ombra ch’e’ suo’ nati par somigli;
e mentre di tal vista s’innamora
la sciocca, el predator la via divora.
     

Anche Lorenzo descrive le rose, come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò, che in Lorenzo è naturalismo, è idealitá nel Poliziano, Nell’uno è il di fuori abbellito dall’immaginazione; l’altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:

                                    Eranvi rose candide e vermiglie:
alcuna a foglia a foglia al sol si spiega,
stretta prima, poi par s’apra e scompiglie:
     
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                                    altra piú giovinetta si dislega
appena dalla boccia: eravi ancora
chi le sue chiuse foglie all’aer niega:
     altra cadendo a piè il terreno infiora.
     
Minuta analisi, con perfetta esattezza di osservazione e con proprietá rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne sentite la fragranza, la grazia, la freschezza:
                                    Questa di verde gemma s’incappella;
quella si mostra allo sportel vezzosa;
l’altra, che ’n dolce foco ardea pur ora,
languida cade e il bel pratello infiora.
     

In questo genere narrativo e descrittivo, di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l’esempio, il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui e, in luogo di chiudersi nella natura e ne’ fenomeni dell’amore fino alle piú raffinate acutezze, trae colori nuovi e freschi dalla qualitá degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata, che torna a casa e non vi trova il suo amore!

                                    Qui l’aspettai, e quinci pria lo scòrsi,
quinci sentii l’andar de’ leggier piedi,
e quivi la man timida li porsi,
qui con tremante voce dissi: — Or siedi, —
qui volle allato a me soletto porsi,
e quivi interamente me li diedi...
O sospirar che d’ambo i petti uscia!
o mobil tempo, o brevi ore e fugaci,
che tanto ben ve ne portaste via!
Quivi lascionnni piena di disio,
quando giá presso al giorno disse: — Addio. —
     

L’Ambra, il Corinto, Venere e Marte, la Nencia sono poemetti di questo genere. Soprastá per calore ed evidenza di rappre [p. 361 modifica] l’Ambra, graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia, che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici, ed entra nel vivo della societá, rappresentando gli amori di Vallerá e Nencia, due contadini, con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla, e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia: era la cittá che metteva in caricatura il contado. L’idillio vi si accompagna con quel sale comico, che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore, e che è la vera genialitá di Lorenzo: basta ricordare i Beoni. Chi ama i paragoni ragguagli la Beca, la Nencia e la Brunettina, tre ritratti di contadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l’idealitá comica: una caricatura fatta con brio e con grazia, con un’aria perfetta di bonomia e di sinceritá. Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina, rimossa ogni intenzione comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse, vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la veritá del colorito e la perfetta realtá.

Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie, come re Manfredi, sonando e cantando tra’ suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è nel suo vero terreno, divenuto la voce di quella societá licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina commedia e dei Trionfi, non pur nel disegno ma nelle frasi: le sacre immagini dell’Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell’ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col falcone, fatti frivoli e insignificanti, ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime, con tutt’i sali e le vivezze del dialetto. Cosi si passava allegramente il tempo:

                               E cosi passo, compar, lieto il tempo,
con mille rime in zucchero ed a tempo.
     
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Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.

Lo stesso spirito è nelle ballate e ne’ canti carnascialeschi: una sensualitá illuminata dall’allegria e dall’umor comico. Il mondo convenzionale de’ trovatori è ito via, e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore, che ha rotto il freno e si dá balia. Un’allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l’amore non è un affetto, ma un divertimento, un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevitá della vita, l’orrore della vecchiezza, il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita, quel tale: «Edamus et bibamus: post mortevi nulla voluptas». Aggiungi la caricatura de’ predicatori di morale e delle cose sacre, com’è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo, rappresentato dal vero e nell’atto della vita, cosi di fuga e tra le impressioni, non hai concetti raffinati, ma pittura vivace di costumi e di sentimenti, com’è l’ansia dell’aspettare nella canzone:

                               lo non so qual maggior dispetto sia
che aspettar quel che il cor brama e desia;
     
o il dispetto contro i gelosi:
                               Non mi dolgo di te né di me stessi,
ché so mi aiuteresti stu potessi;
     
o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla pazzia, e nell’altra, tirata giú tutta di un fiato, cosi rapida e piena di cose:
                               Ei convien ti dica il vero
una volta, dama mia.
     
