Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato (Vol. I)/II. Mantova/VI. Relazione dell'illustrissimo signor Gioanni da Mulla dal cardinal duca di Mantova Ferdinando (1615)

Da Wikisource.
VI. Relazione dell'illustrissimo signor Gioanni da Mulla dal cardinal duca di Mantova Ferdinando (1615)

../V. Relazione del clarissimo signor Pietro Gritti al duca Francesco di Mantoa (1612) ../VII. Relazione dell'illustrissimo signor Nicolò Dolfin al signore duca Carlo di Mantoa (5 agosto 1632) IncludiIntestazione 12 maggio 2018 75% Da definire

VI. Relazione dell'illustrissimo signor Gioanni da Mulla dal cardinal duca di Mantova Ferdinando (1615)
II. Mantova - V. Relazione del clarissimo signor Pietro Gritti al duca Francesco di Mantoa (1612) II. Mantova - VII. Relazione dell'illustrissimo signor Nicolò Dolfin al signore duca Carlo di Mantoa (5 agosto 1632)
[p. 131 modifica]

VI

RELAZIONE

dell’illustrissimo signor GIOANNI DA MULLA

ritornato di ambassator

dal cardinal duca di Mantova Ferdinando

1615

Serenissimo Principe, gravissimo e sapientissimo senato. Nella presente azione, che per ultima parte della mia ambassaria di Mantova mi resta far questa sera alla Serenitá Vostra ed alle Signorie Vostre eccellentissime, posso con veritá constantemente affermare di provar in me stesso molta e grande difficultá: perché, oltre la mia ordinaria debolezza, la poca isperienzia che ho di tutte le cose ed il brevissimo spazio di tempo che mi son fermato in quella corte, maggior e piú grave mi riesce questo peso dal considerare che nel presente ufficio di altro non posso discorrer che o di cose le quali, per le istorie e per altre relazioni di prestantissimi soggetti e per la continuata notizia, che con l’occasion delle turbolenzie passate ha ricevuto di tempo in tempo quest’eccellentissimo senato, sono molto note e molto palesi; o di altre che, essendo fondate solamente sopra la congettura ed il discorso, restano sottoposte alla falacia, alla incertezza ed alla mutabilitá delli accidenti e delle cose del mondo. Onde, come molto volontieri mi sarei liberato da questo grande obligo, cosí, dovendo per obedienza d’un altretanto prudente quanto antico instituto della republica rifferir quello che stimerò degno dell’intelligenza di questo eccellentissimo senato, procurerò di parlar delle cose che possono esser note, come delle forze e dei Stati del signor duca, con molta sobrietá; e di quelle [p. 132 modifica]che sono incerte e dubie, come dei pensieri, inclinazioni ed affetti di quel principe, con tutto quel più verissimile fondamento che mi potrá esser persuaso dalla ragione, da quel che io ho osservato della sua natura, e che ho cavato dai suoi discorsi. E portando il tutto con grandissima sinceritá, mi affaticherò principalmente di levar piú presto che sará possibile alle Signorie Vostre illustrissime ed eccellentissime la molestia del presente discorso.

Possedè, come è benissimo noto, il signor duca di Mantova, al quale Vostra Serenitá m’ha mandato per suo ambassatore, due Stati: quello di Mantova e quello del Monferrato. In quello di Mantova, oltre molte grosse terre, come Canedo, la Volta, Valezo, Viadana, Ostia, Revere, Castel Pupo, che è luogo di presidio, ed altre, ha principalmente la cittá di Mantova, residenzia ordinaria del signor duca, se ben conviene al tempo dell’estate uscir fuori ed andar ad abitar in alcun altro luogo, de’ molti che ha vicinissimi alla cittá, d’aria piú salubre e pieni di abondanti commodi e delizie. E questo, perché il lago di Mantova, che per altro è non solo principalissimo e nobilissimo ornamento della cittá, ma forte e sicuro riparo di lei, al tempo del caldo si scema e, rimanendo perciò scoperta ed asciuta la pallude, genera certa nebbia, che rende l’aria molto grave e pericolosa. La cittá è in se stessa grande e capace, convenientemente adornata di nobili edifici, di belle strade ed abitata assai, essendovi in essa 30.000 persone in circa. Si lavora in essa molto di gucchieria, di lane, di azze e di seda in particolare, ed è mercantile tanto che basta; e li ebrei sopra gli altri fanno il piú delle facende, poiché di pani, di seda, di lana e d’ogn’altra cosa e infino di gioie e d’argenti si trova nel ghetto in maggior copia il tutto che in altro luoco o mercanti della cittá.

Vi è in Mantova considerabile numero di gentiluomini e cavallieri, se ben, eccettuati quelli di casa Gonzaga ed altri pochi, son gli restanti di mediocre e piú tosto stretta fortuna. Sono insigniti alcuni di loro dell’ordine del signor duca, del Redentore o del Tabernacolo che lo vogliamo chiamare, ed in particolare quelli di casa Gonzaga: dignitá che li rende riguardevoli [p. 133 modifica]assai, e godono per essa d’alcune preminenzie conspicue molto, come Tesser trattati in lettere dal signor duca col titolo di «molto illustre», si possono coprire alla sua presenza senza altro cenno dell’Altezza Sua, entrano sempre nella propria carozza del duca, quando vi sia luogo, ed hanno molti altri privilegi ancora. Cose che, fuor che a’ cavallieri dell’ordine, non sono concesse ad altri, se non ad alcuni principalissimi cavallieri feudatari dell’imperio e di gran sangue, come al conte Ridolfo Ippoliti da Gazoldo, che è stato quello che mi ha sempre fatto compagnia d’ordine del signor duca, al marchese di Grana ed a qualchedun altro; ma sono pochi.

Gode il signor duca per sua abitazione in Mantova un amplissimo e nobilissimo palazzo, che sarebbe bastevolmente capace per ogni gran re, riccamente addobato di paramenti di muro in gran numero, cosí di finissima razzeria, come di seda ed oro; ornato dall’antichitá di molte eccellenti pitture, di quali ve n’è grandissima copia, essendone infine le galerie tutte ripiene; con tanta quantitá di logge, sale, corridori, cortili e giardini, parte terreni e parte situati in eminenza uguale alle stanze ove si abita, che per tutti i rispetti viene a rendersi grandemente magnifico e sontuoso. In una parte di esso abita il signor duca, ed in un altro appartamento il signor don Vicenzo suo fratello, restandone, con tutto ciò, tanto di vuoto ed inabitato ancora, che è quasi incredibile.

Non ha mai compitamente rimesso questo principe la sua razza di cavalli da che v’entrò certa infirmitd, che l’estinse quasi del tutto; e se bene può al presente avere nelle sue stalle da 250 cavalli in circa, non ne ha però piú che 25 o 30 nobili e di maneggio, ed il resto sono cavalli da carozza, da sella, che servono per uso di piacere e di caccia, e puledri. V’applica però il signor duca grandemente il pensiero. Ha diversi buoni stalloni, ne procura d’ogni parte, ha un buonissimo cavallarizzo condotto con lui da Roma, e spera ritornar il tutto in buono stato.

In Mantova non vi è essercizio né militare né litterario e non vi è alcuno, si può dire, che abbi isperienzia delle cose di guerra. Si trova al presente in quella cittá il baron de Par, che fu quello [p. 134 modifica]che ebbe la carica della levata di 4.000 alemani e si trattiene tuttavia con titolo di onore, piú tosto che effettivamente impiegato nel servizio del signor duca. È stato alle guerre di Fiandra assai tempo e tentò giá di condursi al soldo di Vostra Serenitá.

Si trova aver in questo Stato il signor duca per soldati d’ordinanza 10.000 uomini, descritti uno per casa; e sono come le cernide della Serenitá Vostra. Inoltre 600 archibuggieri da cavallo, non con altro danaro o premio pagati che con la concessione di diverse essenzioni, immunitá e privilegi, come in particolare della licenza di portar armi, apprezzata sopra ogni altra cosa da loro; e 100 corazze ed 80 lance, i capitani delle quali hanno la sua paga ordinaria.

Rende questo Stato di Mantova al signor duca di entrata annua 200.000 ducati in circa: parte in dazi, fra’ quali quello del sale è per l’ordinario di molta importanza, e parte in stabili ed altri beni feudali ed allodiali propri della sua casa.

È questo paese abondante molto di ogni copa, ed in particolare di grani, che largamente suppliscono al suo bisogno e ne comparte ad altri luoghi circonvicini ancora: dicono che tal anno ne abbi prodotto intorno a 200.000 ducati.

Si gloria il signor duca di non aver in Mantova né senato né consiglio né altro magistrato che sia proprio della cittá, se non quello che elegge l’Altezza Sua e dipende dalla sua volontá; perché, com’è benissimo noto, dall’esser feudatario in poi dell’imperio, si trova di questo Stato libero e assoluto signore. Perché, avendo Luigi Gonzaga liberato il Stato di Mantova dalla tirannide di oppressione di Passarino Buonacorsi, il popolo di Mantova in segno della sua gratitudine, avendo per lui ricuperato la libertá, lo elesse unitamente ad una voce per suo generai dell’armi e che dovesse nell’avvenire aver il governo della cittá e di tutti li Stati; e cosí continuò per il spazio di quattro discendenze la casa Gonzaga nel possesso del generalato predetto e nel governo. Giovanni Francesco Gonzaga poi ottenne dall’imperio in feudo li Stati ed ebbe il titolo di marchese di Mantova, col quale continuorno li stessi di casa Gonzaga nel commando un gran pezzo ancora; fino che, venuto per altre [p. 135 modifica]occasioni l’imperatore in Italia, il marchese Giovanni Federico supplicò per il titolo di duca e lo consegui, restandone investito lui e tutti i suoi discendenti maschi in perpetuo. E perché aveva Giovanni Federico delli altri fratelli, vennero di lá a poco fra loro alla divisione de’ Stati, ed a chi toccò una cosa ed a chi l’altra: altri ebbero lo Stato di Guastalla, altri Sabioneda, altri Bozolo, altri Castiglione, altri Gazzolo e Castel Iufré, il qual castello fu riacquistato dal duca Guglielmo di Mantova detto il «gobbo», pretendendo che questi Stati non s’avessero potuto separar dalla prima investitura. Ed è opinione che, se avesse vivuto piú tempo, per li favori che aveva in corte dell’imperatore e per li molti danari che possedeva, avrebbe resi tutti i Stati di sopra narrati soggetti al ducato di Mantova e riuniti com’erano prima delle divisioni, col dar ad ognuno l’equivalente in contanti o con far almeno che restassero infeudati da lui, conservandosi l’alto dominio sopra que’ luoghi; ma la morte lo impedí, come fa spesso, e il dissegno non ebbe luogo.

Basta che dalle cose predette si cava che il Stato di Mantova è pervenuto in assoluta disposizione e libertá di quelli della casa Gonzaga, e dal quattrocento e vintidò in qua si sono contati in questa casa quattro governatori generali dell’armi, quattro marchesi e sci duchi, compreso il presume. E tanto doverá bastar del Mantovano.

