Il ritorno del figlio

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Grazia Deledda

1919 Indice:Deledda - Il ritorno del figlio - La bambina rubata, Milano, Treves. 1919.djvu Letteratura Il ritorno del figlio Intestazione 19 agosto 2018 25% Da definire

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IL RITORNO DEL FIGLIO.

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Fu una sera dell’aprile scorso che il possidente Davide D’Elia, tornandosene in calesse da una sua fattoria, credette di vedere in mezzo alla strada un agnellino sperduto: guardando meglio si accorse che era un bambino, avvolto in una vecchia sciarpa di pelo nero; così piccolo che al sopraggiungere del veicolo non si mosse neppure, tanto che il cavallo stesso, non facendo a tempo a scansarsi, si fermò di botto.

Davide però non era un uomo curioso, né si turbava facilmente: adesso poi, dopo la morte in guerra del suo unico figlio diciottenne, era diventato ancor più duro, col cuore arso da una invincibile ira contro Dio e contro gli uomini. Pensò che il bambino lo avesse deposto lì qualche contadina che lavorava nei dintorni, e tirò le redini perché il cavallo passasse a destra della [p. 4 modifica]strada: ma il cavallo, per la prima volta dacché era suo, non gli obbediva; non andava avanti: sollevava e scuoteva la testa seguendo il movimento delle redini, ma non andava avanti.

Il padrone, tutto agitato dentro il calessino leggero come una grande sedia a ruote, imprecò, tentando almeno di tirarlo indietro: ma il cavallo non intendeva neppure di andare indietro, fermo come se le sue zampe avessero messo radice nel suolo.

Allora Davide gridò al bambino di alzarsi e di scostarsi: la sua voce rude avrebbe intimorito un brigante: la creatura innocente si contentò di sollevare gli occhi. Che occhi! Grandi, pensierosi, di un colore indefinito, fra l’azzurro il bruno e l’oro, brillavano come due piccoli specchi che riflettessero il luminoso cielo del crepuscolo.

Davide non era uomo da commuoversi neppure per questo. Non amava i bambini.

Non amava i bambini: e adesso, con rimorso invano non riconosciuto, ricordava di non aver quasi mai accarezzato e baciato suo figlio quando era piccolo: e questo rimorso, come tutti i rimorsi veri, rincrudiva il suo disamore per tutti gli altri bambini del mondo che non erano suoi. I bambini poveri, poi, li riteneva furbi, intesi per istinto [p. 5 modifica]a destare una pietà che loro profittasse: tutti più o meno mendicanti. Gettava loro una moneta e tirava avanti.

Questa volta, però, suo malgrado è costretto a fermarsi, a interessarsi della creatura abbandonata nella strada: lo impressiona la strana riluttanza del cavallo ad andare avanti, e, in fondo, ricorda ch’egli è un uomo celebrato in tutti quei dintorni per la sua scrupolosità di coscienza e per la più rigida osservanza del suo dovere.

Eppoi è anche sindaco del paese. Suo dovere, dunque, è adesso, di non passare senza essersi assicurato che il bambino è lì momentaneamente deposto da qualcuno che verrà a riprenderlo.

Osservandolo bene gli pare che non sia ancora in età di parlare, sebbene i suoi occhi abbiano qualche cosa di strano, fissi e coscienti; sembrano quelli di un santo o almeno di un uomo saggio.

Antiche superstizioni sfiorano la mente, se non il cuore, del nostro Davide. Egli ricorda di aver letto o sentito raccontare certe leggende nelle quali si afferma che Gesù ama spesso tornare [p. 6 modifica]nel mondo a vagabondare sotto spoglia umana per provare il cuore degli uomini. Perché vi sono cuori abbandonati a sé stessi come terre incolte: basta smuoverli e seminarli perché diano frutto. Ma Davide pensa che il suo cuore è duro perché deve essere duro: e se il bambino misterioso è Colui che tutto vede ne sa il perché: inutile quindi fingere un turbamento che non si sente. Infine, poi, l’uomo veramente frustato dalla sventura non può più amare neppure lo stesso Dio.

Intanto, pensa e ripensa, guarda e riguarda di qua e di là, il tempo passava: era quasi sera e Davide pensava anche a sua moglie che s’inquietava profondamente quando egli tardava a rientrare. Si decise dunque a scendere dal calesse: d’un balzo fu in terra, agile nonostante la sua non più giovane età, col viso, al quale la pelle scura, le labbra grosse e la barba a punta davano un’aria diabolica, minacciosamente chinato sul bambino.

— Ebbene, ti muovi, o non ti muovi, malanno abbia tua madre che ti lascia andar così? [p. 7 modifica]

Ma né questa né altre maledizioni riuscirono a scuotere l’innocente: solo i suoi occhi pensierosi fissavano un po’ inquieti l’uomo irritato: finché l’uomo irritato lo prese e lo tirò su afferrandolo per l’involto di pelo come un animaletto.

Allora le imprecazioni e le bestemmie raddoppiarono, così terribili che pareva oscurassero le cose intorno.

Perché Davide vedeva alcune goccie di sangue cadere dalle gambe scure e dai piedini scalzi del bambino; e ne provava un senso inesprimibile di raccapriccio; quel sangue innocente gli faceva tornare al pensiero Gesù, e il ricordo del suo figliuolo quasi ancora bambino ucciso dall’odio degli uomini.

Si piegò in mezzo alla strada e tenendo davanti a sé dritto il piccolo sconosciuto gli tolse la sciarpa di pelo: e gli pareva davvero di scorticare un agnellino, tanto il vestitino d’un bianco sporco era macchiato di sangue e ricopriva un corpo strano: non era il solito corpo dei bambini sani, polposo e voluttuoso con le sue pieghe e i suoi pomi di carne: era quasi un corpo maturo, nella sua piccolezza, con la pelle aderente alle ossa sottili; quasi limato da una lunga sofferenza interiore: due larghe ecchimosi violette venate di rosso fiorivano sulle piccole ginocchia, [p. 8 modifica]e in mezzo ad un’altra, a metà della gamba destra, una ferita dava sangue.

Davide però s’avvide subito che questa ferita non era grave né prodotta da arma: gli parve piuttosto che il bambino fosse caduto dall’alto, da un cavallo o da un carretto, o vi fosse stato buttato giù. Gli fasciò alla meglio la gamba col fazzoletto pulito che teneva sempre di riserva in saccoccia: poi lo riavvolse nella sciarpa, e lo prese in braccio tentando ancora d’interrogarlo.

E gl’indicava i punti estremi della strada chiedendogli dond’era venuto: di su o di giù? Il bambino, che non s’era lamentato neppure nel sentirsi toccare la ferita, seguiva con gli occhi il movimento del dito del suo salvatore, ma non apriva la bocca pallida.

Veniva voglia di batterlo, di rimetterlo per terra e abbandonarlo al suo destino: e per qualche momento Davide non ebbe altra idea.

Ma non si decideva, ostinandosi a guardare su e giù per la strada in attesa che qualcuno apparisse. Nessuno appariva. La strada saliva dolcemente tra due bordi di rovi e di ginestre fiorite, di là dei quali, in quel punto, neanche a farlo apposta, mentre il resto del versante era coltivato a grano e ad oliveti, si stendeva una zona pietrosa, nuda, deserta. [p. 9 modifica]

Cadeva dunque la supposizione che il bambino fosse stato lì deposto da qualche donna che lavorava nei dintorni. Una stizza pungente finì d’irritare Davide: gli pareva che qualcuno, lì nascosto fra i rovi, lo vedesse col bambino in braccio e si beffasse di lui, ma nello stesso tempo gl’impedisse di rimettere il piccolo sperduto sulla polvere della strada, e abbandonarlo di nuovo.

Cominciò allora a gridare, come chiamando quest’uomo nascosto; l’eco sola rispondeva.

Non c’era altro da fare che prendere il bambino e condurlo in paese e consegnarlo al parroco o ai carabinieri o tenerselo in casa fino a ritrovarne i parenti.

E Davide rimontò sul calesse, adagiandosi bene contro il fianco perché non avesse a cascare un’altra volta quel fagottino nero del quale avrebbe volentieri fatto a meno.

— Andiamo — disse al cavallo, e il cavallo si rimise a trottare rapido per riacquistare il tempo perduto.

Davide adesso lo frenava: voleva esplorare la strada, in cerca di qualche traccia che gl’indicasse la provenienza del bambino; ma su quel tratto di strada pietrosa non si vedevano neppure le impronte delle ruote dei veicoli: quando la strada pianeggiava un poco pareva di camminare [p. 10 modifica]attraverso un mare pietrificato, tanto le distese di roccia erano nude, ondulate, argentee al crepuscolo.

Ma ecco la vita ricomparire: alberelli con le foglie nuove che tremolavano di gioia bevendosi l’ultima luce del giorno s’inseguivano lungo l’orlo della strada, su, su, da una parte e dall’altra fino a confondersi nella svoltata: e attraverso i loro fusti sottili si vedevano le pallide distese del grano, e casupole e capanne nereggiare qua e là, come grandi nidi fra le siepi: di tanto in tanto un sentiero sbucava curioso sulla strada fermandosi a guardare e invitare il passante.