Questo carnevale perpetuo si manifesta ne’ Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di carnovale, come si costuma anche oggi, carri magnificamente addobbati: ora rappresentazioni mitologiche, com’è il Trionfo di Bacco e Arianna co’ suoi satiri e Sileno e Mida; ora corporazioni di arti e mestieri, com’è il canto de’ «cialdoni», o de’ «calzolai», o delle «filatrici», o de’ «bericuocolai»; ora pitture sociali, come il canto delle «fanciulle», o delle «giovani donne», o de’ «romiti», o de’ «poveri». Il motivo generale è l’amor licenzioso, stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l’immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de’ costumi e delle condizioni sociali e l’allegra caricatura, che sono l’anima di questo genere di letteratura, com’è nel «carnevale» di Goethe, si perdono ne’ bassi fondi della oscenitá plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude se non parodie? Concetti, antitesi, sdolcinature e freddure.
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In questa pozzanghera finirono le serenate, le mattinate, le dipartite, le ritornate, le lettere, gli strambotti, le cacce, le mascherate, le frottole, le ballate, venute a mano de’ letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne’ sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari, che non avevano neppure l’arguzia e la festivitá di Lorenzo.

Il popolo era meno corrotto de’ suoi letterati. Ne’ suoi canti non trovavi certo l’amore platonico e ascetico e i concetti raffinati, ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.

La piú schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado cápita negli equivoci. Scherza, motteggia, ma con urbanitá e decenza, come ne’ suoi consigli alle donne:

                                    Io vi vo’, donne, insegnare
come voi dobbiate fare;
     
e nel «ritratto della vecchia», e in quella ballata graziosissima:
                                    Donne mie, voi non sapete
ch’i’ho el mal ch’avea quel prete.
     
Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle «montanine» di Franco Sacchetti, massime quando il fondo è idillico, come nella ballata dell’«augelletto», e nell’altra:
                                    I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio, in un verde giardino.
     
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Nelle sue canzoni e canzonette, nelle sue lettere e ne’ suoi rispetti non trovi novitá d’idee o d’immagini o di situazioni, e neppure un’impronta personale e subbiettiva, come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo, che traduce in forme eleganti il repertorio comune de’ canti popolari dall’un capo all’altro d’Italia. Perciò non hai qui la freschezza e originalitá delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e la distrazione, come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti, com’è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume, e non s’ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici, come sono la bellezza del damo o della dama, la gelosia, la dipartita, l’attendere, lo sperare, l’incitare, la disperazione ei pensieri di morte, le dichiarazioni e le disdette. Sono l’espressione di un essere collettivo, non del tale e tale individuo. E cosi sono nel Poliziano. I nomi mutano secondo l’argomento, come la dipartita e la ritornata, e anche secondo il tempo, come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse. Sono per lo piú stanze in rime variamente alternate, come nelle ballate e ne’ rispetti, fatte svelte e leggiere nelle canzonette, ove domina il settenario e l’ottonario. Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate, come fosse un trillo o un gorgheggio:
                               E crederrei, s’io fussi entro la fossa,
risuscitare al suon di vostra gola;
crederrei, quando io fussi nello inferno,
sentendo voi, volar nel regno eterno.
     

La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo, fra onde musicali, e, come viene l’idea, non corre a un’altra, ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell’orecchio, finché non le abbia data tutta la sua armonia. Questo palpare e accarezzare l’idea, compiuta giá come idea, ma non ancora compiuta come suono, è proprio della poesia popolare, povera d’idee, ricca d’immagini e di suoni. La [p. 365 modifica]parola è nel popolo piú musica che idea. Ciò che si diceva allora «cantare a aria», qual si fosse il contenuto o, come dice un poeta, «siccome ti frulla». Cosi cantavasi «Crocifisso a capo chino», una lauda, con la stess’aria di una canzone oscena.

Tra queste impressioni nacque la «canzone di maggio», il saluto della primavera:

                               Ben venga maggio,
e il gonfalon selvaggio,
     
cantata dalle villanelle, che venivano a Firenze, anche due secoli dopo, come afferma il Guadagnoli. Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca, congiunta con una perspicuitá che la rende accessibile anche alle classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale, con l’aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano, anche nelle sue piú frivole apparenze, le gitta addosso un manto di porpora, elegante spesso, gentile e grazioso sempre. Alla idealitá del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.

Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de’ canti popolari, sparsi in tutta Italia non solo in dialetto, ma anche in volgare, e di alcuni ci sono rimasti i primi versi, come: «O crudel donna, che lasciato m’hai», «Giú per la villa lunga La bella se ne va», «Chi vuol l’anima salvare Faccia bene a’ pellegrini», ecc. Vi si mescolavano laude, racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne’ piú piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo, che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano «cantastorie», quando i loro canti erano romanzette o romanze, racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a’ tempi del Boccaccio, come s’è visto, era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti. Erano alla moda «romanzi franceschi» con le loro traduzioni, imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co’ rispetti e le ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l’immagine sfarzosa [p. 366 modifica]nelle corti, e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura. Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia, l’ideale eroico celebrato nelle giostre e riflesso ne’ romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare. Tra gli altri, che venner fuori, sono degni di nota l’Aspromonte, l’Innamoramento di Carlo, l’Innamoramento di Orlando, Rinaldo, la Trebisonda, i Fioretti de’ paladini, il Persiano, la Tavola rotonda, il Troiano, la Vita di Enea, la Vita di Alessandro di Macedonia, il Teseo, il Pompeo romano, il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la libertá delle invenzioni: si empivano le carte di «fole e di sogni», come dice il Petrarca; e chi le dicea piú grosse, era stimato piú. Questo elemento fantastico penetrò anche ne’ misteri, come nelle laude era penetrato il canto popolare. Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l’effetto, non potendosi piú trarre da un sentimento religioso che faceva difetto. si cercava nella varietá e nel maraviglioso degli accidenti, com’è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.

Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della societá, e dalle corti scendeva fino ne’ piú umili villaggi e di lá risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi cantastorie, la corte aveva i suoi novellatori. E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni, ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli accessorii, ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate, come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Fiorio, il Teseo, il Troilo lasciarono poco durevole vestigio, perché argomenti poco popolari e guasti dall’erudizione e dalla mitologia. Ma l’impulso da lui dato fu grande; e la ballata, la novella, il romanzo, ciò che chiamasi «letteratura profana», divennero l’impronta del secolo, da Franco Sacchetti a Lorenzo de’ Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlo magno. In antico la Tavola rotonda avea molta popolaritá, e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato. Il Boccaccio nell’Amorosa visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne, come nomi giá noti e volgari. Ma la [p. 367 modifica]Francia era piú nota, e i «romanzi franceschi» piú diffusi, e Carlo magno avea un certo legame con l’Italia, come un eroe religioso, protettore del papa e vincitore de’ saracini e precursore delle crociate. Era giá comparso l’Innamoramento di Orlando. E Matteo Boiardo ci die’ l’Orlando innamorato, una vasta tela in sessantanove canti, interrotta dalla morte.

Il Boiardo, conte di Scandiano, crebbe nella corte estense, divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli, Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva pure fra le giostre, gli spettacoli e le danze. Il Boiardo, uomo coltissimo, dotto di greco e di latino, studiosissimo di Dante e del Petrarca, era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana. Ne’ suoi sonetti, canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido, come di uomo ben composto negli atti e nella persona, pure impacciato. È in lui una serietá di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento, e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietá d’Omero, e fu salutato allora l’«Omero italiano». Certo, non crede alle sue favole, e non ci credono i suoi colti uditori, e la comune incredulitá scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo, è un accessorio fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva piú di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano cosí vuote come le cerimonie chiesastiche, scomparso ogni sentimento eroico e religioso, anzi negato e parodiato. Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un’epopea.

II mondo omerico è un organismo vivente, dove sentimenti, pensieri, costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco, mancati tutt’i suoi motivi interiori, è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell’immaginazione, un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del [p. 368 modifica]tempo, senza serietá di scopo e di mezzi, tra castelli incantati e colpi di spada. Come Elena nell’Iliade, qui è Angelica che move intorno a sé Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente, rimasto ozioso nel racconto, e Angelica è la vera motrice dell’immensa macchina: è il maraviglioso in permanenza, la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l’istrumento, ma è fine a se stesso. Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo serio e sviluppare un’azione interessante, come nelle leggende e ne’ primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra serietá che il miracolo stesso, il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietá degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare nella serietá di un mondo religioso, morale, eroico, divenuto convenzionale e tradizionale, come il mondo cristiano, ma nel libero gioco delle passioni e de’ caratteri sotto l’influsso di potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacitá e di mobilitá, dove tutte le forze dell’individuo, non frenate da leggi e da autoritá superiori, si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti cosi maravigliosi come le stregonerie e gl’incanti. Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica. Un mondo cosi essenzialmente fantastico, e insieme cosi poco serio per il poeta e per gli uditori, è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria dandogli forma nobile e decorosa, purgata dalle licenze e da’ disordini de’ romanzi plebei; ma è appunto quest’apparenza di serietá che toglie attrattivo al suo racconto. Ne’ romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl’ignoranti e ingenui uditori; ma i colti «signori e cavalieri», alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti, non potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d’immaginazione, disposti a spassarsi della plebe, che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato nell’immaginazione [p. 369 modifica]e accompagnato da un sogghigno. E tutte e due queste condizioni mancano nell’Orlando innamorato. Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo, non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di lá; trova innanzi a sé un immenso materiale agglomerato da’ secoli: ma quella materia la fa sua, scegliendo, combinando, padroneggiandola. Il suo intento, direi quasi la sua vanitá, è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietá de’ suoi intrecci, menandoseli appresso tra le piú strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualitá dell’artista, e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo: l’immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio, non facilitá, non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell’alta immaginazione artistica che si chiama «fantasia». Vede chiaro, disegna preciso, come fosse un mondo storico; e appunto perciò, in un mondo cosi fantastico, rimane pedestre e minuto, e non ti sottrae al reale, non ti ruba i contorni, non ti tira per forza in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura negò la magia piú desiderabile, la magia dello stile. Le piú originali concezioni, le piú interessanti situazioni ti cascano sul piú bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare, e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione comica, unicamente per la soverchia crudezza de’ colori, a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte. Cosi quel mondo, che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico, ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e volgare. Non una sola situazione, non una figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio, quando gli venne trovato il nome di Rodamonte, quasi l’importanza fosse ne’ nomi o ne’ fatti. E non è Rodamonte che è rimasto vivo: è Rodomonte.

