Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Parte prima

Da Wikisource.
Parte prima

../Al lettore ../Parte seconda IncludiIntestazione 17 febbraio 2022 75% Da definire

Al lettore Parte seconda

[p. 255 modifica]

[PARTE PRIMA]

Libertá va cercando, ch’è sí cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.


Dante.

Da’ colli Euganei, 2 ottobre 1797.

Il sacrificio della nostra patria è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrá concessa, non ci resterá che per piangere le nostre sciagure e le nostre infamie. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io, per salvarmi da chi m’opprime, mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime, le ho ubbidito e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le piú feroci. Ma dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere per sempre il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo... quanti infelici! E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani! Per me, segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me stesso, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrá fra braccia straniere; il mio nome sará sommessamente compianto dai pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno sulla terra de’ miei padri.

13 ottobre.

Ti scongiuro, Lorenzo, non ribattere piú. Ho deliberato di non allontanarmi da questi colli. È vero ch’io aveva promesso a mia madre di rifuggirmi in qualche altro paese; ma non mi è bastato il cuore: e mi perdonerá, spero. Merita poi questa vita [p. 256 modifica] di essere conservata con la viltá e con l’esiglio? Oh quanti de’ nostri concittadini gemeranno pentiti, lontani dalle loro case!... Perché..., e che potremo aspettarci noi fuorché indigenza e disprezzo, o, al piú, breve e sterile compassione, solo conforto che le nazioni incivilite offrono al profugo straniero? Ma dove cercherò asilo? In Italia? Infelice terra, premio sempre della vittoria. Potrò io vedermi dinanzi gli occhi coloro che ci hanno spogliati, derisi, venduti, e non piangere d’ira? Devastatori de’ popoli, si servono della libertá come i papi si serviano delle crociate. Ahi! sovente, disperando di vendicarmi, mi caccerei un coltello nel cuore per versare tutto il mio sangue fra le ultime strida della mia patria.

E questi altri?... Hanno comperato la nostra schiavitú, racquistando con l’oro quello che stolidamente e vilmente hanno perduto con le armi. Davvero ch’io somiglio un di quegli infelici, che, spacciati morti, furono sepolti vivi e che poi, rinvenuti, si sono trovati nel sepolcro fra le tenebre e gli scheletri, certi di vivere, ma disperati del dolce lume della vita e costretti a morire fra le bestemmie e la fame. E perché farci vedere e sentire la libertá, e poi ritòrcela per sempre... e infamemente?

16 ottobre.

Or via, non se ne parli piú: la burrasca pare acquetata; se tornerá il pericolo, rassicúrati, tenterò ogni via di scamparne. Del resto, io vivo tranquillo, per quanto si può... tranquillo. Non vedo persona del mondo, vo sempre vagando per la campagna; ma, a dirti il vero, penso e mi rodo. Mandami qualche libro.

Che fa Lauretta? La povera fanciulla! io l’ho lasciata fuori di sé. Bella e giovine ancora, ella ha inferma la ragione, e il cuore infelice, infelicissimo. Io non l’ho amata; ma, fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo consolatore del suo stato, versandomi nel petto tutta la sua anima e i suoi errori e i suoi martiri, davvero ch’io l’avrei fatta volentieri compagna di tutta la mia vita. La sorte non ha voluto: meglio cosí, forse. Ella amava Eugenio, e l’è morto fra le braccia. Suo padre e [p. 257 modifica] i suoi fratelli hanno dovuto fuggire la loro patria, e quella povera famiglia, destituta di ogni umano soccorso, è restata a vivere, chi sa come!... di pianto. Eccoti, o rivoluzione, un’altra vittima.

Sai ch’io ti scrivo, o Lorenzo, piangendo come un ragazzo?... Purtroppo! ho avuto sempre a che fare con degli scellerati; e, se alle volte ho incontrato una persona dabbene, ho dovuto sempre compiangerla. Addio, addio.

18 ottobre.

Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanitá, volgendo gli occhi ai pochi illustri, che, quasi primati dell’uman genere, sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che, spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichitá, non avrò molto a lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso. Umana razza!

23 ottobre.

Se m’è dato lo sperare mai pace, l’ho trovata, o Lorenzo.

Il parroco, il medico e tutti gli oscuri mortali di questo cantuccio della terra mi conoscono sin da fanciullo, e mi amano. Quantunque io viva fuggiasco, mi vengono tutti d’intorno, quasi volessero mansuefare una fiera generosa e selvatica. Per ora io lascio correre. Veramente non ho avuto tanto bene dagli uomini da fidarmene cosí a un tratto; ma quel menare la vita del tiranno, che freme e trema d’essere scannato a ogni minuto, mi pare un agonizzare in una morte lenta, obbrobriosa. Io siedo con essi a mezzodí sotto il platano della chiesa, leggendo loro le vite di Licurgo e di Timoleone. Domenica mi s’erano affollati intorno tutti i contadini, che, quantunque non comprendessero affatto, stavano ascoltandomi a bocca aperta. Credo che il desiderio di sapere la storia de’ tempi andati sia figlio del nostro amor proprio, che vorrebbe illudersi e prolungare la vita, unendoci agli uomini ed alle cose che non sono piú, [p. 258 modifica] e facendole, sto per dire, di nostra proprietá. Ama la immaginazione di spaziare fra i secoli e di possedere un altro universo. Con quanta passione un vecchio lavoratore mi narrava stamattina la vita de’ parrochi della villa viventi nella sua fanciullezza, e mi descriveva i danni della tempesta di trentasett’anni addietro, e i tempi dell’abbondanza e quei della fame, interrompendosi ad ogni tratto, ripigliando il racconto, ed accusandosi d’infedeltá! Cosí mi riesce di dimenticarmi ch’io vivo.

È venuto a trovarmi il signore T***, che tu conoscesti a in Padova. Mi disse che spesso gli parlavi di me, e che ier l’altro glien’hai scritto. Anche egli s’è ritirato in campagna per evitare i primi furori del volgo, quantunque, a dir vero, non siasi molto intricato ne’ pubblici affari. Io n’avea sentito parlare come d’uomo di culto ingegno e di somma onestá: doti temute in passato, ma adesso non possedute impunemente. Ha tratto cortese, fisonomia liberale e parla col cuore. V’era con lui un tale, credo lo sposo promesso di sua figlia. Sará forse un bravo e buono giovine; ma la sua faccia non dice nulla. Buona notte.

24 ottobre.

L’ho pur finalmente afferrato nel collo quel ribaldo contadinello che dava il guasto al nostro orto, tagliando e rompendo tutto quello che non poteva rubare. Egli era sopra un pesco, io sotto una pergola: scavezzava allegramente i rami ancora verdi, perché di frutta non ce n’erano piú. Appena l’ebbi fra le ugne, cominciò a gridare: — Signore!— Mi confessò che da piú settimane facea quello sciagurato mestiere, perché il fratello dell’ortolano aveva, qualche mese addietro, rubato un sacco di fave a suo padre. — E tuo padre t’insegna a rubare? — In fede mia, signor mio, fanno tutti cosí. —

L’ho liberato; e, saltando a precipizio fuor d’una siepe, io gridava: — Ecco la societá in miniatura: tutti cosí. [p. 259 modifica]

26 ottobre.

La divina fanciulla! io l’ho veduta, Lorenzo; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore di andare a cercar di suo padre. — Egli non si pensava — mi diss’ella — che voi sareste venuto; sará per la campagna, né stará molto a tornare. — Ho accostato la mia sedia alla sua. Una ragazzina le corse fra le ginocchia, dicendole non so che all’orecchio.— È l’amico di Lorenzo — le rispose Teresa: — è quello che il babbo andò a trovare l’altr’ieri. — Tornò frattanto il signore T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi perch’io m’era sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. — Vedete — mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; — eccoci tutti. — Proferí egli queste parole come se volesse farmi partecipe delle loro disgrazie e della loro felicitá. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa. — Non siamo tanto lontani — mi disse: — venite qualche sera a veglia con noi. —

Io tornava a casa col cuore in festa. O Lorenzo! lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare a’ mortali tutti i dolori? Vedi per me una sorgente di vita: unica, certo, e...chi sa! fatale. Ma se io sono condannato ad avere l’anima sempre in tempesta, non è tutt’uno?

28 ottobre.

Taci, taci: vi sono de’ giorni ch’io non posso fidarmi di me: un demone m’arde, mi agita, mi divora. Forse io mi reputo molto; ma e’ mi pare impossibile che la nostra patria sia cosí conculcata mentre ci resta ancora una vita. Che facciam noi tutti i giorni, vivendo e querelandoci?... Insomma non parlarmene piú, ti scongiuro. Narrandomi le nostre tante miserie, mi rinfacci tu forse perché io mi sto qui neghittoso? E non t’avvedi che tu mi strazi fra mille martiri? Oh! se il tiranno fosse uno solo e i servi fossero meno stupidi, la mia mano basterebbe. [p. 260 modifica]

Ma chi mi biasima or di viltá, m’accuserebbe allor di delitto; e il saggio stesso compiangerebbe in me, anziché il consiglio del forte, il furore del forsennato. Che vuoi tu imprendere fra due potenti nazioni, che, nemiche giurate, feroci, eterne, si collegano soltanto per incepparci; e, dove la loro forza non vale, gli uni c’ingannano con l’entusiasmo di libertá, gli altri col fanatismo di religione; e noi tutti, guasti dall’antico servaggio e dalla nuova licenza, gemiamo vili schiavi, traditi, affamati e non concitati mai né dal tradimento né dalla fame? Ahi, se potessi, seppellireila mia casa, i miei piú cari e me stesso per non lasciar nulla nulla che potesse inorgoglire costoro della loro onnipotenza e della mia servitú! E’ vi furono de’ popoli, che, per non obbedire a’ romani, ladroni del mondo, diedero alle fiamme le loro case, le loro mogli, i loro figli e se medesimi, sotterrando tra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la lor sacra indipendenza.

primo novembre.

Io sto bene... bene, per ora, come un infermo che dorme e non sente i dolori. Io passo le intere giornate in casa del signor T***, che mi ama come figliuolo: mi lascio illudere, e la felicitá di quella buona famiglia mi sembra mia. Se nondimeno non vi fosse quello sposo! Perché davvero... io non odio persona del mondo, ma vi sono certi uomini ch’io ho bisogno di vedere soltanto da lontano. Suo suocero me n’andava tessendo ier sera un lungo elogio in forma di commendatizia: — Buono, esatto, paziente! — E niente altro? Possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrá il cuore sempre cosí morto e quella faccia magistrale, non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce raggio della pietá, sará per me un di que’ rosai senza fiori, che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo, se tu lo lasci alla sola ragione fredda, calcolatrice? Scellerato, e scellerato bassamente. Del resto, Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto coll’oriuolo alla mano; e non parla con enfasi se non per magnificare sempre la sua ricca e scelta biblioteca. Ma quand’egli mi va ripetendo con quella sua [p. 261 modifica] voce cattedratica «ricca, scelta», io sto lí lí per dargli una solenne mentita. Se le umane frenesie, che col nome di «scienze» e di «dottrine» si sono scritte e stampate in tutti i secoli e da tutte le genti, si riducessero a un migliaio di volumi al piú, e’ mi pare che la presunzione de’ mortali non avrebbe a lagnarsi... E via sempre con queste dissertazioni.

Frattanto ho preso a educare la sorellina di Teresa: io le insegno a leggere e a scrivere. Quand’io sto con lei, la mia fisonomia si va rasserenando, il mio cuore è piú gaio che mai, ed io fo mille pazzie. Non so perché, tutti i fanciulli mi vogliono bene. E quella ragazzetta è pur cara! Bionda e ricciuta, occhi azzurri, guance pari alle rose; fresca, candida, paffutella... pare una Grazia di quattr’anni! Se tu la vedessi corrermi incontro, aggrapparmisi alle ginocchia, fuggirmi perch’io la siegua, negarmi un bacio e poi improvvisamente attaccarmi que’ suoi labbruzzi alla bocca! Oggi io mi stava su la cima di un albero a cogliere le frutta: quella innocente tendeva le braccia e, balbettando, pregavami che «per caritá non cascassi».

Che bell’autunno! Addio Plutarco! sta sempre chiuso sotto il mio braccio. Sono tre giorni ch’io passo la mattina a colmareun canestro d’uva e di persiche, ch’io copro di foglie, avviandomi poi lungo il fiumicello; e, giunto alla villa, desto tutta la famiglia cantando la canzonetta della vendemmia.

12 novembre.

Ieri, giorno di festa, abbiamo con solennitá trapiantato i pini delle vicine collinette sul monte rimpetto la chiesa. Mio padre pure tentava di fecondare questo sterile monticello; ma i cipressi, ch’egli vi pose, non hanno mai potuto allignare, e i pini sono ancor giovinetti. Assistito io da parecchi lavoratori, ho coronato la vetta, onde casca l’acqua, di cinque pioppi, ombreggiando la costa orientale di un folto boschetto, che sará il primo salutato dal sole, quando splendidamente comparirá dalle cime de’ monti. E ieri appunto il sole, piú sereno del solito, riscaldava l’aria irrigidita dalla nebbia del morente autunno. Le villanelle [p. 262 modifica] vennero sul mezzogiorno co’ loro grembiuli di festa, intrecciando i giuochi e le danze di canzonette e di brindisi. Tale di esse era la sposa novella, tale la figliuola, e tal’altra la innamorata di alcuno de’lavoratori; e tu sai che i nostri contadini sogliono, quando si trapianta, convertire la fatica in piacere, credendo, per antica tradizione de’ loro avi e bisavi, che senza il giubilo de’ bicchieri gli alberi non possono mettere salda radice nella terra straniera.

Io frattanto mi dipingeva nel lontano avvenire un pari giorno di verno, quando canuto mi trarrò passo passo sul mio bastoncello a confortarmi ai raggi del sole sí caro a’ vecchi, salutando, mentre usciranno dalla chiesa, i curvi villani, giá miei compagni ne’ di che la gioventú rinvigoriva le nostre membra, e compiacendomi delle frutta, che, benché tarde, avranno prodotto gli alberi piantati dal padre mio. Conterò allora con fioca voce le nostre umili storie a’ miei e a’ tuoi nepotini o a quei di Teresa, che mi scherzeranno d’intorno. E quando l’ossa mie fredde dormiranno sotto quel boschetto, ormai ricco ed ombroso, forse nelle sere d’estate al patetico susurrar delle fronde si uniranno i sospiri degli antichi padri della villa, i quali, al suono della campana de’ morti1, pregheranno pace allo spirito dell’uomo dabbene e raccomanderanno la sua memoria ai lor figli. E, se talvolta lo stanco mietitore verrá a ristorarsi dall’arsura di giugno, esclamerá, guardando la mia fossa: — Egli, egli innalzò queste fresche ombre ospitali!

20 novembre.

Piú volte incominciai questa lettera, ma la faccenda andava assai per le lunghe; e la bella giornata, la promessa di trovarmi alla villa per tempo, e la solitudine... Ridi?... L’altr’ieri e ieri mi svegliava proponendomi di scriverti; ed eccomi invece, senz’accorgermi, fuori di casa. [p. 263 modifica]

Piove, grandina, fulmina: penso di rassegnarmi alla necessitá e di profittare di questa giornata d’inferno scrivendoti. Sei o sette giorni addietro, s’è iti in pellegrinaggio. Io ho veduto la natura piú bella che mai. Teresa, suo padre, Odoardo, la piccola Isabellina ed io siamo andati a visitare la casa del Petrarca in Arquá. Arquá è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; e noi per accorciare il cammino, prendemmo la via dell’erta. S’apriva appena il piú bel giorno d’autunno. Parea che la notte, seguita dalle tenebre e dalle stelle, fuggisse dal sole, che uscía nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea. Le nuvole dorate e dipinte a mille colori salivano su la volta del cielo, che tutto sereno mostrava quasi di schiudersi per diffondere sui mortali le cure della divinitá. Io salutava a ogni passo la famiglia de’ fiori e dell’erbe, che a poco a poco alzavano il capo chinato dalla brina. Gli alberi, susurrando soavemente, faceano tremolare contro la luce le gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi e le fatiche degli uomini; e intanto spirava l’aria profumata dalle esalazioni, che la terra esultante di piacere mandava dalle valli e dai monti al sole, ministro maggiore della natura. Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo, e guardar tanti benefici senza aver gli occhi molli dalle care lagrime della riconoscenza. Allora io ho veduta Teresa nel piú bell’apparato delle sue grazie. Il suo aspetto, per lo piú sparso di una dolce malinconia, si andava animando di una gioia schietta, viva, che le usciva dal cuore; la sua voce era soffocata; i suoi grandi occhi neri, aperti prima nell’estasi, si inumidivano poscia a poco a poco; tutte le sue potenze pareano invase dalla sacra beltá della campagna. In tanta piena di sensazioni, le anime si schiudono per versarle nell’altrui petto: ed ella si volgeva a Odoardo. Eterno Iddio! parea ch’egli andasse tentone fra le tenebre della notte o ne’ deserti abbandonati dal sorriso della natura. Lo lasciò tutto a un tratto, e s’appoggiò al mio braccio, dicendomi... Ma, Lorenzo! per quanto io tenti [p. 264 modifica] di continuare, conviene pur ch’io mi taccia. Se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi modi, la melodia della sua voce, la sua celeste fisonomia, o trascrivere almeno tutte le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo che tu mi sapresti grado: diversamente, incresco persino a me stesso. Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la cui fama soltanto fa piú impressione che la tua misera copia? E non ti par ch’io somigli i traduttori del divo Omero? Giacché tu vedi ch’io non mi affatico che per inacquare il sentimento che m’infiamma e stemprarlo in un languido fraseggiamento.

Lorenzo, ne sono stanco: il rimanente del mio racconto, domani. Il vento imperversa; tuttavolta vo’ tentare il cammino: saluterò Teresa in tuo nome.


Perdio! e’ m’è forza di proseguire la lettera: su l’uscio della casa ci è un Iago d’acqua che mi contrasta il passo. Potea varcarlo d’un salto... e poi? La pioggia non cessa: mezzogiorno è passato, e mancano poche ore alla notte, che minaccia la fine del mondo. Per oggi, giorno perduto, o Teresa.

—Sono infelice! — mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore. Io camminava al suo fianco in un profondo silenzio. Odoardo raggiunse il padre di Teresa, e ci precedevano chiaccherando. La Isabellina ci tenea dietro in braccio all’ortolano. «Sono infelice»! Io avea concepito tutto il terribile significato di queste parole, e gemeva dentro l’anima, veggendo innanzi la vittima che dovea sacrificarsi al pregiudizio ed all’interesse. Teresa, avvedutasi forse, scherzò sul turbamento improvviso della mia fisonomia. — Qualche cara memoria — mi diss’ella sorridendo. Io non osai risponderle.

