Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/70

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CAPITOLO LXX

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CAPITOLO LXX.

Carattere del Petrarca e sua coronazione. Libertà e antico governo di Roma, risorto per opera del tribuno Rienzi. Virtù e vizj, espulsione e morte di questo tribuno. Partenza dei Papi d’Avignone e loro ritorno a Roma. Grande scisma d’Occidente. Riunione della Chiesa latina. Ultimi sforzi della libertà romana. Statuti di Roma. Istituzione definitiva dello Stato ecclesiastico.

[A. D. 1374] I moderni non vedono nel Petrarcanota che il Cantore italiano di Laura e dell’amore. In questo armonioso Poeta l’Italia ammira, o piuttosto adora, il padre della sua lirica poesia, e l’entusiasmo o l’ostentazione del sentimento ne ripetono i canti o per lo meno il nome. Qualunque essere possa l’opinione di uno straniero, non avendo egli che una nozione superficiale della lingua italiana, dee starsi 1 [p. 215 modifica]in ordine a ciò al giudizio di una nazione ragguardevole pe’ suoi lumi. Nondimeno oso sperare, o presumo, che gli Italiani non mettano a confronto una serie di Sonetti e di Elegie d’un andamento sempre uniforme e noioso, co’ sublimi componimenti dei loro epici Poeti, colla originalità selvaggia del Dante, colle regolari bellezze del Tasso, coll’inesausta varietà dell’inimitabile Ariosto. Mi vedo anche men atto a giudicare sul merito dell’amante, ed eccita in me poco interesse una passione metafisica concetta per una donna tanto vicina al chimerico, che si è dubitato se vi sia stata2; sì feconda3 che mise al Mondo undici figli legittimi4, mentre il suo spasimato cantava e disacerbava i suoi amorosi affanni [p. 216 modifica]presso alla fontana di Valchiusa5. Secondo l’opinione del Petrarca e quella de’ più gravi suoi contemporanei, questo amore era un peccato, e i versi che lo celebravano un futile passatempo. Egli dovette ai suoi versi latini e ad alcuni tratti di filosofia e di eloquenza, scritti nel medesimo idioma, la sua fama, di cui non tardarono a risonare la Francia e l’Italia: i suoi amici e discepoli si moltiplicarono in ciascuna città; e comunque il grosso volume delle sue Opere6 or dorma in pace, dobbiamo nondimeno encomj e gratitudine all’uomo che coll’esempio e coi precetti fece rivivere il gusto e lo studio degli autori del Secolo d’oro. Il Petrarca aspirò dai suoi primi anni alla corona poetica; e dopo avere ottenuti nelle tre facoltà gli onori accademici, ei ricevè anche il grado supremo di maestro, o dottore in poesia7. Il titolo di Poeta laureato mantenutosi costantemente, piut[p. 217 modifica]tosto per consuetudine che per effetto di vanità alla Corte d’Inghilterra8 venne inventato dai Cesari della Germania. Nelle provoche di musica dell’Antichità9, il vincitore otteneva un premio; credeasi che Virgilio e Orazio fossero stati coronati nel Campidoglio; idea che accese la fantasia del Petrarca; fattosi sospiroso di ottenere gli onori medesimi10, [p. 218 modifica]oltrechè il lauro11 avea per lui un nuovo vezzo venutogli della somiglianza col nome di Laura. Il lauro, e Laura, fattisi scopo degli ardenti suoi voti, crebbero di pregio ai suoi occhi per la difficoltà di ottenerli; ma se la virtù, o la prudenza di Laura rendettero questa inesorabile12, il Petrarca vinse almeno la ninfa della poesia, e potè vantarsi del primo trionfo. La vanità di questo Poeta non fu per vero delicatissima, poichè ad assicurarsi meglio l’adempimento delle sue brame, celebrò da sè medesimo le proprie fatiche e il buon esito delle medesime; popolare era divenuto il suo nome, i suoi amici s’adoperavano fervorosamente per lui, onde superò finalmente, colla destrezza dell’uom di merito che sa ostentare rassegnazione, le opposizioni pubbliche, o segrete della gelosia, o del pregiudizio. Aveva trentasei anni, quando fu sollecitato di accettare ciò che egli ardentemente agognava; e trovavasi nella [p. 219 modifica]sua solitudine di Valchiusa nel giorno in cui ricevette questo solenne invito per parte del Senato di Roma; ed altro simile ne ricevè dall’Università di Parigi. Certamente non era attributo nè della dottrina di una scuola di teologia, nè della ignoranza di una città abbandonata al disordine, il concedere questa Corona immortale, benchè ideale soltanto, che decretano al genio gli omaggi del pubblico e della posterità; ma tal molesta considerazione il Petrarca dal suo animo allontanò. Dopo alcuni momenti d’incertezza e di gioia si risolvè per gli onori che la Metropoli del Mondo offerivagli.

[A. D. 1341] La cerimonia della coronazione13 fu celebrata in Campidoglio sotto gli auspizj di quel supremo Magistrato della Repubblica che del Petrarca era ad un tempo il protettore e l’amico. Vi comparvero dodici giovani patrizj in abito di colore scarlatto, e sei rappresentanti delle primarie famiglie vestiti di verde, che portavano ghirlande di fiori. Appena il Senatore, Conte di Anguillara, collegato coi Colonna, si fu collocato sul trono, facendogli corteggio molti Principi e Nobili, il Petrarca venne chiamato da un araldo, e surse in piede. Dopo avere recitato un discorso sopra un testo di Virgilio e messi voti triplicatamente per la prosperità di Roma, s’inginocchiò [p. 220 modifica]innanzi al trono, d’onde il Senatore, ponendogli la Corona sul capo, pronunciò questi pochi detti ben più preziosi di essa: „Tale è la ricompensa del merito„. Il popolo esclamò: „Lunga vita al Campidoglio e al Poeta!„ Il Petrarca recitando un sonetto a gloria di Roma, fece sfarzo del suo ingegno poetico e d’un animo che sentiva la gratitudine. Trasferitosi il corteggio al Vaticano, Petrarca prostrandosi al Reliquiario di S. Pietro, si tolse dal capo la profana corona poc’anzi ottenuta. Il diploma14 che venne porto al Petrarca, gli concedea il titolo e i privilegi di Poeta laureato dismessi d’uso da tredici secoli, conferendogli facoltà di portare a suo grado una corona d’alloro, o d’edera, o di mirto, di vestire l’abito di poeta, d’insegnare, disputare, interpretare, comporre in qualunque luogo, e sopra qualunque argomento di letteratura. Tal grazia gli ratificarono il Senato ed il popolo, insignendolo in oltre del carattere di cittadino di Roma, siccome premio allo zelo che per la gloria di cotesta città avea dimostrato; onore d’alto riguardo e da esso ben meritato. Avendo egli attinte negli scritti di Cicerone e di Tito Livio le idee di quegli egregi cittadini vissuti ne’ bei tempi della Repubblica, coll’opera di sua ardente immaginazione, arricchivale del calore del sentimento, e ogni sentimento si trasformava in passione. La vista de’ Sette Colli e delle maestose loro rovine invigorì queste vivaci impressioni. Prese ad amar sempre più una nazione che dopo averlo coronato, per proprio figlio adottavalo; gratissimo figlio [p. 221 modifica]che si mosse a pietà e ad indignazione all’aspetto della povertà e dell’invilimento di Roma; dissimulando i falli de’ suoi novelli concittadini, applaudiva con entusiasmo agli ultimi eroi e alle ultime matrone della Repubblica; e trasportato dalle ricordanze del passato, e acceso di speranze sull’avvenire, cercava di velar fino a sè stesso l’obbrobrio de’ tempi nei quali vivea. Roma agli occhi suoi era sempre la padrona legittima dell’Universo; il Papa e l’Imperatore, l’uno il Vescovo, l’altro il Generale di Roma, aveano abbandonato il loro posto facendosi lecita una ignominiosa ritirata sulle rive del Rodano e del Danubio; ma la Repubblica, rivestendo le antiche virtù, potea ricuperare l’antica libertà e l’antico dominio. Intantochè, giuoco dell’entusiasmo e della propria eloquenza15, si abbandonava coll’animo alle luminose chimere che n’erano figlie, una vicissitudine politica, che parve pronta ad avverarsi, venne a rendere attoniti il Petrarca, l’Italia e l’Europa. Imprendo ora a ragionare dell’innalzamento e della caduta del tribuno Rienzi16. L’argomento è impor[p. 222 modifica]tante; i materiali in gran numero, e le contemplazioni animate di un bardo, fatto fervoroso del patriottismo17, ravviveranno il racconto, copioso di circostanze, ma semplice, del Fiorentino18 e soprattutto del Romano19 che questa parte di Storia hanno trattata.

In un rione della città abitato solamente da artigiani e da ebrei, il maritaggio di un ostiere con [p. 223 modifica]una lavandaia diede vita al liberatore di Roma20. Nicola Rienzi Gabrini non potea ricevere da tali genitori nè dignità, nè ricchezze; ma eglino s’imposero sagrifizj per procurargli una liberale educazione, da cui riconobbe e la sua gloria e l’immatura sua morte. Questo giovane plebeo che studiò la storia e l’eloquenza negli scritti di Cicerone, di Seneca, di Tito Livio, di Cesare e di Valerio Massimo, sollevossi per ingegno al di sopra degli eguali e dei contemporanei. Con ardore instancabile interpretava i manoscritti, e le iscrizioni degli antichi marmi, e dilettandosi di traslatarli nella lingua volgare del suo paese, spesse volte si lasciava trasportar sì che esclamava: „Ove sono oggidì que’ Romani, ove le loro virtù, la loro giustizia e possanza? Perchè non nacqui io in tempi più felici?„21. Dovendo la Repub[p. 224 modifica]blica inviare alla Corte di Avignone un’ambasceria composta di tre Ordini dello Stato, Rienzi per suo ingegno ed eloquenza fu nominato fra i tredici Deputati de’ Comuni. Colà ebbe l’onore di arringare Papa Clemente VI, e il diletto di conversare col Petrarca, ingegno che a quel di Cola si confaceva; ma la povertà e l’umiliazione impacciavano le sue mire ambiziose, onde il patriotta romano vedeasi costretto a vestire un sol abito e a vivere delle elemosine dello spedale. Fosse per giustizia che si volle rendere al merito del medesimo, o aura temporanea di fortuna, si tolse finalmente da quello stato di abbiezione, ottenendo l’impiego di notaio appostolico, d’onde gli derivarono e uno stipendio giornaliero di cinque fiorini d’oro, e più estese ed onorevoli corrispondenze, e la facilità di esporre a pubblico confronto l’illibatezza delle sue parole e delle sue azioni, co’ vizj che allor dominavano nello Stato. La sua eloquenza rapida e persuasiva facea grande impressione sulla moltitudine, ognor propensa all’invidia e alla censura. Mortogli un fratello per mano d’assassini, l’impunità di costoro l’infiammò di nuovo ardore, in un tempo in cui era impossibile scusare, o esagerare i disordini pubblici. Sbandite vedeansi dall’interno di Roma l’integrità e la giustizia, che pur d’ogni civile società sono lo scopo. Molti cittadini22, i quali si sarebbero forse rassegnati agli aggravj che li ferivano soltanto nelle persone, [p. 225 modifica]o negli averi, mossi dalla gelosia, ingenita soprattutto ne’ Romani, sentivano più d’ogni ingiuria il disdoro bene spesso arrecato al pudore delle lor donne; erano oppressi parimente dall’arroganza dei superbi Nobili e dalla prevaricazione de’ Magistrati corrotti; e, giusta gli emblemi allegorici, per più riprese, e in diverse fogge comparsi sopra certe pitture che il Rienzi esponeva a pubblica vista nelle strade e nelle chiese, la sola differenza tra i cani e i serpenti consisteva in ciò che i primi abusavano dell’armi, delle leggi, i secondi. Intanto che la folla attratta dalla curiosità di questi quadri, stavasi contemplandoli, l’oratore pien d’ardimento, e sempre apparecchiato, ne svolgeva il senso, ne applicava la satira, accendea le passioni degli spettatori, e lasciava tralucere una lontana speranza di conforto e di liberazione. I privilegi di Roma, la sovranità di essa, eterna su i proprj Principi e le proprie province, erano, in pubblico e in privato, l’argomento de’ suoi discorsi. Un monumento di servitù divenne fra le sue mani un titolo di libertà, uno sprone a ricuperarla; intendo il decreto col quale il Senato concedea amplissime prerogative all’Imperator Vespasiano, inciso sopra una tavola di bronzo, che vedeasi tuttavia nel coro della chiesa di S. Giovanni di Laterano23. Il Rienzi convocò, per udire la lettura di un tale decreto, molto numero di plebei e di Nobili, ad accogliere i quali avea fatto preparare un chiuso recinto. Egli vi comparve vestito [p. 226 modifica]d’un abito in cui scorgeasi la magnificenza e ad un tempo non so che di mistero; dopo letta e tradotta in volgar lingua questa iscrizione24, ne fece il comento diffondendosi con fervida eloquenza sull’antica gloria del Senato e del popolo, dai quali ogni specie di poter legittimo derivava. L’indolente ignoranza de’ Nobili non permettea loro d’accorgersi ove andassero a ferire queste singolari rimostranze; alcune volte per vero dire, maltrattarono con parole, e sin con percosse, il plebeo che voleva assumere le parti di riformatore; ma spesse volte ancora gli lasciarono la libertà d’intertenere colle sue minacce e predizioni i cittadini che attorno al palazzo Colonna assembravansi; e il moderno Bruto25 sotto la maschera di pazzo buffone si nascondea. Mentre così comportava di essere scopo alle lor decisioni, la restaurazione del Buono Stato, sua espressione prediletta, compariva a mano a mano al popolo un avvenimento desiderabile, poi possibile, e per ultimo imminente: così preparati gli animi de’ plebei ad ap[p. 227 modifica]plaudire al liberatore che veniva loro promesso, vi fu tra essi chi ebbe il coraggio di secondarlo.

[A. D. 1374] Una profezia, o piuttosto una intimazione affissa alla porta del tempio di S. Giorgio, fu la prima spiegazione pubblica de’ suoi disegni; un’assemblea di cento cittadini, convenuti di notte tempo sul monte Aventino, fu il primo passo verso l’esecuzione di questi disegni. Dopo avere preteso dai cospiratori un giuramento di mantenere il segreto e di aiutarlo, mostrò loro l’importanza dell’impresa e la facilità di condurla a termine: discordi fra loro i Nobili, privi di soccorsi, forti soltanto pel timore che l’immaginaria loro possanza inspirava; congiunti nel popolo il diritto e il potere; bastanti le rendite della Camera Appostolica ad alleggerire la miseria pubblica; l’utile che lo stesso Pontefice avrebbe trovato nel vederli trionfare de’ nemici del governo e della libertà. Dopo avere assicurato alla manifestazione delle sue intenzioni l’appoggio di una banda di fedeli partigiani, ordinò loro, a suon di tromba, di essere, senz’armi, nella notte della domane, innanzi alla chiesa di S. Angelo per provvedere alla restaurazione del Buono Stato; fu questa notte impiegata nel far celebrare trenta Messe ad onore dello Spirito Santo. Allo schiarire del giorno uscì della chiesa col capo scoperto, armato di tutto punto, e fiancheggiato da cento cospiratori. Il Vicario del Pontefice, semplice Vescovo di Orvieto, indotto a sostenere una parte in questa singolare cerimonia, camminava alla destra del Rienzi, dinanzi al quale venivano portati tre stendardi, emblemi dei disegni de’ congiurati. L’un d’essi stendardi, detto la bandiera della Libertà, rappresentava Roma, che, [p. 228 modifica]seduta sopra due lioni, tenea in una mano una palma, nell’altra un globo; sul secondo stendardo, bandiera della Giustizia, vedeasi S. Paolo colla spada sguainata; sul terzo, S. Pietro colle chiavi della Concordia e della Pace. Incoraggiavano il Rienzi gli applausi d’una innumerabile folla che intendea poco il significato di tutto questo apparecchio, ma datasi cionnullameno a grandi speranze: la processione si condusse lentamente dal Castel Sant’Angelo al Campidoglio. Nondimeno alcuni interni moti che il Rienzi si sforzava nascondere, non permetteano all’animo suo di darsi con piena tranquillità al sentimento del suo trionfo. Asceso, senza incontrare ostacoli e con apparente fiducia, sulla rocca della Repubblica, dall’alto del balcone arringò il popolo, che ne confermò gli atti e le leggi nel modo per lui il più lusinghiero. I Nobili, come se stati fossero sforniti di armi, e inabili a prendere verun partito, rimasero spettatori costernati e silenziosi di questa stravagante sommossa, per la quale era stato ad arte scelto il momento, in cui Stefano Colonna, il più formidabile di tutti i Nobili, dimorava fuori di Roma. Al primo sentore delle accadute cose, vi ritornò, e standosi nel suo palagio, ostentò di sprezzare questo movimento popolare, facendo noto al Deputato del Rienzi, che a proprio bell’agio avrebbe fatto gettar giù dalle finestre del Campidoglio il pazzo, dal quale quell’ambasceria gli veniva. Immantinente sonò a stormo la grande campana; e fu tanto rapida la sollevazione, e tanto incalzante il pericolo, che Stefano Colonna raggiunse a precipizio il sobborgo S. Lorenzo, d’onde, dopo avere preso fiato un istante, si allontanò, sempre colla medesima sollecitudine, fintantochè si ve[p. 229 modifica]desse in sicuro nel suo Castello di Palestrina, ove in appresso rampognò sè medesimo di poca antiveggenza, per non avere spenta la prima scintilla di un sì formidabile incendio. Dal Campidoglio emanò una intimazione generale e perentoria a tutti i Nobili, perchè si ritirassero tranquillamente ne’ loro dominj; questi obbedirono, e la loro partenza assicurò la tranquillità di Roma, che sol cittadini liberi, ed obbedienti al nuovo ordine di cose, omai racchiudea.