Se il Boiardo recitava i suoi canti a’ signori ferraresi, Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni, dal Burchiello «sgangherato e [p. 370 modifica]senza remi», come lo chiama Battista Alberti, sino a Lorenzo de’ Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti, e ne sviluppa le tendenze con piú energia che non il Poliziano e non Lorenzo.

Piglia il romanzo come lo trova per le vie: un miscuglio di santo e di profano, di buffonesco e di serio. E non pensa a dargli un carattere eroico, anzi niente piú gli ripugna che la tromba. Ti dá un mondo rimpiccinite, fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo, hanno perduta la loro aureola, e ti camminano innanzi semplici mortali. Niente è piú volgare che Carlo o Gano. Carlo è un rimbambito, Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui, volgari i suoi intrighi. Rinaldo è un ladrone di strada, Ulivieri è un cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo, e vai di palo in frasca, e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de’ paladini, Forisena si gitta dalla finestra, Babilonia rovina, Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati, come non fossero opera di uomini, ma di qualche bacchetta magica, rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria com’era concepita e trasformata dalla plebe. 11 cantastorie è in fondo un giullare, o piuttosto un buffone plebeo, che abbassa quel mondo al suo livello e de’ suoi uditori e, invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna, si abbandona a’ suoi lazzi e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone, personaggio accessorio ne’ racconti e nelle commedie, è qui il personaggio principale, è lo spirito stesso del racconto. La parte piú seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche li quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:

                               Chi vuol lesso Macon, chi l’altro arrosto;
ognun volea del nimico far torte:
dunque vegnamo alla battaglia tosto,
si ch’io non tenga in disagio la Morte,
che colla falce minaccia ed accenna
ch’io muova presto le lance e la penna.
     
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Nell’inferno si fa gran festa, ché attendono i pagani: Lucifero «trangugiava a ciocche le anime che piovean de’ seracini»; e san Pietro attende le anime de’ cristiani:

                               E perché Pietro a la porta è pur vecchio,
credo che molto quel giorno s’affanna,
e converrá ch’egli abbi buon orecchio,
tanto gridavan quelle anime: — Osanna! —
ch’eran portate dagli angeli in cielo:
sicché la barba gli sudava e ’l pelo.
     

I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da’ macellai e da’ cucinieri; i colpi di spada sono in modo cosi grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono cosi strani e cosi caricati che perdono ogni serietá, come è Orlando morto, trasformato in colomba, che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.

Se il buffone fosse di buona fede, seriamente credulo e sciocco, avremmo il grottesco, com’è ne’ romanzi primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto, che parla a un colto uditorio, e non è il buffone, ma fa il buffone, contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicché ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta serietá con che il poeta, quando le dice assai grosse, chiama in testimonio Turpino, o dove nelle cose piú gravi fa boccacce e t’esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de’ suoi personaggi. La parodia è ancora piú comica, perché dissimulata con molta cura, di rado rilevata, e posta il piú sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma, come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino, o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderá in eterno, nota l’angiolo Gabriello, trasformato l’individuo in tipo. La rappresentazione è anch’essa conforme a questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l’intuito sicuro e la percezione viva, e coglie ciò che vede alla naturale e cosi in grosso, e non ci si ferma [p. 372 modifica]e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme «le lance e la penna»; l’autore mentre move la penna vede le lance moversi, vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo, e ti balzano innanzi vivide, e tu le cogli in una sola girata d’occhio. L’ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa, frettolosi, poco curati, gli uni addossati agli altri, e spesso tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto, maneggiato maestrevolmente, soprattutto per la proprietá de’ vocaboli. Tutto è plebeo: azioni, passioni e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza, col supplizio di Gano e di Marsilio. — «E io voglio essere il boia», — dice l’arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio, che vuol farsi cristiano all’ultima ora, è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.