Eravamo giá presso ad Arquá, e, scendendo per l’erboso pendio, ci andavano sfumando e perdendosi all’occhio i paeselli, che si vedeano dispersi per le valli soggette. Ci siamo finalmente trovati a un viale, cinto da un lato di pioppi, che tremolando lasciavano cadere sul nostro capo le foglie piú giallicce, e adombrato dall’altra parte d’altissime querce, che con [p. 265 modifica] la loro opacitá maestosa faceano contrapposto all’ameno verde de’ pioppi. Tratto tratto le due file d’alberi opposti erano congiunte da vari rami di vite selvatica, i quali incurvandosi formavano altrettanti festoni mollemente agitati dal vento. Teresa allora, soffermandosi e guardando d’intorno: — Oh, quante volte — proruppe — mi sono adagiata su queste erbe e sotto l’ombra freschissima di queste querce! Io veniva sovente l’estate passata con mia madre. — Tacque, e si rivolse indietro, dicendo di volere aspettare la Isabellina, che ci stava pochi passi lontana; ma io m’accorsi ch’ella m’avea lasciato per nascondere io le lagrime che le innondavano gli occhi e che non poteva piú rattenere. — E dov’è — le diss’io — vostra madre? — Da piú settimane vive a Padova con sua sorella; vive lontana da noi, e forse per sempre! Mio padre l’amava; ma, dopo la sua ostinazione di volermi dare un marito ch’io non posso amare, la concordia è sparita dalla nostra famiglia. La mia povera madre, dopo essersi opposta invano a questo matrimonio, s’è allontanata per non aver parte alla mia eterna infelicitá. Io intanto sono abbandonata da tutti! Ho promesso a mio padre, e non voglio disubbidirlo; ma e’ mi duole ancor piú che per mia cagione la nostra famiglia sia cosí disunita: per me, pazienza! — Le lagrime le pioveano dagli occhi. — Perdonate — soggiunse: — io avea bisogno di sfogare questo mio cuore angosciato. Non posso né scrivere a mia madre, né avere mai sue lettere. Mio padre, fiero e assoluto nelle sue risoluzioni, non vuole sentirsela nominare: egli mi va sempre replicando ch’ella è la sua e la mia peggiore nemica. Ma io sento che non amo e non amerò mai questo sposo, col quale mio padre pretende... — Immagina, o Lorenzo, in quel momento il mio stato. Io non sapeva né confortarla, né risponderle, né consigliarla. — Per caritá! — ripigliò — non mi tradite, ve ne scongiuro: io mi sono fidata di voi: il bisogno di trovare chi sia capace di compiangermi..., una simpatia..., io non ho che voi solo. — O angelo! sí sí! potessi io piangere per sempre e risparmiarti cosí le tue lagrime! Questa mia misera vita è tua, tutta: io te la consacro, e la consacro alla tua felicitá! [p. 266 modifica]

Quanti guai, mio Lorenzo, in una sola famiglia! Vedi ostinazione nel signore T***, che d’altronde è un ottimo galantuomo. Egli ama svisceratamente sua figlia; sovente la loda e la guarda con compiacenza; e intanto le tiene la mannaia sul collo. Teresa, qualche giorno dopo, mi disse ch’egli, dotato d’un’anima ardente, visse sempre consumato da passioni infelici; sbilanciato nella sua domestica economia per troppa magnificenza, perseguitato da quegli uomini che nelle rivoluzioni tentano la propria fortuna su l’altrui rovina, e tremante pe’suoi figli, crede di assicurare la felicitá della sua famiglia imparentandosi a un «uomo di senno», ricco e in aspettativa di una ereditá ragguardevole. Forse, o Lorenzo, anche un certo fumo...; ed io vorrei scommettere cento contr’uno ch’egli non darebbe in isposa sua figliuola ad un uomo cui mancasse mezzo quarto di nobiltá: «chi nasce patrizio muore patrizio». Tanto piú che egli considera l’opposizione di sua moglie come una lesione alla propria autoritá, e questo sentimento tirannesco lo rende ancor piú inflessibile. Egli è nondimeno di buon cuore; e quella sua aria sincera, e quell’accarezzare sempre sua figlia, e qualche volta compiangerla sommessamente, mostrano ch’ei vede gemendo la dolorosa rassegnazione di quella povera fanciulla. Ma... E per questo, quand’io veggo che gli uomini cercano per una certa fatalitá le sciagure con la lanterna, e che vegliano, sudano, piangono per fabbricarsele dolorosissime, eterne, io mi sparpaglierei le cervella, temendo che non mi si cacciasse per capo una simile tentazione.

Ti lascio, o Lorenzo: Michele mi chiama a desinare. Tornerò a scriverti, a momenti.


Il mal tempo s’è diradato, e fa il piú bel dopo pranzo del mondo. sole squarcia finalmente le nubi e consola la mesta natura, diffondendo su la faccia di lei un suo raggio. Ti scrivo rimpetto al balcone, donde miro la eterna luce che si va a poco a poco perdendo nell’estremo orizzonte, tutto raggiante di fuoco. L’aria torna tranquilla; e la campagna, benché allagata e coronata soltanto d’alberi sfrondati e cospersa di piante [p. 267 modifica] appassite, pare piú allegra di quel che fosse prima della tempesta. Cosí, o Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo raggio della speranza, e inganna la sua trista ventura con que’ piaceri, a’ quali era affatto insensibile in grembo alla cieca prosperitá. Frattanto il dí m’abbandona; odo la campana della sera; eccomi dunque a dar fine una volta al compimento della mia narrazione.

Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio, fino a che ci apparve biancheggiante da lungi la casetta che un tempo accoglieva

          Quel Grande, alla cui fama è angusto il mondo,
          per cui Laura ebbe in terra onor celesti.

Io mi vi sono appressato, come se andassi a prostrarmi su le sepolture de’ miei padri, e simile a que’ sacerdoti che taciti e riverenti s’aggiravano per i boschi abitati dagl’iddii. La casa di quel sacro italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un tanto tesoro. Il viaggiatore verrá invano da lontane terre a cercare con meraviglia divota la stanza armoniosa ancora dai canti celesti del Petrarca. Piangerá invece sopra un mucchio di ruine, coperto di ortiche e di erbe seivatiche, fra le quali la volpe solitaria avrá fatto il suo covile.

O Italia, placa l’ombre de’ tuoi grandi!... Oh! io mi sovvengo, col gemito nell’anima, delle estreme parole di Torquato Tasso. Dopo essere vissuto quarantasette anni fra i sarcasmi de’ cortigiani, le noie de’ saccenti e l’orgoglio de’ principi, or carcerato ed or vagabondo, sempre melancolico, infermo, indigente, giacque finalmente nel letto della morte, e scriveva, esalando l’eterno sospiro: «Io non mi voglio dolere della malignitá della fortuna, per non dire della ingratitudine degli uomini, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico». O mio Lorenzo, mi suonano queste parole sempre nel cuore, sempre!

Frattanto io recitava sommessamente, con l’anima tutta amore e armonia, la canzone «Chiare, fresche, dolci acque» e l’altra «Di pensier in pensier, di monte in monte», e il sonetto «Stiamo, [p. 268 modifica] Amore, a veder la gloria nostra», e quanti altri di que’ versi la mia memoria agitata seppe allora suggerire al mio cuore.

Teresa e suo padre se n’ crano iti con Odoardo, il quale andava a rivedere i conti al fattore d’una tenuta ch’egli ha in que’ dintorni. Ho poi saputo ch’egli è sulle mosse per Roma, stante la morte di un suo cugino; né si sbrigherá cosí presto, perché, essendosi gli altri parenti impadroniti de’ beni del morto, l’affare andrá a’ tribunali.

Al loro ritorno quella buona famiglia d’agricoltori ci allestí da colazione: dopo di che ci siamo avviati verso casa. Addio, addio. Avrei a narrarti molte altre cose; ma, a dirti il vero, ti scrivo svogliatamente.

Appunto: mi dimenticava di dirti che, ritornando, Odoardo accompagnò sempre Teresa e le parlò lungamente, quasi importunandola e con un’aria di volto autorevole. Da alcune poche parole che mi venne fatto d’intendere, sospetto ch’egli la tormentasse per sapere a ogni patto di che abbiamo parlato. Onde tu vedi ch’io devo diradar le mie visite, almeno almeno finch’ei si parta.

Buona notte, Lorenzo. Sérbati questa lettera: quando Odoardo si porterá seco la felicitá, ed io non vedrò piú Teresa, né piú scherzerá su queste ginocchia la sua ingenua sorellina, in que’ giorni di noia ne’ quali ci è caro perfino il dolore, rileggeremo queste memorie, sdraiati su l’erta che guarda la solitudine d’Arqua, nell’ora che il dí va mancando. La rimembranza che Teresa fu nostra amica rasciugherá il nostro pianto. Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi, i quali ci ridestino per tutti gli anni, che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la memoria che non siamo sempre vissuti nel dolore.

30 novembre.

Tre giorni ancora, e Odoardo sará partito. Il padre di Teresa lo accompagnerá sino a’ confini. M’aveva egli proposto di far questa gita con lui; ma io ne l’ho ringraziato, perché voglio assolutamente partire: andrò a Padova. Non devo abusare dell’amicizia del signor T*** e della sua buona fede. — Tenete [p. 269 modifica] buona compagnia alle mie figliuole, — mi diceva egli questa mattina. A vedere, egli mi reputa Socrate... Me? e con quell’angelica creatura, nata per amare e per essere amata!... e cosí misera a un tempo! Ed io sono sempre in perfetta armonia con gl’infelici, perché davvero ch’io trovo un non so che di cattivo nell’uomo prospero.

Non so com’ei non s’avveda ch’io, parlando di sua figlia, mi confondo e balbetto, cangio viso e sto come un ladro davanti al giudice. In quell’istante m’immergo in certe meditazioni, e bestemmierei il cielo veggendo in quest’uomo tante doti eccellenti, guaste tutte da’ suoi pregiudizi e da una cieca predestinazione, che Io faranno piangere amaramente. Cosí intanto io divoro i miei giorni, querelandomi e de’ miei propri mali e degli altrui.

Eppure me ne dispiace... Spesso rido di me, perché propriamente questo mio cuore non può sofferire un momento, un solo momento di calma. Purché ei sia sempre agitato, per lui non rileva se i venti gli spirano avversi o propizi. Ove gli manchi il piacere, ricorre tosto al dolore. Ieri è venuto Odoardo a restituirmi uno schioppo da caccia ch’io gli aveva prestato: non ho potuto vederlo partire senza gettarmigli al collo, tuttoché avessi dovuto veramente imitare la sua indifferenza, mentre quelli non erano gli estremi congedi. Non so mai di che nome voi altri saggi chiamate chi troppo presto ubbidisce al proprio cuore, perché ei certo non è un eroe; ma è forse vile per questo? Coloro che trattano da deboli gli uomini appassionati somigliano quel medico che chiamava pazzo un malato, non per altro se non perch’era vinto dalla febbre. Cosí odo i ricchi tacciare di colpa la povertá, per la sola ragione che non è ricca. A me però sembra tutto apparenza; nulla di reale, nulla. Gli uomini, non potendo per se stessi acquistare la propria e l’altrui stima, cercano d’innalzarsi, paragonando que’ difetti, che per ventura non hanno, a quelli che ha il loro vicino. Ma chi non si ubbriaca perché naturalmente odia il vino, merita lode di sobrio?

O tu, che disputi tranquillamente su le passioni, se le tue fredde mani non trovassero freddo tutto quello che toccano, se [p. 270 modifica] tutto quello ch’entra nel tuo cuore di ghiaccio non divenisse tosto gelato, credi tu che andresti cosí glorioso della tua severa filosofia? Or come puoi ragionare di cose che non conosci?

Per me, lascio che i saggi vantino una infeconda apatia. Ho letto, giá tempo, non so in che poeta, che la loro virtú è una massa di ghiaccio che ritira tutto in se stessa e irrigidisce chi le si accosta. «Né Dio sta sempre nella sua maestosa tranquillitá; ma s’involve fra gli aquiloni e passeggia con le procelle»2.

27 novembre.

Odoardo è partito, ed io me n’andrò quando tornerá il padre di Teresa. Buon giorno.

3 dicembre.

Stamattina io me n’andava un po’ per tempo alla villa, ed era giá presso alla casa T***, quando mi ha fermato un lontano tintinnio d’arpa. Oh! io mi sento sorridere l’anima e scorrere in tutto me stesso la voluttá che allora m’infondeva quel suono. Era Teresa... Come poss’io immaginarti, o celeste fanciulla, e chiamarti dinanzi a me in tutta la tua bellezza, senza la disperazione nel cuore? Purtroppo! tu cominci a gustare i primi sorsi dell’amaro calice della vita, ed io con questi occhi ti vedrò infelice, né potrò sollevarti se non piangendo! Io, io stesso ti dovrò per pietá consigliare a pacificarti con la tua sciagura.

Certo ch’io non potrei né asserire né negare a me stesso ch’io l’amo; ma, se mai, se mai!... in veritá non d’altro che di un amore incapace di un solo pensiero: Dio lo sa!

Io mi fermava lí lí, senza batter palpebra, con gli occhi, le orecchie e i sensi tutti intenti per divinizzarmi in quel luogo, dove l’altrui vista non mi avrebbe costretto ad arrossire de’ miei rapimenti. Ora pònti nel mio cuore, quand’io udiva a cantar da Teresa quella strofetta di Saffo volgarizzata da me con le altre [p. 271 modifica] due odi, unici avanzi delle poesie di quella amorosa fanciulla, immortale come le muse. Balzando d’un salto, ho trovato Teresa nel suo gabinetto su quella sedia stessa ove io la vidi il primo giorno, quand’ella dipingeva il proprio ritratto. Era neglettamente vestita di bianco: il tesoro delle sue chiome biondissime diffuse su le spalle e sul petto, i suoi divini occhi nuotanti nel piacere, il suo viso sparso di un soave languore, il suo braccio di rose, il suo piede, le sue dita arpeggiami mollemente; tutto, tutto era armonia, ed io mi sentiva una certa delizia nel contemplarla. Bensi Teresa parea confusa, veggendosi d’improvviso un uomo che la mirava cosí discinta; ed io stesso cominciava dentro di me a rimproverarmi d’importunitá e di villania: ma ella proseguiva, ed io sbandiva tutt’altro desiderio, tranne quello di adorarla e di udirla. Io non so dirti, mio caro, in quale stato allora io mi fossi: so bene ch’io non sentiva piú il peso di questa vita mortale.

S’alzò sorridendo e mi lasciò solo. Allora io rinveniva a poco a poco: mi sono appoggiato col capo su quell’arpa, e il mio viso si andava bagnando di lagrime... Oh! mi sono sentito un po’ libero.

Padova, dicembre.

Non lo so dire: ma temo che tu m’abbia pigliato in parola, e ti sia maneggiato a tutto potere per cacciarmi dal mio dolce romitorio. Ieri mi sopravvenne Michele per avvertirmi, da parte di mia madre, ch’era giá allestito l’alloggio in Padova, dov’io aveva detto altra volta (davvero appena me ne sovviene) di volermi recare al riaprirsi della universitá. Vero è ch’io avea fatto sacramento di venirci, e te n’ho scritto; ma aspettava il signore T***, non per anco tornato. Del resto, ho fatto bene a cogliere il momento della mia vocazione, e ho abbandonati i miei colli senza dire addio ad anima vivente. Diversamente, malgrado le tue prediche e i miei proponimenti, non sarei partito mai piú: e ti confesso ch’io mi sento un certo che d’amaro nel cuore e che spesso mi salta la tentazione di ritornarvi. Or via, insomma, vedimi a Padova, e presto a [p. 272 modifica] diventar sapientone, acciocché tu non vada ognor predicando ch’«io mi perdo in pazzie». Per altro bada di non volermiti opporre quando mi verrá voglia d’andarmene; perché tu sai ch’io sono nato espressamente inetto a certe cose, massime quando si tratta di vivere con quel metodo di vita ch’esigono gli studi, a spese della mia pace e del mio libero genio o, di’ pure, ch’io tei perdono, del mio capriccio. Frattanto ringrazia mia madre, e, per minorarle il dispiacere, cerca di profetizzare, cosí come se la cosa venisse da te, ch’io qui non troverò stanza per piú d’un mese o poco piú.

Padova, 11 dicembre.

Ho conosciuta la moglie del patrizio M***, che abbandona i tumulti di Venezia e la casa del suo indolente marito per passare gran parte dell’anno a Padova. Peccato! la sua giovine bellezza ha giá perduta quella vereconda ingenuitá, che sola diffonde le grazie e l’amore. Dotta assai nella donnesca galanteria, cerca di piacere non per altro che per conquistare: cosí almeno giudico. Tuttavolta, chi sa! Ella sta con me volentieri, e mormora meco sottovoce sovente, e sorride quand’io la lodo; tanto piú ch’ella non si pasce, come le altre, di quell’ambrosia di freddure chiamate «bei motti» e «tratti di spirito», indizi sempre d’un animo maligno. Ora sappi che ier sera, accostando la sua sedia alla mia, mi parlò d’alcuni miei versi, e, innoltrandoci di mano in mano a ciarlare di poesia, non so come, nominai certo libro di cui ella mi richiese. Promisi di recarglielo io stesso stamattina. Addio: s’avvicina l’ora.

2 ore.

Il paggio m’additò un gabinetto, ove, innoltratomi appena, mi si fe’ incontro una donna di forse trentacinque anni, leggiadramente vestita, e ch’io non avrei presa mai per la cameriera, se non mi si fosse appalesata ella stessa, dicendomi: — La padrona è a letto ancora: a momenti uscirá. — Un campanello la fe’ correre [p. 273 modifica] nella stanza contigua, ov’era il talamo della dea; ed io rimasi a scaldarmi al camminetto, considerando ora una Danae dipinta sul soffitto, ora le stampe di cui le pareti erano tutte coperte, ed ora alcuni romanzi francesi gittati qua e lá. In questa le porte si schiusero, ed io sentiva l’aere d’improvviso odorato di mille quintessenze, e vedeva madama tutta molle e rugiadosa entrar presta e quasi intirizzita di freddo, e abbandonarsi sopra una sedia d’appoggio, che la cameriera le preparò presso al fuoco.

