Le confessioni di un ottuagenario/Cap. XX

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Capitolo XX

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Cap. XIX Cap. XXI


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CAPITOLO VENTESIMO.


I Siciliani al campo di Pepe negli Abruzzi. — Io faccio conoscenza colla prigione e quasi col patibolo; ma in grazia della Pisana ci perdo solamente gli occhi. — Miracoli d’amore d’una infermiera. — I profughi di Londra e i soldati della Grecia. — Riacquisto la vista per opera di Lucilio, ma poco stante perdo la Pisana, e torno in patria vivo non d’altro che di memorie.


Povero Adriatico! Quando rivedrai le glorie delle flotte romane di Brindisi, delle navi liburniche, e delle galee veneziane? Ora il tuo flutto travolto e tumultuoso sbatte due sponde quasi deserte, e alle fratte paludose della Puglia corrispondono le spopolate montagne dell’Albania. Venezia, una locanda, Trieste, una bottega, non bastano a consolare le tue rive del loro abbandono; e l’alba, che ti liscia ogni giorno le chiome ondeggianti, cerca indarno per le tue prode altro che rovine e memorie.

Quando salpammo da Malamocco il tempo era quieto e sereno. L’inverno non ci pareva quasi nulla, e meno poi nell’alto mare dove la nudità degli alberi e il biancheggiar delle nevi non attestano la vecchiaia dell’anno. Il tepido favonio fiato scherzava a sommo dell’onde, e conduceva all’arida Dalmazia i memori sospiri dell’Africa sorella. Dove sono ora Salona, il rifugio di Diocleziano, ed Ippona, la sede vescovile di Agostino?... Memorie, memorie, sempre memorie traverso queste onde non mai quiete nè mutate da secoli, per queste aure sempre dolci e profumate, sopra questa terra eternamente divoratrice e feconda. L’Oriente produsse a rilento una civiltà che stultizza ancora decrepita; il Settentrione bamboleggia da trecento anni nella puerile superbia di chi si crede adulto, e non è forse ben nato ancora. L’Italia per due volte sorpassò [p. 400 modifica]l’Oriente e prevenne il Settentrione; per due volte fu maestra e regina al mondo; miracolo di fecondità, di potenza e di sventura. Ella rimugge ancora nelle viscere profonde; senza rispetto agli epicedii di Lamartine, e alla sfiducia dei pessimisti, ella può un giorno raggiungere chi sta dinanzi d’un passo, e si crede innanzi le mille miglia. Un passo, un passo e null’altro, ve lo dico io; ma è assai lungo a fare.

Nei paraggi d’Ancona cominciò lo scirocco a darci noia ed attraversarci il cammino. Il trabaccolo chiozziotto resisteva bene; ma il vento opponeva migliori ragioni delle sue vele, e ci convenne calarle. Ormeggia di qua, ormeggia di là, ci mettemmo quattro settimane a toccar Manfredonia ov’io doveva sbarcare. Giunsi di là a Molfetta ch’eravamo ai primi di febbraio, e le cerne provinciali concorrevano sul confine dell’Abruzzo per opporsi col general Guglielmo Pepe all’invasione straniera da quella banda. Peraltro il grosso dei nemici si aspettava dalla strada romana, e l’esercito regolare gli si opponeva sotto il comando di Cavascosa campeggiando sulla costiera occidentale fra Gaeta e gli Appennini. Io sbrigai le mie faccende in pochi giorni. Il vecchio curato era morto, ma aveva scritto il nome di mio padre fra i decessi nell’anno millesettecento novantanove; rilevai regolarmente l’atto di morte, e mi affrettai al campo del general Pepe come erano le mie istruzioni.

Fui ricevuto assai cortesemente dal giovane generale, che aveva grandissima confidenza nelle sue torme di volontari e si proponeva con esse di combattere validamente la diversione che i nemici avrebbero tentato da quella banda. Non si immaginava mai più, che Nugent gli sarebbe piombato addosso con tutto l’esercito; perciò, fidandosi molto ancora dei Papalini, divisava afforzarsi meglio facendo una punta a Rieti nello Stato romano. Si occupava appunto dell’esecuzione [p. 401 modifica]di questo ardito disegno, quand’io gli fui introdotto dinanzi, e diedi le mie lettere commendatizie. Mi accarezzò molto bene, disse delle speranze che si avevano, e che alla peggio poi il ritorno del re doveva accomodar tutto senza intervento di forestieri. Allora dal canto mio gli esposi quanto m’era stato commesso; ed egli se ne compiacque molto, soggiungendo che a ciò si poteva pensare ove i nemici, non aprendo nessune trattative, fossero venuti alle mani ed egli li ributtasse, come sperava, oltre il Po. Mi disse anzi che c’era al campo un signore milanese incaricato di proposizioni consimili, e che me lo avrebbe fatto conoscere.

Ci trovammo infatti a tavola; ma mi dolse assai di ravvisare in esso uno dei più assidui frequentatori della conversazione di casa Migliana; una cotal scelta non mi garbava punto. Questo signore parlava poco, guardava e sbofonchiava assai, come appunto era costume di tutti in casa della contessa. Stette ancora un giorno; indi nel maggior pericolo scomparve, e non l’udimmo più nominare, senonchè fu veduto giorni appresso a Roma col dottorino Ormenta, al quale diceva egli di essersi raccomandato unicamente per ottenere il libero ritorno in Lombardia. Molti gli credettero; io no; infatti il suo nome non figurò molto degnamente nei processi degli anni seguenti; e benchè poco sapesse, di quel poco si valse per salvar sè, e lasciar gli altri nel pantano.

Eranvi anche al campo alcuni Siciliani, venuti per accordarsi circa alle cose del paese loro, che discordavano allora scandalosamente dalle napoletane: giovani ardenti, cortesi e squisitamente educati. Sicilia è la Toscana della Bassa Italia; per questo appunto non si marita bene a Napoli, rozzo, manesco, millantatore. Saranno sempre gelosie, ove non sarà uguaglianza; e checchè ne dicano del nostro municipalismo, anche Marsiglia in Francia sbrufferebbe [p. 402 modifica]di essere sottoposta a Lione, come sbuffò per secoli Edimburgo di assoggettarsi a Londra: forse sbuffa tuttora, sebbene Londra sovrasti ad ogni città del Regno Unito, più che Roma a qualunque capitale della penisola nostra; ma per Roma stanno le tradizioni, le memorie, le glorie, la maestà che la fanno capo nonchè d’Italia, del mondo; e nessun luogo sarebbe sì ardito da vergognarsi di ubbidire a lei. Il fatto era che due valli della Sicilia pretendevano al disgiungimento da Napoli, e che un esercito condotto da Florestano Pepe era stato spedito colà a racchetarle: errore anche questo di distrarre le forze in pettegolezzi di preminenza, quando si trattava in un’altra parte dell’essere o del non essere. Se mentre Carascosa colle sue schiere stanziali guardava la strada di Capua, l’esercito di Florestano si fosse congiunto alle cerne disordinate del fratello Guglielmo per afforzarle, forse non saremmo precipitati nelle disfatte di Rieti e d’Antrodoco: macchie dell’esercito napoletano che non ci ebbe parte, e conseguenza necessaria d’uno scontro improvviso fra soldati regolari, cavalleria ordinata, e bande raccogliticcie di pastori e di briganti.

I Siciliani difendevano la patria loro dalle imputazioni di arroganza e di sprovvedutezza; secondo essi quell’inopportuna riscossa dell’orgoglio palermitano si doveva alle mene dei Calderari, di quella società segreta, che il ministro di Polizia Canosa avea creduto opporre all’influenza dei Carbonari. Ma le società segrete, protette dai governi, sono un mero fantasma; o non esisteranno mai, o si cangeranno in leghe spadroneggianti di zelatori, che riescono nocive al governo stesso. Infatti Canosa fu destituito pel troppo operare alla scoperta de’ suoi cagnotti. Il partito che comanda alla luce del giorno non sente il bisogno, e non ha la necessità di comandare nell’ombra del mistero e della congiura. Rispondemmo dunque, che se i [p. 403 modifica]Calderari facevano presa a Palermo, ciò dinotava la cedevolezza del terreno.

Ma quei giovani animosi non volevano udir parlare di ciò, e in prova anzi del contrario recavano alcune proposizioni, accettate le quali, Sicilia si sarebbe racchetata a un tratto. Il Generale diede buone parole; ma quello era giorno da fatti, e più che le cose di Sicilia lo preoccupavano le notizie delle Marche. Si seppe subito dopo il pranzo che uno squadrone di ulani era passato la sera prima: contadini fuggiaschi dalle terre aperte narravano, che tutto l’esercito tenea loro dietro. Fu chiaro allora nella mente del generale il disegno astutissimo degli Imperiali di accennare a Napoli per la via di Capua, richiamando colà lo sforzo maggiore della difesa, e di giungervi invece per i passi malguerniti degli Abruzzi. Però si aveva campo ancora a supporre che fossero esagerazioni quelle ciarle di contadini, come sempre; e che avessero scambiato per migliaia le poche schiere di cacciatori a piedi ed a cavallo destinate a qualche ricognizione. Si sperava di poter concentrare dietro a Rieti le guardie appostate qua e là, e di dare almeno tempo a Carascosa di frapporsi da quel lato fra Napoli e il nemico, alle spalle delle cerne di Pepe. Volendo questi mandar subito a Rieti, io e quei giovani siciliani ci offrimmo all’uopo; egli ce ne ringraziò, ci diede una scorta di cavalleggieri, raccomandandoci di farlo avvisato di tutto nel più breve spazio di tempo possibile. Intanto avrebbe spiccato messi a tutti i comandanti, che rifluissero colle loro schiere sulla strada da Rieti ad Aquila.

Quello che più si temeva era vero purtroppo. Nugent premeva con tutto l’esercito il confine degli Abruzzi; un grosso corpo di cavalleria minacciava la importantissima posizione di Rieti. Pepe fu avvisato entro due ore: ma già troppo tardi perchè potesse provvedere a tanta urgenza. [p. 404 modifica]Ebbe tempo di accorrere e di accomunarsi al maggior pericolo. Già i cavalli imperiali aveano cominciato l’assalto. I volontari armati di carabine resistevano male all’impeto della cavalleria; la campagna era spazzata, le strade correvano sangue, il terrore si diffondeva accresciuto dalla sorpresa, dal gran numero degli assalitori, dalla pochezza dei mezzi di difesa. Mancavano le artiglierie; i cavalleggieri non sommavano, credo, in tutto a quattrocento; gli altri erano sparpagliati in diverse posizioni. Dopo due ore di combattimento Rieti era perduto, e Pepe costretto a ritirarsi. Ma uscito appena e raccozzati i suoi, e afforzato dalle schiere che giungono fresche, s’avvede che a Rieti è il capo della guerra, e che sfuggitogli di mano, altra speranza non resta. Aduna un consiglio di guerra; si giudica impossibile riprender la piazza contro i cannoni già appostati in buon numero dagli Imperiali. Tuttavia il Generale insiste nell’ardita ma necessaria deliberazione. Egli grida che chi vuol seguirlo lo segua, ma che egli non abbandonerà il confine d’Abruzzo, prima di aver fatto sopra Rieti un ultimo sforzo. L’onor suo, il dovere glielo comandano. Al grido disperato del loro capitano accorrono animosi molti dei volontari: io, ed i giovani siciliani tra i primi.

Il pensiero di mia moglie, de’ miei figli non mi balenò che un istante alla mente; fu per persuadermi che il primo dovere dei padri è di lasciare una buona eredità di esempi forti ed animosi. Converrete meco che per un organista di Cordovado non c’era poi tanto male. La morte in quel momento mi parve sì bella e gloriosa, da meritare una vita assai più lunga della mia, e piena a tre tanti di dolori e di sventure per procurarsela. Nel lungo tempo ch’io ho attraversato mancarono, è vero, occasioni di viver bene; ma quelle di morir meglio non scarseggiarono; conforto anche questo di poter lasciare questo mondo senza rimpiangerlo.

[p. 405 modifica]Il nostro assalto fu subito e vigoroso, ma manchevole per lo scarso numero degli assalitori: i cannoni tuonavano e menavano un orribile guasto nelle nostre file. Di quei bravi siciliani uno solo rimase vivo, e fu prigioniero alla bocca d’un obice. Tornammo al secondo scontro, ma i più erano disanimati; ci rispose una grandine di palle, le ordinanze si ruppero, i volontari si sbandarono, feriti e morti rimasero in buon numero sul terreno; e già stava lor sopra la cavalleria nemica che ruinava fremebonda. Il generale ebbe tempo di rifuggir quasi solo ad Aquila, dove avea fatto capo il resto dell’esercito; ma scoraggiato affatto pel primo disastro, e per la fallita fazione di Rieti. Per me, ferito profondamente in una spalla, usai ogn’arte per nascondermi, per trascinarmi entro una macchia, ma alcuni bersaglieri mi scopersero; fui fatto prigioniero, e scoperto non essere napoletano, condotto al Quartier generale per esservi esaminato. Avanzando poi coll’esercito imperiale, ebbi mano a mano contezza delle rotte di Aquila e di Antrodoco.

Nel marzo fui condotto a Napoli, accasato pulitamente in Castel Sant’Elmo, e consegnato ad un tribunal di guerra perchè si decidesse della qualità del mio delitto. Infatti l’aver io combattuto volontariamente per un governo costituzionale che non era il mio, fu ritenuto crimine di alto tradimento. E poichè fui sanato della ferita, mi lessero un bel mattino la mia sentenza di morte. Io nulla aveva scritto a casa, perchè, secondo me, va sempre bene ritardar altrui la notizia di sventure irreparabili; mi disposi dunque a morire colla maggior rassegnazione, solo spiacentissimo di non veder la fine di quel tristo capitolo di storia. Vennero anche ad offrirmi pulitamente la grazia, se voleva dire chi mi aveva mandato e perchè era venuto; ma a queste indiscretissime domande rispondeva abbastanza l’atto di morte di mio padre datato da Molfetta, e [p. 406 modifica]trovatomi indosso. Risposi adunque che non per altro che per questo era venuto; e che essendomi soffermato a salutare il general Pepe, il mio cattivo destino m’avea tirato addosso quel brutto accidente. Fu dunque come non si fosse parlato; ma io colsi la buona occasione per pregare quei compiti signori di voler mandare alla mia famiglia quell’atto di morte nonchè il mio, perchè fossero tolti se non altro, a loro vantaggio gli scrupoli un po’ spilorci della Porta Ottomana.

Quei signori sogghignarono a questo discorso, immaginandosi forse ch’io lo avessi fatto per darmi a diveder pazzo; ma io soggiunsi col miglior sorriso del mondo, che facessero l’onore di credere al mio miglior senno, e che tornava a pregarli di quella cortesia. Dettai anzi ad uno di essi l’indirizzo di Spiro Apostulos a Venezia, e dell’Aquilina Provedoni Altoviti a Cordovado nel Friuli. Dal che essi furono persuasi che non celiava e mi promisero che sarebbe fatto secondo la mia volontà. Dimandai anche quando io sarei uscito di prigione per la cerimonia, giacchè marciva là dentro da tre mesi, e mi pareva un onesto mercato quello di pagar colla vita una boccata d’aria libera. Saputo poi che l’esecuzione era stabilita pel terzo giorno e che sarebbe avvenuta nelle fosse del castello, me ne imbronciai alquanto. Dover morire essendo a Napoli, e senza poterlo rivedere! Confessate che la era un po’ dura.

Tuttavia, partiti ch’essi furono, mi racconsolai del mio meglio. Dissi fra me e me che quegli ultimi giorni non doveva perderli in frivolezze e in vani desideri, e che il meglio si era prender la morte sul grave, e dare un esempio di grandezza d’animo almeno ai carnefici. I buoni esempi parlano colle bocche di tutti, e giovano sempre; e il boia fece sovente maggior danno col parlar poi, che non avea recato vantaggio coll’impiccare.

[p. 407 modifica]Il giorno appresso dopo aver dormito, lo confesso, con qualche inquietudine, udii venire pel corritoio alcuni passi che non erano nè di guardie nè di carcerieri. Quando apersero dunque la porta mi aspettava il confessore, o qualche cameriere del boia che venisse a tondermi il capo o a misurarmi in collo. Niente di tutto ciò. Entrarono tre figure lunghe lunghe, nere nere, l’una delle quali trasse di sotto al braccio una carta, la spiegò lentamente, e cominciò a leggere con voce tronfia e nasale. Mi pareva udire Fulgenzio quando recitava l’epistola, e questa reminiscenza non mi diede piacere alcuno. Tuttavia era tanto persuaso di dover morire l’indomani, tanto occupato di osservare quei tre scuriscioni, che non mi curai di dar retta a quanto leggevano. Mi fermò solamente l’attenzione la parola grazia.

