La Teseide/Libro settimo

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Libro settimo

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LA TESEIDE

LIBRO SETTIMO




ARGOMENTO


Dimostra il libro settimo il parlare
     Che fe’ Teseo a’ principi adunati:
     E dopo quello assai aperto appare
     Quali essi fosser da ciascun de’ lati
De’ due Tebani; e poscia il loro orare:
     Quindi le cose degl’Iddii pregati
     Disegna, appresso lor facendo andare
     U’ di milizia furono adornati.
Ed al teatro quindi li conduce
     Per vie diverse, dove gli Ateniesi
     Già eran tutti quanti, e la lor luce
Emilia miran, ma nel viso accesi:
     I suoi conforta e prega ciascun duce
     Ad aspettare il segno poscia attesi.


1


Mentre che la fortuna sì menava
     In Atene le cose in allegrezza,
     Il giorno dato alli duo s’appressava:
     Perchè con lieta e gran piacevolezza
     Teseo li duci, li quali onorava,
     Ragunò insieme tutti, e la grandezza
     Del teatro mostrò loro, ed appresso
     Tutti s’affissono a seder con esso.

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2


Stette Teseo con li venuti regi
     Baldanzoso nel teatro eminente,
     Col quale insieme gli baroni egregi
     Furon, alquanto più umilemente;
     E tutti gli altri popoli e collegi
     Nel pian sedetton intentivamente,
     Sicchè Teseo potessero udire,
     Che ’n piè levato così prese a dire.

3


Signori, i’ credo che ciascun sentito
     Abbia perchè tra gli Teban quistione
     Tale sia nata, ed ancora il partito
     Che io die’ loro, e non senza ragione:
     Però di ciò ch’han contro a me fallilo,
     Nè della mia pietà qui far menzione
     Più non intendo, nè di loro amore,
     Non conosciuto da chi non l’ha in core.

4


Ma certo quando loro in pace posi,
     E nelle man di cento e cento diedi
     L’amor di quella ond’eran sì bramosi,
     Non mi credetti nè lance nè spiedi
     Nè troppo ferri chiari o rugginosi,
     Nè gran cavai nè grandi uomini a piedi
     Dovesson terminar cotanto fuoco,
     Ma esser ciò com’un palestral giuoco.

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5


E non credetti che tutta Lernea
     Sotto gli regi achivi si movesse
     Per sì poca di cosa: anzi credea
     Che ciaschedun de’ suoi vassalli avesse
     A terminar così fatta mislea,
     E che con brevi forze gli piacesse
     L’un contro l’altro questo amore avere,
     Lo qual mostra sia lor tanto in piacere.

6


Ma essi forse credendosi ch’io
     Non conoscessi loro esser potenti,
     Di mostrarlomi lor venne in disio;
     E voi han fatto qui con vostre genti
     Venire per pagar d’amore il fio,
     Per cui e’ son contro al dover ferventi:
     Ed io son ben contento che ci siate,
     E ch’essi abbiano lor forze mostrate.

7


Ma tuttavia la cosa ad altro segno
     Vi prego che mandiate, com’ diraggio:
     Qui non ha zuffa per acquistar regno,
     O per pigliar perduto ereditaggio:
     Qui non è tra costor mortale sdegno,
     Qui non si cerca di commesso oltraggio
     Vendetta: ma amore è la cagione,
     Com’è già detto, di cotal quistione.

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8


Dunque amorosa dee questa battaglia
     Esser se ben discerno, e non odiosa:
     L’odiose son di chi mal far travaglia,
     O di chi n’ha ragion per altra cosa,
     O degli aspri Centauri di Tessaglia,
     I qua’ non sanno mai che si sia posa,
     E non tra noi; che benchè siam creati
     Chi qua chi là, pur d’un sangue siam nati.

9


E come potre’ mai io sofferire
     Veder il sangue lariseo versare?
     E l’un pe’ colpi dell’altro morire,
     Come al seme di Cadmo piacque fare?
     Oggi non è quel tempo, nè quell’ire;
     Però con lor le lasciam dimorare,
     E noi viviam come insieme dovemo,
     E leggier per amor ne combattemo.

10


Chi sarà quel che per sì poca cosa
     Volesse tanti popoli in periglio
     Porre di gente tanto valorosa
     Quanto qui veggio? E’ sarie mal consiglio,
     Ed agl’Iddii sarebbe molto odiosa
     Veder qui contro al padre uscire il figlio,
     E fedir l’un contra l’altro parente
     Co’ ferri in mano nimichevolmente.

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11


Poichè a tal fine qui siete adunati,
     Perchè vostra venuta in van non sia,
     Secondo che più son da voi amati
     Li due amanti, come ognun disia
     Così si tragga, e cento nominati
     Per parte siate, siccome la mia
     Sentenza die’ il dì ch’io gli trovai
     D’affanno d’ira e d’amor pieni assai.

12


E acciocchè odio fra voi non nascesse,
     Le lance più nocive lascerete,
     Sol con le spade, o con mazze l’espresse
     Forze di voi contenti proverete;
     E le bipenni porti chi volesse,
     Ma altro no: di questo assai avete:
     E quegli, il bene a cui oprar vittoria
     Darà, s’avrà e la donna e la gloria.

13


Questo sarà siccome un giuoco a Marte,
     Li sagrificii del qual celebriamo
     Il giorno dato, e vederassi l’arte
     Di menar l’armi, in che ci esercitiamo;
     E perciocchè io giudice e non parte
     Esser qui debbo, dove noi seggiamo
     Senz’arme a’ vostri fatti porrò mente:
     Però di ben portarvi abbiate a mente.