Ma una sommessione volontaria coi primi trasporti dell’entusiasmo dileguasi, onde il Rienzi conobbe quanto gli rilevasse giustificare la sua usurpazione col darle forme regolari, e mediante un titolo legale sancirla. Dipendea dalla sua volontà che il popolo grato, ed ebbro del riacquistato uso del potere, accumulasse sopra di lui i titoli di Senatore e di Console, d’Imperatore e di Re; ma preferì l’antico e modesto nome di tribuno; sacro titolo del quale la protezione delle Comuni formava l’essenza: quell’ignorante plebe poi non sapea che il tribunato non avea mai conferito il diritto di partecipare al potere legislativo, o esecutivo della Repubblica. Col nome pertanto di tribuno, il Rienzi, acconsentendo i Romani, pubblicò salutarissimi regolamenti per la restaurazione e il mantenimento del Buono Stato. Conforme ai voti della onestà e della inesperienza, fu promulgata una legge per terminare entro quindici giorni tutte le cause civili. La frequenza in que’ giorni degli spergiuri, e i gravi danni che ne derivavano, giustificano forse un’altra legge che puniva il calunniatore, o il testimonio falso, colla medesima pena cui sarebbe soggiaciuto, se colpevole, l’accusato. Il legislatore può vedersi costretto dai disordinamenti [p. 230 modifica]politici del tempo a percotere con pena capitale tutti gli omicidj, a prescrivere il taglione per qualsisia ingiuria. Non essendovi da sperare una buona amministrazione della giustizia che dopo avere abolita la tirannide de’ Nobili, fu stabilito, che niuno, eccetto il supremo Magistrato, non avrebbe il possesso, o il comando delle porte, de’ ponti, o delle torri dello Stato; che niun presidio particolare verrebbe introdotto nelle città o castella del territorio romano; che niun privato avrebbe il dritto di portar armi, o di fortificar la sua casa, nè in città, nè in campagna; che i Baroni sarebbero eglino stessi mallevadori della sicurezza delle pubbliche strade, e dello spaccio libero delle derrate; che ogni protezione conceduta ai malfattori ed ai ladri verrebbe punita con una menda di mille marchi d’argento. Inutili però e ridicoli sarebbero stati questi regolamenti, se non gli avesse sostenuti una forza capace di tenere a freno la licenza de’ Nobili. Al primo momento di sospetto, la campana del Campidoglio potea mettere in armi più di ventimila volontarj; ma il tribuno e le leggi abbisognavano d’una forza più regolare e più stabile. In ciascun porto della costa, venne collocato un naviglio incaricato di proteggere il commercio. I tredici rioni della città somministrarono, vestirono, e pagarono a proprie spese una milizia permanente di trecensessanta uomini a cavallo, e di mille trecento fantaccini; e già si ravvisa lo spirito delle repubbliche nel donativo di cento fiorini, assegnato con decreto, come testimonianza dì pubblica gratitudine agli eredi de’ militari che pel servigio dello Stato avessero perduta la vita. Senza timore di comparire sacrilego, il Rienzi adoperò le rendite [p. 231 modifica]della Camera Appostolica alla pubblica difesa, alla istituzione di pubblici granai, al sollievo delle vedove, degli orfani, e de’ conventi poveri. L’imposta sui fuochi, l’altra sul sale, e l’altra sulle dogane, produceano ciascuna centomila fiorini annuali26; gli è forza credere che gli abusi fossero giunti al massimo eccesso, se, come vien detto, la giudiziosa assegnatezza del tribuno triplicò, in quattro, o cinque mesi, la rendita della tassa sul sale. Dopo avere così riordinate le forze e le rendite della Repubblica, il Rienzi intimò ai Nobili, che ne’ solitarj loro castelli continuavano tuttavia a godere independenza, di trasferirsi al Campidoglio, per prestare ivi giuramento di fedeltà al nuovo Governo, e di sommessione alle leggi del Buono Stato. Temettero questi per la loro sicurezza, ma ben sentendo che un rifiuto sarebbe stato anche più pericoloso dell’obbedienza, i Principi, e i Baroni ritornarono a Roma, e come semplici e pacifici cittadini rientrarono nelle proprie case. I Colonna, gli Orsini, i Savelli, e i Frangipani si videro confusi dinanzi al tribunal d’un plebeo, di quel vil buffone che aveano sì spesse volte deriso, alla quale umiliazione aggiugneasi la rabbia di dover celare, senza averne la forza, l’interno dispetto. Egual giuramento fu pronunziato a mano a mano [p. 232 modifica]dalle diverse classi della società, dal Clero e dagli agiati cittadini, dai giudici e dai notai, dai mercanti e dagli artigiani. L’ardore e la sincerità delle giurate cose, vie più manifestavasi a proporzione dell’avvicinarsi alle ultimi classi. Tutti giurarono di vivere e di morire in seno della Repubblica e della Chiesa, l’interesse della quale il Tribuno ebbe l’arte di collegare al proprio, chiamando per formalità suo collega nella carica il Vescovo d’Orvieto, Vicario del Papa. Gloriavasi il Rienzi di avere liberati il trono e il Patrimonio di S. Pietro da un’aristocrazia di ribelli, e Clemente VI, rallegrandosi per allora di vedere depressi i Nobili, mostrava di credere alle manifestazioni d’affetto che gli venivano per parte del Riformatore, di averne per accetti i servigi e di confermare la podestà che il popolo gli avea conferita. Un intensissimo zelo per la purezza della Fede animava le parole, e forse il cuore del Rienzi; lasciò credere accortamente che lo Spirito Santo lo avesse incaricato di una missione soprannaturale, condannò a gravi multe pecuniarie coloro che non adempirebbero il dovere annuale della Confessione e della Comunione, si diede con opera indefessa e vigorosa a mantenere la felicità spirituale e temporale del fedele suo popolo27.

Non si è forse mostrata giammai con tanto vigore la forza del carattere di un sol uomo, come nel subitaneo cambiamento politico, benchè passeggiero, che [p. 233 modifica]il tribuno Rienzi operò. Egli sottomise un covazzo di banditti alla disciplina d’un esercito, o d’un convento; paziente nell’ascoltare, pronto nel render giustizia, inesorabile nelle punizioni. Facilmente poteano avvicinarsi a lui il povero e lo straniero. Nè la nascita, nè le dignità, nè le immunità della Chiesa valevano a salvare un reo, o i complici del reo. Aboliti in Roma gli edifizj privilegiati, e tutti quegli asili che impacciavano ne’ loro atti gli ufiziali della giustizia, adoperò il ferro e il legno de’ distrutti cancelli alle fortificazioni del Campidoglio. Il vecchio padre dei Colonna, che avea nel proprio palagio dato asilo a un colpevole, soggiacque al duplice obbrobrio di averlo voluto salvare e di fare scorgere la sua impotenza. In vicinanza di Capranica erano stati rubati un mulo e un vaso d’olio. Il Signor del Cantone, che apparteneva alla famiglia Orsini, fu condannato a pagare il valore del mulo e dell’olio, ed inoltre un’ammenda di cinquecento fiorini, per non avere mantenuta ben difesa la strada; nè la persona de’ Baroni, meglio delle lor case o terre, sottraevasi al rigor delle leggi. O fosse caso, o il facesse ad arte, Rienzi usava eguale severità ai Capi delle opposte fazioni. Pietro Agapito Colonna, stato Senatore di Roma, fu arrestato in mezzo alla strada per un’ingiustizia commessa, o per debiti; e Martino degli Orsini che ad altri atti di violenza e rapina aggiunse quello di predare un naviglio naufragato alla foce del Tevere, dovette riparare colla sua morte l’oltraggio fatto alla pubblica giustizia28. Nè il nome [p. 234 modifica]di lui, nè la porpora di due zii Cardinali, nè un maritaggio di recente contratto, nè lo stato di convalescenza, in cui trovavasi dopo una mortale infermità, furono circostanze atte a smovere l’inflessibile Tribuno, che volendo dare un esempio, avea scelta già la sua vittima. I pubblici ufiziali strapparono dal suo palagio e dal suo letto nuziale Martino; breve ne fu il processo, e fuor d’ogni dubbio apparve l’evidenza dei commessi delitti; la squilla del Campidoglio adunò il popolo; il reo, spogliato del suo manto, ginocchione, e colle mani legate dietro la schiena, ascoltò la sua sentenza di morte; poscia, concedutigli brevi momenti per confessarsi, venne condotto al patibolo. D’indi in poi, qualunque reo, perdendo ogni speranza di evitare il castigo, quanti eranvi scellerati, partigiani del disordine e oziosi, purificarono colla loro fuga i recinti e il territorio di Roma. „Allora, dice il Fortifiocca, le foreste si allegrarono per non essere più dai masnadieri infestate; i buoi ripigliarono i lavori dell’agricoltura; i pellegrini tornarono a visitare le chiese; le strade maestre e i pubblici alberghi si empierono di viag- [p. 235 modifica]giatori; il commercio, l’abbondanza, la buona fede ricomparvero ne’ mercati, talchè una borsa piena di oro poteasi lasciar con sicurezza in mezzo ad una strada la più frequentata„. Quando i sudditi non hanno motivo di temere per le proprie vite e sostanze l’industria e le ricchezze che la compensano, risorgono ben tosto di per sè stesse. Roma si manteneva sempre le Metropoli del Mondo cristiano, e gli stranieri che dalla felice amministrazione del Tribuno erano stati protetti, ne magnificavano per ogni dove la fortuna e la gloria. Incoraggiato dal buon successo de’ primi divisamenti, il Rienzi concepì un’idea anche più vasta, ma forse chimerica di per sè stessa; quella di unire i diversi Stati dell’Italia, fossero principati, o città libere, in una Repubblica federale, in cui Roma tenesse, come altre volte, e giustamente, il primo grado. Non meno eloquente negli scritti che ne’ discorsi, incaricò di numerose sue lettere diversi messaggieri fedeli e solleciti, che portando in mano un bianco bastone, attraversavano i boschi e le montagne, e venivano, anche presso i paesi nemici, riguardati com’uomini insigniti del sacro carattere di ambasciatori. Fosse adulazione, o verità, raccontarono, tornando dal loro viaggio, di aver trovati gli orli delle strade piene di prostrate turbe, che imploravano al loro cammino un buon successo dal Cielo. Se le passioni fossero state capaci di ascoltar la ragione, se l’interesse pubblico avesse potuto trionfare del privato, certamente l’Italia confederata e retta da un Tribunale supremo, si sarebbe riavuta dai mali che le sue discordie intestine le aveano apportati, e avrebbe chiuse le Alpi ai Barbari del Settentrione. Ma l’e[p. 236 modifica]poca favorevole ad una tale unione era trascorsa; e se Venezia, Firenze, Siena, Perugia, e alcune città di minor ordine offersero al Buono Stato la vita e le sostanze de’ lor cittadini, i tiranni della Lombardia e della Toscana non poteano che disprezzare, o abborrire il plebeo che era pervenuto a fondare una libera costituzione. Però le risposte che vennero e dalle une e dalle altri parti d’Italia, abbondavano di manifestazioni di amicizia e di riguardo al Tribuno. Nè andò guari che il Rienzi ricevè gli ambasciatori dei Principi e delle Repubbliche, e in mezzo a tanto concorso di stranieri, e con tutti quelli coi quali o per affari, o per piacere conversò il notaio plebeo, seppe mantenere il contegno or maestoso, or nobilmente affabile che ad un Sovrano si addice29. L’istante più glorioso del suo regno si fu allor quando Luigi, Re d’Ungheria, invocò la giustizia del Tribuno contro la cognata, Giovanna, Regina di Napoli, accusata di aver commesso al capestro il marito30. Il processo di questa Sovrana venne solen[p. 237 modifica]nemente a Roma agitato; ma dopo avere uditi gli avvocati d’ambe le parti31, il Rienzi ebbe il senno di differire ad altro tempo la decisione di un sì alto affare, che la spada dell’Ungarese non tardò poi a conchiudere. Oltre le Alpi, e soprattutto ad Avignone, questo grande cambiamento di cose eccitò curiosità, sorpresa ed applausi. Rammentando che il Petrarca era vissuto in intrinsechezza col Rienzi, e lo avea fors’anche confortato co’ suoi consigli, non troveremo cosa maravigliosa, se gli scritti pubblicati dal Poeta in que’ giorni spirano per ogni dove ardore di patriottismo e di gioia; il rispetto ch’egli professava al Pontefice, la gratitudine che doveva ai Colonna, sparvero a fronte de’ più sacri obblighi di cittadino. Il Poeta laureato del Campidoglio approva la sommossa, ne applaudisce l’Eroe, e in mezzo ad alcuni suggerimenti, e ad alcune paure che trapelano nella sua Epistola hortatoria, annunzia alla Repubblica belle speranze di una grandezza eterna, e sempre più luminosa32. Intantochè il Petrarca alle sue visioni profetiche [p. 238 modifica]si abbandonava, rapidamente declinavano la fama e il poter del suo Eroe. Il popolo che avea contemplata ammirando l’ascensione della meteora, incominciava ad accorgersi delle irregolarità che essa dava a diveder nel cammino, e delle ombre che spesse volte ne oscuravano lo splendore. Più eloquente che giudizioso, più intraprendente che risoluto, il Rienzi non assoggettava, quanto avrebbe dovuto, le facoltà della sua mente all’impero della ragione, ed esagerava sempre in proporzione decupla a sè medesimo e gli argomenti della speranza e que’ del timore; onde la prudenza che non avrebbe di per sè sola bastato ad innalzarlo a sì alto grado, non si prese cura di mantenervelo. Giunto all’apice della grandezza, le sue buone qualità presero insensibilmente l’indole di que’ vizj che confinano con ciascuna virtù.

La giustizia di lui tralignò in crudeltà, la liberalità in profusione, il desiderio di fama in ostentazione e vanità puerile. Egli avrebbe dovuto non ignorare che i primi Tribuni, tanto forti e sacri nella pubblica opinione, non diversi nel tuono, nelle vesti, nel contegno da un qualunque altro plebeo, da questo si distinguevano solo allora, che adempiendo gli atti del proprio ufizio, trascorreano la città a piedi, accompagnati da un solo viator, o sergente33. [p. 239 modifica]Si sarebbero sdegnati i Gracchi, o forse non avrebbero frenate le risa in veggendo il lor successore attribuirsi i predicati di SEVERO E MISERICORDIOSO, LIBERATORE DI ROMA, DIFENSORE DELL’ITALIA34, AMICO DEL GENERE UMANO, DELLA LIBERTÀ’, DELLA PACE E DELLA GIUSTIZIA; TRIBUNO AUGUSTO. Con un apparecchio teatrale il Rienzi avea preparato il cambiamento politico della sua patria; ma di poi, abbandonatosi al lusso e all’orgoglio, abusò della politica massima che consiglia di parlare ad un tempo agli occhi e all’animo della moltitudine. Avea ricevuti tutti i doni esterni dalla natura35; ma [p. 240 modifica]giartemperanza col farlo divenire troppo pingue, lo sformò; sol con una gravità e severità ostentate correggea in pubblico la sua propensione al riso smodato. Vestiva, almeno ne’ giorni di gala, un abito di velluto, o di raso di varj colori, foderato di pelliccia e ricamato d’oro: il bastone della sua magistratura che tenea in mano, era uno scettro d’acciaio tratto ad estrema pulitura, sormontato da un globo e da una Croce d’oro, che racchiudeva un pezzetto della vera Croce. Allorchè trascorrea la città, od assisteva ad una processione, cavalcava un bianco palafreno, simbolo del Governo regio; gli sventolava sopra la testa il grande stendardo della Repubblica, su di cui erano dipinti il Sole in mezzo ad un campo di stelle, una colomba e un ramo d’olivo; gettava alla plebe piastre d’oro e d’argento; cinquanta guardie armate di labarde lo circondavano; lo precedea uno squadrone di cavalleria fornito di timballi e di trombe d’argento massiccio.

[A. D. 1347] Il desiderio che manifestò di ottenere il grado di Cavaliere36 diede solennità all’abbiezione de’ suoi [p. 241 modifica]natali, e invilì la dignità del suo ufizio; oltrechè, col farsi armar cavaliere, divenne ad un tempo odioso ai Nobili, fra i quali prendeva sede, e ai plebei che da lui si vedevano abbandonati. Per una tal cerimonia, che dissipò le somme che rimaneano nell’erario, fu posto in opera tutto quanto il lusso e le arti di quella età potevano somministrare. Partitosi dal Campidoglio il corteggio, si trasferì al palagio di Laterano, trovando per tutto il cammino e decorazioni, e giuochi che ne festeggiavano il passaggio; l’Ordine civile e il militare marciavano, ciascuno, sotto le proprie bandiere; le matrone romane accompagnavano la moglie del Tribuno, e gli Ambasciatori de’ diversi Stati dell’Italia, presenti alla cerimonia, dovettero certamente applaudire in pubblico, e deridere in loro cuore, una pompa tanto nuova e bizzarra. Giunto la sera alla Chiesa e al palagio di Costantino, congedò, ringraziandola la numerosa sua comitiva, e la invitò per la festa della domane. Ricevette l’Ordine dello Spirito Santo da un vecchio Cavaliere dopo la purificazione nel bagno. Nel compiere questa cerimonia, più che con ogn’altro suo atto, il Tribuno disgustò e venne in ira ai Romani per essersi valso dal vaso di porfido, d’onde, giusta una ridicola tradizione, Costantino avea per opera del Pontefice Silvestro ricevuto il risanamento dalla lebbra che lo affliggea37. Osò indi vegliare, o piut[p. 242 modifica]tosto dormire, nel recinto sacro del battistero; ed un caso fortuito avendo fatto cadere il suo letto solenne, venne tratto da ciò il presagio della sua vicina caduta. Nel seguente giorno, allorchè i Fedeli si adunavano per le cerimonie del culto, si mostrò alla folla in maestoso atteggiamento, vestito di porpora, colla spada e cogli speroni d’oro. Giuntane ad estremo grado la stoltezza e l’audacia, interruppe i Santi Misteri, alzandosi dal trono, e fatti alcuni passi verso l’Assemblea, ad alta voce gridò. „Noi intimiamo al Pontefice Clemente di comparire al nostro Tribunale; gli comandiamo di risedere nella sua diocesi di Roma; la stessa intimazione di presentarsi dinanzi a noi volgiamo al Collegio de’ Cardinali38, e ai due pretendenti Carlo e Lodovico di Baviera, che si arrogano i titoli d’Imperatori; ordiniamo parimente a tutti gli Elettori dell’Alemagna che c’instruiscano con qual pretesto hanno usurpato il diritto inalienabile del popolo romano, solo, antico e legittimo Sovrano dell’Impero„39. Sguainò indi la sua [p. 243 modifica]spada, vergine ancora, l’agitò per tre riprese verso le tre parti del Mondo, e nel delirio che lo avea preso, per tre volte esclamò: „E ciò ancor mi appartiene„. Il Vescovo di Orvieto, Vicario del Papa, voleva adoperarsi ad arrestare il corso di tutte queste pazzie; ma una musica guerresca soffocava le sue deboli proteste; nè osò autenticarle col togliersi dall’Assemblea; ma anzi terminata la cerimonia, pranzò col suo collega Rienzi ad una tavola, fino a quel dì riservata pel solo Pontefice. Fu apparecchiato un banchetto sullo stile delle mense di cui un giorno i Cesari soleano presentare i Romani. Gli appartamenti, i portici, i cortili del palagio di Laterano vedeansi tutti ingombrati da tavole per gli uomini e per le donne di ogni grado: un torrente di vino sgorgava dalle narici del cavallo di bronzo che portava la statua del fondatore di Costantinopoli, e se d’alcuna cosa difettava quel convito, difettava sol d’acqua: le cure presesi per il buon ordine e la paura tennero in freno la popolare licenza. Venne indi assegnato il giorno per l’incoronazione di Rienzi40. I più ragguardevoli personaggi del Clero romano gli posero, l’un dopo l’altro, sul capo sette corone di differenti metalli, che rappresentavano i Sette Doni dello Spirito Santo: in tal guisa s’avvisava il Rienzi di seguir l’esempio degli antichi tribuni! Spettacoli così straordinarj ingannavano, o lusingavano il popolo, che nella soddisfatta vanità [p. 244 modifica]del suo Capo credea soddisfatta la propria. Ma poichè anche nella vita privata, si stolse dalle leggi della frugalità e dell’astinenza, i plebei che sopportato aveano con pazienza il fasto de’ Nobili, quello del loro eguale mal tollerarono. La moglie, il figlio, lo zio del Rienzi, barbiere di professione, serbando nondimeno ignobili modi, aveano aperte case da Principi.