Ha, come ho detto, il signor duca oltre il Stato di Mantova quello del Monferrato ancora: Stalo, che per la qualitá del sito, per la fertilitá, per l’abondanza, per l’amenitá, per il numero de’ populi abitanti, per la natura de’sudditi, buoni, obedienti, per le quantitá delle terre murate, oltre molte cittá e terre di presidio, e per ogn’altra condizione insomma che si ricerchi a render un paese veramente felice, con ragione non cede a qualsivoglia altra parte o paese d’Italia. Non mi estenderò in raccontar le particolari dotti e rilevanti favori concessi dalla natura a quel nobilissimo e fertilissimo paese, né meno il suo sito e quali siano i suoi confini; perché, ritrovandosi il tutto nelle istorie copiosamente e figurato e delineato in carte, troppo inutil [p. 136 modifica]tedio apporterei alle Signorie Vostre eccellentissime. Né meno dirò come questo Stato pervenisse nella casa Gonzaga per via di femine, quali ragioni vi pretende sopra il signor duca di Savoia, li disgusti, le liti ed ultimamente i disturbi che per questa causa siano stati tra questi principi, le sentenzie prononziate in questi propositi dagl’imperatori ed altre cose toccanti questo difficilissimo ed invilupatissimo negozio; perché tanti iurisconsulti hanno scritto in questa materia e per l’una e per l’altra parte, che il voler portare adesso la opinione d’ognuno sarebbe entrar in un pelago di cose che non fanno al proposito nostro e che ricercherebbono lunghezza di tempo tale, che per aventura non ne resterebbe per la considerazione di diversi altri particolari di maggiore peso. Basta che al presente si trova il signor duca di Mantova padrone di quel Stato, posseduto anco per gran tempo adietro da molti de’ suoi predecessori, i quali hanno sempre cavato dal Monferrato, oltre la riputazione e l’utilitá delle rendite e delle milizie descritte, diverse altre rilevanti commoditá dal gran numero di cavallieri feudatari di quel Stato. E specialmente il duca Vicenzo, padre di questo presente duca, non solo fu sostentato alle occasioni da quei sudditi con le gravezze che loro imponeva, ma servito ancora colle proprie persone delli piú principali cavallieri nei viaggi, che cosí frequentemente faceva quel principe; e, fra gli altri, quando andò alla guerra in Ongaria, quando capitò a Ferrara in tempo di Clemente Vili ed ultimamente quando andò a Turino a levar la infanta, moglie del duca Francesco, suo figliuolo e fratello di questo. In tutte queste importanti occorrenze il principal ornamento e decoro della corte di quel principe fu il floridissimo numero de’ gentiluomini monferrini, che con le livree, vestiti ed altro accrescevano al duca in estremo la riputazione e la stima.

Nel Monferrato vi è un grandissimo numero di terre grosse murate, e fra queste molte di presidio, come Trino (che, dapoi la cittá di Casale, è la piú importante), Moncalvo, Alba, San Damiano, Ponte Stura, Diano ed altre. Ma vi è principalmente la cittá di Casale col castel vecchio e la cittadella, che è una delle sicure e forti piazze d’Italia, posta in sito tanto considerabile, [p. 137 modifica]dissegnata e construtta dal marchese Germanico Savorgnano in tempo del duca Vicenzo, come è ben noto. E quella fortezza è realmente la vera sicurtá di tutto il Monferrato, perché con essa può difendersi e sostentarsi da ogni impeto che le potesse venire o dal Piemonte o dal Milanese o da altra parte; e, se bene fosse presa qualche altra terra o luogo da’ nemici, tengono gl’intendenti della professione militare che, salva la cittadella, si potesse ricuperar il tutto in breve tempo e conservare il Monferrato: onde si può vedere quanto rilevi la conservazione di quella piazza, che dalli duchi di Mantova come propugnacolo della loro libertá merita di esser tenuta cara quanto le pupille degli occhi propri. E se bene non manca chi tenghi la costruzione della cittadella esser stata superflua, perché, se per un rispetto assicura il Monferrato, che è in se stesso Stato aperto, dall’altra però ha ingelosito tutti i principi e tirato a sé gli occhi d’ognuno, in maniera che possi aportar causa piú tosto di travagli ed una gran spesa per mantenerla; con tutto questo però confessa ognuno che sia fortezza molto considerabile e che sia necessario, poiché è fatta, conservarla con tutto il studio possibile e con ogni imaginabile accuratezza.

Può renderli quel Stato intorno a 230.000 ducati d’entrata all’anno, che consiste in dazi, e la maggior parte in vini, de’ quali abouda il paese grandemente, e, quello che rileva moito, oltre la copia, sono tutti delicatissimi, onde hanno l’esito per tutte le parti sempre molto facile ed ispedito.

Si può dunque concludere che fra il Mantovano ed il Monferrato abbia il signor duca di gente descritta 30.000 soldati in circa e 1200 cavalli, oltre le lance della sua guardia. E può cavare da questi due Stati intorno a 430.000 ducati d’entrata, in tempi però di quiete e di pace; perché quello che possi aver cavato di manco questo principe in questi ultimi anni de’ travagli, particolarmente dei Stato del Monferrato, che ha convenuto sentire non solo il danno dell’offesa de’ nemici, ma il peso della diffesa degli amici per l’alloggio cosí lungo e continuato de’ spagnuoli, io lo lascio considerare alla somma prudenza delle Signorie Vostre eccellentissime. [p. 138 modifica]

Sono l’entrate di questo principe, per dir il vero, di molta considerazione, ma sono anco tante le spese, parte necessarie e parte volontarie, che in capo all’anno si può dire che l’entrata e l’uscita siano del pari. Perché il presidio della cittá di Casale, castel vecchio e cittadella, che sola ricerca anco in tempo di pace 600 fanti almeno, di Trino, Ponte Stura ed altre terre presidiate del Monferrato; quello di alcune del Mantovano; il servizio del signor duca, che ascende a 800 bocche; le guardie; l’alloggio quasi perpetuo di ambassatori de’ principi, che, per lo piú essendo estraordinari, vengono a borsa publica spesati, d’altri personaggi e talora di principi stessi; i viaggi, la musica, comedie ed altri piaceri; ma sopra tutto gl’interessi che si pagano per li debiti: fanno tutte queste cose ascendere la spesa a somma molto grande e rilevante; ed in questi ultimi tempi dei disturbi, l’alloggio de’ principi di Savoia, di quelli di Modena, di ambassatori, di personaggi, di ministri di Spagna e d’altri è riuscito dispendioso in maniera quasi incredibile. Oltre che, tutti gli ambassatori del signor duca, che vengono mandati da lui in altre corti, vanno con grandissimo interesse dell’Altezza Sua a spese della Camera ducale, restando loro libera l’elezione o di patuire ed accordare con la ditta Camera in un tanto per tutte le spese dell’ambassaria, che hanno ad essercitare allora, o di tener conto per polizza del speso, con restarne rimborsati compitamente al loro ritorno in corte. In modo che, se ben le rendite sono abondanti, le spese sono anco corrispondenti, per non dir maggiori; ed il duca Vicenzo non solo alienò in vita sua una gran quantitá di beni, ma spendeva in tutte le cose tanto profusamente che non è da maravigliarsene. Oltre che, la costruzione della cittadella di Casale gli costò tanto, che sarebbe stata spesa grandissima anco per un re di Spagna, affermando alcuni che gli costasse un million d’oro; onde si può attribuire in gran parte a questo particolare ancora la causa de’ debiti che lasciò. Li quali non è dubio che, se il duca Francesco fosse vissuto, li averebbe in breve tempo estinti, perché mostrava di esser principe molto pesato ed applicava a questo grandemente il pensiero, e, se bene stava alla grande e [p. 139 modifica]nell’apparenza forse anco piú onorevolmente del padre, aveva però riseccate tutte le superfluitá e voleva che le cose procedessero molto assignatamente. Quello mò che possi far il duca presente intorno a questo, non si può affermare, perché il suo ingresso al ducato è stato molto infausto e dispendioso; onde, come sicuramente non ha potuto in alcuna parte estinguer li debiti vecchi, cosí anzi gli è stato necessario farne di novi, oltre aver impegnata la maggior parte delle sue gioie ed argenti, come disse Sua Altezza di aver convenuto fare di propria bocca. Ha però buoni pensieri, vuol riseccar le spese, essendo per diminuire al presente 100 bocche del suo servizio; e mi disse anco di non aver molta inclinazione a viaggiare né ad altri piaceri di senso, che il giuoco è aborritissimo da lui e che la sua maggior dilettazione è la musica, che li costa però assai, spendendo in essa 30.000 ducati all’anno. E questo è quanto, contenendomi nei termini della dovuta brevitá, ho stimato conveniente toccare dei Stati del signor duca, delle sue forze, dei suoi sudditi, delle sue rendite e delle sue spese.

Passerò ora con la medesima brevitá a considerare le con dizioni di questo principe, del signor don Vicenzo suo fratello e d’altri della sua casa, della inclinazione del signor duca, de’ suoi interessi, con qualche altro particolare di piú sostanza. E adunque Ferdinando Gonzaga, al presente duca di Mantova, di anni 26 in circa, di statura mediocre, di abitudine, oltre l’ordinario della sua casa, magra ed asciuta, di delicata complessione, di leggiadro aspetto e di faccia amabile e piena di venustá. È sano convenientemente, e sarebbe anco forse piú, se, abandonando l’opinione di un suo medico familiare, non frequentasse cosí spesso i medicamenti come frequenta, ma attendesse la conservazione della sua salute dal vigor degli anni, dall’essercizio che fa e dalla propensione che ha dalla natura di mangiare e bere pochissimo, che non può esser certo piú scarsamente o sobriamente di quello che usa l’Altezza Sua. Patisce un poco di flussione di cattáro, particolarmente nel mutarsi delle stagioni, ma non è cosa di rilevo, e, come ho detto, basterebbe per mantenerlo sano la parsimonia del vivere, che in [p. 140 modifica]Sua Altezza è ordinaria e si può dir naturale. Ma, per quello che ho inteso, come si sente non dirò indisposto, ma in alcune parti o perturbato o alterato o raffredato un poco, decorre subito a qualche medicamento; e perché meno gli rieschi molesto, lo prende ridotto a quintaessenza in un piccolo confetto, onde viene a rendersi di questa maniera maggiormente spiritoso e potente, per non dir violente ed al suo stomaco ed alla sua complessione: per opinione commune, apporta anzi pregiudizio che giovamento. È questo principe di vivissimo ed acutissimo ingegno, di bel spirito e di grandissima attitudine a tutte le cose. Ma nei studi particolarmente ha fatto gran progresso, essendo stato tenuto dal duca Vicenzo suo padre gran parte della sua gioventú in Germania ed in Pisa in studio, avendo avuto sempre concetto di applicarlo alla corte di Roma e che fosse cardinale. Ha una memoria stupenda, e professa di non si scordar mai quello che una volta abbia veduto o letto; il che gli riesce anco molto felicemente. Possiede francamente, oltre l’ordinaria nostra volgar lingua, la latina, la todesca, la francese e la spagnuola, e legge anco bene l’ebrea e la greca, se ben in queste non parla né si assicura come fa nell’altre; ma nella spagnuola e latina compone con tanta facilitá come farebbe nell’italiana. Ha scritto molto in filosofia ed in teologia, ma sopra tutto fa professione nelle materie legali e dice apertamente di aver poco bisogno dell’opinione d’altri dottori. Nelle sue ragioni con Savoia, per non mostrar tanta sicurezza di se stesso, non resta di prender il parere d’intendenti, quando le occorre. Della poesia si diletta estraordinariamente: ha sempre, come si suol dire, per le mani tutti li buoni poeti antichi e moderni, cosí volgari come greci e latini, e compone leggiadramente e gode di raccontar quello che ha composto e che siano commendate le sue composizioni. Ha gusto grandissimo della musica ed è in essa molto versato, mettendo egli stesso con molta facilitá diverse delle sue composizioni in musica, che le fa poi cantare; e riescono stupendamente, trattenendo, oltre un pienissimo coro di cantori per la sua capella di Santa Barbara, tre donne cantatrici ancora, veramente singolari, che [p. 141 modifica]sonano e cantano per eccellenza. E se bene questa ricreazione della musica costa al signor duca tanto quanto ho giá detto, ne gusta però e gode anco tanto che non credo senti la spesa; e m’affermò piú volte di non aver avuto altro reffrigerio o sollievo in quest’ultimi importantissimi travagli che quello della musica, e che sarebbe talora morto se non avesse avuto questo reffrigerio. E veramente l’inclinazion della natura lo porta incredibilmente al gusto della musica e della poesia. E, perché è di brevissimo sonno, si crede che insino la notte formi nella sua mente qualche composizione; e la mattina nell’uscir delle stanze ha sempre qualche cosa di grazioso da dire e da comunicare con alcuna persona letterata. 11 che non dá satisfazione al resto delli suoi gentiluomini di camera e di corte, che erano soliti di essere piú dimesticamente trattati dal duca Francesco e dal duca Vicenzo, parendo loro che il presente duca non faccia stima d’altri che di chi fa professione di lettere. E fra gli altri è molto favorito dall’Altezza Sua un Giovanni Dimiziano dalla Ceffalonia, suddito di Vostra Serenitá, che fa dell’intrade assai, servitor vecchio del duca e che lo ha servito in Roma quando era cardinale.