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14


De’ nobili e del popolo il romore
     Toccò le stelle, sì fu alto e forte;
     Gl’Iddii dicendo servan tal signore
     Che degli amici suoi fugge la morte;
     E con pietoso e grazïoso amore
     Dà ne’ contasti men gravosa sorte:
     Ed in quel loco senza dipartirsi
     Cento e cento s’elessero, e partirsi.

15


Levossi prima adunque in piede Arcita,
     Ed in parte del teatro si trasse,
     Appresso Palemon d’altra partita
     A fronte disse Teseo se n’andasse,
     E ciaschedun della gente lì sita
     Con cui più gli piacesse s’accostasse;
     Aveva detto: e però immantinente
     Se n’andaro ad Arcita questa gente.

16


Il primo fu il fiero Agamennone,
     Poi Menelao, e Polluce e Castore
     Con la lor gente, e poi Pigmaleone,
     Il re Licurgo, e di Pilo Nestore,
     Il gran Peleo col popol mirmidone,
     E il corintio Cromio di valore;
     Sicheo e Peritoo ancor vi giro,
     Ed Ippodamo ed altrui più il seguiro.

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17


A Palemone andò Ida pisano,
     E dopo lui Ulisse e Diomede,
     E Minos co’ fratelli a mano a mano,
     E ’l re Evandro, a cui non servar fede
     Li suo, che ’l fer del suo reame strano
     Gir per lo mondo, come ancor si crede:
     Andovvi di Tessaglia il grande Admeto,
     Ed Encelado e Niso a lui di dreto.

18


Così divisi, dalli suoi elesse
     Arcita dieci, li qua’ caramente
     Pregò che ciascun nove ne prendesse
     Con seco della sua più cara gente,
     Acciocchè cento de’ migliori avesse;
     Ed essi il feciono assai prestamente,
     E scritti furo, e agli altri fu detto
     Che buon tempo si desser con diletto.

19


E simil fece ancora Palemone,
     E di buon omin si trovar sì pari,
     Ched e’ non v’era alcuna variazione:
     E credesi che non ne fosser guari
     Rimasi al mondo di tal condizione,
     Così gentili e per prodezza pari,
     Qual era quivi l’uno e l’altro cento,
     Di che Teseo fu assai contento.

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20


Adunque posto sotto grave pena
     Lo stare in pace per cosa che avvegna
     A tutti gli altri, Teseo ne gli mena
     Seco per via onorevole e degna
     Per la cittade d’allegrezza piena,
     Dove col padre insiememente regna:
     E come prima, insieme assai contenti
     Li re si stavan tutti e le lor genti.

21


E posto che l’un l’altro conoscea
     Col qual dovea le sue forze provare,
     Nulla divisïon vi si vedea
     Però in alcun allo adoperare:
     Anzi ciascuno, quanto più potea,
     A quelli, a qua’ doveva incontro andare,
     Con tutto cuor di piacer s’ingegnava:
     Così in ben con festa vi si stava.

22


Già era il dì al quale il dì seguente
     Combatter si dovea, quando gl’Iddii
     Palemone ed Arcita umilemente
     Giro a pregare con affetti pii,
     Sopra gli altari stando fuoco ardente
     Incensi diero, e con sommi disii
     Dier preghi a tutti, che ciascun gli atasse
     Il dì seguente in ciò che bisognasse.

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23


Ma pure Arcita ne’ templi di Marte,
     Poscia ch’egli ebbe gli altri visitati,
     E dati fuochi e incensi in ogni parte,
     Si ritornò, e quegli illuminati
     Più ch’altri assai e con più solenn’arte,
     E di liquor sommissimi rorati,
     Con cuor divoto tale orazïone
     A Marte fece con gran divozione.

24


O forte Iddio, che ne’ regni nevosi
     Bistonii servi le tue sacre case,
     Ne’ luoghi al sol nemici e tenebrosi,
     Delli tuoi ingegni piene, pe’ qua’ rase
     D’ardir le fronti furo agli orgogliosi
     Fi’ della Terra, allorchè ognun rimase
     Di morte freddo in sul suol, per le prove
     Fatte da te e dal tuo padre Giove;

25


Se per alto valor la mia etade,
     E le mie forze meritan che io
     De’ tuoi sia detto, per quella pietade
     Ch’ebbe Nettuno, allor che con disio
     Di Citerea usavi la biltade,
     Rinchiuso da Vulcano, ad ogni Iddio
     Fatto palese; umilmente ti prego
     Che alli miei preghi tu non facci niego,

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26


Io son, come tu vedi, giovinetto,
     E per nuova bellezza tanto Amore
     Sotto sua signoria mi tien distretto,
     Con le mie forze e tutto mio valore
     Conviene oprarmi, se io vo’ diletto
     Sentir di ciò che più disia il core;
     E senza te io son poco possente,
     Anzi piuttosto non posso niente.

27


Dunque m’aiuta per lo santo fuoco
     Che t’arse già, siccome me arde ora,
     E nel presente mio palestral giuoco
     Colle tue forze nel pugnar mi onora:
     Certo sì fatto don non mi fia poco,
     Ma sommo bene: adunque qui lavora:
     S’io son di questa pugna vincitore,
     Io il diletto, e tu n’abbi l’onore.

28


I templi tuoi eterni s’orneranno
     Dell’armi del mio vinto compagnone,
     Ed ancora le mie vi penderanno,
     E fievi disegnata la cagione:
     Eterni fuochi sempre vi arderanno,
     E la barba e i miei crin, che offensïone
     Di ferro non sentiron’, ti prometto,
     Se mi fai vincer, siccom’io t’ho detto.