Così un semplice cittadino descrive in tuono compassionevole, e forse con qualche compiacenza, l’umiliazione dei Baroni di Roma: „Comparivano innanzi al Tribuno col capo scoperto, e colle braccia incrocicchiate sul petto, e cogli occhi bassi; e oh come tremavano!„41. Fintantochè il Rienzi contenne unicamente col freno della giustizia la popolazione, fintantochè le sue leggi parvero essere quelle del popolo romano, la coscienza costringeva i Nobili ad apprezzare quell’uomo, che detestavano per orgoglio e per interesse; ma quando le stranezze del Tribuno fecero sì ch’essi aggiugnessero all’odio il disprezzo, concepirono la speranza di abbattere un potere, che non era più con egual vigore dalla confidenza pubblica sostenuto. La comune sventura ridusse per qualche tempo al silenzio la nimistà dei Colonna e degli Orsini, che si unirono co’ loro voti contra il Rienzi, e forse combinarono insieme i divisamenti per perderlo. Venne in questo mezzo arrestato un masnadiere che aveva attentato contro la vita [p. 245 modifica]del Tribuno; e, posto alla tortura, accusò i Nobili, come suoi instigatori. Dacchè il Rienzi incominciò a meritarsi il destino de’ tiranni, ne prese parimente le massime e le paure. Nello stesso giorno per tanto chiamò, sotto diversi pretesti al Campidoglio, i suoi principali nemici, tra i quali si noveravano cinque individui della famiglia Orsini, e tre della Colonna; ma in vece di trovarsi invitati ad un consiglio, o ad una festa, si videro tenuti prigionieri sotto la spada del dispotismo, o della giustizia; onde, o innocenti, o colpevoli, il timore per loro dovette essere eguale. Lo squillo della maggiore campana avendo adunato il popolo, vennero accusati di una cospirazione contro la vita del Tribuno; e benchè vi fosse fra i Romani chi deplorava la sciagura dei prigionieri, un solo non ardì di sollevare una mano, nemmeno una voce, per sottrarre al pericolo che le minacciava le teste dei primi Nobili di Roma. La disperazione sosteneva in essi l’apparenza del coraggio; eglino trascorsero fra le angosce in separate stanze la notte, e il venerabile Eroe dei Colonna, Stefano, picchiando alla porta del suo carcere, supplicò per più riprese le sentinelle perchè con una sollecita morte da sì indegna schiavitù il liberassero. L’arrivo di un confessore e il tintinnìo di una campana finalmente fecero ad essi manifesto il loro destino. Il salone del Campidoglio, preparato all’uopo del sanguinoso spettacolo, vedeasi tappezzato a rosso e a bianco. Cupa e severa mostravasi la fisonomia del Tribuno; stavano apparecchiati colle scuri in mano i carnefici; lo strepito delle trombe soffocava gli accenti che i Baroni condannati avrebbero voluto volgere ai circostanti; ma in un momento sì decisivo, [p. 246 modifica]lo stesso Rienzi non era men perplesso ed inquieto de’ suoi prigionieri: temea lo splendore dei loro nomi, il risentimento delle famiglie, l’incostanza del popolo, i rimproveri dell’Universo; laonde, dopo avere arrecato ad essi mortale oltraggio, potè entrare in lui la speranza chimerica, che, perdonando, avrebbe ottenuto a sua volta perdono; e pronunziò un’elaborata diceria assumendo il tuono di cristiano e di supplichevole; chiamando sè umile ministro dei Corpi comunali, si fece ad intercedere da questi suoi padroni la grazia de’ Nobili rei, offerendo la propria fede ed autorità, quali mallevadori della buona condotta che tenuta avrebbero per l’avvenire. „Se la clemenza de’ Romani vi fa grazia, così volse ad essi il discorso, non è egli vero che promettete di consagrare la vostra vita e le vostre sostanze alla difesa del Buono Stato?„. Soprappresi i Baroni da questa inesplicabil clemenza, risposero con una inchinazione di capo, e intantochè rinovavano il giuramento di fedeltà, giusta ogni credere, formavano voti sincerissimi di vendetta. U42n sacerdote promulgò a nome del popolo l’assoluzione loro; poi ricevettero il Pane Eucaristico in compagnia del Tribuno; indi, dopo avere assistito ad un banchetto, seguirono la processione; e per tal modo essendo [p. 247 modifica]stati adoperati senza risparmio tutti i contrassegni spirituali e temporali di riconciliazione, tornarono alle case loro insigniti de’ nuovi titoli di Generali, consoli e patrizj. La ricordanza del pericolo corso, più che la gratitudine per la loro liberazione, tennero per alcune settimane cheti gli Orsini e i Colonna; ma finalmente i più poderosi di entrambe le famiglie, usciti di Roma, innalzarono a Marino lo stendardo della sommossa. Riparate affrettatamente le mura di questo castello, i vassalli si trasferirono presso i loro Signori; chiunque, condannato in contumacia, non potea sperare la protezion delle leggi, si armò contro il Magistrato; per tutta la strada che conduce da Marino a Roma, venivano rubate le mandrie, devastati i vigneti e i campi di biada; e il popolo accusava Rienzi di quelle calamità che il governo di Rienzi gli avea fatto dimenticare. Cotest’uomo, il quale faceva assai miglior comparsa dalla tribuna che sul campo di battaglia, andò lento nelle provvisioni per arrestare i ribelli, e quando cominciò a decretarne, questi aveano già raccolti molti soldati e rendute inespugnabili le loro Fortezze. La lettura di Tito Livio non avea conferito a Rienzi nè il sapere, nè il valore di un Generale: ventimila Romani si videro costretti a tornar addietro, privi di buon successo e di gloria, dall’assalto del castel di Marino; il Tribuno intanto teneva a bada la sua vendetta or con pitture che mostravano i nemici col capo volto, ora annegando allegoricamente due cani; fossero almeno stati due orsi, giacchè egli intendeva di alludere agli Orsini. Con ciò convincendo sempre più della sua incapacità i ribelli, questi mandarono [p. 248 modifica]avanti con maggior vigore le loro fazioni. Sostenuti in segreto da un grosso numero di cittadini, si accinsero all’opera d’introdursi, fosse a viva forza, o per sorpresa, entro Roma, conducendo seco quattromila fantaccini, e mille seicento uomini a cavallo. Custodita accuratamente era la città; la campana a stormo sonò tutta la notte. Le porte furono a vicenda guardate con grande sollecitudine, ed aperte con incredibile audacia. Pur, dopo qualche titubazione, gli armati esterni credettero opportuna cosa il ritirarsi; e già le due prime divisioni di questo esercito si allontanavano, allor che i Nobili del retroguardo, vedendo libero l’ingresso di Roma, da un imprudente valore si lasciarono trasportare. Felici nel successo di una prima scaramuccia, furono indi oppressi dal numero de’ Romani e senza remissione trucidati. Quivi perì Stefano Colonna il Giovane, dal quale il Petrarca aspettava la restaurazione dell’Italia. Prima di Stefano erano già caduti sotto il ferro nemico e Giovanni, giovanetto che porgea grandi speranze, e Pietro, che dovette augurarsi la tranquillità e gli onori della Chiesa, l’un figlio, l’altro fratello, e un nipote di Stefano, e due bastardi della famiglia Colonna; e il numero di sette, le sette corone dello Spirito Santo, chiamavale Rienzi, fu compiuto dalle mortali angosce di un inconsolabil padre, del vecchio Capo della Casa Colonna, che sopravvisse alla speranza e alle sciagure della sua gente. Il Tribuno, per animare vie più le sue truppe, immaginò un’apparizione e una profezia di S. Martino e di Bonifazio VIII43. [p. 249 modifica]Nell’inseguire almeno i nimici, Rienzi dimostrò un coraggio da eroe, dimenticando peraltro la massima degli antichi Romani che abborrivano i trionfi nelle civili guerre ottenuti. Asceso il Campidoglio, depose sull’altare la corona e lo scettro, millantando, nè privo affatto di fondamento era un tal vanto, di aver troncata un’orecchia, che troncar non poterono nè il Papa, nè l’Imperatore44. Ricusando, per sentimenti di bassa e implacabil vendetta, ai morti gli onori della sepoltura, i corpi dei Colonna, ch’ei minacciava esporre alla pubblica vista in un con quelli de’ malfattori più abbietti, vennero nascostamente sotterrati dalle religiose di lor famiglia45. [p. 250 modifica]Il popolo entrando a parte del cordoglio di queste pie vergini, e pentitosi del proprio furore, detestò l’indecente gioia di Rienzi che andò a visitare il luogo ove quelle illustri vittime avean ricevuta la morte. Su quel terreno medesimo concedè al proprio figlio gli onori della cavalleria: ciascun de’ Cavalieri della sua guardia percosse con lieve colpo il giovane neofito, e qui si stette tutta la cerimonia; l’abluzione del novizzo, ridicola quanto inumana, fu fatta entro uno stagno ancor tinto del sangue dei Nobili di Roma46.

[A. D. 1437] Un lieve indugio avrebbe salvati i Colonna; un mese dopo il suo trionfo, il Rienzi venne scacciato da Roma. Imbriacato dalle sue vittorie, perdè quelle poche virtù civili che gli rimanevano ancora, e le perdè senza essersi acquistata la fama di un abile guerriero. Sorse contro di lui una fazione ardita e vigorosa entro il recinto stesso di Roma, e quando, in pubblica assemblea47, pose i partiti per creare una nuova imposta e per dar norme al governo di Perugia, trentanove Membri l’opinione di lui combattettero. Si volle accusarli di perfidia e di corruzione, ma respingendo questi l’accusa, e obbli[p. 251 modifica]gando ad operare la forza per iscacciarli di lì, gli dimostrarono che se la ciurmaglia lo sosteneva ancora sul trono, disertato aveano dalla sua causa i più rispettabili cittadini di Roma. Il Papa e i Cardinali, non mai lasciatisi abbagliare dalle vane proteste del Rienzi, erano giustamente offesi dalla sua insolente condotta; onde la Corte d’Avignone mandò in Italia un Cardinale Legato, il quale, dopo una inutile negoziazione e due parlamenti col Rienzi, lanciò una Bolla di scomunica che spogliava il Tribuno del suo ufizio, qualificandolo co’ nomi di ribelle, di sacrilego e di eretico48. I pochi Baroni che allor rimanevano si trovavano ridotti alla necessità di obbedire; l’interesse e la vendetta in quel momento li legarono al servigio della Chiesa; ma rammentando la morte tragica del Colonna, abbandonarono ad un uom di ventura il rischio e la gloria del cambiamento che si tentava. Giovanni Pepino, Conte di Minorbino nel Regno di Napoli49, o per veri delitti, o per le sue ricchezze era stato condannato ad un perpetuo carcere; e il Petrarca che aveva sollecitato per la liberazione del prigioniero, contribuì indirettamente, e senza volerlo, alla perdita dell’amico. [p. 252 modifica]Con cencinquanta soldati introdottosi destramente in Roma il Minorbino, si trincerò entro il rione dei Colonna, e pervenne senza fatica a termine di una impresa che era stata giudicata impossibile. Dal primo istante di pubblico sospetto, la campana del Campidoglio non interruppe il suo tintinnìo; ma in vece di accorrere a questo così noto segnale, il popolo si tenne silenzioso e tranquillo, onde il pusillanime Tribuno, versando lagrime all’aspetto della pubblica ingratitudine, rassegnò il Governo e abbandonò il palagio di Stato.

[A. D. 1347-1354] Il Conte Pepino senza l’uopo di sguainare la spada, restaurò la Chiesa e l’aristocrazia; si nominarono tre Senatori, primo de’ quali fu il Legato, gli altri vennero scelti nelle famiglie rivali dei Colonna e degli Orsini. Abolite tutte le instituzioni del Tribuno, ne fu proscritta la testa. Nondimeno il nome di lui pareva tuttavia sì formidabile, che i Baroni stettero perplessi tre giorni prima di farsi coraggio ad entrare in città. Il Rienzi si trattenne più d’un mese nel Castel S. Angelo, d’onde tranquillamente si ritirò dopo essersi adoperato indarno a ridestare il coraggio e l’antica affezione de’ Romani. Dileguatasi la lor chimera d’impero e di libertà, mostraronsi tanto inviliti, che sarebbero stati pronti ad abbandonarsi di proprio grado alla servitù, purchè tranquilla e ben regolata. Appena accorgendosi che l’autorità de’ nuovi Senatori derivava ad essi dalla Santa Sede, non vedeano, che per riformare la Repubblica, quattro Cardinali avevano ricevuta una podestà da dittatori. Roma fu una seconda volta agitata per le sanguinose querele de’ Baroni, che si abborrivano l’un l’altro, e disprezzavano le Comuni. Le lor For[p. 253 modifica]tezze e nelle città e nelle campagne vennero rialzate, e di nuovo ancor demolite: e i tranquilli cittadini somigliavano, dice lo Storico fiorentino, ad un gregge di pecore, che i rapaci lupi divoransi. Ma quando finalmente l’orgoglio e l’avarizia de’ Nobili ebbero stancata la pazienza de’ Romani, una Confraternita della Beata Vergine protesse, e vendicò la Repubblica. Sonò a stormo la campana del Campidoglio; i Nobili armati tremarono innanzi ad una moltitudine d’inermi cittadini; il Colonna, uno di que’ Senatori, ebbe a ventura di salvarsi, scalando una finestra del palagio; il suo collega Orsini morì lapidato a piè dell’Altare. Due plebei, Cerroni e Baroncelli, tennero successivamente il pericoloso ufizio di Tribuni. La mansuetudine del Cerroni rendendolo poco atto a sostenere un sì grave peso, dopo alcuni deboli sforzi si ritirò con una fama incontaminata, e con un onesto patrimonio, a godere pel rimanente della sua vita le delizie de’ campi. Il Baroncelli, privo di eloquenza e di sublimità d’ingegno, per fermezza d’animo si segnalò. Tenendo però discorsi patriottici, correa sulle tracce dei tiranni; ogni sospetto che costui concepiva fruttava morte a chi ne era lo scopo, e a lui parimente fruttarono morte le sue crudeltà. In mezzo a tanti pubblici disastri, i falli del Rienzi vennero dimenticati, e i Romani si augurarono la pace e la prosperità del Buono Stato50. [p. 254 modifica]

Dopo un esilio di sette anni, il primo liberatore di Roma venne alla sua patria restituito. Salvatosi dal Castel Sant’Angelo, sotto panni di frate, o di pellegrino, corse ad implorare l’amicizia del Re d’Ungheria che in Napoli allora regnava; nè avea intanto mancato di eccitare l’ambizione di tutti i venturieri coraggiosi, ne’ quali a mano a mano scontrossi; era anche tornato a Roma, confuso tra la folla de’ pellegrini del Giubbileo; indi nascostosi fra gli eremiti dell’Appennino, avea poscia errato per le città dell’Italia, dell’Alemagna e della Boemia. Niun lo vedea, ma il suo nome inspirava ancora terrore; e le angosce in cui stavasi la Corte di Avignone, provano il merito personale di cotest’uomo, o giovano fors’anche a supporlo maggiore che nol fosse di fatto. Uno straniero che aveva ottenuta udienza da Carlo IV, ebbe il coraggio di manifestarsi per il Tribuno della romana Repubblica, e fece attonita un’Assemblea di Ambasciatori e di Principi coll’eloquenza di un patriotta, colle narrate visioni profetiche, coll’annunzio della prossima caduta dei tiranni e del Regno dello Spirito Santo51; ma di qualunque genere si fossero le speranze che confortarono il Rienzi a manifestarsi, certamente altro non si guadagnò che di essere custodito qual prigioniero; nondimeno sostenne [p. 255 modifica]il suo carattere d’independenza e di dignità, mostrando di secondare, come per propria scelta, l’ordine espresso del Pontefice che ad Avignone il volea. Se la mala condotta tenuta da esso nel tribunato aveva allontanato da lui l’animo del Petrarca, la sventura dell’amico presente riaccese la fervida sollecitudine del Poeta, che si dolse acerbamente, perchè il liberatore di Roma venisse in tal modo dall’Imperatore di Roma consegnato al Vescovo di Roma.  [A. D. 1351] Il Rienzi fu condotto lentamente, ma con sicura scorta, da Praga ad Avignone, ove fece il suo ingresso a guisa di un malfattore; condotto in carcere, vi fu incatenato per una gamba; e quattro Cardinali ricevettero l’ordine di esaminarlo su i delitti di eresia e di ribellione, de’ quali veniva accusato. Ma il processo e la condanna del Rienzi avrebbero chiamata l’attenzione pubblica sopra tali argomenti, che prudente cosa era di lasciare sotto il vel del mistero; la supremazia temporale de’ Papi, il dovere della residenza in Roma, i privilegi civili ed ecclesiastici del Clero e del popolo romano. Il Pontefice regnante in allora, ben meritevole del nome suo di Clemente, sentì compassione per le sventure, stima per la grandezza d’animo del prigioniero; e crede inoltre il Petrarca ch’ei rispettasse in quest’uomo straordinario il nome e il sacro carattere di Poeta52. Divenuta più mite la prigionia [p. 256 modifica]del Rienzi, gli vennero conceduti libri; sicchè in Tito Livio e nella Bibbia che studiò assiduamente cercò la cagione e il conforto nelle proprie sventure.

[A. D. 1354] Solamente sotto il Pontificato d’Innocenzo VI, il Rienzi potè sperare libertà e risorgimento, essendo la Corte di Avignone venuta in sentenza, che codest’uomo, altra volta sì fortunato nel ribellare, fosse quanto vi volea in quel momento per acchetare e tor di mezzo l’anarchia della Metropoli. Dopo avere la ridetta Corte obbligato il Rienzi a prometterle fedeltà, lo spedì in Italia col titolo di Senatore; ma la morte del Baroncelli in quel punto sopravvenuta, rendè per poco inutile la missione; che anzi il Legato, Cardinale Albornoz53, uom versatissimo nella politica, gli permise a contraggenio e senza somministrargli soccorsi, di continuare in tale impresa piena di rischio. Ciò nondimeno il Rienzi fu accolto sulle prime con quanto favore uom poteva augurarsi; si ebbe per una pubblica festa il dì del suo ingresso; nè tardò colla facondia del dire e colla prevalenza che tuttavia possedea a far risorgere le leggi del Buono Stato; ma i vizj, così di lui come del popolo, ben presto coprirono di nubi un’aurora sì bella. Oh quante volte in Campidoglio ha dovuto augurarsi la prigionia di Avignone! Dopo un’amministrazione di quattro mesi, morì trucidato in [p. 257 modifica]una sommossa, che i Baroni romani avevano suscitata. Nel conversare, dicesi cogli Alemanni e co’ Boemi, ne abbracciò i costumi d’intemperanza e di crudeltà; le sciagure ne aveano snervato l’entusiasmo senza invigorirne la virtù, o la ragione; a quelle vivaci speranze della verde età, stategli un dì presagio e certezza di buon successo, era in lui succeduta la fredda inerzia della diffidenza e della disperazione. Tribuno, avea regnato con un potere assoluto, ma sancito dalla scelta e dall’amor dei Romani. Senatore, i cittadini non vedeano in esso che il servile strumento di una Corte straniera, e intantochè a questi si rendeva sospetto, il Principe lo abbandonò. L’Albornoz, in cui parea sola intenzione di perderlo, si mantenne inflessibile nel negargli qualunque soccorso d’uomini, o di danari. Rienzi, suddito, non osava più metter mano nelle rendite della Camera Appostolica; e il primo sentor che diede di mettere imposte, fu segnale di clamori e di sedizione. Nemmeno nell’adempire gli atti della giustizia, evitò i rimproveri, per lo meno, d’uom crudele, e spinto da personali considerazioni; sagrificò alla propria diffidenza uno fra i più virtuosi cittadini di Roma; e allorquando fece eseguire la sentenza di morte pronunziata contro un assassino da strada, che in altri tempi gli avea somministrati danari, parve che il Magistrato o troppo si dimenticasse, o troppo si ricordasse delle obbligazioni del debitorenota. Una guerra 54 [p. 258 modifica]civile che ridusse a stremo il suo erario, stancò finalmente la pazienza de’ cittadini; mentre i Colonna, rinchiusi nel lor Castello di Palestrina, non si stavano dal commettere ostilità, i mercenarj del Rienzi incominciarono ad avere a vile un Capo che mostravasi geloso fin d’ogni merito secondario. Quest’uomo offerse, durante l’intera sua vita, un miscuglio bizzarro di eroismo e di viltà. Nell’atto che una furiosa moltitudine assaliva il Campidoglio, e gli ufiziali civili, e militari del Rienzi lo abbandonavano, in quel momento il Senatore, intrepido, ebbe il coraggio di afferrare la bandiera della libertà, e di mostrarsi al verone, d’onde pronunziò eloquentissima aringa, a fine di commovere gli animi dei Romani, e farli convinti che alla propria caduta quella si unirebbe della Repubblica. Ma le imprecazioni e una grandine di sassi interruppe il suo dire; un dardo gli trapassò una mano, dal quale istante si diede in preda ad abbiettissima disperazione; e immerso nel pianto, fuggendo nel più occulto angolo del suo palagio, nè ivi ancora credendosi sicuro, si calò, col ministero d’un lenzuolo, in un cortile ove guardavano le finestre del suo ultimo asilo, divenutogli carcere. Abbandonato da qualsivoglia speranza, rimase ivi assediato fino alla sera, e sintantochè le porte del Campidoglio fossero state distrutte dal fuoco, e atterrate a colpi di azza. Il Senatore tentò fuggire sotto panni di plebeo, ma ben presto riconosciuto, venne tratto sul gran terrazzo del palagio, teatro fatale delle sue sentenze e delle loro esecuzioni. Privo di voce e [p. 259 modifica]di moto, ignudo per metà, e quasi morto, rimase così un’ora in mezzo alla moltitudine, di cui però erasi calmata la rabbia, fecendo luogo alla curiosità e alla maraviglia; un estremo sentimento di rispetto e di compassione parlava ancora negli animi a favore del misero, e forse avrebbe vinto sull’odio, se un assassino più risoluto degli altri non s’affrettava a piantargli un pugnale nel cuore.  [A. D. 1354] Il Rienzi spirò in quel medesimo istante; il corpo di lui trapassato da mille colpi (ultimo sfogo della rabbia dei suoi nemici) venne abbandonato pastura ai cani, e gli avanzi ne furono abbruciati. I posteri porranno in bilancia, le virtù e i vizj di quest’uomo straordinario; ma in un lungo periodo di anarchia e di servitù, spesse volte il Rienzi è stato celebrato coi nomi di liberatore della sua patria e d’ultimo cittadino romano55.