Mi salutava con certe occhiate...; e mi chiedea, sorridendo, s’io m’era dimenticato della promessa. Io frattanto le porgea il libro, osservando con meraviglia ch’ella non era vestita che di una lunga e rada camicia, la quale, non essendo allacciata, scendeva liberamente, lasciando ignude le spalle e il petto, ch’era per altro voluttuosamente difeso da una candida pelle, in cui ella stavasi involta. I suoi capelli, benché imprigionati da un pettine, accusavano il sonno recente; perché alcune ciocche posavano i loro ricci or sul collo, or fin dentro il seno, quasi che quelle picciole liste nerissime dovessero servire all’occhio inesperto di guida; ed altre, calando giú dalla fronte, le ingombravano le pupille: ella frattanto alzava le dita per diradarle, e talvolta per avvolgerle e rassettarle meglio nel pettine, mostrando in questo modo, forse sopra pensiero, un braccio bianchissimo e tondeggiante, scoperto dalla camicia, che nell’alzarsi della mano cascava fin oltre il gomito. Posando sopra un piccolo trono di guanciali, si volgeva con compiacenza al suo cagnuolino, che le si accostava e fuggiva e correva, torcendo il dosso e scuotendo le orecchie e la coda. Io mi posi a sedere sopra una seggiola, avvicinata dalla cameriera, la quale si era giá dileguata. Quell’adulatrice bestiuola schiattiva, e, mordendole e scompigliandole con le zampine gli orli della camicia, lasciava apparire una gentile pianella di seta rosa-languida e, poco dopo, un picciolo piede scoperto fin sopra la noce; un piede, o Lorenzo, simile a quello che l’Albano dipingerebbe a una Grazia ch’esce dal bagno. Oh! se tu avessi, com’io, veduto Teresa nell’atteggiamento medesimo, presso un focolare, anch’ella appena balzata di Ietto, cosí discinta, cosí... Chiamandomi a mente [p. 274 modifica] quel fortunato mattino, mi ricordo che non avrei osato respirar l’aria che la circondava, e tutti tutti i miei pensieri si univano riverenti e paurosi soltanto per adorarla... E certo un genio benefico mi presentò la immagine di Teresa; perch’io, non so come, ebbi l’arte di guardare con un rattenuto sorriso or la bella, poi il cagnuolino, e di bel nuovo il tappeto dove posava il bel piede; ma il bel piede era intanto sparito. M’alzai, chiedendole perdono s’io aveva scelto un’ora importuna, e la lasciai quasi pentita... Certo; perché, di gaia e cortese, divenne dispettosa... Del resto poi non so. Quando fui solo, la mia ragione, che è in perpetua lite con questo mio cuore, mi andava dicendo: — Infelice! temi soltanto di quella beltá che partecipa del celeste: prendi dunque partito, e non ritrarre le labbra dal contravveleno che la fortuna ti porge. — Lodai la ragione; ma il cuore aveva giá fatto a suo modo... T’accorgerai che questa lettera è copiata e ricopiata, perch’io ho voluto sfoggiare «lo bello stile».

Oh, la canzoncina di Saffo! io vado canticchiandola scrivendo, passeggiando, leggendo: né cosí io vaneggiava, o Teresa, quando non mi era conteso di poterti vedere ed udire. Pazienza! undici miglia, ed eccomi a casa; e poi due miglia ancora; e poi?... Quante volte mi sarei fuggito da questa terra, se il timore di non essere dalle mie disavventure strascinato troppo lontano da te non mi trattenesse in tanto pericolo! Qui siamo almeno sotto lo stesso cielo.


P.S. Ricevo in questo momento tue lettere; e torna, o Lorenzo: questa è la quinta volta che tu mi tratti da innamorato: innamorato sí; e che perciò? Ho veduto di molti innamorarsi della Venere medicea, della Psiche, e perfin della luna o di qualche stella lor favorita. E tu stesso non eri talmente entusiasta di Saffo, che pretendevi di ravvisarne il ritratto nella piú bella donna che tu conoscessi, trattando di maligni e ignoranti coloro che la dipingono piccola, bruna e bruttina anzi che no?

Fuor di scherzo: io conosco d’essere un uomo singolare, e stravagante fors’anche; ma dovrò perciò vergognarmi? Di che? [p. 275 modifica] Sono piú giorni che tu mi vuoi cacciar per la testa il grillo di arrossire; ma, con tua pace, io non so, né posso né devo arrossire di cosa alcuna rispetto a Teresa, né pentirmi né dolermi. Sta’ bene.

Padova...

Di questa lettera si sono smarrite due carte, dove Iacopo narrava certo dispiacere, a cui per la sua natura veemente e pe’ suoi modi assai schietti andò incontro. L’editore, propostosi di pubblicare religiosamente l’autografo, crede acconcio d’inserire ciò che di tutta la lettera gli rimane; tanto piú che da questo si potrá forse desumere quello che manca.

Manca la prima carta.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·
. . . . riconoscente de’ benefici, sono riconoscentissimo anche delle ingiurie; e nondimeno tu sai quante volte io le ho perdonate: ho beneficato chi mi ha offeso, e talora ho compianto chi mi ha tradito. Ma le piaghe fatte al mio onore..., Lorenzo! doveano essere vendicate. Io non so che ti abbiano scritto, né mi curo di saperlo. Ma quando mi s’affacciò quello sciagurato, quantunque da tre anni quasi io non lo rivedeva, m’intesi ardere tutte le membra; eppur mi contenni. Ma doveva egli con nuovi sarcasmi inasprire l’antico mio sdegno? Io ruggiva quel giorno come un leone, e mi pareva che l’avrei sbranato, anche se l’avessi trovato nel santuario.

Due giorni dopo, il codardo scansò le vie dell’onore, ch’io gli aveva esibite; e tutti gridavano la crociata contro di me, come s’io avessi dovuto trangugiarmi pacificamente una ingiuria da colui, che ne’ tempi addietro mi aveva mangiata la metá del cuore. Questa galante gentaglia affetta generositá, perché non ha coraggio di vendicarsi palesemente: ma chi vedesse i notturni pugnali, e le calunnie, e le brighe!... E dall’altra parte io non l’ho soperchiato. Gli dissi: — Voi avete braccia e [p. 276 modifica] petto al pari di me, ed io sono mortale come voi. — Egli pianse e gridò; ed allora la ira, quella furia mia dominatrice, cominciò ad ammansarsi, perché dall’avvilimento di lui mi accorsi che il coraggio non deve dare diritto per opprimere il debole. Ma deve per questo il debole provocare chi sa trarne vendetta? Credimi: ci vuole una stupida bassezza o una sovrumana filosofia per lasciarsi risparmiare quel nemico che ha la faccia impudente, l’anima negra e la mano tremante.

Frattanto l’occasione mi ha smascherato tutti que’ signorotti, che mi giuravano tanta amicizia, che ad ogni mia parola faceano le meraviglie, e che ad ogni ora mi proferivano la loro borsa e il lor cuore. Sepolture! bei marmi e pomposi epitaffi; ma, se tu gli schiudi, vi trovi vermi e fetore. Pensi tu, mio Lorenzo, che, se l’avversitá ci riducesse a domandare del pane, vi sarebbe taluno memore delle sue promesse? O niuno, o qualche astuto soltanto, che co’ suoi benefici vorrebbe comprare il nostro avvilimento. Amici da bonaccia, nelle burrasche ti annegano. Per costoro tutto è calcolo, in fondo. Onde, se v’ha taluno nelle cui viscere fremano le generose passioni, o le deve strozzare o rifuggirsi, come le aquile e le fiere magnanime, ne’ monti inaccessibili e nelle foreste, lungi dalla invidia e dalla vendetta degli uomini. Le sublimi anime passeggiano sopra le teste della moltitudine, che, oltraggiata dalla loro grandezza, tenta d’incatenarle o di deriderle, e chiama pazzie le azioni ch’ella, immersa nel fango, non può ammirare e conoscere. Io non parlo di me; ma, quand’io ripenso agli ostacoli che frappone la societá al genio ed al cuore dell’uomo, e come ne’ governi licenziosi o tirannici tutto è briga, interesse e calunnia, io m’inginocchio a ringraziar la natura, che, dotandomi di questa indole nemica di ogni servitú, mi ha fatto vincer la fortuna e mi ha insegnato a innalzarmi sopra la mia educazione. So che la prima, sola, vera scienza è quella dell’uomo, la quale non si può studiare nella solitudine e ne’ libri; e so che ognuno dee prevalersi della propria fortuna o dell’altrui per camminare con qualche sostegno sui precipizi della vita. Sia: per me, pavento d’essere ingannato da chi sa [p. 277 modifica] ammaestrarmi. precipitato da quella stessa fortuna che potrebbe innalzarmi, e battuto dalla mano che ha la forza di sostenermi...

Manca un’altra carta

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·
. . . . s’io fossi nuovo: ma ho sentito fieramente tutte le passioni, né potrei vantarmi intatto da tutti i vizi. È vero che niun vizio mi ha vinto mai, e ch’io in questo terrestre pellegrinaggio sono d’improvviso passato dai giardini ai deserti: ma confesso ad un tempo che i miei ravvedimenti nacquero da un certo sdegno orgoglioso e dalla disperazione di trovare la gloria e la felicitá, a cui da’ primi anni io agognava. S’io avessi venduta la fede, rinnegata la veritá, trafficato il mio ingegno, credi tu ch’io non vivrei piú onorato e tranquillo? Ma gli onori e la tranquillitá del mio secolo guasto meritano forse di essere acquistati col sagrificio dell’anima? Forse, piú che l’amore della virtú, il timore della bassezza m’ha rattenuto sovente da quelle colpe, che sono rispettate ne’ potenti, tollerate ne’ piú, ma che, per non lasciare senza vittime il simulacro della giustizia, sono punite ne’ miseri. No; né umana forza né prepotenza divina mi faranno recitare mai nel teatro del mondo la parte del piccolo briccone. Per vegliare le notti nel gabinetto delle belle piú illustri, ben io so che conviene professare libertinaggio, perché vogliono mantenersi riputazione dove sospettano ancora il pudore. E taluna m’insegnò le arti della seduzione e mi confortò al tradimento..., e avrei forse tradito e sedotto; ma il piacere, ch’io ne sperava, scendeva amarissimo dentro il mio cuore, il quale non ha saputo mai pacificarsi co’ tempi e far alleanza con la ragione. E perciò tu mi udivi tante volte esclamare che «tutto dipende dal cuore», dal cuore che né gli uomini, né il cielo, né i nostri medesimi interessi possono cangiar mai!

Nella Italia piú culta e in alcune cittá della Francia ho cercato ansiosamente il «bel mondo», ch’io sentiva magnificare [p. 278 modifica] con tanta enfasi: ma dappertutto ho trovato volgo di nobili, volgo di letterati, volgo di belle; e tutti sciocchi, bassi, maligni; tutti. Mi sono intanto sfuggiti que’ pochi, che, vivendo negletti fra il popolo e meditando nella solitudine, serbano rilevati i caratteri della loro indole non ancora strofinata. Intanto io correva di qua, di lá, di su, di giú, come le anime de’ scioperati cacciate da Dante alle porte dell’inferno, non reputandole degne di stare fra’ perfetti dannati. In tutto un anno sai tu che raccolsi? Ciance, vitupèri e noia mortale. E qui, dond’io guardava il passato tremando e mi rassicurava credendomi in porto, il demonio mi strascina a sí fatti malanni. Onde tu vedi ch’io debbo drizzar gli occhi miei al raggio di salute che il caso propizio mi ha presentato. Ma ti scongiuro, risparmia il solito sermone: — Iacopo, Iacopo! questa tua indocilitá ti fa divenire misantropo. — E’ ti pare che, se odiassi gli uomini, mi dorrei, come fo, de’ lor vizi? Tuttavia, poiché non so riderne e temo di rovinare, io stimo migliore partito la ritirata. E chi mi affida dall’odio di questa razza d’uomini tanto da me diversa? Né giova disputare onde scoprire per chi stia la ragione: non lo so, né la pretendo tutta per me. Quello che importa si è (e tu in ciò sei d’accordo) che questa indole mia schietta, salda, leale, o piuttosto ineducata, caparbia, imprudente, e la religiosa etichetta, che veste d’una stessa divisa tutti gli esterni costumi di costoro, non si confanno; e davvero io non mi sento in umore di cangiar abito. Per me dunque è disperata perfino la tregua, anz’io sono in aperta guerra, e la sconfitta è imminente, poiché non so neppure combattere con la maschera della dissimulazione, «virtú» d’assai credito e di maggiore profitto. Ve’ la gran presunzione! Io mi reputo meno brutto degli altri, e sdegno perciò di contraffarmi; anzi, buono o reo ch’io mi sia, ho la generositá o, di’ pure, la sfrontatezza di presentarmi nudo, e quasi quasi come la madre natura mi ha fatto. Che se talvolta io dico a me stesso: — Pensi tu che la veritá in bocca tua sia men temeraria? — io da ciò ne desumo che sarei matto, se, avendo trovato nella mia solitudine la tranquillitá de’ beati, i quali s’imparadisano nella contemplazione del sommo bene, io, «per... [p. 279 modifica] per evitare il pericolo d’innamorarmi» (ecco la tua solita antifona), mi commettessi alla discrezione di questa ciurma cerimoniosa e maligna.

Padova, 23 dicembre.

Questo scomunicato paese m’addormenta l’anima, noiata della vita. Tu puoi garrirmi a tua posta: in Padova non so che farmi. Se tu mi vedessi con che faccia sguaiata sto qui scioperando e durando fatica a incominciarti questa meschina lettera! Il padre di Teresa è tornato a’ colli Euganei e mi ha scritto: gli ho risposto, annunziandogli il mio ritorno; e mi pare mill’anni.

Questa universitá (come saranno, purtroppo, tutte le universitá della terra!) è per lo piú composta di professori orgogliosi e nemici fra loro e di scolari dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de’ dotti gli uomini sommi son cosí rari? Quello istinto ispirato dall’alto, che costituisce il genio, non vive che nella indipendenza e nella solitudine, quando i tempi, vietandogli d’operare, non gli lasciano che lo scrivere. Nella societá si legge molto, non si medita e si copia: parlando sempre, si svapora quella bile generosa, che fa sentire, pensare e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, si balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi: dipendenti dagl’interessi, dai pregiudizi e dai vizi degli uomini fra’ quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria e la nostra felicitá: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi, perché la fama aizza i persecutori, e l’altezza di animo fa sospettare i governi, e i principi vogliono gli uomini tali da non riescire né eroi, né incliti scellerati mai. E però, chi in tempi schiavi è pagato per istruire, rado o non mai si sacrifica al vero e al suo sacrosanto istituto; quindi quell’apparato delle lezioni cattedratiche, le quali ti fanno difficile la ragione e sospetta la veritá. Se non ch’io d’altronde sospetto che gli uomini tutti sieno altrettanti ciechi, che viaggino al buio, alcuni de’ quali si schiudano le palpebre a fatica, immaginando [p. 280 modifica] di distinguere le tenebre, fra le quali denno pur camminar brancolando. Ma questo sia per non detto: e’ ci sono certe opinioni che andrebbero disputate con que’ pochi soltanto che guardano le scienze col sogghigno con cui Omero guardava le gagliardie delle rane e de’ topi.

A questo proposito, vuoi tu darmi retta una volta? Poiché v’ha il compratore, vendi in corpo e in anima tutti i miei libri. Che ho a fare di quattro migliaia e piú di volumi ch’io non so né voglio leggere? Preservami que’ pochissimi che tu vedrai ne’ margini postillati di mia mano. Oh, come un tempo io m’affannava profondendo co’ librai tutto il mio! Ma questa pazzia non m’è passata se non per cedere forse il luogo ad un’altra. Il danaro dallo a mia madre. Cercando di rifarla di tante spese (io non so come, ma, a dirtela, darei fondo a un tesoro), questo ripiego mi è sembrato il piú acconcio. I tempi diventano sempre piú calamitosi, e non è giusto che quella povera donna meni per me disagiata la poca vita che ancora le avanza. Addio.

Da’ colli Euganei, 3 gennaio 1798.

Perdona: ti credeva piú saggio. Il genere umano è questo branco di ciechi che tu vedi urtarsi, spingersi, battersi e incontrare o strascinarsi dietro la inesorabile fatalitá. A che dunque seguire o temere ciò che ti deve succedere?

M’inganno? L’umana prudenza può ella rompere questa catena invisibile di casi e d’infiniti minimi accidenti, che noi chiamiamo «destino»? Sia: ma può ella per questo mettere sicuro lo sguardo fra l’ombre dell’avvenire? Oh! tu nuovamente mi esorti a fuggire Teresa; e non è lo stesso che dirmi: — Abbandona ciò che ti fa cara la vita; trema del male, e t’imbatti nel peggio. — Ma poniamo ch’io, paventando prudentemente il pericolo, dovessi chiudere l’anima a ogni barlume di felicitá, tutta la mia vita non somiglierebbe forse le austere giornate di questa nebbiosa stagione, le quali ci fanno desiderare di poter non esistere fintanto ch’esse infestano la natura? Or di’ il vero Lorenzo: quanto sarebbe meglio che parte almen del mattino fosse confortata dal raggio [p. 281 modifica] del sole, a costo ancora che la notte rapisse il dí innanzi sera? Che s’io dovessi far sempre la guardia a questo mio cuore prepotente, sarei con me stesso in eterna guerra, e senza pro. Mi batto a corpo morto, e vada come sa andare. Intanto io

          Sento l’aura mia antica, e i dolci colli
          veggo apparir!3

10 gennaio.

Odoardo spera distrigato il suo affare tra un mese: egli scrive. Tornerá dunque, al piú tardi, a primavera. Allora sí, verso i primi d’aprile, crederò ragionevole d’andarmene.

19 gennaio.

Umana vita? Sogno, ingannevole sogno, al quale noi pur diam sí gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle superstizioni e ne’ presagi! Bada: ciò, cui tu stendi avidamente la mano, è un’ombra forse, che, mentre è a te cara, a tal altro è noiosa. Sta dunque tutta la mia felicitá nella vota apparenza delle cose che mi circondano; e, s’io cerco alcunché di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla! Io non lo so...; ma, per me, temo che la natura abbia costituita la nostra specie quasi minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza, creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre occupati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E, mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, ride ella frattanto del nostro orgoglio, che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi a tutto quello ch’esiste. [p. 282 modifica]

Andava dianzi perdendomi per le campagne, inferraiuolato sino agli occhi, osservando lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba né fronda che attestasse le sue passate dovizie. Né potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de’ monti, il vertice de’ quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia, che piombava ad accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato. E mi parea di veder quelle nevi disciogliersi e precipitare a torrenti, che innondavano il piano, strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne e sterminando in un giorno le fatiche di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un raggio di sole, che, quantunque restasse poi vinto dalla caligine, lasciava pur divedere che sua mercé soltanto il mondo non era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io, rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: — O sole — diss’io, — tutto cangia quaggiú! Ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi? mai! Pur verrá giorno che Dio ritirerá il suo sguardo da te, e tu pure cadrai nel vano antico del caos; né piú allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti; né piú l’alba inghirlandata di celesti rose verrá cinta di un tuo raggio su l’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera; l’uomo non gode de’ suoi giorni; e, se talvolta gli è dato di passeggiare per li fiorenti prati d’aprile, dee pur sempre temere l’infocato acre dell’estate e il ghiaccio mortale del verno.

22 gennaio.