Davide conosceva i luoghi e quasi tutte le persone che l’abitavano; ma l’idea di fermarsi e cominciare un’inchiesta forse inutile lo annoiava; era tardi, e la moglie lo aspettava.

Tirava dunque dritto senza incontrare nessuno. I lumi del paese già apparivano, su, in una insenatura quasi in cima alla collina; pochi lumi rossastri che non riuscivano a illuminare le cose intorno a loro: solo uno brillava vivo come un faro, in alto, sopra il paese: e il cavallo lo fissava, riconoscendolo con gioia: era il fanale che il padrone teneva acceso a sue spese davanti al portone della sua casa. [p. 11 modifica]

Il bambino intanto si era addormentato, con la testina appoggiata alla coscia del suo salvatore; e questi lo sosteneva con cura, ma si difendeva sempre da ogni commozione e non vedeva l’ora di deporlo in qualche posto.

La sua prima idea di condurlo alla caserma dei carabinieri e consegnarlo al brigadiere, adesso però gli sembrava poco umana; o forse aveva paura di sembrare poco umano lui, facendo così.

Meglio andare dal parroco. Ma egli era geloso del parroco, e dei suoi pretini che volevano governare da soli il paese, e in un certo modo vi riuscivano. Consegnare a loro il bambino, che l’avrebbero subito preso come il ragno la mosca nella sua tela, era diminuirsi di autorità.

Il cavallo, intanto, per conto suo proseguiva a trottare verso casa: ecco passata la caserma dei carabinieri, ecco passata la casa comunale, ecco passata la parrocchia, tutte e tre, del resto, attaccate l’una all’altra sull’alto della piazza come tre sorelle rivolte d’intesa a sorvegliare e dominare il paese, disteso umilmente ai loro piedi con le sue case basse, le sue stradette ripide, i suoi orticelli umidi, triste anche nel sonno.

Ma la strada non si fermava lì, e anche Davide non si fermò lì. Chi era al di sopra di ogni potenza del paese era lui; giusto, quindi, che la sua casa [p. 12 modifica]fosse al disopra di tutte, anche della chiesa. Solo un’altra potenza dominava la sua, ma era una potenza morta: la torre in rovina di un antico castello.

La strada si faceva sempre più ripida, illuminata dal chiarore che il fanale versava dall’alto spandendolo anche sulle siepi e gli alberi intorno.

Un odore di erica, un silenzio sempre più fitto dànno l’impressione di andare su in cima a una montagna. E la casa lassù, sul suo spiazzo di pietra, col muro di cinta ricoperto d’edera, il portone ferrato, che dà luce col suo fanale, ma rimane nell’ombra a spiare come con una lanterna cieca, ha più della fortezza che del palazzo.

Un cane abbaiò dentro; poi tacque riconoscendo il rumore del calessino: tuttavia Davide dovette battere tre volte al portone e far sentire anche la sua voce perché qualcuno si decidesse ad aprire.

E chi apriva non si dava fretta: lo si sentiva levare i ganci che assicuravano meglio i battenti del portone, e tirare il paletto e il catenaccio e girare con cautela la chiave nella serratura.

Finalmente uno dei battenti si aprì un poco: apparve, nel vano misterioso, una figurina di vecchia: piccola ma diritta e dura, col viso tutto a punte aguzze circondato da una specie di cappuccio [p. 13 modifica]nero, e un mazzo di chiavi in mano, pareva la custode di un luogo di leggende.

I suoi occhietti neri lucenti come quelli di un uccello distinsero subito l’insolito fagotto che Davide senza lasciarle tempo di domandare di che si trattava, le gettò fra le braccia, quasi di sorpresa e come con l’intenzione di spaventarla un po’ per burla e un po’ sul serio.

— È un bambino, sì, è un bambino — egli disse, aprendo tutto il portone per far entrare il calesse. — L’ho trovato smarrito nello stradone: bada che è ferito. Scostati, Elisabetta! — gridò poi; ma la vecchia rimaneva come impietrita sulla soglia, palpando il misterioso fagotto, e tentando di vederlo meglio alla luce del fanale. Pareva non prestasse fede ai suoi occhi: non domandava spiegazioni, però, e una volta accertatasi che quello che teneva in braccio era proprio un bambino, e che non c’era altro da fare che portarlo dentro, richiuse il portone riassicurandolo col gancio, i catenacci e i paletti, e mentre il padrone staccava il cavallo ella rientrò nella cucina.

Cucina che sembrava una sala; alta, a volta, col pavimento di legno, e cassepanche e madie antiche che parevano mobili di sagrestia.

Una donna ancora giovane ma con gli occhi incavati [p. 14 modifica]sotto le palpebre livide e tutto il viso fino scarno come succhiato in dentro da un’angoscia insaziabile, stava seduta sulla panca davanti al camino acceso: teneva le mani in grembo e anche quelle mani lunghe, pallide, parevano solcate da cicatrici di dolore; tutta la sua attitudine era di chi aspetta pur sapendo che la sua attesa sarà lunga e forse vana.

Era la madre che pensava al suo figliuolo morto.

La sua indifferenza a ogni altra cosa era tale che neppure la vista del bambino che Elisabetta le depose accanto sulla panca la scosse. Solo domandò:

— Di chi è?

— Adesso, adesso glielo dirà il padrone — disse la vecchia serva. Poi non poté tenersi oltre: — È un bambino che il padrone ha trovato sperduto nello stradone: è anche ferito.

Un’altra serva era accorsa dalla stanza attigua e si chinava sulla panca osservando il bambino: anche la padrona si volse un poco a guardarlo, [p. 15 modifica]senza però muover le mani dal grembo: e la vecchia pareva a sua volta godersi la loro curiosità.

— Come ti chiami? Come ti chiami, bello? Non parli? Non ce l’hai la linguetta? Parla, tesoro: non parli davvero?

Il bambino aveva riaperto i grandi occhi serii, ma non rispondeva: la sua attenzione, più che dalle donne, pareva attirata da un uomo coricato su una stuoia, lungo la parete all’angolo del camino; o per meglio dire da due piedi che sbucavano di sotto a un sacco buttato in quell’angolo: due grossi piedi rivestiti di scarponi di cuoio grezzo coi chiodi che luccicavano al fuoco.

L’uomo sotto il sacco pareva dormisse profondamente, perché né l’entrata della vecchia serva col bambino, né le esclamazioni delle donne lo riscuotevano; del resto nessuno badava a lui; solo Davide, nel togliersi il cappotto e il cappello che attaccò lì accanto, lo guardò dall’alto, con fugace attenzione: poi andò a sedersi anche lui sulla panca, vicino a sua moglie.

E dapprima parve contento che la moglie si fosse scossa dal suo torpore doloroso, poi s’irritò perché il bambino, impazientitosi finalmente di tutta la curiosità che destava, contrasse il viso come per ridere e invece si mise a piangere: un pianto [p. 16 modifica]nervoso, desolato, di chi è all’estremo delle sue forze e della sua rassegnazione.

— E dategli qualche cosa da mangiare, piuttosto! Dico a te, Bona; e tu, vecchia cornacchia, non hai un biscotto da dargli?

Le due serve si ritrassero: la stessa Bona, come impaurita dal grido del marito, prese il bambino in grembo e cercò di farlo tacere. Fu portata una tazza di latte, un biscotto, un altro biscotto: questi argomenti furono validi più che tutte le moine delle donne a far chetare il bambino.

Egli prendeva e beveva e mangiava tutto con avidità, stendendo le manine sporche per difender la sua roba come fanno i piccoli gatti gelosi; quando fu un po’ sazio cominciò a battersi una di queste manine sul petto, per significare che tutto ciò che gli davano era buono e gli piaceva; e Bona lo capì subito, perché così faceva anche il suo Eliseo quando era bambino. Anche il marito doveva ricordare vagamente qualche cosa perché guardò il gesto del bambino, poi guardò la moglie e la vide più pallida del solito; allora s’arrabbiò.

— E adesso basta con l’ingozzarlo! Non è un animale, poi! Basta, Bona!

Ella intanto lo sfasciava dalla sciarpa di pelo. [p. 17 modifica]

— Ma è vero ch’è ferito? — domandò con voce sorda: e quando vide il vestitino insanguinato spalancò gli occhi, e le sue pupille si fecero grandi come per un dolore fisico: ma non aggiunse parola.

Il marito raccontava l’avventura: gli sembrava però ch’ella non gli prestasse fede; e neppure molta attenzione, intenta com’era a osservare il bambino, al quale aveva tolto il fazzoletto dalla ferita. Le serve erano di nuovo accorse, una con un catino d’aceto, l’altra con delle pezze di tela: e ben presto, per opera di quelle sei mani pietose, la ferita fu lavata e fasciata di nuovo. Bona passò la pezza inzuppata d’aceto anche sulle gambe insanguinate e sulle ginocchia del bambino che aveva arrovesciato sul suo grembo; poi domandò un panno per asciugarlo.