È il signor duca inclinato molto alla giustizia e l’ha commandata a’ magistrati molto strettamente, perché la usino indifferentemente con tutti e infino con l’Altezza Sua, se vi fosse alcuno che pretendesse alcuna cosa da lei, ed ha fatto in questi travagli una cosa degna di singoiar lode: che non ha mai voluto che condanna fatta dal fisco cápiti nella sua borsa; e piú tosto che aggravar li sudditi ha fatto dei debiti ed impegnati, come ho detto, li suoi argenti e le sue gioie.

Ha il signor duca un fratello, che è il principe don Vicenzo, e due sorelle, una al presente moglie del duca di Lorena, che ha nome Margherita, e l’altra Leonora, giovane che stava, quando io fui a Mantova, appresso madama di Ferrara, che fu sorella del duca Vicenzo, padre di questi presenti principi. Non devo dar soverchio tedio in discorrer intorno la persona del principe don Vicenzo, perché, essendo stato a Venezia l’anno passato, può esser benissimo in memoria quasi di cadauna dell’Eccellenze [p. 142 modifica]Vostre. Dirò solo che mostra d’esser molto italiano e pochissimo inclinato a’ spagnuoli. È grandemente osservante di questa serenissima republica e le professa grandi obligazioni; ed io credo che l’onore che li ha fatto Vostra Serenitá, commandandomi ch’io lo visitassi, come feci, in nome di lei con espresse lettere di credenza, sia stato ricevuto da lui per singolarissimo, e le grazie ch’io ne riportai per l’Eccellenze Vostre furono sincerissime e piene di grandissimo ossequio ed umiltá: onde il cattivar questo principe in amore e buona disposizione verso la republica, essendo egli ora massime riuscito cardinale, sará particolare ufficio della prudenza di questo eccellentissimo senato. Si trattiene egli nelli essercizi propri di principe giovane, come di cavalcare, andar a caccia, ballar, giuocar di palla e d’arme, e riesce oltre modo atto, non ostante la sua molta pienezza, a tutto quello che si applica.

Di madama Margherita duchessa di Lorena non dirò cosa alcuna, non avendo occasione di farlo, per non averla io veduta e per esser giá lei fuori della casa di Mantova. Non ho veduto la principessa Leonora; ma mi viene affermato che sia principessa molto bella e graziosa e assai piú di quello che la rappresentano i ritratti che si veggono di lei, piena di virtú, di gentilissimi costumi e di molta prudenza. Non ho manco avuto occasione di vedere la principessa Maria, figliuola che fu del duca Francesco. Ho però inteso che fa accrescimento notabile nelle virtú, che ha un vivissimo spirito e che promette di sé nobilissima riuscita. Può aver cinque in sei anni. Ama grandemente madama di Ferrara, che la governa, e stima il signor duca come padre; e dicono cose, che vengono da lei proferite intorno la stima che fa apunto del signor duca, che superano la sua tenera etá ed ogni credenza. Madama di Ferrara vive fuori di palazzo, ritirata per propria elezione: ha eretto come un monasterio a canto della sua casa e mena una vita come monastica. Mostrava di goder della compagnia della principessa Leonora grandemente e dell’educazione della principessa Maria. Ama il signor duca e don Vicenzo come propri figliuoli. È principessa di costumi innocentissimi, si essercita nell’opere di caritá e di [p. 143 modifica]compassione e riesce alla cittá tutta di grandissimo essempio. Mostrò di ricever in sommo grado di esistimazione la visita ch’io le feci in nome dell’Eccellenze Vostre e me ne ringraziò affettuosissimamente, professando di esser al pari del signor duca suo nipote nelle grandissime obligazioni che deve aver tutta quella casa alle Signorie Vostre eccellentissime, e che le vive e viveri sempre con molta devozione ed obedienza.

Oltre il signor duca e don Vicenzo, vi sono anco molt’altri dell’istessa casa che pretendono abilitá alla successione dei Stati, quando accadesse il mancamento di discendenza mascolina in questi principi presenti; e sono tutti li marchesi di casa Gonzaga, che sono molti, il principe di Guastalla, il principe di Castiglione, ma, sopra tutti e con maggiore ragione di cadaun altro, il duca di Nivers. E ne rimovi pur il signor Dio l’occasione, perché sarebbe questo, per dir il vero, un pericoloso ed intricato negozio che potrebbe apportar gran disturbi e commozioni in queste provincie. Perché dall’un canto non è dubio che il duca di Nivers, ritrovandosi in virtú di sangue il piú prossimo in ogni caso di successione, bisogna credere che egli, e con tutte le forze proprie, della Francia e degli amici, non fosse per mancar certo a se stesso, alla sua fortuna ed alle sue ragioni: e dall’altro il principe di Guastalla, posto con il suo Stato nelle fauci de’ spagnuoli, legato dal re con la catena del Tosone, dipendentissimo ed obligatissimo di quella corona, pretenderebbe in caso simile la protezion regia; e con ragione si potrebbe credere che non gli fosse da’ spagnuoli mancato, perché, oltre la sicurezza che averebbono sempre nella piú che naturai disposizione di quel principe verso loro, con l’occasione del portarlo alla successione dessignarebbono far di lui e delle sue forze quel che a loro tornasse meglio. Né si deve dar credenza a quello che si è lasciato intender piú volte il marchese dell’Hinoiosa, giá governator di Milano: che spagnuoli non porterebbono, quando venisse il caso, mai altri alli Stati di Mantova che il duca di Nivers, conoscendosi in maggiore e migliore condizione di ogn’altro; perché ogni ragion di Stato persuade che per loro interesse non fossero per abandonar essi [p. 144 modifica]il sodetto principe di Guastalla, loro confidente ed obligato per li rispetti giá detti, per dover inalzare Nivers, principe che ha tanto favore e séguito nella Francia e che vorrebbe in ogni tempo esser padrone de’ suoi Stati, di se stesso e della sua volontá, né dipender da alcuno. Né Castiglione inoltre starebbe forse quieto, perché, oltre il favore che pretenderebbe aver sempre dall’impero, di cui egli è tanto dipendente e ministro ancora, spererebbe anco molto nel favor dei populi, che stima grandemente parziali ed inclinati a lui; massime quando sopra tutto potesse aver il patrocinio della Serenitá Vostra, come apertamente significò all’eccellentissimo signor procuratore e proveditor generai Landò ed è ben noto alle Signorie Vostre eccellentissime. E se bene, come ho detto, non si può negare che Nivers non sia sopra ognuno il piú prossimo alla successione e che di ragione non potrebbe alcun altro concorrer con lui, quando venisse il caso, tuttavia universalmente si crede che quel principe non fosse per condursi alla detta successione cosí quietamente e senza contesa, perché dagli altri interessati viene egli stimato principe straniero, che non abbia l’afTetto de’ populi e che non sia per esser mai ben veduto da’ spagnuoli in quei Stati, per non lasciar mettere a’ francesi piede in Italia: col qual fondamento in particolare farebbe ognuno certamente tutto il possibile per la esclusione di lui e per aiutar se stesso in materia tanto importante e gelosa.

La principessa Maria ancora, quando avesse chi portasse la cosa sua, potrebbe far del strepito assai. E quantunque l’opinione piú comune non la trovi capace d’altro che delli beni allodiali, quando ne fussero, tuttavia dicono anco che vi ha qualche altro senso in contrario; e l’operato tanto da’ spagnuoli, per levar questa principessa dalle mani del signor duca di Mantova e volerne la tutella di lei, meritamente rende sospesi gli animi degli uomini e fa dubitare che, in una universale commozione di cose ed in una moltiplicitá di pretensori alla successione, potesse lei ancora grandemente intorbidar il negozio.

E però voglia signor Dio che il signor duca di Mantova si mariti ed abbia discendenza, ché di questa maniera si rimoveranno [p. 145 modifica]tutti i pericoli ed i disturbi. E s’afferma in Mantova essere gran vanitá la voce sparsa dell’inabilitá del signor duca e di don Vicenzo alla procreazione, dicendo queste essere invenzioni di persone interessate e desiderose di turbolenza, ed esser ordinario costume degli uomini il darsi a credere e procurar che da altri sia creduto ancor per vero quello che tornerebbe lor conto e profitto che fosse. Ma il grave e rilevante intricco è che il signor duca non si marita, sta cosí e porta innanzi: gli anni trascorrono, e l’occasioni anco possono fuggirsi e, con esse insieme, le speranze del bene. E veramente condizione molto miserabile è quella a cui, o per propri interessi o per poca prudenza o per altro occulto giudizio di Dio, si sono al presente ridotti i principi d’Italia, che, oltre il dipender a un nuto, a un cenno di principi grandi e potenti si, ma infine poi non padroni assoluti di questa provincia, si sono in modo incatenati della volontá e del libero arbitrio, che lor non sia lecito manco disponer di se stessi nella piú libera operazione dell’uomo, come è il potersi maritare a voglia sua: azione tanto assoluta e dipendente da ciascheduno, che né anco il padre può impedire o astringer il proprio figliuolo. In questo stato si trova il signor duca di Mantova e, per mio debil senso, non credo che possa seguire il suo accasamento senza il beneplacito de’ spagnuoli. E, quando pur volesse egli procurar di farlo senza parteciparglielo, si romperebbe con loro senza frutto e gettarebbe il tempo e l’opera inutilmente, perché chiara cosa è che li spagnuoli, di quella maniera che hanno obligato il duca a non maritarsi senza l’assenso loro, dell’istesso si sono accordali anco con quei principi che potessero apparentar con lui, con averli posti in obligo di non far cosa alcuna senza la loro saputa. E certo Fiorenza e Modena ancora, per quanto si dice, ne hanno giá data la parola al re. Mi disse il signor duca che conosceva il suo bisogno, che in ogni maniera voleva accasarsi, né differir di avantaggio, che in breve aspettava esser da Spagna posto in libertá di poterlo fare, che ne aveva ultimamente fatto parlar in corte e che, di lá sbrigato, sapeva donde potersi di subito maritare. Nel qual caso, per quanto ho potuto penetrare, [p. 146 modifica]spera grandemente il duca sopra Fiorenza; se ben quelle nozze vengono stimate assai difficili ad effettuarsi, ed in ogni caso poco proprie ed utili per il servizio del signor duca, perché pretenderebbe, sopra ogni altra cosa, quel principe farne gran favore a Mantova coll’apparentarsi seco e per questo si vorrebbe anco forse avantaggiar della dotte: il che non torna conto a questa parte, che ha bisogno de danari, perché, oltre quello che gli converebbe spender nella solennitá delle nozze e nel poner all’ordine una figliuola del granduca di Toscana, gli sarebbe anco necessario pensar allora alla restituzione della dotte dell’infanta vedova di Savoia. Modena all’incontro vi venirebbe piú facilmente, per quel che ho inteso, ma vi sariano gl’istessi contrari

perché, se bene quel duca farebbe ogni sforzo perché

seguisse questo parentado, confidando massime nell’aiuto di madama di Ferrara (la quale, non acconsentendo al matrimonio di Savoia, dicesi che porti a tutto poter suo quello di Modena), l’impotenza sua però non lo lasciarebbe arrivare a quella somma di dotte che a Mantova sarebbe necessaria, se bene il gran bisogno che ha di maritarsi non lo lascerá forse guardar cosí per minuto ogni cosa, come farebbe quando non si trovasse in termine tanto necessario a doverlo fare. Ma, torno a dire, né l’una né l’altra di queste nozze seguiranno, se di Spagna non vengono questi principi posti in libertá di poterlo fare; e quello che in questo fatto possa risolversi da’ spagnuoli, io non basto per penetrarlo, ma si deve credere che capiteranno a quelle deliberazioni che stimeranno giovare al loro commodo ed interesse.