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29


Era allor forse Marte in esercizio
     Di chiara far la parte rugginosa
     Del grande suo ed orribile ospizio,
     Quando d’Arcita l’orazion pietosa
     Pervenne li, per fare il dato ufizio
     Tuttavia nell’aspetto lagrimosa:
     La qual divenne di spavento muta
     Com’ di Marte la casa ebbe veduta.

30


Ne’ campi tracii sotto i cieli iberni
     Da tempesta continova agitati,
     Dove schiere di nembi sempiterni
     Da’ venti or qua ed or là trasmutati
     In varii luoghi ne’ guazzosi verni,
     E d’acqua globi per freddo aggroppati
     Gittati sono, e neve tuttavia,
     Che ’n ghiaccio a mano a man s’indura e cria:

31


E ’n una selva steril di robusti
     Cerri, dov’eran folti ed alti molto,
     Nodosi ed aspri, rigidi e vetusti,
     Che d’ombra eterna ricuoprono il volto
     Del tristo suolo, e in fra gli antichi fusti,
     Da ben mille furor sempre ravvolto,
     Vi si sentia grandissimo romore,
     Nè v’era bestia ancora nè pastore.

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32


In questa vide la ca’ dello Iddio
     Armipotente, e questa è edificata
     Tutta d’acciaio splendido e pulio,
     Dal quale era dal sol riverberata
     La luce, che abborriva il luogo rio:
     Tutta di ferro era la stretta entrata,
     E le porte eran d’eterno diamante,
     Ferrate d’ogui parte tutte quante.

33


E le colonne di ferro costei
     Vide, che l’edificio sostenieno:
     Lì gl’Impeti dementi parve a lei
     Veder, che fier fuor della porta uscieno,
     Ed il cieco Peccare, ed ogni Omei
     Similemente quivi si vedieno;
     Videvi l’Ire rosse come fuoco,
     E la Paura pallida in quel loco.

34


E con gli occulti ferri i Tradimenti
     Vide, e le Insidie con giusta apparenza:
     Lì Discordia sedeva, e sanguinenti
     Ferri avie in mano, e d’ogni differenza;
     E tutti i luoghi pareano strepenti
     D’aspre minacce e di crudele intenza:
     E ’n mezzo il loco la Virtù tristissima
     Sedíe di degne lode poverissima.

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35


Videvi ancora l’allegro Furore,
     E oltre a ciò con volto sanguinoso
     La Morte armata vide e lo Stupore;
     Ed ogni altare quivi era copioso
     Di sangue sol nelle battaglie fuore
     De’ corpi uman cacciato, e luminoso
     Era ciascun di fuoco tolto a terre
     Arse e disfatte per le triste guerre.

36


Ed era il tempio tutto istoriato
     Da sottil mano e di sopra e d’intorno:
     E ciò che pria vi vide disegnato
     Eran le prede di notte e di giorno
     Tolte alle terre, e qualunque isforzato
     Fu, era quivi in abito musorno:
     Vedevansi le genti incatenate,
     Porti di ferro e fortezze spezzate.

37


Videvi ancor le navi bellatrici,
     I vôti carri, e li volti guastati,
     E li miseri pianti ed infelici,
     Ed ogni forza cogli aspetti elati,
     Ogni fedita ancor si vedea lici:
     E sangui colle terre mescolati:
     E ’n ogni loco nell’aspetto fiero
     Si vedea Marte torbido ed altiero.

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38


E tal ricetto edificato avea
     Mulcibero sottil colla sua arte,
     Prima che ’l Sol gli avesse Citerea
     Mostrata co’ suoi raggi esser con Marte:
     Il quale di lontan ciò che volea
     Colei sentì, e seppe di che parte
     Ella veniva a lui sollecitare:
     Perch’ella prese e intese il suo affare.

39


Udita quella adunque di lontano,
     Da Arcita mandata umilemente,
     Senza più star sen gì a mano a mano
     Là dov’era chiamato occultamente:
     Nè prima i templi il loro Iddio sovrano
     Sentiron, che tremaron di presente:
     E rugghiar tutte ad un’ora le porte,
     Di che Arcita in sè temette forte.

40


Li fuochi dieron lume vie più chiaro,
     E diè la terra mirabile odore,
     E’ fumiferi incensi si tiraro
     Alla imagine, lì posta ad onore
     Di Marte, le cui armi risonaro
     Tutte in sè mosse con dolce romore:
     I segni dierono al mirante Arcita
     Che la sua orazion era esaudita.

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41


Dunque contento il giovinetto stette
     Con isperanza di vittoria avere:
     Nè quella notte di quel tempio uscette,
     Anzi la spese tututta in preghiere,
     E più segnali in quella ricevette
     Che gli affermaron più le cose vere:
     Ma poscia ch’egli apparve il nuovo giorno,
     Fecesi armare il giovinetto adorno.

42


Palemon similmente fatto avea
     Claschedun tempio ad Atene fumare,
     Nè in cielo avea lasciato o Dio o Dea,
     Che per sè non facesse egli pregare:
     Ma sopra tutti gli altri Citerea
     Gli piacque più quel giorno d’onorare
     Con incensi e con vittime pietose,
     E nel suo tempio ad adorar si pose.

43


E fe’ divoto cotale orazione:
     O bella Dea del buon Vulcano sposa,
     Per cui s’allegra il monte Citerone,
     Deh, i’ ti prego che mi sii pietosa
     Per quello amor che portasti ad Adone,
     E la mia voglia per te amorosa
     Contenta, e fa’ la mia destra possente
     Doman, per modo, ch’io ne sia godente.

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44


Nulla persona sa quanto io amo;
     Nessun conosce il mio sommo disio;
     Nullo poria sentir quant’io la bramo,
     La bella Emilia, donna del cor mio,
     Cui giorno e notte sempre ad ogni or’ chiamo;
     Se non se tu e ’l tuo figliuolo Iddio,
     Gli qua’ sentite dentro quanto amore
     Per lei martira me suo servidore.