Il marito raccontava, e diceva la sua intenzione di consegnare il bambino ai preti o al brigadiere: la sua voce era tranquilla, ma d’improvviso stridette di nuovo, irritata, per la ragione che si vedevano come delle goccie d’oro piovere dagli occhi della moglie.

— Non l’ho portato subito dal parroco perché avevo fame. Ho fatto male però. Malissimo. E adesso datemi da mangiare: poi penseremo al da farsi. Voi avete già cenato? [p. 18 modifica]

Avevano già cenato, perch’egli quando tardava a tornare voleva non lo si aspettasse: andò quindi a sedersi davanti alla tavola ancora apparecchiata, nella stanza attigua che pareva il refettorio di un convento tanto era lunga e nuda: e la più vecchia delle donne lo servì.

Un lume ad olio a tre becchi, alto sul suo stelo di rame come un giglio dorato, rischiarava con la sua luce quieta le pareti imbiancate con la calce e la tavola ricoperta di una grossa tovaglia di lino: tutto era antico e primitivo lì intorno: la stessa serva vestiva come un’ancella della Bibbia; ma il suo viso tutto a punte esprimeva una malizia quasi perfida, e il padrone s’accorse subito ch’ella lo guardava aspettando, anzi provocando il momento di dirgli che lei non credeva alla storia del ritrovamento del bambino in mezzo alla strada.

Non credeva mai a nulla di quanto le si raccontava, la vecchia Elisabetta; perché una volta da ragazza, nel tempo dei tempi, era stata ingannata da un uomo. Per conto suo era fidata e sincera; i padroni avevano piena fiducia in lei, tanto che era lei, si può dire, la vera padrona di casa: Davide, anzi, la temeva un poco perch’ella influiva molto sul carattere già melanconico e sognante di Bona. La temeva ma non la rispettava, perché [p. 19 modifica]sapeva che a sua volta Elisabetta non avrebbe abbandonato la casa, dove faceva il comodo suo, se non per andarsene all’altro mondo.

— Perché mi guardi così? — le disse. — Mi pare che diventi losca, ragazza mia. A che pensi?

— Penso, — ella rispose sottovoce, perché non la sentissero quelli che stavano di là, — che ai miei tempi i bambini non si trovavano così in campagna come leprotti.

— Ai tuoi tempi non si trovavano ancora né bambini né leprotti, nel mondo. Adamo non era ancora nato.

La serva non insisté, per non farsi sentire dalla padrona; ma Davide aveva voglia di gridare: s’alzò, senza aver finito il pasto, e ripeté:

— Non credere che me lo voglia tenere in casa. Adesso vedrai che ci pensi anche tu.

— Gli oggetti ritrovati si portano in chiesa — disse con accento ironico, tornando a sedersi sulla panca di cucina. — Dunque, a pensarci bene, questa creatura deve essere proprio consegnata al parroco: e questa notte stessa. Bisogna che qualcuno vada giù in parrocchia a portarla.

— Adesso? — mormorò la moglie, che teneva sempre il bambino in grembo. [p. 20 modifica]

— E perché? Non è una notte di burrasca per non poter uscire. Io, però, no davvero non ci vado, e tu neppure. Albina ha paura degli spiriti: bisogna dunque che ci vai tu, Elisabetta.

Elisabetta non aveva paura di uscir sola di notte, ma capì che mandando lei dal parroco col bambino il padrone voleva castigarla per la sua malizia e si mise a sorridere. In fondo faceva sempre quello che le piaceva.

— Se vossignoria mi manda ci vado, ma dovrò forse tornarmene col mio carico. Sua reverenza il parroco vorrà parlare con vossignoria, prima di accettare il bambino; non vorrà credere così subito che...

— Elisabetta! — gridò il padrone senza lasciarla finire. — Quando io dò un ordine tu devi eseguirlo e non discutere. Tu devi prendere il bambino e portarlo giù dal parroco; s’egli non vorrà accettarlo toccherà poi a me e non a te a provvedere.

Visto che la cosa si faceva seria, la serva smise di sorridere. A lei, dopo tutto, non importava nulla di condurre la disgraziata creatura in giro di notte; una serva deve fare sempre quello che ordina il padrone; ma le pareva un’azione vergognosa, da parte del padrone, che era anche sindaco, non bisogna dimenticarlo, e di tutta la sua accreditata famiglia, di scacciare così, [p. 21 modifica]come un cane randagio, un povero bambino ferito.

E lo disse, dopo qualche esitazione però, perché aveva paura d’irritare maggiormente il padrone. Del resto, nonostante la furia di lui di liberarsi del bambino, ella persisteva nel credere poco vera la storia del ritrovamento in mezzo alla strada.

— Certo, non si tratta di un oggetto, ma di una creatura di Dio — mormorò la moglie, già impressionata dalle parole di Elisabetta.

— E allora tienitelo — gridò il marito.

Bona chinò un po’ la testa su quella del bambino, ma sollevò gli occhi grandi e tristi.

— È quello che tu vuoi — disse sottovoce, con un accento misterioso, come volesse non farsi sentire. Ma tutti avevano buone orecchie, tutti sentirono: e Davide scattò con impeto quasi selvaggio, imprecando e facendo atto di strappare alla moglie il bambino che ella strinse a sé, senza più parlare.

Il dibattito continuò allora fra il padrone e la vecchia serva, finché questa dichiarò nettamente che non intendeva uscir fuori di notte con un fardello così strano.

— Vossignoria mi mandi fuori sola; vado in cima al monte, ma con la creatura no. [p. 22 modifica]

— Allora andrai tu, Albina.

Albina si fece il segno della croce, rifugiandosi nell’angolo più lontano della cucina: lo stesso padrone si mise a ridere, vedendo il suo terrore, poi disse che bisognava si movesse pur lui poiché aveva delle serve nutrite, pagate e calzate solo per tener la coda alla padrona e farsi comandare invece che essere obbedito da loro. Non si moveva, però; anzi aveva acceso la pipa e fumava rabbiosamente mandando di qua e di là il fumo, come ad empirne meglio la cucina, tanto che l’uomo sotto il sacco cominciò a tossire, ma d’una tosse più di protesta che veramente causata dal fumo; e il primo istinto di Davide fu di scansarglielo, poi invece lo mandò dispettosamente tutto da quella parte.

Ma la consolazione della pipa non calmava la sua collera: inghiottiva amaro e si pentiva di non aver già consegnato il bambino ai preti o al brigadiere, o a qualche donna che il Comune poi non avrebbe mancato di compensare.

La sua amarezza era causata dal ricordo che la moglie fino a poco tempo prima aveva sofferto di gelosia: gelosia muta, rodente, non del tutto ingiustificata, — era uomo del mondo anche lui, — che si manifestava solo nelle lunghe tristezze e nei silenzi esacerbati di lei, ma che a volte prendeva [p. 23 modifica]una vera forma di malattia e faceva dimagrire e ingiallire la donna di modo che Albina sospettava si trattasse di stregoneria.

Il dolore per la morte del figlio aveva assorbito anche questa passione, anche perché ella sentiva che il marito rispettava la memoria del diletto perduto conservandosi casto e fedele a lei. E infatti era così: Davide in fondo aveva l’impressione che il figlio dall’eternità lo vedesse in ogni sua azione e in ogni suo pensiero, e ne temeva il giudizio.

— Tu vedi, queste donne hanno torto, adesso — gridò fra di sé, scendendo nel profondo della sua coscienza e risalendovi alquanto placato.

Si levò la pipa di bocca e sputò: sì, la sua coscienza non gli rimproverava nulla; ma il sospetto continuava a soffiargli egualmente intorno, con l’alito stesso della donna.

— Allora nessuno si muove? Aprimi la porta, Elisabetta, poiché dunque devo essere il servo io, in casa mia.

— In quanto ad aprire la porta, vossignoria non ha che da comandarmi — replicò la serva, agitando il mazzo delle chiavi; ma intanto non si moveva.

Ed ecco d’un tratto l’uomo che stava sdraiato cominciò ad agitarsi stranamente: dapprima buttò [p. 24 modifica]via il sacco, scoprendo le grosse spalle rivestite di una giacca da cacciatore; poi sollevò la testa grossa pur essa e avvolta da una nuvola di capelli neri polverosi, infine puntò i gomiti sulla stuoia, ma tosto si lasciò ricadere come impotente ad alzarsi: dopo qualche attimo, però, si volse e si mise a sedere, d’un colpo, con le gambe lunghe distese, le mani aperte appoggiate a terra, la testa così abbassata sul petto che i capelli gli velavano il viso grigio e duro come scolpito sulla pietra: aveva gli occhi chiusi e tutto un aspetto di Sansone cieco.

Davide lo guardava con un po’ di derisione.

— Adesso sentiremo anche il suo verbo — pensò; ma intanto si rimise a fumare sospendendo la sua decisione di alzarsi e di uscire.

— Davide D’Elia, — cominciò a dire l’uomo, dapprima come parlando fra sé e poi a poco a poco alzando la voce e in tono alquanto declamatorio, — la sua serva vecchia ha perfettamente ragione. Manca di rispetto e di obbedienza ai suoi padroni, ma parla secondo la sua coscienza. Non si manda via così una creatura smarrita. Oh, se la famiglia D’Elia non ha un pezzo di pane da dare a un bambino povero a che è ridotto il mondo?