Il vero proprio e sicuro colpo sarebbe stato e sarebbe che il duca di Savoia e quello di Mantova, deposte generosamente le passioni ed i rancori, si conducessero ad una tale composizione delle loro controversie e ad un vero e non mascherato stabilimento di perfetta amicizia fra loro con il mezzo de’ matrimoni: con che metterebbono tutte le cose in pace, libererebbono loro stessi dalla spesa e dai travagli, li Stati dai pericoli, i popoli dalla rovina, e farebbono per ogni parte compitamente il proprio ed il cotnmune servizio ancora. Mantova con quest’accommodamento e col maritarsi s’avvicinarebbe ad ottener quel bene, [p. 147 modifica]che è tanto necessario per la sua casa e cosí aspettato da’ suoi sudditi, della sua discendenza; si assicurarebbe da ogni molestia che potesse da’ spagnuoli ricever da novo per occasione della principina, perché sarebbe lei giá in governo ed appresso la madre; si levarebbe ogni gelosia di Savoia; la cerimonia delle sue nozze, per esser l’infanta vedova, non si ricercherebbe cosí solenne ed in conseguenza non tanto dispendiosa; e, potendosi fare li matrimoni reciprochi, collocare anco degnamente la principessa Leonora sua sorella, maritandola nel principe di Piemonte; ed infine non averebbono spagnuoli poi manco occasione di dolersi di lui in questo fatto, con quali potrebbe addur sempre per sua diffesa di aver fatto cosa, a cui da quella corona è stato tante volte non solo confortato, ma commandato ancora. E, se bene in Spagna non hanno mai sentito né sentiranno bene una vera e finale composizione fra questi principi, né meno li matrimoni reciprochi, è però anco vero che, o non credendo essi che cosí facilmente potesse venir il caso, o non pensando che Savoia potesse avere inclinazione a una principessa di Mantova per il principe suo figliuolo, sia come si voglia, a Mantova non glieli hanno mai proibiti, in modo che, se ben ne ricevesse disgusto, non potrebbono con ragione farne querella col duca.

Savoia medesimamente si cavarebbe de’ disturbi e de’ pericoli, che potrebbe alla fine un giorno tirarsi addosso con tante novitá; si liberarebbe dal peso della figliuola, che, non maritandosi in Mantova, convenirá restarli sempre in casa; e maritarebbe anco bene il principe suo figliuolo, essendole di giá svanite le speranze di accasarlo con una figlia di re, godendo il frutto della gloria che si è acquistata nelle ultime importantissime occasioni con Spagna; e con ciò resterebbono anco impediti i dissegni altrui e sollevata una volta questa sin qua pur troppo perturbata provincia.

Ma mi pare di veder questi principi tanto lontani dall’effettuazione di un cosí gran bene, che riescono questi concetti piú tosto desiderabili che da poterne sperare alcuna buona riuscita. Perché Savoia pretende nel Monferrato quelle gran cose che [p. 148 modifica]sono note; non vuol maritar il principe se non con grande avantaggio di dotte; intende che questa le abbia ad esser assignata in Stati; ha l’occhio al Canavese e nei concambi che si facessero ed in ogni altra cosa si tiene in su l’alto quanto si sa. Mantova all’incontro ha per nulle le pretensioni di Savoia nel Monferrato; le tiene per decise tutte con la sentenza di Carlo V; dice ben egli di averne di molte sul Piemonte, sul marchesato di Saluzzo ed infine sopra Turino istesso; vuole che i matrimoni in proposito della dotte siano uguali e veramente reciprochi, non intendendo di dar un palmo di terreno in dotte alla sorella; mette in campo i danni ricevuti in questa guerra; non vuol sentire a parlar di privarsi del Canavese ed altre cose, come ho giá scritto alle Signorie Vostre eccellentissime. Se ben, per quanto ho potuto cavare da Sua Altezza, io credo però che, quando si trattasse di terminar dadovero tutte le pretensioni in un colpo, il signor duca di Mantova potrebbe devenir a concambio che fosse anco in qualche parte disuguale, salvandosi nell’apparenza e col mondo, con dare e ricevere un giusto numero di terre, se ben quelle che dasse fossero megliori di quelle che ricevesse; ma però quando non si tratti di molto, e sopra tutto del Canavese, ché di questo non se ne priverá mai, per quanto mi affermò di propria bocca diverse volte, mostrando nel resto, ed in particolare nel negozio de’ matrimoni, ogni prontezza maggiore, quando però, come ho detto, restasse deciso il tutto e troncata ogni occasione e di disgusto e di rancore. E mi disse Sua Altezza che in tanto metteva e metterebbe a campo ella le sue pretensioni sul Piemonte, Saluzzo, Turino ed altro, in quanto che vedeva Savoia pretender tante cose sul Monferrato: che nel resto conosceva bene che non bisognava parlar di cose tali; che voleva devenire ad un vero stabilimento di amore e di unione. Nel che, come averebbe egli sempre fatto conoscere la rettitudine del suo animo ed il desiderio che tiene della pace, cosí era sicuro che Savoia non teneva alcuna buona volontá in questo negozio e che, come si fosse introdotta pratica e che quel duca si avesse lasciato intender primo, come era di ragione che facesse, delle sue pretensioni, si sarebbono [p. 149 modifica]esse conosciute tali e cosí essorbitanti, che chiaramente s’averebbe compreso esser verissimo quello che diceva l’Altezza Sua della poca inclinazione di quel principe al bene ed alla quiete. Perché, se ben non è dubio che li reciprochi matrimoni sarebbono piú propri e piú efficaci per levar le difficultá per sempre e stringer in piú tenace maniera gli animi di questi principi in amore e congionzione, tuttavia nelle cose gravi e difficili è anco assai l’arrivar alla mediocritá ed il manco male alle volte sottentra in luogo del bene, ed io credo certo che ’l solo dell’infanta fosse per aver piú facile componimento e piú felice fine, come quello che, avendo manco contrari e difficultá, anzi essendo aiutato dall’interesse di ognuno di questi principi, potrebbe anco esser il vero mezo di colpir poi nel segno bramato di una vera riconciliazione di queste case. Perché prima il signor duca di Mantova ha, per quanto si dice, particolar inclinazione all’infanta; lei medesimamente pur si ragiona che desideri queste nozze, e con ragione, conoscendo ben lei che, non maritandosi in Mantova, corre manifesto rischio di dover restar sempre in una vita ed abito vedovile; il desiderio di star appresso la figliuola bisogna credere essere in lei ardentissimo; li populi di Mantova la desiderano e bramano sopra modo; il signor duca ha gran parte e quasi tutta la dotte giá nelle mani, che non l’ha mai restituita: onde pare che poco ci restarebbe per ridur questa pratica a conclusione. Ma, mentre si tratta di far tutti doi li matrimoni, e che Savoia pretende maggior dotte per il principe suo figliuolo di quello che vogli dare all’infanta vedova, e che vuole l’assignamento di essa dotte in tanti Stati, e che all’incontro Mantova non voglia e non possa per interesse suo gravissimo a ciò assentire, come apertamente mi disse piú volte non poter fare, la conclusione del negozio e d’ogni bene si va allontanando e si riduce a termini intricatissimi, per non dir disperati; ed il pessimo de’ mali è che non solo non si è introdotta sin qua pratica alcuna di accommodamento, ma si fanno delle novitá da ogni parte, s’infestano i sudditi e si travagliano i confini, Mantova non rimette i beni a’ ribelli, Savoia trattiene quelli de’ sudditi monferrini che ne hanno in Piemonte, leva [p. 150 modifica]Tacque a’ mulini del Monferrato, impedisce il comercio: e cosí restano maggiormente gli animi accesi e s’augumentano le passioni, con pericolo sempre maggiore di conseguenze piú importanti e pericolose. Ma non si può negar anco però che le cose ultime della Francia non abbino pregiudicato in estremo a queste d’Italia ed a questo negozio, perché Savoia, che alli mesi passati mostrava tanto desiderio dell’accommodamento con Mantova e dava intenzione di voler far ogni opera perché seguisse, veduti gli accidenti di Francia, si è ritirata subito dal proposito, tornata di novo in su quelle speranze che ha avute sempre: che, sturbati li matrimoni regi, potesse aver per il principe suo figliuolo la principessa di Francia. E, se ben seguiti ed effettuati giá quelli e svaniti i dissegni, potesse ora tornar in su li primi buoni pensieri con Mantova, si può dubitare però di non esser piú a tempo, e che sia perduta e fuggita la buona congiontura che s’aveva di poter far qualche bene prima della venuta di don Pietro di Toledo novo governatore a Milano; perché chiara cosa è che, arrivato ora egli in Italia, vorrá aver senza alcun dubio l’arbitrio di questo negozio, sturbando ogn’altra pratica che per altri vedesse incaminarsi. E di giá cominciano ad apparire pur troppo segni della sua gran pretensione ed albagia. E, se ben potesse procurar il matrimonio fra questi principi, come mi disse il signor duca esser sicuro che farebbe il detto don Pietro tosto arrivato che fosse, non tratterrá poi mai egli di deffinir assolutamente ed accordare le pretensioni che hanno tra loro, che è il ponto sostanziale e concernente il tutto, essendo concetto de’ spagnuoli di dar bene qualche rapezzamento al negozio, ma non di terminarlo tutto in una volta, perché, restando le cose non estinte del tutto, ma sopite, restano anco in conseguenza sempre questi principi in molta gelosia fra loro e convengono a viva forza dependere per loro interessi dalla corona di Spagna e dalli governatori di Milano. E voglia anco Dio che questo ministro non abbia forse fini piú pericolosi e piú fantastichi. Laonde possono comprender l’Eccellenze Vostre che umano discorso certo non basta per indovinar il fine di questo importante negozio né a formarne determinato giudizio. [p. 151 modifica]Faccia il signor Dio che ne segua quel bene che è necessario, e per qualche via non conosciuta dagli uomini vi ponga la forte e potente sua mano, ché a me basta aver portato con ogni riverenza alla Serenitá Vostra questo tanto, passando ad altro e portandomi al fine con ogni celeritá.