45


Io non poria con parole l’effetto
     Mostrar ch’i’ ho, nè dir quant’io lo sento:
     Tu sola lo conosci, ed al difetto
     Puoi Dea dar lontan contentamento,
     E ’l mio penar ritornare in diletto,
     Se lu fai ciò di che io qui attento
     Tanto ti prego, cioè che io sia
     In possession d’Emilia donna mia.

46


Io non ti chieggio in arme aver vittoria,
     Per li templi di Marte d’arme ornare:
     Io non ti chieggio di portarne gloria
     Di que’ doman, contra de’ qua’ provare
     Mi converrà’, nè cerco che memoria
     Lontana duri del mio operare;
     Io cerco solo Emilia, la qual puoi
     Donarmi, Dea, se donar la mi vuoi.

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47


Il modo trova tu, ch’io non mi curo
     O ch’io sia vinto, o ch’io sia vincitore:
     Me poco curo, s’io non son sicuro
     Di possedere il disio del mio core:
     Però, o Dea, quel che t’è men duro
     Piglia, e sì fa’ che io ne sia signore:
     Fallo, ch’i’ te ne prego, o Citerea,
     E ciò non mi negare, o somma Iddea.

48


Li templi tuoi saran sempre onorati
     Da me, siccome degni fermamente,
     E di mortine spesso incoronati:
     Ed ogni tuo altar farò lucente
     Di fuoco, e sacrificii fien donati
     Quali a tal Dea si denno certamente:
     E sempre il nome tuo per eccellenza
     Più ch’altro Iddio avrò in reverenza.

49


E se t’è grave ciò ch’io ti dimando
     Far, fa’ che tu nel teatro la spada
     Primaia prendi, ed al mio cor forando,
     Costrigni che lo spino fuor ne vada
     Con ogni vita il campo insanguinando;
     Chè cotal morte troppo più m’aggrada,
     Che non farebbe senza lei la vita,
     Vedendola non mia, ma sì d’Arcita.

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50


Come d’Arcita a Marte l’orazione,
     Certo così a Venere pietosa
     Se n’andò sopra il monte Citerone
     Quella di Palemon, dove si posa
     Di Citerea il tempio e la magione
     Infra altissimi pini alquanto ombrosa,
     Alla quale appressandosi, vaghezza
     La prima fu che vide in quell’altezza.

51


Colla quale oltre andando vide quello
     Ad ogni vista soave ed ameno,
     A guisa d’un giardin fronzuto e bello,
     E di piante verdissime ripieno,
     D’erbette fresche e d’ogni fior novello;
     E fonti vide e chiare vi surgieno,
     E in fra l’altre piante onde abbondava,
     Mortine più che altro le sembrava.

52


Quivi sentì pe’ rami dolcemente
     Quasi d’ogni maniera ucce’ cantare,
     E sopra quelli ancor similemente
     Li vide con diletto i nidi fare:
     Poscia fra l’ombre fresche prestamente
     Vide conigli iti qlla e in là andare,
     E timidetti cervi e cavriuoli,
     Ed altri molti varii bestiuoli.

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53


Similemente quivi ogni stromento
     Le parve udire e dilettoso canto;
     Onde passando con passo non lento,
     E rimirando, in sè sospesa alquanto
     Dell’alto loco e del bell’ornamento,
     Ripieno il vide quasi in ogni cantoFonte/commento: Milano, 1964
     Di spiriti, che qua e là volando
     Gieno a lor posta; a’ quali assai guardando,

54


Tra gli albuscelli ad una fonte allato
     Vide Cupido fabbricar saette,
     Avendo egli a’ suoi piè l’arco posato,
     Le qua’ sua figlia Voluttade elette
     Nell’onde temperava, ed assettato
     Con lor s’era Ozio, il quale ella vedette,
     Che con Memoria poi l’aste ferrava
     De’ ferri ch’ella prima temperava.

55


Poi vide in quello passo Leggiadria
     Con Adornezza ed Affabililate,
     E la ismarrita in tutto Cortesia,
     E vide l’Arti ch’hanno potestate
     Di fare altrui a forza far follia,
     Nel loro aspetto molto sfigurate
     Dalla immagine nostra, e ’l van Diletto
     Con Gentilezza vide star soletto.

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56


Poi vide presso a sè passar Bellezza
     Senz’ornamento alcun sè riguardando,
     E vide gir con lei Piacevolezza,
     E l’una e l’altra seco commendando;
     Poi con lor vide starsi Giovinezza
     Destra ed adorna molto festeggiando:
     E d’altra parte vide il folle Ardire
     Lusinghe e Ruffianie insieme gire.

57


E ’n mezzo il loco in su alte colonne
     Di rame vide un tempio, al qual d’intorno
     Danzando giovinetti vide e donne,
     Qual da sè belle, e qual d’abito adorno,
     Discinte e scalze, in capelli e gonne,
     Che in questo solo dispendeano il giorno:
     Poi sopra il tempio vide volitare
     Passere molte e colombe rucchiare.

58


Ed all’entrata del tempio vicina
     Vide che si sedeva pianamente
     Madonna Pace, e in mano una cortina
     ’Nanzi alla porta tenea lievemente:
     Appresso a lei in vista assai tapina
     Pazïenza sedea discretamente,
     Pallida nell’aspetto, e d’ogni parte
     D’intorno a lei vide Promesse ad arte.

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59


Poi dentro al tempio entrata, di sospiri
     Vi sentì un tumulto, che girava
     Focoso tutto di caldi disiri:
     Questo gli altari tutti alluminava
     Di nuove fiamme nate di martíri,
     De’ qua’ ciascun di lagrime grondava,
     Mosse da una donna cruda e ria,
     Che vide lì, chiamata Gelosia.

