Le Mille ed una Notti/Storia delle due Sorelle invidiose della loro Cadetta

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Storia delle due Sorelle invidiose della loro Cadetta
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STORIA

DELLE DUE SORELLE INVIDIOSE

DELLA LORO CADETTA.


— Sire,» disse, «c’era una volta un principe di Persia chiamato Khosru-Schah (1), il quale cominciando a far conoscenza del mondo, compiacevasi assai di notturne avventure: travestivasi spesso, usciva accompagnato da un suo confidente, al par di lui travestito, e percorrendo i vari quartieri della città, gliene accadevano allora di singolari, sulle quali non voglio oggi intertenere la maestà vostra; ma spero che ascolterà con piacere quella accadutagli subito la prima volta che uscì dal palazzo, pochi giorni dopo che fu salito al trono in vece del sultano, suo padre, il quale, morendo di grande vecchiaia, aveagli lasciato il regno di Persia in retaggio.»

L’alba, comparsa allora, non permise a Scheherazade di continuare il racconto; ma essa avvidesi con piacere che l’esordio destava già la curiosità del sultano, il quale, infatti, attestò all’amabile narratrice il desiderio di conoscerne la continuazione. [p. 63 modifica]


NOTTE CDXVI


— Sire,» proseguì la domane Scheherazade, «dopo le cerimonie consuete, in occasione del suo avvenimento alla corona, e dopo quelle de’ funerali del padre, il nuovo sultano Khosru-Schah, tanto per inclinazione come per dovere, all’uopo di prender cognizione di ciò che accadeva, uscì una sera dal palazzo, verso le due ore di notte, accompagnato dal suo gran visir, travestito come lui. Mentre trovavasi in un quartiere, popolato dalla gente bassa, passando per una via udì parlare ad alta voce. Si avvicina alla casa d’onde veniva il rumore; e guardando da una fessura della porta, vede lume, e tre sorelle sedute sur un sofà, che conversavano dopo cena. Dal discorso della maggiore, ebb’egli in breve compreso che i desiderii formavano il soggetto del loro discorso.

«— Poichè siamo sugli augurii,» diceva essa, «io m’augurerei di avere per marito il fornaio del sultano; mangerei a sazietà di quel pane così delicato che si chiama per eccellenza pane del sultano. Vediamo se il vostro gusto sia pari al mio. — Ed io,» soggiunse la seconda sorella, a mio desiderio sarebbe di esser moglie del capocuoco del sultano; mangerei squisiti intingoli, e siccome sono persuasa che il pane del sultano sia comune nel suo palazzo, non ne mancherei di certo. Vedete, sorella,» soggiunse, volgendosi alla maggiore, «che il mio gusto non la cede al vostro. —

«La più giovane delle sorelle, dotata di molta [p. 64 modifica] avvenenza, e che aveva molto maggior grazia e spirito delle maggiori, parlò alla sua volta.

«— Per me, sorelle care,» disse, «io non limito le mie brame a sì poco; prendo un volo più alto, e poichè si tratta di desiderare, bramerei essere sposa del sultano; gli darei un principe coi capelli d’oro da una parte, e d’argento dall’altra: quando piangesse, le lagrime che gli cadrebbero dagli occhi sarebbero tante perle, e quante volte sorridesse, le vermiglie sue labbra apparirebbero un bottone di rosa che si schiude. —

«I voti delle tre sorelle, e specialmente quello della minore, parvero al sultano Khosru-Schah tanto singolari, che risolse di contentarle; e senza nulla comunicare della sua intenzione al gran vlsir, lo incaricò di notar bene la casa per venirle a prendere la mattina seguente, e condurgliele tutte e tre.

«Il gran visir, eseguendo la domane gli ordini del sultano, concesse alle tre sorelle appena il tempo di vestirsi in fretta per comparire alla di lui presenza, senz’altro dir loro se non che sua maestà le voleva vedere. Condottele al palazzo, e presentatele al sultano, questi domandò loro:

«— Ditemi, vi ricordate degli augurii che faceste iersera, mentre eravate di sì buon umore? Non dissimulate, lo voglio sapere assolutamente. —

«A tali parole del sultano, le tre sorelle, che non se l’aspettavano, furono in grandissima costernazione; chinati gli occhi, il rossore che salì loro sul volto, diede alla minore tali vezzi, che finirono di conquidere il cuore del sultano. Siccome il pudore e la tema di aver offeso coi loro discorsi il sultano, faceva sì che stessero in silenzio, questi, avvedutosene, disse per rassicurarle:

«— Non temete nulla, non vi ho fatto venire per angustiarvi: e siccome veggo che la dimanda che vi [p. 65 modifica] feci v’inquieta, contro mia intenzione, e so qual è il desiderio di ciascuna di voi, voglio farne cessare il motivo. Voi,» soggiunse quindi, «che desideravate avermi per isposo, sarete oggi appagata; e voi,» continuò, volgendosi parimenti alle altre due sorelle, «faccio pure il vostro matrimonio col fornaio della mia tavola e col capo della mia cucina. —

«Dichiarata così la volontà del sultano, la più giovane, dando alle sorelle maggiori l’esempio, gettossi a’ di lui piedi per manifestargli la sua riconoscenza.

«— Ah sire!» disse; «poichè il mio voto è conosciuto da vostra maestà, le dirò non essere stato che per modo di discorso e divertimento: non son degna dell’onore ch’ella mi fa, e le domando perdono del mio ardire.» Le due altre sorelle vollero scusarsi egualmente; ma il sultano, interrompendole:

«— No, no,» disse, «la cosa non andrà altrimenti: il voto di ciascheduna sarà appagato. —

«Le nozze furono celebrate nel medesimo giorno, come Khosrun-Schah aveva stabilito, ma con notabile differenza; quelle della minore furono accompagnate dalla pompa e da tutti i segni d’allegrezza convenienti al coniugio d’un sultano ed una sultana della Persia, mentre quelle dell’altre due germane non furono festeggiate se non col poco che attender si poteva dalla condizione de’ loro sposi, cioè del primo fornaio e del capocuoco del sultano.

«Le due sorelle maggiori sentirono profondamente la sproporzione infinita che correva tra i loro matrimoni e quello della terza sorella; tal considerazione fece, che lungi dall’essere contente della ventura toccata loro anche secondo il proprio voto, benchè molto al di là delle loro speranze, abbandonaronsi nondimeno ad un trasporto di gelosia, che non solo ne intorbidò la gioia, ma generò eziandio grandi [p. 66 modifica] disgrazie, umiliazioni e guai mortificanti alla sultana loro cadetta. Esse non avevano avuto il tempo di comunicarsi l’un l’altra i propri pensieri intorno alla preferenza dal sultano data questa con loro pregiudizio, a quanto pretendevano. Ma allorchè fu loro possibile di rivedersi alcuni giorni dopo il matrimonio in un bagno pubblico, dove si eran dato convegno: — Or bene, sorella,» cominciò la maggiore, «cosa dite della nostra cadetta? Non è un bel soggetto per essere sultana? — Vi confesso,» rispose l’altra, «che non c’intendo nulla; non capisco quante attrattive abbia trovato il sultano in lei per lasciarsi affascinare come ha fatto. Ella è una vera marmotta, e voi sapete in quale stato noi l’abbiamo veduta. Era una ragione bastante pel sultano, onde non gettasse gli occhi sulle nostre persone, quell’aria di giovinezza ch’ella ha un po’ più di noi? Voi eravate degna del suo letto, e doveva rendervi la giustizia di preferirvi.

«— Sorella,» riprese la più attempata, «non parliamo di me; non avrei nulla a dire se il sultano vi avesse scelta; ma che abbia prescelto una bruttaccia, è quello che mi affanna: me ne vendicherò ad ogni costo, e voi ci siete interessata al par di me. Vi prego adunque di unirvi meco, affinchè operiamo di concerto in una causa come questa, che c’interessa egualmente, e parteciparmi i mezzi che immaginerete adatti a mortificarla, promettendovi di mettervi a parte di quelli che la mia voglia di umiliarla sarà per suggerirmi. —

«Dopo tale pernicioso complotto, le due sorelle si videro di frequente, ed ogni volta non discorrevano d’altro se non delle vie da prendere per intorbidare ed anche distruggere la felicità della sultana loro cadetta. Molte se ne proposero: ma deliberando sull’esecuzione, vi trovarono tante difficoltà, che non osarono arrischiare di servirsene. Intanto, tratto tratto [p. 67 modifica] esse le facevano visita, e con dannevole dissimulazione le davano tutti gl’immaginabili contrassegni d’amicizia, onde persuaderla quanto fossero liete d’avere una sorella in tanta sublimità di grado. Da parte propria, la sultana le riceveva sempre con tutte le dimostrazioni di stima e considerazione ch’esse potevano attendere da una sorella, non superba della sua dignità, e la quale non cessava di amarle colla medesima cordialità di prima.

«Alcuni mesi dopo il suo matrimonio, la sultana trovossi incinta, ed il sultano ne dimostrò grandissima gioia, che dopo essersi sparsa per il palazzo, si comunicò anche a tutti i quartieri della capitale di Persia. Le sorelle vennero a farle i loro complimenti, e sin d’allora, prevenendola riguardo alla levatrice di cui abbisognasse per assisterla nel parto, la pregarono a non isceglierne altre fuor di loro.

«La sultana rispose cortesemente:

«— Care sorelle, io non saprei domandar di meglio, come potete ben credere, se la scelta dipendesse assolutamente da me; vi sono intanto assai grata della vostra buona volontà, ma non posso dispensarmi d’assoggettarmi a ciò che disporrà il sultano. Non lasciate però di far ambedue in modo che i vostri mariti impegnino gli amici loro ad impetrare dal sultano questa grazia; e dov’egli me ne parli, siate certe che non solo gli manifesterò la mia letizia, ma inoltre sarò a ringraziarlo della scelta che farà di voi. —

«I due mariti, ciascuno dal canto suo, sollecitarono i cortigiani loro protettori, supplicandoli a far ad essi la grazia d’usare il credito onde godevano per procurare alle rispettive mogli l’onore cui aspiravano; questi protettori agirono con tal efficacia, che il sultano promise di pensarvi. Mantenuto egli la promessa, ed in un colloquio colla sultana; le disse che gli pareva le sue sorelle dovessero essere [p. 68 modifica] meglio adatte ad assisterla nel suo parto, di qualunque altra levatrice estranea; ma che non volea eleggerle senza prima ottenere il di lei assenso. La sultana, sensibile alla deferenza di cui il consorte le dava una prova sì gentile, gli disse....»

Scheherazade si fermò a questo passo del suo racconto, rimandandone la continuazione alla domane.


NOTTE CDXVII


— «Sire,» disse la sultana di Persia, «io era disposta a non fare se non ciò che piacesse a vostra maestà di comandarmi; ma poichè ebbe la bontà di volgere lo sguardo sulle mie sorelle, la ringrazio della considerazione ch’ella usa loro per amor mio, e non dissimulo che le riceverò di sua mano con maggior piacere delle estranee. —

«Il sultano Khosru-Schah nominò dunque le due sorelle della sultana per servirle da levatrici, e da quel punto passarono ambedue nel palazzo, con grandissimo loro contento di aver trovata l’occasione opportuna quale potevano mai desiderare, di eseguire la malizia detestabile meditata da tanto tempo contro la minor sorella.

«Giunse l’ora del parto, e la sultana sgravossi felicemente d’un principe bello come il sole; ma la sua bellezza, nè la sua delicatezza furono capaci di intenerire il cuore delle spietate sorelle; avvoltolo di cenci, lo posero in un cestello, ed abbandonatolo alla corrente dell’acqua d’un canale che lambiva il piede dell’appartamento della sultana, produssero in sua [p. 69 modifica] vece un cagnolino morto, pubblicando che la sultana lo aveva partorito. L’ingrata nuova fu annunziata al sultano, ed egli ne concepì tal fiera indignazione che avrebbe potuto tornare funesta alla consorte, se il gran visir non gli avesse dimostrato che sua maestà non poteva, senza ingiustizia, riguardarla come responsabile dei capricci della natura.

«Il cestello intanto, in cui stava esposto il principino, fu trasportato dall’acque sin fuori del muro di cinta che limitava al basso la vista dell’appartamento reale, d’onde progrediva passando in mezzo al giardino del palazzo. Per caso, l’intendente dei giardini del sultano, uno de’ principali e più stimati ufficiali del regno, passeggiava colà lungo il canale, e veduto galleggiare il cestello, chiamò un giardiniere, che non istava lontano, e: — Corri subito,» gli disse, indicandoglielo, «e portami quel cestello, ond’io vegga cosa contenga.» Il giardiniere parte, e dalla sponda del canale tirato destramente a sè il cestello colla vanga che portava, lo prende e glielo reca.

«Somma fu la maraviglia dell’intendente vedendo nel cestello un bambino in fasce, il quale, benchè appena nato, com’era facile avvedersi, non mancava di avere lineamenti d’esimia bellezza. Era molto tempo che l’intendente dei giardini avea moglie; ma ad onta del di lui desiderio d’ottener prole, il cielo non aveva sin allora esauditi i suoi voti. Interruppe il passeggio, facendosi seguire dal giardiniere carico del cesto e del bambino, e giunto alla sua casa, che aveva ingresso dal giardino, entrò nell’appartamento della consorte, e:

«— Moglie,» le disse, «noi non abbiamo figliuoli, ed eccone uno che Iddio ci manda. Ve lo raccomando; cercategli subito una nutrice, ed abbiatene cura come se fosse nostro: lo riconosco da questo momento per tale. — [p. 70 modifica]«La donna prese con gioia il bambino, e fecesi un vero diletto d’incaricarsene. Non volle l’intendente indagar troppo d’onde potesse il fanciullo provenire. — Veggo bene,» disse fra sè, «che è venuto dal lato dell’appartamento della sultana: ma non tocca a me indagare ciò che colà entro accade, nè di recar turbamenti in un luogo ove tanto è necessaria la pace. —

«L’anno seguente la sultana si sgravò d’un altro principino. Le snaturate sorelle non ebbero, maggior compassione di questo che del primogenito, ed espostolo anch’esso in un cesto di vinchi sul canale, supposero che la sultana si fosse sgravata d’un gatto. Fortunatamente pel neonato, trovandosi l’intendente dei giardini presso al canale, lo fe’ prendere e portare a sua moglie, incaricandola di averne la stessa cura come del primo: il che essa fece, non meno per propria indole, come per uniformarsi alla buona intenzione del marito.