Il Consiglio del signor duca di Mantova consta per l’ordinario di quattro soggetti, che sono il vescovo di Diocesarea, Chieppio, Iberti e Striggio. Attende il vescovo solamente alle consultazioni; ma gli altri hanno anco carico di notar e di far rispedizioni necessarie. Li negozi di Mantova, del Monferrato e di Francia sono raccommandati al Chieppio. L’Iberti ha cura delle cose di Venezia e di Germania, ed il Striggio di quelle di Spagna, di Milano e di Genova. Il Chieppio ha universale concetto veramente d’esser buono e fedele ministro, e per tale è stimato anco dal signor duca, tutto che non vi siano mancati degli emuli, che, con censurare le relazioni che ebbe egli giá col governator di Milano nelle passate occorrenze, abbino procurato di poner in dubio la sua fede, prendendo essi tanto maggior fomento per opprimerlo quanto che egli, per esser modesto e piú tosto freddo, poco s’aiuta per avanzar la sua fortuna con Farti, come fanno gli altri. Ma in effetto è molto intelligente e pratico delle cose del padrone. È ministro piú vecchio d’ogni altro; ogni sua buona fortuna riconosce dal duca Vicenzo; ha tutto il suo nel Mantovano; è ricco assai, ha un bellissimo palazzo in Mantova e, per quanto anco si tiene, molti danari contanti; ed è insomma grandemente stimato. Mi disse il signor duca che egli possedeva pienissimamente tutto il negozio del Monferrato, nel quale aveva le mani giá tanto tempo, e che voleva che venisse a darmene una distinta e copiosa informazione.

Il vescovo di Diocesarea è calavrese e vescovo della chiesa di Santa Barbara, capella del signor duca. Vogliono che abbi molte lettere: è però molto pretendente ed in sospetto di poco buon servitor del padrone, del quale non ha anco la grazia stabile, perché quando ha avuto parte delli negozi e quando s’è ritrovato affatto escluso. S’avanza però egli con la sagacitá [p. 152 modifica]mirabilmente, dissimulando talora le mortificazioni del signor duca e portando il tempo innanzi per arrivare a’ suoi fini.

Il conte Iberti è suddito del signor duca del Monferrato, ma allevato in Spagna, onde ha nome di molto interessato con quella parte.

Il conte Striggio è da poco tempo entrato al carico di consiglierò ed è stimato buon ministro.

A questi quattro s’aggiongono al Consiglio ancora per il piú il marchese Federico Gonzaga, generai dell’arme al presente del signor duca, e don Giovanni Gonzaga, tutti doi della casa. II primo è cavalliere di somma bontá e buon volere; il secondo è di vivacissimo ingegno, s’avanza in quanto può, procura di aver sempre l’orecchie del signor duca, e, per esser stato molte volte in Spagna, ove pur si ritrova per ambassatore anco al presente, e per aver pensione da quella corona, si comprende portar vivamente gl’interessi degli spagnuoli, e vien tenuto grandemente parziale e interessato con loro.

Introduce ben spesso anco il signor duca nel Consiglio il secretario Magno per le cose di Roma, persona da bene, ma di pochi favori per ascender a maggior grado.

Il principe don Vicenzo entra nel Consiglio sempre che vuole, e nelle materie gravi in particolare viene chiamato dal signor duca con madama di Ferrara, che ha finissimo giudizio nelle cose di Stato ed è signora di gran senno e di molta cognizione in tutte le cose, se bene, come ho detto, per propria elezione vive retirata quanto piú può.

Tratta il signor duca con i suoi ministri con molta gravitá. Mostra tenir sospetto di alcuni di loro, e nelle materie di grazia particolarmente li ha legate strettamente le mani. S’intende che un giorno li chiamasse tutti e con maniera grave li dicesse: che delle cose andate non ne voleva parlare, ma che nell’avvenire procedessero in modo che non li capitassero indolenze o querelle di loro, perché ne averebbono essi pagata severamente la pena. E pare che da certo tempo in qua si governi ognuno con molto rispetto e timore, né parlino essi se non vengono dall’Altezza Sua ricercati. Ed ho inteso che questo negozio de’ [p. 153 modifica]ministri li travaglia e perturba grandemente l’animo; né può il signor duca mandarne alcuno, in Spagna particolarmente, che non abbia a temere che, o con doni o con promesse o con speranze, non sia per restar guadagnato a quella corte, e in questa maniera pregiudicato infinitamente il suo servizio.

Perché, se bene non si può negare che il duca non mostri portare sommo rispetto a’ spagnuoli, professa però, e cosí credono molti, di aver nell’interno rissoluta volontá di esser buon principe italiano quando possa, simile al padre e ad altri suoi precessori, che hanno saputo temporeggiare in modo che infine si sono conservati sempre liberi ed indipendenti. Per questo, oltre che dice di esser paratissimo di venire sempre con molta prontezza all’accommodamento con Savoia, quando da quel duca si camini di pari buona volontá alle cose del dovere e ragionevoli, capitarebbe anco il signor duca molto volentieri e prontamente alla permutazione con spagnuoli del Monferrato col Cremonese: non ostante che il Monferrato sia Stato molto maggior del Cremonese; abbia alcune cittá, molti castelli, tante terre, e tutte buone, e la cittá di Casale in particolare col castel vecchio e la cittadella, che è di quella considerazione che è benissimo noto; il paese fertilissimo, ripieno di molto numero di feudatari, di buonissimi sudditi e devotissimi del lor principe naturale. Tuttavia, per levarsi d’intorno il continuo verme della gelosia, che conviene aver del duca di Savoia, per sottrarsi da quella dipendenza che per quest’effetto conviene aver al re di Spagna ed a’ suoi ministri, e per liberarsi da quel grave peso di convenir dimandare il transito a’ spagnuoli, cosí di gente come di vettovaglie, ogni volta che ne tiene bisogno: questi rispetti li fanno desiderar il concambio sodetto, e ne ha fatto parlar, per quanto ho inteso da via sicura, ultimamente alla corte in buona maniera.

E veramente gran miseria è quella di questo principe: di non poter far passar pur un semplice fante e far condur minima quantitá de’ viveri, tanto in tempo di guerra come di quiete, per gli ordinari suoi bisogni dall’uno de’ suoi Stati nell’altro, se non riccorre a’ ministri spagnuoli; e conviene dipender dalla [p. 154 modifica]testa e dal capriolo d’un governatore di Milano, che, o poco discretto o poco cortese o poco amico suo, può farli mille pregiudizi ad ogn’ora e, coll’impedirli o l’estrazione de’ vini o d’altra cosa, può metterlo in disturbo ed apportarli danno di rilevante considerazione. Onde parerebbe a Sua Altezza, se ben perdesse d’ampiezza di Stato, di rendite e d’utilitá, guadagnar ad ogni modo anco assai coll’unir li suoi Stati e sollevarsi dall’incommodo che sente al presente dalla separazione del Mantovano col Monferrato; perché, unito il Stato di Mantova al Cremonese, l’un paese servirebbe al bisogno dell’altro, e l’altro dell’uno, con molta facilitá e sicurezza e senza dipender dall’arbitrio altrui.

Ma, quando ciò seguisse, sopra ogn’altro acquisto stimarebbe quello di aver quasi a tutti i suoi Stati il quieto e pacifico confine della Serenitá Vostra, della quale giá conosce la rettitudine de’ concetti, quanto sia lontana ed aborisca il profittarsi dell’altrui danno, e della quale ha isperimentato cosí largamente la protezione e la munificenza, di cui per quest’unione le parerebbe d’assicurarsi anco maggiormente nell’occorrenze de’suoi bisogni per l’avvenire.

E, se bene il cambiar sudditi antichi e fedelissimi, come sono li suoi del Monferrato, con sudditi novi e che, per essere vassalli del maggior re di cristianitá, potessero esser pieni d’albagia e di mal piè condursi all’obedienza di un duca, è punto considerabile; tuttavia non lo mette il signor duca in bilancia col liberarsi da tante suggezioni, che, per i rispetti di sopra narrati, li conviene avere al presente a’ spagnuoli. E sperarebbe in breve guadagnarsi anco la volontá dei cremonesi, stracchi nell’universale de’ ministri regi, che li succhiano il sangue, laceri in ogni parte e divorati dalli continui alloggi de’ soldati; che però s’accommodarebbono facilmente al moderato governo e commando di Mantova, che li averebbe vicini e sotto l’occhio, si può dire, e potrebbono essi, sempre che volessero, far sentire al duca quello che non possono ora fare al re, le loro indolenze ed i loro gravami. Ed il concetto e desiderio di questo concambio non solo è nel signor duca, ma in tutta la maggior [p. 155 modifica]parte de’ ministri e de’ cavallieri, dicendosi anco in corte che Vostra Serenitá farebbe un’operazione degna veramente di lei e della sua prudenza se aiutasse in Spagna il buon pensiero del duca e l’effettuazione di questo negozio.

Ma, per quanto si dice e si sa, non mostrano in Spagna quella prontezza in questa trattazione che alli loro interessi pare pure che si richiedesse. Perché chiara cosa è che, acquistando il Monferrato spagnuoli, s’acqui$tarebbono un Stato di molto momento e di grossa rendita e che, aggionto al Milanese, li renderebbe per aventura piú potenti e riguardevoli di quello che siano al presente col Cremonese, e, quello che piú importa, averebbono trovata la via di por freno ai pensieri ed alle machinazioni di Savoia: li sarebbono, come si suol dire, a cavaliere e Io tenirebbono in continua gelosia per la facilitá d’invader a lor gusto sempre i Stati di quel principe, da quella banda massime che sono piú aperti e manco sicuri. E pure, come ho detto, non cambiano in Spagna con buona voglia in questo negozio, onde bisogna creder sicuramente che qui sotto vi siano piú profondi misteri e che abbino spagnuoli qui dentro sensi piú reconditi e piú nascosí. Si può creder che sperino al presente che il duca, afflitto e stanco dalle spese, dai travagli e dalle infestazioni di Savoia, desideroso, anzi pieno di somma neccessitá, di esser posto da’ spagnuoli in libertá di maritarsi, possa finalmente condursi a questo concambio col contentarsi del solo territorio cremonese, assentendo che a loro resti la cittá di Cremona e Pizzichitene, come si trattava di fare al tempo del duca Guglielmo, se ben quel principe, tutto che allora non fosse costrutta la cittadella di Casale, non se ne volse mai contentare: ed in questo caso parebbe a’ spagnuoli di dar nulla; ed in effetto, quando il signor duca dasse il Monferrato per il solo territorio cremonese, si può dire che si privarebbe per nulla e senza altro acquisto di quel bel Stato. Possono aver speranze che questa presente casa di Mantova manchi e cada senza discendenza, ed alla successione portar essi alcun dipendente da loro, col quale possino loro convenire ed accordare il concambio come lor torni piú conto. Possono dubitare [p. 156 modifica]che, liberato Mantova dalla gelosia di Savoia, come sarebbe quando non le fosse piú cosí vicino, e libero insieme dall’obligo di dipender da loro e da’ ministri regi per la separazione de’ suoi Stati, potesse esser allora vero principe italiano e per l’interesse de’ confini rendersi sempre maggiormente unito con Vostra Serenitá, e di questa maniera perder essi la dipendenza di questo principe in Italia. Possono aver fine che la principina sia maritata a lor voglia; e fu detto anco potessero operar che fosse data ad uno degli stessi principi di Spagna ed, in mancamento de’ maschi alla successione, con la forza, col potere e coH’auttoritá pretender di far star da parte ogn’altro della casa Gonzaga e poner un altro piè in Italia senza altro cambio. Possono sperar infine che il signor duca di Mantova, non potendo per la divisione de’ suoi Stati e per mancamenti di forze mantener da se stesso a sufficienza presidiata la cittá di Casale col castello e la cittadella, in occasion di bisogno sia astretto riccorrer a loro ed introdurre milizia spagnuola in quelle fortezze; e cosí con bel modo impatronirsi un giorno finalmente essi del Monferrato senza privarsi del Cremonese, ma aver questo e quel Stato senza venire ad altra sorte di permutazione. E questo è forse il piú verisimile ed il piú proprio concetto che possino aver spagnuoli in questo, per tutti i rispetti, importante negozio. Onde qua possono l’Eccellenze Vostre cavar un argomento sicuro che la rissoluzione che fecero di aiutar il duca di Mantova sia stata la vera conservazione di quel principe ed insieme, si può dir, di tutta questa provincia. Perché chiara cosa è che, se il duca non aveva li aiuti di Vostra Serenitá, conveniva necessariamente ricever quelli de’ spagnuoli, che non s’averebbono contentato giá essi di darle o danari contanti o pagarle le milizie solamente, ma, portati dal desiderio di avanzarsi sempre alle occasioni, le averebbono posto presidio in Casale e nelle fortezze, di dove al sicuro non sarebbe uscito sin qua né vi uscirebbe piú, con quel grave pericolo universale che è pur troppo palese e manifesto.