60


E in quel vide Priapo tenere
     Più sommo loco, in abito tal quale
     Chiunque il volle la notte vedere
     Potè, quando ragghiando l’animale
     Più pigro destò Vesta, che in calere
     Non poco gli era, e in ver di lui cotale
     Andava; e simil per lo tempio grande
     Di fior diversi assai vide grillande.

61


Quivi molti archi a’ cori di Diana
     Vide appiccati e rotti, in tra quali era
     Quel di Callisto fatta tramontana
     Orsa; le pome v’eran della fiera
     Atalanta che ’n correr fu sovrana:
     Ed ancor l’arme di quell’altra altiera
     Che partorì il bel Partenopeo
     Nipote al calidonio Oeneo.

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62


Videvi storie per tutto dipinte,
     In tra le qua’ con più alto lavoro
     Della sposa di Nin vidde distinte
     L’opere tutte, e vidde a piè del moro
     Piramo e Tisbe, e già le gelse tinte:
     E ’l grand’Ercole vidde tra costoro
     In grembo a Jole, e Bibli dolorosa
     Andar pregando Cauno pietosa.

63


Ma non vedendo Vener, le fu detto,
     Nè conobbe da cui: in più segreta
     Parte del tempio si sta a diletto:
     Se tu la vuoi, per quella porta, cheta
     Te n’entra: ond’essa, senza altro rispetto,
     In abito qual’era mansueta,
     Là si appressò per entrar dentro ad essa,
     Per l’ambasciata fare a lei commessa.

64


Ma essa lì nel primo suo venire
     Trovò Ricchezza la porta guardare;
     La qual le parve assai da riverire:
     E lasciata da lei quiv’entro entrare,
     Il luogo vide oscur nel primo gire;
     Ma poca luce poscia per lo stare
     Vi prese, e vide lei nuda giacere
     Sopra un gran letto assai bello a vedere.

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65


Ella avea d’oro i crini, e rilegati
     Intorno al capo senza treccia alcuna:
     Il suo viso era tal ch’e’ più lodati
     Hanno a rispetto bellezza nessuna:
     Le braccia, e ’l petto e’ pomi rilevati
     Si vedien tutti, e l’altra parte d’una
     Veste tanto sottil si ricopria,
     Che quasi nulla appena nascondia.

66


Oliva il luogo ben di mille odori:
     Dall’un de’ lati Bacco si sedea,
     Dall’altro Ceres con gli suoi savori:
     Ed essa seco per la man tenea
     Lasciva il pomo il quale alle sorori
     Prelata vinse nella valle Idea:
     E tutto ciò veduto porse il priego,
     Il qual fu conceduto senza niego.

67


Di Palemon le voci adunque udite,
     Subito gì la Dea ove chiamata
     Era: perchè allora fur sentite
     Diverse cose in la casa sagrata,
     E sì ne nacque in ciel novella lite
     In tra Venere e Marte; ma trovata
     Da lor fu via con maestrevol arte
     Di far contenti i preghi d’ogni parte.

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68


Stettesi adunque, mentre il mondo chiuso
     Tenne Apollo di luce, Palemone
     Dentro dal tempio sagrato rinchiuso
     Continovo in divota orazione:
     Siccome forse in quel tempo era in uso
     A chi doveva fare mutazione
     D’abito scuderesco in cavaliere,
     Com’e’ doveva, che era scudiere.

69


E certo li predetti innamorati
     Per lor piacevolezza in generale
     Da tutti gli Ateniesi erano amati:
     Perchè gl’Iddii da ciascun con eguale
     Animo furo tututti pregati
     Che gli guardasson d’angoscia e di male,
     E ciascheduno in modo contentasse,
     Che di lor nullo mai si biasimasse.

70


Fra gli altri che agl’Iddii sagrificaro
     Fu l’una Emilia più divotamente;
     La qual sentendo quanto ciascun caro
     Era degli due amanti alla sua gente,
     Non sofferse il suo cuor d’essere avaro
     Di porger preghi a Diana possente
     In servigio di que’ che amavan lei,
     Più che gli uomini in terra o in ciel gli Dei.

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71


E le serventi sue tutte chiamate
     Con corni pien d’offerte, ragunare
     Le fe’ davanti a sè, e disse: andate,
     Fate di Diana li templi mondare,
     E le veste e’ licor m’apparecchiate,
     E l’altre cose da sagrificare:
     Elle n’andaro, ed essa in compagnia
     Di molte donne onesta le seguia.

72


Fu mondo il tempio e di be’ drappi ornato,
     Al quale ella pervenne; e quivi presto
     Tutto trovò ch’ella avea comandato.
     E poi, in loco a poche manifesto,
     Di fontano liquore il dilicato
     Corpo lavossi; e poi fornito questo,
     Di bianchissima porpora vestissi,
     E’ biondi crini dalli vel scoprissi.

73


Quinci scoperse la sagra figura
     Di quella Dea, cui ella più amava,
     E colla bianca man la fece pura,
     Se forse alcuna nebula vi stava:
     Poi, senza avere in sè nulla paura,
     Sopra l’altar soave la posava:
     E quindi di mirifici liquori
     Rorando il tempio riempiè d’odori.

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74


E coronò di quercia cereale,
     Fatta venire assai pietosamente,
     Tututto il tempio, e ’l suo capo altrettale:
     Poi fatto il grasso pin minutamente
     Spezzare a’ servi, con misura eguale,
     Sopra l’altare, molto reverente,
     Due roghi fece di simil grossezza,
     Nè ebbe l’un più che l’altro d’altezza.