— Ma sta’ un po’ zitto! — gli disse Elisabetta, sebbene egli prendesse le parti di lei. [p. 25 modifica]

L’uomo parve non sentirla, però proseguì con tono più dimesso e più sincero:

— La famiglia D’Elia mantiene qui sulla stuoia come un Cristo deposto il suo servo cieco, buono più a niente, e rifiuta ospitalità a una creatura smarrita? Mandatemi via, piuttosto, mandatemi via. Mandatemi via, — ripeté per la terza volta con voce tremante; — io troverò sempre chi mi farà l’elemosina e non correrò pericolo come può correrlo questa creatura innocente.

— E basta — gridò a sua volta Davide masticando il cannello della sua pipa.

E il cieco non replicò. Era del resto un uomo taciturno e mite: i D’Elia lo tenevano presso di loro perché egli s’era accecato spegnendo un incendio nel loro granaio: non parlava quasi mai, non s’immischiava mai nei fatti di casa; ed era con una certa meraviglia che le donne, adesso, l’avevano sentito gridare.

Anche Davide si difendeva contro un vago turbamento superstizioso: gli pareva che il cieco parlasse meccanicamente, spinto da una volontà superiore alla sua: come una marionetta che altri fa muovere. Bisognava non prender la cosa in derisione, ma pensarci su.

Il cieco non replicava: rimaneva però fermo nella sua posizione, come aspettando che il padrone [p. 26 modifica]si alzasse per alzarsi anche lui e continuare nella sua protesta. Ma neppure il padrone si mosse. E così, per quella notte il bambino rimase in casa.

La serva Albina lo portò a dormire nel suo letto, poiché Elisabetta non volle incaricarsene. Aveva fatto il suo dovere, Elisabetta, rifiutandosi a portarlo fuori di casa, ma non intendeva perdere il sonno per lui: non aveva pazienza coi bambini, d’altronde, fossero pure bambini smarriti e sofferenti.

Anche la padrona era ricaduta nella sua triste indifferenza: lasciò che Albina le prendesse di grembo il bambino già di nuovo addormentato e lei rimase accanto al fuoco.

Le serve avevano ciascuna la sua camera, al pian terreno: camere grandi e tristi, arredate con vecchi mobili, armadi alti fino al soffitto, casse antiche, letti medioevali.

In quella di Albina gli oggetti avevano un aspetto ancor più grave, quasi misterioso, illuminati com’erano da una fiammella che ardeva notte e giorno entro un bicchiere giallognolo a metà [p. 27 modifica]colmo d’olio, deposto entro una nicchia in fondo alla quale brillava il vetro di un quadretto sacro.

Altre immagini e statuette di santi popolavano la camera, e sull’uscio e sopra il letto pendevano rami di palme e d’olivo, ceri, amuleti contro le tentazioni, gli spiriti e i vampiri.

Ciò non bastando, Albina prese una falce e l’attaccò al suo uscio, dalla parte esterna; perché il vampiro ha una predilezione spiccata per il sangue dei bambini, e, così, se veniva, si attardava sull’uscio a contare tutti i denti della falce, e non riuscendovi mai, o sembrandogli di sbagliare, tornava daccapo tante e tante volte finché la luce dell’alba lo costringeva a fuggire.

Così un po’ rassicurata, ella s’inchinò da tutte le parti per salutare le sue immagini; poi cominciò a spogliare il bambino guardando per ogni verso le sue povere vestine se trovava qualche segno di riconoscimento. Nulla; tranne quelle macchie di sangue che la impressionavano sinistramente.

Ma anche lei non era molto curiosa, e considerava talmente vana e di passaggio la vita che giudicava con apatia ogni cosa.

Domani ci sarà chi s’incaricherà di scoprire il mistero del bambino sperduto: il brigadiere, [p. 28 modifica]certamente, riuscirà a sapere tutto: per questo è brigadiere: perché dunque deve pensarci lei?

Dunque mise il bambino sotto le coperte, poi, sebbene la notte fosse ancora fresca, si cacciò completamente nuda nel letto: ma di lì a un poco si sentì tutta ardere: toccò il bambino e le parve che avesse la febbre. Allora cominciò a recitare una preghiera contro la febbre, che dopo tutto è un’agitazione del sangue prodotta dall’alito del demonio: ma il calore continuava e aumentava. E che cosa avviene adesso, Signore? L’uscio è spinto silenziosamente, un fantasma entra; tutte le ombre misteriose della camera si agitano.

Albina ha prudentemente messo la testa sotto il lenzuolo, e proprio in quel momento di paura le sembra — sogno o realtà — che anche il bambino si stringa contro di lei e finalmente parli.

— Chi è? Quel santo cieco? — le mormora sul viso.

— Albina, — disse nel medesimo tempo la voce sommessa della padrona, — con tutto questo trambusto ti sei dimenticata di far bollire il latte; domani sarà acido, certo.

La serva mise fuori la testa. No, il trambusto non [p. 29 modifica]le aveva fatto dimenticare il suo dovere; ma capiva che la padrona, prima di andarsene anche lei a letto, era entrata con quella scusa per vedere il bambino.

— Il latte è bollito — rispose; poi abbassò la voce. — Signora, sa che il bambino ha parlato! Mi ha chiesto: Chi è? Quel santo cieco?

— Impossibile! È troppo piccolo; avrà quindici mesi. Alla sua età Elis non parlava.

E di tutte le cose straordinarie di quella notte, quella che più impressionò la serva fu il sentire la padrona, che non parlava mai del figlio morto, ricordarlo a quel modo.

Bona intanto era passata dall’altra parte del letto e sollevava meglio le coperte per vedere se il bambino era sveglio: il bambino dormiva, rosso in viso, con la bocca aperta, tutto caldo di sudore.

— Sente? Sembra un pane nel forno. E il padrone voleva mandarlo via così, di notte.

— Gli uomini non hanno cuore, Albina. Se avessero avuto cuore...

Non proseguì, con la gola stretta dal suo ricordo: ma Albina capiva tutto e non insisté; ricordava che la padrona non amava si accennasse in alcun modo alla sua sventura. Strana cosa, però, quella notte lei stessa ne parlava, [p. 30 modifica]con voce velata, come uno che s’è appena svegliato e racconta un sogno.

— Ricordi, Albina, quando Elis era così piccolo e voleva dormire con te per accertarsi se quanto tu dicevi delle tentazioni e degli spiriti era vero? Era coraggioso fin da bambino: ecco perché è andato incontro al pericolo, Albina.

Albina, sotto le coperte, frenava i suoi singhiozzi: ricordava, sì, e le parole della padrona, pur dette con calma, quasi con indifferenza, scioglievano il gelo del suo cuore, anche perché le pareva di aver quindici anni di meno e che il bambino sconosciuto fosse davvero il piccolo Eliseo.

— Come il tempo è passato! — proseguì la padrona, muovendo qualche passo nella camera rischiarata dalla sola fiammella nel bicchiere. — Mi sembra ieri ch’egli mosse i primi passi. Eravamo lì, nella stanza da pranzo; già da qualche giorno egli si attaccava a tutti i mobili e rideva, rideva, come pazzo di gioia per il miracolo che gli accadeva. Un bel momento si staccò dalla sedia alla quale si appoggiava, e stette da solo [p. 31 modifica]fermo, serio; poi camminò. Dio, Dio mio! Era come Gesù che camminava sulle acque del mare. Ti ricordi, Albina? E quando lo mettevi sul letto egli si divertiva ad afferrarsi i piedini e portarli alla bocca. Era tanto bello: come la rosa di maggio. Sembra ieri... Qui in questa camera tutto è come allora — ella aggiunse, sfiorando i mobili come per accertarsi ch’erano tutti ancora al loro posto. — Gli oggetti non muoiono e noi moriamo.

— Tutto muore; prima o dopo è lo stesso — mormorò Albina per confortarla, ma lei stessa piangeva.

— Del resto, — riprese la padrona, seguendo il filo del suo angoscioso pensiero, — mio marito ha ragione: non bisogna intenerirsi, non bisogna aver pietà. Ne hanno avuta gli altri con noi? Mi meraviglio, anzi, ch’egli si sia portato appresso questa creatura.

— Era meglio che non la portasse, davvero! Così vossignoria non si agitava.

— Oh, questo non importa. Anzi a volte l’agitarsi fa bene. È che proprio bisogna non aver pietà né amore; si vive meglio.

— Gesù però disse il contrario — mormorò la serva; pur ricordando che la padrona dopo la disgrazia non era più stata in chiesa, né soleva [p. 32 modifica]far celebrare messe per il suo ragazzo morto.

Bona intanto si aggirava per la camera, trascinandosi intorno la sua grande ombra come un velo nero; e continuava a toccare gli oggetti per assicurarsi che c’erano, ch’erano gli stessi di quel tempo. Sì, erano gli stessi: tutto c’era, lì e in tutta la casa: solo lui mancava.