«Il sultano di Persia fu molto più sdegnato di questo parto che del primo, e ne avrebbe palesato il proprio risentimento, se le rimostranze del gran visir non fossero state anche questa volta abbastanza persuasive per acchetarlo.

«Sgravossi la sultana infine una terza volta, non di un principe, ma d’una bambina, e l’innocente ebbe la medesima sorte de’ fratelli. Le due sorelle, le quali avevano risoluto di non desistere dalla detestabile loro impresa, se prima non vedevano la sultana loro cadetta almeno rigettata, scacciata ed umiliata, le usarono il medesimo trattamento, esponendola sul solito canale. Ma anche la bambina fu soccorsa e sottratta a certissima morte dalla compassione e carità dell’intendente de’ giardini, al pari dei due principi suoi fratelli, co’ quali fu nutrita ed allevata.

«A tanta inumanità le due sorelle aggiunsero, [p. 71 modifica] come prima, la menzogna e l’impostura; e mostrando un pezzo di legno, falsamente asserirono essere una mola di cui si era sgravata la sultana.

«Quand’ebbe udito questo nuovo straordinario parto, il sultano Khosru-Schah non seppe più contenersi.

«— Come!» sclamò; «questa femmina, indegna del mio letto, riempirebbe dunque il mio palazzo di mostri, se io la lasciassi vivere di più? No, non sarà mai,» aggiunse; «è un mostro anch’essa, ed io ne voglio liberare il mondo.» Pronunciato il quale decreto di morte, comandò al gran visir di farlo eseguire. —

«Il gran visir ed i cortigiani ch’erano presenti, gettaronsi appiè del sultano per supplicarlo di revocare la sentenza; ed il primo, prendendo la parola:

«— Sire,» gli disse, «mi permetta vostra maestà di rappresentarle che le leggi che condannano a morte non vennero stabilite se non per punire i delitti. I tre parti della sultana, tanto inaspettati, non sono delitti. In che cosa può dirsi ch’essa vi abbia contribuito? Molte altre donne ne fecero e fanno quotidianamente altrettanto: sono da compiangere, ma da punire non mai. Vostra maestà può astenersi dal vederla, e lasciarla vivere. L’afflizione, nella quale passerà il resto de’ suoi giorni, dopo la perdita dei suoi favori, le saranno bastante supplizio. —

«Il sultano di Persia rientrò in sè medesimo, e ben vedendo l’ingiustizia ch’eravi a condannare a morte la sultana pe’ suoi aborti, quand’anche fossero stati veri, com’ei falsamente credeva: — Viva dunque,» disse, «se così è! Le dono la vita, ma a tal condizione che le farà desiderare la morte più d’una volta al giorno. Le si costruisce un casotto di legno alla porta della moschea principale, con una finestra sempre aperta; vi sia rinchiusa con un abito [p. 72 modifica] de’ più grossolani, ed ogni musulmano che va alla moschea per fare le sue preci, le sputi, passando, in volto. Se alcuno vi manchi, voglio sia egli esposto al medesimo castigo, ed affinchè io venga obbedito, vi comando, o visir, di mettervi vari invigilatori. —

«L’accento con cui il sultano pronunciò quest’ultimo decreto, chiuse la bocca al ministro, e l’ordine fu eseguito, con sommo contento delle due sorelle invidiose. Il casotto fu eretto e terminato, e la sultana, veramente degna di compassione, vi fu rinchiusa, appena uscita dal puerperio, nella guisa che aveva comandato il marito, ed esposta ignominiosamente agli scherni ed al disprezzo di tutto il popolo: trattamento che pur non avea meritato, e ch’ella soffrì con una costanza che le conciliò l’ammirazione ed in pari tempo la pietà di coloro, i quali giudicavano delle cose più rettamente del volgo.

«Frattanto i due principi e la principessa furono nutriti ed allevati dall’intendente de’ giardini e dalla moglie di lui colla tenerezza di genitori, e quell’affetto crebbe a seconda che avanzavano negli anni, tanto per gl’indizi di grandezza che apparvero nella principessa e nei principi, e soprattutto per l’avvenenza della fanciulla, che di giorno in giorno andava crescendo, quanto per la docilità loro, per le buone inclinazioni superiori ai nonnulla, e diverse affatto da quelle dei fanciulli volgari, e per una certa aria che non poteva convenire se non a principi ed a principesse. Per distinguere i due maschi secondo l’ordine della loro nascita, chiamarono il primo Bahman, e Perviz il secondo, nomi già portati da antichi re di Persia. Alla ragazzina poi diedero quello di Parizade (2), che varie regine e principesse del regno avevano pure portato. [p. 73 modifica]«Quando i due principi furono in eta opportuna, l’intendente de’ giardini diede loro un maestro che li erudisse a leggere e scrivere; e la sorella, trovandosi presente alle lezioni, spiegò tanta voglia d’imparare anch’essa a scrivere, benchè più giovane di loro, che l’intendente, lieto di quella disposizione, le concesse il medesimo maestro. Spinta da emulazione per la sua vivacità ed il penetrante suo spirito, divenne in poco tempo capace quanto i fratelli.

«Da quel tempo i fratelli e la sorella ebbero gli stessi precettori nelle arti belle, nella geografia, nella poesia, nella storia, nelle scienze, e perfino nelle scienze occulte; e siccome non vi trovavano nulla di difficile, vi fecero sì maravigliosi progressi, che i maestri ne stupirono; ed in breve dichiararono senza simulazione che, per poco che continuassero, andrebbero più innanzi ch’essi medesimi non fossero andati. Nelle ore di ricreazione la principessa imparò la musica, a cantare e suonare diverse sorta d’istrumenti, e quando i giovani ebbero imparato a montare a cavallo, non volle che avessero tale vantaggio su lei, e fece insieme ad essi i suoi esercizi, in modo che sapeva cavalcare, gettar il bastone od il giavellotto colla medesima destrezza, e spesso anche li vinceva alla corsa.

«L’intendente, al colmo della gioia vedendo i suoi allievi così compiti in tutte le perfezioni del corpo e dello spirito, e che avevano così ben corrisposto alle spese sostenute per la loro educazione, molto al di là di quanto se n’era ripromesso, ne fece una maggiore a loro riguardo. Sin allora, contento dell’alloggio che possedeva nel recinto del palazzo, era vissuto senza casa di campagna: ne comprò quindi una a breve distanza dalla città, con grandi dipendenze di terre colte, prati e boschi, e siccome la casa non gli parve abbastanza bella e comoda, la fece [p. 74 modifica] atterrare, nulla risparmiando per renderla la più magnifica dei contorni. Vi si recava ogni giorno per accelerare colla sua presenza il gran numero d’operai che vi mise al lavoro; ed appena v’ebbe un appartamento finito, atto a riceverlo, vi andò a passare vari giorni di seguito, per quanto glielo permettevano le funzioni ed i doveri della propria carica. Per la sua assiduità, la casa fu infine terminata, ed intanto che la mobigliavano, con egual sollecitudine, delle suppellettili più ricche e corrispondenti alla magnificenza dell’edificio, fece per mano al giardino, sopra il disegno da lui medesimo ideato, ed a quel modo che usavasi praticare fra i grandi signori di Persia. Vi aggiunse un parco di vasta estensione, che fece cingere di alte mura, e riempire d’ogni sorta di fiere, affinchè i figliuoli vi potessero, quando lor piacesse, prendere il diletto della caccia.

«Allorchè la casa di campagna fu finita intieramente ed in istato d’essere abitata, l’intendente andò a gettarsi a’ piedi del sultano, e dimostrandogli da quanto tempo trovavasi al suo servizio e le infermità della vecchiaia che lo tormentavano, lo supplicò di voler aggradire la dimissione dalla propria carica ch’egli faceva nelle mani di sua maestà. Il sultano gli accordò col maggior piacere tal grazia, essendo contento de’ suoi servigi, tanto sotto il regno del sultano suo padre come dopo ch’era egli medesimo salito al trono, e nel concedergliela, gli domandò cosa potesse fare per ricompensarlo.»

— Ah! che abbominevoli sorelle,» sclamò Dinarzade, quando la sultana ebbe cessato di parlare. «L’invidia può mai ella spingere due donne a commettere tali delitti? M’interesso assai alla sorte di que’ tre amabili ragazzi, e non dubito che il sultano, nostro signore e padrone, non desideri ardentemente, al par di me, di conoscere la continuazione della loro storia.» [p. 75 modifica]

NOTTE CDXVIII


La domane, Scheherazade, coll’approvazione del sultano, ripigliò di tal guisa il racconto:

— «Sire,» rispose l’intendente, «sono colmo dei benefizi della maestà vostra e di quelli del sultano suo padre, di felice memoria, al punto che più non mi resta a desiderare se non di morire nella sua grazia. —

«Così preso congedo da Khosru-Schah, passò poi alla casa di campagna da lui fatta edificare, insieme co’ due giovani Bahman e Perviz, e la figliuola Parizade. Sua moglie era già morta da vari anni. Non ebb’egli vissuto cinque o sei mesi con essi, che subitanea morte il rapì in guisa da non lasciargli tempo di dire una sola parola sulla verità della loro nascita: cosa nondimeno ch’egli aveva risoluto di fare, considerandola necessaria per obbligarli a continuar a vivere come avevan fatto sin allora, secondo il proprio stato e la condizione loro, conforme all’educazione ad essi data, ed all’inclinazione che ve li portava.

«I principi Bahman e Perviz, e la principessa Parizade, non conoscendo altro padre fuor dell’intendente de’ giardini, lo piansero come tale, e gli resero tutti gli uffici funebri che l’amore e la gratitudine filiale esigevano. Contenti dei grandi beni ereditati, continuarono a vivere assieme nella stessa concordia che stretti li aveva sin allora, senza ambizione, per parte de’ principi, di comparire alla corte, nella mira d’aspirare alle prime cariche ed alle dignità cui sarebbe stato lor facile di pervenire. [p. 76 modifica]«Un giorno, che i due giovani trovavansi alla caccia, e Parizade era rimasta in casa, venne a presentarsi alla porta una vecchia divota musulmana, e pregò le fosse permesso di entrare per far preghiera, essendone l’ora. Si andò a chiederne licenza alla padrona, ed essa comandò che la facessero entrare e le insegnassero l’oratorio, di cui il defunto intendente aveva avuto cura di decorare la casa, atteso la mancanza di moschee nel vicinato. E comandò pure che quando la divota avesse fatto la sua preghiera nell’oratorio indicatole, le si mostrasse la casa ed il giardino, e poscia glie la conducessero. La divota musulmana entrò nell’oratorio, fece la sua preghiera, e quand’ebbe finito, due donzelle della principessa, le quali aspettavano che uscisse, l’invitarono a vedere la casa ed il giardino. Essendosi essa mostrata disposta a seguirlo, la condussero d’appartamento in appartamento, ed in ciascuno esaminò ogni cosa come donna che s’intendeva di addobbi e della bella disposizione di cadauna camera. La fecero pure entrar nel giardino, il cui disegno fu da lei trovato sì nuovo e ben inteso, che non cessava dall’ammirarlo, dicendo che chi avealo fatto disporre, doveva essere maestro eccellente nell’arte. Da ultimo fu condotta davanti alla principessa, che l’attendeva in un salone, il quale superava in bellezza, ordine e magnificenza quanto aveva prima ammirato negli appartamenti.

«Appena la giovane vide entrare la divota: — Avvicinatevi, mia buona madre,» le disse, «venite a sedermi vicino. Son lieta della ventura che l’occasione mi presenta di approfittare alcuni momenti del bell’esempio e della grata conversazione d’una persona come voi, che ha preso la buona strada dedicandosi a Dio, e che tutti, se fossero saggi, dovrebbero imitare. —

«La divota, invece di salire sul sofà, voleva [p. 77 modifica] sedere al basso; ma Parizade nol permise: alzatasi dal suo posto ed avanzandosi, la prese per mano e la costrinse a venire a sederle vicino nel luogo d’onore. Sensibile la divota a quella cortesia: — Signora,» le disse, «a me non appartiene di essere sì onorevolmente trattata, e non vi obbedisco se non perchè me lo comandate e siete la padrona di casa. —

«Quando fu seduta, prima di entrare in colloquio, una delle donne della principessa recò un tavolino basso, intarsiato di madreperla e d’ebano, con un bacile di porcellana, pieno di paste dolci e vari altri vasi pur di porcellana, colmi di frutti della stagione, e di confetture secche e liquide.

«La principessa prese una pasta, e presentandola alla divota: — Mia buona madre,» le disse, «prendete, scegliete e mangiate di questi frutti quelli che più v’aggradano: dovete aver bisogno di rifocillarvi dopo la strada che faceste per venire sin qui. — Signora,» la divota rispose, «non sono avvezza a mangiar cose sì dilicate, e se ne prendo, è solo per non rifiutare ciò che Dio mi manda per mezzo d’una mano liberale come la vostra. —

«Mentre la divota mangiava, Parizade, che prese pure qualche cosa onde eccitarla col proprio esempio, lo fece varie interrogazioni sugli esercizi di divozione ch’essa praticava e sul suo tenore di vita, alle quali colei rispose con molta modestia; e di discorso in discorso le chiese cosa pensasse della casa che vedeva, e se la trovasse di suo gusto.

«— Signora,» rispose la divota, «converrebbe essere di pessimo gusto per trovarvi da criticare: e bella, ridente, magnificamente addobbata, senza confusione, benissimo intesa, e gli ornamenti vi sono disposti con bella simmetria. Quanto alla situazione, trovasi in un luogo amenissimo, e non si può immaginare un giardino che rechi alla vista maggior [p. 78 modifica] piacere dei comodi, onde va accompagnato. Se però mi permettete di nulla dissimulare, mi prendo la libertà di dirvi, o signora, che inarrivabile sarebbe questa casa, se vi si trovassero tre cose che, a mio avviso, vi mancano. — Mia cara,» riprese Parizade, «quali sono queste tre cose? Insegnatemele, ve ne scongiuro in nome di Dio; non risparmierò cosa veruna per farne l’acquisto se sia possibile.