75


Quindi con pia man v’accese il foco,
     E quel di vino e di latte innaffiato,
     Per tre fiate temperò un poco:
     E poi l’incenso prese, e seminato
     Sopra di quello riempiè il loco
     Di fummo assai soave in ogni lato:
     E poi si fe’ più tortore recare,
     E ’l sangue lor sopra ’l fuoco spruzzare.

76


E molte bianche agnellette bidenti
     Elatte al modo antico ed isvenate
     Si fe’ recare avanti alle sue genti,
     E tratti loro i cuori e le curate,
     Ancor gli caldi spiriti battenti,
     Sopra gli accesi fuochi l’ha posate:
     E cominciò pietosa nell’aspetto
     Così a dir come appresso fia detto:

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77


O Dea, a cui la terra e ’l cielo e ’l mare,
     E’ regni di Pluton son manifesti,
     Qualor ti piace di que’ visitare,
     Prendi gli miei olocausti modesti
     In quella forma che io gli so fare:
     Ben so se’ degna di maggior che questi;
     Ma qui al più innanzi non sapere,
     Supplisca, o Dea, lo mio buon volere.

78


E questo detto, tacque: tanto ch’ella
     Vide ogni parte degli roghi accesa:
     Poi dinanzi a Diana la donzella
     S’inginocchiò, e da pietade offesa,
     Di lagrime bagnò la faccia bella,
     La quale in ver la Dea tenea distesa:
     Quivi chinata stette assai pensosa,
     Poi la dirizzò tutta lagrimosa.

79


E cominciò con rotta voce a dire;
     O casta Dea, de’ boschi lustratrice,
     La qual ti fai a vergini seguire,
     E se’ dell’ire tue vengiatrice,
     E siccome Atteon potè sentire
     Allora ch’el più giovan che felice,
     Della tua ira, ma non del tuo nervo
     Percosso, lasso! si mutò in cervo.

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80


Odi le voci mie, se ne son degna,
     E quelle per la tua gran deitate
     Triforme prego che tu le sostegna:
     E s’egli non ti fia difficultate
     A lor donare perfezion, t’ingegna;
     Se mai ti punse il casto cor pietate
     Per vergine nessuna che pregasse,
     Ovver che grazia a te addimandasse.

81


Io sono ancora delle tue ischiere
     Vergine, assai più atta alla faretra,
     Ed a’ boschi cercare, che a piacere
     Per amore a marito: e se si arretra
     La tua memoria, bene ancor sapere
     Dei quanto fosse più duro che pietra
     Nostro voler contra Venere sciolta,
     Cui più che ragion segue voglia stolta.

82


Perchè se ’l mio migliore è ch’e’ tuoi cori
     Seguiti ancora vergin giovinetta,
     Attuta gli aspri e focosi vapori
     Che accendono il disio che sì m’affetta
     De’ giovanetti di me amadori,
     Di cui gioia d’amor ciascuno aspetta:
     E di lor guerra tra lor metti pace;
     Che certo molto, e tu ’l sai, mi dispiace.

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83


E se i fati pur m’hanno riservata
     A giunonica legge sottostare,
     Tu mi dei certo aver per iscusata,
     Nè dei però gli miei preghi schifare;
     Tu vedi che ad altrui son soggiogata,
     E quel ch’ei piace a me convien di fare;
     Dunque m’aita, e li miei preghi ascolta,
     S’i’ ne son degna, Dea, a questa volta.

84


Coloro, i qua’ per me ne’ ferri aguti
     Doman, non savi, s’avvilupperanno,
     Caramente ti prego che gli aiuti:
     E’ pianti miei, li qua’ d’ogni lor danno
     Per merito d’amor sarien renduti,
     Ti prego cessi, e facci il loro affanno
     Volgere in dolce pace, o in altra cosa
     Ch’alla lor fama sia più grazïosa.

85


E se gl’Iddii fors’hanno già disposto
     Con eterna parola che e’ sia
     Da lor seguito ciò ch’hanno proposto,
     Fa’ che e’ venga nelle braccia mia
     Colui a cui più col voler m’accosto,
     E che con più fermezza mi disia:
     Che io nol so in me stessa nomare,
     Tanto ciascun piacevole mi pare.

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86


E basti all’altro la vergogna sola,
     Senz’altro danno, d’avermi perduta:
     E, se lecita mi è questa parola,
     Fa’ che da me, o Dea, sia conosciuta
     In queste fiamme, il cui incenso vola
     Alla tua deità, da cui tenuta
     Sarò, che per Arcita ci si pone
     L’una, e l’altra poi per Palemone.

87


Almen s’adatterà l’anima trista
     A men sospir, per la parte perdente,
     E più leggiera sosterrà la vista,
     Quando ’l vedrò del teatro fuggente:
     E la mia volontà, che ora è mista,
     Dell’una parte si farà parente;
     L’altra con più forte animo fuggire
     Vedrà, sapendo ciò che de’ avvenire.

88


I fuochi ardevan mentre ella pregava,
     Dando soave odor nel tempio adorno,
     Ne’ quali Emilia tuttora mirava,
     Quasi per quelli, senza alcun soggiorno,
     Veder dovesse ciò che disiava:
     Quando di Diana il cor l’apparve intorno
     Infaretrato, e disse: giovinetta,
     Tosto vedrai ciò che per te si aspetta.

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89


È già nel cielo tra gl’iddii fermato
     Che tu sia sposa dell’un di costoro,
     E Diana ne è lieta: ma celato
     Poco ti fia qual debba esser di loro,
     Se ben da te nel tempio fia mirato
     Ciò che avverrà, non fuor di questo coro;
     Però attenta in ver l’altar rimira,
     E vedrai ciò che ’l tuo core disira.