E, se ben pare che il duca con tutto ciò sia legato pur anco con spagnuoli, vi è però gran differenza dal parere all’essere [p. 157 modifica]in effetto incatenato; dal dipendere in qualche cosa, perché in queste turbulenzie non può far altro, all’esser loro suddito del tutto assolutamente. Dal rispetto e dal timore che al presente ha de’ spagnuoli (il che è verissimo, né si può negare) può liberarsi un giorno e ridursi in libertá, come hanno fatto tutti li suoi antenati; ma, quando si fosse privato delle fortezze, delle forze e del Stato, non sarebbe piú in suo arbitrio Tesser o non essere spagnuolo, perché a viva forza converebbe esser loro vassallo e schiavo, obedire, servire e far tutto ciò che da loro gli fusse imposto. E, se bene, quando spagnuoli volessero usar la forza col duca, non bastarebbe egli a difendersi da loro, né anco forse con l’aiuto d’altri, bisogna però considerare che senza apparente pretesto, senza il quale si può dire che non si movino manco né turchi né barbari né le altre genti che non han fede, non si condurranno mai essi a questo violente termine d’invader lo Stato di un principe cristiano, libero, amico suo, che non li offende né li dá alcuna occasione di travagliarlo, facendo massime il re tanta professione d’aver, insieme col titolo, l’operazioni di cattolico, ancora di voler il giusto e conservar ognuno nel possesso delle cose sue. E però non si devono pentir l’Eccellenze Vostre d’aver con il loro soccorso levato a Mantova il bisogno ed a’ spagnuoli il pretesto, perché questa è stata la piú stupenda azione che da gran tempo in qua sia forse uscita dalla mano della republica, e si può dire che sia stata inspirazione divina per commodo e beneficio di ciascheduno. E Tessersi fuggito questo pericolo al presente è stato un grande avanzo. Intanto si porta il tempo innanzi; con gli anni le cose si mutano, variano gli accidenti ed i pensieri de’ principi; il Stato della Francia, se ben di presente molto confuso e travagliato per l’ordinaria vicissitudine delle cose umane si muterá un giorno; il governo presente di quel regno non può esser eterno; quei che lo reggono adesso non saranno giá immortali; il re col crescer degli anni potrá forse crescer anco in cognizione ed in lume dell’esser suo e di suoi interessi: in maniera che il fuggir l’imminenza de’ presenti pericoli può essere la somma del tutto, e si può sperare di veder col tempo le cose [p. 158 modifica]bilanciate in modo che apportino sicuritá, come pur è accaduto in altri tempi.

È ben vero che si poteva, e dall’esito si è in qualche parte conosciuto, regolar meglio gli aiuti a Mantova, non nell’effetto ma nel modo, e si averebbe speso anco assai manco e forse con maggior riputazione. Ma, comunque si sia, l’operazione è stata singolarissima e per tale conosciuta da tutti e commendata insino da quelli che per propria imperfezion naturale, per non dir malignitá, giudicano sempre le azioni di questa republica con affetto torbido e depravato; e se l’Eccellenze Vostre non avessero avanzato altro che l’aver rimosso quel concetto ch’era in tutti i principi, e negl’italiani in particolare, che la republica di Venezia attendesse solamente a se stessa, né facesse alcun capitale di altro interesse di questa provincia, sarebbe ad ogni modo anco questo solo stato un grande acquisto. Ma, se si può credere a parole ed a testificazioni e publiche e private, e se i benefici hanno qualche forza d’obligar gli uomini, bisogna sperare e creder pur anco che il duca di Mantova resti a questa serenissima republica tenuto per sempre in sommo grado di debito e di obligazione. E a me ha detto ed attestato tante e tante volte, in quei pochi giorni che mi son fermato in Mantova, intorno a questi propositi, che non saprei come rifferir il tutto compitamente. Ed in particolare nel punto del mio partire, che ad ogni modo volse restituirmi il complimento ultimo di licenza che passai con Sua Altezza, mi incaricò e pregò il signor duca, presente un grandissimo numero de’ cavallieri, cosí della sua corte come della mia compagnia, a voler rappresentare al mio ritorno all’Eccellenze Vostre la devotissima ed obligatissima sua volontá e la memoria, che porterá sempre viva in mezo al petto, dei segnalatissimi favori ricevuti da Vostra Serenitá; della sua redenzione, che sola riconosce dalla benignitá delle Signorie Vostre eccellentissime; che la Serenitá Vostra gli ha mantenuto lo Stato e li sudditi, che sono quelli che formano il principe; che gli ha conservato la libertá e la riputazione, delle quali non si trova a questo mondo cosa piú preziosa e desiderabile; onde, quando non [p. 159 modifica]obedisse e servisse sempre con gl’istessi sudditi, Stati e vita medesima questa serenissima republica, meritarebbe nome del piú ingrato ed indegno principe che oggidí fosse al mondo: nota e macchia, da cui tanto si doveva guardare chi fosse nato, cresciuto e fosse anco per morire col solo oggetto d’onore dinanzi gli occhi, come fa e farebbe l’Altezza Sua.

L’istessa obligazione professa a Vostra Serenitá non solo don Vicenzo e madama di Ferrara, come ho detto, ma la corte e la cittá tutta; ed io non ho parlato con alcuno di quei cavallieri, i piú principali de’ quali sono quasi tutti stati a vedermi, che non abbia compreso riconoscere essi la sua salute dalla republica, e da ciascuno viene magnificata ed essaltata la benignitá e munificenza di lei fino al cielo. E infine nella plebe si vede chiaramente scolpito in fronte l’obligo a Vostra Serenitá; e con atti esteriori di umiliazione e di rispetto hanno procurato quei populi, mentre mi son fermato in quella cittá, manifestarmi l’interno de’ loro cuori.

E, se ben mostra il signor duca, come ho detto, tanto rispetto a’ spagnuoli, si può anco però sperare che questo sia caso, come si suol dire, di necessitá per le cose giá dette: per conoscersi egli essere a peggiore condizione che mai con Savoia; per le cose del mondo, che caminano, come si vede, piú tosto torbide che serene; per non vi esser re in Francia; per esser quel regno in se stesso commosso; per non saper che promettersi dalla regina, della cui protezione è giá in chiaro; e perché la libertá del maritarsi, punto tanto essenziale, è in mano degli stessi spagnuoli. E veramente non ha fatto il duca in questi travagli il maggior errore che legarsi in Spagna nelle cose del suo matrimonio, né si può negare che non lo conosca, e per me credo che ne sia pentito all’estremo.

Ma in ogni modo la conservazione di questo principe troppo deve premer a Vostra Serenitá. Li rispetti sono infiniti, né io devo perder piú tempo col considerare particolarmente: i confini che ha il Stato della Serenitá Vostra col Mantovano; quanto in occasione di guerra sia questo rispetto del confine rilevantissimo ed importantissimo; di quanto momento ed interesse [p. 160 modifica]sarebbe a Vostra Serenitá, quando, guardi Dio l’occasione, potessero spagnuoli per lo Stato di Mantova venir e penetrar, come con ogni facilitá si può, in quello delle Signorie Vostre eccellentissime, perché potrebbono per diverse strade condursi a Asola, Verona e Peschiera ancora per la via di Goito, luogo pur del signor duca, e per la strada di Revere e Ostia, che sono situati sul Po, condursi da quell’altro canto ad attaccar Lcgnago, che non le è discosto piú di 16 o 18 miglia.

Come all’incontro non si può dire tanto che basti, quanti siano li commodi che si possono cavar da questo principe, conservato in Stato ed in amorevolezza con la republica, per l’estrazione, che alle occasioni si può avere, di genti del Mantovano, di grani, di vettovaglie ed altro. Ma io non mi fermerò in questa considerazione, perché sono cose tanto conosciute e sotto l’occhio delle Eccellenze Vostre, che riprensione piú tosto che laude si può aspettar dal discorrerle e considerarle; vedendosi pur troppo da ognuno da per tutto serrate le porte alla misera Italia e quanto deboli restino le speranze di aiuti lontani, altro non avanza che l’unione delli animi delli principi di essa, e de’ confinanti in particolare.

Non lasciarò però del tutto in silenzio il luogo di Castiglione, che è del principe Francesco Gonzaga, come si sa, perché è punto di grandissima considerazione. Ed il tenersi quel principe ben affetto ed inclinato sará proprio ufficio della prudenza di questo eccellentissimo senato, col tener sempre, in quanto si potrá, fissa la mira al predetto luogo di Castiglione: perché, quando capitasse quella piazza in mano di principe grande e fosse ridotta maggior fortificazione, come facilmente si riddurebbe, sarebbe, come si suol dire, un stecco negli occhi di questo Stato, sovrastando a molte e grosse terre della Serenitá Vostra, da quali è circondato in non maggior distanza di quattro, sei o otto miglia al piú, come sono Montechiaro, Carpenedolo, Calvisan, Castagnedo, Pozzolengo ed altre, che non sono piú lontane da Peschiera di quattro o sei miglia; e predomina oltre queste a vinti gran comuni e piú della Riviera di Salò, che sono situati in pari ed uguale distanza da lui intorno al lago di Garda, come deve esser noto a molte delle Eccellenze Vostre. [p. 161 modifica]