[A. D. 1355] Il primo e il più ardente fra i desiderj del Petrarca sarebbe stato la restaurazione di una libera Repubblica; ma dopo l’esilio e la morte del suo eroe plebeo, tornò a volger lo sguardo al Re dei Romani. Il Campidoglio fumava ancora del sangue di Rienzi, allorchè Carlo IV, scendea l’Alpi per farsi coronare Imperatore e Re d’Italia. Ricevè a Milano la visita del Poeta, del quale contraccambiò con illusioni l’adulazione; e accettò da esso una medaglia d’Augusto, promettendogli, senza sorri[p. 260 modifica]dere, che avrebbe imitato il fondatore della Monarchia romana. Le speranze del Petrarca sempre deluse derivavano da una falsa applicazione dei nomi e delle massime dell’Antichità. Pure avrebbe dovuto accorgersi come i caratteri e i tempi non fossero ancora i medesimi, e quanto incommensurabile differenza disgiungesse il primo de’ Cesari da un Principe boemo innalzato dal favore del Clero al grado di Capo titolare della germanica aristocrazia. Lungi ch’ei pensasse a restituire a Roma l’antica gloria e le antiche province, Carlo avea, mercè d’una segreta negoziazione, promesso al Papa di uscir di Roma il dì medesimo che verrebbe coronato; onde nella sua non gloriosa ritratta lo accompagnarono le rampogne del patriotta Poeta56. Il Petrarca che avea perduta ogni speranza del risorgimento della libertà e dell’Impero, a meno sublimi voti si limitò, accingendosi a riconciliare il Pastore col gregge, e a ricondurre nella sua antica e vera diocesi il Vescovo di Roma. Nè il suo zelo in ordine a ciò fu mai veduto affievolirsi; e nel fervore della gioventù, e quando ebbe acquistata la prevalenza degli anni, non si stette dal volgere successivamente a cinque Pontefici le sue esortazioni, e l’eloquenza del medesimo era dal sentimento, e dalla franchezza di una nobile libertà, sempre animata57: [p. 261 modifica]figlio di un cittadino di Firenze, preferì in ogni istante il paese che gli avea data la vita a quello cui la propria educazione dovea; l’Italia agli occhi del Petrarca fu mai sempre la regina delle nazioni e il giardino del Mondo. Certamente, ad onta delle sue fazioni domestiche, essa avea progredito nell’arti e nelle scienze, nella ricchezza e nella civiltà più della Francia; ma non fu poi tale fra lo stato delle due nazioni la differenza, che ne venisse un diritto al Petrarca di qualificare, siccome barbare, tutte le genti poste di là dall’Alpi. Intanto che facea segno all’odio suo ed ai disprezzi Avignone, la mistica Babilonia, ricettacolo secondo lui di tutti i vizj e d’ogni genere di corruttela, dimenticava, che questi scandalosi vizj non erano produzione indigena del suolo di Francia, ma venuti in compagnia del potere e del lusso della Corte dei Papi. Egli confessa per vero che il successore di S. Pietro è il Vescovo della Chiesa universale; ma soggiunge che l’Appostolo, non sulle rive del Rodano, ma su quelle del Tevere avea posta la sua residenza, nè può comportare, che mentre tutte le città del Mondo cristiano s’allegravano della presenza del loro Vescovo, la sola Metropoli rimanesse solitaria e deserta. Dopo la traslocazione della Santa Sede, i sacri edifizj di Laterano, del [p. 262 modifica]Vaticano, i loro altari, i lor Santi languivano inviliti ed ignudi; e come se l’offrire il ritratto d’una moglie vecchia, piangente e oppressa dalle infermità e dalla vecchiezza, agli occhi di un volubil marito fosse modo opportuno a ricondurglielo fra le braccia, il Petrarca solea dipingere Roma sotto la figura di una desolata matrona58; ma la presenza del Sovrano legittimo dovea dissipare le nubi che coprivano i Sette Colli; un’eterna gloria, la prosperità di Roma, la pace dell’Italia sarebbero state la ricompensa di quel Pontefice che avesse osato formare questa generosa risoluzione. Di cinque Papi, ai quali osò volgere tali conforti il Petrarca, i tre primi, Giovanni XXII, Benedetto XII e Clemente VI, o se ne presero spasso, o fors’anche se ne annoiarono; ma finalmente Urbano V tentò un sì memorabile cambiamento, che da Gregorio XI fu messo a termine. Questi due Pontefici incontrarono ostacoli pressochè insuperabili all’adempimento di un simil disegno. Un Re di Francia, che meritò il soprannome di Saggio, non volea sciogliere i Papi dalla soggezione in cui teneali l’obbligo di soggiornare nel centro del territorio francese; nativi di questa contrada erano la maggior parte de’ Cardinali, affezio[p. 263 modifica]nati alla lingua, ai costumi e al clima d’Avignone, ai magnifici loro palagi e soprattutto al vin di Borgogna. Riguardavano l’Italia, come un paese straniero e nemico; onde quando s’imbarcarono a Marsiglia, il fecero con tal ripugnanza, come se fossero stati banditi, o venduti in Terra infedele.  [A. D. 1367-1370] Urbano V visse per tre anni in sicurezza e in modo onorevole nel Vaticano; vide protetta la propria dignità da una guardia di duemila uomini a cavallo, e ricevette quivi le congratulazioni del Re di Cipro, della Regina di Napoli, e degl’Imperatori d’Oriente e d’Occidente; ma ben tosto la gioia del Petrarca e degl’Italiani fece luogo al dolore e allo sdegno. Mosso da motivi di pubblica o di privata utilità, dai desiderj o proprj, o dei Cardinali, Urbano tornò in Francia, e la vicinissima elezione del suo successore vedeasi sciolta dalla tirannide patriottica de’ Romani. Però le Potenze celestiali in soccorso di questi si adoperarono; una santa pellegrina, Brigida di Svezia, che disapprovava la partenza di Urbano, gli predisse la morte. Santa Catterina da Siena, la sposa di Gesù Cristo e la messaggera de’ Fiorentini, eccitò Gregorio XI a ritornare a Roma; [A. D. 1377] e parve che gli stessi Pontefici, questi grandi fautori dell’umana credulità59, fossero persuasi delle visioni di una tal donna60. Non è però da tacersi che particolari ragioni [p. 264 modifica]autenticavano sì fatti avvisi del Cielo. Una banda di scorridori nemici entrati in Avignone aveano arrecato oltraggio alla Santa Sede; l’intrepido Capo che la conducea, pretese dal Vicario di Gesù Cristo e dal Sacro Collegio il pagamento di un riscatto, ed assoluzione ad un tempo; la qual massima de’ guerrieri francesi che risparmiavano il popolo e spogliavano le chiese, era una nuova eresia pericolosissima per le sue conseguenze61. Intantochè questi motivi consigliavano il Pontefice ad abbandonare Avignone, Roma ne sollecitava ardentemente il ritorno. Il Senato ed il popolo lo riconosceano qual legittimo loro Sovrano, gli offerivano le chiavi delle porte, de’ ponti e delle Fortezze, almeno in quanto spetta al rione transteverino62; ma protestavano in uno di non po- [p. 265 modifica]poter più sopportare lo scandalo della sua lontananza e i disastri che ne derivavano, nè nascondeano che, quando egli si fosse ostinato a rimanere sulle sponde del Rodano, si sarebbero veduti alla necessità di richiamare in vigore e sostenere l’antico loro diritto di elezione. Già era stato chiesto all’Abate di Monte Cassino che godea tanta rinomanza e presso il popolo e presso il Clero, se avrebbe accettata la tiara63; e il venerabile Ecclesiastico64, aveva risposto: „Son cittadino di Roma, e il mio primo dovere è quello di obbedire alla voce del mio paese„65. [p. 266 modifica]

[A. D. 1378] Se la superstizione fosse competente ad indagare le cagioni delle morti immature66, se gli eventi dessero norma a giudicare il merito delle azioni, dovrebbe credersi che l’espediente preso dalla Corte Pontificia, tanto ragionevole e provvido di per sè stesso, fosse stato una disobbedienza ai voleri del Cielo. Gregorio XI morì quattordici mesi dopo il suo ritorno al Vaticano, e venne dietro a tal morte il grande scisma che per oltre a quarant’anni tenne divisa la Chiesa. Composto in quel tempo di ventidue Cardinali il Sacro Collegio, sei di questi erano rimasti ad Avignone; undici Francesi, uno Spagnuolo, e quattro Italiani, entrarono, seguendo le ordinarie forme, in Conclave, ed essendovi ancora la legge che prescrive di scegliere il Papa fra i Cardinali, venne, con unanimità di voti, acclamato Sommo Pontefice l’Arcivescovo di Bari, suddito del Regno di Napoli, e uomo ragguardevole per zelo e sapere, che assunse il nome di Urbano VI. La lettera del Sacro Collegio ne attesta libera e regolare l’elezione, ed inspirato, come d’ordinario, dallo Spirito Santo il Corpo degli Elettori. Effettuatasi nel consueto modo la cerimonia dell’adorazione, dell’investitura e della coronazione, Roma e Avignone obbedirono alla potestà temporale di Urbano VI, alla supremazia ecclesiastica del medesimo, il Mondo la[p. 267 modifica]tino. Per più settimane continuarono i Cardinali ad assembrarsi intorno di lui, largheggiandogli delle più vive proteste di affezione e di fedeltà. Ma non appena i calori della state diedero a questi un pretesto convenevole per partirsi da Roma, ad Anagni e a Fondi si congregarono; ove con sicurezza, e gettata la maschera, rendettero solenne la lor doppiezza ed ipocrisia. Scomunicato l’Anticristo di Roma, così allora chiamarono Urbano, procedettero ad una nuova scelta, il cui favore cadde sopra Roberto da Ginevra, che prese il nome di Clemente VII, e venne annunziato dal Sacro Concistoro alle genti, come il Vicario legittimo di Gesù Cristo. Chiarirono forzata, illegale, nulla di diritto, e dettata dalle minacce de’ Romani e dal timor della morte la prima elezione; querela però che da alcune circostanze verisimili sembra giustificata. I dodici Cardinali francesi, unendo in sè oltre a due terzi de’ suffragi ed essendo quindi padroni della elezione, non par presumibile, qualunque fosse la natura delle intestine loro dissensioni, che avessero liberamente sagrificati i proprj interessi e diritti a favore di uno straniero, la cui nomina dovea rendere certo e perpetuo l’allontanamento loro dalla patria. I racconti diversi, ed anche contraddittorj de’ contemporanei67, quali più, [p. 268 modifica]quali meno, confermano il sospetto di una popolare violenza. Proclivi per natura alla licenza e alla sedizione i Romani, a queste aggiugneano allora uno stimolo la coscienza de’ loro diritti, e la paura di un’altra migrazione. Trentamila ribelli, dicesi, che assediavano il Conclave, colle loro minacce lo intimorirono; le campane di S. Pietro e del Campidoglio sonarono a stormo. „La morte, o un Papa italiano„ era il grido universale. I dodici vessilliferi, o Capi de’ rioni, in modo di caritatevole avviso, lo ripetevano; si fecero alcuni apparecchi per arder vivi i Cardinali refrattarj, e vedeasi grande probabilità, che se la tiara fosse stata conferita ad un Francese, niun di questi uscisse vivo dal Vaticano. Nè fu men forzata, continua a dirsi, la loro dissimulazione durante alcune settimane che trascorsero dopo il Conclave. Ma l’orgoglio e la crudeltà di Urbano li minacciava di pericoli anche maggiori, nè tardarono a conoscere quanto pesasse questo tiranno, sì freddamente atroce che diportavasi pel suo giardino recitando il Breviario in mezzo ai gemiti di sei Cardinali assoggettati, per suo ordine, alla tortura in una stanza vicina. Certamente con quel suo inesorabile zelo gli avrebbe costretti ad adempiere i loro doveri nelle parrocchie di Roma; e se, per sua mala ventura, non tardava la promozione di nuovi Cardinali che avea meditata, i Cardinali francesi in breve sarebbero stati in minor numero nel Sacro Collegio, e d’ogni appoggio sforniti. Tali motivi e la speranza di rivalicare le Alpi, li spinsero a turbare sconsigliatamente la pace e l’unità della Chiesa; e le Scuole cattoliche continuano a disputare sulla validità della prima, o della secon[p. 269 modifica]da elezione68. Vanità nazionale, anzichè sentimento del proprio interesse, regolò, in questa bisogna, le deliberazioni della Corte e del Clero di Francia69. Trascinate dall’esempio di questa nazione la Savoia, la Sicilia, l’Isola di Cipro, l’Aragona, la Castiglia, la Navarra e la Scozia, si posero dalla parte di Clemente VIII, e morto esso, da quella di Benedetto XIII. Roma e i principali Stati dell’Italia, l’Alemagna, il Portogallo, l’Inghilterra70, i Paesi Bassi e i Regni del Nort conobbero valida l’elezione di Urbano VI, che ebbe Bonifazio IX, Innocenzo, e Gregorio XII per successori.

[A. D. 1378-1418] Dalle rive del Tevere e da quelle del Rodano guerreggiandosi con penna e spada i due Papi, l’ordine civile ed ecclesiastico della società fu turbato, e [p. 270 modifica]gran parte di questi mali, che da essi principalmente divennero, percosse i Romani71. Invano aveano sperato, restituendo alla Capitale la Monarchia della Chiesa, di sottrarsi allo stato d’inopia ove giacevano, mediante i tributi e le offerte delle nazioni. La Francia e la Spagna sviarono il corso di queste ricchezze, nè due Giubbilei, celebrati nel solo volgere di dieci anni, valsero a compensarli di questa calamità. Le brighe prodotte dallo scisma, le armi straniere, le popolari sommosse costrinsero più d’una volta Urbano VI e i tre successori del medesimo ad abbandonare il Vaticano. La funesta nimistà degli Orsini e de’ Colonna durava ancora; i vessilliferi di Roma s’impadronirono e abusarono de’ privilegi della Repubblica; i Vicarj di Gesù Cristo assoldarono mercenarj e punirono colla spada, col pugnale, co’ patiboli i ribellanti; undici deputati del popolo, chiamati a parlamento amichevole, furono uccisi a tradimento, e i lor cadaveri gettati in mezzo alla strada. Dopo l’invasione di Roberto il Normanno, i Romani aveano, fra le intestine loro discordie, evitato il pericoloso intervento degli stranieri. Ma in mezzo ai disordinamenti dello scisma, un ambizioso vicino, Ladislao, Re di Napoli, difese, e tradì a vicenda il Pontefice e il popolo; talchè il primo lo acclamava Gonfaloniere, o General della Chiesa, mentre i cittadini si rimettevano in lui per la scelta de’ loro [p. 271 modifica]Magistrati. Tenendo questi assediata Roma per terra e per mare, vi entrò per tre riprese a guisa di barbaro conquistatore; profanò gli altari, stuprò le vergini, spogliò i mercatanti, fece le sue divozioni nella chiesa di S. Pietro, e lasciò nel Castel Sant’Angelo una guernigione de’ suoi. Non però le costui armi furono sempre felici; e gli accadde di dovere unicamente all’indugio di tre giorni la conservazione della Corona e della vita; nondimeno trionfò, e soltanto la sua morte immatura liberò la Metropoli e lo Stato ecclesiastico dagli attentati di un vincitore ambizioso che avea preso il titolo, o certamente usurpata la potestà di Re dell’Italia72.

[A. D. 1394-1407] Non è già mia intenzione l’imprendere la Storia ecclesiastica dello scisma d’Occidente; ma mi è impossibile il non fermarmi alcun poco sovr’esso per la vivissima parte che Roma, argomento degli ultimi capitoli della mia Opera, ha avuta ne’ contrasti insorti al proposito della successione de’ suoi Sovrani. I primi consigli alla pace e alla riconciliazione de’ Cristiani vennero dall’Università di Parigi e dalla Facoltà della Sorbona, i cui Dottori, almeno nella Chiesa gallicana, erano riguardati, siccome i maestri i più autorevoli di quanti per sapere teologico il fossero73. La suddetta Facoltà pertanto, poste saggia [p. 272 modifica]mente da banda tutte le indagini sulla origine dei diritti e sulle ragioni di una parte e dell’altra, propose come rimedio a tanti inconvenienti, che entrambi i Pontefici rassegnassero ad un tempo la tiara, dopo avere ciascun d’essi conferita ai suoi Cardinali la facoltà di congregarsi per una elezione legittima; propose parimente che le nazioni ricusassero obbedienza74 a quello fra i due competitori, il quale al pubblico l’interesse di sè medesimo preferisse. Durante la proposta e l’accettazione della proposta, accadde il caso di sede vacante, e que’ medici della Chiesa insistettero fervorosamente affinchè si prevenissero le funeste conseguenze di una scelta troppo affrettata. Ma la politica del Conclave e l’ambizione dei Cardinali, nè preghiere, nè ragioni ascoltavano; e per quante promesse venissero fatte dal nuovo eletto, costui, assunta la tiara, non si credea legato dai giuramenti che pronunziati avea Cardinale. L’artifizio de’ Pontefici rivali, gli scrupoli, o le passioni dei loro partigiani, e le vicissitudini delle fazioni che governarono in Francia l’insensato Carlo VI, delusero per quindici anni i disegni pacifici della [p. 273 modifica]risità di Parigi. Una vigorosa risoluzione venne finalmente abbracciata; e una solenne ambascieria, composta del Patriarca titolare di Alessandria, di due Arcivescovi, di cinque Vescovi, di cinque Abati, di tre Cavalieri e di venti Dottori, si trasferì alle due Corti di Avignone e di Roma, chiedendo, a nome della Chiesa e del Re la rinunzia di entrambi i Papi, Pietro da Luna, detto Bonifazio XIII, l’un d’essi, Angelo Corrario, detto Gregorio XII, l’altro. Così per l’onore di Roma, come pel miglior successo della loro negoziazione, cotesti ambasciatori domandarono ai Magistrati della città un parlamento; nel quale, in modo asseverante fecero manifesto, come fosse mente del Re Cristianissimo di non togliere la Santa Sede al Vaticano, che era agli occhi del Monarca francese la residenza più di tutte addicevole al successor di S. Pietro. Da un eloquente Oratore, che aringò a nome del Senato e del popolo, venne risposto esprimendo il desiderio vivissimo de’ Romani di contribuire alla riunion della Chiesa; furono compianti i danni temporali e spirituali che procedeano da sì lungo scisma, e implorata la protezione della Francia contro l’armi del Re di Napoli. Edificanti e capziose ad un tempo furono le risposte di Benedetto e di Gregorio, ambiziosi rivali, che, nella massima di non rinunziare la tiara, si mostrarono animati da un medesimo spirito. Convennero sì sulla necessità di far procedere un mutuo abboccamento fra loro, ma non mai si accordarono intorno al tempo, al luogo, alla forma di esso. „Se uno move un passo innanzi, dicea un impiegato di Gregorio, l’altro dà addietro; l’un di loro par di quegli animali che paventa la terra, l’altro una creatura che [p. 274 modifica]non può vivere in acqua. E di tal maniera, questi due vecchi preti, per pochi istanti di vita che lor possono ancor rimanere, la pace e la salute del Cristiano Mondo avventurano„75.