— Cosa? — diss’io sguizzando tutto.

«Così si commuta la pena di morte in quella dei lavori forzati in vita da subirsi nella galera di Ponza» continuava il nasaccio parlatore del signor cancelliere.

Allora capii di che si trattava, e non so se me ne consolassi, perocchè tra la morte e la galera ci vidi sempre pochissima differenza. I giorni appresso poi ebbi campo a convincermi che se ci aveva qualche vantaggio, era forse dal lato della forca. Nell’isola di Ponza, e precisamente nell’ergastolo ove fu confinato il libero arbitrio della mia umana libertà, non si può dire che abbondassero i commodi della vita. Uno stanzone lungo e stretto guernito di tavolate di legno per coricarsi, acqua e zuppa di fagiuoli, compagnia numerosissima di ladri napoletani e di briganti calabresi; per soprammercato legioni d’insetti d’ogni stirpe e qualità, che le maggiori non ne ebbe addosso Giobbe quando giaceva sul letamaio. Fosse effetto di chi ci mangiava addosso o degli scarsi e pitagorici alimenti, fatto sta che si pativa la fame; i guardiani dicevano che l’aria di [p. 408 modifica]Ponza ingrassa, io trovai che i fagiuoli mi smagrivano, e guai se fossi stato colà più di un mese. Non so come abbia fatto la figlia o la nipote d’Augusto a durarci dieci anni; probabilmente si cibava di qualche cosa di più succolento oltre la fagiuolata. Fortuna, come dissi, che ci rimasi non più di un mese; ma mi mandarono a Gaeta, ove se ebbi miglior compagnia e se fui meglio pasciuto, cominciai invece a patire nella vista.

Aveva per me solo un gabbiotto tutto bianco di calcina che guardava il mare; e di là il sole splendente in cielo e riflesso dalle acque mandava entro un cotal riverbero che si perdevano gli occhi. Feci istanze sopra istanze: tutto inutile. Forse che ritenevano lecito di privar degli occhi un uomo cui si avea regalato la vita: ma non capisco allora perchè non si fossero riserbati un cotal privilegio nell’atto di grazia. In tre mesi diventai quasi cieco: vedeva le cose azzurre, verdi, rosse, non mai del color naturale; perdeva ogni giorno più il criterio delle proporzioni; alle volte il mio camerotto mi sembrava una sala sconfinata, e la mia mano la zampa d’un elefante. I carcerieri poi mi sembravano addirittura rinoceronti.

Il quarto mese cominciai a vedere quel mio pezzetto di mondo traverso una nebbia; al quinto principiò a calare un gran buio, e dei colori che vedeva prima non era rimasto che un rosso cupo, una tintura mista di polvere e di sangue. Allora capitò un ordine di trasferirmi a Napoli nel Castel Sant’Elmo, e mi tornarono innanzi i due soliti cancellieri a leggere la solita tiritera. Era graziato del resto della pena! Pazienza! Se non avrei più veduto il mondo del colore che veramente era, lo avrei almeno passeggiato e fiutato a mio grado!... Avrei riveduto il mio paese, i miei figliuoli, la moglie.... Adagio con queste grandiosità!... Mi si graziava sì, ma relegandomi fuori d’Italia; e potete credere che cacciato di lì, nè Francia nè Spagna [p. 409 modifica]sarebbero state disposte ad aprirmi le braccia. Quale specie di grazia fosse quella che mandava un povero cieco a cercar la limosina, Dio vel saprebbe dire. Peraltro ebbi il conforto di sapere che la grazia m’era venuta per intercessione della principessa Santacroce, e che con lei mi era concesso di abboccarmi prima di salpare dal porto di Napoli.

La signora principessa doveva essere invecchiata d’assai, ma aveva quel fare di bontà che è la perpetua giovinezza della donna. Mi accolse benissimo; e poichè non poteva vederla, io avrei giurato che l’aveva trent’anni come al tempo della Partenopea. Ella mi disse di essersi molto adoperata per me, sia nel farmi graziare della vita, sia nell’ottenere la mia liberazione; ma che non avea potuto riescir prima. Inoltre confessava che un’altra persona v’era alla quale più che a lei era certo obbligato; e che quella persona io la conosceva assaissimo, ma che prima di consentire a farsi riconoscere da me, voleva esser sicura dello stato di mia salute, e se veramente era così infermo degli occhi come dicevano. Non so chi credetti che fosse quell’incognita e pietosa persona, ma era impaziente di vederla quel tanto che poteva.

— Signora principessa, — sclamai — pur troppo la luce più limpida degli occhi miei l’ho lasciata a Capua; e sono omai condannato a vivere in un perpetuo crepuscolo!... Le fattezze delle persone che amo mi sono nascoste per sempre, e soltanto coll’immaginazione posso bearmi delle serene ed amabili vostre sembianze! —

M’accorsi che la principessa sorrise mestamente, come di chi credesse guadagnare a non esser veduto.

— Quand’è così, soggiunse ella aprendo un uscio che dava in un gabinetto, venite pure, signora Pisana, che il signor Carlo ha proprio bisogno di voi. —

Per quanto il cuore me lo avesse detto, credo che in [p. 410 modifica]quel punto fui per impazzire. La Pisana era il mio buon angelo; io la trovava dappertutto dove il destino sembrava avermi abbandonato nei maggiori pericoli; vincitrice in mio favore dello stesso destino. Ella si precipitò di furia fra le mie braccia, ma si ritrasse nel momento che io le chiudeva per istringermela al cuore. Mi prese poi le mani e si accontentò di porgermi la guancia a baciare. In quel punto dimenticai tutto; l’anima non visse che di quel bacio.

— Carlo, — cominciò ella a dirmi allora con voce interrotta dalla commozione, — sono venuta a Napoli or sono sette mesi, con licenza, anzi dietro invito di vostra moglie. La signora Principessa aveva scritto in gran premura a Venezia se un tal Carlo Altoviti, che stava accusato di alto tradimento in Castel Sant’Elmo, fosse quello stesso da lei vent’anni prima conosciuto. Ne scrisse a me non conoscendo altri vostri parenti. Figuratevi come ci sentimmo a questa novella, io che da tre mesi aspettava indarno vostri scritti e pur troppo vi temeva involto o per volontà o per caso nella rivoluzione napoletana!... Avrei voluto partir subito, ma le convenienze mi trattennero. Mi apersi dunque con vostro cognato, esponendogli che col mezzo di una potente protettrice io poteva a Napoli tentar molto per voi. Egli avrebbe voluto accompagnarmi, ma sua moglie, vostra sorella era aggravata del suo male, e gli fu forza restare. Mi fornì dei denari pel viaggio, chè già sapete come noi fossimo sempre al verde, ma prima di partire io pretesi da lui un altro servigio; volli che vedesse vostra moglie, che le raccontasse il tutto e che da lei mi venisse il permesso di adoperarmi per voi. L’Aquilina, poveretta, fu disperata di una tanta sciagura; ma che farci, mio Dio!... Colla miseria intorno, con due figliuoli garzonetti, col fratello quasi impotente, ella voleva tuttavia abbandonar tutto, e venir a soffrire, e morire con voi. Vostro cognato la dissuase mostrandole che il viaggio di lei non vi recherebbe [p. 411 modifica]nessun vantaggio, e molti invece la sua fermata pel vantaggio dei figli. Ella si rassegnò e fu beatissima di sapere come io m’esibiva a tentar ogni via di salvarvi, e mi confidava molto pei validi patrocinii che aveva. Venni qui, e ogni vostra grazia la dovete alla graziosa intercessione della signora principessa; ma perchè Iddio ha voluto affliggervi d’un’altra sventura che non è in poter suo di alleggerirvi, eccomi qui io, che mi tengo superba della confidenza in me riposta da vostra moglie, e che vi sarò amica, guida se mi compatirete, e in ogni caso poi infermiere!

— Pisana, voi siete troppo modesta — prese allora a dire la principessa — le vostre intercessioni hanno potuto a Napoli tanto e quanto le mie. Se io ho piegato le volontà, voi avete saputo convincere i cuori.

— Oh, tutte due voi siete le mie migliori benefattrici! — io sclamai. — La mia vita non avrà spazio bastante per provarvi, se non altro a parole, la mia riconoscenza.

— Ci sono di troppo le cerimonie, — soggiunse la principessa. — Ora attendiamo a qualche cosa di più utile. Domani dovete partire per un lungo viaggio, e vi sarà necessario pensarvi a tempo onde nulla vi manchi. —

Infatti quell’ottima signora, benchè la sua fortuna non fosse molto splendida, m’avea preparato un baule pieno di quanto poteva abbisognarmi; nè a me rimase nulla a desiderare, eccettochè un modo qualunque per provarle la mia gratitudine. Ella si era adoperata molto in quel frattempo anche pei figliuoli del povero Martelli, dacchè la vedova era morta non molti anni dopo l’eroico sacrifizio del marito. Ambidue avevano ricevuto ottima educazione; uno era già ingegnere molto stimato e l’altro navigava come sotto–capitano d’un bastimento mercantile.

Prima di partire ebbi la consolazione di conoscer il primo e di ravvisare in lui il ritratto vivente del padre. Era stato anche lui involto negli ultimi rivolgimenti e [p. 412 modifica]assoggettato ad un processo, ma aveva potuto liberarsene, e la stima del paese gliene era anzi accresciuta di molto, per la mirabile fermezza da lui in ogni incontro dimostrata. Il giorno appresso abbandonai con dispiacere quelle incantevoli spiagge di Napoli, che pur m’erano state fatali due volte; non le potei salutare cogli occhi, ma il cuore armonizzò co’ suoi palpiti l’inno mestissimo della partenza. Sapeva di non doverle più rivedere, e se io non moriva per loro, esse restavano come morte per me.

Il mese appresso eravamo a Londra. Era il solo paese ove per allora mi fosse concesso di abitare; ma le condizioni nostre erano tali che là più che altrove ci sforzavano a penose privazioni. Il gran costo del vitto, la carezza delle pigioni, la mia malattia d’occhi che peggiorava sempre, la povertà alla quale ci accostavamo sempre più senza speranza di uscirne per alcun modo; tutto concorreva ad angustiarci pel presente ed a farci temere un futuro ancor più disastroso. La Pisana, poveretta, non era nè più nè meno d’una suora di carità. Lavorava per me notte e giorno e studiava l’inglese proponendosi di dare in seguito lezioni d’italiano e così provvedere al mio mantenimento. Ma intanto si spendeva troppo più che non si guadagnasse e in onta a medici ed a cure io era ridotto cieco affatto. Allora appunto, quando aspettavamo da Venezia un qualche soccorso, ci scrisse l’Aglaura che pochissimo poteva mandarci, perchè Spiro coi due figliuoli ed ogni sua ricchezza avea fatto vela per la Grecia al primo grido di ribellione levato dai Mainotti. Ella stessa avea creduto suo debito d’incuorarli a ciò; soltanto per la cagionevole salute non avea potuto seguirli ed era rimasta a Venezia contenta, nelle sue strettezze e ne’ suoi dolori di pensare, che erano tutti sacrifizi utili e dovuti alla santa causa d’un gran popolo oppresso.

Così io mi compiacqui con lei e col cognato di tanta [p. 413 modifica]magnanimità ma scomparve l’ultima lusinga di ottenere qualche elemosina da quella banda. Quanto al credito colla Porta, non se ne parlava nemmeno, allora che Spiro le avea rotto guerra co’ suoi compatrioti. Rimaneva di rivolgersi a Cordovado; ma colà voleva la delicatezza che fossimo più bugiardi per nascondere, che sinceri per descrivere i nostri bisogni. L’Aquilina e Bruto si sarebbero cavati il sangue dalle vene per aiutar noi; ma per impedir appunto la rovina di loro e de’ miei figli avevamo preso l’usanza di non raccontar loro altro che buona venture. Così della nostra estrema strettezza e della mia cecità sapevano nulla; e per coonestare l’assenza della Pisana e il mio carattere tanto infame quanto può esserlo quello d’un cieco che si sforza di scrivere, dava loro ad intender che io era occupatissimo, ed ella occupata molto utilmente presso una grande famiglia in qualità di aja, nè premurosa di tornare perchè sapeva essere più di peso che di vantaggio al marito, dopo l’assistenza prestatagli dalla Clara.

Intanto ella studiava tutti i mezzi per trarre qualche utile dal proprio lavoro; e sebbene sulle prime non avesse voluto stabilirsi nell’istessa casa con me, col crescer poi dell’infermità e del bisogno vi si era indotta. Vivevamo come fratelli, immemori affatto di quel tempo nel quale vincoli più soavi ci stringevano; e se io sbadatamente lo richiamava, tosto era sollecita la Pisana o a volger la cosa in burla o a stornar il discorso.

Pur troppo ogni nostra lusinga era susseguita, si può dire, d’un disinganno. La Pisana con prodigiosa prestezza aveva imparato l’inglese, e lo parlava abbastanza correttamente; ma le aspettate lezioni non venivano punto, e per brigare ch’ella facesse non aveva trovato che i figliuoli di qualche gramo mercantuccio, cui insegnare l’italiano o il francese. Cercò allora aiutarsi col lavoro dei merli, nei quali le donzelle veneziane erano al tempo andato maestre; ma [p. 414 modifica]benchè ci guadagnasse discretamente in questa industria, la fatica era tanta che non poteva durarvi a lungo. Io mi perdeva le lunghe ore a ringraziarla di quanto la faceva per me, e non credo aver sofferto mai maggior tormento di allora, nell’accettare sacrifizii che costavano tanto per la conservazione d’una vita così inconcludente come la mia. La Pisana rideva delle mie grandi parlate di devozione e di riconoscenza, e attendeva a persuadermi che quanto a me pareva le costasse molto, non le dava infatti che pochissimo fastidio. Ma dal suono della voce, dalla magrezza della mano che qualche volta le stringeva, io m’era ben accorto che i disagii e il lavoro la consumavano. Io invece m’impinguava proprio come un cavallo tenuto sempre in istalla; e questo non era l’ultimo dei miei dispiaceri; temeva di esser creduto poco sensibile a tante prove di eroica amicizia che mi venivano date.

— Amicizia, amicizia! — ci filava molto dietro questa parola, come diciamo noi Veneziani; e mi pareva impossibile che la Pisana fosse capace di stare fra i limiti di questo moderato sentimento. Non so se temessi, o mi lusingassi qualche volta che la memoria, se non altro, del passato ci avesse un gran merito nei sacrifizii d’allora. Ma ella mi scherniva tanto piacevolmente quando cadeva in qualche lontana allusione a ciò, che mi vergognava de’ miei sospetti come nati da troppa mia superbia, o da scarsa fiducia nell’eroismo disinteressato di quella prodigiosa creatura. D’altronde, a dissuadermi da quell’opinione sarebbero bastati i continui e caldi discorsi ch’ella era sempre la prima ad intavolare sull’Aquilina, sui miei figli, e sulla felicità che avrei gustato quandocchesia fra le loro braccia. Pareva che la Pisana d’una volta dovesse essere morta, e seppellita per me. Così passavano i mesi senza differenza per me di giorno e di notte: avea perduto affatto la speranza di racquistare la vista; non mi moveva mai [p. 415 modifica]dalla stanza se non la domenica per passeggiare un poco a braccio della Pisana. Costei si affaticava sempre oltre ogni misura, per quanto volesse darmi ad intendere il contrario; e sovente stava assente le intiere mattine, a volerle credere, per darsi bel tempo o per correre da casa a casa alle numerose lezioni che diceva avere. In fatto io mi figurava che avesse preso lavoro in qualche negozio; nè mi sarei mai immaginato quello che scopersi in seguito.

— Pisana, — le domandava talvolta — per cosa oggi che è domenica, non ti metti il vestito di seta? (lo conosceva al fruscìo).

Mi rispondeva di averlo dato ad accomodare; io sapeva che se n’era privata per far denaro, e me lo avea confessato una vicina che l’aveva ajutata a smerciarlo.

Un altro giorno era lo sciallo che le mancava; e me ne accorgeva, perchè, essendo freddo, la sentiva battere i denti. Mi assicurava di averlo indosso e mi facea palpare una lana ch’ella diceva essere lo sciallo. Ma io conosceva per antica pratica il molle tessuto di quel cascemire, e non m’ingannava col mettermi in mano una pellegrina di merinos o di signorea. Lo sciallo avea fatto l’egual viaggio del vestito di seta. Alle volte mi consolava di esser cieco per non soffrire lo spettacolo di tante miserie, dimenticando che quella disgrazia ne era certo la prima cagione. Poco stante mi disperava conoscendomi tanto impotente da dover essere debitore del vitto alla pietà miracolosa d’una donna.