Il romanzo è una commedia, che contro l’intenzione dell’autore si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla, e non ce n’è il sentimento. Lo spirito del racconto è il basso comico, un comico vuoto e spensierato, che imputridisce nelle acque morte di un’immaginazione volgare e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio, che si mescolano fra la plebe, e non sono plebe e la guardano alcun poco dall’alto. Ma il Pulci, ancorché uomo colto, per i sentimenti e le inclinazioni è plebe, e, a forza di rappresentare la parte del buffone plebeo, diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli mancano tutte le alte qualitá di un artista comico: la grazia, la finezza, la profonditá dell’ironia, e ti riesce spesso grossolano, superficiale, inculto e negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanitá, ma anche l’angustia di un’immaginazione plebea, non essendoci ne’ suoi personaggi molta ricchezza di carattere, quella varietá di movenze, di sentimenti e d’istinti che fa dell’uomo un piccolo mondo. Rinaldo, Orlando, Ulivieri, Astolfo, Sansonetto, Ricciardetto, i paladini sono tutti a uno stampo, e non ci è differenza in loro che della forza. Malagigi è insignificante. Gano, Falserone, Bianciardino, Marsilio, Caradoro, Manfredonio, Falcone, Salincorno, tutt’i [p. 373 modifica]pagani sono esseri superficiali, e spesso puri nomi. I piú accarezzati dall’autore sono i due personaggi del suo cuore: Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di Orlando, ed è il vero protagonista, lo spirito del racconto, colui che gli dá la filosofia. Non è il cavaliere, è lo scudiere l’eroe di questa storia plebea, il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe: ghiotto, millantatore, ignorante, di poca malizia; ma buono, fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l’emulo di Durindana. Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione: ignobile, beffardo, ladro, fraudolento, assai vicino all’animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri, nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia, come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra’ cavalieri; e Margutte e Morgante sono non una parte, ma il tutto, l’alto modello a cui piú o meno è informata la storia, intitolata a buona ragione II Morgante.

Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante, che giá riceve una prima trasformazione nel suo «nero cherubino», il bravo «loico» che ha tutta l’aria di un dottore di Bologna, qui prende aria paesana, ed è un buon compagnone. Come il «nero cherubino» arieggia agli scolastici. Astarotte è il nuovo spirito del secolo: motteggiatore, ironico e libero pensatore, che fa il teologo e l’astrologo, e spiega la Bibbia a modo suo, e battezza asini Dionisio e Gregorio; ché

                                                                            ognuno erra
a voler giudicare il ciel di terra.
     
Astarotte, che è stato un serafino e de’ principali, sa molte cose, che non sanno «i poeti, i filosofi e i morali», e dice la veritá, e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l’aria e ingannano gli uomini, «facendo parere quel che non è»:
                               chi si diletta ir gli uomini gabbando,
chi si diletta di filosofia,
chi venire i tesori rivelando,
chi del futuro dir qualche bugia.
     
[p. 374 modifica]Vedesi la filosofia messa a fascio con l’astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.

Ma Astarotte promette di dire la veritá, e tiene la promessa, come un diavolo d’onore:

                               ché gentilezza è bene anche in inferno.      
E sa la veritá non per ragione, ma per esperienza, come di cose che vede e tocca, confermandole anche con l’autoritá della Scrittura. Dove ci vuol ragione, come nella quistione della prescienza, la quale «l’umana gente avvolge di tanti errori», dice: — «Noi so: però non ti rispondo». — Ma quanto a’ fatti afferma ardito e sicuro. E afferma che, salvo i giudei e i saracini, piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione, come fecero gli antichi romani, su’ quali piovve tanta grazia celeste; che al di lá delle colonne d’Èrcole è l’altro emisperio, abitato come questo, e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo, anch’essa redenta, altiimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti, e compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti. Rinaldo, avido d’imparare, si propone di lanciarsi pe’ mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo Colombo, o piuttosto la scienza, perché il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli, amico e suggeritore del Pulci.

Questa concezione è una delle piú serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è li il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare, che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche, e diffida de’ ragionamenti astratti, e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell’uomo. Il mondo gli si allarga innanzi; e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma, gli altri, lasciando teologia, filosofia e astrologia e fatture e altre «opinioni sciocche», mostre ingannevoli degli spirili folletti, percorrono la terra in tutt’i versi e giá sono con l’immaginazione al di lá dell’oceano. Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale, la [p. 375 modifica]fisica, la nautica, la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e sull’esistenza degli universali; i fatti e l’esperienza occupano le menti piú che i ragionamenti sottili. Aggiungi l’ironia, quel prender le cose cosi alla leggiera e sdrucciolandovi appena, quell’aria giá scettica e miscredente, ancoraché non ci sia ancora negazione e scetticismo; e avrai l’immagine del secolo, il ritratto di Astarotte. Ma l’autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione, e abborraccia dappertutto, anche qui. Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie nelle quali entra il secolo; gli manca quell’elevatezza d’animo che rende eloquente l’uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti. L’Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante. E l’Astarotte riesce l’eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sé.

Il Pulci, il Boiardo, il Poliziano, Lorenzo, il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell’etá non sono che frammenti di questo mondo letterario, ancora nello stato di preparazione, senza sintesi.