D’un tratto un piccolo gemito, seguito da un pianto sommesso, tremolò nel silenzio, con la luce e le ombre: era il bambino che s’agitava nel letto, fra le braccia della serva.

E Bona vibrò anche lei; le pareva che tutto fosse stato un incubo: e che Dio cancellasse quindici anni dal libro della vita, e il piccolo Elis sognasse, sfidando ancora, nel letto della serva, i fantasmi del male.

Albina dormì poco, quella notte. Il calore del bambino si comunicava al suo corpo duro e legnoso ma sopratutto alla sua anima. Era un’anima dura anch’essa e legnosa, che non aveva mai fiorito: un’anima quasi monacale.

Perché adesso s’inteneriva per questo bambino [p. 33 modifica]misterioso che forse era di passaggio nel suo letto per quella notte sola, mentre non s’era affezionata neppure al figlio dei padroni, e le maggiori sventure del prossimo, come appunto la morte di Elis, o la disgrazia del servo divenuto cieco ancora in giovine età, la lasciavano quasi indifferente?

La sorte del bambino la faceva piangere. Chi era, poi? Aveva una madre, un padre? Perché lo avevano buttato in mezzo alla strada come un oggetto inutile?

Invano tentò di farlo parlare ancora: egli continuava a dormire il suo sonno un po’ agitato, lamentandosi di tanto in tanto, in sogno, come se qualcuno lo molestasse e lo facesse soffrire.

Così Albina dormì poco quella notte: ed era scuro ancora quando si alzò.

Nel rivedere il cieco provò un sentimento nuovo: le parve di aver maggior rispetto e considerazione per lui; egli invece, appena sentì il calore del fuoco che ella aveva riacceso, balzò di sotto il suo sacco e disse con dispetto:

— Senti, se i nostri signori mandano via la creatura me ne vado anch’io.

— Speriamo di no. Sebbene mi abbia dato tanto fastidio, stanotte: non ho chiuso occhio, e adesso ho la schiena rotta. [p. 34 modifica]

— Perché siete tutti senza cuore, in questa casa; non volete bene che a voi stessi.

— Intanto, tu sei tenuto qui come uno di famiglia. Se non ti si fa dormire a letto è perché tu non vuoi; ma cosa ti manca, d’altro?

— Niente mi manca, è vero; ma chi mi vuol bene, qui?

Albina non rispose subito; sentiva che egli aveva ragione.

— Loro padroni mi tengono qui perché la gente dica: come sono benefici! E voi serve, mi date da mangiare come si dà al cane: del resto non vi amate neppure fra voi: tu pensi alla vita eterna, Elisabetta pensa al suo vecchio corpo; i padroni pensano al figlio che non c’è più. Neppure fra loro si vogliono bene: lui solo, Elis, era il ben voluto: tutto l’amore era per lui: lui solo esisteva in questa casa, per lui il padre e la madre si dimenticavano persino di Dio: per questo il Signore l’ha fatto sparire.

— Taci! — disse Albina atterrita; ma egli proseguì:

— È vero però che lui solo sapeva amare. Quanto non mi ha voluto bene? L’ho veduto nascere e crescere. L’ho portato in braccio più che suo padre stesso. E se ho spento il fuoco l’ho fatto per lui, perché lui solo mi voleva bene. Mi diceva sempre: Michele, quando [p. 35 modifica]morrai ti chiuderò gli occhi io. E lui me li ha chiusi. E se rimango qui, Albina, sai il perché? Perché credo che lui non sia morto. Dopo tutto, il suo corpo non è stato trovato.

Disperso! Per dei mesi lo si è creduto disperso o prigioniero: poi è venuta la notizia della morte: ma nessuno lo ha veduto morire.

Albina lo ascoltava turbata.

Gli chiese, un po’ timida, se voleva una tazza del caffè che aveva preparato per i padroni: egli torse la bocca e non rispose. Dopo i primi giorni della sua infermità nessuno gli aveva più usato tanta gentilezza.

E Albina non insisté: cominciò le sue quotidiane faccende, con l’apatia solita che non le impediva di farle con accuratezza; ma di tanto in tanto un senso di angoscia la distraeva; pensava al bambino: andò a vederlo, gli rimboccò le coperte, gli toccò la fronte e le orecchie: scottava meno ma aveva sempre la febbre.

Anche Elisabetta si alzò, a suo comodo, e pareva non si ricordasse neppure del bambino perché attraversò la camera di Albina senza fermarsi, e andò dritta dritta a prendersi il caffè preparato per i padroni; poi mise sul vassoio le tazze per portarlo a loro. [p. 36 modifica]

— Dirai loro che la creatura ha avuto tutta la notte la febbre: e l’ha ancora — avvertì Albina.

Elisabetta non credeva se non coi propri occhi: depose dunque il vassoio e andò ad osservare il bambino. E il bambino aprì gli occhi e la fissò: lo stesso sguardo pensieroso e profondo rivolto a Davide quando questi l’aveva sollevato dalla strada.

Elisabetta ebbe una strana impressione: le parve di riconoscere quello sguardo; ed esaminando meglio gli occhi del bambino si convinse che rassomigliavano a quelli di Bona, quando ancora il dolore non li aveva appassiti.

Poi andò a portare il caffè ai padroni. Appena si avvicinò al letto vide che anche Bona teneva gli occhi aperti, che l’aspettava — non per il caffè, certo — e che il suo sguardo profondo e ancora innocente, rassomigliava, sì, a quello del bambino.

Il padrone, invece, dormiva ancora, di un sonno pesante che neppure la voce delle due donne turbò.

— È stato agitato tutta la notte — disse la moglie. — Parlava e parlava, litigava col prete e col brigadiere che non volevano incaricarsi del bambino. Poi è stato sveglio a lungo: adesso lasciamolo dormire. [p. 37 modifica]

— Il bambino ha avuto ed ha ancora la febbre; devo dargli qualche cosa?

— Fa come vuoi.

— La farina è già lievitata: dobbiamo impastarla?

— Fa come vuoi.

Fa come vuoi! Un tempo Bona s’alzava prima delle serve e dava loro gli ordini e le sollecitava: tutto il giorno su e giù affaccendata a custodire la roba e far economia: adesso non si curava più di nulla: neppure l’oro, neppure il tempo avevano più valore per lei. S’attardava a letto, la mattina, andava a coricarsi dopo il pasto del mezzogiorno: sì, una cosa ancora aveva valore per lei: il sonno; e un’altra: i sogni; perché sognava sempre di lui, vivo, fiore e anima della casa; e lo vedeva tornare, in sogno, per non ripartire più, ed egli le diceva: ma perché vi siete tanto disperati? Ero disperso, ero prigioniero, ma vivo: come potevo morire quando sapevo che mi aspettavate?

Quella notte, il bambino smarrito si era mischiato ai suoi sogni un po’ febbrili: portava una lettera nascosta sotto le vesti: ma il sangue l’aveva tanto macchiata da renderla illeggibile. E oltre questo, egli aveva da dire qualche cosa a Bona: un segreto che doveva dire a lei sola; e [p. 38 modifica]aspettava che fossero soli per parlare; Davide, però, le serve, altra gente venuta di fuori non li lasciavano mai soli, e lei non osava prendere il bambino e portarlo nella sua camera o nel cortile, in un angolo ove nessuno potesse ascoltare il segreto. Non osava; per timore di apparire meno indifferente a ogni altra cosa che non fosse il suo dolore: e aspettava che la gente se ne andasse, ma altra gente invece veniva; tutta la casa ne era piena, ed erano soldati, erano donne malate, erano parenti di militari in guerra; tutti venivano per vedere il bambino, perché s’era sparsa la voce ch’egli operava miracoli: guariva gl’infermi, sapeva dire dov’erano i soldati dispersi; e a tutti parlava, fuori che a lei.

Ma in fondo ella sapeva già il misterioso segreto ch’egli doveva dirle; era il segreto stesso del suo cuore, la vana speranza che ancora teneva fresca la radice della sua vita. Che il figlio non fosse morto. [p. 39 modifica]

Perché ella era una donna superstiziosa e sognante. Da qualche tempo, poi, quest’impressione di sogno che l’aveva sempre guidata, s’era intensificata fino al punto di farle credere che la vera vita consistesse nel sonno e nel sogno, e l’altra fosse solamente un incubo.

Per fortuna aveva il sonno facile; la stessa vita monotona che conduceva, in quella specie di fortezza ch’era la sua casa, glielo conciliava.

Così, quella mattina, sebbene avesse bevuto il caffè e la luce del giorno irradiasse la camera, finì col riaddormentarsi: un sonno lieve attraverso il quale sentiva i rumori della casa, il canto degli uccelli e il russare del marito; finché il rumoroso e agitato svegliarsi di lui la riscosse. E dapprima egli si arrabbiò perché l’avevano lasciato dormire tanto: poi perché sua moglie s’attardava a letto. Egli ci teneva, ch’ella s’alzasse presto e sorvegliasse le serve; non perché oramai anche a lui premessero molto le cose di questo mondo, ma perché non voleva che la moglie si sprofondasse in quel suo torpore mortale ch’era peggiore di ogni agitata disperazione. [p. 40 modifica]

Poi parve ricordarsi di qualche cosa che doveva fare di premura e si gettò dal letto gridando: — Bisogna dunque che vada giù io dal brigadiere, per quest’accidente di creatura. Di’ un po’ alle tue padrone che si affrettino: ne voglio una con me, per portare il bambino. Che fai lì, imbambolata?