Cosí va, caro amico. Stavami al mio focolare, dove alcuni villani de’ contorni s’adunano in cerchio per riscaldarsi, raccontandosi a vicenda le loro novelle e le antiche avventure. Entrò una fanciulla scalza, assiderata, e, voltasi all’ortolano, lo richiese della limosina per la povera vecchia. Mentre ella stava rifocillandosi al fuoco, egli le preparava due fasci di legne e due pani bigi. La villanella se li prese e, salutandoci, se ne andò. Usciva [p. 283 modifica] io pure, e senz’avvedermi la seguitava, calcando dietro le sue péste la neve. Giunta a un mucchio di ghiaccio, si fermò cercando con gli occhi un altro sentiero; ed io, raggiungendola: — Andate lontano, buona ragazza? — Signor mio, no; niente piú di mezzo miglio, signore. — Parmi che i fasci vi pesino troppo: lasciate che ne porti uno anch’io. — 1 fasci tanto non sarebbero di sí gran peso, se potessi sostenermeli su le spalle con tutte due le braccia; ma questi pani m’intrigano. — Or via, porterò i pani, dunque. — Non rispose, ma si fe’ tutta rossa, e mi porse i pani, ch’io mi riposi sotto il tabarro. Dopo breve ora entrammo in una capannuccia, in mezzo la quale sedeva una vecchierella con un caldano fra i piedi, pieno di brace, sovra le quali stendeva le palme, appoggiando i polsi su le estremitá de’ginocchi. — Buongiorno, buona madre. — Buongiorno. — Come state, buona madre? — Né a questa, né a dieci altre interrogazioni mi fu possibile di trarre risposta, perch’essa attendeva a riscaldarsi le mani, alzando gli occhi di quando in quando, per vedere se eravamo ancora partiti. Posammo frattanto quelle poche provvisioni, e a’ nostri saluti e alle promesse di ritornare domani, la vecchia non rispose se non se un’altra volta quasi per forza: — Buongiorno. —

Tornando a casa, la villanella mi raccontava che quella donna, ad onta di forse ottant’anni e piú e di una difficilissima vita, perché talvolta avveniva che i temporali vietavano a’ contadini di recarle la limosina che raccoglievano, in guisa che vedevasi sul punto di perire di fame, tuttavia tremava ognor di morire, e borbottava sempre sue preci perché il cielo la tenesse ancor viva. Ho poi udito dire a’ vecchi del contado che da molti anni le morí di un’archibugiata il marito, dal quale ebbe figliuoli e figliuole, e quindi generi, nuore e nipoti, ch’essa vide tutti perire e cascarle l’un dopo l’altro a’ piedi nell’anno memorabile della fame. Eppur, caro amico, né i passati né i presenti mali la uccidono, e brama ancora una vita che nuota sempre in un mar di dolore.

Ahi, dunque, tanti affanni assediano la nostra vita, che a mantenerla vuoisi non meno che un cieco istinto prepotente, [p. 284 modifica] per cui (quantunque la natura ci spiani i mezzi di liberarcene) siamo spesso forzati a comperarla coll’avvilimento, col pianto e talvolta ancor col delitto!

9 febbraro.

Eccomi sempre con te: sono omai cinque giorni ch’io non posso vederti, e tutti i miei pensieri sono consecrati a te sola, a te consolatrice del mio cuore. È vero; io non ti posso fare felice. Quel mio Genio, di cui spesso ti parlo, mi condurrá al sepolcro per la via delle lagrime. Io non posso farti felice... e lo diceva stamattina a tuo padre, che sedea presso il mio letto e sorrideva delle mie malinconie: ed io gli confessava che, fuori di te, nulla di lusinghiero e di caro mi resta in questa povera vita. Tutto è follia, mia dolce amica; tutto purtroppo! E quando questo mio sogno soave terminerá, quando gli uomini e la fortuna ti rapiranno a questi occhi, io calerò il sipario: la gloria, il sapere, la gioventú, le ricchezze, tutti fantasmi, che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno piú per me: io calerò il sipario, e lascerò che gli uomini s’affannino per fuggire i dolori di una vita che ad ogni minuto si accorcia, e che pure que’ meschini se la vorrebbero persuadere immortale. Addio, addio! Suona mezzanotte: a dispetto della mia infreddatura, io m’era posto tutto impellicciato presso il caminetto, che mandava ancora le ultime fiamme, per rispondere due righe a mia madre, e senza avvedermene ho scritto una lettera lunga lunga e tutta malinconica come questa. Quanta diversitá dal mio biglietto di ieri, che era gaio come la Isabellina quando sorride!4. E adesso, s’io proseguissi, tenterei invano di distrarmi dalle mie solite prediche. Buona notte dunque... Oh! io sono intirizzito; il fuoco ha lasciato me, perché s’avvedeva ch’io non mi preparavo a lasciarlo. [p. 285 modifica]

17 marzo.

Da due mesi non ti do segno di vita, e tu ti se’ sgomentato; e temi ch’io sia vinto oggimai dall’amore, da «dimenticarmi di te e della patria». Fratei mio Lorenzo, perdonami: tu conosci pur poco me e il cuore umano ed il tuo, se presumi che il desiderio di patria possa temperarsi mai, non che spegnersi; se credi che ceda ad altre passioni. Ben irrita le altre passioni, e n’è piú irritato; ed è pur vero, e in questo hai detto pur bene: «L’amore in un’anima esulcerata, e dove le altre passioni sono disperate, riesce onnipotente», e io lo provo. Ma che riesca funesto, t’inganni: senza Teresa, io sarei forse oggi sotterra.

La natura crea di propria autoritá tali ingegni da non poter essere se non generosi. Venti anni addietro, sí fatti ingegni si rimanevano inerti ed assiderati nel sopore universale d’Italia; ma i tempi d’oggi hanno ridestato in essi le virili e natie loro passioni, ed hanno acquistato tal tempra, che spezzarli puoi, piegarli non mai. E non è sentenza metafisica questa: la è veritá che splende nella vita di molti antichi mortali gloriosamente infelici; veritá di cui mi sono accertato convivendo fra molti nostri concittadini. E li compiango insieme e gli ammiro: da che, se Dio non ha pietá dell’Italia, dovranno chiudere nel loro secreto il desiderio di patria, funestissimo, perché o strugge o addolora tutta la vita; e nondimeno, anziché abbandonarlo, avranno cari i pericoli, e queil’angoscia, e la morte. Ed io mi sono uno di questi; e tu, mio Lorenzo.

Ma, s’io scrivessi intorno a quello ch’io vidi e so delle cose nostre, farei cosa superflua e crudele, ridestando in voi tutti il furore che vorrei pur sopire dentro di me: piango, credimi, la patria... la piango secretamente e desidero

che le lagrime mie si spargan sole5

Un’altra specie d’amatori d’Italia si quereli ad altissima voce a sua posta. Esclamano d’essere stati venduti e traditi: ma, se si [p. 286 modifica] fossero armati, sarebbero stati vinti forse, non mai traditi; e se si fossero difesi sino all’ultimo sangue, né i vincitori avrebbero potuto venderli, né i vinti si sarebbero attentati di comperarli. Se non che moltissimi de’ nostri presumono che la libertá si possa comperare a danaro; presumono che le nazioni straniere vengano per amore dell’equitá a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi, onde liberare l’Italia! Ma i francesi, che hanno fatto parere esecrabile la divina teoria della pubblica libertá, faranno da Timoleoni in pro nostro?... Moltissimi intanto si fidano nel giovine Eroe, nato di sangue italiano, nato dove si parla il nostro idioma. Io da un animo basso e crudele non m’aspetterò mai cosa utile ed alta per noi. Che importa ch’abbia il vigore e fremito del leone, se ha la mente volpina e se ne compiace? Si, «basso e crudele»...; né gli epiteti sono esagerati. A che non ha egli venduto Venezia con aperta e generosa ferocia? Selim primo, che fece scannare sul Nilo trentamila guerrieri circassi arresisi alla sua fede, e Nadir Sellali, che nel nostro secolo trucidò trecentomila indiani, sono piú atroci, bensí meno spregevoli. Vidi con gli occhi miei una costituzione democratica postillata dal giovine Eroe, postillata di mano sua, e mandata da Passeriano a Venezia perché s’accettasse; e il trattato di Campoformio era giá da piú giorni firmato e Venezia era trafficata; e la fiducia, che l’Eroe nutriva in noi tutti, ha riempito l’Italia di proscrizioni, d’emigrazioni e d’esili. Non accuso la ragione di Stato, che vende come branchi di pecore le nazioni; cosí fu sempre e cosí sará: piango la patria mia,

che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende6.

— Nasce italiano, e soccorrerá un giorno alla patria. — Altri sel creda: io risposi e risponderò sempre: — La natura lo ha creato tiranno; e il tiranno non guarda a patria, e non l’ha. —

Alcuni altri de’nostri, veggendo le piaghe d’Italia, vanno pur predicando doversi sanarle co’ rimedi estremi, necessari alla [p. 287 modifica] libertá. Ben è vero: l’Italia ha preti e frati, non giá sacerdoti; perché, dove la religione non è inviscerata nelle leggi e ne’ costumi d’un popolo, l’amministrazione del culto è bottega. L’Italia ha de’ titolati quanti ne vuoi, ma non ha propriamente patrizi: da che i patrizi difendono con una mano la repubblica in guerra, e con l’altra la governano in pace; e in Italia sommo fasto de’ nobili è il non fare e il non sapere mai nulla. Finalmente abbiamo plebe, non giá cittadini, o pochissimi. I medici, gli avvocati, i professori d’universitá, i letterati, i ricchi mercatanti, l’innumerabile schiera degl’impiegati fanno arti gentili, essi dicono, e cittadinesche; non però hanno nerbo e diritto cittadinesco. Chiunque si guadagna sia pane, sia gemme, con l’industria sua personale, e non è padrone di terre, non è se non parte di plebe; meno misera, non giá meno serva. Terra senza abitatori può stare; popolo senza terra, non mai: quindi i pochi signori delle terre in Italia saranno pur sempre dominatori invisibili ed arbitri della nazione. Or di preti e frati facciamo de’ sacerdoti; convertiamo i titolati in patrizi; i popolani tutti, o molti almeno, in cittadini abbienti e possessori di terre...; ma, balliamo! senza carnificine, senza riforme sacrileghe di religione, senza fazioni, senza proscrizioni né esili, senza aiuto e sangue e depredazioni d’armi straniere, senza divisione di terre, né leggi agrarie, né rapine di proprietá famigliari; da che, se mai (a quanto intesi ed intendo), se mai questi rimedi necessitassero a liberarne dal nostro infame perpetuo servaggio, io per me non so cosa mi piglierei...: né infamia, né servitú; ma neppur essere esecutore di sí crudeli e spesso inefficaci rimedi. Se non che all’individuo restano molte vie di salute: non fosse altro, il sepolcro. Ma una nazione non si può sotterrar tuttaquanta. E però, se scrivessi, esorterei l’Italia a pigliarsi in pace il suo stato presente, e a lasciare alla Francia la obbrobriosa sciagura di avere svenato tante vittime umane alla Libertá, su le quali la tirannide de’ Cinque o de’ Cinquecento o di Un solo (torna tutt’uno) hanno piantato e pianteranno i lor troni, e vacillanti di minuto in minuto, come tutti i troni che hanno per fondamenta i cadaveri. [p. 288 modifica]

Il lungo tempo da che non ti scrivo non è corso perduto per me: credo invece d’avere guadagnato anche troppo;... ma guadagni fatali! Il signore T*** ha moltissimi libri di filosofía politica e i migliori storici del mondo moderno: e tra per non volermi trovare assai spesso vicino a Teresa, tra per noia e per curiositá, due vigili istigataci del genere umano, mi son fatto mandare que’ libri; e parte n’ho letto, parte ne ho scartabellato, e mi furono tristi compagni di questa vernata. Certo, che piú amabile compagnia mi parvero gli uccelletti, i quali, cacciati per disperazione dal freddo a cercarsi alimento vicino alle abitazioni degli uomini, loro nemici, si posavano a famiglie e a tribú sul mio balcone, dov’io apparecchiava loro da desinare e da cena; ma forse, ora che va cessando il loro bisogno, non mi visiteranno mai piú. Intanto dalle mie lunghe letture ho raccolto che il non conoscere gli uomini è pur cosa pericolosa; ma il conoscerli, quando non s’ha cuore di volerli ingannare, è pur cosa funesta! Ho raccolto che le molte opinioni de’ molti libri e le contraddizioni storiche t’inducono al pirronismo, e ti fanno errare nella confusione e nel caos e nel nulla: ond’io, a chi mi stringesse o di sempre leggere o di non leggere mai, mi torrei di non leggere mai; e cosí forse farò. Ho raccolto che abbiamo tutti passioni vane, com’è appunto la vanitá della vita; e che nondimeno si fatta vanitá è la sorgente de’ nostri errori, del nostro pianto e de’ nostri delitti.

Pur nondimeno io mi sento rinsanguinare piú sempre nell’anima questo furore di patria; e, quando penso a Teresa, e se spero, rientro in un subito in me assai piú costernato di prima, e ridico: — Quand’anche l’amica mia fosse madre dei miei figliuoli, i miei figliuoli non avrebbero patria; e la cara compagna della mia vita se n’accorgerebbe gemendo. — Purtroppo! alle altre passioni, che fanno alle giovinette sentire, sull’aurora del loro giorno fuggitivo, i dolori, e piú assai alle giovinette italiane, s’è aggiunto questo infelice amore di patria. Ho sviato il signore T*** da’ discorsi di politica, de’ quali si appassiona. Sua figlia non apriva mai bocca: ma io pur m’avvedeva come le angosce di suo padre e le mie si rovesciavano [p. 289 modifica] nelle viscere di quella fanciulla. Tu sai che non è femminetta volgare: e, prescindendo anche da’suoi interessi (da che in altri tempi avrebbe potuto eleggersi altro marito), è dotata d’animo altero e di signorili pensieri. E vede quanto m’è grave quest’ozio di oscuro e freddo egoista, in cui logoro tutti i miei giorni: davvero, Lorenzo, anche tacendo, io paleso che sono misero e vile dinanzi a me stesso. La volontá forte e la nullitá di potere in chi sente una passione politica lo fanno sciaguratissimo dentro di sé; e, se non tace, lo fanno parere ridicolo al mondo: si fa la figura di paladino da romanzo e d’innamorato impotente della propria cittá. Quando Catone s’uccise, un povero patrizio, chiamato Cozio, lo imitò: l’uno fu ammirato, perché aveva prima tentato ogni via a non servire; l’altro fu deriso, perché per amore della libertá non seppe far altro che uccidersi.

Ma, qui stando, non foss’altro co’ miei pensieri, presso a Teresa (perch’io regno ancor tanto sopra di me, ch’io lascio passare tre e quattro giorni senza vederla), pur il solo ricordarmene mi fa provare un foco soave, un lume, una consolazione di vita (breve forse, ma divina dolcezza); e cosí mi preservo per ora dalla assoluta disperazione.

E, quando sto seco (ad altri forse noi crederesti, o Lorenzo, a me sí), allora non le parlo d’amore. È mezz’anno oramai da che l’anima sua s’è affratellata alla mia, e non ha mai inteso uscire fuor delle mie labbra la certezza ch’io l’amo. Ma e come non può esserne certa? Suo padre giuoca meco a scacchi l’intere serate: essa lavora seduta accanto a quel tavolino, silenziosissima, se non quanto parlano gli occhi suoi, ma di rado, e, chinandosi a un tratto, non mi domandano che pietá. E qual altra pietá posso mai darle, da questa in fuori di tenerle, quanto avrò forza, tenerle occulte come piú potrò tutte le mie passioni? Né io vivo se non per lei sola; e, quando anche questo mio nuovo sogno soave terminerá, io calerò volentieri il sipario. La gloria, il sapere, la gioventú, le ricchezze, la patria, tutti fantasmi che hanno fino ad or recitato nella mia commedia, non fanno piú per me. Calerò il sipario, e lascerò che gli altri mortali s’affannino per accrescere i piaceri e menomare i dolori d’una vita [p. 290 modifica] che ad ogni minuto s’accorcia, e che pure que’ meschini se la vorrebbero persuadere immortale.

Eccoti con l’usato disordine, ma con insolita pacatezza risposto alla tua lunga affettuosissima lettera. Tu sai dire assai meglio le tue ragioni: io* le mie le sento troppo; però paio ostinato. Ma, s’io ascoltassi piú gli altri che me, rincrescerei forse a me stesso; e nel non rincrescere a sé sta quel po’ di felicitá che l’uomo può sperar su la terra.

3 aprile.

Quando l’anima è tutta assorta in una specie di beatitudine, le nostre deboli facoltá, oppresse dalla somma del piacere, diventano quasi stupide, mute e incapaci di ogni fatica. Che s’io non menassi una vita da santo, ti scriverei con un po’ piú di frequenza. Se le sventure aggravano il carico della vita, noi corriamo a farne parte a qualche infelice, ed egli tragge conforto dal sapere che non è il solo condannato alle lagrime. Ma, se lampeggia qualche momento di felicitá, noi ci concentriamo tutti in noi stessi, temendo che la nostra ventura possa, partecipandosi, diminuirsi; o l’orgoglio nostro soltanto ci consiglia a menarne trionfo. E poi sente assai poco la propria passione, o lieta o trista che sia, chi sa troppo minutamente descriverla. Frattanto tutta la natura ritorna bella cosí quale dev’essere stata quando, nascendo per la prima volta dall’informe abisso del caos, mandò foriera la ridente aurora d’aprile; ed ella, abbandonando i suoi biondi capelli su l’oriente e cingendo poi a poco a poco l’universo del roseo suo manto, diffuse benefica le fresche rugiade e destò l’alito vergine de’ venticelli, per annunziare ai fiori, alle nuvole, alle onde e agli esseri tutti, che la salutavano, la comparsa del Sole: il Sole! sublime immagine di Dio; e luce, anima, vita di tutto il creato. [p. 291 modifica]

6 aprile.

È vero, troppo! Questa mia fantasia mi dipinge cosí realmente la felicitá ch’io desidero, e me la pone dinanzi agli occhi, e sto li li per toccarla con mano, e mi mancano ancor pochi passi; e poi? l’infelice mio cuore se la vede svanire, e piange quasi perdesse un bene posseduto da lungo tempo. Ma tuttavia egli le scrive che la cabala forense gli fu da prima cagione di ritardo, e che poi la rivoluzione ha interrotto per qualche giorno il corso de’ tribunali. Aggiungi l’interesse, che soffoca tutte le altre passioni. Un nuovo amore forse... Ma tu dirai: — E tutto ciò cosa importa? — Nulla, caro Lorenzo: a Dio non piaccia ch’io mi prevalga della freddezza d’Odoardo; ma non so come si possa starle lontano un solo giorno di piú! Andrò dunque ognor piú lusingandomi, per tracannarmi poscia la mortale bevanda che mi sarò io medesimo preparata?

11 aprile.

Ella sedeva sopra un sofá rimpetto la finestra delle colline, osservando le nuvole che passeggiavano per l’ampiezza del cielo. — Vedi — mi disse — quell’azzurro profondo! — Io le stava accanto muto muto, con gli occhi fissi sulla sua mano, che tenea socchiuso un libricciuolo. Io non so come, ma non mi avvidi che la tempesta cominciava a muggire e il settentrione atterrava le piante piú giovani. — Poveri arbuscelli! — esclamò Teresa. Mi scossi. S’addensavano le tenebre della notte, che i lampi rendeano piú negre. Diluviava, tuonava. Poco dopo vidi le finestre chiuse e i lumi nella stanza. Il ragazzo, per far ciò ch’ei soleva fare tutte le sere e temendo del mal tempo, venne a rapirci lo spettacolo della natura adirata; e Teresa, che stava sopra pensiero, non se ne accorse e lo lasciò fare.