[A. D. 1404] Finalmente l’ostinazione e gli artifizj de’ due Pontefici stancarono la pazienza del Mondo Cristiano; sicchè per ultimo ognun d’essi videsi abbandonato dai proprj Cardinali, che a quelli della contraria fazione, come ad amici loro e colleghi, si unirono; diffalta da una banda e dall’altra, che una numerosa assemblea di Prelati e di Ambasciatori sostenne. Il Concilio di Pisa, giusto egualmente verso entrambe le parti, rimosse dal soglio e il Pontefice di Roma e quel d’Avignone. Ma il nuovo Pontefice eletto ad unanimità dal Conclave, Alessandro V, morì poco tempo dopo, ed essendogli stato immediatamente, e colle stesse forme, dato per successore Giovanni XXIII, il più dissoluto di tutti gli uomini, questa troppa fretta de’ Francesi e degli Italiani, anzichè spegnere lo scisma, fece sì che i pretendenti al Trono di S. Pietro, in vece di due, fossero tre. Impugnati furono i nuovi diritti che il Concilio di Pisa, e il Conclave che venne dopo di esso, si erano attribuiti. I Re di Alemagna, di Ungheria e di Napoli parteggiarono per Gregorio XII, la divozione e l’amor patriottico [p. 275 modifica]rendè favorevoli gli Spagnuoli a Benedetto XIII, loro concittadino (Pietro De Luna).  [A. D. 1414-1418] Gl’inconsiderati decreti del Concilio di Pisa soggiacquero a riforma per la convocazione del Concilio di Costanza; Concilio, ove l’Imperator Sigismondo sostenne rilevantissima parte, come avvocato o protettore della cattolica Chiesa; Concilio che pel numero e la dignità degl’individui d’Ordine civile ed ecclesiastico, dai quali venne composto, sembrò piuttosto l’adunata degli Stati generali d’Europa. Fra i tre competitori, la prima vittima fu Giovanni XXIII, che imputato di gravi colpe, tentò una fuga, ma venne ricondotto prigioniero; si cercarono palliamenti alle più scandalose di tali accuse, perchè questa volta il Vicario di Gesù Cristo non veniva incolpato di minori indegnità che di pirateria, assassinj, stupri, incesto e sodomia; poi dopo avere egli stesso riconosciuta giusta la sua condanna, espiò in un carcere l’imprudenza d’essersi creduto sicuro in una città libera di là dall’Alpi. Gregorio XII, la cui giurisdizione al ricinto di Rimini si era ristretta, scese con più onore dal trono; perchè l’Assemblea, in mezzo a cui rassegnò il titolo e l’autorità di legittimo Papa, era stata dal suo Ambasciatore medesimo convocata. Quanto a Benedetto XIII, per vincere la pertinacia di lui e de’ suoi partigiani, dovette l’Imperatore imprendere un viaggio da Costanza a Perpignano. Finalmente i Re di Castiglia, di Aragona, di Navarra e di Scozia avendo ottenuto un onorevol Trattato, Benedetto fu, col consenso degli Spagnuoli, rimosso dal Trono; a questo vecchio però che non facea più timore a nessuno, fu lasciato il conforto di scomunicare, da starsene nel suo solitario Castello, due volte al giorno [p. 276 modifica]i reami ribelli, fattisi disertori della sua causa. – Dopo avere estirpati i resti dello scisma, il Concilio di Costanza procedè lentamente e ponderatamente all’elezione del futuro Capo della Chiesa e Sovrano di Roma. In una bisogna sì rilevante, furono aggiunti ai ventitre Cardinali, de’ quali formavasi il Sacro Collegio, trenta deputati, tolti in egual numero dalle cinque grandi nazioni della Cristianità, l’italiana, l’alemanna, la francese, la spagnuola e l’inglese76. Il disgusto che naturalmente provar do[p. 277 modifica]veano i Romani per l’intervento di tanti stranieri, fu raddolcito dalla generosità di questi nel far cadere la nomina del Papa sopra un Italiano e Romano. Ottone Colonna, chiaro pel nome di sua famiglia e per meriti proprj, i voti del Conclave in sè radunò. Roma ravvisò con giubilo e sommessione il suo Sovrano nel più nobile de’ suoi figli. Lo Stato ecclesiastico trovò nella possente famiglia del Pontefice la sua difesa, e dal Regno dei Colonna incomincia l’epoca della dimora stabile posta dai Papi sul Vaticano77.

[A. D. 1417] Martino V (Ottone Colonna) revocò a sè il diritto di batter moneta, diritto goduto per tre secoli [p. 278 modifica]dal Senato78; e dalle monete coniate col nome e coll’immagine del ridetto Pontefice, incomincia la serie delle medaglie dei Papi.  [A. D. 1431-1447] Eugenio IV, successore di Martino, è il solo, d’indi in poi, fra i Pontefici che una ribellione abbia scacciato da Roma79;  [A. D. 1434] Nicolò V, successore di Eugenio, è l’ultimo che fosse importunato dalla presenza di un Imperatore romano80. – 1. Il contrasto ch’Eugenio ebbe coi Padri del Concilio di Basilea, e la molestia o il timore di una nuova tassa, incoraggiarono ed eccitarono i Romani ad impadronirsi nuovamente del governo temporale della città. Corsi alle armi, elessero sette Governatori della Repubblica, e un Contestabile del Campidoglio; indi tratto in carcere il nipote del Papa, assediarono nel suo palagio lo stesso Pontefice, costretto a fuggire sotto panni di frate, e grandinato da molti dardi de’ sudditi, che il riconobbero, allorchè la barca [p. 279 modifica]ove appiattossi, scendeva il Tevere. Ma gli rimaneva ancora nel Castel Sant’Angelo un presidio fedele, e buona artiglieria; laonde le batterie pontifizie fulminavano senza posa la città, e una palla che giunta a segno, rovinò la batteria del ponte, disperse in un sol colpo questi Eroi novelli della Repubblica. Una ribellione di cinque mesi avea già stancata la loro costanza, oltrechè la tirannide de’ Ghibellini avendo indotti i più saggi fra questi repubblicani ad augurarsi ancora il dominio del Papa, un pentimento unanime da una intera sommessione fu immediatamente seguìto. Le truppe di S. Pietro occuparono nuovamente il Campidoglio; tutti i Magistrati tornarono alle loro case; i più rei vennero puniti coll’esiglio, o colla morte; il Legato, appena giunse, a Capo di duemila fantaccini e di quattromila uomini a cavallo, fu salutato siccome padre della città. I Concilj di Ferrara e di Firenze, il timore, o il risentimento rendettero più lunga la lontananza di Eugenio da Roma. Al suo ritorno trovò sì un popolo sommesso, ma le stesse acclamazioni con cui entrando fu accolto, gli dimostrarono come per mantenersi fedeli i Romani, e per assicurare a sè medesimo tranquillità, gli facesse mestieri abolire quell’imposta che era stata una fra le cagioni della sommossa. – 2. Sotto il pacifico Regno di Nicolò V, Roma risorse e divenne più bella; si rischiararono le menti de’ cittadini. Ma intantochè il Pontefice pensava agli ornamenti di Roma e alla felicità del suo popolo, fu preso da spavento per l’avvicinarsi di Federico III, che, nè per suo carattere, nè per possanza, le angosce del Pontefice giustificava. Nicolò V, dopo avere raccolte le sue forze militari entro le mura della [p. 280 modifica]Metropoli, e provveduto, quanto meglio il si poteva, con giuramenti e Trattati, alla propria sicurezza81,  [A. D. 1452] ricevè con aria di soddisfazione il fedele avvocato e vassallo della Chiesa romana. Sì ben disposti alla sommessione erano gli animi, tanta la debolezza di Federico III, che niuna cosa turbò la pompa di quella coronazione; ma una tal vana cerimonia riusciva troppo umiliante ad una independente nazione; onde i successori di Federico III si sono dispensati da questo incomodo viaggio, e hanno creduto abbastanza autenticato il lor titolo dal suffragio degli alemanni Elettori.

Un cittadino romano osservò con compiacenza ed orgoglio, che il Re de’ Romani, dopo avere salutati leggermente i Cardinali e i Prelati andatigli incontro, distinse in particolar modo il Senatore di Roma, e il suo abito di cerimonia, e che nel separarsi, il fantasma dell’Impero e il fantasma della Repubblica amichevolmente abbracciaronsi82. Giusta le leggi di Roma83, questo primo Magistrato doveva essere [p. 281 modifica]dottore in legge, forestiere, e nato almeno ad una distanza di quaranta miglia dalla città, nè congiunto in parentado spirituale, o temporale, al terzo grado canonico, cogli abitanti di essa. Veniva nominato di nuovo a ciaschedun’anno; e uscendo di magistratura, ne soggiaceva a severo sindacato la sua amministrazione, nè era atto a rientrare in questa carica se non trascorreano prima due anni. Gli si pagavano tremila fiorini per le sue spese, e a titolo di stipendio. Mostravasi con una pompa degna della maestà della Repubblica, vestito d’un abito di broccato di oro, o di velluto cremisino, e nella state, di un drappo più leggiero di seta; tenea in mano uno scettro d’avorio; lo precedeano almeno quattro littori che portavano bacchette rosse avvolte in banderuole color d’oro, che era il colore della Città. Il giuramento, che giunto al Campidoglio egli prestava, indicavane gli ufizj e la podestà; era questo il giuramento di mantenere le leggi, di reprimere il superbo e proteggere il popolo, di amministrare atti di giustizia e di misericordia in tutto il territorio, ove la sua giurisdizione estendeasi. Avea per coadiutori tre forestieri istrutti, i due collaterali, e il giudice d’appello nelle cause criminali. Quelle leggi danno a divedere quanta bisogna doveano a questo somministrare i processi per delitti di furto, di ratto e di omicidio; e sì deboli erano coteste leggi, che sembra [p. 282 modifica]lasciassero campo alle querele private e alle unioni di cittadini armati che per comune difesa si collegassero. Il Senatore non aveva altro incarico fuor quello dell’amministrazione della giustizia. Il Campidoglio, l’erario, il governo della città e del territorio stavano nelle mani di tre Conservatori che si cambiavano quattro volte l’anno. La milizia de’ tredici rioni adunavasi sotto gli stendardi de’ Caporioni particolari, Capi di ciascun rione; e il primo di questi Capi veniva distinto col grado e titolo di Priore. Il potere legislativo del popolo risedeva nel Consiglio segreto e nelle Assemblee generali, composto il primo dei Magistrati e degl’immediati loro predecessori, di alcuni ufiziali del fisco e de’ tribunali, e di tre classi di consiglieri che erano, tredici in una, ventisei nell’altra, quaranta nella terza, in tutto centoventi persone. Ogni cittadino maschio avea voto nell’Assemblea generale, privilegio fatto più ragguardevole dalla cura con cui veniva impedito che gli stranieri usurpassero il titolo di cittadini romani. Sagge e severe cautele prevenivano le turbolenze della democrazia. Ne’ soli Magistrati era il diritto di proporre l’argomento della discussione, nè permetteasi ad alcuno il parlare, se non se salito sopra una cattedra, o una tribuna; le acclamazioni tumultuose venivano represse; si raccoglievano per via di scrutinio i suffragi; e i decreti, nell’essere pubblicati, portavano in fronte i rispettabili nomi del Senato e del popolo. Sarebbe difficile indicare in qual tempo la pratica sia stata perfettamente d’accordo collo Statuto; perchè i progressi dell’ordine si sono veduti a mano a mano collegati colla diminuzione della libertà; ma, nell’anno 1580, sotto il Pontificato di Gregorio XIII, [p. 283 modifica]e col consenso di questo Sovrano84, fu formata una raccolta degli antichi Statuti, divisa in tre libri, e questi vennero accomodati ai tempi ne’ quali vivevasi. I Romani seguono tuttavia questo codice di leggi civili e criminali, e comunque le popolari assemblee non si adunino più, dura l’usanza di un Senatore forestiere e di tre Conservatori che risedono in Campidoglio85. I Pontefici vollero alla politica de’ Cesari uniformarsi; e il Vescovo di Roma, governando coll’assoluto potere di un Monarca spirituale e temporale, ostentò mai sempre di conservare le forme della Repubblica.

[A. D. 1453] È una verità, or per le mani di tutti, che i caratteri straordinarj abbisognano di occasioni favorevoli a dimostrarsi, e che il genio di Cromwell, o del Cardinale di Retz, potrebbe ai dì nostri languire nelle tenebre. Quel fanatismo di libertà che portò il Rienzi sul trono, un secolo dopo condusse al patibolo il Porcaro, avvisatosi d’imitare il Rienzi. Stefano Porcaro, nato di nobile famiglia, e di fama illibata, [p. 284 modifica]possedea naturale eloquenza ed ingegno coltivato dallo studio; sollevatosi al di sopra di una volgare ambizione, concepì il disegno di restituire la libertà alla sua patria e di far così il proprio nome immortale. Essendo già stata riconosciuta la fallacia della supposta donazione di Costantino, una tale scoperta allontanava tutti gli scrupoli; il Petrarca era l’Oracolo dell’Italia; e ogni volta che il Porcaro si tornava alla memoria la famosa Ode86 con cui viene dipinto l’Eroe patriottico di Roma, le visioni del Poeta a sè medesimo appropiava. All’occasione dei funerali d’Eugenio, egli tentò un primo sperimento sulle disposizioni degli animi della moltitudine, pronunziando un’elaborata allocuzione, colla quale allettava i Romani a prender l’armi e a riconquistare la libertà; e parea che questi lo ascoltassero volentieri, allor quando un grave personaggio imprese a difendere la causa della Chiesa e dello Stato. La legge chiariva colpevole d’alto tradimento un Orator sedizioso; ciò nonostante il nuovo Pontefice, mosso da compassione e da stima verso il Porcaro, preferì le vie più miti, assumendosi l’onorevole incarico di ricondurre l’uom traviato, e farsene anzi un amico. L’inflessibile repubblicano, chiamato ad Anagni, ne ritornò con nuova gloria, ma sempre più nelle sue massime infervorato. Spiò l’occasione favorevole per mettere in opera i divisamenti concetti; nè lungo [p. 285 modifica]tempo dovè aspettarla. In mezzo ai giuochi della piazza Navona, alcuni fanciulli e artigiani avendo attaccato briga, egli si sforzò per tramutarla in una sollevazione generale di popolo. Sempre umano Papa Nicolò, non volle nè manco punirlo, contentandosi, per allontanarlo dalla tentazione, di confinarlo a Bologna, ove gli assegnò un onesto viatico, non imponendogli altra obbligazione, fuor quella di presentarsi ogni giorno al Governatore della città. Ma il Porcaro, imbevuto della massima dell’ultimo dei Bruti, non doversi serbare nè gratitudine, nè fede ai tiranni87, non pensò ad altro nel suo esilio che a declamare contro la sentenza, ei diceva, arbitraria del Pontefice, e a poco a poco riuscì a formarsi partigiani e ad intavolare una congiura. Il nipote di lui, giovane intraprendente, adunò in Roma una truppa di congiurati, e quando fu il giorno prefisso, diede in propria casa una festa agli amici della Repubblica. Il Porcaro, fuggito celatamente da Bologna, comparve in mezzo ai convitati con una veste di porpora e d’oro; la voce, il contegno, i gesti annunziavano in esso un uomo consagratosi, in vita e in morte, alla causa ch’ei reputava tanto gloriosa; si diffuse, mediante acconcio discorso, su i motivi e i modi dell’impresa; fece sonare i nomi di Roma e della libertà romana; parlò della mollezza e dell’orgogliosa tirannide de’ preti, del consenso formale o tacito che al nuovo tentativo tutti i cittadini prestavano; promise il soccorso di trecento soldati, e di quattrocento esuli, [p. 286 modifica]da lungo tempo avvezzi a sofferire e a combattere; concedè loro, per renderli più arditi a ferire, la libertà di vendicarsi su chi volevano delle particolari ingiurie sofferte; per ultimo un milione di ducati in ricompensa della vittoria. „Domani, giorno dell’Epifania, ei soggiugnea, ne sarà facile l’arrestare il Papa e i Cardinali alla porta della chiesa di S. Pietro, o a piè dell’Altare; li condurremo carichi di catene sotto le mura di Castel Sant’Angelo; ivi li costringeremo colle minacce, e all’aspetto della morte, a restituirne questa Fortezza; saliremo indi il Campidoglio, sonerà a stormo la gran campana, e in una Assemblea popolare restaureremo l’antica Repubblica„. Mentre egli trionfava nella sua immaginazione, era già stato tradito. Il Senatore, a capo di una numerosa guardia, circondò la casa, ove assembrati stavano i congiurati. Ben potè il nipote di Porcaro aprirsi un varco in mezzo alla folla; ma il misero Stefano fu tolto da un armadio ove, celatosi, gemea che i nemici avessero prevenuta di tre ore l’esecuzione del suo disegno. Dopo delitti tanto manifesti e moltiplicati, il Pontefice non ascoltò più che le voci della giustizia. Il Porcaro, e nove de’ suoi complici, senza aspettare che confessassero le loro colpe, vennero appiccati, fra le invettive dei partigiani della Corte pontificia, il cui terrore durava ancora; i Romani largirono compassione e quasi i proprj suffragi a questi martiri della pubblica libertà88. [p. 287 modifica]Ma muti erano i suffragi, inutile la compassione, e la loro libertà fu perduta per sempre; e se in tempo di sede vacante si è veduta talvolta sollevarsi per mancanza di pane la plebe, son tali sommosse, che se ne trovano gli esempj in mezzo a qualunque servaggio il più abbietto.

Ma l’independenza de’ Nobili, fomentata dalla discordia, sopravvisse alla libertà delle Comuni che può solamente sull’unione del popolo esser fondata. I Baroni conservarono per lungo tempo il privilegio di spogliare e di opprimere i proprj concittadini; le loro case erano Fortezze, od asili, entro cui proteggeano contro le leggi una truppa feroce di banditi e di rei, che aveano dedicato al servigio de’ Nobili le proprie spade e i proprj pugnali. Il particolare interesse trascinò talvolta i Pontefici e i loro nipoti in tali querele domestiche. Sotto il regno di Sisto IV, Roma fu capovolta dalle lotte di queste famiglie rivali, e dagli assedj che impresero, e sostennero le une contro le altre. Il Protonotario Colonna soggiacque alla tortura e fu decollato dopo aver veduto andare in cenere il suo palagio; l’amico di esso, Savelli, caduto in man de’ nemici, trucidato, perchè non volle unir le sue alle vittoriose grida degli [p. 288 modifica]Orsini89; ma i Pontefici, sicuri da starsi in Vaticano, di essere abbastanza forti per costringere i sudditi all’obbedienza, purchè avessero la fermezza necessaria a pretenderla non si atterrivano per sì fatti disordini che ai particolari si riferivano; e gli stranieri ammiravano, in mezzo questi stessi disordini, la moderazione delle imposte, e la saggia amministrazione dello Stato ecclesiastico90.