Sabioneda medesimamente è piazza di molta considerazione, posta in quell’importante sito che si sa, e per questo meritamente vi ha avuto sempre l’occhio quest’eccellentissimo senato. In Mantova si discorre che, quando il duca avesse danari, facilmente quella fortezza gli capitarebbe nelle mani. Perché spagnuoli ultimamente, all’istanze dell’agente del contestabile Colona, che a nome del principe di Stigliano ha fatto in corte per la licenza di venderla, gli hanno risposto, che per il prezzo che può aver quel principe da altri di quella piazza il re la vuole per sua; e che, non avendo al presente Sua Maestá commodo di esborsare danari contanti, gli averebbe fatto consignar tante terre equivalenti nel regno di Napoli, le quali non piacciono, per quanto s’intende, al principe, che, pieno di molti debiti, ha bisogno di danari contanti e non di terre. Oltre che, i popoli di quei luoghi reclamano, affermando che non possono esser alienati dalla corona, e napolitani parimente se ne lamentano all’estremo. Onde dicono che, stante queste difficultá, quando il principe di Stigliano volesse da vero privarsi di quella piazza, come farebbe quando da Mantova gli venisse grossamente pagata, col donare e col presentare alla corte quelli che hanno auttoritá, ottenirebbe in fine licenza di poterla vender a chi piú gli piacesse, essendo concetto che spagnuoli non faccino al presente tanto capitai di quella fortezza, come facevano al tempo del Fuentes. Ma io tengo questo negozio per molto difficile, perché prima non può farsi quest’acquisto da Mantova senza molti danari, e poi credo sia per trovare gran difficultá il principe di Stigliano ad ottener questa licenza in Spagna. E si comprende chiaro che spagnuoli portano il negozio in lungo, né si curano molto per mutar altri suoi luoghi per quella piazza, perché stimano, senz’altro cambio e senza crescer maggior gelosia in Italia, poter sempre disponer di quel luogo a gusto loro. Perché, se ben la principessa di Stigliano dica apertamente che, mentre viverá lei, spagnuoli non vi metteranno il piede, tiene tuttavia d’ordinario la principessa per governator in Sabioneda un vassallo e suddito del re. oltre aver lei 30.000 ducati di entrata nel regno di Napoli in tanti Stati suoi patrimoniali; ond’hanno [p. 162 modifica]spagnuoli si buon pegno in mano, che non li torna conto il fare altre novitá in questo proposito. Oltre che, non credo abbino essi a desiderar megliori castellani in Sabioneda che gl’istessi principi di Stigliano, che succederanno di tempo in tempo; li quali, avendo in Regno piú di 130.000 ducati di rendita annua, doveranno dipender sempre dalla volontá de’ spagnuoli per ogni ragione. 11 negozio è però di somma considerazione, ed il tenervi {’anima applicata sará sempre termine molto prudente; perché, se al signor Dio piacesse che quella piazza uscisse in fine dalla casa di Stigliano e capitasse in poter di Mantova o di altro principe buon italiano, sarebbe un gran bene per questa provincia e un grande acquisto per le Signorie Vostre eccellentissime.

Col pontefice, oltre la dovuta obedienza, passa buona intelligenza il signor duca; e, benché conosca che averebbe potuto Sua Santitá, massime nel principio, aiutar la sua causa piú di quello che ha fatto, non se ne lamenta però, perché conosce che ciò non deriva da mala volontá, ma dalla rissoluzione del presente pontefice di non voler in alcuna cosa travagli. Teneva giá il signor duca la beretta da cardinale, che rimandò, mentre che io ero in Mantova, per il signor don Vicenzo suo fratello, con speranza che all’istesso siano confirrnate l’entrate di chiesa, ed il priorato in particolare di Barletta, che ha goduto il signor duca mentre è stato cardinale; ed il vescovo di Diocesana, che è stato il portatore di essa beretta, come sanno le Signorie Vostre eccellentissime, aveva anco espresso ordine di trattare intorno a ciò col pontefice.

Con la Francia ha Sua Altezza la strettezza del sangue, che si sa, e ne doverebbe sperar ogni bene; ma l’isperienza gli ha fatto conoscer quanto importi quel regno non aver capo ed esser, si può dire, privo di re: e della regina e de’ suoi ministri ha il signor duca ricevuto poca sodisfazione, anzi dell’accordato ultimamente da Ramboglietto si chiama offeso e mal trattato. Lo dissimula però, perché cosí conviene al suo servizio di fare, si perché è principe inferiore, come perché, riuscito don Vicenzo cardinale, sia per aver la protezione di quella corona [p. 163 modifica]in corte di Roma e ricevere dalla Francia quella ricognizione, che è ordinaria; se ben hanno l’Eccellenze Vostre ultimamente inteso che il secretario del detto don Vicenzo, mandato da lui a quest’effetto, non ha riportato che parola d’ufficio e generali.

Di Lorena è il signor duca cognato, né ha occasione se non di passar ottima intelligenza con quel principe.

Con Fiorenza s’intende bene e si promette assai del granduca. Mi ha detto piú volte che da quel principe gli viene portata grande affezione, ed in proposito di nozze con quella casa ha il signor duca quei concetti che ho giá descritti; se bene il trovarsi adesso in corte di Fiorenza il marchese Rossi, partito dal servizio di Mantova, come si sa, non può esser di alcun giovamento al signor duca.

Di Modena è parente. Con Urbino, per la distanza di luoghi, non ha che fare. Con Parma, per le cose passate, non vi è buona volontá, ma piú tosto rancore ed alienazione di affetto. E con Spagna e con Vostra Serenitá ha il signor duca quei interessi che sono noti ed io ho in qualche parte imperfettamente accennato.

Ho detto, serenissimo Principe, signori eccellentissimi, quanto piú brevemente ho potuto, quello che ho giudicato degno della loro notizia intorno alle condizioni del signor duca di Mantova, di quelli della sua casa, delli suoi Stati, delle sue forze, delle sue rendite, de’ suoi ministri, del suo Consiglio, quello che si può dire del suo matrimonio, come s’intenda con altri principi, in che stato si trovi con spagnuoli e che volontá che tenghi con la Serenitá Vostra. La maggior parte delle quai cose, come ho detto da principio, non avendo altro fondamento che la congettura, a me non dá l’animo poter affermare per vere, perché possono e non possono riuscir tali, secondo gli accidenti e le occasioni.

Passerò ora a quella parte che doverá contenir li favori ricevuti in questa legazione a Mantova, per riddurmi al fine con celeritá.

Non ha tralasciato in conto alcuno il signor duca di dimostrare la stima grande che ha fatto di quest’ambassaria di Vostra [p. 164 modifica]Serenitá. A San Zenon, vicino a’ confini, principiò a farmi regalar Sua Altezza di rinfrescamenti in quel luogo. Agl’istessi confini poi trovai il conte Ridolfo Ippoliti da Gazoldo, mandato dal signor duca ad incontrarmi, cavalliere di molta qualitá e del quale non si serve Sua Altezza se non in occasione di rilevante negozio, come ha fatto nelli ultimi travagli, che lo ha mandato per suo ambassatore a Cesare, in Spagna ed in Francia. Aveva questo cavalliere con lui sei carrozze del signor duca, cento cavalli leggieri della guardia medesimamente di Sua Altezza. Trovai parimente ai confini il residente Antelmi, secretano di Vostra Serenitá in Mantova, che, conforme alla devozion della sua casa, fa il suo debito in quella corte ed il servizio dell’Eccellenze Vostre con molto spirito. Aveva questo in sua compagnia un figliuolo del signor Giovan Francesco Secco, secretano di questo eccellentissimo senato, il quale con molto interesse suo procura che questo giovinetto vada apprendendo cognizione e lume delle cose, perché, avendolo destinato alla cancelleria di Vostra Serenitá, possa con frutto del publico servizio vedersi di lui quella consolazione che ogni padre desidera de’figliuolini. E veramente io l’ho trovato pieno di una indicibile modestia e creanza, di molto intendimento e discrezione; onde, come non ho potuto tacere questo poco di lui all’Eccellenze Vostre, cosí posso assicurarle che siano per aver col tempo un buono e fruttuoso ministro, che assomiglierá nel valore e nei costumi compitamente al padre ed a tutti della sua casa.

Ora, seguitando il discorso, compii meco il conte in nome del signor duca, né cessò, per quel tempo che continuassimo insieme il resto di quel viaggio, di attestarmi l’obligazione ed osservanza del signor duca verso la Serenitá Vostra. Un miglio in circa fuori della cittá mi aspettava il signor don Vicenzo con molto numero di cavallieri, carrozze e cavalli; e, passato in nome del signor duca e suo un affettuoso e riverente complimento, mi ricevè a mano dritta; ed, entrato nella sua carrozza, facessimo l’ingresso in Mantova con molta pompa e solennitá, e mi accompagnò fin all’appartamento destinatomi in castello nel proprio palazzo del signor duca e infine nell’ultima stanza, [p. 165 modifica]continuando, e quella sera e tutto il tempo che mi son fermato in quella cittá, a darmi sempre la mano e titolo d’«Eccellenza». A pena partitosi da me don Vicenzo predetto, venne il signor duca nelle mie proprie stanze in persona a vedermi, passando meco quei uffici di rispetto e di riverenza verso la Serenitá Vostra, che so d’aver scritto, né replico per non apportar maggior tedio alle Signorie Vostre eccellentissime. Trovai apparecchiati e preparati baldachini in quasi tutte le stanze del mio appartamento: mi fu applicato il proprio e particolar servizio del signor duca, come di mastro di casa, scalco, trinzante, paggi ed altri, tutti cavallieri e gentiluomini di condizione; ed altro servizio, pur di gentiluomini, per il resto della mia famiglia, con la persona del cavallier Ceruti per assistenza a’ gentiluomini, che erano con me, e del capitan Lorenzo Gelminio per li altri di minor condizione pur della mia compagnia; oltre il detto conte di Gazoldo per la mia persona, che mi ha fatto continua assistenza, per non dir servizi. Stavano allestite sempre dieci carrozze per il mio servizio, con molti staffieri del signor duca e con una continua guardia di alabardieri nella prima sala dell’appartamento dove io ero alloggiato. Nel tempo poi che mi son fermato in Mantova non è, credo, passato giorno che il signor duca non m’abbia fatto qualche particolar onore: quando di mangiare con Sua Altezza, quando di cacce, quando di musica, quando di comedia. Mi fece anco una mattina entrar in un barchetto con lui solo a tirar agli uccelli nel lago. Mi ha fatto veder gran parte del suo palazzo e delle sue gioie e molti luoghi in propria persona; ed infine, l’ultimo giorno innanzi il mio partire, mi regalò di una festa e d’un balletto, che fu fatto dal signor duca stesso, dal principe don Vicenzo e da dui altri cavallieri e da quattro dame, con livrea e mascherata molto bella, che riuscí il tutto certo molto leggiadramente. Nel mio partire ha continuato medesimamente il duca la maniera giá presa di onorar questa legazione. Vòlse ad ogni partito, come ho detto, restituirmi la visita nel punto che ero per partire, e vi venne publicamente con grandissimo numero di cavallieri, e per la strada di fuori, per render maggiormente palese questo [p. 166 modifica]ultimo onore che mi faceva l’Altezza Sua. Mi fece accompagnare dalla sua guardia d’alabardieri, che non suole di ordinario uscir mai di castello senza il signor duca, col capitano dell’istessa guardia, che in tutti i modi vòlse sempre caminar a piedi, tutto che quella mattina piovesse assai forte, fino al luogo di entrar in barca: dove arrivati, con molti birri fu fatta una pienissima salva e trovai apparecchiati, oltre il proprio bucintoro del signor duca per la mia persona, quattro altri ancora per il resto delli miei gentiluomini e diverse altre barche e con tutto il servizio apparecchiato per spesarmi sino a Venezia; se ben io non l’ho comportato, se non a quel termine che ho stimato convenire. Son però con gli stessi bucintori venuto fino a Venezia, come molte delle Eccellenze Vostre possono aver veduto. Né devo anco tacere che commandò anco il signor duca che gl’istessi suoi mastro di casa, scalco, trinzante, paggi venissero dieci miglia lontano di Mantova a prestar il servizio in barca per il primo disnare, conia istessa assistenza del conte di Gazoldo, del cavallier Ceruti e del Gelminio; e sarebbono forse anco questi venuti piú innanzi, se io l’avessi permesso. Da che possono comprender l’Eccellenze Vostre, come ho detto da principio, che ’l signor duca non ha lasciato a dietro termine di stima e di onore a quest’am bassaria di Vostra Serenitá. E nelle occasioni cosí publiche come private e nei congressi cosí di negozio come di piacere, ed in ogni altra occorrenza ha onorato me suo ambassatore in maniera che piú non si poteva pretendere, col trattarmi sempre con titolo di «Eccellenza» e procurando, sino vestito con le insegne ed abito da cardinale, di volermi dar la mano: nel che mi son governato con quel modesto e prudente termine che conveniva.