Le tolsi di mano il libro, e, aprendolo a caso, lessi:

«La tenera Gliceria lasciò su queste mie labbra l’estremo sospiro! Con Gliceria ho perduto tutto quello ch’io poteva mai perdere. La sua fossa è il solo palmo di terra ch’io degni di [p. 292 modifica] chiamar mio. Niuno, fuori di me, ne sa il luogo. L’ho coperta di folti rosai, i quali fioriscono come un giorno fioriva il suo volto e diffondono la fragranza soave che spirava il suo seno. Ogni anno nel mese delle rose io visito il sacro boschetto. Siedo su quel cumulo di terra, che serba le sue ossa; colgo una rosa, e sto meditando: — Tal tu fiorivi un dí! — E sfoglio quella rosa, e la sparpaglio, e mi rammento quel dolce sogno de’ nostri amori. O mia Gliceria, ove tu sei? Una lagrima cade su l’erba che spunta su la sua sepoltura, e appaga l’ombra amorosa».

Tacqui. — Perché non leggete? — diss’ella, sospirando e guardandomi. Io rileggeva; e, tornando a proferir nuovamente: «Tal tu fiorivi un dí!», la mia voce soffocata si arresta: una lagrima di Teresa gronda su la mia mano, che stringe la sua.

17 aprile.

Ti risovviene di quella giovinetta che, quattro anni fa. villeggiava appiè di queste colline? Era ella innamorata del nostro Olivo P***; e tu sai ch’egli, impoverito, non potè piú averla in isposa. Oggi io l’ho riveduta maritata a un nobile, parente della famiglia T***. Passando per le sue possessioni, venne a visitare Teresa. Io sedeva per terra attento all’esemplare della mia Isabellina, che scrivea l’abbiccí sopra una sedia. Com’io la vidi, m’alzai correndole incontro, quasi quasi per abbracciarla... Quanto diversa! Contegnosa, affettata, stentò pria di conoscermi e poi fece le maraviglie, masticando un complimentuccio mezzo a me, mezzo a Teresa; ed io scommetto ch’ella lo aveva imparato a memoria, e che la mia vista non preveduta l’ha sconcertata. Ma cinguettò e di gioielli e di nastri e di vezzi e di cuffie. Nauseato io di sí fatte frascherie, tentai il suo cuore, rammentandole queste campagne e que’ giorni beati. — Ah, ah! — rispose sbadatamente, e prosegui ad anatomizzare l’oltramontano «travaglio» de’ suoi orecchini. Il marito frattanto (perché egli fra il «popolone de’pigmei» ha scroccato fama di «savant», come l’Algarotti e il***), gemmando il pretto parlare toscano di mille frasi francesi, magnificava il prezzo di quelle inezie [p. 293 modifica] e il buon gusto della sua sposa. Stava io per prendere il mio cappello, ma un’occhiata di Teresa mi fe’ star cheto. La conversazione venne di mano in mano a cadere su’ libri che noi leggevamo in campagna. Allora tu avresti udito messere tesserci il panegirico della «prodigiosa» biblioteca de’ suoi maggiori, e della collezione di tutte l’edizioni degli antichi storici ch’ei ne’ suoi viaggi si prese la cura di completare, lo rideva ed ei proseguiva la sua lezione di frontespizi. Quando Gesú volle, tornò un servo, ch’era ito in traccia del signore T***, ad avvertire Teresa che non l’avea potuto trovare, perché egli era uscito a caccia per le montagne; e la lezione fu interrotta. Chiesi alla sposa novelle di Olivo, ch’io dopo le sue disgrazie non aveva piú veduto. Immaginerai che cuore fu il mio, quando m’intesi freddamente rispondere dall’antica sua amante: — Egli è morto. — È morto! — sclamai, balzando in piedi e guatandola stupidito. Descrissi quindi a Teresa l’egregia indole di quel giovine senza pari, e la sua nemica fortuna che lo astrinse a combattere con la povertá e con la infamia; e morí nondimeno scevro di taccia e di colpa.

Il marito allora prese a narrarci la morte del padre di Olivo, le pretensioni di suo fratello primogenito, le liti sempre piú accanite, e la sentenza de’ tribunali che, giudici fra due figli di uno stesso padre, per arricchire l’uno, spogliarono l’altro; divoratosi il povero Olivo fra le cabale del fòro anche quel poco che gli rimanea. Moralizzava su questo giovine «stravagante», che ricusò i soccorsi di suo fratello e, invece di placarselo, lo inasprí sempre piú. — Sí sí! — lo interruppi: — se suo fratello non ha potuto essere giusto, Olivo non doveva essere vile. Tristo colui che ritira il suo cuore dai consigli e dal compianto dell’amicizia, e sdegna i mutui sospiri della pietá, e rifiuta il parco soccorso che la mano dell’amico gli porge. Ma ben mille volte piú tristo chi confida nell’amicizia del ricco; e, presumendo virtú in chi non fu mai sciagurato, accoglie quel beneficio che dovrá poscia scontare con altrettanta onestá. La felicitá non si collega con la sventura che per comprare la gratitudine e tiranneggiare la virtú. L’uomo, smanioso di opprimere, profitta dei capricci [p. 294 modifica] della fortuna per acquistare un diritto di prepotenza. I soli infelici sanno vendicare gli oltraggi della sorte, consolandosi scambievolemente; ma colui, che giunse a sedere alla mensa del ricco, tosto, benché tardi, s’avvede

 come sa di sale
lo pane altrui7.

E per questo, oh quanto é men doloroso l’andare accattando di porta in porta la vita, anziché umiliarsi o esecrare l’indiscreto benefattore, che, ostentando il suo beneficio, esige in ricompensa il tuo rossore e la tua libertá!

— Ma voi — mi rispose il marito — non mi avete lasciato finire. Se Olivo uscí della casa paterna, rinunziando tutti gl’interessi al primogenito, perché poi volle pagare i debiti di suo padre? Non andò incontro egli stesso alla indigenza, ipotecando per questa sciocca delicatezza anche la sua porzione della dote materna?

— Perché? Se l’erede defraudò i creditori co’ sutterfugi forensi, Olivo non potea comportare che le ossa di suo padre fossero maladette da coloro che nelle avversitá lo aveano soccorso con le loro sostanze, e ch’ei fosse mostrato a dito per le strade come il figliuolo di un fallito. Questa generositá diffamò il primogenito: dopo d’avere invano tentato il fratello co’ benefici, gli giurò poscia inimicizia mortale e veramente fraterna. Olivo intanto perdé l’aiuto di quelli che lo lodavano forse nel loro secreto, perché restò soverchiato dagli scellerati, essendo piú agevole approvar la virtú che sostenerla a spada tratta e seguirla. Per questo l’uomo dabbene in mezzo a’ malvagi rovina sempre; e noi siam soliti ad associarci al piú forte, a calpestare chi giace e a giudicar dall’evento. — E soggiunsi: — Io, invece di piangere Olivo, ringrazio il sommo Iddio che lo ha chiamato lontano da tante ribalderie e dalle nostre imbecillitá. Vi son certi uomini che hanno bisogno della morte, perché non sanno assuefarsi alla feccia de’ nostri delitti. — [p. 295 modifica]

La sposa parea intenerita. — Oh, purtroppo! — esclamò con un sospiro affettato. — Ma... chi per altro ha bisogno di pane non deve assottigliarsi tanto su l’onore.

— Inaudita bestemmia! —proruppi. — Voi dunque, perché favoriti dalla fortuna, vorreste essere virtuosi voi soli; anzi, perché la virtú su la oscura vostr’anima non risplende, vorreste reprimerla anche ne’ petti degl’infelici, che pure non hanno altro conforto, e illudere in questa maniera la vostra coscienza? —

Gli occhi di Teresa mi davano ragione: quando gridai con nerissima voce: — Coloro che non furono mai sventurati, non sono degni della loro felicitá. Orgogliosi! guardano la miseria per insultarla: pretendono che tutto debba offrirsi in tributo alla ricchezza e al piacere. Ma l’infelice che serba la sua dignitá è uno spettacolo di coraggio a’ buoni e di rimbrotto a’ malvagi. — Io gridava come un indiavolato, e sono uscito cacciandomi le mani ne’ capelli. Grazie a’ primi casi della mia vita, che mi costituirono sventurato! Lorenzo mio! io non sarei forse tuo amico, io non sarei amico di questa fanciulla. Mi sta sempre davanti l’avvenimento di stamattina. Qui, dove siedo solo, tutto solo, mi guardo intorno e temo di rivedere alcuno de’ miei conoscenti. Chi l’avrebbe mai detto? Il cuore di colei non ha palpitato al nome del suo primo amore! Ella anzi ha osato turbare le ceneri di lui, che le ha per la prima volta ispirato l’universale sentimento della vita. Né un solo sospiro? Ma che stravaganza! affliggersi perché non si trova fra gli uomini quella virtú, che forse, ahi! forse, non è che vòto nome.

Io non ho l’anima negra; e tu il sai, mio Lorenzo: nella mia prima gioventú avrei sparso fiori su le teste di tutti i viventi. Chi, chi mi ha fatto cosí rigido e ombroso verso la piú parte degli uomini, se non la loro ipocrita perfidia? Perdonerei tutti i torti che mi hanno fatto. Ma, quando mi passa dinanzi la venerabile povertá, che, mentre s’affatica, mostra le sue vene succhiate dalla onnipotente opulenza; e quando io vedo tanti uomini infermi, imprigionati, affamati, e tutti supplichevoli sotto il terribile flagello di certe leggi... ah! no, io non mi posso [p. 296 modifica] riconciliare. Io grido allora vendetta con quella turba di tapini co’ quali divido il pane e le lagrime, e ardisco ridomandare in lor nome la porzione che hanno ereditato dalla natura, madre benefica ed imparziale.

Sí, Teresa, io vivrò teco; ma io non vivrò se non quanto potrò vivere teco, ma teco soltanto. Tu sei uno di que’ pochi angioli, sparsi qua e lá su la faccia della terra per accreditare la virtú ed infondere negli animi perseguitati ed afflitti l’amore dell’umanitá. Ma, s’io ti perdessi, quale scampo si aprirebbe a questo giovine infastidito di tutto il resto del mondo?

Se poco fa tu l’avessi veduta! Mi stringeva la mano, dicendomi: — Siate discreto; e in veritá, quelle due oneste persone mi pareano compunte; e se Olivo non fosse stato infelice, avrebbe avuto anche oltre la tomba un amico?...

Ahi! — prosegui dopo un lungo silenzio, — per amar la virtú, conviene dunque vivere nel dolore? — Lorenzo, Lorenzo! l’anima sua celeste risplendeva ne’ lineamenti del viso.

29 aprile.

Vicino a lei io sono sí pieno della esistenza, che appena sento di esistere. Cosí, quand’io mi desto dopo un pacifico sonno, se il raggio del sole mi riflette sugli occhi, la mia vista si abbaglia e si perde in un torrente di luce.

Da gran tempo mi lagno della inerzia in cui vivo. Al riaprirsi della primavera mi proponeva di studiare botanica; e in due settimane io aveva raccolte alcune centinaia di piante, che adesso non so piú dove sieno. Mi sono assai volte dimenticato il mio Linneo sopra i sedili del giardino o appiè di qualche albero: l’ho finalmente perduto. Ieri Michele me ne ha recati due fogli tutti umidi di rugiada, e stamattina mi raccontava che il rimanente era stato malconcio dal cane dell’ortolano.

Teresa mi sgrida: per contentarla mi pongo a scrivere; ma, sebbene incominci con la piú bella vocazione che mai, non so andar innanzi per piú di tre righe. Mi propongo mille argomenti, mi s’affacciano mille idee; scelgo, rigetto, poi torno a scegliere; [p. 297 modifica] scrivo finalmente, straccio, cancello, e perdo qualche volta una intera giornata; la mente si stanca, le dita abbandonano la penna, e mi avveggo d’avere gittato il tempo e la fatica. La pazza figura ch’io fo quand’ella siede lavorando ed io leggo! M’interrompo a ogni tratto, ed ella: — Proseguite! — Torno a leggere: dopo due carte la mia pronunzia diventa piú rapida, e termina borbottando in cadenza. Teresa s’affanna: — Leggete un po’ meglio. — Io continuo; ma gli occhi miei, non so come, si sviano insensibilmente dal libro e si trovano frattanto immobili su quell’angelico viso. Divento muto; cade il libro e si chiude: perdo il segno, né so piú ritrovarlo: Ma pure... potessi afferrare tutti i pensieri che mi passano per la mente! Ne vo tratto tratto segnando su’ cartoni e su’ margini del mio Plutarco. Ho incominciata la storia di Lauretta, per mostrare al mondo in quella sfortunata lo specchio della «fatale» infelicitá de’ mortali. Ma credi tu che le sentenze e i consigli e gli esempi de’ danni altrui giovino ad altro fuorché a irritare le nostre passioni? Inoltre, in cambio di narrare di Lauretta, ho parlato di me. Tale è lo stato dell’anima mia: torna sempre a tastare le proprie piaghe. Però non mi pare di lasciar leggere questi tre o quattro fogli a Teresa: le farei piú male che bene. E per ora lascio anche stare di scrivere. Tu leggili. Addio. [p. 298 modifica]

FRAMMENTI DELLA STORIA DI LAURETTA

Non so se il cielo badi alla terra. Ma, se ci ha qualche volta badato (o almeno il primo giorno che la umana «razza» ha incominciato a formicolare), io credo ch’egli abbia scritto negli eterni libri:

l’uomo sará infelice.

Né oso appellarmi di questa sentenza, perché non saprei forse a che tribunale, tanto piú che mi giova crederla utile alle tante altre «razze» viventi ne’ mondi innumerabili. Ringrazio nondimeno quella Mente che, mescendosi nell’immenso mondo degli esseri, li fa sempre rivivere agitandoli; perché, con le miserie, ci ha dato almeno il dono del pianto, ed ha punito coloro che con una insolente filosofia si vogliono ribellare dalla umana sorte, negando loro gl’inesausti piaceri della compassione. «Se vedi alcuno addolorato e piangente, non piangere»8. Stoico! non sai tu che le lagrime di un uomo compassionevole sono per gl’infelici piú dolci della rugiada su l’erbe appassite?

O Lauretta! io piansi con te sul sepolcro del tuo povero amante, e mi ricordo che la mia compassione temprava l’amarezza del tuo dolore. T’abbandonavi sul mio seno, e i tuoi biondi capelli mi coprivano il volto, e il tuo pianto bagnava le mie guance; poi traevi un fazzoletto e m’asciugavi, ed asciugavi le tue lagrime, che tornavano a sgorgarti dagli occhi e scorrerti su le labbra. Abbandonata da tutti! Ma io no, non ti ho abbandonata mai.

Quando tu erravi fuor di te stessa per le romite spiagge del mare, io seguiva furtivamente i tuoi passi, per poterti salvare dalla disperazione del tuo dolore. Poi ti chiamava a nome, e tu mi stendevi la mano e sedevi al mio fianco. Saliva in cielo la luna; e tu guardandola cantavi pietosamente. Taluno avrebbe osato deriderti; ma il consolatore de’ disgraziati, che guarda con un occhio stesso e la pazzia e la saviezza degli uomini, e che compiange e loro delitti e le loro virtú, udiva forse le tue meste voci, ti spirava qualche conforto. Le preci del mio cuore t’accompagnavano: [p. 299 modifica] e a Dio sono accetti i voti e i sacrifici delle anime addolorate. I flutti gemeano con flebile fiotto, e i venti, che gl’increspavano, gli spingeano a lambir quasi la riva dove noi stavamo seduti. E tu, alzandoti appoggiata al mio braccio, t’indirizzavi a quel sasso, ove ti parea di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce e la sua mano e i suoi baci. — Or che mi resta? — esclamavi: — la guerra mi allontana i fratelli, e la morte mi ha rapito il padre e l’amante! Abbandonata da tutti! —

O Bellezza, genio benefico della natura! Ove mostri l’amabile tuo sorriso, scherza la gioia e si diffonde la voluttá, per eternare la vita dell’universo: chi non ti conosce e non ti sente, incresca al mondo e a se stesso. Ma, quando la virtú ti rende piú vereconda e piú cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e la invidia della felicitá, ti mostrano ai mortali co’ crini sparsi e privi delle allegre ghirlande, chi è colui che può passarti davanti e non altro offrirti che un’inutile occhiata di compassione?

Ma io t’offriva, o Lauretta, le mie lagrime e questa capanna dove «tu avresti mangiato del mio pane e bevuto nella mia tazza»9. Tutto quello ch’io aveva! E meco forse la tua vita, sebbene non lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore nella solitudine e nella pace va a poco a poco obbliando i suoi affanni, perché la libertá regna soltanto in grembo alla semplice e solitaria natura. E dove tu sei, libertá, le petrose rupi s’ornano d’arbuscelli, e Borea frena i suoi turbini.

Una sera d’autunno la luna appena si mostrava alla terra, rifrangendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che, accompagnandola, l’andavano tratto tratto coprendo, e che, sparse per l’ampiezza del cielo, rapivano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti a’ lontani fuochi de’ pescatori e al canto del gondoliere, che col suo remo rompea il silenzio e la calma dell’oscura laguna. Ma Lauretta, volgendosi, cercò con gli occhi intorno il suo cagnuolino; ed errò lunga pezza chiamandolo: stanca finalmente, tornò dov’io sedeva e, guardandomi, parea che volesse dirmi: — Anch’egli mi ha giá abbandonato; e tu forse?... —

Io? Chi l’avrebbe mai detto che quella dovesse essere l’ultima sera ch’io la vedeva? Ella era vestita di bianco; un nastro cilestro [p. 300 modifica] raccogliea le sue chiome, e tre mammole appassite spuntavano in mezzo al lino che copriva il suo seno. Io l’ho accompagnata fino alla porta della sua casa; e sua madre, che venne ad aprirci, mi ringraziava della cura ch’io mi prendeva per la sua disgraziata figliuola. Quando fui solo, m’accorsi che m’era rimasto fra le mani il suo fazzoletto: — Glielo renderò domani — diss’io.

I suoi mali incominciavano giá a mitigarsi: ed io forse (è vero), io non poteva darti il tuo Eugenio; ma ti sarei stato sposo, padre, fratello. La persecuzione de’ tiranni proscrisse improvvisamente il mio nome; né ho potuto, o Lauretta, lasciarti neppure l’ultimo addio.

Quand’io penso all’avvenire, e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo, e tremo e mi abbandono con la memoria a’ giorni passati, io vo per lungo tratto vagando sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare e i fuochi lontani e il canto del gondoliere. M’appoggio ad un tronco: sto pensando: — Il cielo me l’avea conceduta; ma l’avversa fortuna me l’ha rapita! — Traggo il suo fazzoletto: — Infelice chi ama per ambizione! Ma il tuo cuore, o Lauretta, è fatto per la schietta natura. — M’asciugo gli occhi, e torno sul far della notte alla mia casa.