[A. D. 1500] Le folgori spirituali91 del Vaticano dipendono [p. 289 modifica]dalla forza che l’opinione alle medesime attribuisce; se questa opinione è vinta dalla ragione, o dalle passioni, lo scoppio di queste folgori svapora nell’aere; e il sacerdote, privo d’appoggio, si trova esposto alla violenza del più picciolo avversario, sia questi nobile, ovvero plebeo. Ma poichè i Papi ebbero abbandonato il soggiorno di Avignone, la spada di S. Paolo divenne la guardiana delle chiavi di S. Pietro. Roma era dominata da un’insuperabile rocca, e ben possente è il cannone contro le sedizioni del popolo. Una truppa regolare di fanteria e di cavalleria militava sotto gli stendardi del Pontefice che aveva assai ampie rendite per sostenere le spese della guerra; l’estensione intanto de’ suoi dominj lo metteva in istato di opprimere una città ribellante e coll’armi de’ vicini e con quelle de’ fedeli suoi sudditi92. Dopo l’unione dei Ducati di Ferrara e d’Urbino, lo Stato ecclesiastico si prolunga dal Mediterraneo all’Adriatico, e dai confini del Regno di Napoli alle rive del Po; la maggior parte di questa [p. 290 modifica]estesa e fertile contrada riconoscea, nel secolo decimosesto, la sovranità legittima e temporale de’ Pontefici di Roma, i primi diritti de’ quali fondaronsi sulle donazioni vere, o favolose dei secoli dell’ignoranza. Non potrei raccontare quanto, a fine di consolidar questo Impero, operarono in appresso i Papi medesimi, senza innoltrarmi di soverchio nella Storia dell’Italia, ed anzi in quella di tutta l’Europa; mi farebbe mestieri a tal uopo descrivere i delitti di Alessandro VI, le spedizioni militari di Giulio II, la illuminata politica di Leone X, argomenti dilucidati dalle penne de’ più nobili Storici di quella età93. Durante il primo periodo delle loro conquiste, e fino alla spedizione di Carlo VIII, i Papi si trovarono abili a lottare con buon successo contra i Principi e i paesi vicini, le cui forze militari erano inferiori, o tutto al più, eguali a quelle della Corte di Roma; ma poichè i Monarchi della Francia, dell’Alemagna e della Spagna, si disputarono con armi gigantesche il dominio dell’Italia, i successori di S. Pietro chiamarono l’artifizio in soccorso della lor debolezza, nascondendo entro un labirinto di guerre e di Trattati le ambiziose lor mire, e la speranza, che mai non si diparte da essi, di confinare i Barbari al di là delle Alpi. I guerrieri del Settentrione e dell’Occidente, [p. 291 modifica]sotto gli stendardi di Carlo V, distrussero più d’una volta l’equilibrio cui il Vaticano intendea, e Roma fu, per sette mesi, in balìa d’un esercito sfrenato, più crudele ed ingordo di quanto mai i Goti e i Vandali fossero stati94. Dopo una disciplina tanto severa, i Papi, restringendo fra i confini del possibile la loro ambizione, la videro pressochè soddisfatta; e riprendendo la parte di padri dell’anime de’ Fedeli, più di tutte l’altre convenevole ad essi, non si avventurarono d’indi in poi a guerre offensive, fuorchè una sola volta, in quella inconsiderata querela, per cui fu veduto il Vicario di Gesù Cristo collegarsi col Sultano de’ Turchi per far la guerra al Regno di Napoli95. I Francesi e gli Alemanni abbandonarono finalmente il campo di battaglia; gli Spagnuoli ben assicurati ne’ loro possedimenti di Milano, di Napoli, della Sicilia, della Sardegna e delle coste della Toscana, trovarono di proprio vantaggio il mantenere la pace e la sommessione dell’Italia, pace e sommessione durate dalla metà del secolo [p. 292 modifica]decimosesto alla metà del successivo. La politica religiosa della Corte di Spagna proteggeva e dominava il Vaticano; e i pregiudizj e l’interesse del Re Cattolico lo rendeano in tutte le occasioni propenso a sostenere il Principe contro il popolo; e in vece d’incoraggiamenti, soccorsi e asilo, che fino allora gli Stati vicini aveano offerti agli amici della libertà e ai nemici delle leggi, si videro questi d’ogni parte rinchiusi tra i ceppi del dispotismo. L’educazione e la consuetudine dell’obbedienza soggiogarono, col volger degli anni, lo spirito turbolento della Nobiltà e delle comuni di Roma, i Baroni dimenticarono le guerre e le fazioni de’ loro antenati, e il lusso e il Governo li dominarono compiutamente. In vece di sostenere una turba di partigiani e satelliti, impiegarono le proprie rendite a quelle spese che, moltiplicando i diletti al proprietario, ne diminuiscono la possanza96. I Colonna e gli Orsini non lottarono d’allora in poi che sulla decorazione de’ lor palagi e delle loro cappelle; e la subitanea opulenza delle famiglie pontificie pareggiò o superò l’antico loro splendore. Non si odono più in Roma nè le voci della discordia, nè quelle della libertà; e in vece di uno spumoso torrente, essa non presenta ora che un lago uniforme e stagnante.

La dominazione temporale del Clero è sempre [p. 293 modifica]stato soggetto di censura a’ Teologi, del pari che a’ Politici, ed a’ Filosofi. I primi non la credeano legittima stando alla lettera del Vangelo: agli altri non piaceva il vedere in certo modo invilita l’antica maestà della padrona del Mondo, e rimembrando i suoi Consoli, i suoi trionfi, le sue glorie, trovavano troppo dissimile, e basso un Governo sacerdotale. Pure calcolando a mente tranquilla i vantaggi e i difetti di questo, si debbe dare le debite lodi ad un’amministrazione decorosa e pacifica, non soggetta ai pericoli d’una minorità, o agl’impeti d’un giovane Principe, non rovinata dal lusso, non esposta per sè medesima ai disastri di lunghe guerre. Bensì non è dessa esente dalle vicende di successioni frequenti, e rinovate in breve periodo, di Sovrani rade volte originarj di Roma, spesso in età senile; e più spesso inesperti della politica, privi per lo più della speranza di vivere tanto da terminare opere grandi, e del conforto di avere successori che sien partecipi de’ loro alti pensieri, o capaci d’emularli. Tratti sovente dalla solitudine de’ chiostri, deggiono di leggieri per la ricevuta educazione, e per l’acquistata consuetudine di vita essere estranei a idee mondane, a cure d’alti affari, troppo aliene dall’austerità e dalle massime d’una religione contraria alle passioni del secolo e all’ambizione del dominio. Può per altro nelle nunziature specialmente avere attinta qualche cognizione di Mondo, ma difficilmente sapranno lo spirito e i costumi d’un Ecclesiastico trasformarsi quanto sarebbe d’uopo per uguagliare l’accortezza, ed il senno d’un Principe temporale. Non mancarono per altro, e forse non mancheranno a quando a quando gli esempj di Pontefici degni di stare al paragone coi [p. 294 modifica]più grandi Potentati. Il genio di Sisto V97 si sollevò dall’oscurità di un convento di Francescani; un regno di cinque anni, distrusse la razza de’ banditi e di tutti quegli uomini malvagi che avea proscritta la legge; tolse agli scellerati i luoghi di secolare franchigia ove potevano rintanarsi98; creò una marineria e un esercito di terra, restaurò i monumenti dell’antichità, li pareggiò nei nuovi che eresse; e dopo aver fatto nobile uso delle pubbliche rendite, e dopo averle notabilmente accresciute, lasciò ricco di cinque milioni di scudi l’erario del Castel S. Angelo. Ma la crudeltà ne contaminò la giustizia; dalle mire di conquista fu condotta la sua solerzia; ricomparvero al suo morire gli abusi; vennero disperse le ricchezze, che egli aveva adunate; aggravò i posteri [p. 295 modifica]di trentacinque nuove imposte e della venalità degli ufizj; e quando ebbe mandato l’ultimo anelito, un popolo ingrato, od oppresso, ne rovesciò il simulacro99. La selvaggia originalità di Sisto V, tiene un luogo particolare nella Storia de’ Papi, nè possono giudicarsi le massime e gli effetti della temporale loro amministrazione che mediante un esame positivo e comparativo delle arti e della filosofia, dell’agricoltura e del commercio, della ricchezza, e della popolazione dello Stato ecclesiastico100. Quanto a [p. 296 modifica]me, che desidero morire in pace con tutto il Mondo, in questi ultimi momenti della mia vita non [p. 297 modifica]itaderò volontariamente nè il Papa, nè il Clero di Roma.

Note

  1. Les Mémoires sur la vie de François Pétrarque (Amsterdam, 1764; 1767, 3 vol. in 4) presentano un’Opera abbondante di particolarità, originale e gradevole assai; lavoro eseguito con impegno, e da tale che avea studiati accuratamente e il Poeta, e i contemporanei del Poeta; ma in mezzo alla Storia generale del secolo in cui visse l’eroe del racconto, lui medesimo perdiamo troppo sovente di vista, e l’autore comparisce talvolta snervato per troppa ostentazione di urbanità e di galanteria. Nella prefazione posta al primo volume, l’abate di Sade accenna, esaminando partitamente il merito di ciascheduno, venti biografi italiani, che hanno trattato ex professo l’argomento medesimo.
  2. L’opinione di coloro che voleano Laura essere solamente un personaggio allegorico, prevalse nel secolo decimoquinto, ma i circospetti Comentatori non s’accordavano, volendo alcuni che Laura fosse la Religione, altri la Virtù, e persino la Santissima Vergine, ec. V. le Prefazioni del primo e secondo volume dell’abate di Sade.
  3. Laura di Noves, nata verso l’anno 1307, nel gennaio del 1325, sposò Ugo di Sade, gentiluomo di Avignone, che fu geloso, ma non, a quanto sembrò, per effetto di amore, perchè contrasse novelle nozze, sette mesi dopo la morte di Laura, accaduta nel 6 di aprile 1348, ventun anni esattamente dal dì, che Petrarca, vedendola per la prima volta, si accese d’amore per lei.
  4. Corpus crebris partubus exhaustum: l’abate di Sade, biografo del Petrarca, e sì ardente di zelo e d’affetto per questo Poeta, discende in decimo grado da un figlio di Laura. Gli è verisimile essere questo il motivo che gli ha suggerito il disegno della sua Opera, e lo ha fatto sollecito di rintracciare tutte le particolarità di una Storia sì rilevante per la vita e la fama della sua progenitrice (V. soprattutto il tom. I, p. 123-133, note, p. 7-58, e il t. II, p. 455-495, note, p. 76-82).
  5. La fontana di Valchiusa, cotanto nota ai nostri viaggiatori inglesi, è stata descritta dall’abate di Sade (Mémoires, t. I, p. 340-359) che ha seguìto le Opere del Petrarca, e le sue proprie nozioni locali. Essa per verità non era che un ritiro da eremita, e la sbagliano assai que’ moderni che nella grotta di Valchiusa mettono insieme Laura e il suo amante.
  6. L’edizione di Basilea, del secolo decimosesto, senza additar l’anno, contiene milledugencinquanta pagine, stampate in carattere piccolo. L’abate di Sade predica con forza per una nuova edizione delle Opere latine del Petrarca; ma io dubito se sarebbe nè molto proficua al Tipografo, nè molto dilettevole al Pubblico.
  7. V. Seldeno, Titles of Honour (t. III delle sue Opere, p. 457-466). Un secolo prima del Petrarca, S. Francesco avea ricevuta la visita di un poeta qui ab imperatore fuerat coronatus et exinde rex versuum dictus.
  8. Da Augusto fino a Luigi XIV, la Musa de’ poeti non è stata che troppo menzognera e venale; pure io dubito, se in verun secolo, o in veruna Corte, siavi mai stato, come alla Corte d’Inghilterra, un poeta stipendiato coll’obbligo di somministrare due volte all’anno, e sotto tutti i regni, e qualunque fosse l’occasione, una certa quantità di versi, e una certa dose di cantici di lode da cantarsi nella Cappella regia, e credo, alla presenza del medesimo Re. Mi esprimo con tanto maggiore franchezza sulla ridicolosità di un tal uso, che non vi sarebbe miglior tempo d’abolirlo siccome questo in cui viviamo sotto un Monarca virtuoso, ed avendo per poeta un uomo sommo.
  9. Isocrate (Panagir., t. I, pag. 116, 117, ediz. Battie. Cambridge, 1729) vuole di Atene sua patria, la gloria dell’istituzione αγωνας και τα αθλα μεγισαμη μονον ταχους και ρωμης, αλλα και λογων και γνομης, degli agoni e dei premj massimi non solo per la velocità e per la forza, ma ancora per l’eloquenza e pel sapere. I Panatenei vennero imitati a Delfo, ma non v’ebbe ai Giuochi Olimpici alcuna corona per la musica fuor quella che la vanità tirannica di Nerone si arrogò (Svet., in Ner., c. 23, Philostrat. presso il Casaubon, ivi, Dione Cassio, o Xifilino, l. LXIII, p. 1032, 1041, Potter’s greek Antiquities, v. I, p. 445-450).
  10. I Giuochi Capitolini (certamen quinquennale MUSICUM equestre; gymnicum) vennero istituiti da Domiziano (Svet., c. 4) nell’anno 86 di Gesù Cristo (Censorino, De die Natali, c. 18, p. 100, ediz. Havercamp), nè furono aboliti che nel quarto secolo (Ausonio, De professoribus Burdegal. V). Se la corona fosse stata conceduta a poeti d’un merito straordinario, l’esclusione di Stazio (Capitolia nostrae inficiata lyrae, Sylv., l. III, v. 31) potrebbe darne a divedere qual fosse il merito di coloro che concorrevano alle corone dei giuochi del Campidoglio; certamente i poeti latini vissuti prima di Domiziano sol dall’opinione pubblica furono coronati.
  11. Il Petrarca e i Senatori di Roma ignoravano che l’alloro fosse la corona de’ Giuochi Delfici, non quella de’ Capitolini (Plinio, Hist. nat., XV, 39; Histoire critique de la république des lettres, t. I, p. 150-220). I vincitori del Campidoglio venivano coronati con una ghirlanda di foglie di quercia (Marziale, l. IV, ep. 54).
  12. Il pio discendente di Laura si è sforzato, e non senza efficacia, a difendere la purità della sua progenitrice contro le censure di gravi personaggi, e contro le derisioni del mondo maligno (t. II, not., p. 76-82).
  13. L’abate di Sade descrive con molta esattezza tutto quanto alla incoronazione del Petrarca si riferisce (t. 1, p. 425, 435, t. II, p. 1-6, not. p. 1-13). Questi racconti sono tolti dagli scritti del Petrarca e dal Diario romano del Monaldeschi, che ha avuto il senno di non frammettere alle sue narrazioni le favole di cui ne ha recentemente presentati Sannuccio Delbene.
  14. L’atto originale trovasi pubblicato fra i documenti giustificativi alle Mémoires sur Pétrarque (t. III, p. 50-53).
  15. Per avere prove sull’entusiasmo che il Petrarca nodriva per Roma, voglia soltanto il leggitore aprire a caso le Opere dello stesso Poeta, o quelle del suo francese biografo. Questi ha scritto il primo viaggio del Petrarca a Roma (t. I, p. 323-335); ma in cambio di tanti fiori di rettorica e di morale, sarebbe stato meglio che, per dilettare il suo secolo e la posterità, il Poeta avesse offerta una descrizione esatta della città e della propria Coronazione.
  16. Il Padre Du Cerceau, Gesuita, ha scritto la Histoire de la Conjuration de Nicolas Gabrini, dit de Rienzi, tyran de Rome, en 1347, Opera pubblicata a Parigi, nel 1748, in 12, dopo la morte dell’autore. Ho tolti da quest’Opera alcuni fatti e diversi documenti che trovansi in un libro di Giovanni Hocsemio, Canonico di Liegi, Storico contemporaneo (Fabricius, Biblioth. latin. medii aevi, t. III, p. 273; t. IV, p. 85).
  17. L’abate di Sade che fa sì grande numero di scorrerie sulla Storia del secolo decimoquarto, necessariamente ha dovuto trattare, come proprio soggetto, una vicenda politica, che fece nel Petrarca una sì viva impressione (Mémoires, t. II, p. 50, 51, 320, 417, not. p. 70-76; t. III, p. 221-243, 366-375). V’ha luogo a credere che nessuna idea, o nessun fatto accennati nelle Opere del Petrarca gli sieno sfuggiti.
  18. Giovanni Villani, l. XII, c. 89-104, in Muratori, Rerum Ital. script., t. XIII, p. 969, 970, 981-983.
  19. Il Muratori ha inserito nel suo terzo volume delle Antichità italiane (p. 249-548) i Fragmenta historiae romanae ab anno 1327, usque ad annum 1354, scritti nel dialetto che usavasi a Roma e a Napoli nel secolo decimo quarto, con una versione latina a comodo degli stranieri. Contengono questi le particolarità le più autentiche sulla Vita di Cola (Nicolò) di Rienzi; erano stati pubblicati nel 1627, in 4., col nome di Tommaso Fortifiocca, del quale non parlasi nell’Opera, se non se come d’uomo punito dal Tribuno per delitto di falso. La natura umana rade volte è capace di una così sublime, o stupida imparzialità; ma chiunque sia l’autore di tali Fragmenti, gli ha scritti sul luogo e nel tempo della sommossa, e dipinge senza secondi fini e senza arte i costumi di Roma e l’indole del Tribuno.
  20. La prima e la migliore epoca della vita del Rienzi, quella in cui governò col carattere di Tribuno, trovasi descritta nel capitolo decimottavo dei Frammenti poc’anzi citati (p. 399-479). Questo capitolo, nella nuova divisione, forma il secondo libro della Storia, che contiene trent’otto capitoli, o sezioni meno estese.
  21. A taluno forse non dispiacerà di trovar qui un saggio dell’idioma che parlavasi a Roma e a Napoli nel secolo decimoquarto: Fo da soa juventuine nutricato di latte de eloquentia, bono gramatico, megliore rettuorico, autorista bravo. Deh como et quanto era veloce lettore! moito usava Tito Livio, Seneca, et Tullio, et Balerio Massimo, moito li dilettava le magnificentie di Julio Cesare raccontare. Tutta la die se speculava negl’intagli di marmo le quali iaccio intorno Roma. Non era altri che esso, che sapesse lejere li antichi pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava; quesse fiure di marmo justamente interpretava. Oh come spesso diceva. Dove suono quelli buoni Romani? dove ene loro somma justitia? Poteramme trovare in tempo che quessi fiuriano!
  22. Il Petrarca raffronta la gelosia de’ Romani col carattere facile de’ mariti avignonesi (Mém., t. I, p. 330).
  23. I frammenti della Lex Regia trovansi nelle Inscrizioni del Grutero (t. I, p. 242) e in fine al Tacito dell’Ernesti, con alcune dotte annotazioni dell’editore. (t. II).
  24. Non posso omettere un sorprendente e ridicolo abbaglio del Rienzi. La lex Regia conferisce a Vespasiano la facoltà di dilatare il Pomaerium, vocabolo famigliare a tutti gli Antiquarj, ma non al Tribuno, che lo confondeva con pomarium (verziere), e traducea lo Jardino de Roma, cioene Italia; il quale significato adottarono e il traduttore latino (p. 406) e lo Storico francese (pag. 33), meno scusabili nella loro ignoranza. Che più? La dottrina del Muratori su questo passo si è addormentata.
  25. Priori (Bruto) tamen similior, juvenis uterque, longe ingenio quam cujus simulationem induerat, ut sub hoc obtentu liberator ille P. R. aperiretur tempore suo .... Ille regibus, hic tyrannis contemptus. (Opp., p. 536).
  26. Leggo in un manoscritto perfumante quatro SOLDI, in un altro quatro FIORINI; differenza non lieve, perchè il fiorino valeva dieci soldi romani (Muratori, Dissert. 28). Verrebbe dalla prima versione che le famiglie di Roma ascendessero solamente a venticinquemila, la seconda le porterebbe a dugencinquantamila; ma temo assai che la prima versione sia più conforme allo stato di scadimento in cui trovavasi Roma in allora, e alla poca estensione del suo territorio.
  27. V. Hocsemio, p. 398, presso Du Cerceau (Hist. de Rienzi, p. 194). Le quindici leggi pubblicate da questo tribuno trovansi presso lo Storico che, per far più presto, chiamerò Fortifiocca, l. II, c. 4.
  28. V. Fortifiocca (l. II, c. 11). La descrizione di questo naufragio ci dà a conoscere alcune particolarità del commercio e della navigazione del secolo decimoquarto. 1. Il naviglio era stato costrutto a Napoli, e noleggiato pe’ porti di Marsiglia e di Avignone. 2. I piloti, originarj di Napoli e dell’isola Oenaria, e meno abili dei piloti siciliani e genovesi. 3. Lo stesso naviglio tornava allora, costeggiando, da Marsiglia; assalito da una tempesta, si rifuggì alla foce del Tevere, ma mancatagli la corrente, fu costretto a naufragare; la ciurma, veduta l’impossibilità di salvarlo, scese a terra. 4. Questo naviglio portava all’erario regio la rendita della Provenza, e contenea molte balle di pepe, di cannella e drappi di Francia, per un valore di ventimila fiorini, preda assai rilevante a quei giorni.
  29. Nello stesso modo un vecchio conoscente di Oliviero Cromwell, che si ricordava di averlo veduto entrar goffamente, e con ignobile atteggiamento nella Camera de’ Comuni, fu attonito del contegno facile e maestoso del Protettore sul trono (V. Harris’s Life of Cromwell, pag. 27-34, sulle testimonianze di Clarendon, Warwick, Witelocke, Waller, ec.). Un uomo che senta il proprio merito e il proprio potere assume facilmente le maniere confacevoli alla sua dignità.
  30. V. le particolarità, le cagioni e gli effetti della morte di Andrea nel Giannone (t. VI, l. XXIII, p. 111, 130 dell’ediz. Bettoni, Milano) e nelle Mémoires sur la vie de Pétrarque (t. II, p. 143-148, 245-250, 375-379, not., p. 21-37). L’abate di Sade vorrebbe attenuare il delitto di questa Regina.
  31. L’avvocato che arringò contro Giovanna di Napoli non poteva aggiungere nulla alla forza de’ ragionamenti espressi in poco nella lettera di Luigi di Baviera: Johanna! inordinata vita praecedens, retentio potestatis in regno, neglecta vindicta, vir alter susceptus, et excusatio subsequens, necis viri tui te probant fuisse participem et consortem. Giovanna di Napoli ha molti tratti singolari di somiglianza con Maria di Scozia.
  32. V. l’Epistola hortatoria de capessenda republica, che il Petrarca scrisse al Rienzi (Opp., pag. 535-550) e la quinta egloga o pastorale dello stesso Petrarca, allegorica dal principio al fine, e piena di oscurità.
  33. Plutarco nelle sue Quistioni romane (Opusc., t. I, p. 505, ediz. gr. Enr. Stef.), pone sopra principj sommamente costituzionali il genere semplice del poter dei Tribuni, i quali, propriamente parlando, non erano magistrati, ma argini opposti alla magistratura. Era di lor dovere ομοιουσθαι σχηματι, και σολη και διαιτη τοιε επιτνγχανουσι των πολιτων... καταπατεισαιδαι δει, assomigliarsi nel contegno, nell’abito e nella vita ai seguaci dei cittadini.... il tribuno dee passeggiare, (è detto di C. Curione) και μη σεμνον ειναιτη τον δημαρχον οψει ... οσω δε μαλλον εκταπεινουται τω σωματι, τοσουτω μαλλον αυξεται τη δυναμει, e non essere d’aspetto severo in vista.... Quanto più comparisce umile all’esterno, tanto più cresce in potere. Ma nè il Rienzi, nè forse lo stesso Petrarca erano in istato di leggere un filosofo greco. Ciò nondimeno Tito Livio e Valerio Massimo, che entrambi studiavano, avrebbero potuto instillar loro questa modesta dottrina.
  34. Non si saprebbe come tradurre in inglese questo titolo energico, ma barbaro, Zelator Italiae[a], che il Rienzi assumea.
    [a] Forse desiderosissimo di una Italia in italiano si accosterebbe al concetto che Cola di Rienzi voleva esprimere. Dico si accosterebbe, perchè desiderare non è adoperarsi per ottenere. Studiosissimo, zelantissimo renderebbe meglio il zelator, ma senza un verbo col segnacaso genitivo di vedere, di creare, si cadrebbe nell’oscuro, e forse nel barbaro, anche in italiano. (Nota del Trad. Ital.)
  35. Era bell’uomo (l. II, c. I, p. 399). È da osservarsi che il riso sarcastico dell’edizione di Bracciano non si trova nel manoscritto romano pubblicato dal Muratori. Di ritorno dal suo primo esilio, veniva dipinto siccome un mostro. Rienzi traeva una ventrasca tonna trionfale a modo de un abbate asiano or asinino (l. III, c. 18, p. 523).
  36. Comunque stravagante possa sembrare una tal festa, se ne erano vedute altre simili. Nel 1327, un Colonna e un Orsini furono creati cavalieri dal popolo romano, che tentava questa via per avvicinare le due famiglie; fu apprestato a ciascuno de’ due candidati un bagno d’acqua di rose; lor vennero apparecchiati letti con reale magnificenza, e a S. Maria d’Araceli sul Monte Capitolino furono serviti dai venti buoni uomini. Ricevettero indi da Roberto, re di Napoli, la spada di cavalieri (Hist. rom., l. I, c. 2, p. 259).
  37. Tutti credeano in quel tempo alla lebbra e al bagno di Costantino (Petr. epist. fam. VI, 2); e il Rienzi, per giustificare in appresso la propria condotta presso la Corte di Avignone, allegò che un divoto Cristiano non poteva avere profanato un vaso di cui s’era servito un Pagano. Cionnullameno quando venne lanciata contro il tribuno una Bolla di scomunica, fra i motivi della medesima veniva anche specificato questo delitto (Hocsemio, presso il Du Cerceau, p. 189, 190).
  38. Questa intimazione verbale fatta al Pontefice Clemente VI, narrata dal Fortifiocca, e che trovasi in un manoscritto del Vaticano, viene negata dal biografo del Petrarca (t. II, not., p. 70-76); egli si giova però d’argomenti più speciosi che atti a convincere. Non è maraviglia, se la Corte di Roma non desiderò di entrare in una quistione sì dilicata.
  39. Quanto ai due Imperatori rivali, che il Rienzi citò al suo tribunale, è l’Hocsemio (Du Cerceau, p. 163-166) che racconta questo tratto di libertà e di follia.
  40. È cosa singolare che il Fortifiocca non abbia fatto cenno di questa coronazione, verisimile per sè stessa, e confermata dalle testimonianze dell’Hocsemio e del medesimo Rienzi (Du Cerceau, p. 167-170-229).
  41. Puoi se faceva stare denante a se, mentre sedeva, li baroni tutti in piedi ritti co le vraccia piegate, e co li capucci tratti. Deh como stavano paurosi (Hist. rom., l. II, c. 20, p. 409)! Gli ha veduti, ce li fa vedere.
  42. La lettera, colla quale il Rienzi giustifica la condotta tenuta verso i Colonna (Hocsemio, presso Du Cerceau, p. 222229), svela al naturale un mariuolo ad un tempo ed un pazzo (a).
    (a) Trovo un concetto affatto identico nel Cantore del Ricciardetto.