L’Aquilina, in onta alle nostre proteste di agiatezza, mandava quanto più denaro poteva; ma erano gocce d’acqua, in un gran vaso pieno di bisogni. Ancora, ella scriveva che metteva qualche cosa da parte ogni giorno per venirmi a trovare, e che molto si era adoperata a Venezia per ottenermi la grazia di rimpatriare. Io crollava la testa, perchè omai la speranza mi era uscita affatto dal cuore: ma la [p. 416 modifica]Pisana mi dava sulla voce, sclamando che era uno sciocco a scoraggiarmi a quel modo, e che eravamo abbastanza fortunati, di camparla onestamente senza tante fatiche. Solamente talvolta nello sgridarmi di quella mia prostrazione d’animo, ella punzecchiava alquanto col suo umorino bizzarro e maligno di altri tempi. Ma non passava un minuto che si rifaceva buona e paziente, quasichè o il suo temperamento si fosse cambiato del tutto, o avesse preso a dipendere dalla volontà e dalla ragione. Insomma, vi saranno figli che costano molto alle madri, e amanti che deggiono assai alle amanti, e mariti che ebbero dalle spose le più grandi prove d’affetto, ma un uomo che riconosca da una donna maggiori beneficii che io dalla Pisana, non è, credo, sì facile trovarlo. Nè madre, nè amante, nè sposa, potea fare di più per l’oggetto dell’amor suo. Se poi la sua condotta fosse giudicata anche a mio riguardo molto balzana e irregolata, e le fosse data taccia di pazza, come da taluno de’ suoi conoscenti di Venezia, appunto per la magnanima spensieratezza di tanti sacrifizii, io benedirei allora la pazzia e vorrei abbattere l’altare della sapienza per innalzarne un altro ad essa, mille volte più santo e meritato.

Ma pur troppo, essendo stabilito che i pochi debbano esser pazzi, e i savi i più, al tempo che corre vanno rinchiusi all’ospedale coloro che pensano prima alla generosità, indi alla regolarità e all’interesse delle loro azioni. Se il cervello rispondesse meglio ai palpiti del cuore, e le braccia rispondessero ubbidienti più a questo che a quello, credete voi che tutto si avrebbe a rifare?... Oh no! la nostra storia si sarebbe chiusa con un magnifico fine; e saremmo ora occupati, tutt’al più, in qualche gloriosa appendice. Pur troppo bisognerà cambiar strada; e il rinnovamento nazionale appoggiarlo necessariamente ad un concorso tale di interessi, che lo dimostrino un ottimo capitale, con [p. 417 modifica]grassi e sicuri dividendi. Questo pure non è possibile; ma qual differenza coi sublimi e generosi slanci d’una volta!...

Un povero cieco, e una donna avvezza fin’allora a tutti i commodi dell’oziosa nobiltà veneziana, v’immaginerete dunque come potessero vivere, in quel gran turbine soffocante e affaccendato che è Londra. I profughi politici non godevano d’un certo favore, nè la moda ne avea fatto una specie curiosissima di bestie da serraglio. Ci facevano pagare perfin l’acqua che si beveva, e meno gli scarsi aiuti mandatici da casa, la Pisana a tutto dovea provvedere. Ma cosa son mai a Londra tre in quattrocento ducati, che mi potevano capitare in un anno da Venezia, e da Cordovado!... Miserie! massime poi colla mia infermità che la Pisana voleva curare sempre, e coi consulti dei medici più riputati; benchè io, sfidato d’ogni soccorso dell’arte, ne la rimproverassi come d’un lusso affatto inutile.

Le sue assenze da casa si facevano sempre più frequenti e lunghe; il mio umore diventava tetro e sospettoso; ella, poveretta, per correggermi montava in collera, e allora cominciavano gli alterchi e le dissensioni. Toccava a me, è vero, l’arrendermi e il tacere, come debitore di tutto che le era; ma alle volte mi pareva aver diritto a qualche maggior grado di confidenza, e sapete che quella appunto che vien negata, sembra essere la cosa unicamente desiderabile. Allora m’incaponiva di volerla spuntare; ella imbizzarriva dal suo lato, e non sempre questi diverbi finivano all’amichevole. Sovente ella partiva dalla camera pestando i piedi e brontolando della mia diffidenza: mai una volta ch’ella mi tacciasse perciò di cattiveria o d’ingratitudine. E sì che le ne diedi sovente l’occasione. Intanto io aveva campo di fare l’esame di coscienza, di ravvedermi e di prepararmi, calmo e pentito per quando la sarebbe tornata.

— Carlo, — mi diceva ella — ti sei rifatto buono?... [p. 418 modifica]Allora rimango: se no esco ancora, e tornerò più tardi. Non posso soffrire che tu dubiti di me: e credi che quello che non ti dico gli è proprio che non debbo dirtelo, perchè non è vero. —

Io fingeva di crederle, e di non annettere più importanza a quella parte della sua vita che mi celava con tanto mistero; ma l’immaginazione lavorava, e soventi anche non andai lontano dalla verità. Giustizia di Dio! Come raccapricciai solamente al pensarlo!... Ma in certe idee non mi fermava, perchè non ne aveva alcun diritto; e faceva anzi il possibile di persuadermi che nulla essa mi nascondesse, e che le lezioni le rubassero tutto quel tempo che rimaneva fuori di casa. Tuttavia a poco a poco, ella non ebbe più il coraggio di dirmi che la stava benissimo, e che non invidiava gli anni più floridi di sua gioventù; io la sentiva ansare faticosamente dopo aver fatto le scale, tossire sovente, e qualche volta anche sospirava a sua insaputa con tanta forza, che la compassione mi squarciava le viscere.

Principiando il secondo anno del nostro esiglio, ammalò gravemente; quali fossero allora i tormenti, la disperazione del povero cieco, non potrei certo descriverli, poichè ancora mi meraviglio di esserne uscito vivo. Di più mi toccava soffocar tutto per non crescerle affanno colle mie smanie, ma ella veniva incontro a’ miei nascosti dolori, coi più delicati conforti che si potessero immaginare. Si sentiva morire, e parlava di convalescenza; aveva il fuoco d’una febbre micidiale nelle vene, e compativa al mio male, come il suo non fosse nemmen degno che se ne parlasse. Divisava sempre di uscire la settimana ventura; pensava quali creditucci aveva nel tale e nel tal luogo per far fronte alle maggiori spese e ai mancati proventi di quel frattempo, si studiava insomma di farmi dimenticare la sua malattia, o persuadermi che credeva ad un vicinissimo miglioramento. [p. 419 modifica]Io passava, cionullameno, le notti ed i giorni al suo capezzale, tastandole ogni poco il polso, e interrogando con intento orecchio il suo respiro greve ed affaticato.

Oh quanto avrei pagato io un barlume di luce, per intravvedere le sue sembianze, per capacitarmi di quello che doveva credere alle sue parole pietosamente bugiarde! Con quanto sgomento non seguiva io il medico fin sul pianerottolo, pregandolo e scongiurandolo che mi dicesse la verità! Ma più d’una volta sospettai che ella ci venisse dietro appunto per impedire al medico che disubbidisse alla sua raccomandazione, e tutto mi dichiarasse il pericolo del suo stato!!... Quando poi io non voleva ad ogni costo acchetarmi alle sue proteste, ell’aveva ancora il coraggio di adirarsi, di pretendere che le credessi per forza, e che non mi martoriassi con paure immaginarie. Oh ma io non restava ingannato da queste frodi!... Il cuore mi ammoniva della sciagura che ci minacciava, e le pozioni che il medico ordinava, non erano tali che si convenissero ad un lieve incommodo passeggiero. Eravamo allo stremo d’ogni cosa, mi convenne vendere le biancherie, i vestiti; avrei venduto me stesso per procurarle un momentaneo sollievo.

Dio finalmente ebbe compassione di lei e delle mie orribili angosce. Il malore fu domato se non vinto; l’ardore febbrile si rallentò nel suo corpo estenuato; riebbe a poco a poco le forze. Si alzò dal letto, volle subito licenziar la fantesca, per risparmiare la spesa, e accudir lei alle faccende di casa; io me le opposi quanto seppi, ma la volontà della Pisana era irremovibile; nè malattie, nè disgrazie, nè persuasioni, nè comandi, valsero mai a piegarla. I primi giorni che uscì di casa non mi lasciai vincere neppur io, e volli accompagnarla: ma ella se ne stizziva tanto, che mi convenne anco di questo accontentarla, e lasciare ch’ella uscisse sola.

— Ma, Pisana, — le andava io dicendo — non vuoi dare [p. 420 modifica]ad intendere che devi raccogliere, qua e là, qualche piccolo credito delle tue lezioni? Andiamo dunque, io ti accompagnerò dove vorrai.

— Bella guida — mi rispondeva celiando — bella guida, quella d’un cieco! Davvero che io ho tutta la voglia di doventar ridicola mostrandomi per le case a questo modo!... E poi chi sa cosa andrebbero a pensare!... No, no, Carlo, gli Inglesi sono scrupolosi: te lo dico, e te lo ripeto, che non mi farò vedere che sola.

Adunque pur brontolando, e per nulla persuaso della verità di quanto mi diceva, io dovetti lasciarla fare a suo talento. Ricominciò daccapo colle sue lunghe assenze, durante le quali io stava sempre col cuore sospeso, e dubitando di non vederla tornare mai più. Infatti alle volte tornava a casa tanto esausta di forze, che per quanto si sforzasse non giungeva a nascondermi il suo sfinimento. Io ne la rimproverava dolcemente, ma poi mi convenne tacere affatto, perchè ogni più lieve rimbrotto le dava tanta stizza, che per poco non l’assalivano le convulsioni. Non credo che fosse possibile immaginare miseria maggior della mia.

Londra, voi lo sapete, è grande; ma le montagne stanno e gli uomini girando s’incontrano. Così dunque avvenne che la Pisana s’incontrò una mattina nel dottor Lucilio, il quale io supponeva sì che fosse a Londra, ma non avea voluto rivolgermi a lui, per la freddezza dimostratami tanto ingiustamente per l’addietro. S’incontrò adunque colla Pisana; costei gli raccontò le mie vicende e le sue, e la cagione per la quale allora eravamo a Londra, sprovvisti di tutto. Sembra che la mia posizione lo persuadesse della falsità di quelle accuse, ch’egli in altri tempi avea ritenute vere a mio discapito. Infatti mi venne a trovare, e mi dimostrò tanta amicizia, quanta forse mai non me ne aveva mostrata. Era un bel modo di chieder [p. 421 modifica]perdono della lunga ingiustizia; nè di più io poteva pretendere dall’indole orgogliosa di Lucilio. Bensì mi riconfortai assaissimo di quell’incontro, e lo presi per una promessa della Provvidenza, che le sorti nostre avessero a cambiare in meglio. Non ebbi che a convincermi sempre di più di questa felice persuasione, per la bella piega che parvero prendere allora tutto d’un tratto le cose nostre.

Prima di tutto, Lucilio esaminò attentamente i miei occhi, e dettomi che erano coperti da caterratte, e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l’operazione, della quale non dubitava punto che sarebbe riuscita a meraviglia, mi si rimise l’anima in corpo. Oh il gran dono è la luce! Non l’apprezza mai degnamente che chi l’ha perduta. Indi il dottore mi chiese notizia di me, della mia famiglia, e come stavano le cose, e chiarito di tutto, mi diede lusinga che egli avrebbe fatto venire in Inghilterra l’Aquilina e i figliuoli miei, dove avrebbe pensato a stabilirmi in modo, che fossero piuttosto utili pel futuro che costosi al presente. Egli aveva una gran clientela di lordi e di principi dei quali governava a suo grado l’influenza; e le rimostranze che si erano udite al Parlamento per le deliberazioni del Congresso di Verona furono, credo, inspirate da lui.

Io voleva ritrarmi, per le grandi spese che a ciò si dovevano incontrare, e per le quali certamente la mia borsa era tutt’altro che preparata; e più, debbo confessarvelo, aveva quasi vergogna di manifestare questa gran premura di avere presso di me la mia famiglia, parendomi quasi far onta alla devozione unica e generosa della Pisana. Rimasti soli un momento, soffiai questo mio scrupolo al dottore.

— No, no, — mi rispose egli mestamente; — gente di casa vi sarà necessaria; credete che ne proverrà gran bene anche alla contessa Pisana. —

Io voleva che mi chiarisse meglio questo enigma, ma [p. 422 modifica]egli se ne schivò soggiungendo, che certo la cura d’un cieco doveva pesare assai ad una signora avvezza alle delicature veneziane, e che l’aiuto d’un’altra donna l’avrebbe alleggerita di molto.

— Ditemi la verità, Lucilio — soggiunsi io — la salute della Pisana non c’entra per nulla in queste vostre considerazioni?

— C’entra sì... perchè potrebbe guastarsi.

— Dunque, adesso che parliamo, la trovate buona?

— Mio Dio, si può mai dire quando la salute sia buona o cattiva? La natura ha i suoi segreti e non è dato neppur ai medici indovinarli. Vedete, io son invecchiato nella professione, eppure anche ieri mattina lasciai un malato che mi sembrava in via di miglioramento, e a sera lo trovai morto. Sono schiaffi che la natura regala a chi vuol conoscerla troppo addentro, e violare la sua misteriosa verginità. Credetelo, Carlo, la scienza è proprio vergine ancora, finora non l’abbiamo che carezzata sulle guance!

— Oh non credete neppur nella scienza! Ma in cosa credete dunque?

— Credo nel futuro della scienza, se almeno qualche cometa, o il raffreddamento della corteccia terrestre non verrà a guastare l’opera dei secoli. Credo all’entusiasmo dell'animo che irrompendo quandocchesia nella vita sociale, anticiperà di qualche millennio il trionfo della scienza, come il matematico calcolatore è prevenuto, nelle sue scoperte, dalle audaci ipotesi del poeta!

— E perciò, Lucilio, seguitate il sogno della vostra gioventù, e credete rinfocolare questo immenso entusiasmo colle mene segrete, e colle oscure macchinazioni!!...

— No, non censurate almeno beffardamente quello che non capite. Io non corro dietro a un fantasma; accontento un bisogno. Carlo, le mene non sono sempre segrete, nè le macchinazioni oscure!... Toccate questa cicatrice!!... — [p. 423 modifica]e si scoperse il petto vicino alla gola — questa la toccai or è l’anno combattendo! Fu inutile; ma la ferita mi rimase.

— E guardate questa che m’ebbi a Rieti, — risposi io, rimboccandomi la manica, e mostrando il braccio.

Lucilio mi buttò le braccia al collo con una effusione, che non mi sarei mai aspettato da lui.

— Oh benedette queste anime, — diss’egli — che veggono il vero, e lo seguono, benchè non ve le spinga una forza irresistibile!! Benedetti gli uomini pei quali il sacrifizio non ha voluttà, eppure vi si offrono egualmente, vittime volontarie e generose! Sono i veri grandi.

— Non adulatemi, — soggiunsi; — io andai a Napoli, si può dire, per amor proprio, e avrei anzi un mezzo rimorso, di aver sacrificato al mio orgogliuzzo l’interesse della mia famiglia.

— No, ve lo giuro io, non avete sacrificato nulla. La vostra famiglia vi raggiungerà qui. Voi rivedrete la bella luce del giorno e le desiderate sembianze dei vostri cari. Gli è vero che il sole di Londra non è quello di Venezia; ma la melanconia delle sue tinte s’accorda perfettamente alle pupille lagrimose dell’esule.

— Mi date anche speranza che la Pisana sarà per allora perfettamente guarita?

— Perfettamente, — rispose con un fremito nella voce il dottore.

Io tremai tutto: che mi parve udire, che so io? una sentenza di morte; ma egli seguitò innanzi, parlandomi con tanta pacatezza della malattia della Pisana, e del corso che dovea tenere, e della cura più adattata, e dell’infallibile guarigione, che la memoria di quel funereo perfettamente mi uscì per allora del capo.

Il dottore si diede attorno assai per giovarci; d’allora in poi grazie a’ suoi spontanei soccorsi non mancammo più di nulla, ed io mi vergognava di vivere in quel modo [p. 424 modifica]d’elemosina, ma egli diceva alla Pisana, che avea dei doveri verso la sua futura cognata, e non voleva per oro al mondo cedere ad altri il diritto di esserle utile.

— Come? — gli diceva la Pisana — ancora v’incaponite nell’idea di sposar mia sorella? Ma non vedete, che l’è vecchia più ancora d’anima che di corpo, e per soprappiù, monaca dalle unghie ai capelli?...

— Sono incorreggibile, — rispondeva il dottore — quello ch’io ho tentato a vent’anni, e non son riescito, lo tentai a' trenta, a' quaranta, a' cinquanta, lo tenterò ai sessanta che sono molto vicini. La mia vita voglio che sia un tentativo, ma un forte ostinato tentativo: in tutto sono così, e beati gli altri se mi imitassero! Battendo si conficca il chiodo.