Che fai tu frattanto? Torni errando lungo le spiagge, e porgendo preghiere e lagrime a Dio? Vieni! tu corrai le frutta del mio giardino, «tu berrai nella mia tazza, tu mangerai del mio pane», e sentirai come batte, come oggi batte assai diversamente il mio cuore. Quando si risveglierá il tuo martirio, e lo spirito sará vinto dalla passione, io ti verrò dietro per sostenerti in mezzo al cammino e per guidarti, se ti smarrissi, alla mia casa; ma ti verrò dietro tacitamente, per lasciarti libero almeno il conforto del pianto. Io ti sarò padre, fratello; ma il mio cuore... se tu sapessi il mio cuore! Una lagrima bagna la carta e cancella ciò che vado scrivendo.

Io la ho veduta tutta fiorita con i fiori della gioventú e della bellezza; e poi tradita, raminga, orfana. Io l’ho veduta baciare le labbra morenti del suo unico consolatore, e poscia inginocchiarsi con pietosa superstizione davanti a sua madre, lagrimando e pregandola acciocché ritirasse la maledizione, che ne’ giorni del furore quella madre infelice aveva fulminata contro la sua figliuola. Cosí la povera Lauretta mi lasciò nel cuore per sempre la compassione delle sue sventure. Preziosa ereditá, che ora dividerò con voi, uomini sventurati...; con voi, a’ quali non resta altro conforto che [p. 301 modifica] di amare la virtú e di compiangerla. Voi non mi conoscete; ma io, chiunque voi siate, sono sempre il vostro amico. Non odiate gli uomini prosperi: solamente fuggiteli.

Un giorno forse, un giorno, se questi pochi fogli ch’io dal mio romitorio consacro alle tue disgrazie cadranno sotto gli occhi di colui che, senza avere pietá alla tua bellezza e alla tua gioventú, ti trasse dalla casa paterna e ti rapí il fiore della innocenza, ah sí... egli verserá fra i rimorsi una lagrima su la tua virtú che, pur troppo! ti ha ridotta piú misera. E che può mai la virtú, quando il destino domanda la vittima? — Ma tu no, Lauretta, benché la tua smarrita ragione abbia abbandonato il tuo cuore, tu non amerai piú l’uomo che ti ha tradito. Nella tua umiliazione, sdegnerai di essere sollevata da quella mano che ti ha guidato su la via del dolore. I suoi benefici potrebbero insanguinarti piú de’ suoi delitti. L’unico che ti potea consolare era Eugenio...; ma Eugenio...

4 maggio.

Hai tu veduto dopo i giorni della tempesta prorompere fra Lauree nuvole dell’oriente il vivo raggio del sole e riconsolar la natura? Tale per me è la vista di costei. Discaccio i miei desidèri, condanno le mie speranze, piango i miei inganni: no, io non la vedrò piú; io non l’amerò. Odo una voce che mi chiama «traditore»: la voce di suo padre! M’adiro contro me stesso, e sento risorgere nel mio cuore una virtú sanatrice, un pentimento. Eccomi dunque fermo nella mia risoluzione, fermo piú che mai: ma poi? All’apparir del suo volto ritornano le illusioni, e l’anima mia si trasforma, e obblia se medesima e s’imparadisa nella contemplazione della bellezza.

8 maggio.

«Ella non t’ama; e, se pure volesse amarti, nol può». È vero, Lorenzo: ma, s’io consentissi a strapparmi il velo dagli occhi, dovrei subito chiuderli in sonno eterno; poiché, senza questo angelico lume, la vita mi sarebbe terrore, il mondo caos, la [p. 302 modifica] natura notte e deserto. Anziché spegnere le faci che rischiarano la prospettiva teatrale e disingannare villanamente gli spettatori, è assai meglio calar del tutto il sipario e lasciarli nella loro illusione. — Ma se l’inganno ti nuoce! — Che monta? se il disinganno mi uccide!

Una domenica, intesi il parroco che sgridava i villani perché s’ubbriacavano. Egli frattanto non s’accorgeva che avvelenava a que’ meschini il conforto di addormentare nell’ebbrietá della sera le fatiche del giorno, di non sentire l’amarezza del loro pane bagnato di sudore e di lagrime, e di non pensare al rigore e alla fame che il vicino verno minaccia.

11 maggio.

Conviene dire che la natura abbia pur d’uopo di questo globo e della specie di viventi litigiosi che lo stanno abitando. E, per provvedere alla conservazione di tutti, anziché legarci in reciproca fratellanza, ha costituito ciascun uomo cosí amico di se medesimo, che volentieri aspirerebbe all’esterminio dell’universo per vivere piú sicuro della propria esistenza e rimanersi despota solitario di tutto il creato. Niuna generazione ha mai veduto per tutto il suo corso la dolce pace: la guerra fu sempre l’arbitra de’ diritti, e la forza ha dominato tutti i secoli. Cosí l’uomo, or aperto, or secreto, e sempre implacabile nemico della umanitá, conservandosi con ogni mezzo, cospira all’intento della natura, che ha d’uopo della esistenza di tutti; e l’uman genere, quantunque divori perpetuamente se stesso, vive e si propaga. Odi. Di buon’ora ho accompagnato Teresa e la sua sorellina in casa di una lor conoscente, venuta a villeggiare. Credeva di desinare in lor compagnia; ma per mia disgrazia aveva fin dalla settimana passata promesso al chirurgo di andare a pranzo con lui, e, se Teresa non me ne facea sovvenire, io, a dirti la veritá, me n’era dimenticato. Mi vi sono dunque avviato un’oretta innanzi il mezzogiorno; ma, affannato dal caldo, mi sono alla metá della strada coricato sotto un ulivo (al vento di ieri, fuor di stagione, oggi è succeduta un’arsura [p. 303 modifica] noiosissima), e me ne stava lí al fresco spensieratamente, come se avessi giá desinato. Voltando la testa, mi sono avveduto di un contadino che guardavami bruscamente.

— Che fate voi qui?

— Sto, come vedete, riposando.

— Avete voi possessioni? — percotendo la terra col calcio del suo schioppo.

— Perché?

— Perché?... perché? Sdraiatevi sui vostri prati, se ne avete, e non venite a pestare l’erba degli altri! — E, partendo: — Fate ch’io, tornando, vi trovi! —

Io non mi era mosso, ed egli se n’era ito. A bella prima, io non aveva badato alle sue bravate; ma, ripensandoci... «Se ne avete»! E, se la fortuna non avesse conceduto a’ miei padri due passi di terreno, tu m’avresti negato anche nella parte piú sterile del tuo prato l’estrema pietá del sepolcro! Ma, osservando che l’ombra dell’ulivo diventava piú lunga, mi sono ricordato del pranzo.

Poco fa, tornandomi a casa, ho trovato su la mia porta l’uomo stesso di stamattina.

— Signore, vi stava aspettando: se mai... vi foste adirato meco, vi domando perdono.

— Riponete il cappello: io non me ne sono giá offeso. —

Perché mai questo mio cuore nelle stesse occasioni ora è pace pace, ora è tutto tempesta?

Diceva quel viaggiatore: «Il flusso e riflusso de’ miei umori governa tutta la mia vita». Forse un minuto prima il mio sdegno sarebbe stato assai piú grave dell’insulto.

Perché dunque abbandonarci al capriccio del primo che ne offende, permettendo ch’egli ci possa turbare con una ingiuria non meritata? Vedi come l’amor proprio adulatore tenta con questa pomposa sentenza di ascrivermi a merito un’azione, che è derivata forse da... chi lo sa? In pari occasioni non ho usato di eguale moderazione: è vero che, passata un’ora, ho filosofato contro di me; ma la ragione è venuta zoppicando, e il pentimento, per chi aspira alla saviezza, è sempre tardo. Ma né io [p. 304 modifica] v’aspiro: io non sono che un di que’ figliuoli della terra, non altro; e porto meco tutte le passioni e le miserie della mia specie.

Il contadino proseguiva: — Vi ho fatto villania, ma io non vi conosceva: que’ lavoratori, che segavano il fieno ne’ prati vicini, mi hanno dopo avvertito.

— Non importava, buon uomo. Come va il grano quest’anno?

— Bene...; ma vi prego, caro signore, perdonatemi. Dio volesse v’avessi allor conosciuto!

— Buon uomo, o conoscendo, o non conoscendo, non offendete nessuno, perché correte sempre pericolo o di provocare il potente, o di maltrattare il debole: per me, potete starvene in pace.

— Dice bene il signore: Dio gliene rimeriti. — E se ne andò.

Intanto? Crescono ogni giorno i mártiri perseguitati dal nuovo usurpatore della mia patria. Quanti andranno tapinando e profughi ed esiliati, senza il letto di poca erba o l’ombra di un ulivo... Dio lo sa! Lo straniero infelice è cacciato perfino dalla balza dove le pecore pascono tranquillamente.

12 maggio.

Non ho osato, no, non ho osato. Io poteva abbracciarla e stringerla qui, a questo cuore. L’ho veduta addormentata: il sonno le tenea chiusi que’ grandi occhi neri; ma le rose del suo sembiante si spargeano allora piú vive che mai su le sue guance rugiadose. Giacea il suo bel corpo abbandonato sopra un sofá. Un braccio le sosteneva la testa, e l’altro pendea mollemente. Io la ho piú volte veduta a passeggiare e a danzare; mi sono sentito sin dentro l’anima e la sua arpa e la sua voce, e l’ho adorata pien di spavento, come se l’avessi veduta discendere dal paradiso. Ma cosí bella come oggi, io non l’ho veduta mai, mai. Le sue vesti mi lasciavano travedere i contorni di quelle angeliche forme; e l’anima mia le contemplava, e (che posso dirti?) tutto il furore e l’estasi dell’amore mi aveano infiammato e rapito fuori di me. Io toccava come un divoto e le sue vesti e le sue chiome odorose, e il mazzetto di fiori ch’ella aveva [p. 305 modifica] in mezzo al suo seno; sí, sí sotto questa mano, divenuta sacra, ho sentito palpitare il suo cuore. Io respirava gli aneliti della sua bocca socchiusa, io stava per succhiare tutta la voluttá di quelle labbra celesti... Un suo bacio! e avrei benedette le lagrime che da tanto tempo bevo per lei. Ma allora allora io l’ho sentita sospirare fra il sonno: mi sono arretrato, respinto quasi da una mano divina. T’ho insegnato io forse ad amare ed a piangere? E cerchi tu un breve istante di sonno, perché ti ho turbate le tue notti innocenti e tranquille? A questo pensiero me lo sono prostrato davanti immobile immobile, rattenendo il sospiro...; e sono fuggito, per non ridestarla alla vita angosciosa in cui geme. Non si querela, e questo mi strazia ancor piú; ma quel suo viso sempre piú mesto, e quel guardarmi con tanta pietá, e tremare sempre al nome di Odoardo, e sospirare sua madre... Ah! il cielo non ce l’avrebbe conceduta, se non dovesse anch’ella partecipare del dolore. Eterno Iddio! esisti tu per noi mortali, o sei tu padre snaturato verso le tue creature?

So che, quando hai mandato su la terra la virtú, tua figliuola primogenita, le hai dato per guida la sventura. Ma perché poi lasciasti la giovinezza e la beltá cosí deboli da non poter sostenere le discipline di sí austera istitutrice? In tutte le mie afflizioni ho alzato le braccia sino a te, ma non ho osato né mormorare né piangere: ahi, adesso! E perché farmi conoscere la felicitá, s’io doveva bramarla si fieramente e perderne la speranza per sempre?... Per sempre! No, no, Teresa è mia, tutta; tu me l’hai conceduta, perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente.

13 maggio.

S’io fossi pittore! quale ricca materia al mio pennello! L’artista, immerso nella idea deliziosa del bello, addormenta o mitiga almeno tutte le altre passioni. Ma se anche fossi pittore? Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella, e talvolta anche la schietta natura; ma la natura somma, immensa, inimitabile non l’ho veduta dipinta mai. Omero, Dante e Shakespeare, i tre maestri di [p. 306 modifica] tutti gl’ingegni sovrumani, hanno investito la mia immaginazione ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi, e ho adorato le loro ombre divine, come se le vedessi assise su le vòlte eccelse che sovrastano l’universo a dominare l’eternitá. Pure gli originali che mi vedo davanti mi riempiono tutte le potenze dell’anima; e non oserei, Lorenzo, non oserei, s’anche si trasfondesse in me Michelangelo, tirarne le prime linee. Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera, ti compiaci forse della tua creazione? Tu mi hai versato, per consolarmi, una fonte inesausta di piacere, ed io l’ho guardata sovente con indifferenza. Su la cima del monte indorato dai pacifici raggi del sole che va mancando, io mi veggo accerchiato da una catena di colli, sui quali ondeggiano le messi e si scuotono le viti, sostenute in ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre crescendo, come se gli uni fossero imposti sugli altri. Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burroni infecondi, fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera, che a poco a poco s’innalzano: il fondo oscuro e orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l’aria è signoreggiata dal bosco, che sovrasta e offusca la valle, dove pascono al fresco le pecore, e pendono dall’erta le capre svagate. Cantano flebilmente gli uccelli, come se piangessero il giorno che muore, mugghiano le giovenche, e il vento pare che si compiaccia del susurrar delle fronde. Ma da settentrione si dividono i colli e s’apre all’occhio una interminabile pianura: si distinguono ne’ campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone; e, mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena all’affaticata famigliuola, fumano le lontane ville ancor biancicanti e le capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la vecchierella, che stava filando su la porta dell’ovile, abbandona il lavoro e va carezzando e fregando il torello e gli agnelletti, che belano intorno alle loro madri. La vista intanto si va dilungando, e, dopo lunghissime file di alberi e di campi, termina nell’orizzonte, dove tutto si minora e si confonde. Lancia il sole partendo pochi raggi, come se quelli [p. 307 modifica] fossero gli estremi addio che dá la natura; le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e squallide finalmente si abbuiano: allora la pianura si perde, l’ombre si diffondono su la faccia della terra; ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non vedo che il cielo.

Ier sera appunto, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla notte, ed io non sentiva che il canto della villanella e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e, mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione piú sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, ed un senso d’umanitá trasse i miei sguardi sul cimiterio, dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa. — Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiú; tutto si trasforma e si riproduce. Umana sorte! men infelice degli altri chi non la teme! — Spossato, mi sdraiai boccone sotto il boschetto dei pini, e in quella muta oscuritá mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicitá, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura, dove io m’andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva, perché avea bisogno di consolazione...; e ne’ miei singhiozzi io invocava Teresa.

Udii un calpestio fra gli alberi; e mi parea d’intendere bisbigliare alcune voci. Mi sembrò poi di vedere Teresa con sua sorella. Impaurite, a prima vista fuggivano. Io le chiamai per nome, e la Isabellina, riconosciutomi, mi si gittò addosso con mille baci. M’alzai. Teresa s’appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni lungo la riva del fiumicello sino al lago de’ cinque fonti. E lá ci siamo quasi di consenso fermati a mirar l’astro di Venere che ci lampeggiava sugli occhi. — Oh! — diss’ella, con quel dolce entusiasmo tutto suo — credi tu che il [p. 308 modifica]

Petrarca non abbia anch’egli visitato sovente queste solitudini, sospirando fra le ombre pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi, io me lo dipingo qui, malinconico, errante, seduto sul tronco di un albero, pascersi de’ suoi mesti pensieri e volgersi al cielo, cercando con gli occhi lagninosi lo spirito di Laura. Io non so come quell’anima tutta celeste abbia potuto sopravvivere in tanto dolore e fermarsi fra le miserie de’ mortali: oh, dolce amico! quando s’ama davvero! — Ella mi stringeva la mano, e io mi sentiva il cuore che non voleva starmi piú in petto. — Sí! angelo tu sei nato per me; — ed io non so come ho potuto soffocare queste parole, che mi scoppiavano dalle labbra.

Ella saliva la collina, ed io la seguitava. Le mie facoltá erano tutte di Teresa; ma la tempesta, che le aveva agitate, era alquanto cessata. — Tutto è amore — diss’io: — l’universo non è che amore! E chi mai lo ha sentito, o meglio dipinto del Petrarca? Adoro, come divinitá, que’ pochi geni, che si sono innalzati sopra gli altri mortali, ma il Petrarca io... l’amo; e, mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. — Teresa mi rispose con un sospiro.

La salita l’aveva stancata. — Riposiamo — diss’ella. L’erba era umida, ed io le mostrai un gelso poco lontano. Il piú bel gelso che mai. È alto, solitario, frondoso: fra’ suoi rami v’ha un nido di cardellini. Ah! vorrei poter innalzare sotto l’ombre di quel gelso un altare! La ragazzina intanto ci aveva lasciati, saltando su e giú, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che andavano aleggiando. Teresa giaceva sotto il gelso, ed io, seduto vicino a lei, con la testa appoggiata al tronco, le recitava le odi di Saffo. Sorgeva la luna... oh!...

Perché, mentre scrivo, il mio cuore batte sí forte? Beata sera! [p. 309 modifica]

14 maggio, ore 11.

Sí Lorenzo! odilo. La mia bocca è umida ancora di un bacio di Teresa e le mie guance sono state innondate dalle sue lagrime. Mi ama, si... mi ama! Lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l’estasi di questo momento di paradiso.

14 maggio, a sera.

Oh, quante volte ho ripigliata la penna, e non ho potuto continuare! Mi sento un po’ calmato e torno a scriverti. Teresa giacea sotto il gelso... io le recitava le odi di Saffo... Ma come poss’io dipingerti quell’istante divino? Ella mi ama, sí... mi ama. A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso dell’universo, io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci. Deh! a che non venne la morte? E l’ho invocata. Sí, ho baciato Teresa!

I fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose si abbellivano allo splendore della luna, che era tutta piena della luce infinita della divinitá. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore. Ho baciata e ribaciata quella mano, e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse, mormoravano su le mie. Ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno, quasi atterrita:, chiamò sua sorella, e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti; ma non ho ardito né chiamarla, né scongiurarla. La sua virtú mi avea spaventato, e Teresa mi sembrava sacra. Me le sono accostato tremando. — Non posso essere vostra mai! — Ella pronunciò queste parole da! cuore profondo e con un’occhiata, con cui parea rimproverarmi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò piú; né io avea piú coraggio di dirle una parola. Giunta alla [p. 310 modifica] porta del giardino, mi prese di mano la Isabellina, e, lasciandomi:— Addio! — diss’ella; e, rivolgendosi dopo pochi passi: — Addio! —

Io rimasi estatico; avrei baciate l’orme de’ suoi piedi. Pendeva un suo braccio, e i suoi capelli, rilucenti al raggio della luna, svolazzavano mollemente; ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti, che da lontano ancor biancheggiavano; e, poiché l’ebbi perduta io tendeva l’orecchio, sperando di udir la sua voce. Partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all’astro di Venere: era anch’egli sparito.