90


E questo detto, sonâr le saette
     Della faretra di Dïana bella,
     E l’arco per sè mossesi, nè stette
     Più nulla lì di quelle, ma isnella
     Ciascuna a’ boschi ginne onde venette:
     Fremiro i cani, ed il corno di quella
     Si sentì mormorar; laonde a’ segni
     Emilia prese che i preghi eran degni.

91


La giovinetta le lagrime spinse
     Degli occhi belli, e dimorando attenta
     Più verso il fuoco le luci sospinse,
     Nè stette guari che l’una fu spenta,
     Poi per sè si raccese, e l’altra tinse,
     E tal divenne qual talor diventa
     Quella del zolfo, e le punte menando
     In qua e ’n là gìa forte mormorando.

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92


E parean sangue gli accesi tizzoni
     Daccapo spenti, tututti gemendo
     Lagnine ta’, che spegneano i carboni:
     Le quali cose Emilïa vedendo,
     Gli atti non prese nè le condizioni
     Debitamente del fuoco, che ardendo
     Si spense prima, e poscia si raccese,
     Ma sol di ciò quel che le piacque intese.

93


E così nella camera dubbiosa
     Si ritornò, com’ella n’era uscita,
     Benchè dicesse aver veduta cosa
     Che le mostrava sua futura vita:
     Ella passò quella notte angosciosa,
     Infin che ogni stella fu fuggita:
     Poi si levò, e rifecesi bella
     Più che non fu mai mattutina stella.

94


Il ciel tutte le stelle ancor mostrava,
     Benchè Febea già palida fosse;
     E l’orizzonte tutto biancheggiava
     Nell’orïente, ed eransi già mosse
     L’Ore, e col carro, in cui la luce stava,
     Giungevano i cavai, vedendo rosse
     Le membra del celeste bue levato,
     Dall’amica Titonia accompagnato.

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95


Perchè ne’ templi armati i due amanti
     Li lor compagni quivi convocaro,
     Ed i fatti futuri tutti quanti,
     Dico del giorno, fra loro ordinaro,
     E qua’ fosser didietro e qua’ davanti
     Alla battaglia ancora stanzïaro:
     Poscia con loro armati se n’usciro
     De’ templi, e ’nverso Teseo se ne giro.

96


Il gran Teseo dagli alti sonni tolto,
     Ancor le ricche camere tenea
     Del suo palagio, in la cui corte molto
     Di popol cittadin vi si vedea,
     Il qual vi s’era per veder raccolto,
     Che modo per li due vi si tenea
     Di ciò che e’ doveano il giorno fare,
     Per Emilia la bella conquistare.

97


Quivi destrier grandissimi vediensi
     Con selle ricche d’ariento e d’oro,
     E spumanti li lor freni rodiensi,
     Tenuti da chi guardia avie di loro;
     Ringhiar ed anitrir spesso sentiensi,
     Qual per amor, qual per odio tra loro;
     E l’uno in qua e l’altro in là n’andava,
     Di tali a piè, ed alcun cavalcava.

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98


Vedevansi venire i gran baroni
     Di robe strane e varie addobbati;
     Ed in tra tutti varie eran quistioni,
     Qui tre, là quattro, e lì sei adunati,
     Tra lor mostrando diverse ragioni
     Di qual credevan degl’innamorati
     Che rimanesse il dì vittorïoso,
     Facendo un mormorio tumultuoso.

99


L’aula grande d’alti cavalieri
     Tutta era piena, e di diversa gente:
     Quivi aveva giullari e ministrieri
     Di diversi atti copiosamente,
     Girfalchi, astori, falconi, e sparvieri,
     Bracchi, levrieri, e mastin veramente,
     Su per le stanghe ed in terra a giacere,
     Assai a’ cuor gentil belli a vedere.

100


Tra queste genti magnifico molto
     Uscì Teseo con real vestimento,
     Ov’è con somma reverenza accolto:
     Ed e’ con alta vista e portamento
     Tutti gli vide assai con lieto volto:
     E domandò, se ancora i duecento
     Eran venuti, a cui e’ fu risposto:
     No, signor mio, ma e’ verranno tosto.

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101


In questa venner, non per un cammino,
     Quasi in un punto li duo gran Tebani:
     E qual qualora a Libero divino
     Fa sacrificio ne’ luoghi montani
     La dircea plebe, s’ode infino al chino
     Di qua’ si sian valloni più sottani
     Di voci, e d’altri suoni e di romore;
     Tal s’udì quivi allora, e non minore.

102


Così ciascun co’ suoi tratti da parte
     Aspettavan Teseo, che prestamente
     Venuto, in verso del tempio di Marte
     Con lor n’andò, e là pietosamente
     Diè sacrificio: e con senno e con arte
     Poscia levato, senza star nïente,
     Sopra il gran soglio dalla porta venne,
     E lì fermato i suoi passi ritenne.

103


E senza star, non con piccolo onore
     Cinse le spade alli due scudieri:
     E ad Arcita Polluce e Castore
     Calzar d’oro gli sproni e volentieri:
     E Diomede e Ulisse di cuore
     Calzargli a Palemone: e cavalieri
     Amendue furono allora novelli
     Gl’innamorati teban damigelli.

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104


E ciascheduno sotto una bandiera,
     D’un segnal qual gli piacque, con sue genti
     Si ragunò, e con faccia sincera
     Gir per la terra visti e apparenti:
     E già del cielo al terzo salit’era
     Febo co’ suoi cavai fieri e correnti,
     Quando per loro al teatro fu giunto
     Quasi che ad uno medesimo punto.