— Ma non si sconficca l’ostinazione d’una monaca.

— Bene; dunque non parliamone, di grazia: parliamo piuttosto della signora Aquilina, e dei due ragazzi che dovrebbero star poco ad arrivare. Ne aveste novelle sul loro viaggio?

— Ebbi jeri lettera da Bruxelles — mi intromisi a dir io. — Bruto li accompagna colla sua vecchia gamba di legno. In verità non so come ringraziarvi, d’una sì grossa spesa che vi siete addossata.

— Ringraziar me?... Ma non sapete che cento sterline non mi costano che la stesa d’una ricetta? Prolungo di due giornate la gotta aristocratica d’un nobile lord e guadagno di che far viaggiare l’Europa a tutti voi. Conoscete lord Byron il poeta?... Egli mi volle dare diecimila ghinee, se riesciva ad allungargli di un pollice la gamba diritta di cui zoppica. Benchè ci avessi qualche pretensione di riuscire, con un certo metodo scoperto da me, non avea allora bisogno di denaro, nè voleva perdere il mio tempo a stirare le gambe della Camera alta. Risi dunque sul muso al gran poeta, rispondendogli che avevano bisogno di me allo spedale.

[p. 425 modifica]— Ed egli?

— Ed egli si compiacque dell’epigramma, e se ne vendicò coll’addrizzarmi il più caro sonettino che sia mai stato scritto in inglese. Ve l’assicuro io, che sotto quell’anima tempestosa di Don Giovanni e di Manfredo, cova una pura fiamma che scoppierà un giorno o l’altro. Byron è troppo grande: oltrechè nei libri e nelle rime, deve finir poeta anche nella vita.

— Dio lo voglia! — sclamai — perchè la poesia è la realtà della felicità spirituale, la sola vera e completa.

— Ben detto — rispose Lucilio rimormorando le mie parole, ed io rigonfiava di tanto onore. — La poesia è la felicità reale dello spirito. Fuor d’essa vi sono godimenti, ma non contentezze!...

— Ed io, son dunque poetessa, perchè son contenta? — chiese con voce allegra ma fievole la Pisana.

— Voi siete Corinna! Voi siete Saffo! — sclamò Lucilio. — Ma non vi accontentate di balbettar odi o poemi e li create colle opere, e porgete alla sublimità poetica la loro più degna effigie, l’azione. Achille e Rinaldo prima d’esser poeti furono eroi.

La Pisana si mise a ridere, ma con tutta quell’ingenuità che esclude ogni sospetto di falsa modestia.

— Sono una Corinna molto pallida, una Saffo assai magra! — diss’ella ridendo ancora. — Mi sembra quasi esser diventata Inglese, che somiglio una cavalletta! ma ho guadagnato in idea aristocratica.

— Avete guadagnato in tutto, — soggiunse Lucilio, infervorandosi sempre più. — L’anima vostra trasparente dal pallore del viso, vi ringiovanisce e vi impedirà di diventar mai vecchia!... Chi giurasse che avete venticinqu’anni potrebbe esser creduto!...

— Sì, sì, ora che è morto il povero Piovano che m’ha battezzata! — Sapete ch’è una gran malinconia, il trovar [p. 426 modifica]la nostra vita sempre più cinta e ombrata da sepolcri! Ormai la prima fila è andata quasi tutta. In prima fila siam noi.

— Ma non tremeremo al fuoco, siatene certa. Nè voi, nè io, nè Carlo, abbiamo la smania di vivere. Abbiamo tre tempere differenti ma che s’accordano meravigliosamente in questo di esser ubbidienti e rassegnate alla natura. Bensì, la mia propria natura mi comanda di spender bene e di usare spietatamente la vita. Voglio proprio cavarne ogni succo, e far come dei vinacci, i quali, poichè ne fu spremuto il vino, si torchiano ancora per estrarne l’olio.

— E ne avrete guadagnato?

— Assai! d’aver fatto fruttificare ogni mio talento, e d’aver offerto un buon esempio a quelli che verranno.

Io approvai del capo, chè quella teoria del buon esempio mi avea sempre frullato entro come un ottimo negozio: e me ne fidava più che dei libri. La Pisana soggiunse, ch’ella per verità, in tutte le sue cose, non aveva mai pensato alla gloria di trovar imitatori, ma che si era data con tutta l’anima al sentimento che la trasportava.

— Almeno non avete dato altrui il vostro spirito da intisichirlo! — soggiunse mestamente Lucilio.

Io compiansi nel mio cuore quell’animo forte e tenace, che da quarant’anni covava una piaga; e non voleva saperne nè di guarigione nè d’obblio. Era l’orgoglio smisurato di chi vuol sentire il dolore, per mostrarsi capace di sopportarlo, e poterlo rinfacciare altrui come un tradimento o una viltà. Il medico riverito dai duchi e dai Pari di Londra non ripudiava il medichetto di Fossalta; non confessava di esser stato piccolo, ma pretendeva di esser sempre stato grande ad un modo, e la ferrea vecchiaja porgeva la mano alla bollente giovinezza per sollevarla alla ricompensa d’ogni dolore, alla forza incrollabile della coscienza sicura in se stessa.

In quei pochi giorni che precedettero l’arrivo dei [p. 427 modifica]nostri viaggiatori, la Pisana mi si mostrava più fredda che pel consueto; ma di tratto in tratto, le saltava qualche strano capriccio di tenerezza, e dopo si ostinava a provarmi con mille sgarberie, che era stato un mero capriccio, quasi una burla.

— Povero Carlo! — mi diceva ella talvolta. — Cosa sarebbe stato di te, se la compassione non mi persuadeva di farti un po’ di assistenza! Anche fu fortuna che la seccaggine di quel mio vecchio marito mi invogliasse di partire da Venezia; così ti ho procacciato qualche utile e tu avrai presto il bene di rabbracciare i tuoi cari. —

Ella non m’aveva parlato mai con tale crudezza; e dava ben pochi indizi di generosità, col noverarmi quasi la lista dei beneficii ch’io doveva unicamente alla sua compassione. Ne patii acerbamente, ma mi persuasi vieppiù, che nessuna traccia d’amore le era rimasta nell’anima; e che l’eroismo stesso della sua pietà era un capriccio, una vera bizzarria.

Finalmente potei stringere al seno i miei figli; baciare quelle loro guance fresche e rotonde, rinfrescarmi l’anima nei puri sentimenti di quei cuori giovanili. La buona Aquilina, che tanto amorevole quanto animosa madre s’era dimostrata nell’educarli, ebbe la sua parte delle mie carezze, e corrisposi con effusione agli amichevoli abbracciamenti di Bruto. Oh ma le loro sembianze non poteva vederle!... Allora per la prima volta ebbi entro un movimento di stolida rabbia contro il destino, e mi pareva che il fuoco della volontà dovesse bastare a raccendermi le pupille, tanto era intenso ed ardente. Lucilio mise un po’ di balsamo sulla piaga, assicurandomi che dopo un breve tempo avrebbe tentato l’operazione; e così riserbandomi per allora i piaceri della vista, mi diedi subito a godere di tutti gli altri che m’erano concessi dalla mia condizione infelice.

[p. 428 modifica]Furono, per tutto il resto di quel giorno e pel seguente continue inchieste, domande, commemorazioni di questa e di quella persona, delle cose più minute, dei fatti più fuggevoli e inconcludenti. Di Alfonso Frumier non sapevano nulla, di Agostino avevano detto a Venezia che era affamato di fettucce e di croci e ne aveva intorno un altarino: così pure gli abbondavano i figliuoli, ad uno dei quali assegnava pel futuro la carica di ministro, all’altro quella di generale, di patriarca, di papa. Sua Eccellenza Navagero stava al solito nè morto nè vivo; sempre colla Clara al capezzale, quand’ella non aveva da recitare le ore e le compiete: allora, morisse anche, non voleva saperne. Il vecchio Venchieredo era morto finalmente, ed avea lasciato a suo figlio una sostanza così imbrogliata, che non avea speranza di cavarsene con quella sua testa balzana e spensierata; bisbigliavano che Raimondo si potesse sposare colla primogenita di Alfonso Frumier, il quale peraltro stentava a largheggiar nella dote. Del resto le cose al solito; il paese indifferente, taluni svagati dai divertimenti, altri allettati dalle paghe; nessun commercio, nessuna vita. I processi politici avevano messo gran malumore nelle famiglie, senzachè la comune della gente se ne avvedesse; solamente questa seguitava a lamentarsi della coscrizione; ma son malanni tolti appoco appoco dall’abitudine, massime quando il farsi soldato vuol dire mangiare una buona minestra col lardo, e fumare degli ottimi sigari alle spese di chi si ciba di polenta, e non fuma altro che cogli occhi lagrimosi sotto la cappa del camino.

— E a Cordovado? — domandai io.

A Cordovado ci aveano più scarse novità che in ogni altro sito, se si eccettui la pazzia dello Spaccafumo che diceva esser assalito dagli spiriti, e li stornava sempre colla mano a destra e a sinistra. Questa preoccupazione lo menò poi a capitombolare nel Lemene, dove un bel mattino lo [p. 429 modifica]trovarono annegato. Ma si credette che i troppi bicchierini d’acquavite ingollati ne avessero per lo meno tanta colpa quanto gli spiriti. Così terminò un uomo, che sarebbe diventato un eroe se... Perdono! dopo questo se, bisognerebbe vi raccontassi tutti i perchè della nostra storia dal trecento in seguito. Val meglio troncar il periodo.

Il conte Rinaldo avea fatto atterrare un altro pezzo del castello di Fratta; e Luciano e la Bradamante aveano seppellito senza grandi lagrime il signor capitano, per le settecento lire di usufrutto che ne ereditarono.

— Appunto, si conserva bene Donato? — chiese la Pisana.

— Figuratevi, come un giovinotto; — rispose Bruto — non ha nè un capello grigio, nè una ruga sul viso. Non par nemmeno uno speziale.

— Oh gli era davvero il più bel giovane che si potesse vedere! — soggiunse l’altra. — A’ miei tempi gli ho voluto bene anch’io più che ad ogni altro.

Io troncai quel discorso perchè non mi piaceva, ed anche per chiedere più larghe informazioni intorno a mia sorella, la quale mi avevano annunciato esser partita per la Grecia a raggiungervi Spiro il marito, ma non m’avevano detto di più.

— A proposito di tua sorella; — soggiunse Bruto — non avesti una sua lettera ch’era per te a Venezia, e che noi ti abbiamo spedita di colà?

— Non l’ebbi — rispos’io; infatti non ne sapeva nulla.

— Allora la si sarà smarrita per via; — riprese Bruto — ma dal carattere e da chi la portava, che era un mercante greco, io l’avea giudicata ed era dell’Aglaura.

Un cotal incidente mi spiacque assaissimo; ma pochi giorni dopo quella lettera mi capitò un po’ guasta nel suggello e negli angoli. Non avrò il coraggio nè di darla a brani nè di spremerne il succo. Eccola tal quale.

[p. 430 modifica]«Carlo, fratel mio.

La Grecia mi voleva e m’ebbe finalmente; credetti appartenerle un tempo pel sangue de’ miei genitori; ma poichè non era vero, la natura mi rilegò a lei per mezzo del marito e dei figliuoli. Ecco ch’io ho diviso il mio cuore fra le due patrie più grandi e sventurate che uomo mai possa sortire nascendo. Nulla ti dirò della mia salute che vacillò piucchemai dopo la partenza di Spiro, e che si rimise allora soltanto quando pensai che rafforzata mi avrebbe servito a raggiungerlo. Appena dunque ho potuto m’imbarcai sopra una nave Idriotta e veleggiammo verso le sacre onde dell’Egeo. Mi pareva essere la suora di carità, che dopo aver assistito alle ultime ore d’un malato passa ad un altro capezzale, dove la chiamano dolori più vivi sì ma forse al pari micidiali. Sai che io non sono una donna molto debole e dovresti ricordartelo per prova; ma ti confesserò che ho pianto molto durante il tragitto. A Corfù s’imbarcarono parecchi italiani fuggiti da Napoli e dal Piemonte che si proponevano di versar per la Grecia il sangue che non avean potuto spargere per la propria patria. Io piangeva, ti dico, come una buona Veneziana; fu soltanto al toccare il suolo della Laconia che mi sentii ruggir nel cuore lo spirito delle antiche Spartane. Qui le donne sono le compagne degli uomini, non le ministre dei loro piaceri. La moglie e la sorella di Tzavellas precipitavano dalle rupi di Suli sassi e macigni sulle cervici dei Musulmani, cantando inni di trionfo. Alla bandiera di Costanza Zacarias accorrono le donne di Sparta, armate d’aste e di spade. Maurogenia di Mirone corre i mari con un vascello, solleva l’Eubea, e promette la mano di sposa a chi vendicherà sugli Ottomani il supplizio di suo padre. La moglie di Canaris a chi le disse che aveva per marito un prode, rispose: — Se non fosse, l’avrei sposato? — Così, o Carlo, le nazioni risorgono.

[p. 431 modifica]Giunta appena trovai mio figlio Demetrio, che tornava colle navi di Canaris dall’aver abbruciato a Tenedo la flotta turca. Colà le flotte cristiane d’Europa stavano contro di noi; la croce alleata della mezzaluna contro la croce! Dio disperda gli infedeli e i rinnegati prima di loro. Demetrio aveva abbrustolita una guancia e mezzo il petto dalla fiamma della pece; ma il mio cuore materno lo riconobbe; egli ebbe fra le mie braccia la ricompensa degli eroi, la gloria di veder insuperbire a diritto la madre. Spiro e Teodoro chiusi in Argo con Ipsilanti, attendevano a frenare il torrente dei Turchi mentre Colocotroni e Niceta tagliavano loro la ritirata alle spalle coll’insurrezione dei montanari.

Oh Carlo! fu un bel giorno quello in cui tutti quattro ci riabbracciammo là sulle soglie quasi del Peloponneso, libero affatto da’ suoi nemici. Si affortificava Missolungi, e Napoli di Romania era nostro. La marina aveva un porto, il governo una rocca, e la Grecia trionfa al pari della barbara tirannia di Costantinopoli, e delle venale inimicizia delle flotte cristiane. Omai qualunque nave porti ai Turchi armi, viveri, munizioni, sarà passata per le armi; la barbarie otterrà forse quello che non ottennero gloria, eroismo, sventura.

Qui ogni interesse privato scomparisce affatto, e si confonde al comune. Si possiede quello che non abbisogna alla patria, e lo si serba a lei pei bisogni della domane; si gode de’ suoi trionfi, si soffre de’ suoi dolori. Perciò non ti parlo in particolare di noi. Basterà dirti che ad onta delle fatiche io non peggioro nella salute e che Spiro guarisce delle ferite guadagnate sulle mura di Argo. Teodoro ha combattuto come un leone; tutti lo citano e lo additano per esempio; ma un’egida divina lo protesse e non ebbe la minima scalfittura. Quand’io passeggio per le strade d’Atene, ove abitiamo in questo momento di tregua, ed ho uno per parte i miei due figliuoli abbronzati dal sole del [p. 432 modifica]campo e dal fuoco delle battaglie, mi sembra che il secolo di Leonida non sia ancora passato. Spiro parla sovente di te anch’esso, e mi dice di pregarti che tu mandi in Grecia uno o ambidue i tuoi figli se vuoi farne degli uomini. Qui un ragazzo di sedici anni non è più giovinetto ma un nemico dei Turchi, che può avvicinarsi a nuoto ad un loro legno ed incendiarlo. Mandaci, mandaci il tuo Luciano, ed anche se vuoi Donato. Persuadi l’Aquilina che vivere senz’anima non è vivere; e che morire per una causa santa e sublime deve sembrare una sorte invidiabile alle madri cristiane. Ieri fu la seconda radunanza dei deputati della Grecia fra i cedri dell’Astros. Ipsilanti, Ulisse, Maurocordato, Colocotroni!... Son nomi d’eroi, che fanno dimenticare Milziade, Aristide, Cimone e gli altri antichi di cui la memoria rivive qui nelle opere dei pronipoti. Io lo ripeto, Carlo — bada a tua sorella che non può darti un consiglio snaturato. Mandaci i tuoi figli, e per essere buoni italiani converrà si facciano un pochettino Greci; e allora vedremo quello che non si vide finora. — Se sei ancora a Londra e se hai teco la Pisana, salutami lei e il D. Lucilio Vianello, che stimo ed amo per fama. Abbiamo qui un alfiere di vascello napoletano, Arrigo Martelli, che dice di averti conosciuto, e doverti assai fino dal tempo della rivoluzione francese. Egli pure si raccomanda che ti ricordi a lui, e di parteciparti che suo fratello è partito per l’America del Sud, ove si faceva grande richiesta di buoni ingegneri.