15 maggio.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono piú sublimi e ridenti, il mio aspetto piú gaio, il mio cuore piú compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’miei sguardi; il lamentar degli augelli e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi piú soavi che mai; le piante si fecondano e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo piú gli uomini, e tutta la natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la stessa Beltá, io, sdegnando ogni modello terreno, la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi, che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle piú tarde generazioni, spronandole, con le voci e co’ pensieri spirati dai numi, ad altissime imprese; tu raccendi ne’ nostri petti la sola vera virtú utile a’ mortali, la pietá, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri; e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il sole stesso malefico; e il mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure, io rido delle minacce della fortuna e rinunzio alle lusinghe [p. 311 modifica] dell’avvenire... O Lorenzo! sto spesso sdraiato su la riva del lago de’ cinque fonti: io mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che, alitando, sommovono l’erba e allegrano i fiori e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? Io, delirando deliziosamente, mi veggo dinanzi le ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le muse e l’amore; e fuor dei rivi, che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto, con le chiome stillanti, sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti, le naiadi, amabili custodi delle fontane. — Illusioni! — grida il filosofo. E non è tutta illusione? tutto! Beati gli antichi, che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo, che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie, che diffondeano lo splendore della divinitá su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il Bello ed il Vero accarezzando gli idoli della lor fantasia! «Illusioni»! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore o (che mi spaventa ancor piú) nella rigida e noiosa indolenza; e, se questo cuore non vorrá piú sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani e lo caccerò come un servo infedele.

21 maggio.

Oimè, che notti lunghe, angosciose! 11 timore di non rivederla mi desta: divorato da un sentimento profondo, ardente, smanioso, sbalzo dal letto al balcone, e non concedo riposo alle mie membra nude aggrezzate, se prima non discerno su l’oriente un raggio di giorno. Corro palpitando al suo fianco, e, stupido! soffoco le parole e i sospiri; non concepisco, non odo: il tempo vola, e la notte mi strappa da quel soggiorno di paradiso. Ahi lampo! tu rompi le tenebre, splendi, passi ed accresci il terrore e l’oscuritá...

25 maggio.

Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicitá; tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell’anima, e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue [p. 312 modifica] creature perseguitate ed afflitte. Mia cara amica! i! tuo sepolcro beva almeno queste lagrime, solo tributo ch’io posso offrirti; le zolle, che ti nascondono, sieno coperte di poca erba. Tu, vivendo, speravi da me qualche conforto; eppure non ho potuto nemmeno prestarti gli ultimi uffici. Ma ci rivedremo, sí!

Quand’io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera fanciulla, certi presentimenti mi gridavano dal cuore profondo: — Ella è morta. — Pure, se tu non me ne avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai; perché, e chi si cura della virtú, quand’ella è avvolta nella povertá? Spesso mi sono posto a scriverle. M’è caduta la penna e ho bagnata la carta di lagrime: temeva ch’ella mi raccontasse i suoi martiri e mi destasse nel cuore una corda la cui vibrazione non sarebbe cessata sí tosto. Purtroppo! noi sfuggiamo d’intendere i mali de’nostri amici: le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di porgere il conforto delle parole, sí caro agli infelici, quando alle parole non si può unire un soccorso vero e reale. Ma fors’ella mi annoverava fra la turba di coloro, che, ubbriacati dalla prosperitá, abbandonano gli sventurati. Lo sa il cielo! Frattanto Dio ha conosciuto ch’ella non poteva reggere piú. «Egli tempera i venti in favore dell’agnello recentemente tosato». e tosato al vivo!

Tornerò, Lorenzo: conviene ch’io esca. Il mio cuore si gonfia e geme come se non volesse starmi piú in petto: su la cima di un monte mi sembra d’essere alquanto piú libero; ma qui, nella mia stanza, sto quasi sotterrato in un sepolcro.

Sono salito su la piú alta montagna. I venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole... Nella terribile maestá della natura la mia anima, attonita e sbalordita, ha dimenticati i suoi mali ed è tornata per alcun poco in pace con se medesima.

Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente, vi sto pensando, m’ingombrano il cuore, s’affollano, si confondono, non so piú da quale io mi debba incominciare: poi tutto ad un tratto mi sfuggono, ed io prorompo in un pianto dirotto. [p. 313 modifica]

Vado correndo come un pazzo senza saper dove e perché: non m’accorgo, e i miei piedi mi strascinano fra i precipizi. Io domino le valli e le campagne soggette: magnifica ed inesausta natura! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte. Vo salendo, e sto li ritto, anelante. Guardo all’ingiú: ahi voragine! Alzo gli occhi inorridito, e scendo precipitoso appiè del colle, dove la valle è piú fosca. Un boschetto di giovani querce mi protegge dai venti e dal sole; due rivi d’acqua mormorano qua e lá sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo... Ho sgridato un pastore, che era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la morte di quei deboli innocenti...: dovevano essere forse venduti per una meschina moneta. Cosí va! Ma io l’ho compensato del guadagno che sperava di trarne, ed egli mi ha promesso di non disturbare piú i rosignuoli. E lá io mi riposo. Dove se’ ito, o buon tempo di prima? La mia ragione è malata e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la sua infermitá! Quasi quasi... O povera Lauretta! tu forse mi chiami.

Tutto, tutto quello ch’esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Caro amico! fra le rupi la morte mi era spavento, e all’ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo la realtá a nostro modo; i nostri desidèri si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che, vestito diversamente, ci annoia; e le nostre passioni non sono, in fine del conto, che gli effetti delle nostre illusioni. Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. Oh! come io scorreva teco queste campagne, aggrappandomi or a questo or a quell’arbuscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva e che dopo un’ora non erano piú, e riponendo tutte le mie speranze ne’ giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! E chi m’assicura che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti il mio cuore, sai che sonno spaventevole è questo ch’io dormo; sai che non altro m’avanza fuorché il pianto e la 3* morte! [p. 314 modifica]

Cosí vaneggio! Cangio voti e pensieri, e quanto la natura è piú bella tanto piú vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m’abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la natura dormiva mortalmente, la mia anima era tranquilla tranquilla!.. Ed ora?

Eppur mi conforto nella speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia etá, che mi verrá rapita dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sará bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del sole, chi salutò la natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care, che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscuritá della morte.

M’affaccio al balcone, ora che la divina luce del sole si va spegnendo e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che balenano su l’orizzonte; e nella opacitá del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione, divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de’ pini piantati dal mio buon padre su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da’ venti la pietra della mia fossa. Quivi ti vedo venir con mia madre, e pregar pace all’ombra dell’infelice figliuolo. Allora dico a me stesso: — Forse Teresa verrá solitaria su l’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie e a dirmi un altro addio. — No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterá le mani nella mia sepoltura e scompiglierá il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti... forse; non mi difendere, Lorenzo: rispondi soltanto: — Egli era uomo, e infelice. [p. 315 modifica]

26 maggio.

Egli viene, Lorenzo..., egli viene.

Scrive dalla Toscana, dove si fermerá venti giorni; e la lettera è in data de’ 18 maggio: fra due settimane al piú, dunque!

27 maggio.

E penso: — Ed è pur vero che questo angelo de’ cieli esista qui, in questo basso mondo, fra noi? E sospetto d’essermi innamorato della creatura della mia fantasia.

E chi non avrebbe voluto amarla anche infelicemente? E dov’è l’uomo cosí avventuroso, col quale io degnassi di cangiare questo mio stato lagrimevole? Ma come io posso, d’altronde essere tanto inimico di me per tormentarmi? Lo sa il cielo. Senza niuna speranza? Forse! un certo orgoglio in costei della sua bellezza e delle mie angosce. Non mi ama e la sua compassione coverá un tradimento. Ma quel suo bacio celeste, che 15. mi sta sempre su le labbra e che mi domina tutti i pensieri?

E quel suo pianto? Ahi! che dopo quel momento ella mi sfugge, né osa guardarmi piú in faccia. Seduttore! io? E, quando mi sento tuonare nell’anima quella tremenda sentenza: — Non sarò vostra mai, — io passo di furore in furore, e medito delitti di sangue. Non tu, divina fanciulla; io solo, io solo ho tentato il tradimento, e l’avrei consumato.

Oh! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a’ miei sogni e a’ miei soavi deliri: io ti morrò a’ piedi, ma tuo, tutto. Tu, se non potrai essermi sposa, mi sarai almeno compagna nel sepolcro. Ah, no! la pena di questo amore fatale si rovesci sopra di me. Ch’io pianga per tutta l’eternitá; ma che il cielo, o Teresa, non ti faccia per mia cagione infelice! Ma intanto io ti ho perduta, e tu mi t’involi, tu stessa. Ah, se tu mi amassi com’io t’amo!

Eppure, o Lorenzo, in sí fieri dubbi e in tanti tormenti, ogni volta ch’io domando consiglio alla mia ragione, ella mi conforta, dicendomi: — Tu non se’ immortale. — Or via, soffriamo [p. 316 modifica] dunque, e sino agli estremi. Uscirò, uscirò dall’inferno della vita; e basto io solo. A questa idea rido e della fortuna e degli uomini e della stessa onnipotenza di Dio.

28 maggio.

Spesso io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il cielo, e il sole, e l’oceano, e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma, se anche in mezzo a tanta rovina io potessi stringere un’altra volta Teresa, un’altra volta soltanto, fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato.

29 maggio, all’alba.

Oh illusione! perché, quando ne’ miei sogni quest’anima è un paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e...; perché mi trovo poi un vuoto, un vuoto di tomba? Almen que’ beati momenti non fossero mai venuti o non fossero fuggiti mai! Questa notte io cercava brancicando quella mano che me l’ha strappata dal seno: mi parca d’intendere da lontano un suo gemito; ma le coltri molli di pianto, i miei capelli sudati, il mio petto ansante, la fitta e muta oscuritá tutto tutto mi gridava: — Infelice, tu deliri! — Spaventato e languente, mi sono buttato boccone sul letto, abbracciando il guanciale e cercando di tormentarmi nuovamente e d’illudermi.

Se tu mi vedessi stanco, squallido, taciturno errar su e giú per le montagne e cercar di Teresa, e temer di trovarla, sovente brontolar fra me stesso, chiamare, pregarla, e rispondere alle mie voci! Arso dal sole, mi caccio sotto ad una macchia e m’addormento o vaneggio. Ahi! che sovente la saluto come se la vedessi, e mi pare di stringerla e di baciarla... Poi tutto svanisce, ed io tengo gli occhi inchiodati sui precipizi di qualche dirupo. Sí! conviene ch’io la finisca. [p. 317 modifica]

29 maggio, a sera.

Fuggir, dunque, fuggire: ma dove? Credimi, io mi sento malato: appena reggo questo misero corpo per potermelo strascinare sino alla villa, e confortarmi in quegli occhi divini, e bere un altro sorso di vita, forse ultimo! Ma senza di ciò vorrei piú questo inferno?

Oggi l’ho salutata per andarmene a desinare: sono partito, ma non poteva scostarmi dal suo giardino, e (lo credi?) la sua vista mi dá soggezione. Vedendola poi scendere con sua sorella, ho tentato di tirarmi sotto una pergola e di fuggirmene, La Isabellina ha gridato: — Viscere mie, viscere mie, non ci avete vedute? — Colpito quasi da un fulmine, mi sono precipitato sopra un sedile: la ragazza mi s’è gettata al collo, carezzandomi e dicendomi all’orecchio: — Perché piangi? — Non so se Teresa m’abbia guardato: sparí dentro un viale. Dopo mezz’ora tornò a chiamare la ragazza, che stava ancora fra le mie ginocchia, e m’accorsi che le sue pupille erano rosse di pianto. Non mi parlò, ma mi ammazzò con un’occhiata, quasi volesse dirmi: — Tu mi hai ridotta cosí misera!

2 giugno.

Ecco tutto ne’ suoi veri sembianti. Ahi! non sapeva che in me s’annidasse questo furore, che m’investe, m’arde, mi annienta, eppur non mi uccide. Dov’è la natura? Dov’è la sua immensa bellezza? Dov’è l’intreccio pittoresco de’colli, ch’io contemplava dalla pianura, innalzandomi con l’immaginazione nelle regioni dei cieli? Mi sembrano rupi nude, e non veggo che precipizi. Le loro falde, coperte di ombre ospitali, mi son fatte noiose: io vi passeggiava un tempo fra le ingannevoli meditazioni della nostra debole filosofia. A qual pro, se ci fanno conoscere le nostre infermitá, né porgono i rimedi da risanarle? Oggi io sentiva gemere la foresta ai colpi delle scuri; i contadini atterravano i roveri di duecento anni: tutto père quaggiú! tutto. [p. 318 modifica]

Guardo le piante ch’una volta scansava di calpestare, e mi arresto sovr’esse e le strappo e le sfioro, girandole fra la polvere rapita dai venti. Gemesse con me l’universo!

Sono uscito assai prima del sole, e, correndo attraverso de’ solchi, cercava nella stanchezza del corpo qualche sopore a quest’anima tempestosa. La mia fronte era tutta sudore, e il mio petto ansava con difficile anelito. Soffia il vento della notte e mi scompiglia le chiome ed agghiaccia il sudore che grondavano dalle guance. Oh! da quell’ora mi sento per tutte le membra un brivido, le mani fredde, le labbra livide e gli occhi erranti fra le nuvole della morte.

Almeno costei non mi perseguitasse con la sua immagine, ovunque io vada, a piantarmisi faccia a faccia... Perch’ella, o Lorenzo, perch’ella mi muove qui dentro un terrore, una disperazione, una rabbia, una gran guerra... E medito talor di rapirla e di strascinarla con me nei deserti, lungi dalla prepotenza degli uomini. Ahi sciagurato! Mi percuoto la fronte e bestemmio. Partirò, partirò.


LORENZO A CHI LEGGE

Tu forse, o lettore, sei divenuto amico dell’infelice Iacopo, e brami di sapere la storia della sua passione; onde io, per narrartela, andrò di qui innanzi interrompendo la serie di queste lettere.

La morte di Lauretta accrebbe la sua malinconia, fatta ancora piú nera per l’imminente ritorno di Odoardo. Dimagrato, sparuto, con gli occhi incavati, ma spalancati e pensosi, la voce cupa, i passi tardi, andava per lo piú inferraiuolato, senza cappello, e con le chiome giú per la faccia; vegliava le notti intere girando le campagne, e il giorno fu spesso veduto dormire sotto qualche albero.

In questa, tornò Odoardo in compagnia di un giovine pittore che ripatriava da Roma. Quel giorno stesso incontrarono Iacopo. Odoardo gli si fe’ incontro abbracciandolo; Iacopo quasi sbigottito si arretrò. Il pittore gli disse che, avendo udito a parlare di lui e dei suoi talenti, da gran tempo bramava di conoscerlo. Ei lo interruppe: — Io? sono un infelice... — si ravvolse nel suo tabarro, [p. 319 modifica] si cacciò fra gli alberi e sparí. Odoardo si dolse di questo contegno col padre di Teresa, il quale giá incominciava a travedere la passione di Iacopo.

Teresa, dotata di una indole meno risentita, ma passionata ed ingenua, propensa a una affettuosa malinconia, priva nella solitudine d’ogni altro amico di cuore, nell’etá in cui parla in noi la dolce necessitá di amare e di essere riamati, incominciò a confidare a Iacopo la sua anima, e a poco a poco se ne innamorò: ma non osava confessarlo a se stessa; e dopo la sera di quel bacio fatale viveva riservata, sfuggendo l’amante e tremando alla presenza del padre. Allontanata da sua madre, senza consiglio e senza conforto, atterrita del suo stato futuro e combattuta dalla virtú e dall’amore, divenne solitaria, non parlava quasi mai, leggeva sempre, trascurava e il disegno e la sua arpa e il suo abbigliamento, e fu spesso sorpresa dai famigliari con le lagrime agli occhi. Sfuggiva la compagnia delle giovinette sue amiche, che a primavera villeggiavano a’ colli Euganei; e, dileguandosi a tutti e alla sua stessa sorellina, sedeva molte ore ne’ luoghi piú ombrosi del suo giardino. Regnava quindi in quella casa un silenzio e una certa diffidenza, che turbarono lo sposo, trafitto anche dai modi sdegnosi di Iacopo, incapace di simulazione. Naturalmente parlava con enfasi; e, sebbene conversando fosse taciturno, fra’ suoi pochi amici era loquace, pronto al riso e ad una allegria schietta, eccessiva. Ma in que’ giorni le sue parole ed ogni suo atto erano veementi e amari come la sua anima. Instigato una sera da Odoardo, che giustificava il trattato di Campoformio, si pose a disputare, a gridare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa e a piangere d’ira. Avea sempre un’aria assoluta; ma il signore T*** mi raccontava ch’egli allora o stava sepolto ne’ suoi pensieri, o, se discorreva, s’infiammava d’improvviso, i suoi occhi metteano paura, e talvolta fra il discorso gli abbassava inondati di pianto. Odoardo si fe’ piú circospetto, e sospettò la cagione del cangiamento di Iacopo.

Cosí passò tutto giugno. Il povero giovine diveniva ognora piú tetro ed infermo; né scriveva piú alla sua famiglia, né rispondeva alle mie lettere. Spesso fu veduto da’ contadini cavalcare a briglia sciolta per luoghi scoscesi, e in mezzo alle fratte, e a traverso de’ fossi; ed è maraviglia com’ei non sia pericolato. Una mattina il pittore, stando a ritrarre la prospettiva de’ monti, udí la sua voce fra il bosco: gli si accostò di soppiatto, e intese ch’ei declamava [p. 320 modifica] una scena del Saule. Allora gli riuscí di disegnare il ritratto dell’Ortis, che sta in fronte a questa edizione, appunto quand’ei si soffermava pensoso dopo avere proferito que’ versi dell’atto II. scena I:

 . . . . . .Precipitoso
giá mi sarei fra gl’inimici ferri
scagliato io da gran tempo, avrei giá tronca
cosí la vita orribile ch’io vivo.

Poi lo vide arrampicarsi sino alla cima della montagna, guardare all’ingiú risolutamente, con le braccia aperte, e tutto ad un tratto rinculare, sciamando: — O madre mia! —

Una domenica rimase a pranzo in casa T***. Pregò Teresa perché suonasse, e le porse l’arpa egli stesso. Mentr’ella incominciava a suonare, entrò suo padre e s’assise a canto a lei. Iacopo parea innondato da una deliziosa mestizia, e il suo aspetto si andava rianimando; ma poi a poco a poco chinò la testa e ricadde in una malinconia piú compassionevole di prima. Teresa lo sogguardava e sforzavasi di reprimere il pianto: Iacopo se n’avvide, né potendosi contenere, s’alzò e parti. Il padre, intenerito, si volse a Teresa, dicendole: — O figlia mia, tu vuoi dunque precipitarti? — A queste parole le sgorgarono d’improvviso le lacrime; si gettò fra le braccia di suo padre, e gli confessò... In questa, entrava Odoardo a chiamare a tavola; e l’atteggiamento di Teresa e il turbamento del signore T*** lo raffermarono ne’ suoi dubbi. Queste cose le ho udite dalla bocca di Teresa.