Ci è un uomo che per la sua universalitá parrebbe volesse abbracciarlo tutto: dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato; fiorentino di origine, nato a Venezia, educato a Bologna, cresciuto a Roma e a Ferrara, vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino, al Landino, al Filelfo; caro a’ papi, a Giovan Francesco signore di Mantova, a Lionello d’Este, a Federigo di Montefeltro; celebrato da’ contemporanei come «uomo dottissimo e di miracoloso ingegno»: «vir ingenii elegantis, acerrimi iudicii exquisitissimaeque doctrinae», dice il Poliziano. Destrissimo nelle arti cavalleresche, compí i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi, datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria novella, la cappella di San Pancrazio, il palazzo Rucellai, la chiesa di Sant’Andrea in Mantova e di San Francesco in Rimini. Sono suoi trovati la camera ottica, il reticolo de’ pittori e l’istrumento per misurare la profonditá del mare, detto «bolide albertiana». Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse, e nei [p. 376 modifica]suoi libri Dell’architettura, che gli procacciarono il nome di «Vitruvio moderno», hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.

Fu cosi pratico del latino, che un suo scherzo comico, scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos, venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino, e da Alberto d’Eyb a Carlo Marsuppini, professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare, in prosa e in verso, addestratosi anche nel maneggio del dialetto, quando con Cosimo de’ Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne’ suoi Intercenali o «intrattenimenti della cena», ne’ suoi Scarica in formato ePub Apologhi, nel suo Scarica in formato ePub Momo scritto a Roma il i45i, dove rappresenta se stesso, piacevoleggia con urbanitá. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? o chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie, amorosi idilli, come era la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone|Platone}}, e pla{{AutoreCitato|tonizzò. Ma al suo ingegno cosi pratico, cosi lontano dalle astrazioni, non potea piacere il misticismo platonico che facea andare in visibilio il suo amico Ficino, e lo seguí come artista ne’ suoi dialoghi della Tranquillitá dell’animo e della Famiglia (il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini) e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali sono pure l’Ecatomfilea, la Deifira, la Cena di famiglia, la Sofrona, la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera prediletta, un certo discorrere alla familiare e alla buona, cosi aliena dalle pedanterie scolastiche, e che trovi anche dove parla uno solo, come nelle sue Efebie, nella sua epistola sull’Amore, nella sua Amiria. Chi misura l’ingegno dalla quantitá delle opere e dalla varietá delle cognizioni, dee tenerlo ingegno cosi miracolosocome fu tenuto a quel tempo. Certo, egli fu l’uomo piú colto del suo tempo e l’immagine piú compiuta del secolo nelle sue tendenze.

Battista ha giá tutta la fisonomia dell’uomo nuovo, come si andava elaborando in Italia. La scienza, svestite le sue forme convenzionali, è in lui amabile e familiare. Lascia le discussioni [p. 377 modifica]teologiche e ontologiche. Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze, cioè l’uomo e la natura, cosi coni’ è secondo l’esperienza, il nuovo regno della scienza. È un artista, perché non solo studia e comprende, ma contempla, vagheggia, ama l’uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla, alieno dalle agitazioni politiche, ritirato nella pace e nell’affetto della famiglia, abitante in ispirito piú in villa che in cittá, non curante di ricchezze e di onori, vuoto di ogni cupidigia e ambizione, si formò una filosofia conforme, di cui è base l’«aurea mediocritas», una moderazione ed eguaglianza d’animo, che ti tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d’indefinito, che t’induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato paratamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l’impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l’occhio e riposare l’anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta, com’è ne’ quadretti di genere del Poliziano, ma è l’uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato, sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillitá, dov’è posto l’ideale della felicitá. Il vero protagonista è perciò l’uomo, com’era concepito allora, sottratto alle tempeste della vita pubblica, che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra’ campi, tutto alle sue faccende e a’ suoi onesti diletti. Ma è insieme l’uomo colto e civile e umano, che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno, porgendo utili ammaestramenti intorno all’arte della vita. La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l’uomo dee tener lontane da sé le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno, metá epicureo, è quella pace che Dante cercava nell’altro mondo, e che Battista ti offre in questo mondo, il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la «voluttá». Il concetto ascetico: che l’uomo non può conseguire vera felicitá in terra, è alieno dal Quattrocento, che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista non ti dá una filosofia con deduzioni [p. 378 modifica]rigorose, non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli, e non sospettavano i contemporanei, a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l’artista e il pittore della vita, come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da principi filosofici, ma dalle sentenze de’ moralisti antichi, dagli esempli della storia, e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un’astrazione, un’idea formata da concezioni anticipate; ma è preso dal vero nella vita pratica, co’ suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive piú che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico, ma rapido, evidente, concentrato, come chi ha innanzi agli occhi il modello e n’è vivamente impressionato. Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia o campestri o civili, impareggiabile. E non hai giá la vuota esterioritá, come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell’uomo savio e felice, che par fuori nella calma decorosa e composta de’ lineamenti, a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell’uomo sregolato e turbato. È l’onesto borghese idealizzato, che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo, un borghese purgato ed emendato, toltagli l’aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista, di cui suprema virtú era la pazienza delle ingiurie anche piú gravi e de’ mali piú stringenti della vita: «protervorum impetum patientia frangebat», dice di sé: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell’animo è la genialitá della nuova letteratura, impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio, del Sacchetti, del Poliziano e del nostro Battista, e che gl’innamora delle forme terse e riposate, il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma, non solo in sé tecnicamente, ma come espressione dell’interna tranquillitá, è la musa di Battista. Scrivendo di sé dice:


Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus, in quibus aliquod esset specimen formae ac decus. Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes, iterum atque iterum demirabatur, delitiasque naturae sese venerari praedicabat... Quicquid [p. 379 modifica]ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia, id «prope divinum» dicebat... Gemmis, floribus ac locis praesertim amoenis visendis, nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.