Addio, mio Carlo!... Bada a star forte nelle tue infermità, e se ti permettono un viaggio, vieni anche tu fra noi!... Oh che bel sogno!... Vieni, che sarai benedetto da tutti quelli che ti amano!...»

Io son fatto così. Dopochè Lucilio mi lesse quanto sopra, io feci chiamar Luciano, e gli porsi la lettera perchè la leggesse, e attesi intanto alle espressioni che si dipingevano sulla sua maschia ed aperta sembianza. Non era [p. 433 modifica]giunto ancora alla fine del foglio che mi si gettò fra le braccia esclamando: — Oh sì, padre mio, lasciami partire per la Grecia! —

D’una stretta di mano io ringraziai l’Aquilina, ch’essendo entrata in quel punto, mi si era seduta daccanto.

— Di che si tratta? — chiese ella.

Ed io le spiegai le profferte e gli inviti che ci venivano dalla Grecia.

— Se hanno vera vocazione, partano pure; — ella rispose facendo forza a se stessa; — bisogna correre ove si è chiamati, altrimenti non si fa nulla di bene.

— Grazie, mia Aquilina! — sclamai. — Tu sei la vera donna che ci abbisogna per rigenerarci! Quelle che non ti somigliano sono nate per strisciare nel fango. —

Udii una lieve pedata entrar nella stanza; era della Pisana che da alquanti giorni non parlava quasi più. Io sentiva la mancanza della sua voce, ma col tenerle il broncio mi vendicava delle ultime volte che mi aveva parlato sì acerbo. Lucilio quel giorno le mosse alcune richieste sulla sua salute, alle quali rispose per monosillabi e con voce più fioca del solito. Indi uscì come indispettita, l’Aquilina le tenne dietro, Luciano ubbidì forse ad un’occhiata di Lucilio, e restammo noi due soli.

— Ditemi; — principiò con un accento che annunziava un serio colloquio — ditemi qual diritto avete di fare il burbanzoso colla Pisana?

— Ah ve ne siete accorto? — risposi io — allora avrete anche badato alla straordinaria freddezza ch’ella mi dimostra!.... So che di molto le sono debitore; non lo dimentico mai, vorrei che tutto il mio sangue bastasse a provarle la mia riconoscenza, e lo verserei tutto fino all’ultimo gocciola. Ma alle volte non posso schivarmi di qualche ghiribizzo di superbia. Sapete che ultimamente ella mi ha cantato sopra tutti i toni, che soltanto per isvagarsi delle sue [p. 434 modifica]noje maritali è corsa a Napoli, e che io deggio unicamente ad un sentimento di compassione tutta l’assistenza di cui m’è stata generosa?...

— Dunque voi sospettate ch’ella non serbi più per voi l’amore d’un tempo?

— Ne sono certo, dottore, ne sono persuaso come della mia propria esistenza. Perchè io sia cieco, non veggo meno perciò col discernimento. Conosco l’indole della Pisana come la mia stessa, e so ch’ella non è capace di assoggettarsi a certi riguardi, nulla nulla che un’interna inquietudine la spinga a violarli. Vi parlo così alla libera, perchè siete fisiologo, e le umane debolezze vorrete compatirle, massime quando mescolate a tanta dose di magnanimità. Ve lo ripeto, la convivenza affatto fraterna di questi due anni mi convinse che la Pisana ha dimenticato il passato; e non duro fatica a crederle che la sola pietà le sia stato incentivo a tanti miracoli di affetto e di devozione. Del resto l’umor suo è troppo bizzarro, per ubbidire ad una massima premeditata di continenza.

— Oh Carlo, trattenetevi dai giudizi precipitati! Questi temperamenti straordinari son quelli appunto che sfuggono alle regole comuni. Diffidate del vostro discernimento, ve lo ripeto: gli occhi del corpo alle volte ragionano assai meglio che quelli dell’anima, e se vedeste...

— Che bisogno ho io di vedere, dottore?... Non sapete... che io l’amo ancora, che l’ho amata sempre?... Non vi ho narrato l’altro giorno la storia del mio matrimonio?... Oh pur troppo ella ha giurato di farmi sentire quanto perdetti, uscendo da quell’intima parte del cuore ove m’avea ricevuto!... Pur troppo ella punisce colla compassione un amore troppo docile insieme ed ostinato. È un castigo tremendo, una crudeltà raffinata la vendetta coi benefizi!

— Tacete, Carlo; ognuna delle vostre parole è un sacrilegio.

[p. 435 modifica]— Una verità, volevate dire.

— Un sacrilegio, vi ripeto. Sapete cosa faceva per voi la Pisana, quand’io l’ho incontrata pallida, estenuata, cenciosa per le vie di Londra?

— Sì... orbene?...

— Tendeva la mano ai passeggieri!... Ella accattava, Carlo, vi accattava la vita!

— Cielo! no, non è vero!... È impossibile!

— Tanto impossibile, che io stesso le porgeva non so quale moneta, quando... Oh ma vi posso descrivere quanto provai nel ravvisarla?... Come dirvi il suo smarrimento ed il mio?

— Basta, basta! per carità, Lucilio; la mia mente si perde e vengo meno di dolore volgendomi a guardare dove siamo passati!

— E dubiterete ancora dell’amor suo?... È un amore senza misura e senza esempio, un amore che la tiene in vita, e che la farà morire!...

— Pietà, pietà di me!... no, non parlate a questo modo!

— Parlo come un medico, e vi dico intera la verità. Ella vi ama ed ha imposto a se stessa di non palesarvi l’amor suo. Questo sforzo continuo, più che i patimenti, i dolori, le veglie, le logora la salute... Carlo, aprite gli occhi sopra tanto eroismo, e adorate la virtù d’una donna a cui voi non osaste fidarvi!... Adorate, vi dico, questa vergine potenza della natura, che innalza gli slanci disordinati d’un’anima alla sublimità del miracolo, e la trattiene là sospesa per la sua stessa forza, come l’aquila sopra le nubi!...

Infatti io era prostrato dalla sublimità di quella virtù, che non avrei quasi osato sperare da anima umana. La Pisana poi, chi l’avrebbe creduta capace di quella pudica riservatezza, di quell’abnegazione umile nascosta, di [p. 436 modifica]quella santa impostura portata tant’oltre da lasciarsi quasi credere vera, per non turbare la pace d’una famiglia da lei stessa, si può dire, composta?... Quanto falsi erano stati i miei giudizi intorno a quell’animo, vacillante forse nei piccoli sentimenti, ma costante e indomabile nella grandezza quanto non lo fu alcun altro giammai!... Il suo fare più sostenuto all’annunzio del prossimo arrivo dell’Aquilina, que’ suoi impeti di tenerezza subitamente frenati e la sua melanconia successiva, il suo volontario allontanamento da me, tutto contribuì a farmi capace della verità di quanto affermava Lucilio. Due anni interi aveva errato col mio giudizio: ma il mio medesimo errore era una prova dell’estrema sua delicatezza, e dell’assidua perseveranza colla quale avea mantenuto i suoi eroici proponimenti.

— Dottore, — risposi con voce tanto commossa che stentava ad articolar parola; disponete di me. — Dite, parlate, insegnatemi un mezzo da salvarla. La vita di me e di tutti i miei, sì, tutto basterà appena a ricomprare tanti sacrifizii! Il meno ch’io le possa offrire è tutta intera la vita che mi rimane!

— Pensiamoci, Carlo; son qui con voi apposta. E la salute di tutti i miei illustri clienti, credetelo, mi dà minor pensiero che un rammarico, un sospiro, un lamento solo della Pisana. Ella avrebbe il diritto di vivere tutti i suoi giorni pieni, felici; e di morire per un eccesso di gioja.

— Non parlate di morire! per carità non parlatene!

— E cosa sapete voi che per certe anime eccessive e privilegiate la morte non sia una ricompensa?... Tuttavia ragioniamo come si ragiona per tutti. La sola maniera ch’io vegga di redimerla è collocarla ancora in qualche necessità di pazienza e di sacrifizio. Rendetela a suo marito: vicino al suo letto ella riavrà la forza di vivere: fors’anco l’aria nativa aiuterà questo rifiorimento della salute.

— Rimandarla a Venezia, voi dite?... Ma come, [p. 437 modifica]Lucilio, come?... Deggio io allontanarla, cacciarla da me, ora che sembro non aver più bisogno della sua assistenza?

— Tutt’altro: dovete anzi riaccompagnarla voi. E ch’ella continui ad avere nella vostra famiglia quell’intimità di affetto, senza la quale non possono durare temperamenti simili al suo. Quando la forza smoderata della sua anima troverà altre azioni in cui sfogarsi, altri miracoli da tentare, altri sacrifizi da compiere, il passato perderà per lei ogni tormento, i desiderii impossibili s’adagieranno in una dolce e contenta melanconia. Riavrete un’amica, e una sublime amica!...

— Oh volesse il cielo, Lucilio! Domani partiremo per Venezia!

— Vi dimenticate due cose. La prima che ho promesso di rendervi la vista; la seconda che non avete facoltà di tornare a Venezia senza pericolo. Ma mentre m’adoprerò di procurarvi questa, le cateratte si matureranno e vi prometto che vedrete il pallido sole del Natale.

— E non si potrebbe affrettarsi?... Non per gli occhi miei, Lucilio, ma per lei, per lei solamente!... Credo che anche adesso potreste tentar l’operazione...

— Bravissimo Carlo! Vorreste che vi accecassi affatto per pagar forse cogli occhi vostri un gran debito di riconoscenza?... Umiliatevi, amico mio, due occhi non bastano; è meglio serbarli, e pagheranno poi colle occhiate molto e molto di più. Voi avete un credito colla Turchia, il quale appoggiato a sole rimostranze private non vi frutterà mai nulla. Volete che io cerchi di venderlo a qualche inglese?... L’Inghilterra ha qualche diritto ora alla benevolenza della Porta Ottomana, poichè sono vascelli di Londra, di Liverpool e di Corfù che la aiutano nella santissima opera di martirizzare la povera Grecia. L’Inghilterra è madre [p. 438 modifica]amorosa: sopratutto nel far pagare ai suoi figli quanto è loro dovuto, essa vale un tesoro; pel credito di mille sterline non avrà rimorso di appiccare il fuoco ai quattro cantoni del mondo. Fate a modo mio: lasciate ch’io dipani un poco questa matassa!...

— Ma a persuadermi di ciò non faceano d’uopo tante parole. Domani vi passerò le carte, che sono ora nelle mani di mio cognato. Certo non poteva trovare miglior procuratore.

— A domani dunque, e siamo intesi. Io mi darò attorno per questa faccenda. Di qui a un paio di settimane l’operazione; poi il consueto riposo di quaranta giorni, e il viaggio a Venezia. Non mi ci vorrà tanto per procurarvi il passaporto.

— Sì, ma intanto?...

— Intanto tenete colla Pisana un contegno umile ed affettuoso, e non riscaldatevi tanto nel lodar vostra moglie, come facevate ora. Li merita questi elogi ma non sono opportuni. L’altra, ve lo dico io, ne soffre acerbamente!...

— Grazie, grazie, dottore, io non ebbi mai amico migliore di voi.

— Ve ne ricordate eh?... La è un’amicizia di data vecchia. Ho cominciato col risparmiarvi i rimbrotti e le busse, ordinandovi un purgante.

A questa memoria, io scoppiai in un pianto dirotto. Anche ai ciechi è concesso il ristoro delle lagrime. E furono sì copiose, sì dolci, che non sentii in appresso la metà de’ miei dolori. — Lucilio se n’andò stringendomi affettuosamente la mano; e l’Aquilina mi venne accanto dopo alcuni momenti dicendomi che aveva ad intrattenersi meco di cose di grandissimo rilievo. Per quanto fossi mal disposto, cercai di adattarmi a quanto ella voleva, e risposi che parlasse pure, e che io starei molto volentieri ad [p. 439 modifica]ascoltarla. Si trattava dei nostri figli, massime di Luciano, al quale quella mezza parola di un’andata in Grecia avea racceso nel cuore un tale entusiasmo che non pareva possibile calmarlo. Ella non si era opposta in sua presenza, perchè nè voleva mostrarsi d’un parere contrario al mio, nè rintuzzare palesemente quella fiera gagliardia del giovine, ma in segreto poi mi confessava che le sembrava un consiglio precipitato e Luciano troppo tenerello ancora per esporsi senza rischio ad una vita avventurosa. Meglio era dunque ristare per poco finchè fosse più maturo, ed aspettare dal tempo ispirazioni più sincere.

Queste considerazioni mi parvero giustissime; le approvai dunque pienamente lodandola della sua magnanimità e prudenza; e anche a me infatti non andavano mai a sangue le deliberazioni avventate per mera fanciullaggine, che conducono sovente ad una precoce sfiducia in noi e negli altri. Così fra noi restammo d’accordo; ma nell’altra stanza intanto Luciano e Donato non parlavano d’altro che d’Atene, di Leonida, dello zio Spiro e dei cugini: non vedevano l’ora di schierarsi in campo anch’essi e di menar le mani contro quei turchi manigoldi. Soltanto Donato si commiserava talvolta di dover lasciare sua madre, mentre i cugini loro l’avevano in Grecia testimone delle loro prodezze.

— Nostra madre ci starà sempre nel pensiero per animarci a imprese grandi e generose — rispondeva Luciano. — Sai com’erano fatte le madri spartane?... Esse godevano di procrear figli per poterli offrire alla patria; e porgendo loro lo scudo dicevano: «O con questo tornate, o sopra questo!» Il che significava: o vincitori o morti; perchè sullo scudo si adagiavano i corpi dei caduti per la patria. —

Così scaldavano a vicenda i due giovinetti; e ognuno sognava o l’eroica gloria di Botzari o la morte sublime di Tzavellas.

[p. 440 modifica]S’avvicinava il giorno, nel quale Lucilio avrebbe adoperato i mezzi più squisiti dell’arte per risuscitarmi alla luce. Egli non mi parlava della Pisana, e questa mi sfuggiva sempre per quanto cercassi ammaliarla colle più tenere carezze. Perfino l’Aquilina ne era gelosa; ma pensando a quanto essa aveva operato per me, non aveva coraggio di lamentarsene. Il silenzio di Lucilio non mi pronosticava nulla di bene, e le rare parole di conforto ch’egli mi volgeva, io le attribuiva più che a sincerità a premura di tenermi calmo pel giorno della gran prova. Fui beato quando potei dire: sarà dopodimani. Mi batteva il cuore poi al pensare che sarebbe dimani. Quando dissi — è oggi! — fui assalito da tanta impazienza, che credo sarei morto se avessero protratto d’altre ventiquattr’ore. Lucilio si accinse all’opera con ogni voluto accorgimento; si trattava non d’un malato ma d’un amico; se potevasi pretendere un prodigio si era certamente da lui, e certo non gli fallì la fede del paziente. Quando mi disse: — è finito! — avevano già intercetto la luce delle porte e delle finestre, perchè l’improvvisa sensazione non mi offendesse. Tuttavia mi parve travedere e travidi infatti un incerto barlume, e misi uno strido tale che Bruto e l’Aquilina che mi sostenevano diedero un guizzo. Rispose un fievole grido della Pisana che credette forse a qualche disgrazia, ma la rassicurò Lucilio soggiungendo scherzosamente:

— Scommetto io che il briccone ha già veduto qualche cosa! ma mi raccomando che non ispostiate questa visiera che gli accomodo ora; e sopratutto che le imposte restino chiuse come sono, ermeticamente. L’operazione è riuscita così appunto, che presagisco fin d’ora che le sei settimane di convalescenza potranno ridursi a quattro.

— Oh grazie, grazie, amico! Sollecitate più chè potete! — io sclamai coprendogli le mani di baci. Più che di avermi reso la vista, lo ringraziava di quella speranza datami di [p. 441 modifica]poter tentare qualche cosa a vantaggio della Pisana prima che non avrei creduto. —

Quando tutti furono usciti dalla stanza in coda al dottore per ringraziarlo d’un tanto benefizio, o fors’anco per informarsi di quanto dovevano credere alle parole dette in mia presenza, la Pisana mi si accostò pianamente, e sentii il suo tiepido alito che m’accarezzava le guance.

— Pisana, — mormorai, — quanto fosti ammirabile d’amore e di pietà!!... —

Ella fuggì via inciampando nei mobili della stanza, e due singhiozzi le sollevarono il petto ansiosamente. Mia moglie che rientrava la incontrò sulla porta...

— Come ti pare che vada il nostro malato? — le domandò.