— Il bambino ha la febbre: non è da cristiani portarlo in giro.

Allora Davide si precipitò giù nella camera di Albina, imprecando contro le serve, come fossero state loro a far ammalare il bambino.

Gli toccò la fronte che scottava, e d’un tratto, anche lui sentì come un flutto amaro salirgli dalle viscere al cuore; ricordava anche lui il suo bambino quando lo minacciava qualche malessere e tutti intorno trepidavano.

Ed ecco come in quel tempo egli doveva precipitarsi fuori di casa in cerca del dottore.

— Non voglio che mi si ammali in casa, perdio: in casa non lo voglio, né sano né tanto meno malato — diceva ad alta voce correndo giù per la strada. I ciottoli rotolavano al suo passaggio; pareva avessero timore di lui, ma un timore per burla: perché anche le pietre della strada sapevano che Davide D’Elia in fondo non era un uomo feroce. [p. 41 modifica]

Per poco non si avverò il sogno di Bona. La voce che c’era in casa quel bambino misterioso fece subito addensare davanti al portone un mucchio di gente.

Ogni tanto Elisabetta doveva adoperare le sue chiavi: e qualche persona bisognava pur lasciarla entrare: per esempio il brigadiere.

Aveva un aspetto tragico, il brigadiere, e compassato; quasi andasse a constatare un delitto.

Sottopose ad un lungo interrogatorio le donne, e anche il servo cieco, finché Elisabetta non perdé la pazienza.

— Ma cosa vuole che ne sappiamo noi? Ne sappiamo tanto quanto vossignoria; forse anche meno.

Albina, tutta tremante alle spalle della compagna, le tirava la veste per farla tacere; ma Elisabetta non aveva paura di nessuno.

Chi pareva non avesse né paura né altra passione era Bona: aveva ripreso il suo posto sulla panca, e se ne stava con le mani in grembo oziosa indifferente: ad ogni domanda del brigadiere rispondeva: [p. 42 modifica]

— Io non so nulla.

Non si mosse neppure quando il brigadiere entrò con le serve nella camera attigua: sollevò però la testa nel sentire il bambino a piangere: che cosa gli faceva il cattivo uomo?

Anche il cieco tendeva le orecchie: e domandò con voce quasi minacciosa:

— Che, lo portano via?

La donna riabbassò subito la testa, sembrandole che il cieco la vedesse: non rispose, non parlò più, neppure quando sopraggiunse tutto agitato e irritato il marito, il quale raccontava ancora una volta al vecchio dottore che lo accompagnava, come aveva trovato il bambino, dichiarando che s’era pentito di averlo preso e che non intendeva incaricarsene.

Il vecchio dottore lo lasciava dire, anzi pareva non lo ascoltasse neppure: perché era un po’ sordo. Alto, secco, vestito come un pastore protestante, aveva l’aspetto d’una marionetta; eppure ispirava soggezione. S’avvicinò a Bona, che s’era alzata per deferenza ma non muoveva un passo né diceva una parola, e la guardò come fosse lei la malata, facendole cenno di rimettersi a sedere.

Ella si rimise a sedere, riabbassando la testa come non potesse tenerla su. Il marito gridava: [p. 43 modifica]

— Ma non prepari neppure il caffè per il dottore? La vede, dottore? Sta sempre così, come una foglia secca sul ramo.

— Ella ci preparerà il caffè — disse tranquillo il dottore. — Adesso fatemi vedere il bambino.

Il bambino piangeva, taceva, ricominciava a piangere. Bona provava un certo fastidio a sentire il chiasso nella camera, e desiderava che tutto finisse presto: che portassero via il bambino e la lasciassero di nuovo nel suo cerchio di silenzio, con la sua ombra diletta.

Ma in fondo aveva pietà della povera creatura; e le pareva, inoltre, che il cieco spiasse i suoi pensieri e la giudicasse severamente.

Che noia, anche quel disgraziato! Stava sempre lì, ai suoi piedi, come un vecchio cane lebbroso, e vedeva tutto. E lei voleva esser sola, non spiata, non distolta un attimo dal suo pensiero.

Che, inoltre, il cieco la giudicasse male, in quell’occasione, se ne convinse subito; perché nel sentire che il bambino insisteva adesso nel suo pianto lamentoso, egli disse come fra sé:

— Sembra davvero un agnello abbandonato: ma chi se ne cura? E buttatelo nell’orto, a pascer l’erba; sarà meglio per lui.

Lei stava zitta, dura: eppure quel pianto cominciava [p. 44 modifica]a darle una strana impressione: le pareva che il bambino la chiamasse, che se lei si muoveva, se, come la sera prima, lo prendeva in grembo, si sarebbe calmato.

Ma non voleva muoversi, no: anche perché sentiva un odio sordo contro il brigadiere, che per lei era uno di quei feroci personaggi che tutti in blocco rappresentavano la Forza mostruosa che le aveva tolto il figlio di casa per buttarlo nei campi della morte. Zitta, dunque, e dura, anche per protestare contro la sorte: perché doveva muoversi a raccogliere il figlio altrui? Lo buttassero nell’orto, a pascer l’erba; e se il cieco non smetteva di brontolare poteva esser buttato anche lui fra le immondezze.

Il cieco non brontolava più: s’era alzato, però, e stava fermo contro la parete, con le mani aperte penzoloni e il viso sollevato, coi capelli sulle guancie, come un Cristo schiodato dalla croce e messo lì appoggiato al muro: aspettava con inquietudine che si decidessero le sorti del bambino. Adesso si sentivano Davide e il brigadiere discutere, e quest’ultimo non sembrava molto convinto delle ragioni che il primo si dava.

Infine il dottore dichiarò che la ferita del bambino era prodotta semplicemente da una caduta dall’alto, forse da un cavallo, forse da un carretto, come [p. 45 modifica]Davide sosteneva: la febbre proveniva da cause interne: ad ogni modo era umano e prudente tenerlo lì finché non si fosse trovata una donna per bene a cui affidarlo.

Davide non replicò: e così fu deciso che momentaneamente il bambino restasse in casa. Allora il cieco si calmò; anzi parve cercar di sparire, per non dar noia alla padrona: andò lungo la parete; uscì nel cortile e per tutta la mattina nessuno più lo vide né si curò di lui.

Davide, intanto, e il brigadiere, erano andati via: il dottore invece, ritornato presso Bona, reclamava la tazza di caffè ch’ella un tempo ad ogni sua visita usava offrirgli.

Ella chiamò Albina: ma il dottore, sedendosi sulla panca vicino a lei, le batté una mano sulla spalla come per scuoterla dal suo torpore:

— Lo voglio proprio da voi; su!

Ella arrossì, un po’ irritata; ma subito si alzò e rimise la caffettiera ancora tiepida sul fuoco.

— Sembra ieri, — egli disse, — quando io venivo per vedere il vostro Elis: e ci venivo spesso, perché lo ingozzavate, gli consentivate ogni [p. 46 modifica]abuso: o, per dir la verità, perché mi chiamavate ad ogni suo più innocuo disturbo; mi dava più da fare lui che tutti gli altri malati presi assieme. E con quanta lana lo avvolgevate, d’inverno; era un bel bambino, però! E bello anche da ragazzo.

Mentre il dottore parlava così, Bona si sentiva un sassolino nella gola: avrebbe voluto mettere del veleno nel caffè che gli offriva, eppure desiderava ch’egli proseguisse. Egli proseguiva; ma parlava di lei adesso.

— Avete l’ombra della morte negli occhi, Bona. Bona, su! Se non volevate soffrire, non dovevate godere: se non volevate perdere vostro figlio non dovevate farlo.

Ella scattò.

— Lei parla così perché figli non ne ha.

— Non ne ho, appunto, perché non ne ho voluto. Né moglie, né figli, né nipoti, né parenti. Solo! La vita bisogna prenderla così: o accettare i suoi beni e i mali che ne derivano, o nulla.

— Ma io non voglio più nulla: io non ho più nulla.

Egli tendeva l’orecchio per non perdere le parole di lei.

— Lo dite voi! E vostro marito non lo avete? E i vostri beni, i vostri parenti, la casa, i servi, non li [p. 47 modifica]avete? Siete obbligata a loro, poiché li avete voluti, come io sono obbligato ai miei clienti. Si vive o si muore — egli proseguì, bevendo, dopo ogni frase, un sorso di caffè. — Se si vuol vivere bisogna compiere tutti i doveri che la vita c’impone; altrimenti si muore.

— Come si fa a morire? — ella domandò con voce sorda.

— Che cosa?

— Come si fa a morire? — ella ripeté esasperata.

— Ci si impicca, ci si spara, ci si getta nel fiume.

— L’avrei già fatto, se...

"Se non sperassi ch’egli ritorni". Il suo segreto, però, lei stessa lo sentiva così assurdo che non volle rivelarlo.