Di molti gentiluomini veneziani, che ho procurato di aver in mia compagnia, per esser stato il mio partire alla fine di settembre, ordinario mese e tempo delle solite occupazioni nostre nei brogli, e per quel cattivo influsso dell’anno presente di tante indisposizioni, che pochi sono quelli i quali o non siano essi stati amalati o non ne abbiano avuto nella sua casa, non ho potuto insomma ricever l’onore da altri che dal clarissimo ser [p. 167 modifica]Antonio Veniero, fu dell’illustrissimo ser Gasparo. Delle preclari e singolari qualitá di questo, per tutti i rispetti, nobilissimo soggetto non aspettino l’Eccellenze Vostre che ne sia da me imperfettamente discorso, perché benissimo è noto il pregiudizio che gli potrebbe apportar la mia lingua con il parlarne fiaccamente; oltre che, grande ardir sarebbe il mio di voler portarlo a questo eccellentissimo senato, che ha ed averá sempre al sicuro viva la memoria del suo valore e della sua eloquenza, mentre in questo luogo, con la singolaritá delle sue azioni e di suoi uffici, ha fatto tante volte stupire questo gravissimo Consiglio, e resa ad altri non solo difficile, ma impossibile la sua imitazione. Dirò solamente che questo signore, per continuata dimostrazione di quell’amore, che in virtú di una amicizia di piú di 25 anni che si è sempre compiacciuto portarmi, non guardando né alla sua etá né a molti carichi essercitati né ad esser restato solo degl’invitati in questo viaggio, ad ogni modo (il che esprimo con sentimento d’infinita e mia immortai obligazione), superando ogni difficultá, vi ha voluto venire. L’onore e la riputazione, che Sua Signoria clarissima colla sua intelligenzia e prudenzia ha apportato a questa legazione, è stata veramente grandissima, ed ha fatto conoscere in tutte le parti che molto piú proprio sarebbe stato alla sua persona l’istesso carico di ambassatore, che di gentiluomo che privatamente fosse venuto ad onorar quest’ambassaria.

Ho avuto con me un florido ed abondante numero di gentiluomini forestieri delle piú principali cittá del Stato dell’Eccellenze Vostre: di Cividal, di Treviso, di Padova, di Vicenza, di Bressa ed in particolar di Verona; ché, nel passar ch’io feci per quella cittá, si accompagnarono meco di quelli piú principali cavallieri in grosso numero. Da questi, che in tutti erano piú di trenta, io son restato tanto favorito che non basto per esplicare. E veramente che, e con nobilissimi vestiti e con livree e con ogni altro termine, non hanno tralasciato dimostrazioni colle quali abbiano creduto poter far apparire la divozione de’ loro animi in quest’occasione verso la Serenitá Vostra. Non mi estenderò in raccontar i nomi di tutti, perché sono molti e pur [p. 168 modifica]troppo tedio conosco aver portato questa sera alle Signorie Vostre eccellentissime.

È venuto in mia compagnia a servir medesimamente Vostra Serenitá il signor Francesco mio fratello, e volentieri averei condotto anco con me quattro figliuoli maschi, che per grazia del signor Dio mi trovo avere, se la loro tenera etá l’avesse permesso, acioché con l’essempio del zio e del padre cominciassero a assuefarsi a spender unitamente le communi sostanze, e anco la stessa vita, quando cosí portasse il bisogno di questa serenissima republica.

Mio secretano è stato il signor Giovanni Francesco Marchesini, secretano vecchio di questo eccellentissimo senato e benissimo conosciuto dalla Serenitá Vostra e da cadauna delle Signorie Vostre eccellentissime. Poca fatica averò io in rappresentar le sue virtú, la sua intelligenzia e la sua modestia e la sua fede, perché amplissimo testimonio di tutto questo fanno i lunghi e continuati servizi prestati da lui nelle piú riguardevoli corti del mondo, alle quali è stato con diversi ambassatori per secretano, come in Roma, in Germania, in Spagna, in diversi luoghi in Mar con commissione; ma a Roma in particolar, dove si fermò per tre legazioni continue con prestantissimi senatori, e molto tempo anco solo, con occasione di morte di ambassatore, in tempi ardui e difficilissimi; e finalmente nelle due importanti residenze di Fiorenza e Milano e questa di Mantova. Eccellentissime Signorie, questo è il decimo settimo servizio che egli ha prestato, oltre le molte fatiche fatte qui nell’eccellentissimo Consiglio nelli piú freschi anni della sua etá, e che fa e farebbe tuttavia piú, se le sue molte indisposizioni glielo permettessero. Anzi, perché non resti interrotto il corso della sua divozione e del suo servizio, ha applicato un suo figliuolo ultimamente alla cancelleria, virtuoso, intelligente e di molta riuscita, che di giá è andato a servire l’eccellentissimo signor Francesco Erizzo, proveditor generai a Palma, con interesse dell’istesso padre e della sua casa, sendo partito anco ne’ dui giorni e senza li soliti ordinari donativi. Onde per tutti i rispetti si rende questo benemerito ministro molto degno della publica grazia; e io ho ricevuto [p. 169 modifica]da lui cosí grande e piena sodisfazione, che, come sarò in obligo di amarlo in eterno, cosí con tutto l’affetto possibile lo raccomando alla benignitá di questo eccellentissimo senato, come a quello che sopra ogni altro principe si è sempre dimostrato largo riconoscitore di chi onoratamente e fedelmente lo serve.

Di me, serenissimo Principe, illustrissimi ed eccellentissimi signori, averò poco che dire, anzi, molto piú sanamente parlando, averò molto che tacere, perché molte sono state le cose nelle quali conosco aver mancato in questo servizio. È ben vero che, se il mio scarso talento ed il mio deboi potere s’avessero potuto riempir dell’ardor e dell’efficacia della volontá, la Serenitá Vostra sarebbe restata compitamente servita, ed a me, benché scrupoloso, non sarebbe avanzato che bramar di avantaggio. Ma tutti non possono tutte le cose, ed io sopra tutti, con mia estrema mortificazione, mi conosco di forze e di attitudine sommamente manchevole e diffettoso. Chiamo però Dio benedetto in testimonio di non aver tralasciato opera, fatica o diligenzia, per essequir compitamente il mio debito e le commissioni di Vostra Serenitá. Ho applicato tutto il spirito, tutto l’animo, tutto l’affetto e tutto ’l studio per persuader il signor duca di Mantova all’accommodamento con Savoia e per introdur, conforme a’ publici commandamenti, alcun principio di ire fra questi principi: ora persuadendo a Sua Altezza l’interesse di tutta questa provincia, ora il particolar del proprio della sua casa, ora la gloria che s’averebbe avanzato presso i principi tutti, ora il bisogno grande che ne avevano i suoi sudditi, ora lodando i suoi concetti, ora considerandoli i contrari, ora toccandoli il punto delle descendenze, ora quello di patimenti e travagli delle guerre; ed insomma, in quel poco tempo che mi son fermato a quella corte, non ho lasciato mezo intentato, che avesse potuto giovare alla causa ed al beneficio commune. E se bene non s’è potuto conseguire il fine desiderato, si è però cavato dal signor duca quel piú che si ha potuto intorno a’ suoi pensieri, come giá scrissi ed ho anco toccato in questo presente discorso. [p. 170 modifica]

Nel rimanente ho procurato di comparire in questa, se ben breve legazione, con il decoro e dignitá conveniente a rappresentante Vostra Serenitá, sapendo benissimo che per altro modo megliore non si può far il servizio del suo principe e coprir le proprie imperfezioni che con l’onorevolezza e col splendore. E se bene alle operazioni mie non si convengono questi titoli, ho però procurato, in quanto ho potuto, di superar me stesso e le mie fortune per conseguir questo fine. E ho voluto in questa prima occasione assuefarmi di poner dietro alle spalle tutti gl’interessi particolari della mia casa, per non dover aver mai altro in faccia né avanti gli occhi che il solo servizio della Serenitá Vostra, e cosí solennemente promesso anco questa sera di far sempre in tutti quei carichi, che dalla publica dignitá mi potessero esser nell’avvenire creduti e commessi. Per questo non mi son mai sgomentato nel veder trascorrere 25 mesi dalla mia elezione al mio partire, per gli accidenti che sono noti; tutto che per quel cosí lungo tempo mi sia stato necessario sostener molto interesse e mutar e rinovar anco molte cose, perché fossero proprie delle stagioni, secondo che andava parendo qualche speranza di poter partire. Ma veramente, signori eccellentissimi, convenivano a me questi accidenti estraordinari, perché straordinaria ed insolita fu anco la benignitá e la maniera con la quale questo eccellentissimo senato, dispensando la insufficienzia mia, si compiacque eleggermi a questa ambassaria: onde, si come perciò le mie obligazioni a Vostre Eccellenze restano infinite, cosí si possono assicurare che alcun accidente, per difficile, non sia per ritardarmi in alcun tempo dal debito che porto dal nascimento e da quell’obligo in cui mi trovo, per le continue publiche grazie strettamente ed indissolubilmente, constituto.

La mattina che dovevo partir da Mantova, mi venne a trovare il signor Giulio Campagna, che è quello che ha in custodia le gioie del signor duca; e, premesse molte parole di ufficio e di creanze, mi disse che non averebbe saputo mai l’Altezza Sua come poter corrispondere al gran merito della serenissima republica, né come degnamente trattare un suo ambassatore. Che perciò pregava a restar iscusato se non usava verso di me quei [p. 171 modifica]segni che a ministro di principe cosí grande e a cui teneva tanta obligazione e’ sarebbe stato proprio e conveniente. Che intendeva però Sua Altezza com’io mi trovassi maritato, e che però mi pregava a non ricusar il regallo d’una gargatiglia da collo, che averebbe potuto servir ad uso della consorte, ed è quella che si trova ai piedi di Vostra Serenitá. Questa, come io non debbo ricever né riconoscer da altri che dalla Serenitá Vostra, mio vero e solo principe, cosí dalla sua semplice benignitá e da quella di questo eccellentissimo senato aspetterò questa sera con sommo desiderio di ricever in dono. E però, quanto piú devotamente e profondamente e umilmente posso, prego e supplico la Serenitá Vostra e cadauna delle Signorie Vostre eccellentissime e benignissime che, facendo riflesso non nel mio merito ma in se stesse e nella sua ordinaria grande munificenza, restino servite di farmi questa singolarissima grazia; la qual, dovendomi riuscire a publico testimonio che non il mio debol servizio (ché questo non può essere in alcun modo), ma la mia ottima mente sia stata dall’Eccellenze Vostre gradita, sará ricevuto da me con sentimento di somma riverenza e con estrema consolazione. Per il qual rispetto laccio anco piú stima di quella gioia che d’ogni altro qualsivoglia piú ricco e piú prezioso tesoro, anzi di tutti i tesori insieme che sono nel mondo.