«— Signora,» rispose la divota, «la prima di tali tre cose è l’uccello che parla; è questo un augello singolare che si chiama Bulbulhezar, e che inoltre ha la proprietà di richiamare dai dintorni tutti gli altri uccelli canori, i quali vengono ad accompagnare il suo canto. La seconda è l’albero che canta, le cui foglie sono altrettante bocche, che formano un concerto armonico di voci diverse, dal quale non cessa mai. La terza cosa finalmente è l’acqua gialla, color d’oro, di cui una goccia sola, versata in un bacino espressamente preparato in qualunque sito d’un giardino, si gonfia e cresce in modo che prima lo riempie, e quindi sollevasi dal mezzo in zampillo, che continua sempre ad alzarsi e ricadere nel bacino, senza mai traboccare. —

«— Ah, mia buona madre!» sclamò la principessa; «quanto vi sono grata per la cognizione che mi date di simili cose! sono stupende, ed io non avea mai udito che ci fosse al mondo nulla di sì curioso ed ammirabile. Ma essendo persuasa che voi non ignoriate il luogo in cui si ritrovano, attendo che mi facciate il favore d’insegnarmelo. —

«Per compiacere alla principessa, la pia donna le disse: — Signora, mi renderei indegna dell’ospitalità che verso di me esercitaste con tanta bontà, se rifiutassi di soddisfare alla vostra curiosità su ciò che desiderate sapere. Ho dunque l’onore di dirvi che le tre cose delle quali v’ho testè parlato, trovansi in un [p. 79 modifica] medesimo luogo, sui confini di questo regno dalla parte delle Indie. La strada che vi conduce pensa davanti a codesta casa. La persona che spedirete da parte vostra, non ha che a seguirla per venti giorni, ed il vigesimo, domandi dove sono l’uccello che parla, l’albero che canta e l’acqua gialla; il primo a cui si volgerà, saprà insegnargliele.» Ciò detto, si alzò, ed accommiatatasi, propeguì il suo cammino.

«La principessa Parizade avea l’animo talmente occupato a ritenere le indicazioni datele dalla divota musulmana sull’uccello che parlava, sull’albero che cantava e sull’acqua gialla, che non si avvide della costei partenza, se non quando volle farle alcune domande per ottenere da lei maggiori schiarimenti; le pareva in fatti non esser quello, che udito aveva dalla sua bocca, sufficiente per non esporsi ad intraprendere un viaggio inutile. Non volle però mandarle dietro per farla tornare; ma fece uno sforzo sulla propria memoria, per ricordarsi le cose intese, e nulla dimenticarne. E quando stimò che niente le fosse sfuggito, formossi un vero diletto di pensare alla soddisfazione che proverebbe se potesse giungere a possedere cose sì rare e maravigliose; ma la difficoltà che vi trovava, ed il timore di non riuscirvi, l’immersero in grave inquietudine.

«Era la principessa immersa in tali pensieri, quando giunsero dalla caccia i principi suoi fratelli, i quali, entrati in sala, invece di trovarla, secondo il solito, col viso sereno e lo spirito ilare, rimasero stupiti vedendola raccolta in sè medesima e come afflitta, e che neppur alzava la testa per dimostrare almeno così di accorgersi della loro presenza.

«Il principe Bahman prese la parola, e: — Sorella,» le disse, «dove sono l’allegria e la giovialità inseparabili da voi sino al presente? Siete indisposta? V’è accaduta qualche disgrazia? Vi fu dato alcun motivo [p. 80 modifica] di dispiacere? Ditecelo, affinchè vi prendiamo la nostra parte, e vi possiamo metter riparo o vendicarvi, se qualcuno avesse avuta la temerità di offendere una persona come voi, alla quale debbesi ogni rispetto.»


NOTTE CDXIX


— La principessa Parizade rimase qualche tempo senza rispondere e nella medesima posizione; alzò finalmente gli occhi, e guardando i fratelli, quasi subito li riabbassò, dopo aver loro detto che non era nulla.

«— Sorella,» riprese Bahman, «voi ci dissimulate la verità: bisogna bene che sia qualche cosa, ed anche di molta entità. Non è possibile che nel poco tempo che siamo stati da voi lontani, sia accaduto in voi un cambiamento sì grande e repentino come quello che osserviamo. Soffrite adunque che non ci accontentiamo d’una risposta, la quale non ci soddisfa. Non tenetecene ascosa la causa, se non volete farci credere che rinunziate all’amicizia ed all’unione ferma e costante che finora, e sin dalla più tenera infanzia, regnò fra noi. —

«La principessa, ben lontana dal disgustarsi coi fratelli, non volle lasciarli in tal pensiero.

«— Allorchè vi dissi,» riprese, «che quanto mi dava fastidio non era nulla, l’ho detto riguardo a voi, e non per me che lo trovo di qualche importanza; e poichè mi sollecitate in nome dell’affetto e dell’unione nostra, a me sì cari, vi dirò di che si tratta. Voi avete creduto, ed io con voi,» continuò ella, «che questa casa, eretta dal fu nostro padre, fosse [p. 81 modifica] compiuta in ogni modo e nulla vi mancasse; tuttavia oggi ho saputo che vi mancano tre cose, le quali la farebbero superiore con tutte le case di campagna esistenti sulla faccia della terra. Queste tre cose sono: l’uccello che parla, l’albero che canta e l’acqua gialla di color d'oro. —

«Spiegato loro poi in che consistesse l’eccellenza di quelle cose: — Fu una pia musulmana,» soggiunse, «che mi fece quest’osservazione, e m’insegnò il luogo dove si trovano e la strada per la quale si può recarvisi. Troverete forse esser queste cose di poca importanza per fare che la nostra casa sia compiuta, e ch’ella può sempre passare per bellissima, indipendentemente di codesto nuovo acquisto, e che quindi possiamo farne a meno. Voi penserete quello che più vi piacerà; ma non posso dispensarmi dal dichiararvi ch’io, per me, sono persuasa ci siano necessarie, e che non sarò contenta se non ve le vegga collocate. Laonde, sia che ci pigliate interesse, o che non ne prendiate, vi prego ad assistermi de’ vostri consigli, e suggerire chi potessi mandare a tale conquista.

«— Sorella; riprese Bahman, «non v’ha cosa che vi possa interessare, la quale noi pure non interessi. Basta la vostra premura per l’acquisto delle cose che dite, per obbligarci a prendervi l’interesse medesimo; ma indipendentemente da ciò che vi riguarda, noi vi ci sentiamo portati di nostro proprio moto e per nostra particolare soddisfazione, essendo io ben persuaso che mio fratello non sia di sentimento contrario; e noi dobbiamo tutto intraprendere per fare questa conquista, come voi la chiamate: l’importanza e la singolarità delle cose onde si tratta, meritano bene tal nome. Io m’incarico di farla: insegnatemi soltanto la strada che devo tenere ed il luogo: non differirò il viaggio più tardi di domani.

«— Fratello,» soggiunse Perviz, «non conviene [p. 82 modifica] che vi assentiate di casa per tanto tempo, voi che ne siete il capo e l’appoggio, e prego mia sorella ad unirsi a me per indurvi ad abbandonare il vostro pensiero, accontentandovi che questo viaggio lo faccia io: spero disimpegnarmi non men bene di voi, e la cosa sarà meglio nell’ordine. — Fratello,» riprese Bahman, «sono persuasissimo della vostra buona volontà, e che non men bene di me vi disimpegnerete del viaggio; ma è cosa risoluta: lo voglio far io, e lo farò. Voi rimarrete con nostra sorella, e non è bisogno che ve la raccomandi. —

«Passò quindi il resto del giorno a provvedere ai preparativi del viaggio, ed a farsi ben istruire dalla principessa degl’indizi dati dalla divota, onde non traviare dal retto cammino.

«Alla domane di buon mattino, Bahman salì a cavallo; Perviz e la principessa Parizade, che aveano voluto vederlo partire, lo abbracciarono, augurandogli buona fortuna; ma in mezzo ai teneri saluti, la principessa si ricordò d’una cosa che non erale prima venuta in mente.

«— A proposito, fratello,» gli disse, «io non pensava alle disgrazie, cui si va esposti nei viaggi! chi sa se potrò rivedervi mai più? Smontale, ve ne scongiuro, e tralasciate questo viaggio: preferisco privarmi della vista o del possesso dell’uccello che parla, dell’albero che canta e dell’acqua gialla, piuttosto che correre il rischio di perdervi per sempre.

«— Cara sorella,» rispose il principe Bahman, sorridendo della subitanea paura di Parizade, «la mia risoluzione è presa, e quando pure nol fosse, la prenderei ancora, e voi mi permetterete di eseguirlo. Le disgrazie de’ quali parlate non accadono che agl’infelici. Vero è che posso essere di tal numero, ma posso anche essere degli avventurati, che sono in numero molto maggiore degl’infelici. Siccome però gli eventi sono [p. 83 modifica] incerti, ed io potrei soccombere nella mia impresa, tutto ciò che posso fare è di lasciarvi questo coltello. —

«Allora Bahman tirò fuori un coltello, e presentandolo pel fodero alla principessa:

«— Prendete,» disse, «e datevi di quando in quando l’incomodo di sguainarlo; finchè lo vedrete lucido e terso, come adesso, sarà segno ch’io vivo; ma se lo scorgeste grondante di sangue, io non sarò più in vita, ed allora accompagnate la mia morte delle vostre preghiere. —

«La principasa Parizade non potè ottener altro dal fratello, il quale, volto addio a lei ed al principe Perviz per l’ultima volta, partì ben equipaggiato e meglio armato. Si pose in via, e senza scostarsi a destra nè a sinistra, proseguì traversando la Persia, ed il giorno ventesimo del suo cammino scoprì sull’orlo della strada un vecchio d’orrido aspetto, seduto sotto un albero a qualche distanza da una capanna che gli serviva di ricovero contro le ingiurie delle stagioni.

«Le sopracciglia bianche come la neve, al par dei capelli, dei mustacchi e della barba, gli scendevano sin sulla punta del naso; i mustacchi coprivangli la bocca, e la barba coi capelli cadeangli quasi ai piedi. Aveva le unghie delle mani e de’ piedi d’estrema lunghezza; portava una specie di cappello piatto e larghissima che gli copriva la testa a foggia d’ombrello, e per unico abito una stuoia, entro la quale stava avvolto.

«Quel buon vecchio era un dervis, ritirato dal mondo già da molti anni, per dedicarsi unicamente a Dio, trascurando la persona, talchè alla fine vedeasi ridotto come lo abbiam descritto.

«Il principe Bahman, il quale sin dal mattino stava attento ad osservare se non incontrasse alcuno; da cui potersi informare del luogo ove pensava recarsi, giunto che fu presso al dervis, si fermò, come il primo che incontrava, e smontò di cavallo, onde uniformarsi [p. 84 modifica] a ciò che la divota avea indicato alla di lui sorella, e tenendo per la briglia il destriero, si avanzò verso il dervis, e salutandolo.

«— Dio prolunghi i vostri giorni, buon padre,» gli disse, «e vi conceda il compimento de’ vostri voti! —

«Rispose il dervis al saluto del principe; ma in modo sì poco intelligibile, che questi non ne comprese sillaba. Accortosi Bahman che l’impedimento proveniva perchè i mustacchi coprivano la bocca al dervis, e non volendo passar oltre senza prendere da lui le istruzioni, delle quali aveva d’uopo, prese un paio di forbici; ond’era munito, e legato ad un ramo d’albero il cavallo, così gli favellò: — Buon dervis, vi devo parlare, ma i vostri mustacchi m’impediscono di intendervi: permettete, vi prego, di lasciarveli accomodare come anche le sopracciglia che vi sfigurano, e vi fanno parere piuttosto un orso che un uomo. —

«Non si oppose il dervis al disegno del principe: lo lasciò fare, e come il giovane ebbe veduto ch’egli aveva fresco il colorito e pareva molto men vecchio che in fatti non fosse, gli disse: — Buon padre, se avessi uno specchio, vorrei farvi vedere quanto siete ringiovanito. Ora avete sembiante umano; ma prima niuno avrebbe potuto distinguere chi foste. —

«Le carezze di Bahman gli attirarono da parte del dervis un sorriso, con un complimento. — Signore,» gli disse; «chiunque siate, vi sono infinitamente grato dei buon ufficio che vi compiaceste di prestarmi; eccomi pronto ad attestarvi la mia riconoscenza in tutto ciò che possa da me dipendere. Voi avete posto piede a terra, costretto al certo da qualche bisogno. Ditemi cos’è, ed io procurerò, se il posso di contentarvi.

«— Buon dervis,» riprese il principe Bahman, «io vengo d’assai lontano; e cerco l’uccello che parla, [p. 85 modifica] l’albero che canta e l’acqua gialla. So che queste tre cose sono in qualche luogo di codesti contorni; ma ignoro il sito dove precisamente si trovano. Se lo sapete, vi scongiuro d’insegnarmene la strada, affinchè non isbagli e non perda il frutto del lungo viaggio da me intrapreso. —

«Il principe, a misura che progrediva in quel discorso, notò che il dervis cambiava colore, abbassava gli occhi e prendeva una grande serietà, tanto che, invece di rispondere, rimase in cupo silenzio. Ciò costrinse il giovane a ripigliare la parola. — Buon padre,» proseguì, «parmi che m’abbiate inteso. Ditemi se sapete dove sia quello che cerco, oppure se lo ignorate, affinchè, senza perder tempo; me ne informi altrove. —

«Il dervis ruppe finalmente il silenzio.