    „E v’è un misto di matto e di briccone.
     (Nota dell’Ed.)

  43. Rienzi, nella lettera che abbiam citata poc’anzi, attribuisce a S. Martino il Tribuno e a Bonifazio VIII, nemici della Casa Colonna, a sè medesimo e al popolo romano, la gloria di questo combattimento, che il Villani (l. XII, c. 104) trasforma in una regolare battaglia. Il Fortifiocca (l. II, c. 34-37) descrive partitamente e con semplicità il disordine del combattimento, la fuga de’ Romani, e la viltà di Rienzi.
  44. Parlando della caduta della famiglia Colonna, intendo qui solamente quella di Stefano. Il Padre Du Cerceau confonde spesse volte il padre ed il figlio. Dopo l’estinzione del primo ramo, questa Casa si è perpetuata ne’ rami collaterali da me non conosciuti in un modo abbastanza esatto. Circumspice, dice il Petrarca, familiae tuae statum, Columniensium domos: solito pauciores habeat Columnas. Quid ad rem? Modo fundamentum stabile, solidumque permaneat.
  45. Il Convento di S. Silvestro era stato fondato e dotato dai Cardinali della Casa Colonna a favore di quelle loro parenti che volessero abbracciare la vita monastica, e la stessa Casa Colonna continuò sempre a proteggerlo. Nel 1318 le religiose erano in numero di dodici. Le altre figlie di questa Casa aveano la permissione di sposare i lor cugini in quarto grado, dispensa fondata sul picciolo numero delle nobili famiglie romane, e sulle strette loro parentele (Mém. sur Pétrarque, t. I, p. 110; t. II, p. 401).
  46. Il Petrarca scrisse alla famiglia Colonna una lettera piena di ricercatezza e di pedanteria (Fam., l. VII, epist. 13, p. 682, 685). Vi si vede un’amicizia annegata in mezzo al patriottismo. Nulla toto orbe principum familia carior; carior tamen respublica, carior Roma, carior Italia.

    Je rends graces aux Dieux de n’être pas Romain„.

  47. Polistore, autore contemporaneo che ha conservati molti fatti originali, nè privi di vezzo per gli eruditi (Rer. Ital., t. XXV, c. 31, p. 798-804), accenna oscuramente questa assemblea, e le opposizioni che trovò il Rienzi nella medesima.
  48. Il P. Du Cerceau (p. 196-252) ha tradotti i Brevi e le Bolle di Clemente VI contra il Rienzi seguendo gli Annali Ecclesiastici di Oderico Rainaldi (A. D. 1347, n. 15-17-21) che trovò questi atti negli archivj del Vaticano.
  49. Mattia Villani descrive l’origine, il carattere e la morte di questo Conte di Minorbino, uomo di natura incostante et sanza fede. Era stato avo del Minorbino un astuto notaio che arricchitosi delle spoglie de’ Saracini di Nocera, comperò indi la Nobiltà. V. il suo imprigionamento, e gli sforzi fatti a pro del medesimo dal Petrarca (t. II, p. 149-151).
  50. Mattia Villani (l. II, c. 47; l. III, c. 33-57-78) e Tommaso Fortifiocca (l. III, c. 1-4) narrano le turbolenze accadute in Roma fra l’intervallo della partenza e del ritorno del Rienzi. Non mi sono fermato sulle amministrazioni del Cerroni e del Baroncelli che imitarono unicamente il Rienzi, loro modello.
  51. Lo zelo di Polistore, l’Inquisitore dominicano (Rer. ital., t. XXV, c. 36, p. 819), ha, non v’è dubbio, esagerato queste visioni, non saputesi nè dagli amici, nè dai nemici del Rienzi. Se questi avesse affermato, che il Regno dello Spirito Santo sottentrava in vece di quello di Cristo, che la tirannide del Pontefice doveva essere abolita, non si sarebbe tardato a convincerlo di eresia e di ribellione, senza dar disgusto al popolo di Roma.
  52. La maraviglia, e quasi gelosia, del Petrarca è una prova, se non della verità di questo fatto incredibile, almeno della buona fede di chi lo racconta. L’abate di Sade (Mém. t. III, p. 242) cita la sesta epistola del lib. decimoterzo del Petrarca; ma egli ha consultato il manoscritto reale, non l’edizione ordinaria di Basilea (p. 920).
  53. Egidio, o Gille Albornoz, Nobile spagnuolo, Arcivescovo di Toledo, e Cardinale Legato in Italia (A. D. 1353-1367), restituì coll’armi e col consiglio l’autorità temporale ai Pontefici. Sepulveda ne ha scritta la vita; ma il Dryden non ha potuto ragionevolmente supporre che il nome di Albornoz, o di Volsey fosse pervenuto all’orecchio del Mufti della tragedia del Don Sebastiano.
  54. Il P. Du Cerceau (p. 344-394) ha tolta da Mattia Tillani e dal Fortifiocca la sua relazione sulle azioni e la fine del Cavaliere di Montréal, vissuto da ladro e morto da eroe. Capo di una compagnia libera (la prima di queste bande che avesse ancora desolata l’Italia) si arricchì e divenne formidabile; aveva impiegato danaro in tutti i banchi, e a Padova, solamente, sessantamila ducati.
  55. Il Fortifiocca che non si mostra nè amico, nè nemico del Rienzi, ne racconta con tutte le particolarità (l. III, p. 12-25) l’esilio, la seconda amministrazione e la morte. Il Petrarca che amava il Tribuno, intese con indifferenza la morte del Senatore.
  56. L’abate di Sade descrive in piacevole modo, e attenendosi allo stesso Petrarca, la fiducia e le speranze deluse del Poeta (Mem. t. III, p. 375-413); ma il maggior cordoglio, benchè il più nascosto, fu per lui la corona che il Poeta Zanubi ottenne dalle mani medesime dell’Imperatore Carlo IV.
  57. V. nell’Opera aggradevole ed esatta dell’abate di Sade le lettere scritte dal Petrarca, nel 1334, a Benedetto XII (t. I, p. 261-265), nel 1342, a Clemente VI (t. II, p. 45-47) e nel 1336, ad Urbano V (t. III, p. 677-691); l’elogio dell’ultimo di questi Pontefici (p. 711-715), l’apologia del medesimo (p. 771); e si consulti (Opp. p. 1068-1085) ove si rinverrà il parallelo pieno di fiele che il Petrarca instituisce fra il merito della Francia e quel dell’Italia.
  58. Squallida sed quoniam facies, neglectaque cultu
    Caesaries; multisque malis lassata senectus
    Eripuit solitam effigiem; vetus accipe nomen;
    Roma vocor.

     (Carm. l. II, p. 77.)

    Protrae una tale allegoria al di là di tutti i limiti, e sin della pazienza dei leggitori. Le lettere in prosa che il Petrarca scrisse ad Urbano V sono più semplici e più persuasive (Senilium, l. VII, p. 811-827; l. IX, epist. 1. p. 844-854).