— Se voi non amaste ancora la vita — interpretò il dottore. — Chi è veramente disperato muore. Ma voi no, non siete disperata; voi amate ancora l’aria che respirate; il fuoco che vi scalda, la vostra casa, il vostro stesso dolore. E del resto avete ragione: la vita è bella per sé stessa; la vita anche così come voi la prendete, nella forma materiale, come io prendo questa buona tazza di caffè. Tutto è bello, fuorché la morte.

Ella scuoteva la testa: no, no, egli non sapeva, non poteva capire: eppoi, a che serviva parlare? Le [p. 48 modifica]parole degli altri, e anche le sue stesse, ormai, le sembravano vane come il rumore del vento. Eppure qualche cosa si agitava nella sua coscienza mentre il dottore proseguiva:

— Chi avrebbe ragione di dolersi, se gli fosse possibile, sarebbe lui, il vostro ragazzo, perché morto. Ma egli non può più: e questo è il male più terribile della morte; neppure più soffrire. Più nulla! Capite bene questa parola, Bona? Nulla?

— È questo... è questo...

— No, voi non soffrite perché è morto, soffrite perché non è più vivo, perché non l’avete più qui, perché non vi vedete più vivere in lui. In fondo cos’è che si ama nei figli? Noi stessi, sempre, fino a che siamo morti o che loro sono morti. E piangiamo noi stessi in loro, se essi muoiono prima di noi.

— Non è questo, non è questo... Non è perché sia morto... è perché è morto così... così... prima del tempo, per mano degli uomini...

— Gli uomini sono guidati da Dio. Tutto avviene per suo volere; se il vostro Elis fosse morto di malattia il vostro dolore sarebbe stato lo stesso.

— No, no. Non è Dio a volere queste cose orribili. Me l’hanno portato via gli uomini, me lo [p. 49 modifica]hanno ucciso gli uomini. Perché? Una famiglia sta in casa sua, tranquilla, senza molestare nessuno, allevando con cura e onestà il proprio figlio, ed ecco vengono a prenderglielo, questo figlio: lo prendono come una cosa, lo fanno servo, lo mandano a soffrire, a morire: perché? Perché?

Il dottore sorrideva, guardando dentro la tazza vuota: il suo sorriso sarebbe parso cinico senza una lieve piega amara all’angolo della bocca.

— Voi dunque volevate vivere fuori della società, se pretendevate che questa, giunto il momento, non vi avesse chiesto anche la vita del figlio vostro? Tutto si mette in comune nella società; appunto per questo si chiama società! Essa vi regala il brigadiere, il sindaco, il pretore, il prete, vi salvaguarda la vita, gli averi, l’onore, persino la salute — poiché ha istituito scuole dalle quali escono asini sapienti come me — e voi non volete darle nulla! Ma lasciamo andare queste cose: solo vi ripeto, a proposito della società, ciò che vi dissi per la vita: si accetta o non si accetta: ci si sta dentro o fuori. E ditemi una cosa, Bona, — aggiunse poi, rimettendo la tazza sul vassoio che ella teneva fermo sulle ginocchia, — perché non vi prendete questo bambino sperduto? [p. 50 modifica]

Bona sollevò gli occhi, grandi tristi e pieni d’odio eppure attraversati da un baleno di speranza; ma non rispose.

— La vita ricomincia tutti i giorni. E voi siete giovine ancora. Su, alzatevi e andate a guardare quel bambino. Non pare che il destino ve lo abbia mandato apposta in casa come un regalo, per compensarvi di quello che vi ha tolto?

Ma la donna stava ferma, premendosi sulle ginocchia il vassoio; solo scuoteva la testa china, accennando di no, di no. Non voleva piccoli compensi dal destino, lei; nulla poteva compensare il danno che le era stato fatto.

Ma rimasta sola cominciò a ripensare alle parole del dottore. E per la prima volta la spiegazione della morte del suo figliuolo le apparve chiara alla mente: non la convinse e tanto meno la consolò, ma le apparve chiara.

Di là il bambino piangeva: quanto la sera prima era stato quieto, adesso era agitato: pareva sentisse l’ostilità della gente intorno a lui. La stessa Albina, un po’ stanca per la cattiva notte passata, sembrava non se ne curasse più. Elisabetta diceva:

— I bambini bisogna lasciarli piangere: fa loro bene ai polmoni.

Bona però ricordava che quando Elis piangeva, [p. 51 modifica]la vecchia serva correva a porgergli un dolce o un fiore, per farlo chetare: e di nuovo ella ricadeva nei suoi ricordi, nella sua pena, e il pianto del bambino non riusciva che ad irritarla.

Poi vennero delle visite: donne curiose, che nella loro fantasia trovavano mille spiegazioni alla oscura avventura del piccolo sperduto: e lo volevano vedere, e trovavano che rassomigliava a questo, o a quest’altro: qualcuna malignò accennando anche alle fattezze di Davide; ma Elisabetta, nonostante i suoi dubbi, difese il padrone.

— Ma non vedi piuttosto che rassomiglia alla padrona? Gli stessi occhi, lo stesso modo di guardare. Allora dovrebbe essere suo!

La cosa era così assurda che fece persino ridere le donne: una tentò di scherzare: andò da Bona e le batté la mano sulla spalla:

— Ah, avevi l’amico, ti sei fatta un figlio di nascosto, poi l’hai fatto mettere in mezzo alla strada perché Davide te lo riportasse a casa!

Ma Bona non rise; e neppure si offese: più che mai le vane chiacchiere delle donne le sembravano il rumore del vento.

Una vecchia signora ricca, vedova e senza figli disse: [p. 52 modifica]

— Se tu non lo vuoi, come dicono, me lo prendo io.

Allora Bona si animò un poco: anzitutto perché la signora era amica dei preti, eppoi perché una cosa ancora sopravviveva in lei: il senso della dignità.

— Chi dice che non lo voglio?

— Tutti lo dicono. Eppoi si vede: non ti commuove neppure il suo pianto.

Bona non discusse oltre; ma andata via quella e sopraggiunte altre donne, come il bambino non cessava di lamentarsi, si decise d’andare a vederlo. Era anche lievemente curiosa, dopo l’accenno di Elisabetta, di osservare se i loro occhi si rassomigliavano davvero, ma non le riuscì, perché il bambino volgeva il viso contratto dal pianto verso la parete e pareva volesse nascondersi.

Ella stette umiliata a guardarlo: non ne provava pietà, ma non s’irritava più.

Poi d’un tratto, mentre lei e le donne stavano di nuovo riunite in cucina, il bambino si chetò: Albina andò a guardare: tornò presso la padrona.

— Sa una cosa? Michele sta presso di lui e gli mormora delle paroline e la creatura lo guarda incantato e non piange più. [p. 53 modifica]

Tre giorni il bambino rimase a letto con la febbre: non si lamentava più, ma rifiutava il cibo, finché a Bona venne l’idea di farglielo offrire da Michele. Ed ecco Michele con una tazza di latte in mano: con l’altra mano cerca la testa del bambino sollevato sui guanciali e gli avvicina la tazza alla bocca: e il malato beve il latte fino all’ultima goccia.

— È una cosa strana — mormora Albina, trasognata. — Tutto è mistero in questa creatura.

Ma il dottore al quale le serve raccontano il fatto, spiega che la simpatia del bambino per il cieco è una cosa semplicissima: tutti i bambini sentono per istinto chi loro vuol bene e chi loro vuol male; e Michele vuol bene al piccolo Eliseo.

— Eliseo? Si chiama Eliseo anche questo? Come lo sa, lei?

— Giacché non sappiamo altro nome chiamiamolo così.

Allora cominciarono a chiamarlo Elis. Albina credeva che la padrona protestasse o piangesse: la padrona non protestò né pianse, ma si astenne dal chiamare il bambino con quel nome. Del resto non se [p. 54 modifica]ne curava più che tanto: pareva ricaduta nello stato di prima, e lasciava fare agli altri quello che volevano.

Così, il cieco passava silenzioso lungo la parete della cucina, poi di quella della stanza da pranzo, penetrava nella camera di Albina e si metteva accanto al letto dov’era il bambino, e lo toccava timidamente, gli parlava sottovoce, poteva star lì finché voleva.

Il brigadiere, intanto, indagava: e naturalmente non riusciva a saper nulla. Il dottore veniva spesso: non insisteva presso Bona perché ella tenesse il bambino, ma ogni volta le chiedeva una tazza di caffè e lo voleva da lei.

Il quarto giorno consigliò alle serve di far alzare il nuovo Elis. Lo alzarono. Albina gli aveva lavato il vestitino, e gli ravviò i capelli fini ondulati e lunghi. Era bello, adesso, d’una bellezza bruna e un po’ melanconica come quella della viola.

La serva lo portò in cucina, lo mise a sedere sulla panca, accanto alla padrona. Questa non si scuoteva, mentre il cieco, dall’altro lato del camino, protendeva il viso quasi ansioso ma come illuminato da un sorriso interno: non osava parlare né toccare il bambino, in presenza della padrona, ma pareva l’odorasse. [p. 55 modifica]

Per alcun tempo rimasero soli tutti e tre.