«— Signore,» disse a Balaman, «la strada che mi demandate, m’è nota; ma l’affetto che, appena vi vidi, ho concepito per voi, e che fecesi più forte pel servizio che mi rendeste, mi tiene ancora in sospeso di sapere se debba concedervi la soddisfazione che bramate. — Qual motivo può trattenervene,» chiese il principe, «o qual difficoltà trovate a darmela? — Ve lo dirò,» rispose il dervis; «ed è che il pericolo al quale vi esponete è maggiore che non crediate. Altri signori, in gran numero, i quali non avevano minor ardire, nè coraggio minore di voi, sono passati di qui, facendomi la stessa vostra domanda. Dopo nulla aver tralasciato per distoglierli dal progredire più oltre, non mi vollero ascoltare: ho loro insegnata la strada mio malgrado, cedendo alle loro istanze, e posso assicurarvi che tutti hanno fallita l’impresa, e non ne vidi tornar indietro uno solo. Per poco adunque che amiate la vita, e vogliate seguire il mio consiglio, non andrete più innanzi, e tornerete a casa vostra.» [p. 86 modifica]

NOTTE CDXX


— Il principe Bahman persistè nella propria risoluzione.

«— Voglio credere,» disse al dervis, «che sincero sia il vostro consiglio, e vi son grato della prova d’amicizia che mi date; ma qualunque sia il pericolo del quale mi parlate, nulla è omai capace di stornarmi dal mio proposito. Se qualcuno mi assalisse, ho buone armi, e costui non sarà più valoroso, nè più bravo di me. — E se quelli che vi assalissero,» gli rimostrò il dervis, «non si facessero vedere (poichè sono parecchi), come mai vi difendereste contro gente invisibile? — Non importa,» replicò il principe; «checchè possiate dire, non mi persuaderete a non fare il dover mio. Poichè sapete la strada che vi domando, vi scongiuro di nuovo ad insegnarmela, e non negarmi tal grazia. —

«Vedendo il dervis di non poter nulla sull’animo del principe Bahman, ed esser questi ostinato nella risoluzione di continuare il suo viaggio, ad onta dei salutari avvertimenti che gli aveva dati, mise la mano in un sacco che tenevasi accanto, e cavatane una palla che gli presentò:

«— Poichè non posso da voi ottenere,» gli disse, «che mi ascoltiate ed approfittiate de’ miei consigli, prendete questa palla, e quando sarete a cavallo, gettatevela davanti, e seguitela sino alle falde d’una montagna dove si fermerà; allora, scendete a terra, e lasciate il cavallo colla briglia sul collo, [p. 87 modifica] che rimarrà nello stesso luogo, attendendo il vostro ritorno. Salendo, vedrete a destra ed a sinistra un’immensa quantità di grosse pietre nere, ed udrete una confusione di voci da tutti i lati, che vi diranno mille ingiurie per iscoraggiarvi e far in modo che non ascendiate sino in cima; ma guardatevi dallo spaventarvi, e soprattutto di volgere indietro la testa: in un istante sareste cangiato in pietra nera, simile a quelle che vedrete, le quali sono altrettanti signori come voi, che, secondo vi diceva, non sono riusciti nella loro impresa. Se evitate il pericolo, che non vi dipingo se non leggermente, affinchè vi riflettiate bene, e se giungete alla sommità del monte, vi troverete una gabbia, coll’uccello che cercate. Siccome parla, gli chiederete dove siano l’albero che canta e l’acqua gialla, ed ei ve l’insegnerà. Non ho nulla a dirvi di più: ecco quello che dovete fare e che evitar dovete; ma se voleste ascoltarmi, abbracciate il consiglio che v’ho già dato, e non esponetevi alla perdita della vita. Un’altra volta ancora, finchè vi rimane tempo per pensarvi, considerate che tal perdita e irreparabile, e legata ad una condizione, alla quale si può contravvenire anche per inavvertenza, come poteste comprendere dal mio racconto.

«— Quanto al consiglio che vi compiacete di ripetermi, e pel quale non lascio di esservi grato,» rispose Bahman, dopo aver ricevuta la palla, «non lo posso seguire; ma profitterò del suggerimento che mi date, di non guardarmi addietro salendo, e spero che mi vedrete ben presto di ritorno a ringraziarvene vie maggiormente, carico delle spoglie che cerco. —

«Terminate tali parole, cui il dervis null’altro rispose se non che avrebbelo riveduto colla massima gioia, e desiderava che ciò accadesse, risalì a cavallo, e preso congedo dal vecchio con un profondo inchino, si gettò davanti la palla. [p. 88 modifica]«— Rotolò questa, e continuò a rotolare quasi coll’egual celerità che il principe Bahman le aveva impresso gettandola, il che fece ch’ei si trovasse costretto ad accomodare la corsa del cavallo, onde seguirla, alla medesima rapidità per non perderla di vista; la seguì non per tanto, e quando fu giunta al piede della montagna, menzionata dal dervis, la palla si fermò, ed egli allora disceso da cavallo, nè questi si mosse dal luogo, nemmen quando gli ebbe gettata sul collo la briglia. Rimirata quindi con attenzione la montagna, e notate le pietre nere, cominciò ad ascendere, ma non avea mutato quattro passi, che, senza vedere alcuno, si fecero udire quelle voci delle quali avevagli parlato il dervis. Dicevano le une:

«— Dove va quello stordito? Dove va egli? Cosa vuole? Non lasciatelo passare. —

«Altre: — Ferma, ferma! dalli dalli! accoppalo! —

«Altre gridavano in voce di tuono: — Al ladro! all’assassino! all’omicida! —

«Altre invece, deridendolo: — Non gli fate male, no; lasciatelo passare, il bel zerbinotto; è davvero per lui che si conserva la gabbia e l’uccello! —

«Malgrado quelle voci importune, Bahman continuò per qualche tempo a salire con costanza e fermezza, facendosi coraggio da sè; ma le voci raddoppiarono con un fracasso sì violento e vicino, tanto davanti come di dietro, che lo spavento finalmente lo vinse. Cominciarono a tremargli le gambe; vacillò, e ben presto, quasi avvedendosi che principiavano a mancargli le forze, dimenticato l’avviso del dervis, si volse per fuggire, scendendo; ma fu sull’istante cangiato in pietra nera: metamorfosi accaduta a tanti altri prima di lui che avevano tentata la medesima impresa, e lo stesso pur avvenne al suo cavallo.

«Dopo la partenza del fratello Bahman pel suo [p. 89 modifica] viaggio, la principessa Parizade, la quale portava alla cintura, entro il fodero, il coltello da lui lasciatole per essere informata se fosse morto o vivo, non aveva mancato di sguainarlo e consultarlo anche più volte al giorno, provando, di tale guisa, la consolazione di sapere ch’ei trovavasi in perfetta salute, e discorrere frequentemente di lui col principe Perviz, il quale la preveniva talvolta, domandandogliene notizia.

«Il giorno fatale in fine, in cui Bahman venne trasformato in pietra, mentre il principe e la principessa intertenevansi di lui verso sera, secondo il solito: — Sorella,» disse Perviz, «sfoderate, ve ne prego, il coltello, e sappiamo sue nuove. —

«Lo sguainò la principessa, e guardandolo, il videro grondante di sangue all’estremità. La giovine, colta d’errore e spavento, gettò il coltello.

«— Ah, mio caro fratello!» vi sclamò; «ti ho dunque perduto, e per colpa mia! Non ti rivedrò, più mai! Ahi me misera! Perchè ti ho io favellato dell’uccello che parla, dell’albero che canta e dell’acqua gialla? o piuttosto, che importava a me di sapere se quella divota trovasse bella o brutta questa casa, compita o non compita? Avesse voluto Iddio che colei non si fosse mai sognata d’accostarvisi! Ipocrita, ingannatrice,» soggiunse, «dovevi tu contraccambiare in tal modo l’accoglienza che ti usai? Perchè mi parlasti d’un uccello, d’un albero e d’un’acqua, che, per quanto siano immaginarii, com’io suppongo per la disgraziata fine d’un diletto fratello, non lasciano di turbarmi ancora lo spirito per le tue malie? —

«Perviz non fu meno dolente della sorella per la morte di Bahman; ma senza perder il tempo in vane doglianze, avendo compreso, dalle lamentazioni della fanciulla, ch’ella mai sempre appassionatamente bramava d’aver in suo potere le summentovate [p. 90 modifica] straordinarie cose, la interruppe, e: — Sorella,» le disse, «indarno noi piangiamo il nostro fratello Bahman; i lamenti, nè il dolor nostro non lo torneranno in vita; è la volontà di Dio, e noi dobbiamo sottomettervici, ed adorarlo ne’ suoi decreti senza volerli scrutare. Perchè volete adesso dubitare delle parole della divota musulmana, dopo averle sì fermamente tenute per certe e veraci? Credete voi ch’ella vi avrebbe parlato di queste tre cose se non esistessero, e che le abbia inventate espressamente per ingannarvi, voi che, ben lungi dall’avergliene dato argomento, l’accoglieste così bene e la trattaste con tanta cortesia e bontà? Crediamo piuttosto che la morte di nostro fratello provenga da sua colpa o da qualche caso che non sapremmo immaginare. Laonde, sorella, non c’impedisca la sua perdita di proseguire la nostra ricerca; io erami offerto a fare in sua vece quel viaggio: sono ancora nella medesima disposizione, e siccome il suo esempio non mi fa mutar sentimento, domani subito voglio intraprenderlo. —

«Fece la principessa tutti i possibili sforzi per dissuadere Perviz, scongiurandolo a non esporla al pericolo di perdere, invece d’uno, amendue i fratelli; ma egli fu irremovibile, ad onta delle rimostranze che gli fece. Prima di partire, acciò potesse essere informata dell’esito del viaggio cui intraprendeva, com’era stata di quello del principe Bahman, mediante il coltello lasciatole da questo, le diede anch’egli una corona di perle di cento grani pel medesimo uso, e nel censegnargliela: — Dite durante la mia assenza questa corona secondo la mia intenzione. Se, recitandola, accada che i grani si formino per modo che non li possiate più movere, nè farli scorrere l’un dietro l’altro; come se fossero incollati, sarà questo il segno che avrò incontrata la stessa sorte di nostro fratello; ma speriamo che ciò non avvenga, e ch’io avrò la [p. 91 modifica] ventura di rivedervi colla soddisfazione che ne attendiamo.»

L’alba comparve, e la sultana fu costretta a rimandare alla notte successiva il seguito del racconto.


NOTTE CDXXI


— Sire,» disse la dimane Scheherazade a Schahriar, «il principe Perviz partì, ed il vigesimo giorno del suo viaggio incontrò il medesimo dervis nel sito dove avevalo trovato Bahman. Gli si accostò, e salutatolo, lo pregò d’insegnargli, se lo sapesse, il luogo nel quale trovavansi l’uccello che parla, l’albero che canta e l’acqua gialla. Il dervis fecegli le medesime difficoltà e le rimostranze stesse fatte a Bahman, sino a dirgli esser pochissimo tempo che un giovane cavaliere, al quale molto somigliava, aveagli chiesta la stessa strada; che, vinto dalle sue istanze pressanti e dall’importunità sua, glie l’aveva mostrata, dandogli di che servirsi di guida, e prescritto ciò che dovesse osservare per riuscire nell’impresa; ma che non avevalo più veduto tornare, talchè non c’era dubbio che non avesse incontrato il medesimo destino di tutti i suoi predecessori.

«— Buon dervis,» riprese il giovane, «so chi è quello del quale mi parlate: era mio fratello primogenito, e sono con certezza informato che è morto. Ma di qual morte, è ciò che ignoro. — Posso dirvelo io,» rispose il dervis; «è stato cambiato in sasso nero, come quelli che accennai, e dovete attendervi alla medesima metamorfosi, a meno che non osserviate più [p. 92 modifica] esattamente di lui i buoni consigli ch’io aveagli dati, nel caso che persistiate a non voler rinunziare alla vostra risoluzione, come ve ne esorto di nuovo con tutto cuore.

«— Dervis,» insistè lo sconsigliato giovane, «non so abbastanza esprimervi quanto vi sia tenuto della premura che prendete per la conservazione della mia vita, sconosciuto come pure vi sono, e senza ch’io abbia fatto nulla per meritarmi la vostra benevolenza; ma debbo dirvi che prima di prendere il mio partito, vi ho riflettuto bene, e non posso abbandonarlo. Laonde, vi supplica di farmi la stessa grazia che usaste a mio fratello. Forse ch’io riesca meglio di lui a seguire le medesime indicazioni che da voi m’attendo. — Poichè non m’è concesso,» replicò il dervis, «di persuadervi a tralasciare ciò che risolveste, se la mia grave età non me l’impedisse e potesse sostenermi, mi alzerei per darvi la palla che qui tengo, la quale deve servirvi di guida. —

«Senza dare al dervis l’incomodo di spiegarsi oltre, Perviz scese da cavallo, ed accostatosi, il vecchio, che già aveva tratta la palla dal sacco, nel quale eravene buon numero d’altre, gliela diede, e gli spiegò l’uso che doveva farne, come spiegato lo aveva al fratello suo Bahman; ed avvertitolo quindi a non ispaventarsi delle voci che intendesse senza vedere alcuno, per quanto fossero minacciose, ma non tralasciare di ascendere sinchè non avesse veduto la gabbia e l’uccello, lo congedò.

«Il principe Perviz, ringraziato il vecchio e risalito a cavallo; gettò davanti a sè la palla, e dando nello stesso momento di sproni, la seguì. Giunse così al piede della montagna, ed allorchè vide fermarsi la palla, scese a terra. Prima di mettere il passo su per l’erta, restò un istante nello stesso luogo, richiamandosi in mente i suggerimenti che il dervis dati gli [p. 93 modifica] aveva; fattosi coraggio, salì, ben risoluto di pervenire sino alla vetta del monte, ed avanzò infatti cinque o sei passi; allora intese dietro a sè una voce che gli parve vicinissima, come d’uomo che lo chiamasse ed insultasselo, gridando: — Aspetta, temerario, ch’io ti punisca della tua audacia! —

«A quell’oltraggio, il giovane, dimenticando tutti gli avvisi del dervis, impugnò la sciabola e si volse per vendicarsi; ma ebbe appena il tempo di vedere che niuno il seguiva, che venne subito cangiato in pietra nera lui ed il suo cavallo.