Il dí seguente, che fu la mattina de’ 7 luglio, Iacopo andò da Teresa, e vi trovò lo sposo e il pittore, che le faceva il ritratto nuziale. Teresa, confusa e tremante, uscí in fretta come per badare a qualche cosa che si era dimenticata; ma, passando davanti a Iacopo, gli disse ansiosamente e sottovoce: — Mio padre sa tutto. — Egli non fe’ motto, ma passeggiò tre o quattro volte su e giú per la stanza, ed uscí. Per tutto quel giorno non si lasciò vedere ad anima vivente. Michele, che lo aspettava a desinare, Io cercò invano sino a sera. Non si ridusse a casa che a mezzanotte suonata. Si gettò vestito sul letto, e mandò a dormire il ragazzo. Poco dopo, s’alzò e scrisse. [p. 321 modifica]

mezzanotte.

Io porgeva alla divinitá i miei ringraziamenti e i miei voti, ma io non l’ho mai temuta. Eppure adesso, che sento tutto il flagello della sventura, io la temo e la supplico.

Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte.

È vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo, diverso da questo dove mangiano un pane amaro e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtú, sempre infelice quaggiú, persevera con la speranza di un premio. Ma sciagurati coloro che, per non essere scellerati, hanno bisogno della religione!

Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquá, perché io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore.

Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessitá della solitudine, delle lagrime e di una chiesa!

ore 2.

Il cielo è tempestoso, le stelle rare e pallide, e la luna, mezza sepolta fra le nuvole, batte con raggi lividi le mie finestre.

all’alba.

Lorenzo, non odi? T’invoca l’amico tuo. Qual sonno! Spunta un raggio di giorno, e forse per inasprire i miei mali; Dio non mi ode. Mi condanna anzi ogn’istante all’agonia della morte, e mi costringe a maledire i miei giorni, che pur non sono macchiati di alcun delitto.

Che? Se tu se’ «un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquitá de’ padri nei figli e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione»10, dovrò io sperar di placarti? No. [p. 322 modifica]

Manda in me l’ira tua, con la quale siedi nell’inferno, «soffiando le fiamme»11, che dovranno ardere milioni e milioni di popoli ai quali non ti se’ fatto conoscere.

Ahi! sento pure che ho bisogno di te. Ma spogliati degli attributi di cui gli uomini t’hanno vestito per farti simile a loro. Non se’ tu il padre della natura e il consolatore degli afflitti? E il tuo Figlio divino non si chiamava egli il «Figlio dell’uomo»? Odimi dunque. Questo cuore ti sente; ma non t’offendere di queste lagrime che la natura dimanda all’uomo. Io non mormoro contro di te. Piangendo e invocandoti, cerco soltanto di liberare quest’anima. Di liberarla? Oh non mai: ella è piena, ma non di te. Né spera né desidera che Teresa: e ti vedo in lei sola.

Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Io non l’ho adorato mai come Teresa. Bestemmia! Pari a Dio costei, che sará a un soffio scheletro e nulla? Vedi l’uomo umiliato. Devo io anteporre Teresa a Dio stesso?... Ah! da lei si spande beltá celeste ed immensa, beltá onnipotente. Io lancio uno sguardo su l’universo; contemplo con occhio attonito l’eternitá; tutto è caos, tutto sfuma e si annulla; Dio stesso mi diventa incomprensibile: ma Teresa mi sta sempre davanti.


Due giorni dopo ammalò. Il padre di Teresa andò a ritrovarlo, e si profittò di quel momento per persuaderlo ad allontanarsi da’ colli Euganei. Discreto e generoso, stimava l’ingegno e l’alta anima di Iacopo, e lo amava come il piú caro amico ch’egli avesse mai avuto. M’assicurò che forse in tempi diversi avrebbe creduto di fare felice sua figlia, sposandola ad un uomo che, se partecipava d’alcuni difetti del suo tempo, aveva, al suo dire, il cuore e le virtú di un altro secolo. Ma Odoardo era ricco, e di una famiglia sotto la cui parentela egli sfuggiva le insidie de’ suoi nemici, che lo accusavano d’avere bramata la verace libertá del suo paese: delitto capitale. Apparentandosi all’Ortis, avrebbe accelerato e la rovina di lui e quella della propria famiglia. Oltre di che, aveva [p. 323 modifica] impegnata la sua fede, e per mantenerla era giunto a dividersi da una moglie a lui cara. Né i suoi affari domestici gli concedevano di accasare Teresa con una gran dote, necessaria alle mediocri sostanze dell’Ortis. Il signore T*** mi scrisse queste cose, e le disse a Iacopo, che le ascoltò pazientemente; ma, quando si udí parlare della dote: — No! — lo interruppe — esule, povero, oscuro a tutto il mondo, mi vorrei sotterrar vivo anziché domandarvi vostra figlia in isposa. Sono sfortunato, ma non vile: io non riconoscerò mai la mia fortuna dalla dote di mia moglie. Vostra figlia è ricca e promessa. — Dunque?— rispose il signore T***. — Iacopo non fiatò; ma rivolse gli occhi al cielo, e dopo molta ora: — O Teresa — esclamò, — sei pure infelice! — O amico mio — gli soggiunse allora amorevolmente il signore T***, — chi la fece infelice, chi, se non voi? Ella per amor mio s’era rassegnata al suo destino, e sola poteva rappacificare una volta i suoi poveri genitori. Vi ha amato; e da quel tempo voi, che pure l’amate con tanta delicatezza, voi stesso rapite a lei uno sposo, e turbate la pace di una famiglia che vi ha sempre guardato qual proprio figliuolo. Arrendetevi; allontanatevi per qualche tempo. Voi forse avreste temuto in me un padre severo: ma purtroppo sono stato anch’io sventurato; ho sentite le passioni e ho imparato a compatirle. Or voi abbiate pietá e di me, e della vostra gioventú, e della fama di Teresa. La sua beltá e la sua salute vanno languendo; la sua anima geme nel dolore, e per voi solo, per voi. Io vi scongiuro in nome di Teresa, partite, sacrificate la vostra passione alla sua felicità; e non vogliate ch’io sia l’amico insieme e il marito, e non fate di me il padre piú misero che sia mai nato. — Iacopo parea intenerito, ma non rispose. Il suo male aggravava, e ne’ di seguenti fu preso da una febbre ardentissima.

Frattanto io, sgomentato e dalle ultime lettere di Iacopo, e da quelle del padre di Teresa, tentava tutte le vie per accelerare la partenza del mio povero amico, solo rimedio alla sua disperata passione. Né ebbi cuore di parlarne a sua madre, che conosceva l’indole di lui capace d’eccessi; e le dissi soltanto ch’egli era un po’ malato e che il cangiamento d’aria gli gioverebbe.

In quel tempo stesso incominciavano a inferocire a Venezia le persecuzioni. Non v’erano leggi, ma tribunali onnipotenti: non accusatori, non difensori; bensí spie di pensieri, delitti ignoti, pene súbite, inappellabili. I piú sospetti gemevano in carcere; gli altri, benché d’antica ed onesta fama, erano tratti di notte dalle [p. 324 modifica] proprie case, manomessi dagli sgherri, trascinati a’ confini e abbandonati alla ventura, senza l’addio de’ congiunti e destituti d’ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l’esilio scevro da questi modi violenti ed infami fu somma clemenza. Ed io pure, tardo ma S non ultimo martire, vo da piú mesi profugo per l’Italia, volgendo senza niuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Quind’io allora, tremante anche per la sicurezza di Iacopo, persuasi sua madre, quantunque desolata, a scrivergli perché sino a tempi migliori cercasse asilo in qualche altro paese; tanto piú che, quando ei lasciò Padova, le si scusò allegando gli stessi timori. Fu affidata la lettera a un servo, il quale giunse a’ colli Euganei la sera de’ 15 luglio, e trovò Iacopo ancora a letto, sebbene migliorato d’assai. Gli sedeva presso il padre di Teresa. Lesse la lettera sommessamente, e la posò sul guanciale: poco dopo la rilesse assai commosso, ma non ne parlò.

Il di 19 s’alzò. In quel giorno stesso sua madre gli riscrisse, inviandogli danari, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo per le viscere di Dio perch’ei partisse. Quel dopo pranzo andò da Teresa; e non trovò che l’Isabellina, la quale tutta intenerita contò ch’ei s’assise muto, s’alzò, la baciò e discese. Tornò dopo un’ora, e salendo le scale la incontrò di nuovo; e se la strinse al petto, la baciò piú volte e la bagnò di lagrime: si pose a scrivere, cangiò parecchi fogli, e li stracciò poi tutti. Si aggirò pensieroso per l’orto. Un servo, passandovi su rimbrunire, lo vide sdraiato: ripassando, lo trovò ritto su la porta in atto d’uscire, e con la testa rivolta attentamente verso la casa, ch’era battuta dalla luna.

Tornato a casa, rimandò il messo, rispondendo a sua madre che domani all’alba partiva.Fece ordinare i cavalli alla posta piú vicina: prima di coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa e la consegnò all’ortolano. All’alba partí.

dore 9.

Perdonami, Teresa: io ho funestato i tuoi giorni e la pace della tua famiglia; ma fuggirò... sí! Io non credeva di avere tanta costanza. Ti posso lasciare senza morir di dolore a’ tuoi piedi, e non è poco: usiamo di questo momento, sinché il cuore mi regge e la ragione non mi abbandona affatto. Ma la mia [p. 325 modifica] anima è tutta sepolta nel solo pensiero di amarti sempre sempre e di piangerti. Se tu il vuoi, io mi renderò sacro il dovere di non piú scriverti; seppellirò nel mio cuore i miei gemiti...: ma io non ti vedrò, no, mai piú... Oggi t’ho cercato invano per darti l’estremo addio. Ah! soffri soltanto, o mia Teresa, queste ultime righe, ch’io bagno delle piú amare lagrime. Mandami, in qualunque tempo, in qualunque luogo, il tuo ritratto. Se l’amicizia, se l’amore, se la compassione ti parlano ancora per questo sconsolato, non negarmi il piacere che addolcirá tutti i miei mali. Tuo padre stesso me lo concederá, spero: egli, egli che potrá vederti ed udirti, e sentirsi riconfortato e piangere con te; mentr’io, nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, annoiato di tutto il mondo, diffidente di tutti, con un piè su la sepoltura, mi conforterò sempre baciando dí e notte la tua sacra immagine; e cosí tu m’infonderai da lontano costanza per sopportare ancora questa mia vita. Farò men angosciose le mie notti e meno tristi i miei giorni solitari, que’giorni ch’io potrò conservare. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio ultimo sospiro, io verserò su te tutta l’anima mia, io ti porterò con me nel mio sepolcro attaccata al mio petto... O angiolo! tu mi hai assistito con tanto affetto nella mia breve malattia: te ne ringrazio di cuore, te ne ringrazio. Ho l’unica lettera che mi scrivesti quando io era Padova: felice tempo! Ma chi l’avrebbe mai detto? Solo è sacro testimonio del mio dolore e dell’amor mio: non mi abbandonerá mai, mai! O mia Teresa! questi son pure deliri: ma sono insieme la sola consolazione di chi è sommamente infelice; ma l’uomo sommamente misero non ha altra consolazione. Addio. Perdonami, mia Teresa..., perdonami. Oimè, io mi credeva piú forte! Scrivo male e di un carattere appena leggibile; ma ti scrivo arso dalla febbre, con l’anima lacerata e il pianto sugli occhi.

Per caritá, non mi negare il tuo ritratto. Consegnalo a Lorenzo. S’io morirò pria ch’egli possa farmelo giungere, lo custodirá come ereditá santa e preziosa, che gli ricorderá sempre e le tue virtú e la tua bellezza e l’ultimo eterno infelicissimo amore del suo misero amico. Addio, addio! Che se la mia languente [p. 326 modifica] salute, se le mie sventure e la mia tristezza mi scavassero la fossa, concedimi ch’io mi renda cara la morte con la certezza che tu m’hai amato. Ahi! adesso io sento tutto il dolore a cui io ti lascio. Oh! potessi morirti vicino, oh! potessi almeno morire ed essere sepolto nella terra che avrá le tue ossa! Addio, non posso piú... Addio.


Tutti quasi i frammenti che seguono erano scritti per la posta in diversi fogli.


Rovigo, 20 luglio.

Io la mirava e diceva a me stesso: — Che sarebbe di me s’io non potessi vederla piú? — e correva a piangere di consolazione, sapendo ch’io le era vicino. E adesso?... Io l’ho perduta.

Cos’è piú l’universo? qual parte della terra potrá sostenermi senza Teresa? E mi pare di esserle lontano, sognando. Ho avuto io tanta costanza? e m’è bastato il cuore di partire cosí senza vederla? Né un bacio, né un solo addio! Tutti i momenti io credo di essere alla porta della sua casa e di leggere nella mestizia del suo volto e di sedere al suo fianco. Io fuggo; e con che velocitá ogni minuto mi porta ognor piú lontano da lei!

E intanto? Quante care illusioni! ma io l’ho perduta. Non so piú obbedire né alla mia volontá, né alla mia ragione, né al mio cuore sbalordito: mi lascio strascinare dal braccio prepotente del mio destino. Addio, addio, Lorenzo...

Ferrara, 20 luglio, a sera.

Io passava il Po e guardava le immense sue acque, e piú volte io fui per precipitarmi e profondarmi e perdermi per sempre. Tutto è un punto! Ah, s’io non avessi una madre cara e sventurata, a cui la mia morte costerebbe amarissime lagrime!

Né finirò cosí da codardo. Sosterrò tutta la mia sciagura; berrò fino all’ultima lagrima il pianto che mi fu assegnato dal mio destino; e, quando le difese saranno vane, disperate tutte [p. 327 modifica] le passioni, tutte le forze consunte, quando io avrò coraggio di mirare la morte in faccia e ragionare tranquillamente con lei ed assaporare l’amaro suo calice..., allora...

Ma ora ch’io parlo non è forse tutto perduto? E non mi resta che la sola rimembranza e la certezza che tutto è perduto. Hai tu provata mai quella piena di dolore, quando ci abbandonano tutte le speranze?

Né un bacio, né un ultimo addio! bensí le tue lagrime mi seguiranno nella mia sepoltura. La mia salute e la mia sorte, il mio cuore, tu... tu!...: insomma tutto congiura, ed io vi obbedirò tutti.

ore...

E ho avuto coraggio di abbandonarla? Anzi ti ho abbandonata, o Teresa, in uno stato piú deplorabile del mio. Chi sará piú il tuo consolatore? E tremerai al solo mio nome, poiché ho calmata la tua sventura.

Non abbiamo piú niun soccorso dagli uomini, niuna consolazione in noi stessi. Omai non so che supplicare il sommo Iddio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare qualche aiuto fuori di questo mondo, dove tutto ci perseguita o ci abbandona. E se gli spasimi e le preghiere e il rimorso, ch’è fatto giá mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ah! tu non saresti cosí infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti. Frattanto nella mia disperazione mortale chi sa in che pericoli tu sei! né io posso difenderti, né rasciugare il tuo pianto, né raccogliere nel mio petto i tuoi secreti, né partecipare delle tue afflizioni. Io non so né dove fuggo, né come ti lascio, né quando potrò piú vederti.


Padre crudele, Teresa esangue tuo! Quell’altare è profanato; la natura ed il cielo maledicono quei giuramenti; il ribrezzo, la gelosia, la discordia ed il pentimento gireranno fremendo intorno a quel letto e insanguineranno forse quei nodi. Teresa è figlia tua; plácati. Ti pentirai forse amaramente, ma invano: fors’ella [p. 328 modifica] un giorno, nell’orrore del suo stato, maledirá i suoi giorni e i suoi genitori, e conturberá con le sue querele le tue ossa nel sepolcro, quando tu non potrai soccorrerla piú. Placati. Oimè! tu non mi ascolti... Dove la strascinate? La vittima è sacrificata! Io odo il suo gemito... il mio nome nel suo ultimo gemito! Barbari! tremate; il vostro sangue, il mio sangue... Teresa sará vendicata... Ahi delirio!...


Ma tu, Lorenzo mio, ché non mi aiuti? Io non ti scriveva, perché un’eterna tempesta d’ira, di gelosia, di vendetta, di amore infuriava dentro di me; e tante passioni mi si gonfiavano nel petto, e mi soffocavano o mi strozzavano quasi. Io non poteva mandare parola, e sentiva il dolore impietrito dentro di me; e questo dolore regna ancora, e mi chiude la voce e i sospiri, e m’inaridisce le lagrime: mi sento mancata gran parte della vita, e quel poco, che pure mi resta, mi pare avvilito dal languore e dalla oscuritá della morte.

E mi adiro sovente di essere partito, e mi accuso di viltá. Perché mai non hanno ardito d’insultare alla mia passione? Se taluno avesse comandato a quella infelice di non vedermi piú, se me l’avessero a viva forza strappata, pensi tu ch’io l’avrei lasciata mai? Ma doveva io pagare d’ingratitudine un padre che mi chiamava «amico», che tante volte commosso mi abbracciava, dicendomi: — E perché la sorte ti ha unito con questi disgraziati? — Poteva io precipitare nel disonore e nella persecuzione una famiglia, che in altre circostanze avrebbe diviso meco e la felicitá e l’infortunio? E che poteva io rispondergli, quand’ei mi diceva, sospirando e pregandomi: — Teresa è mia figlia —? Sí! divorerò nel rimorso e nella solitudine tutti i miei giorni: ma io ringrazierò quella tremenda mano invisibile, che mi rapí da quel precipizio, donde io cadendo avrei strascinata meco nella voragine quella giovinetta innocente. Che? Or non son io seduttore? E non dovrò tõrmele eternamente dagli occhi? Potessi anzi nascondermi a tutto l’universo e piangere le mie sciagure! Ma piangere i mali di quella celeste creatura, e piangerli quando io gli ho esacerbati?... [p. 329 modifica]

Niuno sa quale segreto sta sepolto qui dentro; e questo sudore freddo improvviso, e questo arretrarmi, e il lamento che tutte le sere vien di sotterra e mi chiama, e quel cadavere...

Spunta appena il giorno, ed io sto per partire. Da quanto tempo l’aurora mi trova sempre in un sonno da infermo! La notte non trovo mai posa. Poco fa io spalancava gli occhi, urlando, guatandomi intorno, come se mi vedessi sul capo il manigoldo. Io sento nello svegliarmi certi terrori, simile a quegli sciagurati che hanno le mani calde di delitto. Addio, addio. Parto, e ognor piú lontano. Ti scriverò da Bologna dentr’oggi. Ringrazia mia madre. Pregala perché benedica il suo povero figliuolo. S’ella sapesse tutto il mio stato! Ma taci; su le sue piaghe non aprire un’altra piaga.


Note

  1. Chiamata da’ contadini la campana del De profundis, perché, mentre suona, sogliono recitare questo salmo per le anime de’ trapassati. L’editore. [F.]
  2. Questo è un verso della Bibbia; ma non ho saputo segnatamente trovare donde fu tratto. L’editore. [F.]
  3. Petrarca.
  4. Questo biglietto non si trova piú, conme pure altre lettere. L’editore. [F.]
  5. Petrarca.
  6. Dante, Inf., c. v.
  7. Dame.
  8. Epitteto, Manuale, xxii.
  9. Regum, lib. II, cap. xii, 4.
  10. Esodo, xx, 5.
  11. Malachia, III, 3.