— Io spero che andrà bene; — rispose ella con uno sforzo supremo. — Ma non potè resistere più a lungo. E fuggì ancora e corse a rinchiudersi nella sua stanza prima che l’Aquilina avesse neppur tempo di avvertire il suo turbamento. Allora compresi un’altra volta tutta la forza e la nobiltà di quell’anima, e dalla sua camera ch’era all’altro capo della casa mi pareva udire il suo pianto, i suoi singhiozzi, ognuno dei quali mi dava nel petto un colpo crudele. Per tutto quel giorno non pensai alla mia vista; e coloro che si occupavano di essa mi davan stizza e fastidio. Si trattava ben d’altro che di due stupidi occhi!...

Lucilio veniva sovente a visitarmi, ma di rado potevamo trovarci soli; pareva anzi ch’egli sfuggisse le mie confidenze. Nulla ostante io lo chiedeva spesso della salute della Pisana e se la lusinga di tornare a Venezia avesse operato quel buono effetto che si sperava. Il dottore rispondeva con mezzi termini senza dire nè sì nè no; ella poi, se anche entrava nella mia stanza, non apriva bocca quasi mai; io me ne accorgeva dal minor chiasso che facevano i miei figliuoli, certo perchè la sua mestizia [p. 442 modifica]imponeva rispetto. Quando Lucilio mi portò il passaporto ottenuto per mezzo dell’Ambasceria austriaca, le domandai se quel nostro divisamento le piaceva.

— Oh la mia Venezia! — rispose; — mi domandate se la vedrei volentieri!... Dopo il paradiso l’è il mio solo desiderio.

— Or bene — soggiunsi — quand’è, dottore, che mi permetterete di aprir la finestra, di buttar via queste bende, e d’andarmene?

— Dopodimani — rispose Lucilio — ma quanto all’imprendere il viaggio bisognerà soprastare qualche giorno; non dovete arrischiarvi così subito al sole del mezzodì. —

Io pazientai quei due giorni, deliberato di non protrarre d’un attimo la mia partenza quando avessi avuto gli occhi nulla nulla guariti. Ma la Pisana in quel frattempo frequentava meno che mai la mia stanza, e mi dicevano che stava quasi sempre rinchiusa nella sua. Finalmente venne Lucilio che mi liberò la fronte dalla visiera, e mi sciolse dai legacci che mi coprivano gli occhi; le finestre erano già socchiuse; e una luce quieta diffusa come quella del crepuscolo mi accarezzò dolcemente le pupille. Se tanto ci incanta lo spettacolo dell’alba, quantunque rinnovato ogni ventiquattr’ore, figuratevi quanto mi facesse beato quell’alba che succedeva ad una notte di quasi due anni!... Ritrovare ancora quei facili godimenti dei quali non ci curiamo potendoli avere ad ogni istante, e tanto se ne apprezza il valore quando ci sono vietati, ravvivare coll’esercizio presente la memoria di quelle sensazioni che già cominciava a svanire, come una tradizione che coll’andar del tempo diventa favola, saziarsi ancora nelle contemplazioni di quanto v’ha di bello, di grande, di sublime al mondo, e interpretare dagli affetti dei nostri cari un linguaggio disusato per noi, son tali piaceri che fanno quasi desiderare d’esser ciechi per racquistare la [p. 443 modifica]vista. Certo io metto quel momento fra i più felici della mia vita. Ma ne ebbi subito dopo uno assai doloroso.

La Pisana era accorsa anch’essa ad assistere all’ultima parte del miracolo: quando dopo il primo soavissimo impeto fatto dalla luce negli occhi miei, cominciai a distinguere le persone e le cose che mi circondavano, il primo volto nel quale sostenni lo sguardo fu il suo. Oh se l’aveva ben meritata una tal preferenza! Nè amici, nè parenti, nè figliuoli, nè moglie, nè il medico che m’avea reso la vista, meritavano tanto della mia gratitudine. Ma quanto la trovai cambiata!... Pallida, trasparente come l’alabastro, profilata nelle sembianze come una Madonna addolorata di Frate Angelico, curva della persona come chi ha portato sul dorso gravissimi pesi e non potrà più raddrizzarsi; gli occhi le si erano ingranditi meravigliosamente, e la metà superiore della pupilla, adombrata dalle palpebre, traspariva da queste in guisa d’un lume dietro un cristallo colorato: l’azzurrognolo della melanconia e il rosso del pianto si fondevano nel bianco della retina, come nel simpatico splendore dell’opala. Era una creatura sovrumana; non mostrava alcuna età, soltanto si poteva dire: costei è più vicina al cielo che alla terra!

Che volete? Io son debole di temperamento, e non ve lo nascosi mai. Mi si gonfiò il petto d’un’angoscia improvvisa e profonda, e scoppiai in lagrime dirotte. Tutti immaginarono che fosse per la consolazione; ma Lucilio forse giudicò altrimenti; infatti io piangeva perchè gli occhi mi riconfermavano il terribile significato attribuito da me al suo silenzio dei giorni passati. Vidi che la Pisana non apparteneva più a questo mondo; Venezia, come avea detto ella stessa, non era che il suo secondo desiderio; il primo era pel paradiso! Mentre questo triste pensiero mi rompeva il petto a sconsolati singhiozzi, ella si tolse dalla spalla dell’Aquilina su cui s’era appoggiata, e la vidi [p. 444 modifica]uscire barcollando dalla camera. Io pregai allora quanti lì erano che mi lasciassero quieto in compagnia del dolore perchè la soverchia commozione mi imponeva qualche riposo. Partiti che furono, mi ripigliò più tremenda che mai quella convulsione di pianto, e Lucilio non vide altro di meglio che aspettare un po’ di tregua dalla stanchezza. Quando poi le lagrime e il singulto concessero un varco alla voce, quali parole, quali preghiere, quali promesse non adoperai io, perchè mi salvasse una vita a mille doppi più preziosa della mia! Lo supplicai come i devoti supplicano Iddio; tanto avea bisogno di sperare che avrei rinnegato la ragione, e stravolto l’ordine del mondo per conservare una qualche lusinga. Una pietosa astuzia della speranza mi persuase, che ben potea rendere la salute e la vita alla Pisana quello che in me avea racceso la fiaccola della luce!...

— Oh sì! Lucilio! — sclamai — voi potete tutto purchè lo vogliate. Fin da piccino io vi riguardava come un essere sovrannaturale e quasi onnipotente. La vostra volontà comanda alla natura sforzi incredibili. Cercate, studiate, tentate: mai causa più giusta, mai impresa più alta e generosa meritò i prodigi della vostra scienza. Salvatela, per carità, salvatela!...

— Avete dunque indovinato tutto, rispose Lucilio dopo un momento di pausa; l’anima sua non è più tra noi; il corpo vive, ma non so nemmeno io il perchè. Salvatela, voi mi dite, salvatela!... E chi vi dice che la provvida natura non la salvi raccogliendola nel suo grembo?... Molto si può tentare contro le malattie della carne e del sangue; ma lo spirito, Carlo? dove sono i farmaci che guariscon lo spirito, dove gli istrumenti che ne tagliano la parte incancrenita per prolungar vita alla sana, dove l’incanto che lo richiami in terra, quando una virtù irresistibile lo assorbe a poco a poco in quello che Dante chiamava il [p. 445 modifica]mare dell’essere?... Carlo, voi non siete un fanciullo, nè io un ciarlatano; voi non volete esser ingannato, per quanto la presente debolezza vi renda più care le false e fuggitive illusioni che l’inesorabile realtà. In questo mondo si viene quasi colla certezza di veder morire il padre e la madre: solo chi paventa la morte per sè, deve disperarsi dell’altrui; la morte d’un amico fa più male a noi per la compagnia che ci ruba, che non a lui per la vita che gli toglie. Io e voi dobbiamo, mi pare, conoscer la vita, e stimarla adeguatamente al suo giusto valore. Compiangiamo sì la nostra condizione di mortali, ma sopportiamola forti e rassegnati; non siam tanto egoisti da desiderare altrui un prolungamento di noje, di mali, di dolori, per servire alla nostra utilità, per iscongiurare quella sciocca paura che hanno i fanciulli di rimaner soli nelle tenebre. Le tenebre, la solitudine sono il sepolcro; entriamo coraggiosamente nel gran regno delle ombre; vivi o morti, soli dobbiamo restare; dunque non pensiamo ad altro che ad addolcire agli amici il dolore della partenza! Io non sono un medico che crede aver sviscerato tutti i segreti della natura, per aver veduto palpitare qualche nervo sotto il coltello anatomico: v’è qualche cosa in noi che sfugge all’esame del notomista, e che appartiene ad una ragione superiore, perchè colla nostra non siamo in grado di capirla. Confidiamo a quel supremo sentimento di giustizia, che sembra esser l’anima eterna dell’umanità, il destino futuro ed imperscrutabile di quelli che si amano. La scienza, le virtù, i doveri della vita si riassumono in un’unica parola: Pazienza!...

— Pazienza! — io soggiunsi più avvilito che confortato da questi freddi ma inespugnabili ragionamenti. — Pazienza è buona per sè; ma per gli altri?... Avreste voi, Lucilio, la viltà di consigliarmi pazienza pei mali ch’io ho cagionato, per le sventure di cui il rimorso non cesserà [p. 446 modifica]mai di perseguitarmi?... Ma non vedete, non comprendete il dolore senza fine e senza speranza che mi strazia le viscere, al solo pensiero che io, io solo abbia affrettato d’un giorno la partenza d’un’anima sì generosa e diletta?... La morte, voi dite, è necessità. Ben venga la morte!... Ma l’assassinio, Lucilio, l’assassinio di quella sola creatura che vi ha amato più di se stessa, più della vita, più dell’onore, oh questo è un delitto che non ha per iscusa la necessità, nè per espiazione la pazienza. Sia per lavarlo che per dimenticarlo, fa d’uopo il sacrifizio di un’altra vita; la morte sola salda il debito della morte.

— La morte anzi non salda nulla, credetelo a me.... La morte come consolazione non può tardarvi a lungo, e l’affrettarla sarebbe fuggire dalla penitenza; come oblio sareste tanto pusillanime da cercarla?.... Io non sono di quei prudenti idolatri della vita, che nella moglie, nei figliuoli, nella patria si preparano altrettante scuse, per non arrischiarla neppur al pericolo d’un’infreddatura: ma quando ad una virtù dubbia ed inutile s’oppongono virtù certe, utilissime, generose, quando le passioni vi lasciano il tempo di deliberare, oh allora, Carlo, la famiglia, la patria, l’umanità vi comandano di non disertare, di combattere fino all’estremo!....

— No! è inutile sperarlo! io non avrò più forza di combattere! Meglio è sbarazzare il campo d’un inutile ingombro. Ogni altro affetto mi sarebbe un rimorso; son troppo infelice, Lucilio! Avrò veduto morire colei alla quale avrei dovuto abbellire la vita colle gioje più sante dell’amore, e della devozione!

— Ed io, dunque, ed io? — sclamò con un ruggito Lucilio, afferrandomi il braccio convulsivamente. — Ed io, cosa credete voi, che sia poco infelice?... Io che ho veduto disseccarsi l’anima dell’anima mia, io che ho assistito ancora e bollente di passioni, al funerale d’ogni mia [p. 447 modifica]speranza, io che non ho veduto la morte di colei che mi amava, ma il suicidio dell’amor suo, io che ho vissuto trentacinque anni, vagando disperato col pensiero fra le rovine della mia fede, e chiedendo indarno alla vita il lampo d’un sorriso, io che ho avventato freneticamente ogni virtù del mio ingegno, ogni potenza del mio spirito a scrollare invano le porte d’un cuore che era mio, io che ho sognato di sconvolgere il mondo, per carpire dalla confusione del caos quell’unico bene che desiderava e che m’era sfuggito; io che ho veduto tutta la forza d’una attività senza pari accasciarsi sconfitta dinanzi ad una indifferenza, forse bugiarda, io che vedeva il paradiso non più discosto da me che non lo siano fra loro le anime di due amanti, e non ho potuto giungervi, non ho potuto dissetarmi queste avide labbra d’una stilla, d'una stilla sola di felicità, perchè vi si opponeva la memoria di tre parole imprudenti e spergiure, io dunque che avea trovato l’anima più pura, il cuore più delicato e sublime che sia mai stato quaggiù, e questa arra quasi infallibile di felicità la vidi mutarsi in mia mano, senz’alcuna ragione, in un veleno mortale e senza rimedio, credete voi che io non abbia avuto motivi bastevoli, e volontà e forza di uccidermi?... Perchè, ditelo voi, perchè ostinarmi a rimanere fra gli uomini, quando la creatura più virtuosa e perfetta, colei che sola io avea riputata degna dell’amor mio, col tradimento, colla crudeltà ricompensava le mie adorazioni?... Perchè affaticarsi nel creare una patria a questa umanità che nelle sue migliori virtù mi scopriva agguati sì perfidi e micidiali? Perchè combattere, perchè studiare, perchè guarire, perchè vivere?... Volete saperlo, Carlo, questo perchè?... Perchè mi mancava una certezza. Perchè l’uomo fornito di ragione non deve piegarsi ad atto alcuno che non sia ragionevole; perchè non era nè poteva esser certo che la morte mia sarebbe stata giusta ed utile a me od agli altri; [p. 448 modifica]mentre la vita, invece, poteva esserlo in qualche maniera, e deferiva alla natura una sentenza ch’io non mi sentiva in grado di pronunciare. Ecco perchè vissi, perchè cercai con ardore sempre crescente la verità e la giustizia, perchè pugnai per esse, per la libertà, per la patria; perchè curvai la mia mente a creder un bene quello che dal consenso universale era creduto un bene, e mi studiai di rendere la pace agli afflitti, la speranza agli increduli; agli infermi la salute. La natura ci dà la vita indi ce la toglie; siete voi tanto sapiente da comprendere e giudicare le leggi di natura, riformatele, mutatele, giudicatele a vostro talento!... Ma non vi sentite quest’autorità, questa potenza?... Ubbidite allora. Infelice martoriatevi, innocente soffrite, colpevole pentitevi e riparate: ma siate ragionevole e vivete.

— Sì, Lucilio! Vivano pure gli innocenti nel dolore, gli infelici nel martirio e i colpevoli nell’espiazione; sopportino tutti la vita coloro che nella ragione non trovano bastevoli argomenti per poterla distruggere. Ma io, Lucilio, io son fuori della vostra legge; io morirò!... Reo lo sono e pur troppo, e d’un delitto tale che è più infame, più mostruoso a parer mio dello stesso matricidio. Se la natura mi comanda ch’io viva, sorga ella dunque e m’ispiri il modo di ripararlo!.... Oh! ai mali senza rimedio v’è un unico scampo, e voi lo sapete che la natura non lo preclude. E cos’è dunque questo odio forsennato della luce, questo spavento di me stesso, questo desiderio infinito d’obblio e di riposo che tutto mi occupa? Non son forse altrettanti richiami con cui la natura mi invita a sè, al suo grembo pieno di misteri, di pace, e fors’anco di speranza?....

— Forse!.... Ecco la parola che vi dà torto. Qui invece nella vita una cosa sola v’ha di certo, e immutabilmente certo. La giustizia!... Rispondetemi ora preciso e sincero, perchè già vedete ch’io espongo la quistione nei [p. 449 modifica]termini più chiari. Credete voi fermamente di esser giusto verso tutti, verso i vostri figli, verso la moglie, i parenti, gli amici, la patria, verso la Pisana stessa, e verso la vostra coscienza, rifiutando cieco e disperato la vita?... Orsù dunque; non obbiezioni nè debolezze; rispondete!

— Pietà, pietà di me, Lucilio!... Ve ne prego, ve ne scongiuro, lasciate ch’io muoja!... Ho veduto i miei figli, ho veduto quanto più di caro e prezioso aveva nel mondo; li stringerò a lungo sul cuore, li esorterò ad essere buoni e leali, cittadini forti ed operosi; li vedrò ancora per grazia vostra un’ultima volta, e spirerò l’anima in pace!... Pietà, Lucilio!... Per carità, lasciatemi morire!...

— E se la coscienza vostra vivesse oltre la tomba, e vi mostrasse i figli vostri, miseri, sciagurati, vili forse e spregevoli per cagion vostra...

— Oh no, Lucilio, essi hanno la loro madre: essa li aiuterà de’ suoi consigli che valgon certo quanto i miei.