«Dacchè il principe Perviz era partito, la sorella Parizade non aveva mai mancato di metter mano ogni giorno alla corona da lui ricevuta il dì della partenza, e quando non restavale altra cosa da fare, recitava i sacri versetti, facendone scorrere un dopo l’altro i grani fra le dita. Non l’aveva per tutto quel tempo lasciata una sola notte; ogni sera, nel coricarsi, se l’era passata intorno al collo, ed alla mattina, e svegliandosi, vi portava la mano onde sperimentare se i grani scorrevano mai sempre l’un dietro l’altro. Il giorno, infine, e nel momento che il principe Perviz ebbe subito il medesimo destino di Bahman, di essere, cioè, convertito in pietra nera, mentr’ella teneva, secondo il solito, la corona in mano e la recitava, sentì d’improvviso che i grani più non obbedivano al movimento che ad essi imprimere, nè dubitò quello non fosse il segnale della morte certa del fratello. Avendo già essa precedentemente presa la sua risoluzione intorno al partito cui appigliarsi in caso che ciò accadesse, non perdè il tempo a dar segni esteriori del proprio dolore; ma fatto uno sforzo per contenerlo in sè medesima, subito il giorno dopo, travestitasi da uomo, armata e ben equipaggiata, e detto alla sua gente che fra pochi giorni sarebbe di ritorno, balzò in sella e partì, prendendo la stessa strada tenuta dai fratelli. [p. 94 modifica]«La principessa Parizade, già avvezza al cavalcare per darsi il divertimento della caccia, sopportò le fatiche del viaggio meglio che altre donne avrebbero potuto fare, ed avendo percorsa la stessa via de’ fratelli nel medesimo spazio di tempo, incontrò anch’essa il dervis nel ventesimo giorno di cammino. Quando gli fu presso, smontò, e tenendo il cavallo per la briglia, andò a sedergli vicino, e salutatolo: — Buon dervis,» gli disse, «permettete che riposi alcun poco qui accanto a voi, e fatemi il favore di dirmi se non avete udito parlare che in qualche parte dei contorni vi sia in questo paese un luogo ove si trovino l’uccello che parla, l’albero che canta e l’acqua gialla? —

«Il dervis rispose: — Signora, poichè, ad onta delle spoglie maschili, la voce mi fa conoscere il vostro sesso, e così vi debbo chiamare, vi ringrazio del vostro complimento, e ricevo con piacere grandissimo l’onore che mi fate. Conosco il luogo ove si trovano le cose che mi nominaste; ma con quale scopo mi volgete voi tal domanda?

«— Buon dervis,» ripigliò Parizade, «me ne fu fatta una relazione tanto vantaggiosa, che ardo della brama di possederle. — Signora,» rispose l’altro, «vi fu detto il vero: sono cose ancor più sorprendenti e singolari che non vi furono descritte; ma vi si celano difficoltà ardue a superarsi per giungere a goderne; non vi sareste certo impegnata in un’impresa sì penosa o piena di pericolo, se ve ne avessero ben informata. Credete a me: non progredite oltre, tornate indietro, e non attendete ch’io voglia contribuire alla vostra perdita.

«— Buon padre,» soggiunse la principessa, «vengo di lontano, e mi dorrebbe assai di tornarmene a casa senza aver eseguito il mio disegno. Voi mi parlate delle difficoltà e del periglio di perdere la vita; [p. 95 modifica] ma non mi dite quali siano queste difficoltà, ed in che cosa consistano tali pericoli. Lo desidererei sapere per consigliarmi, e vedere se possa avere o no fiducia nella mia risoluzione, nel coraggio e nelle forze mie. —

«Il dervis allora ripetè alla giovane lo stesso discorso tenuto a Bahman ed a Perviz, esagerandole le difficoltà da superarsi per salire sino alla vetta della montagna dov’era l’uccello nella sua gabbia, onde bisognava impadronirsi; dopo di che l’uccello stesso darebbe notizia dell’albero e dell’acqua gialla; lo strepito ed il frastuono delle voci minacciose e spaventevoli che udivansi da tutti i lati senza vedere alcuno; ed in fine la quantità delle pietre nere, oggetto sol esso capace d’incutere spavento a lei e ad ogni altro, quando sapesse che quello pietre erano tanti bravi cavalieri, stati così trasformati per non aver osservata la principale, condizione onde riuscire nell’impresa, quella, cioè, di non guardarsi indietro, se prima non si fosse in possesso della gabbia.

«Allorchè il dervis ebbe finito:

«— Da quanto capisco dal vostro discorso,» ripigliò la principessa, «la grande difficoltà per riuscire in quest’impresa e primieramente di salire fino alla gabbia senza atterrirsi al fracasso delle voci che si odono senza vedere alcuno; ed in secondo luogo, di non guardarsi indietro. Quanto all’ultima condizione, spero di essere abbastanza padrona di me medesima per ben osservarla. Rispetto alla prima, confesso che queste voci, quali me le rappresentate, sono capaci di spaventare i più coraggiosi; ma siccome in tutte le intraprese perigliose e di alta conseguenza, non è vietato d’usare l’astuzia, vi domando se non si potesse servirsene in questa, che m’è di tanta importanza? — E di qual astuzia vorreste usare?» chiese il dervis: — Mi pare,» rispose la principessa, «che turandomi [p. 96 modifica] le orecchie col cotone, per forti e tremende che potessero essere quelle voci, ne sarei colpita con molta minor impressione; siccome poi farebbero minor effetto sulla mia immaginazione, il mio spirito rimarrebbe in libertà di non turbarsi al segno di perdere l’uso della ragione.

«— Signora,» riprese il dervis; «di tutti quelli che sino al presente mi si rivolsero per informarsi della strada che chiedete, non so se alcuno siasi valso del mezzo che mi proponete. Quello che so è, che niuno me, n’ha parlato, e tutti sono periti. Ove persistiate nel vostro disegno, potete tentarne la prova; alla buon’ora; se vi riesce: ma non vi consiglierei ad esporvici.

«— Buon padre;» soggiunse la principessa, «nulla mi vieta di persistere nel mio proposito: il cuore mi dice che l’astuzia riuscirà, e sono risoluta di valermene. Non mi resta quindi se non a sapere da voi la via da prendere, ed è questa la grazia che vi scongiuro a non negarmi. —

«Il dervis l’esortò per l’ultima volta a ben consigliarsi, e scorgendola irremovibile nella propria risoluzione, cavò fuori una delle solite palle, e presentandogliela: — Prendete questa palla,» disse, «risalite a cavallo, e quando ve l’avrete gettata dinanzi, seguitela per tutti i giri che le vedrete fare rotolando fino alla montagna, sulla quale sta ciò che voi cercate; e dov’essa si fermerà: allora, sostate anche voi, mettete il piede a terra e salite. Addio; il resto v’è noto, non dimenticate d’approfittarne.» [p. 97 modifica]

NOTTE CDXXII


— La principessa Parizade, dopo aver ringraziato il dervis, e preso da lui commiato, risalì a cavallo, gettò la palla e la seguì per la strada che prese rotolando: la palla continuò a correre, e finalmente fermossi appiè del monte.

«La donzella smontò, turossi col cotone le orecchie, e ben rimirata la via che doveva tenere per giungere in cima, cominciò a salire a passi eguali e con intrepidezza. Intese le voci, e tosto si avvide di qual aiuto le fosse il cotone. Più inoltravasi, e più le voci moltiplicavano e diventavano forti, ma non al punto di farle un’impressione capace di turbarla. Udì più sorta d’ingiurie e motteggi piccanti relativi al suo sesso, ch’essa disprezzò, non facendo che riderne.

«— Non mi offendo nè delle villanie, nè delle beffe vostre,» diceva fra sè; «dite anche peggio, me ne rido, e non m’impedirete di continuare la mia strada.» Montò finalmente tant’alto, che cominciava a vedere la gabbia e l’uccello, il quale, d’accordo colle voci, procurava d’intimorirla, gridando con voce tuonante, malgrado la picciolezza del suo corpo:

«— Pazza, allontanati, non accostarti. —

«La nostra eroina, vie maggiormente animata da quell’oggetto, raddoppiò il passo, e quando si vide prossima alla meta della sua carriera, superò veloce il resto dell’erta, giunse sull’alto del monte, dove il suolo era piano, corse dritto alla gabbia, e postevi le [p. 98 modifica] mani, gridò: — Uccello, ti tengo tuo malgrado, nè mi fuggirai. —

«Mentre Parizade levava il cotone che chiudeale le orecchie: — Valorosa dama,» le disse l’uccello, «non vogliate odiarmi perchè mi sia unito a coloro che facevano tutti gli sforzi per la conservazione della mia libertà. Benchè chiuso in una gabbia, io non lasciava d’essere contento della mia sorte; ma destinato a diventare schiavo, preferisco aver voi per padrona, voi che mi conquistaste con sì alto coraggio degno di ogn’altro mortale, e sino da questo punto vi giuro inviolabile fedeltà, e sommessione intera a tutti i vostri comandi. So chi siete, e vi dirò inoltre che non conoscete voi medesima per quella che siete in fatti; ma verrà giorno, in cui vi presterò un servigio pel quale spero mi sarete grata. Onde cominciare a darvi prova della mia sincerità, fatemi sapere cosa desiderate, ch’io son pronto ad obbedirvi. —

«La principessa, piena d’inesprimibile gioia, tanto più pensando che la conquista fatta le costava la morte di due fratelli teneramente amati, e ad essa medesima tanti stenti ed un pericolo di cui, dopo esserne scampata, conosceva la grandezza meglio che prima di cimentarvisi, nonostante le opposizioni fatte dal dervis, disse all’uccello, quando questi ebbe cessato di parlare: — Uccello, era ben mia intenzione mostrarti che bramo parecchie cose dell’ultima importanza per me, e sono lietissima che tu mi abbia prevenuta coll’attestazione del tuo buon volere. Primieramente, so che qui si trova un’acqua gialla di meravigliosa proprietà; prima d’ogni altra cosa, ti chiedo d’insegnarmi dov’è. —

«L’uccello le mostrò il sito, che non era molto lontano; essa vi si recò, e ne riempì un’ampolla d’argento da lei portata. Tornò quindi alla bestiuola, e gli disse: — Uccello, non basta; cerco anche l’albero che canta; dimmi dov’è. — [p. 99 modifica]«E l’uccello: — Voltatevi, e vedrete dietro a voi un bosco, nel quale lo troverete. —

«Il bosco non era molto lontano; la principessa vi andò, e fra molti alberi, i concerti armoniosi che udiva le fecero conoscere quello che cercava; ma era grossissimo ed altissimo. Tornata dunque dall’uccello, gli disse: — Uccello, ho trovato l’albero che canta, ma non posso nè sradicarlo, nè portarlo via. — Non è necessario sradicarlo,» rispose l’uccello; «basta prenderne il minimo ramoscello, e portarlo via per piantarlo nel vostro giardino; appena sarà fitto in terra, vi metterà radice, ed in poco tempo lo vedrete diventare un albero bello quanto quello che ora scorgeste. —

«Allorchè Parizade ebbe in mano le tre cose, delle quali la divota musulmana le aveva fatto concepire sì ardente brama, tornò a dire alla bestiuola: — Uccello, tutto ciò che facesti per me non basta; tu fosti cagione della morte de’ miei due fratelli, che star devono fra le pietre nere da me vedute salendo: io intendo condurli meco. —

«Parve che l’uccello avesse voluto esimersi volentieri dal soddisfare alla domanda della giovane, ed in fatti ne fece difficoltà. — Uccello,» insistè ella, «sovvengati che dichiarasti di essermi schiavo, che lo sei in fatti, e che la tua vita sta in mia balia. — Non posso negare questa verità,» rispose la bestiuola; «ma sebbene ciò che mi domandate sia della maggior difficoltà, non tralascerò di compiacervi. Gettate l’occhio qui intorno,» soggiunse, «e guardete se non iscorgete una brocca. — Sì, la veggo,» disse la principessa. — Or bene, prendetela, e scendendo dalla montagna, versate un po’ di quell’acqua, della quale è piena la brocca, sopra ciascuna pietra nera; sarà questo il mezzo di ricuperare i vostri fratelli.»

L’alba mise fine al discorso di Scheherazade; la domane e le notti seguenti, essa continuò il racconto in codesti sensi: [p. 100 modifica]


NOTTE CDXXIII


— La principessa Parizade prese la brocca, e portando seco la gabbia coll’uccello, il fiasco ed il ramoscello, mano mano che scendeva, versava su ciascuna pietra nera che incontrava un po’ d’acqua della brocca, e ciascuna si convertiva in uomo; non avendone ommessa alcuna, ricomparvero anche tutti i cavalli, tanto de’ suoi fratelli quanto degli altri signori. Per tal modo, potè riconoscere Bahman e Perviz, e questi anch’essi la riconobbero, e corsero ad abbracciarla. Corrisposto ai loro amplessi, e dimostrando il proprio stupore:

«— Miei cari fratelli,» disse, «che fate voi qui mai?» E come le ebbero risposto che aveano dormito: «Sì,» riprese, «ma senza di me il vostro sonno durerebbe ancora, ed avrebbe forse durato sino al giorno del giudizio. Non vi ricorda ch’eravate venuti a cercare l’uccello che parla, l’albero che canta e l’acqua gialla, e di aver veduto, giungendo, le pietre nere ond’era sparso questo luogo? Guardate, e vedete se ve ne resta più una sola. I signori che ci circondano, e voi tutti, eravate quelle pietre, al par de’ vostri cavalli, che vi aspettano come potete scorgere; se bramaste poi sapere come siasi operata tal maraviglia,» proseguì, indicando loro la brocca, cui, non avendone più bisogno, aveva già deposta alle falde della montagna, «ciò fu in virtù dell’acqua ond’era piena quella brocca, e che versai su ciascuna pietra. Siccome, dopo aver reso mio schiavo l’uccello che [p. 101 modifica] parla, che vedete entro questa gabbia, e trovato per suo mezzo l’albero che canta del quale tengo un ramoscello, e l’acqua gialla di cui ho pieno questo fiasco, io non voleva far ritorno senza ricondurvi con me, l’ho costretto, pel potere acquistato su di lui, a somministrarmene il mezzo, ed egli m’insegnò dov’era la brocca, e l’uso che doveva farne. —

«A tal discorso, conobbero Bahman e Perviz il grand’obbligo che avevano alla sorella; i signori che si erano tutti raccolti a loro intorno, ed avevano udito il discorso medesimo, li imitarono, manifestando che ben lungi dall’invidiarla sulla conquista da lei fatta, ed a cui aveano anch’essi aspirato, non sapevano meglio dimostrarle la propria gratitudine per la vita ad essi ridonata, se non dichiarandosi suoi schiavi, e pronti ad eseguire tutto ciò che le piacesse di ordinare.