Quest’uomo, che alla vista della bella natura si sente tornar sano, che sta li fisso a contemplare l’aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera, che chiama «divina» l’opera elegante dell’ingegno e sente voluttá a contemplare le belle forme, aggiunge a questa squisita idealitá un senso cosi profondo del reale, che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia, come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli, dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti: le future sorti di principi e di pontefici e i moti delle cittá. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica, veritá di colorito e grande espressione: è una realtá finita ed evidente, che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica, e la descrizione del convito, e quella maravigliosa scena di famiglia, dove Agnolo, veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata, dice: — «Tristo a me! e ove t’imbrattasti cosi il viso? Forse t’abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti, ché quest’altri non ti dileggino. — Ella m’intese e lagrimò. Io le die’ luogo ch’ella si lavasse le lagrime e il liscio». Dello stesso genere è la pittura de’ giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia, e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro, nel quale intravvedi Battista:


Truovomi ancora per la etá riverito, pregiato, riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi, lodanmi in suoi ragionamenti; approvano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca, vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e questo mi conosco oggidí piú felice che mai, poiché in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testé qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose, quali io vi ragiono; e, ricordandomi la mia ben transcorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare, sono felice. E parmi [p. 380 modifica]abitare fra gl’iddii, quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de’ cieli e suoi pianeti. Somma certo felicitá viversi sanza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna, con l’animo libero da tanta contagione del corpo; e, fuggito lo strepito e fastidio della plebe, in solitudine parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.


Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell’amicizia e delle lettere e dell’uomo felice: senti in questo Teogenio quella superioritá dell’intelligenza sulla forza e sulla fortuna e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell’uomo ritirato nello studio, nella famiglia, ne’ campi; quell’ardore delle scoperte, quel culto dell’arte, che è la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillitá dell’animo, ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell’Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancor maggior freschezza ed evidenza, come è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell’amore degli uomini «che fioriscono in etá ferma e matura»: pittura che ha ispirato le belle ottave dell’Ariosto. De’ vagheggini perditempo dice:


Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti, i quali per disagio di facende fanno l’amore suo quasi essercizio ed arte, e con sue parucchine, frastagli, ricamuzzi e livree, segni della loro leggerezza, vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli, figliuole mie, fuggiteli; peroché questi non amano, ma cosi logorano passeggiando il di, non seguendo voi, ma fuggendo tedio.


La storia dell’amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto, e per finezza e veritá di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio, la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea, e piú nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie, dove il buon Battista, uscendo della sua natura, come il Boccaccio, dá nella rettorica. Per trovare il grande [p. 381 modifica]scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive, come nell’epistola sopra l’amore, reminiscenza del Corbaccio, e la pittura delle donne e l’altra dell’amante, pari alle piú belle del Corbaccio. E, per finirla, vedi nella Tranquillitá dell’animo la descrizione del duomo di Firenze, con tanta idealitá nella massima precisione degli accessorii:


...questo tempio ha in sé grazia e maestá, e... mi diletta ch’io veggo in questo tempio giunta insieme una gracilitá vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenitá, e dall’altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuitá... Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi, quali gli antichi chiamavano «misteri», una soavitá maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine e’ dicono che furon trovati: troppo m’acquietano da ogni altra perturbazione d’animo, e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d’animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore si bravo si trova che non mansueti se stesso, quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo: che mai sento in que’ misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto... alle nostre miserie umane, che io non lacrimi.


Come son vere queste impressioni! e con quanta felicitá rese! «Gracilitá vezzosa», «lentezza d’animo», sono forme nuove, pregne d’idealitá. Il sentimento religioso, cacciato dalla coscienza, si trasforma in sentimento artistico e move l’animo come architettura e come musica.

Pittore egregio, Battista non è del pari felice quando ragiona o quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi, e sembrano uscire piú dalla memoria che dall’intelletto; e la sua novella di Lionora de’ Bardi, vivace, rapida, rimane una pura esterioritá, lontana assai dal suo modello, il Boccaccio.

Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealitá che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto, ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso, e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed [p. 382 modifica]elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre, cosi Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui l’influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne’ suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine, come «bene est», «etiam», «idest», «praesertim»; e parole e costruzioni e giri latini, come «proibire e vietare», e participi presenti e infiniti con costruzione latina, e «affamare», «asseguire», «conditore di leggi», «duttore», «valitudine», e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e nell’intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro che ti faccia strane mescolanze, anzi è uno spirito colto ed elegante che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo, se non con latina maestá, certo con gravitá elegante ed urbana. E come è un toscano, anzi un fiorentino, la latinitá è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a’ trecentisti, il congegno del periodo, l’arte de’ nessi e de’ passaggi, una piú stretta concatenazione d’idee, una piú intelligente distribuzione degli accessorii, una piú salda ossatura ti mostra qui una prosa piú virile e uno spirito piú coltivato, fatto maturo dalla educazione classica. Pure, se per queste qualitá Battista avanza i trecentisti, è inferiore al Boccaccio e rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d’arte, dove lo scrittore è piú intento alla forma che alle cose, e mira principalmente all’eleganza, alla grazia e alla sonoritá. Come arte, i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dá di piú compito in questo secolo. Ma sono frammenti, e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi, e nessuno si può dir cosa cosi perfetta come è un quadro del Poliziano.

Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone, fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti, quadri staccati. Il secolo finisce, e non hai ancora il libro del secolo, quello che lo riassume e lo comprende ne’ suoi tratti sostanziali. Se hassi a dir «secolo» un’etá sviluppata e compiuta in sé in tutte le sue gradazioni come un individuo, il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento, [p. 383 modifica]il cui libro fondamentale è la Commedia, e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento, la sua sintesi, nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dell’uno all’altro.

Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall’etá eroica all’etá borghese, dalla societá cavalleresca alla societá civile, dalla fede e dall’autoritá al libero esame, dall’ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell’uomo, dalla barbarie scolastica alla coltura classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme, di cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti, manca il libro; hai l’analisi, manca la sintesi. Il secolo ha tendenze varie e spiccate, ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto: che la perfezione è ne’ classici e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio della eleganza, della bella forma in qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del secolo, per confessione de’ contemporanei, fu Angiolo Poliziano, che nelle Stanze si accostò piú a quell’ideale classico.

Ma questo grande movimento, che piú tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa, fu in Italia generalmente indifferenza religiosa, morale e politica, con l’apoteosi della coltura e dell’arte. Il suo dio è Orfeo, e il suo ideale è l’idillio, sono le Stanze. L’eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de’ costumi ed uno spirito beffardo, di cui i frati, i preti e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che giá aveva avuta la sua storia, e fra tanto fiore di coltura e d’arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola; e parve l’ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe, e gitta nel rogo Petrarca, Boccaccio, Pulci, Poliziano, Lorenzo e gli altri peccatori, e rovescia il carro di Bacco e Arianna, e, ritta sul carro della Morte, tende la mano minacciosa e con voce nunzia [p. 384 modifica]di sciagure grida agli uomini: — Penitenza! penitenza! — tra questo canto de’ morti:

                                    Dolor, pianto e penitenza
ci tormentan tuttavia:
questa morta compagnia
va gridando: — Penitenza. —
     Fummo giá come voi séte:
voi sarete come noi.
Morti siam, come vedete:
cosi morti vedrem voi.
E di lá non giova poi
dopo il mal far penitenza.
     

La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i «piagnoni», e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poiché il miracolo non fu potuto fare, si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e incredula e una plebe ignorante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate. Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a’ libri, a’ dipinti e alle feste, come se questo fosse la causa e non l’effetto del male. Il male era nella coscienza, e nella coscienza non ci si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli prima che si formi una coscienza collettiva; e, formata che sia, non si disfa in un giorno. Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana, può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell’impresa del frate. Nella storia c’è l’impossibile, come nella natura. E il frate, che voleva rimbarbarire l’Italia per guarirla, era alle prese con l’impossibile.

Savonarola fu una breve apparizione. L’Italia ripigliò il suo cammino, piena di confidenza nelle sue forze, orgogliosa della sua civiltá. Quaranta anni di pace, la lega medicea tra Napoli, Firenze e Milano, l’invenzione della stampa, la digestione giá fatta del mondo latino, l’apparizione e lo studio del mondo greco, la vista in lontananza del mondo orientale, l’audacia delle navigazioni e l’ardore delle scoperte, e tanto splendore e gentilezza [p. 385 modifica]di corti a Napoli, a Firenze, a Urbino, a Mantova, a Ferrara, tanta prosperitá e agiatezza e allegria della vita, tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell’arte, avevano ravvivate le forze produttive, indebolite nella prima metá del secolo, e creato un movimento cosi efficace di civiltá, che non potè essere impedito o trattenuto dalie piú grandi catastrofi. Spuntava giá la nuova generazione intorno al Boiardo, al Pulci, a Lorenzo, al Poliziano. E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli, Francesco Guicciardini, Ludovico Ariosto, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Bembo, Berni: tutta una falange predestinata a compiere l’opera de’ padri. L’un secolo s’intreccia talmente nell’altro, che non si può dire dove finisca l’uno, dove l’altro cominci. Sono una continuazione, un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.