— E se alla morte vostra conseguitasse quella di vostra moglie?... Se fosse il primo anello d’una lunga catena di sciagure e di disperazioni, che si perpetuasse nel sangue vostro fino all’ultima generazione? E se pesasse sopra di voi morto, lontano impotente, ma conscio ancora, la terribile responsabilità dell’esempio?... Se lo spirito della Pisana rifiutasse un omaggio deturpato dalle lagrime, del sangue altrui?... Se forte com’ella fu nel dolore, nella pietà, nell’abnegazione, guardasse con disprezzo a voi fuggitivo per ignoranza, per debolezza, e le sue forti aspirazioni, vaganti nell’aereo mondo dei fantasmi, rifuggissero dalle vostre misere e ingiuste?... Se doveste esser separati per tutta l’eternità, se la vostra morte, pusillanime e spietata, fosse il principio d’un allontanamento che dovesse crescere sempre, crescendo insieme i tormenti della disunione, e i vani desiderii di raggiungersi?... Se la natura che voi pazzamente affermate complice del vostro delirio, [p. 450 modifica]un unico mezzo di riparazione vi offerisse, quello di imitarla nella virtù, nella rassegnazione, quello di vivere per farvi il più che è possibile simile a lei, e confondervi ad essa quando la natura stessa vi inviti a quelle che voi chiamate dubbiose e arcane speranze?... Oh Carlo! pensateci altamente. Non aggravate gli insulti verso la Pisana, facendo la sua virtù responsabile di tutti i mali che potrebbero derivare dalla vostra pazzia.

— Amico, dite bene, ci penserò. Sento che in questo istante la fredda ragione non potrebbe trovar posto nel tumulto delle mie passioni; e mi conosco abbastanza forte per credere che non cerco pretesti nella dilazione, e che di qui ad un anno sarò come adesso, ove le condizioni del mio spirito non sieno cambiate.

— Del resto — riprese Lucilio — io mi studiai finora premunirvi contro ogni evento possibile; e spero che se parlerete colla Pisana, i suoi discorsi, il suo contegno, i suoi sguardi vi persuaderanno meglio de’ miei ragionamenti. Ma non voglio poi dire che siamo giunti a tale eccesso di disperazione e di pericolo. Se ella potesse giungere a Venezia, e riposarsi nelle sue abitudini d’altro tempo...

— Oh dite il vero, Dottore? ci sarebbero delle speranze? Non fate ora per confortarmi, per illudermi?

— Son tanto lontano dal volervi ingannare, che finora vi lasciai persuaso del peggio. Adesso non vi rendo molte speranze, ma sibbene quelle che la provvida natura ci consente sempre, finch’ella non arresta, forse provvida del pari, l’arcano movimento della vita. Intanto questo vi consiglio, che vi parrà certo strano, di intrattenervi a lungo colla Pisana, e di fidarvi alla scuola de’ suoi esempi. Vi prometto che ella finirà di sconsigliarvi da ogni azione disperata: e questa confidenza che ho in lei suggelli la sincerità di quanto vi son venuto dicendo.

— Grazie! — io soggiunsi stringendogli la mano: — [p. 451 modifica]certo nè da lei mi possono venire esempi, nè da voi consigli indegni di me. —

Così finì quel colloquio, per me assai memorabile, e che decise forse di tutta la mia vita avvenire. Io rimasi perplesso e costernato assai; ma la fortezza d’animo di Lucilio mi avea in certo qual modo ritemprato, e perciò mi proposi di dargli retta raccostandomi alla Pisana, e cercando di riparare ai mali involontariamente commessi coll’accordare la mia condotta ai suoi desiderii, e darle così la più alta testimonianza che si potesse d’amore e di devozione. Pur troppo sulle prime que’ miei tentativi mi sconfortarono più che altro: la povera Pisana faceva il possibile di sfuggirmi, pareva che sentendosi in procinto di abbandonarmi non volesse trovar piacere alla mia compagnia, per provar poi maggiori angosce nel momento della separazione. Od anche le dispiaceva che io le dimostrassi qualche preferenza in confronto dell’Aquilina.

Ad ogni modo, non mi scoraggiando per que’ suoi forzati dispetti, e continuando a dimostrarle con ogni maggiore accorgimento la mia gratitudine, e il profondissimo rammarico di non averla dimostrata meglio e prima d’allora, giunsi a vincere quell’ostinata ritrosia e a rimenarla ben presto all’antica confidenza. Mio Dio! qual tormento era per me il veder ravvivarsi dentro agli occhi suoi la fiamma della vita, e assistere insieme al continuo deperimento delle sue forze, che a mala pena le reggevano la stanca e stremata persona!... Qual terribile spettacolo la giocondità con cui accoglieva quel mio ritorno alla tenerezza di una volta; e la spensierata rassegnazione che la faceva scrollare le spalle e sorridere, quando accennava del suo futuro! Un giorno io avea parlato con Lucilio, il quale mi assicurava che se le cose procedevano a quel modo, avremmo potuto arrischiare nella settimana seguente il viaggio verso Venezia. La sera mi trovai soletto colla Pisana, perchè [p. 452 modifica]Lucilio aveva accompagnato mia moglie, mio cognato e i miei ragazzi a vedere non so quali meraviglie di Londra; ell’era più pallida ma più allegra del solito; speravo sempre che nel suo bizzarro temperamento anche la salute potesse ravvivarsi d’improvviso sfuggendo alle regole comuni degli altri esseri, e che il male non fosse irreparabile con quella festività d’umore che allora le rinasceva.

— Pisana, — le dissi, — il mese venturo potremo essere a Venezia. Non ti pare che soltanto il pensiero ci faccia bene? —

Ella sorrise levando gli occhi al cielo, e non rispose nulla.

— Non credi — continuai — che l’aria nativa, la pace che gioiremo tutti uniti e tranquilli, finiranno di guarirti dalla melanconia?

— Melanconia, Carlo? — mi rispose. — E come t’immagini mai ch’io sia melanconica?... Avrai osservato che una vera giocondità naturale e continua non l’ho mai avuta; erano sprazzi di luce, lampi fuggitivi e nulla più. Sono sempre stata una creatura molto variabile, ma più sovente taciturna e ingrugnata. Soltanto ora mi sorride un bel tempo di serenità e di pace; non mi son mai sentita così calma e contenta. Credo che ho recitato la mia parte e spero qualche applauso.

— Pisana, Pisana, non parlare così!... Tu meriti molto maggiori applausi che noi non ti possiamo dare, e li avrai. Torneremo a Venezia; là....

— Oh Carlo! non parlarmi di Venezia, la mia patria è molto più vicina, o lontana se vuoi, ma ci si arriva con un viaggio molto più rapido. Lassù, lassù, Carlo!... Vedi; la Clara mi ha fatto se non altro credere e sperare nella misericordia di Dio. Non è giunta a cacciarmi in capo la sua teoria dei peccati; ma pel resto ci credo, e m’aspetto di non esser punita troppo severamente del poco male che senza volerlo ho commesso. Tutto quel poco bene che poteva fare io l’ho fatto; [p. 453 modifica]è giusto che non mi si tardi qualche ricompensa; il mio desiderio è di riceverla subito, e di abbandonarvi per breve tempo col sorriso sulle labbra e, concedetemi anche questa speranza, col vostro compatimento.

— Non vedi, Pisana, che tu mi strazii l’anima, che mi rinfacci con queste parole la cecità colla quale in questi ultimi anni ho voluto credere alla tua apparente freddezza?... Infame, sconoscente, assassino che non badava a tutti i tuoi sacrifizii, che mi sforzava a creder vera la tua indifferenza forse per isdebitarmi a poco prezzo con te, che non volli conoscere nella tua devozione, e nel modo ammirabile con cui me la dimostravi, quel suggello di sublime delicatezza di cui sola sai improntare i sacrifizii, e farli comparire azioni affatto comuni e prive di merito!... Oh maledicimi, Pisana!... Maledici il primo momento che mi hai conosciuto, e che ti ha condotta a sprecare per me tanto eroismo, quanto avrebbe bastato a premiare la virtù d’un santo e i fecondi dolori d’un martire!... Maledici la mia stupida superbia, la mia ingrata diffidenza, e il vile egoismo con cui son vissuto due anni bevendo il tuo sangue, e suggendoti dalle carni la vita!... Oh sì! ricada sul mio capo la pena di tanta infamia! La meritai, la imploro, la voglio! Finchè non avrò scontato a lagrime di sangue tutto il mio delitto contro di te, tutti i dolori, le umiliazioni che ti ho imposto, non avrò nè pace nè ardire di sollevare il capo e chiamarmi uomo!...

— Vaneggi, Carlo?... Che fai ora, che pensi?... Non conosci più la Pisana, o credi ch’ella finga ancora per esser creduta contenta o per isbarazzarsi dell’altrui compianto?... No, Carlo, te lo giuro!... La quistione di vivere o di morire non c’entra per nulla nella mia felicità. Non ti nascondo che la mia ultima ora la credo molto vicina; ma son io meno felice per ciò?... Tutt’altro, Carlo; la tua tenerezza la tua confidenza erano l’ultima consolazione che [p. 454 modifica]mi aspettava; tu me l’hai ridonata. Oh che tu sia benedetto!... Una sola tua parola di riconoscenza, un solo sguardo affettuoso pagherebbero due vite più lunghe della mia, e piene a tre doppi di privazioni e di sacrifizi!... Tu hai diffidato di me, tu mi hai imposto dolori e patimenti?... Ma quando, Carlo, quando? Io peccai e tu mi perdonasti; io t’abbandonai, e non ne movesti lamento; tornata a te mi raccogliesti colle braccia aperte e col miele sulle labbra!... Tu sei l’essere più nobile, più confidente e generoso che possa esistere... Se avessi dinanzi a me l’eternità, e dovessi passarla in continui stenti neppur consolata dalla tua presenza, e tutto per risparmiarti una lagrima, un sospiro solo, non esiterei un momento. Mi rassegnerei giubilando, e contenta solo nel pensiero che tutti i miei giorni, tutti i miei affanni sarebbero consacrati al tuo bene. Tu solo, Carlo, non hai ripudiato l’anima mia. Dall’amor tuo solo così generoso e costante presi il coraggio di guardare dentro di me, e dire: Non son poi tanto spregevole se un tal cuore continua ad amarmi. Oh Carlo, perdonami!... Perdonami per carità, se non ti ho amato come tu meritavi!...

— Alzati, Pisana! le tue preghiere mi svergognano; non avrò più cuore di guardarti in viso, nè di domandarti perdono!... Oh mio Dio!... Come ricordare senza angoscia tutti i momenti nei quali una mia parola d’amore, un mio sguardo umile e mansueto ti avrebbe se non ricompensata, almeno fatta persuasa della mia gratitudine; invece mi rinchiusi ne’ miei tristi sospetti, e punii col sussiego e col silenzio il sacrifizio più nobile forse più costoso che abbia fatto una donna, quello... sì, voglio dirlo, Pisana, quello dell’amor tuo!... E se credeva che non mi amassi più, perchè dunque mi valsi di te come d’una schiava, strascinandoti pel mondo legata miseramente al mio sciagurato destino!... Oh sì, Pisana! fui pur troppo un vile tiranno e un carnefice spietato!...

[p. 455 modifica]— Ed io ti ripeto ancora che o non ti ricordi bene, o dopo tanti anni non conosci per anco la Pisana. Ma non capisci che tutti quelli che tu chiami dolori, patimenti, sacrifizii, erano per me piaceri ineffabili, colmi d’una voluttà tanto più dolce, quanto più nobile e sublime? Non capisci che l’indole mia strana e mutabile mi portava forse a stancarmi dei piaceri più comuni, e a cercare in un’altra sfera anche a rischio di perdermi, contentezze diverse e diletti che non avessero paragone nella mia vita passata? Non hai ravvisato il primo sintomo di questa, direi quasi, pazzia in quel mio incredibile e tirannico capriccio di sposarti all’Aquilina?... Oh te ne scongiuro in ginocchio, Carlo!... Perdonami di averti amato alla mia maniera, di aver sacrificato te ad un mio ghiribizzo strano e inconcepibile, di non aver cercato nella tua vita altro che un’occasione di appagare le mie strane fantasie!... Tu non potevi capirmi, tu dovevi odiarmi, e invece mi hai sopportato!... Quando negli ultimi anni io trovava tanta dolcezza nell’assisterti, e nel nasconderti l’amor mio dandoti ad intendere che solo la necessità e la compassione mi movevano, non doveva io conoscere che con questo contegno ti tormentava, e che toglieva il maggior valore a quei pochi servigi che poteva renderti?... Ciò nulla ostante io seguitai a far pompa della mia barbara delicatezza, mi ostinai in quel sistema di virtuosa vanità in cui col tuo matrimonio avea segnato il primo passo, volli il piacer mio prima di tutto, ad ogni costo!... Vedi, vedi, Carlo, se fui cattiva ed egoista? Non avrei fatto meglio a confidarmi nella tua generosità tanto maggiore e più provata della mia, e dirti: ho sbagliato, Carlo! ho sbagliato per sbadataggine, per bizzarria! Ora i nostri doveri son questi! Adempiamoli d’accordo senza ipocrisia e superbia? — Ma io diffidai di tè, Carlo! Te lo confesso coll’umiltà della vera penitente!... Il tuo amore sì grande, sì magnanimo, non meritava una sì [p. 456 modifica]trista ricompensa; ma una sincera confessione mi rialzerà agli occhi tuoi. Mi amerai ancora, sì, mi amerai sempre, e la mia memoria santificata dalla morte, vivrà perenne tra i tuoi più soavi e mesti pensieri.

— La morte? non pronunciare, perdio, questa parola, o non contento di seguirti, io ti precedo!...

— Carlo, Carlo, per carità non mettermi nel cuore un sì atroce rimorso! Libera questi miei ultimi giorni dalla sola paura che possa amareggiarli!... Vedi! impara da me... Cento volte avrei potuto, avrei dovuto uccidermi... e in quella vece... in quella vece... io muojo!...

— No, non morrai... Pisana, Pisana! ti giuro che non morrai!...

— Ed è vero; non morrò affatto se tu vivi; se tu onori la mia memoria, col render utili quei pochi sacrifizii, che sebben malamente, pure ho fatto per te!... Se penserai all’Aquilina che io ti ho confidato, ai figliuoli che tu generasti, e ai quali ti stringono sacri e inviolabili doveri, alla tua patria, alla mia patria, Carlo, per la quale ha sempre battuto questo mio piccolo cuore, per la quale dovunque mi porti la volontà di Dio io non cesserò di pregare, e di sperare!... Carlo, Carlo, te lo raccomando! Vivi perchè la tua vita sarà degna di esser imitata da quelli che verranno. Possa almeno dire morendo, che le mie parole, che i miei consigli ebbero questa fortuna, di lasciare un’eredità di grandi e nobili azioni!... Null’altro ti chieggo, null’altro desidero, perchè il momento della partenza sia insieme il più felice della mia vita. Del resto tutto quel po’ di bene che poteva operare, mi sono studiata di farlo: muojo contenta, muoio sorridendo perchè vado ad aspettarti!...

— Eccomi, eccomi, Pisana; non aspetterai un attimo! Io sono con te!

— E se ti dicessi che queste sarebbero le prime dure [p. 457 modifica]parole che avrei udito da te, e che così mi avvilisci agli occhi miei, e mi togli quel lievissimo premio, col quale io partiva tutta beata?... Oh Carlo, se mi ami ancora, tu non vorrai vedermi morire fra le paure e i rimorsi! Sai che quando voglio una cosa, la voglio la pretendo ad ogni costo! Or bene, io voglio e pretendo, che la mia morte a me tanto facile e soave, non sia la disperazione d’una intera famiglia, e non tolga a tutto un paese, ed all’umanità tutto quel bene che puoi, che devi ancora operare!... Carlo, sei tu forte, animoso? Hai fede nella virtù e nella giustizia? Giurami allora che non sarai vile, che non abbandonerai il tuo posto, che misero o felice, accompagnato o solo, per la virtù per la giustizia combatterai fino all’estremo!

— Oh Pisana, cosa mi chiedi mai? Come credere alla virtù e alla giustizia, quando non ti abbia al fianco, quando una vita come la tua ottenga una sì misera ricompensa?

— Una vita come la mia è così invidiabile, che beati gli uomini, se potessero averne ciascuno una di simile! Una vita che principia coll’amore, e termina col perdono, colla pace, colla speranza, per sollevarsi in un altro amore che non avrà più fine, è tanto superiore ad ogni mio merito che ne ringrazio, e ne benedico Iddio, come d’un dono grazioso. Ma una sola felicità mi manca, la quale anche son sicura di ottenerla, perchè è in tua potestà il concederla. Giurami, Carlo, giurami quanto ti ho domandato. No, non sarà mai vero, che tu nieghi a me l’unica grazia che ti chiedo, supplicandoti per quanto hai di più sacro e di più caro al mondo, per la memoria, per l’eternità dell’amor nostro!

— Oh Pisana, io non ho mai violato alcun giuramento!

— E per questo appunto te ne scongiuro; vedi, la felicità de’ miei ultimi momenti pende ora dalla tua volontà, dalle tue labbra!

[p. 458 modifica]— Dunque è proprio necessario?... È un tuo decreto irrevocabile?

— Sì, Carlo; irrevocabile! Come il dono che ho fatto a te di tutta me stessa; come il giuramento ch’io rinnovo ora che tu sei l’essere più nobile e generoso che abbia vestito mai spoglie mortali!...