«— Signori,» ripigliò la giovane, «se avete posto mente alle mie parole, avrete potuto notare che in ciò che ho fatto, non abbiam intenzione se non di ricuperare i miei fratelli; laonde, se ve n’è derivato il benefizio che dite, non mi dovete alcuna obbligazione. Non accetto del vostro complimento fuorchè la cortesia con cui me lo fate, e ve ne rendo le dovute grazie. D’altra parte, vi riguardo ciascuno in particolare come persone libere quanto lo eravate prima della vostra disgrazia, e mi rallegro con voi della ventura toccatavi per mia occasione. Ma non ci fermiamo oltre in un luogo dove non c’è ormai nulla che ci possa trattenere a lungo; rimontiamo a cavallo, e torniamo tutti ai paesi, da’ quali siamo venuti. —

«E per la prima ne diede l’esampio, andando a riprendere il destriero, che trovò nello stesso sito in cui avevalo lasciato. Prima di salirvi, Bahman, il quale voleva sollevarla, la pregò di dargli da portare la gabbia. [p. 102 modifica]«— Fratello,» rispose la principessa, «l’uccello è mio schiavo, e voglio portarlo io medesima; se però volete incaricarvi del ramo dell’albero che canta, eccovelo. Prendete intanto la gabbia per consegnarmela quando sarò in sella.» Risalita che fu a cavallo, e resale da Bahman la gabbia e l’uccello: «E voi, fratello Perviz,» continuò, volgendosi a questi, «ecco pure l’ampolla dell’acqua gialla che affido alla vostra custodia, se però non vi reca incomodo.» Il principe Perviz se ne incaricò con moltissimo piacere.

«Allorchè Bahman, Perviz ed i signori furono tutti a cavallo, la giovane aspettò che alcuno di essi si mettesse alla testa della comitiva per aprire la marcia; i due principi vollero cedere l’onorevole incarico ai signori, e questi, dal loro canto, volevano renderne omaggio alla principessa. Or vedendo questa che niuno volea prendersi tal vantaggio, per lasciarne a lei sola l’onore, si volse a tutti, e disse: — Signori, attendo che andiate innanzi. — Signora,» rispose, a nome di tutti, uno di quelli che le stavano più vicini, «quando pur ignorassimo l’onore dovuto al vostro sesso, non v’ha omaggio cui non saremmo pronti a tributarvi dopo ciò che per noi opraste. Ad onta della vostra modestia, vi preghiamo di non privarci più a lungo del bene di seguirvi.

«— Signori,» soggiunse allora la principessa, «non merito l’onore che mi fate, e non l’accetto se non perchè ne mostrate desiderio.» Ed in pari tempo si pose in cammino, seguita dai due principi e dai signori in truppa senza distinzione.

«La comitiva volle, passando, vedere il dervis, per ringraziarlo della sua buona accoglienza e dei salutari consigli da tutti trovati sinceri; ma era morto, e non fu possibile sapere se per vecchiaia o perchè non era più necessario ad insegnare la via che conduceva alla conquista delle tre cose, delle quali Parizade aveva trionfato. [p. 103 modifica]«Così la brigata proseguì il suo cammino, ma cominciò a scemare ogni giorno; imperocchè i signori, venuti, come abbiam detto, da diverse regioni, dopo avere, ciascuno in particolare, reiterate alla principessa le proteste di sincera gratitudine, presero commiato da lei e dai suoi fratelli l’un dopo l’altro, mano mano che incontravano le strade per le quali erano venuti; intanto la principessa ed i principi Bahman e Perviz continuarono la loro, sinchè giunsero a casa.

«La giovane pose prima la gabbia nel giardino, di cui abbiam parlato; e siccome la sala, ove poi trasportolla, trovavasi da quella parte, appena l’uccello ebbe fatto udire il suo canto, usignuoli, fringuelli, allodole, capinere, cardellini ed un’infinità d’altre specie del paese vennero ad accompagnarlo coi loro gorgheggi. Quanto al ramoscello, lo fece in sua presenza piantare in un sito del giardino, poco lontano dalla casa; ed esso vi mise radice, divertendo in poco tempo un grosso albero, le cui foglie ben presto tramandarono la stessa armonia ed il medesimo concerto dell’albero, dal quale era stato spiccato. Circa all’ampolla dell’acqua gialla, essa fece preparare una gran vasca di bellissimo marmo, e vi versò poi tutta l’acqua gialla contenuta nell’ampolla. Subito cominciò questa a gorgogliare e crescere gonfiandosi, e giunta agli orli della vasca, si sollevò dal mezzo in uno stupendo zampillo dell’altezza di venti piedi, ricadendo, e continuando così senza che l’acqua traboccasse.

«La nuova di tali maraviglie presto si sparse nei dintorni, e siccome la porta della casa, come anche quella del giardino, non erano chiuse ad alcuno, in breve una grande affluenza di gente accorse ad ammirarle.

«In capo ad alcuni giorni, i principi Bahman e Perviz, rimessi dalle fatiche del viaggio, ripresero la [p. 104 modifica] consueta maniera di vivere; ed essendo la caccia il loro ordinario divertimento, montati a cavallo, vi andarono per la prima volta del loro ritorno, non nel proprio parco, ma a due o tre leghe lontano di casa. Or mentre sollazzavansi così, il sultano di Persia sopraggiunse cacciando anch’egli nel medesimo sito da essi prescelto. Appena pertanto, dal gran numero di cavalieri comparsi in più luoghi, furonsi i giovani avviati ch’egli fra poco sarebbe giunto, presero il partito di cessare, e ritirarsi per evitarne l’incontro; ma fu appunto nella via da loro presa a tal uopo, che lo incontrarono in sito sì angusto, che non potevano sviarsi, nè tornar indietro senza essere veduti. Nella loro sorpresa, ebbero appena il tempo di scendere di sella e prosternarsi davanti al sultano, colla fronte sino a terra, senza alzare il capo per rimirarlo. Ma il sultano, vedendoli ben montati ed elegantemente vestiti come se fossero stati della sua corte, fu curioso di mirarli in volto, talchè fermatosi, comandò loro di rialzarsi.

«Alzaronsi i giovani, e stettero davanti al sultano, con aria libera e sciolta, accompagnata però da un contegno modesto e rispettoso. Il monarca, consideratili alcun tempo dalla testa sino ai piedi, senza parlare, dopo averne ammirato il bell’aspetto ed il portamento, domandò loro chi fossero e dove dimorassero.

Bahman, pigliando allora la parola:

«— Sire,» disse, «noi siamo figli dell’intendente dei giardini di vostra maestà, ultimamente mancato ai vivi, ed abitiamo in una casa da lui fatta edificare poco tempo innanzi la sua morte, affinchè vi facessimo dimora, attendendo d’essere in età di servire la maestà vostra, e chiederle impiego quando se ne presentasse l’occasione.

«— Da quanto veggo,» ripigliò il sultano, «voi [p. 105 modifica] amate la caccia. — Sire,» soggiunse Bahman, «dessa è il solito nostro esercizio, e quello che nessun suddito di vostra maestà, il quale desideri portar le armi nei suoi eserciti, non suol trascurare, uniformandosi all’antico uso di questo regno. —

«Firuz Schah, allenato da così saggia risposta, ripigliò: — In tal caso, mi compiacerò di vedervi all’opra. Venite, scegliete il genere di caccia che più v’aggrada. —

«Risaliti i principi a cavallo, seguirono il sultano, e non eransi di molto inoltrati, quando videro comparire tutto ad un tratto varie flore. Bahman scelse un lione, e Perviz un orso: partirono ambedue nello stesso punto con un’intrepidità che fece inarcar le ciglia di stupore al sultano, e raggiunte quasi entrambi nello stesso istante le belve, e lanciarono con tal destrezza il giavellotto, che Bahman trafisse il leone da parte a parte, Perviz l’orso, ed il sultano li vide cadere l’un dopo l’altro in poco tempo. Senza fermarsi, il principe Bahman insegue un altro leone, e Perviz un altro orso, ed in poco tempo li trafiggono e li rovesciano esanimi. Volevano continuare, ma il sultano non lo permise; li fece richiamare, e giunti che gli furono vicino. — Se vi lasciassi fare,» diss’egli, «avreste in breve distrutto tutto il mio salvaggiume. Non sono però le fiere ch’io voglia risparmiare, quanto le vostre persone, la cui vita terrò d’or innanzi carissima, persuaso che il valor vostro mi sarà, quando che sia, molto più utile che or non mi fu dilettevole. —

«In somma, Firuz-Schah si sentì pei due giovani tale inclinazione, che li invitò a venirlo a trovare, ed a seguirlo immediatamente.

«— Sire,» rispose il principe Bahman, «vostra maestà ne vuol far un onore che non meritiamo, e la supplichiamo ad aver la bontà di dispensarcene. — [p. 106 modifica]«Non comprendendo il sultano per qual ragione i principi non volessero accettare la prova della considerazione che ad essi manifestava, la chiese loro, e li sollecitò a chiarirnelo.

«— Sire,» disse allora Bahman, «abbiamo una sorella, a noi minore, colla quale viviamo in sì stretta unione, che nulla intraprendiamo o facciamo, senza prenderne prima consiglio; come del pari, da parte sua, essa non fa nulla che non ne chiegga prima il nostro. — Lodo moltissimo la fraterna vostra concordia,» rispose il sultano; «consultate dunque vostra sorella, e domani, tornando a caccia meco, mi darete la risposta. —

«Fecero i due principi ritorno a casa, ma non si ricordarono ne l’uno, ne l’altro non solo dell’incontro col sultano e dell’onore avuto di cacciare con lui, ma nemmeno di parlare alla sorella di quello ch’egli aveva loro fatto, volendoli condur seco. Alla domane, recatisi sul luogo della caccia presso il sultano:

«— Ebbene,» questi li richiese, «avete parlato con vostra sorella? Ebb’ella la compiacenza di acconsentire al piacere che aspetto di vedervi più intimamente? —

«Guardaronsi i giovani l’un l’altro, ed il rossore salì loro al volto.

«— Sire,» rispose Bahman, «supplichiamo vostra maestà ad iscusarci; nè mio fratello, nè io ce ne siamo ricordati. — Ve ne sovvenga dunque oggi,» riprese il sultano, «e non dimenticate domani di darmene la risposta. —

«I due principi caddero una seconda volta nella medesima dimenticanza, nè il sultano si adontò della loro trascuratezza: per lo contrario, cavate tre pallottole d’oro che teneva in una borsa, e mettendole in seno a Bahman: — Queste palle,» gli disse con un sorriso, «v’impediranno di dimenticarvi per la terza volta [p. 107 modifica] di ciò che desidero facciate per amor mio; il rumore che produrranno stasera cadendovi dalla cintura, ve ne ridesterà la memoria, caso che non ve ne ricordaste prima.»


NOTTE CDXXIV


— La cosa accadde come il sultano avea preveduto; senza le tre pallottole d’oro, i giovani avrebbero nuovamente dimenticato di parlare dell’accaduto alla sorella. Esse caddero dal seno di Bahman quando si ebbe tolta la cintura, spogliandosi per mettersi a letto. Subito dunque andò egli a trovare il fratello Perviz, e recatisi insieme all’appartamento della principessa, la quale non era ancor coricata, le chiesero scusa se venivano ad importunarla ad ora indebitata, e le esposero quindi l’affare con tutte le circostanze del loro incontro col monarca.

«Sbigottì Parizade a quella nuova. — Il vostro incontro col sultano,» disse, «è per voi felice ed onorevole, ed in seguito può esserlo ancor di più; ma per me, è spiacevole ed assai tristo. È a mio riguardo, ben lo comprendo, che voi avete resistito alle brame del sultano; ve ne sono infinitamente grata; da ciò riconosco che l’affetto vostro corrisponde perfettamente al mio, preferendo, per così dire, commettere un’inciviltà verso il sovrano, dandogli un onesto rifiuto, a quanto credeste, piuttosto che pregiudicare l’unione fraterna tra noi giurata; e ben pensaste, che ove aveste cominciato a visitarlo, a poco a poco sareste stati costretti ad abbandonarmi per dedicarvi intieramente [p. 108 modifica] a lui. Ma credete voi che sia facile negare assolutamente al nostro re ciò che con tanta premura, a quanto pare, egli desidera? Le brame dei sultani sono voleri, ai quali è pericoloso resistere. Perciò, se, secondando le mie inclinazioni, vi dissuadessi dall’usargli la compiacenza che da voi esige, altro non farei se non esporvi al suo risentimento, e rendermi con voi infelice. Ora conoscete il mio sentimento. Prima nondimeno di nulla conchiudere, consultiamo l’uccello che parla, e vediamo cosa ne consiglierà: è sagace e previdente, e ci ha promesso il suo aiuto nelle cose difficili. —

«Parizade fecesi portare la gabbia, ed esposta all’uccello, in presenza dei principi, la difficoltà, gli chiese come dovessero comportarsi in quella contingenza. Quello rispose: — Bisogna che i principi vostri fratelli accondiscendano alla volontà del sultano, ed anzi che l’invitino a venir visitare la vostra casa.

«— Ma, uccello,» ripigliò la principessa, «noi ci amiamo, i miei fratelli ed io, d’un affetto senza pari; soffrirà questo alcun danno per un tal passo? — Non mai,» rispose l’uccello, «ma diventerà anzi più forte. — Allora,» replicò la principessa, «il sultano mi vedrà.» L’uccello le dichiarò esser necessario che la vedesse, e che ogni cosa sarebbe andata per la meglio.