Anche Bona guardava il bambino ma non lo toccava: egli a sua volta pareva non curarsi di altro che dei suoi piedini con uno dei quali giocava un po’ irritato, come volesse staccarselo per averlo meglio fra le mani. D’un tratto si agitò tanto che fu per cadere dalla panca. Allora Bona lo prese per le spalle, se lo attirò contro il fianco: egli sollevò gli occhi a guardarla in viso, come sorpreso dell’atto di lei e curioso di vedere chi ella fosse: e quello sguardo la turbò fino al profondo delle viscere. Sì, anche lei aveva veduto altre volte quegli occhi: ma Elisabetta sbagliava dicendo ch’erano simili ai suoi: erano gli occhi del suo Elis bambino.

Disse subito a sé stessa che si sbagliava anche lei: si offese della sua illusione, del suo turbamento: le pareva di rubare qualche cosa al suo vero Elis commovendosi per questo falso Elis. [p. 56 modifica]

Ma già lo strato della sua indifferenza s’era incrinato: o meglio, era come quando il gelo si scioglie sul prato e qualche filo d’erba pare che nasca dalla neve.

Bona chiamò Elisabetta per mandarla a comperare un paio di scarpette per il bambino: la serva brontolò, perché aveva da fare; allora Michele si offrì di andare lui; e tornò presto, come avesse corso, con un ottimo paio di scarpette. Il bambino, mentre Bona gliele calzava, guardava chino, curioso: d’un tratto sollevò il viso e sorrise alla donna mostrando i suoi otto dentini lucidi: poi tornò a piegarsi e rise forte, senza più osare di toccarsi i piedi.

E finalmente, finalmente la donna sentì come due pietre sciogliersi entro i suoi occhi: lagrime quasi di voluttà le scesero, fermandosi sui solchi del suo viso ove subito s’asciugarono come una lieve pioggia estiva su una terra riarsa.

Ma non voleva farsi vedere a piangere. Da chi se non c’era altri che il cieco? Appunto da lui, che appoggiato alla panca pareva, al solito, odorasse, con le narici un po’ aperte, le cose intorno.

— Adesso che siamo calzati, possiamo andare a spasso — ella disse mettendo il bambino per terra. — Sei buono a camminare? [p. 57 modifica]

Ancora non avevano provato a farlo camminare.

— Su, Elis, su, coraggio, va.

Era la prima volta che lo chiamava così; ma Elis rimaneva attaccato a lei; allora lo riprese in braccio e andò fuori, nel cortile erboso, dietro la casa, dove al disopra del muro si vedeva la china verde della collina.

Uno stupore di sogno regnava nell’aria tiepida; sul cielo turchino le nuvole s’erano fermate e pareva dormissero. Ogni foglia, ogni filo d’erba era nel suo pieno rigoglio, gonfio, lucido di felicità.

Sul ciglione sopra il muro alcuni vecchi tronchi, con solo pochi rametti in cima simili ad artigli, s’erano anch’essi coperti di ciuffi di verde e pareva avessero strappato dell’erba e la tenessero così fra l’unghie per gioco.

Bona sedette sull’erba, stese il lembo della sottana e vi depose il bambino; e il bambino cominciò ad arricciare il naso indicando col ditino un ranuncolo che splendeva lì accanto: lo voleva, voleva odorarlo; qualcuno gli aveva già insegnato a odorare i fiori.

E Bona che credeva di non dover più mai cogliere un fiore, colse il ranuncolo e glielo mise fra le ditine, più belle e delicate dello stelo del fiore. [p. 58 modifica]Il bambino allora allungò il braccio e le accostò al naso il fiorellino: in quell’attimo ella ebbe l’impressione confusa che la vita e la natura volessero riconciliarsi con lei.

Ma ecco il "Mau", il gatto nero che si avanzava molle e silenzioso e le ruba subito l’attenzione e la tenerezza del bambino.

Dapprima i due si guardano, con curiosità diffidente, poi s’intendono subito. Il bambino offre esitando il suo fiore ad odorare al gatto; il gatto odora, ma non si commuove. I suoi occhi verdi come due foglie si sollevano con indolenza a guardare una farfalla che passa volando: anche il bambino la guarda; tutti e due hanno un lieve fremito, un desiderio di conquista; ma la farfalla è già lontana; essi tornano a guardarsi; il bambino allunga il suo piccolo indice per toccare il musino umido del gatto: non osa, però, finché Bona non gli prende la manina e attirando a sé la bestia gliela fa accarezzare tutta. Allora il bambino ricomincia a ridere di piacere, di gioia, e pronunzia finalmente una parola:

— Tata!

— Tata! Chi è? La nonna, la zia, la balia? La mamma non può essere, perché la mamma si chiama solo col suo nome. Mamma!

— Di’ mamma, Elis, mamma. [p. 59 modifica]

Il bambino non lo sa dire: dunque nessuno glielo ha insegnato: forse mamma non ne ha avuto, non ne ha certamente avuto: una mamma non lo avrebbe lasciato sperdersi così nel mondo.

— Di’ mamma, di’ mamma. Mamma? — continuava a insistere Bona, sottovoce, guardandosi attorno per paura di essere sentita.

E ricordava qualche cosa di misterioso, di confuso, una scena alla quale aveva assistito da poco ma non ricordava dove, come, perché. Ah, ecco, il sogno, il segreto che il bambino doveva dirle appena si sarebbero trovati soli.

Ondate di un turbamento ch’era fatto ancora di dolore ardente ma anche di amore, la investivano tutta, così, di tanto in tanto, per ogni gesto ed ogni grido del bambino.

Forse era la primavera, col suo alito materno, a scioglierle quel gran dolore che le aveva pietrificato il sangue nelle vene; il fatto è che ella non cedeva una goccia sola di questo dolore e non voleva più neppure piangere per non perderlo [p. 60 modifica]con le sue lagrime, ma se lo sentiva diverso, scorrerle dentro le vene, caldo, vitale.

La sua folle speranza la riprendeva tutta.

— Egli tornerà, egli tornerà. Se io prendo questo bambino per figlio, Dio mi compenserà col suo ritorno.

Così il marito, di ritorno dal Consiglio, la trovò ancora nel cortile, col bambino, il "Mau", la farfalla che si divertiva per conto suo intorno a loro.

Anche il cieco era venuto piano piano a mettersi in una piega del muro, cercando di non farsi vedere per non irritare la padrona, ma odorando ogni cosa. Il bambino, a sua volta, sentiva che Michele era lì, e tendeva a staccarsi da Bona; ma Bona, che s’accorgeva anche lei della presenza del cieco, provava un senso di gelosia e teneva il piccolo stretto a sé cercando ancora di farlo divertire col gatto.

Oramai però i due amici s’erano stancati di desiderarsi, e cominciavano anzi a guardarsi con ostilità. La coda del buon "Mau" si gonfiava di stizza, le sue unghie apparivano e scomparivano in cima [p. 61 modifica]alle dolci zampette: finché cogliendo l’occasione della comparsa di Davide, col quale non aveva molta confidenza, s’allungò e sgusciò dalla mano di Bona.

Davide sembrava, al solito, di cattivo umore, cosa che, del resto, non impressionava più nessuno: piuttosto ci si sarebbe impressionati a vederlo di buon umore.

Ma anche lui non s’impressionò e finse di nulla, nel vedere Bona col bambino: qualche cosa però dovette passargli nell’anima perché si divertì a tormentare il cieco.

— Che fai lì in agguato? Pare abbi litigato con Dio tanto hai l’aria confusa.

L’altro non aprì bocca: potevano fargli quel che volevano, quel giorno, tanto era contento, d’una gioia un po’ dolorosa di innamorato che è pronto a sacrificare anche il suo amore, purché l’oggetto amato sia felice.

Davide s’avanzava guardando il suo orologio.

— Lo sai, moglie mia, che ora è? Manca un minuto a mezzogiorno. E le tue padrone ancora non hanno preparato la tavola.

Bona fu pronta ad alzarsi, sorreggendo il bambino.

— Ah, ah, siamo già calzati! Bisogna camminare, dunque. E parlare anche. [p. 62 modifica]

Il bambino diede un grido:

— Tata!

— Curioso, non sembra più lui. È come ringiovanito: adesso è un bambino. Cammina, su, giovinotto.

Davide s’era piegato a stendere le braccia ad arco invitando il bambino a staccarsi da Bona. E Bona lasciò libero il bambino: no, del marito non poteva esser gelosa... Eppure un’ombra le attraversò il cuore... Sì, era ancora gelosa perché era ancora viva.

Ma il miracolo al quale assisteva le rischiarò di nuovo il cuore.

Il bambino camminava.

Andava dritto dritto rapido a Davide: inciampò, ma l’uomo fu pronto ad andargli incontro facendo: — Ah, bravo! — e l’accolse fra le sue braccia. Il bambino gli sorrise. Davide allora si volse a pochi passi dal muro e lasciò andare il bambino: e il bambino andò dritto dritto rapido dal cieco; gli afferrò una gamba per appoggiarsi e sollevando il viso sorrise anche a lui.