— Oh, ma tu mi stimi più assai che non valga; tu mi chiedi quello che non posso...

— Tutto, tutto potrai!... se mi ami ancora!... Giurami che vivrai, pel bene della famiglia ch’io ti imposi, per l’onore della patria che insieme abbiamo amato e ameremo sempre!...

— Pisana, lo vuoi?... Or bene, lo giuro!... Lo giuro per quel desiderio che avrei di seguirti, lo giuro per la speranza invincibile, che la natura penserà presto a sciogliermi del mio giuramento!...

— Grazie, grazie, Carlo!... Adesso sono felice; torno degna di Dio!...

— Ma una cosa anch’io ti domando, Pisana: di non pascerti più a lungo dei lugubri pensieri che ti fanno morire prima del tempo, di adoperare quella felicità che in te rinasce, a ravvivare la tua salute, a rianimare il tuo coraggio, a serbarti insomma per noi, per noi che ti amiamo tanto!

— Oh tu sì, vedi, tu mi chiedi più di quanto possa concederti!... Carlo, guardami in volto!... Vedi tu questo sorriso di beatitudine, queste lagrime di gioia che m’inondano gli occhi? Or bene, credi tu che io povera donna, pazza, ebbra d’amore, mi rassegnerei a lasciarti ed abbandonarti per sempre, a non vederti mai più, nè in terra, nè in cielo, se una speranza certa, profonda, invincibile, non mi affidasse che ci rivedremo, che saremo uniti e contenti, a mille tanti che nol fummo mai, per tutta la eternità?...

— Pisana, oh sì, ti credo! Veggo l’anima tua che [p. 459 modifica]risplende da quegli occhi divini!... Rimani, rimani con noi; per carità rimani!...

— E credi che se dovessi rimanere, avrei goduto i piaceri puri, ineffabili, di quest’ultima ora?... Oh no, Carlo; ogni altra gioia sarebbe per me omai troppo ignobile e scolorita. Lascia, lascia che me ne vada. Ammira tu pure, insieme con me, la clemenza di Dio che circonda dei colori più splendidi il sole che tramonta!... Ringrazialo di farci pregustare in questo mondo le voluttà inesprimibili dell’altro, quasi un’arra infallace che le promesse infuseci da lui nel cuore, non sono nè manchevoli, nè menzognere!... Addio, Carlo, addio!... Separiamoci ora che le nostre anime sono forti e preparate!... Ci rivedremo ancora forse molte volte, forse una sola!... Ma un’ultima volta ci rivedremo certo, per non separarci mai più. Vado ad aspettarti, ad imparare ad amarti veramente come meriti!... Addio addio!... —

E mi sfuggì d’infra le braccia, e non ebbi la forza di trattenerla; e piansi piansi com’ella veramente fosse morta, come quell’addio fosse stato la sua ultima parola. E per vagar che facesse il mio pensiero non vedeva altro intorno a sè che buio e deserto. Quell’anima così grande e sublime risplendeva tanto, che fuggendo ella, mi parevano larve tutti gli altri splendori di quaggiù, e ogni affetto perdeva forza e calore raffrontandosi al suo. Entrarono di lì a poco Lucilio, l’Aquilina con tutti gli altri; io non ebbi forza che di segnare con un gesto la porta donde era scomparsa la Pisana, e sciogliermi di bel nuovo in pianto.

La vista di quelle persone che mi inchiodavano sì irremissibilmente alla vita, mi fu in quel punto insopportabile e direi quasi odiosa. Era perfino snaturato contro la moglie e i figliuoli. Ma partiti che furono dalla camera, spaventati dal mio pianto e da quel gesto terribile, i consigli della Pisana mi mormorarono pietosamente nel cuore. [p. 460 modifica]L’amore di lei, che era si può dire immedesimato coll’anima mia, diffuse sui miei sentimenti un fiato salubre e vigoroso. Pensai che veramente per amarla avrei dovuto se non uguagliare, imitare almeno la sua grandezza, e sacrificarmi agli altri com’ella si era sacrificata per me. Pensai che non sono bugie quelle sante parole di famiglia e di patria, che sonando dal suo labbro, pigliavano un’autorità religiosa e quasi profetica. Pensai che, espiazione o battaglia, la vita nostra è un bene almeno per gli altri; e che quanto più è un male per noi, tanto più meritorio è il coraggio di portarla fino alla fine. I suoi sguardi, inspirati dalla fede delle cose misteriose ed eterne, mi lampeggiavano ancora dinanzi; sentii che la loro luce non si sarebbe offuscata mai più nel mio cuore, e che si sarebbe tramutata in una felice speranza, in un desiderio paziente ma sicuro. Piansi allora di bel nuovo, ma le lagrime scorrevano tranquille giù per le guance; e non precipitai più disperato e violento, ma mi sollevai lieve e rassegnato all’aspettazione della morte.

Dopo circa un’ora, durante la quale bene avvisarono di lasciarmi solo, tornò Lucilio a significarmi che la Pisana era stata colta da un improvviso sfinimento, ma che riavutasi col bere un cordiale, s’era allora allora acquetata in un dolcissimo sonno. Raccomandava la lasciassimo in pace e che la natura operasse sola, perchè non vi sono ristori più potenti de’ suoi. Egli sarebbe venuto prima di sera, a vedere se potesse aiutare coi soccorsi dell’arte i miglioramenti ottenuti da quelle ore di riposo. Successe infatti la tregua di alcuni giorni, nè la gioconda serenità della Pisana fu smentita mai un istante.

Quand’ella poteva avermi vicino a sè e farmi sommessamente ripetere che avrei mantenuto le mie promesse, un sorriso celestiale irradiava le sue sembianze; non l’aveva mai veduta così contenta neppur negli istanti delle nostre [p. 461 modifica]maggiori beatitudini. Così vidi illanguidirsi a poco a poco in una calma ilare e serena quell’anima di fiamma, che avea sempre vissuto in una sì fiera tempesta di passioni; vidi la sua parte più pura sorgere a galla, e risplendere d’una luce sempre più tersa e tranquilla, e scomparire affatto que’ profani sentimenti che l’avevano per qualche istante appannata: vidi quanto aveva potuto un affetto solo, ma pieno e costante contro un’indole bizzarra e tumultuosa, contro un’educazione falsa e pervertitrice: vidi tacere affatto le passioni al volo rapido e lieve che spiccava lo spirito, e la morte avvicinarsi, bella amica sorridente al bacio, del pari sorridente, delle sue labbra.

Il delirio dell’agonia fu per lei un sogno di visioni incantevoli; fino allora io avea creduto che fossero artifiziose bugie quelle grandi parole che si mettono in bocca ai moribondi; ma mi persuasi allora che le anime sante rivolgendosi dal punto supremo a gettare sulla loro vita un ultimo sguardo, ne spremono quasi i più alti e generosi sentimenti, per farsene viatico al gran viaggio verso Dio. Molte volte nominò l’Italia, molte volte stringendomi la mano mormorava parole di coraggio e di fede. «I tuoi figli, i tuoi figli! — mi diceva. — Carlo, li vedi, essi sono più felici di noi!... Ma nel mondo, vedi, nel mondo! Fuori del mondo noi saremo beati al pari, di aver preparato la loro felicità!» Un altro momento si perdette in vaghi balbettamenti, dai quali credetti rilevare che parlasse di Napoli, e dei giorni gloriosi e terribili vissuti colà ventiquattr’anni prima. Dopo evocate quelle lontane memorie mise le mani in croce, e con piglio supplichevole soggiunse: «Perdono, perdono!...» — Oh il perdono, anima mia, a chi e perchè lo chiedevi? Forse a me che avrei dato tutto il mio sangue per meritare il tuo? Forse a quel Dio che da tanto tempo era spettatore de’ tuoi coraggiosi sacrifizii, e [p. 462 modifica]ammirava in quel momento la sublimità virtuosa e serena a cui può sollevarsi una sua creatura?...

Oh godi ora, godi, anima benedetta, di quest’ultima testimonianza, che io, ancora vivo dopo altri trent’anni di pazienza e di dolori, rendo sul limitare del sepolcro alle tue eroiche virtù!... Godi di sapere che se qualche splendore di coraggio ha illustrato il resto della mia vita, se di qualche utile impresa si onorarono i miei figli, e si onoreranno mai i figliuoli loro, il merito si appartiene a te sola! A te che mi pregasti di rimanere e di perpetuare e rinnovare in me e negli altri l’esempio della tua vita magnanima!... Sorridi ancora alla mia mente annebbiata e decrepita, o anima pura, da quel cielo alto e profondo dove per l’intima forza della sua sublimità si rifugiò la tua luce, e additami con un raggio di speranza il sentiero per cui possa raggiungerti!... Se nel pensiero abbuiato dalla vecchiaia, e curvo sul sepolcro del mio figliuolo prediletto, dura ancora un poetico barlume delle eterne speranze, lo deggio a te sola. Per te sola ebbi famiglia, patria e altezza di cuore, e incorruttibilità di coscienza; per te sola conservo il fuoco eterno della fede; e lo unirò dove che sia al fuoco eterno dell’amor tuo.

No, non sogna, non bamboleggia un vecchio d’oltre ottant’anni; non resiste a tanti dolori per cadere in quel supremo dolore che sarebbe la confusione del bene e del male. V’ha una sfera sovrumana, un ordine eterno, dove le colpe piombano nella materia, e le virtù si sollevano a spirito. Io che ti vidi scrollare d’intorno queste spoglie frali e caduche, io che ti ricordo più bella, più giovine, più felice che mai all’istante supremo e pauroso della morte, io che ti amo ora più che non ti amassi mai, compagna nella vita, nella debolezza, negli errori, io deggio credere per necessità a una sublime purificazione, a un misterioso travestimento degli esseri! Sì, per grazia tua, [p. 463 modifica]per amor tuo, o animo felice, mettendo il piede nella tomba rinnego superbamente quella filosofia timida e senza cuore, che nega ciò che non vede. Piuttosto che abbassare coi sensi la ragione umana, mille volte meglio sublimarla coll’immaginazione e col sentimento. Grazie, o Pisana, di quest’ultimo conforto che mi piove dall’alto dei cieli. Tu sola potevi tanto sopra di me. Non credo, non ragiono, ma spero. —

Quand’ella fu tornata in sè, l’Aquilina le domandò se voleva che si chiamasse un prete, perchè la religione assicurasse viemeglio la meravigliosa serenità del suo spirito.

— Oh sì! — rispose ella sorridendo mestamente. — A mia sorella dorrebbe assai di sapere ch’io fossi morta senza prete!

— No, non parlar di morire! — soggiunse l’Aquilina; — i conforti della religione aiutano anche a vivere secondo la volontà del Signore.

— Vivere o morire è lo stesso dinanzi a lui — riprese con voce tranquilla e solenne la Pisana; — poi rivolse a me una lunga occhiata di speranza. Io mi asciugai gli occhi furtivamente, e nel rivolgermi all’altro lato vidi mio cognato e i due ragazzi che contemplavano maravigliati e quasi invidiosi quella forte moribonda. Tutto spirava intorno a quel letto pace e grandezza; e io pure finii col credere che non si trattasse di altro che della separazione di pochi anni; non assisteva ad una morte disperata ma ad un mesto ed amichevole commiato. Venne Lucilio, che tastò il polso e sorrise alla morente come volesse dirle: partirai fra breve, ma in pace. Egli pure credeva. Venne da ultimo il prete, col quale la Pisana s’intrattenne a lungo senza cinico disprezzo e senza affettata divozione. Contenta com’era di sè non le fu difficile persuadersi d’essere in pace con Dio; e i primi funerali, che si [p. 464 modifica]celebrano con pompa sì lugubre e spaventosa al letto degli agonizzanti, non alterarono per nulla il suo aspetto sereno.

Tornò poi ad intrattenersi con noi, a ringraziare Lucilio delle sue cure, l’Aquilina e Bruto della loro amicizia, a benedire i miei figli pregandoli di ubbidire e di imitare i loro genitori. Mi prese poi per mano, e non volle più che mi scostassi dal suo letto nemmeno per prendere una tazza di cordiale che stava sopra l’armadio, e che le fu avvicinata alle labbra dall’Aquilina. Essa la ringraziò d’un sorriso, indi si rivolse a me soggiungendomi all’orecchio: «Amala, sai, amala, Carlo! Te l’ho data io!» Non ebbi fiato di risponderle, ma accennai col capo di sì; nè ho mai dimenticato quella promessa, e l’Aquilina stessa avrebbe potuto attestarlo, per quanto alcune disparità d’opinione abbiano inasprito in appresso i nostri temperamenti.

Di momento in momento il respiro della Pisana diveniva più raro ed affannoso; mi stringeva sempre più forte la mano, sorridendo ad ora ad ora a ciascuno di noi; ma quando toccava a me era un’occhiata più lunga ed intensa. E se ne stoglieva per guardar di nuovo l’Aquilina; quasi le chiedesse perdono di quegli ultimi contrassegni d’amore. Proferiva di tanto in tanto qualche parola, ma la voce le veniva mancando; io mi sentiva mancare insieme a lei, e subito collo sguardo ella mi inanimava a ricordarmi di quanto le aveva promesso.

— Eccomi! — diss’ella ad un tratto con voce più forte del solito. E volle sollevarsi dal guanciale, ma ricadde più stanca che abbattuta, e sorridendo di quello sforzo impotente. — Eccomi! — mormorò una seconda volta; poi volgendosi a me soggiunse: — Ricordati: ti aspetto!... —

Io sentii un brivido passarmi per mezzo il cuore: era [p. 465 modifica]l’anima sua che nel partire risalutava la mia. Mi stringeva ancora per mano, le sue labbra sorridevano, gli occhi guardavano ancora; ma la Pisana era già salita ad avverare le sue eterne speranze. Lo credereste? Nessuno si mosse dal suo posto; tutti restammo là immobili, silenziosi, a contemplare la serenità di quella morte; Lucilio mi raccontò poi di aver pianto esso pure ma quasi di consolazione; io non lo vidi allora come nulla vidi per tutto quel giorno. Non mi mossi, non piansi nè parlai, finchè non tolsero dalla mia la mano della Pisana per adagiarla nella bara. Allora io stesso le composi intorno le vesti, io stesso la deposi nel suo ultimo letto, e all’ultimo bacio che le impressi sulle labbra mi parve che l’anima mia fosse fuggita insieme alla sua.

Per molti giorni rimasi che non sapeva d’essere nè morto nè vivo: ma era sospensione di vita e non disperazione, per cui a poco a poco il pensiero si sciolse da quel letargo, e riebbi finalmente la coscienza di me e la memoria di quanto era stato, per riaver insieme la fortezza che mi abbisognava onde ubbidire agli ultimi desiderii della Pisana. D’allora in poi la mia indole assunse una gravità e una fermezza non mai avuta dapprima; e l’educazione ch’io diedi a’ miei figliuoli s’inspirò tutta da quei magnanimi esempi di virtù e di costanza. Quando l’Aquilina mi rimproverava dolcemente di avventurarli così ad un destino compassionevole e tempestoso, bastava ch’io le ricordassi la morte della Pisana perchè ella si ritraesse dicendo che aveva ragione! Infatti non si deve guardare nè a pericoli nè a sacrifizi per meritare una tal morte.

Pochi giorni prima che partissimo da Londra, arrivò la notizia che Sua Eccellenza Navagero era passato a miglior vita lasciando la Pisana sua erede universale, e ov’ella morisse senza testamento, instituendo con ogni suo avere uno spedale che dovea portare il nome di lei. Possedeva [p. 466 modifica]netti netti un pajo di milioni ed era vissuto quegli ultimi anni in una finta povertà per accumulare quella gran somma allo scopo per cui la destinava. Io soffersi assai di dover abbandonar l’Inghilterra, dove in campestre cimitero rimaneva tanta parte di me; ma la Pisana mi comandava di pensare ai miei figli, e partimmo. Spiro e l’Aglaura mi raccomandavano di tutelare alcuni loro interessi rimasti sospesi a Venezia, per cui mi volsi colà, deliberato di fermarmivi. Mio cognato, dopo una corsa in Friuli per dar ordine alle sue cose, ci avrebbe raggiunti, e così io disponeva mestamente il mio campo d’inverno per la vecchiaia. Molto anche avea sofferto nello staccarmi da Lucilio, ma egli mi avea lasciato dicendomi: — Verrò a morire fra voi! Sapeva ch’egli non avrebbe mancato alla sua promessa. Giungemmo a Venezia il quindici settembre 1823. Passai la prima notte in quella memore cameretta dov’avea vissuto giorni sì spensierati e felici, baciando fra lagrime e singhiozzi due ciocche di capelli. L’una l’aveva strappata dai bei ricci della Pisana fanciulletta: l’altra l’avea tagliata religiosamente sulla pallida fronte della Pisana morta.