«Alla domane, tornati i principi Bahman e Perviz alla caccia, il sultano, da quanto lungi mai potè farsi intendere, domandò loro se si fossero ricordati di parlare colla sorella. Bahman, avvicinatosi, così gli rispose: — Sire, vostra maestà può disporre di noi, e siamo pronti ad obbedirgli; non solo non incontrammo ostacolo ad ottenere il consenso di nostra sorella, ma ben anche le dispiacque che avessimo avuto per lei tanta deferenza in una cosa ch’era di nostro dovere riguardo la vostra maestà. Ma, o sire, essa se n’è resa tanto degna, che, se abbiam peccato, [p. 109 modifica] speriamo che vostra maestà ce lo voglia perdonare. — Ciò non v’inquieti,» riprese il sultano; «lungi dal dispiacermi quanto faceste, lo approvo tanto, che spero avrete per la mia persona la medesima deferenza, per poco ch’io abbia parte nella vostra amicizia.» I principi, confusi della bontà del sultano, non risposero se non con un profondo inchino, onde manifestargli l’intimo rispetto, col quale la ricevevano.

«Il sultano in quel giorno non rimase molto, contro il solito, alla caccia. Avendo stimato che i principi non fossero meno forniti di spirito che di valore e bravura, l’impazienza d’intertenersi con maggior libertà fece che sollecitasse il ritorno. Egli volle che per via gli stessero a fianco: onore che, senza parlare dei primari cortigiani che l’accompagnavano, cagionò gelosia al primo visir, che rimase mortificato di vederseli camminare davanti.

«Entrato il sultano nella capitale, il popolo, di cui erano assiepate le vie, teneva gli occhi fitti sui due fratelli, chiedendo chi potessero essere, se stranieri o del regno. — Chiunque siano,» diceva la maggior parte, «volesse Iddio che il sultano ci avesse dati due principi sì belli e di leggiadro aspetto! Potrebbe averne all’incirca della medesima età, se fossero stati felici i parti della sultana, che ne soffre da sì gran tempo la pena. —

«La prima cosa che, giungendo al palazzo, fece il monarca, fu di condurre i giovani ne’ principali appartamenti, de’ quali essi lodarono la bellezza, la magnificenza, le suppellettili, gli ornamenti e la simmetria, senza alienazione e da gente che se ne intendevano. In fine fu servita una refezione magnifica, ed il sultano li fece sedere alla propria mensa; essi volevano scusarsene, ma quando il re ebbe loro manifestate la sua volontà, obbedirono.

«Il sultano, uomo di molto spirito, e dottissimo [p. 110 modifica] nelle scienze, ed in particolar modo nella storia, aveva preveduto che, per modestia e rispetto, i principi non si prenderebbero la libertà di dar principio alla conversazione; laonde, per somministrar loro campo di parlare, la cominciò egli e la sostenne per tutto il pasto; ma su qualunque materia li interrogasse, risposero con tanta cognizione, spirito, giudizio e discernimento, che ne rimase altamente stupito. - Quando pur fossero miei figli,» diceva fra sè, «e che, collo spirito cui posseggono, li avessi educati, non ne saprebbero di più, nè sarebbero più abili o meglio istruiti.» Prese in somma tanto piacere ai loro discorsi, che dopo essere rimasto a tavola più del solito, entrò, levandosene, nel suo gabinetto, continuando colà a conversare coi giovani per molto tempo. In fine il sultano disse:

«— Non avrei mai creduto che in campagna vi fossero giovani signori, miei sudditi, sì ben educati, spiritosi e d’ingegno. In tutta la mia vita non ebbi colloquio che m’abbia recato maggior piacere del vostro; ma basta così: è tempo che vi solleviate l’animo con qualche divertimento della mia corte, e non essendovi cosa più capace della musica per dissipare la tristezza, sentirete un concerto di voci e d’istrumenti che non sarà ingrato. —

«Quando il sultano ebbe finito di parlare, i musici, avendone avuto già l’ordine, entrarono, e degnamente corrisposero all’aspettativa in cui si era della loro abilità; al concerto poi successero i giocolieri, e quindi varie coppie di ballerini d’ambo i sessi chiusero il divertimento.

«Vedendo, i due principi che avvicinavasi il tramonto, si prosternarono appiè del sultano, domandandogli licenza di ritirarsi, dopo averlo ringraziato della sua bontà e degli onori de’ quali avavali colmati; ed il monarca, accommiatandoli, disse loro: — Vi lascio [p. 111 modifica] andare, ma sovvengavi che non vi condussi io stesso al mio palazzo se non per insegnarvene la strada, affinchè vi veniate da per voi. Sarete sempre i ben venuti, e quanto più spesso venete, mi farete maggior piacere. —

«Prima di allontanarsi dalla presenza del sultano, Bahman gli disse: — Sire, oseremmo noi prenderci la libertà di supplicare la maestà vostra di farne la grazia, a noi ed a nostra sorella, di passare di casa nostra e riposarvi qualche momento, la prima volta che il divertimento della caccia la conduca in quei dintorni? Essa non è degna della vostra presenza; ma i monarchi talvolta non isdegnano di ricoverare in una capanna.» Il sultano rispose: — Una casa di signori, quali voi siete, non può essere che bella e degna di voi. La vedrò con piacere, e ne proverò uno maggiore di avervi per ospiti, voi e la sorella vostra, a me già sì cara senza averla veduta, al solo racconto delle belle sue qualità; e non differirò a procurarmi tale diletto più di dopodomani. Mi troverò di buon mattino nel luogo stesso dove non dimenticai d’avervi incontrati la prima volta; siateci anche voi, e mi servirete di guida.»


NOTTE CDXXV


— I principi Bahman e Perviz se ne andarono lo stesso giorno, e giunti a casa, esposta alla principessa l’accoglienza onorevole avuta dal sultano, le annunziarono di non aver trascurato d’invitarlo a far ad essi l’onore di visitare, passando, la loro casa, e che il giorno della sua visita sarebbe quello successivo al domani. [p. 112 modifica]«— In tal caso,» disse la principessa, «bisogna sin d’ora pensar a preparare un pranzo degno di sua maestà, ed a tal uopo sarà bene consultare l’uccello che parla; egli c’insegnerà forse qualche cibo che sia più gradito a sua maestà.» Siccome i principi riportaronsi a ciò ch’ella stimerebbe opportuno di fare, andò ella, dopo che si furono ritirati, a consultar in particolare la bestiuola.

«— Uccello,» gli disse, «il sultano ci farà l’onore di venirvi in casa nostra, e noi dobbiamo trattarlo; insegnarci come ce ne potremo disimpegnate in modo che ne rimanga contento.

«— Mia buona padrona,» rispose l’uccello, «avete cuochi eccellenti; facciano il meglio che sanno, e sopra ogni altra cosa gli preparino un piatto di cetriuoli, con un ripieno di perle, che farete servire al sultano, preferibilmente ad ogni altra vivanda, subito alla prima portata.

«— Cetriuoli con un ripieno di perle!» sclamò Parìzade stupefatta. «Uccello, tu vaneggi; è cosa inaudita. Potrà bensì il sultano ammirarlo come una gran magnificenza, ma si troverà a tavola per mangiare e non per ammirar perle. Inoltre, quand’anche vi adoperassi tutte le perle che posso avere, non basterebbero per un ripieno.

«— Padrona,» rispose l’uccello, «fate quello che vi dico, e non v’inquietate di ciò che sarà per accadere; non ve ne avverrà se non del bene. Quanto alle perle, andate domani di buon mattino al piè del primo albero del vostro parco, a man destra, e colà fate scavare: ve ne troverete più del bisogno. —

«La medesima sera Parizade fece avvertire un giardiniere di tenersi pronto, e la mattina dopo, sull’albeggiare, lo prese seco, e condottolo appiè dell’albero insegnatole dall’uccello, gli comando di scavare. Il giardiniere si accinse all’opra, e giunto ad una certa [p. 113 modifica] profondità, incontrò resistenza, ed in breve scoprì un cofanetto d’oro di circa un piede in quadrato, cui mostrò alla principessa. — È per questo che ti ho qui condotto,» diss’ella; «continua, e bada di non guastarlo colla vanga. —

«Il giardiniere disotterrò finalmente il cofanetto, e lo consegnò alla principessa. Non essendo chiuso se non da piccioli e gentili uncinetti, la giovane lo aprì, e trovollo tutto pieno di perle, di grossezza mediocre, ma eguali ed opportune all’uso che se ne dovea fare. Contentissima dunque di aver trovato quel piccolo tesoretto, rinchiuse lo scrigno, se lo pose sotto il braccio, e tornò a casa, mentre il giardiniere riponeva la terra nel medesimo stato di prima.

«Bahman e Perviz, avendo ciascuno veduto dal suo appartamento, mentre si vestivano, la sorella nel giardino più presto del solito, appena furono in istato di uscire, si unirono, ed andandole incontro, la raggiunsero. Avendo veduto di lontano che portava qualche cosa sotto il braccio, avvistisi, nell’avvicinarsi, ch’era un cofanetto d’oro, ne rimasero sorpresi. — Sorella,» le disse Bahman, «voi non portavate nulla quando vi abbiam veduta scendere quaggiù seguita da un giardiniere, ed ora ne tornate carica d’una cassettina d’oro. È forse un tesoro trovato dal giardiniere, e ch’egli venne ad annunziarvi?

«— Tutto al contrario, fratelli,» rispose Parizade, «fui io che condussi il giardiniere ove stava il cofano, che glie ne indicai il sito e lo feci disotterrare. Stupirete maggiormente della mia scoperta, quando ne vedrete: il contenuto. —

«Aprì la principessa il cofanetto, ed i giovani, maravigliati al vederlo pieno di perle, poco considerabili per grossezza, esaminandole ad una ad una in particolare, ma di gran valore riguardo alla loro perfezione ed alla quantità, le chiesero per qual av[p. 114 modifica]ventura fosse venuta in cognizione di quel tesoro.

«— Fratelli,» rispose quella, «a meno che qualche affare urgente non vi chiami altrove, venite con me, e ve lo dirò.» Perviz riprese: — Qual affare più urgente potremmo mai avere, che d’essere informati di questo che tanto ne interessa? Non ne avavamo altro fuor di quello di venirvi incontro. —

«Allora Parizade, ripigliando, in mezzo ai due fratelli, la via verso casa, raccontò loro il consulto tenuto coll’uccello, come n’erano già convenuti, la domanda, la risposta, ciò ch’ella avevagli obbiettato a proposito della pietanza di cedriuoli ripieni di perle, ed il mezzo somministratole di procurarsene, insegnandole il luogo dove aveva trovata la cassettina. Fecero i giovani parecchi ragionamenti per penetrare a qual fine l’uccello volesse far ammannire al sultano un cibo di tal fatta, sino a farle trovare il mezzo di riuscirvi; ma in fine, dopo aver ben bene discusso pro e contro su tale materia, dovettero concludere di non comprendervi nulla, e che intanto bisognava uniformarsi esattamente al consiglio.

«Rientrata in casa, la principessa fece chiamare il capo della cucina, il quale comparve subito alla di lei presenza, ed ordinatogli il pranzo per trattare il sultano nel modo che intendeva: — Oltre a ciò che ho detto,» soggiunse, «bisogna mi facciate un piatto espressamente per la bocca del sultano, e perciò, che niuno vi metta mano fuor di voi. È codesto un piatto di cedriuoli ripieni, che farete con queste perle.» E nello stesso tempo, aperto lo scrigno, glie le mostrò:

«Il capocuoco, il quale non avea mai inteso parlare d’un ripieno simile, arretrò due passi, con un volto che bastantemente palesava il suo pensiero. Lo comprese la principessa, e: — Veggo bene,» disse, «che tu mi prendi per una pazza, ordinandoti un intingolo, del quale non udisti mai parlare, e di cui [p. 115 modifica] si può certamente dire che non fu mai fatto. Anche questo è vero, ed io lo so al par di te; ma non sono pazza, ed è con tutto il mio buon senno che ti ordino di farlo. Va, inventa, fa il tuo meglio, e porta via lo scrigno; me lo riporterai colle perle che rimarranno, se ve ne fossero più del bisogno.» Il capocuoco non ebbe nulla a replicare, prese lo scrigno e se ne andò. Quel medesimo giorno in fine, Parizade diede gli opportuni ordini per far in modo che ogni cosa fosse nella propria e ben disposta, tanto nella casa come in giardino, per ricevere degnamente il sovrano.»


NOTTE CDXXVI


— Alla domane, i due principi erano sul luogo del ritrovo quando giunse il sultano di Persia, il quale, cominciando a cacciare, continuò sinchè il vivo ardore del sole, che avvicinavasi al più alto punto dell’orizzonte, lo costrinse a porvi termine. Allora, mentre Bahman rimase presso a Firuz— Schah per accompagnarlo, Perviz si pose alla testa del seguito, onde insegnare la strada; quando fu in vista della casa, spronò il cavallo per correre ad avvertir la sorella che il sultano giungeva; ma la gente della principessa, appostata per suo ordine, l’avevano già avvertita, ed il principe la trovò che l’attendeva, pronta a riceverlo.

«Il sultano arrivò, ed entrato nel cortile e sceso davanti al vestibolo, Parizade gli si presentò, gettandosegli a’ piedi; Bahman e Perviz, ch’erano presenti, [p. 116 modifica] avvertirono il sultano essere colei la loro sorella, e lo supplicarono ad aggradire i rispetti ch’essa tributava a sua maestà.