  59. In vece di credulità bisognava dire fede, o credenza, perchè credulità significa credenza eccessiva senza motivi di credibilità. S. Paolo scrisse rationabile obsequium vestrum. Si sa poi da quella parte d’istoria Ecclesiastica risguardante i Papi specialmente, ch’essi furono premurosissimi, per loro istituto, di tener fermi gli animi nella credenza. (Nota di N. N.).
  60. Non ho tempo di trattenermi sulle leggende di Santa Brigida e di Santa Catterina: la seconda di queste leggende potrebbe somministrare alcune dilettevoli storie. L’impressione che fecero sull’animo del Papa è attestata dai discorsi tenuti da lui medesimo al letto di morte, quando avvertì i circostanti ut caverent ab hominibus, sive viris, sive mulieribus, sub specie religionis loquentibus visiones sui capitis, quia per tales ipse seductus etc. (Baluzio, Not. ad vit. pap. Avenionensium, t. I, p. 1223).
  61. Questa spedizione di scorridori viene narrata dal Froissard (Chronique, t. I, p. 230) e nella Vita del Du Guesclin (Collection générale des Mémoires historiques, t. IV, c. 16, p. 107-113). Fin dall’anno 1361 la Corte avignonese avea sofferte violenze da bande d’uomini della stessa indole, che indi attraversavano l’Alpi (Mémoires sur Pétrarque, tom. III, p. 563-569).
  62. Il Fleury, seguendo gli Annali di Oderico Rinaldi, cita il Trattato originale stipulato e sottoscritto nel dì 21 decembre, 1776, fra Gregorio XI e i Romani (Hist. eccl., t. XX, p. 275).
  63. La prima Corona, o regnum (Ducange, Gloss. lat., t. V, p. 702), che vedesi far comparsa sulla mitra de’ Papi, significa la donazione di Costantino, o di Clodoveo. Bonifazio VIII vi aggiunse la seconda per dare a divedere che i Pontefici, oltre al regno spirituale, un regno temporale possedono. I tre Stati della Chiesa vengono rappresentati dalla triplice Corona che adottarono Giovanni XXII, o Benedetto XII (Mém. sur Pétr. t. I, p. 258, 259).
  64. Il Baluzio (Not. ad pap. Avenion., t. I, p. 1194, 1195) cita diverse testimonianze intorno alle minacce degli ambasciatori romani e alla rassegnazione dell’Abate di Monte Cassino, qui ultro se offerens, respondit se civem romanum esse, et illud velle quod ipsi vellent.
  65. Possono leggersi, nelle Vite di Urbano V, e di Gregorio XI, Baluzio, (Vit. pap. Avenion., t. I, p. 363-486), Muratori, (Script. rer. ital., t. III, part. I, pag. 613-712) il ritorno de’ Papi a Roma, e l’accoglienza che dal popolo ricevettero. Nelle dispute dello scisma vennero esaminate severamente, benchè con parzialità, tutte le circostanze; soprattutto allor quando accadde la grande verificazione che decise sull’obbedienza della Castiglia, verificazione alla quale il Baluzio, seguendo un manoscritto della Biblioteca di Harlay, rimanda sì di frequente i proprj leggitori nelle sue note, p. 1281, etc.
  66. Può forse, chi crede l’immortalità dell’anima, ravvisare nella morte un gastigo per l’uom dabbene? Mostrerebbe così una perplessità nella propria fede. Ma un filosofo non può essere di concorde avviso coi Greci ον οι θεοι φιλουσιν αποθνησκει νεος, muore giovane chi è amato dagli Dei (Brunck, Poetae Gnomici, p. 231). V. in Erodoto (l. I, c. 31) la Novella e morale de’ giovani d’Argo.
  67. Il Sig. Lenfant, nella Storia del Concilio di Pisa, ha compilati e paragonati fra loro i racconti de’ partigiani d’Urbano, e di quei di Clemente, degl’Italiani e degli Alemanni, de’ Francesi e degli Spagnuoli. Sembra che gli ultimi si mostrassero più operosi e verbosi in questa querela. Il loro editore Baluzio ha nelle sue Note somministrate le prove sopra tutti i fatti e i detti che vengono narrati nelle Vite di Gregorio XI e di Clemente VII.
  68. Sembra che i numeri adottati dai successori di Clemente VII, e di Benedetto XIII, sciolgano a svantaggio della legittimità di questi Pontefici la quistione. Gl’Italiani li chiamano, senza riguardo, Antipapi, mentre i Francesi, dopo avere ventilate le ragioni d’entrambe le parti, si limitano a dubitare e a tollerare (Baluz., in Praef.). È cosa singolare, o piuttosto è cosa da non maravigliarsene, che l’una e l’altra fazione ebbero Santi, visioni e miracoli.
  69. Il Baluzio si studia (Not. p. 1271-1280) a giustificare la purezza e la pietà de’ motivi di Carlo V, Re di Francia: „Questo Principe ricusò di ascoltare le ragioni di Urbano; ma e i partigiani di Urbano non ricusarono forse di ascoltare quelle di Clemente etc.?„.
  70. Una lettera o declamazione pubblicata col nome di Eduardo III (Baluzio, Vit. papar. Avenion., t. I, p. 553), mostra con quanto zelo la nazione inglese si movesse contra la fazione di Clemente; nè a sole parole si limitò questo zelo. Il Vescovo di Norwick sbarcò a capo di sessantamila fanatici sul Continente (Hume’s, History, vol. III, p. 57, 58).
  71. Oltre a quanto narrano in generale gli Storici, i Giornali di Delfino Gentile, di Pietro Antonio e di Stefano Infessura, nella grande Raccolta del Muratori, ne danno a conoscere quai fossero in quella età lo stato e le sciagure di Roma.
  72. Il Giannone (T. VI, l. XXIV, c. VI, p. 247, ediz. Bettoni) suppone che Ladislao si fosse intitolato Rex Romae, benchè tale titolo più non si conoscesse dopo l’espulsione dei Tarquinj. Ma si è scoperto in appresso che conveniva leggere Rex Ramae, di Rama, oscuro regno congiunto a quel di Ungheria.
  73. Qual precipua e decisiva parte abbia sostenuta il Regno di Francia nello scisma di Occidente, leggesi in una Storia particolare, composta sulla traccia di autentici documenti da Pietro Dupuis, ed inserita nel settimo volume dell’ultima edizione dell’opera del Presidente De Thou, amico dello stesso Dupuis (part. XI, p. 110-184).
  74. Giovanni Gerson, uno de’ più intrepidi fra que’ dottori, autore, o per lo meno il propugnatore zelante di questo partito, regolò spesse volte in ordine a ciò la condotta dell’Università di Parigi e della Chiesa Gallicana, come egli medesimo ne parla a lungo ne’ proprj scritti teologici, dei quali abbiamo una buona compilazione eseguita dal Le Clerc (Bibl. choisie, t. X, p. 1-78).
  75. Leonardo Bruni di Arezzo, un di quelli che maggiormente contribuirono al risorgimento della letteratura classica nell’Italia, e che, dopo avere servito parecchi anni alla Corte di Roma, qual Segretario, abbandonò questa carica per assumere l’altra onorevole di Cancelliere della Repubblica di Firenze (Fabr., Bibl. med. aevi, t. I, p. 290). Il Lenfant nella sua Opera (Concile de Pise, t. I, p. 191-195) ne ha offerta la traduzione di questa curiosa lettera.
  76. Non posso passare sotto silenzio la grande lite nazionale che gli ambasciatori dell’Inghilterra sostennero valorosamente contro quelli di Francia. Pretendeano questi che la Cristianità fosse per essenza scompartita in sole quattro grandi nazioni, l’Italia, l’Alemagna, la Francia e la Spagna, sole, secondo essi, che avessero voce nella grande contesa; e quanto ai Regni men vasti (la Danimarca, il Portogallo ec., e vi aggiugnevano l’Inghilterra) non erano che compresi sotto l’una, o l’altra di queste generali divisioni. Gl’Inglesi affermavano per parte loro che le Isole Britanniche, di cui la principale era l’Inghilterra, dovevano essere riguardate come quinta nazione, e quinta nell’aver voce; e per rialzare lo splendore della loro patria ricorsero a tutti gli argomenti che la verità e la favola ai medesimi suggeriva. Comprendendo nelle Isole Britanniche l’Inghilterra, la Scozia, il paese di Galles, i quattro Regni d’Irlanda e le Orcadi, presentarono questi territorj di otto reali Corone, distinte per quattro o cinque lingue, l’inglese, la gallese, il dialetto della contea di Cornovaglia, la scozzese e l’irlandese; asserirono che la maggiore fra queste Isole era lunga, da tramontana ad ostro, ottocento miglia, corrispondenti a quaranta giorni di cammino; che la sola Inghilterra contenea trentadue contee, o cinquantaduemila parrocchie (asserzione un poco avanzata) oltre alle cattedrali, ai collegi, ai priorati, agli ospitali. Furono allegate la missione di S. Giuseppe di Arimatea, la nascita di Costantino, la legazione de’ due Primati, ec.; nè venne posta in obblivione la testimonianza di Bartolomeo di Glanville (A. D. 1360) il quale non vedeva che quattro Regni nella Cristianità; 1. quel di Roma; 2. quel di Costantinopoli; 3. quel dell’Irlanda, passato negl’inglesi Monarchi; 4. quel della Spagna. Gl’Inglesi trionfarono ne’ Consigli; ma per vero dire aggiunsero grande peso alle loro fazioni le vittorie di Enrico V. Ser Roberto Wingfield, ambasciatore di Enrico VIII presso l’Imperatore Massimiliano I, trovò a Costanza le allegazioni d’entrambe le parti, e le fece stampare a Lovanio nel 1517. Vennero indi più correttamente pubblicate nella Raccolta di Vonder-Hardt (t. V), che si giovò di un manoscritto di Lipsia; ma non ho veduto che la compilazione di tali atti pubblicata dal Lenfant (Conc. de Const., t. II, p. 447-453; ec.).
  77. Un Ministro protestante, il sig. Lenfant, che abbandonando la Francia, si ritirò a Berlino, ha scritta con molta buona fede, diligenza ed eleganza, la Storia de’ tre successivi Concilj di Pisa, di Costanza e di Basilea, in sei volumi in 4. La parte men pregevole di quest’Opera è quanto si riferisce al Concilio di Basilea, la migliore, quella che tratta del Concilio di Costanza.
  78. V. la Diss. 27 delle Antichità del Muratori, e la prima Istruzione della Scienza delle Medaglie del P. Joubert e del Barone della Bastia. La Storia numismatica di Papa Martino V e de’ suoi successori venne composta da due frati, Moulinet, oriondo francese, e Bonanni, oriondo italiano. Credo però che la prima parte della Serie sia stata rifatta con più recenti medaglie.
  79. Oltre alle Vite di Eugenio IV (Rer. Ital., tom. IX, p. 869, e t. XXV, p. 256) il Giornale di Paolo Petroni e di Stefano Infessura, sono i testi più sicuri ed originali che si abbiano intorno alla ribellione de’ Romani contra Eugenio IV; il primo che vivea in que’ giorni a Roma, tiene il linguaggio di un cittadino, pavido, nella stessa guisa, della tirannide de’ preti e di quella del popolo.
  80. Il Lenfant (Conc. de Bále, t. II, pag. 276-268) nel descrivere la coronazione di Federico III, segue Enea Silvio, spettatore ed attore di questa sfarzosa cerimonia.
  81. Il giuramento di fedeltà che il Papa prescriveva all’Imperatore, è stato registrato e consacrato nelle Clementine (l. II, tit. 9); ed Enea Silvio, il quale si oppose a questa nuova pretensione del Pontefice, non prevedea che dopo il volgere di pochi anni, ascenderebbe egli stesso il trono di S. Pietro, e abbraccerebbe allora le massime di Bonifazio VIII.
  82. Lo senatore di Roma, vestito di brocarto con quella beretta, con quelle maniche, e ornamenti di pelle, co’ quali va alle feste di Testaccio e Nagone, non ferì forse gli sguardi di Enea Silvio; ma il cittadino di Roma parla con ammirazione e compiacenza di una tal circostanza.
  83. V. negli Statuti di Roma il Senatore e i tre Giudici (l. I, c. 3-14), i Conservatori (lib. I, cap. 15, 16, 17; l. III, c. 4, i Caporioni (lib. I, c. 18; l. III, c. 8), il Consiglio segreto (lib. III, cap. 2), il Consiglio comune (l. III, c. 3). Il titolo delle querele domestiche, delle disfide, e degli atti di violenza, ec., occupa molti capitoli (c. 14-40) del secondo libro.
  84. Statuta almae urbis Romae auctoritate S. D. N. Gregorii XIII, Pont. Max. a senatu populoque Rom. reformata et edita Romae, 1580, in folio. I vecchi statuti cadendo in disuso, nè convenendo più per l’avvenire ai Romani, furono raccolti in cinque libri non pubblicati. Luca Peto, dotto giureconsulto e antiquario venne incaricato di esserne il Triboniano; per altro io m’augurerei il vecchio codice colla sua rozza corteccia di libertà e di barbarie.
  85. Nel tempo ch’io stetti a Roma, e nel tempo parimente che vi soggiornò il sig. Grosley (Observ. sur l’Italie, t. II, p. 361), il Senatore di Roma era il sig. Bielke nobile svedese che aveva abbracciata la religione cattolica. Gli Statuti accennano anzichè determinare i diritti del Papa sulla elezione del Senatore e de’ Conservatori.
  86. Sopra il monte Tarpeio, Canzon, vedrai
    Un cavalier che Italia tutta onora
    Pensoso più d’altrui che di sè stesso

     Petr. Canz. Spirto gentil ec.
     (Nota dell’Ed.).

  87. Nicolò V ben lungi dall’essere un tiranno avea trattato Stefano Porcaro con molta clemenza, e questi avendo giurato fedeltà doveva osservarla. (Nota di N. N.)
  88. Il Machiavello (Ist. fiorentina, l. VI, p. 373-375, edizione Bettoni) ne porge un racconto brevissimo e in un curiosissimo della cospirazione del Porcaro. La troviamo parimente nel giornale di Stefano Infessura (Rer. Ital., t. III, part. II, p. 1134, 1135) e in uno scritto particolare pubblicato da Leone Battista Alberti (Rer. Ital., t. XXV, p. 609-614). È cosa non priva di vezzo l’istituir paragone fra lo stile di questi due scrittori, e fra le opinioni del cortigiano e del cittadino. Facinus profecto quo ... neque periculo horribilius, neque audacia detestabilius, neque crudelitate tetrius, a quoquam perditissimo uspiam excogitatum sit.... Perdette la vita quell’uomo da bene, e amatore dello bene e libertà di Roma.
  89. I disordini di Roma, inveleniti oltre ogni dire dalla parzialità di Sisto IV, vengono narrati ne’ Giornali di Stefano Infessura e di un cittadino anonimo che ne furono spettatori. V. le turbolenze dell’anno 1484 e la morte del Protonotario Colonna (t. III, part. II, p. 1083-1158).
  90. Est toute la terre de l’Eglise troublée pour cette partialité (dei Colonna e degli Orsini), comme nous dirions Luce et Grammont, ou en Hollande Houc et Caballan; et quand ce ne serait ce différend, la terre de l’Èglise serait la plus heureuse habitation pour les sujets, qui soit dans tout le monde (car ils ne payent ni tailles ni guères autres choses), et seraient toujours bien conduits (car toujours les papes sont sages et bien conseillés); mais très-souvent en advient de grands et cruels meurtres et pilleries„.
  91. Non può negarsi, che le scomuniche, le quali escludono alcuno dal numero de’ fedeli, non fanno effetto sull’animo di quelli che non credono alla loro forza ed alle loro conseguenze. Per altro le scomuniche devono avere un giusto e certo soggetto. Ogni diritto di scomunicare, ed ogni scomunica, ha la sua origine e la sua forza da quelle parole di Cristo riferite nell’Evangelio. Si autem peccaverit in te frater tuus vade et corripe eum inter te et ipsum solum; si te audierit lucratus eris fratrem tuum; si autem non audierit adhibe tecum adhuc unum vel duos, ut in ore duorum vel trium testium, stet omne verbum. Quod si non audierit eos, die ecclesiae; si autem ecclesiam non audierit sit tibi sicut Ethaicus et Publicanus. S. Matteo, c. 18. La Storia civile ed ecclesiastica concordemente ci mostrano quali grandi e replicati abusi sieno stati fatti del diritto di scomunicare, secondando le passioni, e recando mali e disordini gravissimi. (Nota di N. N.)
  92. L’assegnatezza di Sisto V portò a due milioni e mezzo di scudi romani la rendita dello Stato ecclesiastico (Vit. t. II, p. 291-296), e sì bene fornito era l’esercito pontifizio, che in un mese Clemente VIII potè occupare con tremila uomini a cavallo, e ventimila fantaccini lo Stato di Ferrara (t. III, p. 64). D’indi in poi (A. D. 1593) le armi del Pontefice han presa per buona sorte la ruggine; e la rendita, almeno in apparenza, debb’essere cresciuta.
  93. Soprattutto dal Guicciardini e dal Machiavello. Il leggitore può consultare l’Istoria generale del primo, l’Istoria fiorentina, il Principe, e i Discorsi politici del secondo. Il Guicciardini e il Machiavello, Fra Paolo e il Davila degni loro successori, sono stati considerati a buon diritto, come i primi Storici de’ moderni popoli fino a questo momento, in cui la Scozia è surta al vanto di contendere cotesta palma all’Italia.
  94. Nel descrivere l’assedio di Roma fatto dai Goti (c. XXI) ho paragonati i Barbari coi sudditi di Carlo V, anticipazione che mi feci lecita senza scrupolo, siccome usai nel narrare prima del tempo le conquiste dei Tartari, per la poca speranza che allora era in me di terminare quest’Opera.
  95. Il racconto delle deboli ostilità cui si lasciò trascinare per ambizione il Pontefice Paolo IV della famiglia Caraffa, leggesi nel Presidente De Thou (l. XVI, XVIII) e nel Giannone (t. VIII, l. 33, c. 1, p. 203-232, edizione Bettoni). Due bacchettoni cattolici, Filippo II e il Duca d’Alba, osarono separare il principe romano dal Vicario di Gesù Cristo. Nondimeno il carattere sacro che ne avrebbe santificata la vittoria, giovò onorevolmente a proteggerlo nella sconfitta.
  96. Il dottore Adamo Smith (Wealth of Nations, vol. I, p. 495-504) spiega in ammirabile guisa il cambiamento dei costumi e le spese che trae seco il progresso della civiltà. Forse dimostra con troppa acredine, che le mire le più personali ed ignobili hanno partoriti gli effetti i più salutevoli.
  97. Un Italiano uscito del suo paese, Gregorio Leti, ha pubblicata la Vita di Sisto V (Amsterd. 1721, 5 vol. in 12), opera circostanziata e dilettevole, ma non fatta per inspirare piena fiducia. Nondimeno quanto vi si legge sul carattere del Pontefice, e sui principali fatti di questa Storia trovasi confermato negli Annali dello Spondano e del Muratori (A. D. 1585-1590), e nella Storia contemporanea del grande De Thou. (l. LXXXII, c. 1, 2; l. LXXXIV, c. 10; l. C, c. 8).
  98. I Ministri esteri, ad esempio della Nobiltà romana vollero avere questi luoghi privilegiati, quartieri, o franchigie. Giulio II avea abolito l’abominandum et detestandum franchitiarum hujus modi nomen; ma le franchigie ricomparvero ancora dopo Sisto V. Non so trovare ove fosse la giustizia, o la grandezza di Luigi XIV quando, nel 1687, spedì a Roma un ambasciatore (il Marchese di Lavardin) con mille ufiziali, guardie e servi armati per sostenere questo iniquo diritto e insultare Innocenzo XI in seno della sua Capitale. (Vita di Sisto V, t. III, p. 260-278; Muratori, Annali d’Italia, t. XV, p. 494-496, e Voltaire, Siècle de Louis XIV, t. II, c. 14, p. 58, 59).
  99. Questo oltraggio diede origine ad un decreto scolpito in marmo e collocato in Campidoglio; decreto il di cui stile è di una semplicità nobile e repubblicana. Si quis, sive privatus, sive magistratum gerens, de collocanda vivo pontifici statua mentionem facere ausit, legitimo S. P. Q. R., decreto in perpetuum infamis et publicorum munerum expers esto M. D. X. C. mense Augusto (Vita di Sisto V, tom. III, p. 469). Credo che un tale decreto venga tuttavia osservato, nè dubito di affermare che dovrebbero mettere una simile proibizione tutti i principi meritevoli veramente di statua.
  100. Le Storie della Chiesa, dell’Italia e della Cristianità mi hanno giovato a comporre questo capitolo. Nelle Vite originali de’ Papi si scopre sovente lo stato della città e della Repubblica di Roma, e gli avvenimenti de’ secoli XIV, XV trovansi registrati nelle rozze Cronache che ho esaminate accuratamente, e che ora, seguendo l’ordine dei tempi, indicherò ai leggitori.
      1. Monaldeschi (Ludovici Boncomitis), Fragment. Annalium roman. (A. D. 1328), in Scriptores rerum italicarum del Muratori, t. XII, p. 525. N. B. La fiducia che può essere inspirata da questo fragmento, viene alquanto diminuita da una singolare interpolazione mediante cui l’Autore racconta la sua propria morte, accaduta quando compieva il centoquindicesimo anno.
      2. Fragmenta Historiae romanae (vulgo Thomas Fortifiocca, in romana Dialecto vulgari) A. D. 1327-1354, nel Muratori, Antiquit. med. aevi ital., t.III, p. 247-548), base autentica della Storia del Rienzi.
      3. Delphini (Gentilis) Diarium romanum (A. D. 1370-1410) in Rerum italic., etc. t. III, part. II, p. 846.
      4. Antonini (Petri), Diarium romanum (A. D. 1404-1417) t. XXIV, p. 969.
      5. Petroni (Pauli) Miscell. historica romana (A. D. 1433-1446), t. XXIV, p. 1101.
      6. Volaterrani (Jacob), Diarium rom. (A. D. 1472-1484), t. XXIII, p. 81.
      7. Anonymi Diarium urbis Romae (A. D. 1481-1492), t. III, part. I, II, p. 1069.
      8. Infessura (Stephani), Diarium romanum (A. D. 1294, 1378-1494), t. III, part. II, p. 1109.
      9. Historia arcana Alexandri VI, sive excerpta ex Diario Joh. Burcardi (A. D. 1492-1503) edit. a Godefr. Gulielm. Leibnizio, Hanov. 1897, in 4. I manoscritti che si trovano nelle diverse Biblioteche dell’Italia e della Francia possono giovare a compire la grande e preziosa Opera del Burcardo, (Foncemagne, Mém. de l’Acad. des Inscript., t. XVII, p. 597-606).
      Eccetto l’ultima Opera, questi frammenti e giornali si trovano nella Raccolta del Muratori, mia scorta e mio maestro nella Storia d’Italia. Il Pubblico gli debbe in ordine a ciò: 1. Rerum italicarum Scriptores (A. D. 500-1500) quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit, etc., 28 vol. in fol., Milano, 1723-1738-1751. Rimangono a desiderarsi un soccorso di tavole cronologiche ed alfabetiche che servano di chiave a questa grand’Opera, tuttavia in disordine e in uno stato difettoso. 2. Antiquitates Italiae medii aevi, 6 volumi in fol.; Milano, 1738-1743, in settantacinque Dissertazioni piene d’interesse su i costumi, il governo, la religione ec. degli Italiani del Medio Evo con un supplimento considerabile di chirografi, cronache, ec. 3. Dissertazioni sopra le Antichità italiane, 3 vol. in 4; Milano, 1751, traduzione in italiano dell’Opera precedente, eseguita dal medesimo Autore, e che per essere citata merita la stessa fiducia del testo latino Antiquitates. 4. Annali d’Italia, 18 volumi in 8; Milano, 1753-1756, compilazione arida, ma esatta ed utile della Storia d’Italia, dopo la nascita di Gesù Cristo fino alla metà del secolo XVIII. 5. Delle Antichità Estensi ed Italiane, 2. vol. in fol.; Modena, 1717-1740. Nella Storia di questa nobile famiglia d’ond’escono gli attuali Re d’Inghilterra, il Muratori non si è lasciato trasportare dalla fedeltà e dalla gratitudine che, come suddito, doveva ai Principi della Casa d’Este. In tutte le sue Opere si manifesta scrittore laborioso ed esatto, e cerca sollevarsi al di sopra de’ pregiudizj ordinarj ad un prete. Nato nel 1672, morì nel 1750, dopo avere trascorsi circa 60 anni nelle Biblioteche di Milano e di Modena. Vita del Proposto Ludovico Antonio Muratori, scritta da Gian Francesco Soli Muratori, nipote e successore del medesimo. Venezia, 1756, in 4.