«Si abbassò il monarca per aiutare la principessa a rialzarsi, e dopo averla considerata ed ammirato alcun tempo lo splendore della sua beltà, della quale rimase abbagliato, la sua buona grazia, il portamento ed un certo non so che, che non risentivasi della campagna ove dimorava: — I fratelli,» disse, «son degni della sorella, e la sorella degna dei germani; ed a giudicare dell’interno dall’esterno, non mi maraviglio più se gli uni non vogliano far nulla senza il consenso dell’altra; ma spero bene conoscerla meglio che non possa sembrarmi a prima vista, quando avrò veduta la casa. —

«La principessa prendendo allora la parola: — Sire,» disse, «non è che una casa di campagna, la quale conviene a persone come noi, che conduciamo vita ritirata dalla società; essa non ha nulla di paragonabile colle case delle grandi città, ed ancor meno coi palagi magnifici appartenenti ai sultani. — Non convengo del tutto nel vostro sentimento,» disse cortesemente Firuz-Schah; «ciò che ne veggo così alla prima, fa che vi tenga un po’ per sospetta. Mi riservo ad esternare la mia opinione quando me l’avrete mostrata; andate dunque innanzi, ed insegnatemi la via. —

«La giovane, lasciata da parte la sala, condusse il sultano d’appartamento in appartamento; ed egli, dopo averli considerati partitamente con attenzione, ed ammiratane la varietà: — Mia bella,» disse a Parizade, «chiamate voi questa una casa di campagna? Le maggiori e più belle città rimarrebbero in breve deserte, se tutte le case di campagna somigliassero alla vostra. Non istupisco più che vi piaccia tanto lo star qui, e disprezziate la città. Fatemi pur vedere il giardino; mi aspetto che corrisponda alla casa. — [p. 117 modifica]«Aprì la principessa una porta che dava in giardino, e ciò che subito colpì gli occhi del sultano, fu lo zampillo d’acqua gialla, color d’oro. Sorpresa da spettacolo sì nuovo, e consideratolo alcun tempo con ammirazione: — D’onde viene quell’acqua meravigliosa,» domandò, «che fa tanto piacere a vederla? Dove n’è la sorgente? E per qual arte se n’è formato uno zampillo sì straordinario, ed al quale non credo siavi nulla di simile al mondo? Voglio rimirare questa maraviglia davvicino.» Ciò dicendo, inoltrossi, e la principessa, continuando a guidarlo, lo condusse verso il sito dove stava l’albero armonioso.

«Avvicinandosi, il sultano, all’udir quivi una melodia tutta diversa da quelle fin allora intese, fermossi, cercando cogli occhi dove fossero i musici; ma non vedendone alcuno nè vicino, nè lontano, e nondimeno udendo il concerto sì distintamente da deliziarsene:

«— Mia bella,» chiese di nuovo, volgendosi a Parizade, «dove sono i cantori che sento? Sono sotterra? Invisibili nell’aria? Con voci sì esimie ed incantevoli, non arrischierebbero nulla a mostrarsi: anzi, farebbero piacere.

«— Sire,» rispose, sorridendo, la donzella, «non sono musici che formano il concerto che udite; è quell’albero che vostra maestà si vede davanti; se vuol darsi l’incomodo di avvicinarsi quattro passi, non ne dubiterà più, e le voci gli riusciranno più distinte. —

«Inoltrossi Firuz-Schah, e rimase così estatico alla dolce armonia, che non si stancava d’ascoltarla. Infine, ricordossi che dovea vedere da vicino l’acqua gialla, e schiudendo le labbra: — Mia bella,» chiese alla giovane, «ditemi, di grazia, quest’albero maraviglioso trovasi per caso nel vostro giardino? Oppure è un dono che vi fu fatto, o lo faceste venire da qualche lontano paese? Bisogna che venga molto da [p. 118 modifica] lungi: altrimenti, curioso delle rarità della natura qual sono, ne avrei udito parlare. Con qual nome lo chiamate?

«— Sire,» rispose la giovane, «questa pianta non porta altro nome fuor di quello d’albero che canta, e non alligna nel nostro paese; sarebbe troppo lungo il raccontarvi come si trova qui. È una storia che ha rapporto coll’acqua gialla e coll’uccello che parla, a noi venuto nel medesimo tempo con essi, e che la maestà vostra potrà vedere dopo aver considerata l’acqua gialla davvicino quanto desidera. Se non lo avrà discaro, mi farò l’onore di raccontargliela, quando si sia riposata e rimessa dalla fatica della caccia, alla quale ne va aggiungendo, mi pare, una nuova, coll’incomodo che si prende sotto l’ardente sferza del sole.

«— Mia bella,» riprese il sultano, «io non mi avveggo dell’incomodo che dite, tanto è ben compensato dalle cose meravigliose che mi mostrate; dite piuttosto ch’io non penso a quello che vi do. Terminiamo adunque, e vediamo l’acqua gialla; ardo già di voglia di vedere ed ammirare l’uccello che parla. —

«Giunto alla fontana d’acqua gialla, tenne a lungo gli occhi fissi sullo zampillo, che non cessava di fare uno stupendo effetto, slanciandosi nell’aria e ricadendo nel bacino. — Secondo voi, mia bella,» diss’egli, sempre volgendosi alla principessa, «quell’acqua non ha sorgente, e non viene da verun sito dei contorni, condotta da canale sotterraneo; almeno così comprendo che è forestiero al par dell’albero che canta.

«— Sire,» ripigliò la donzella, «è appunto come dice vostra maestà; e per prova che l’acqua non viene d’altra parte, vegga che la vasca è d’un sol pezzo, talchè non può venire nè dai lati, nè dal [p. 119 modifica] di sotto; quello che deve rendere l’acqua ancor più mirabile a vostra maestà è, ch’io non ne ho gettato nel bacino se non un solo fiasco, ed essa vi crebbe, come vede, per una proprietà che le è particolare. —

«Allontanandosi il sultano in fine dalla fontana: — Eccone abbastanza per la prima volta,» disse, «poichè mi riprometto di tornar sovente. Conducetemi ora a vedere l’uccello che parla. —

«Avvicinandosi alla sala, il re scorse sugli alberi un numero prodigioso d’uccelli, che empivano l’aere, ciascuno alla sua foggia, di canti e gorgheggi; e chiese perchè si fossero colà adunati, piuttosto che sugli altri alberi del giardino, in cui non ne aveva veduto, nè udito veruno.

«— Sire,» rispose la principessa, «è perchè tutti vengono dai contorni ad accompagnare il canto dell’uccello che parla. Vostra maestà può scorgerlo in quella gabbia posta sur una finestra della sala nella quale sta per entrare; e se voglia prestarvi attenzione, si accorgerà che ha esso un canto altisonante superiore a quello di tutti gli altri uccelli, e persino dell’usignuolo, che non se ne avvicina nemmen di lontano. —

«Firuz-Schah entrò nella sala, e continuando l’uccello il suo canto: — Schiavo,» gli disse la principessa, alzando la voce, «ecco il sultano; fategli i vostri complimenti. —

«Cessò l’uccello sul momento di cantare, e tutti gli altri cessarono anch’essi i gorgheggi.

«— Il sultano sia il ben venuto!» disse; «Dio lo colmi di prosperità e prolunghi il numero de’ suoi giorni! —

«Siccome il pasto era servito sul sofà presso la finestra ove trovavasi la bestiuola, il sultano, mettendosi a tavola, gli rispose: — Uccello, ti ringrazio del tuo complimento, e saluto in te il re degli uccelli. — [p. 120 modifica]«Il sultano, vedendosi davanti il piatto di cedriuoli, e credendoli ripieni secondo il solito, vi portò la mano, ed estrema ne fu la sorpresa trovandoli riempiti di perle.

«— Che novità è questa?» sclamò; «a qual fine un ripieno di perle? Le perle non si mangiano.» E già guardava i due giovani e la principessa: per chieder loro cosa ciò significasse, allorquando l’uccello, interrompendolo: — Sire,» disse, «vostra maestà può stupir tanto d’un ripieno di perle che vede coi propri suoi occhi, ella che si facilmente credette aver la sultana sua sposa partorito un cane, un gatto ed un pezzo di legno? — L’ho creduto,» rispose il sultano, «perchè le levatrici me l’hanno assicurato. — Quelle levatrici,» ripigliò l’uccello, «erano sorelle della sultana, ma sorelle invidiose della felicità onde l’avevate preferibilmente ad esse onorata; e per soddisfare alla loro rabbia, hanno abusato della credulità della maestà vostra. Se le farete interrogare, confermeranno il loro delitto. I due fratelli e la sorella che vedete, sono i vostri figliuoli da esse esposti, ma che furono raccolti dall’intendente de’ vostri giardini, e per sua cura nudriti ed educati.»


NOTTE CDXXVII


— Il discorso dell’animaletto illuminò in un attimo l’intelletto del sultano, il quale: — Uccello,» sclamò, «io non ho difficoltà a prestar fede alla verità che tu mi palesi. L’inclinazione che mi trascinava verso di loro, e la tenerezza che già per essi provava, mi palesavano fin troppo ch’erano del mio sangue. [p. 121 modifica] Venite adunque, figliuoli miei, venite, o mia figlia, ch’io vi abbracci, e vi dia i primi pegni dell’affetto mio e della paterna mia tenerezza.» E qui alzossi, ed abbracciati l’un dopo l’altro i giovani, mescolando le sue alle loro lagrime: «Ciò non basta, figliuoli miei,» disse, «bisogna pure che vi abbracciate fra voi non come figli dell’intendente de’ miei giardini, al quale avrò l’eterna obbligazione d’avervi conservata la vita; ma come figli miei, usciti dal sangue de’ re di Persia, di cui son persuaso che egregiamente sosterrete la gloria. —

«Dopo che i due principi e la principissa furonsi vicendevolmente abbracciati con nuova compiacenza, come il sultano desiderava, si rimise questi ancora a tavola, ed affrettossi a terminare il pranzo, finito il quale: — Figli,» disse, «voi riconoscete il vostro genitore nella mia persona; domani vi condurrà vostra madre: preparatevi a riceverla. —

«Salito a cavallo, il sultano tornò con tutta sollecitudine alla capitale, e la prima cosa che fece, appena smontato, entrando nel suo palazzo, fu di comandare al gran visir di far con tutta la maggior sollecitudine possibile il processo alle due sorelle della sultana. Queste furono arrestate, interrogate separatamente, messe alla tortura, convinte e condannate ad essere squartate, ed ogni cosa eseguita in meno d’un’ora.

«Firuz-Schah, intanto, seguito da tutti i signori della corte che trovavansi presenti, andò a piedi sino alla porta della grande moschea, e tratta la meschina egli stesso fuor della stretta carcere, in cui da tanti anni languiva e soffriva: — Madama,» le disse, abbracciandola colle lagrime agli occhi, nello stato miserando in cui era, «vengo a chiedervi perdono dell’ingiustizia che vi feci, ed a farvene la riparazione che vi devo. L’ho già cominciata col castigo di quelle [p. 122 modifica] che con abbominevole imposture mi avevano sedotto, e spero vorrete riguardarla come intiera e perfetta, quando vi avrò presentato due principi compiti ed una principessa amabile e vezzosa, vostri figliuoli e miei. Venite, e riprendete il grado che v’appartiene, con tutti gli onori a voi dovuti. —

«Tale riparazione si fece davanti ad una moltitudine immensa, accorsa in folla da tutte le parti, alla prima voce dell’accaduto, la quale in brevissimi istanti si divulgò per tutta la città.

«Alla domane, di buon mattino, il sultano e la sultana, la quale aveva mutato l’abito dell’umiliazione e del dolore, cui portava il giorno precedente, in una veste magnifica e pomposa, come a lei si addiceva, seguiti da tutta la corte, secondo gli ordini già dati, trasferironsi alla casa de’ figliuoli, dove giunti felicemente, appena posto a terra il piede, Firuz-Schah presentò alla consorte i principi Bahman e Perviz, e la principessa Parizade, e le disse:

«— Madama, ecco i due figliuoli e la figlia vostra; abbracciateli colla medesima tenerezza colla quale li abbracciai io: essi sono degni di me, degni di voi. —

«Lagrime in gran copia furono sparse in que’ commoventi amplessi, e particolarmente da parte della sultana, per la consolazione e la gioia di stringere al seno due figliuoli ed una figlia, innocente origine di sì doloroso ed amaro pianto.

«I principi avevano fatto apparecchiare un banchetto magnifico pei genitori e per tutta la corte. Si misero a mensa, e dopo il pranzo, il sultano condusse la moglie in giardino, dove le fece osservare l’albero armonioso ed il bell’effetto dell’acqua gialla. Quanto all’uccello, essa avevalo già veduto nella sua gabbia, ed uditone dal sultano l’elogio durante la tavola.

«Allorchè non vi fu più nulla che obbligasse il sultano a maggiormente trattenersi, risalì a cavallo; [p. 123 modifica] Bahman lo accompagnava a destra e Perviz alla sinistra; veniva dopo di lui la sultana, alla cui sinistra stava la principessa. In tale ordine, preceduti e seguiti dagli officiali della corte, ciascuno secondo il suo grado, ripigliarono la via della città. Mano mano che vi si accostavano, il popolo, venuto loro incontro, presentavasi in folla, molto innanzi fuor delle porte, e la gente non teneva meno gli occhi fitti sulla sultana, prendendo parte al suo giubilo, dopo sì lunghi parimenti, che sui due principi e la principessa, cui accompagnavano colle loro acclamazioni. E parimenti era assorta l’attenzione dall’uccello nella sua gabbia, cui la principessa Parizade si portava davanti, del quale ammiravano il canto, che attirava tutti gli altri uccelli, i quali lo seguivano posandosi d’albero in albero nella campagna, e sui tetti delle case nelle vie della città.

«Bahman e Perviz, colla principessa Parizade, finalmente furono condotti con tal pompa al palazzo; e alla sera si fecero grandi illuminazioni ed allegrezze, tanto nel palazzo come in tutta la città, continuandole per più giorni.»

La storia delle due sorelle invidiose finì questa notte. Il piacere col quale il sultano delle Indie sembrava averla ascoltata, fe’ concepire a Scheherazade la speranza che il sultano, suo sposo, le accorderebbe ancora il permesso di divertirlo con nuovi racconti. Infatti Schahriar s’alzò per andar a fare la sua preghiera e presiedere il consiglio, senza ordinare la morte della consorte.


Note

  1. Khosru-Schah: è nome formato dal vocabolo persiano Khosru, che gli Arabi pronunciano Kesra, e di cui i Greci hanno fatto Chasror, nome comune a vari antichi monarchi di Persia, e dalla parola schah, re.
  2. Questo nome significa nata da un genio, o della schiatta dei geni. I poeti persiani danno talvolta codesto nome ad una persona di grande beltà.