105


E benchè non avesson ancor vista
     Di sè alcuna, in quel loco pensando
     Perchè venieno, e ciò che vi s’acquista,
     E l’un dell’altro le trombe sonando
     Udendo, e il grido della gente mista
     Che or l’uno or l’altro gía favoreggiando,
     Quasi dubbiando, dentro al cor sentiro
     Subitamente men caldo disiro.

106


E ciaschedun per sè divenne tale,
     Qual ne’ getuli boschi il cacciatore
     A’ rotti balzi accostatosi, il quale
     Il leon mosso per lungo romore
     Aspetta, e ferma in sè l’animo eguale;
     E nella faccia gela per tremore,
     Premendo i teli per forza tremanti,
     E li suoi passi treman tutti quanti:

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107


Nè sa chi venga, nè qual’e’ si sia,
     Ma di fremente orribili segni
     Riceve nella mente, che disia
     Di non avere a ciò tesi gl’ingegni:
     E ’l mormorar che sente tuttavia
     Con cieca cura in sè par che disegni;
     Per quel talora sua pena alleggiando,
     Ed ancora tal volta più gravando.

108


Poco era fuori della terra sito
     Il teatro ritondo, che girava
     Un miglio, che non era meno un dito:
     Del quale un mur marmoreo si levava
     Inverso il ciel sì alto e con pulito
     Lavor, che quasi l’occhio si stancava
     A rimirarlo, ed aveva due entrate,
     Con forti porte assai ben lavorate.

109


Delle quali una in verso il sol nascente
     Sopra colonne grandi era voltata,
     L’altra mirava in verso l’occidente,
     Come la prima appunto lavorata:
     Per questa entrava là entro ogni gente,
     D’altronde nò, chè non vi aveva entrata:
     Nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta,
     Di spazio grande ad ogni somma festa.

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110


Nel qual scalee in cerchio si movieno,
     E credo in più di cinquecento giri,
     In sino all’alto del muro salieno
     Con gradi larghi per petrina miri:
     Sopra li quali le genti sedieno
     A rimirare gli arenarii diri,
     O altri che facessono alcun gioco,
     Senza impedir l’un l’altro in nessun loco.

111


Al qual davanti era venuto Egeo
     Con pompa grande, per voler vedere;
     E similmente v’era già Teseo,
     Che per fuggire iscandal me’ potere
     Del teatro le porli guardar feo
     Da molti, che là entro forestiere
     O cittadin con arme non entrasse;
     Senz’esse chi volesse sì v’andasse.

112


A questo tutti i popoli lernei,
     Poscia che i lor maggiori ebber lasciati,
     Sen venner, tanti che dir nol potrei,
     Benchè v’entrasson tutti disarmati;
     E come avien li lor con li dircei
     Veduti, così s’eran separati,
     Tenendo l’un la parte del ponente,
     E l’altra incontro tenea l’oriente.

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113


Vennervi i cittadini, e tutte quante
     Le belle donne realmente ornate,
     E qual per l’uno, e qual per l’altro amante
     Preghi porgeva: e così adunate,
     Dopo tututte con lieto sembiante
     Ippolita vi venne, in veritate
     Più ch’altra bella, ed Emilia con lei,
     A rimirar non men vaga di lei.

114


Venuti adunque li due compagnoni
     Armati di tutte armi, in esso entraro;
     E ciascheduno co’ suoi decurioni
     L’un dopo l’altro assai ben si mostraro,
     Seguendo li già detti lor pennoni,
     Come ne’ templi è detto che ordinaro;
     E dalla parte d’onde Euro soffia
     Arcita entrò con tutta sua paroffia.

115


Tale a veder qual tra’ giovenchi giugne
     Non armati di corna il fier lione
     Libico, ed affamato i denti mugne
     Colla sua lingua, ed aguzza l’unghione,
     E col capo alto quale innanzi pugne
     Gli occhi girando fa dilibrazione,
     E sì negli atti si mostra rabbioso,
     Ch’ogni giovenco fa di sè dottoso.

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116


Egli era innanzi in su un gran destriere
     A tutti i suoi tutto quanto soletto,
     E ben mostrava ardito cavaliere,
     Sì feroce veniva nell’aspetto,
     Quando attraverso, e innanzi, e arriere
     Gía senza posa il buon cavallo eletto:
     Ed egli aveva lo scudo imbracciato,
     Ed il forte elmo in testa ben legato.

117


Appresso gli era col pennone in mano
     Il forte Dria montato di vantaggio,
     Di cuore ardito, e di poter sovrano,
     Il qual seguiva il nobil baronaggio:
     E ’l primo era Agamennone spartano,
     E ’l secondo Peleo nobile e saggio,
     Licurgo il terzo, e il quarto era Castore,
     Menelao il quinto, e ’l sesto era Nestore.

118


Poi Peritoo e Cromis virilmente,
     Ed Ippodamo, e poi Pigmaleone,
     Ciascun con nove suoi arditamente:
     Ed in quel preson quella porzïone
     Che giustamente lor fu contingente.
     Ma d’altra parte entrò poi Palemone
     Fiero ed ardito il cavallo spronando,
     Negli atti bene il suo valor mostrando.

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119


Qual per lo bosco il cinghiar rovinoso,
     Poi ch’ha di dietro a sè sentiti i cani,
     Le setole levate, ed ispumoso
     Or qua or là per viottoli strani
     Rugghiante va fuggendo furïoso,
     Rami rompendo, e schiantando silvani;
     Cotale entrò mirabilmente armato
     Palemon quivi da ciascun mirato.

120


Il qual col segno in man Panto seguia,
     E dopo lui Minos fiero a guardare,
     E co’ suoi Niso di dietro gli gía,
     Poi Sarpedone ed Ida seguitare,
     E Radamanto, appresso il qual venia
     Evandro re potè ciascun mirare;
     Encelado ed Ammeto vi si vede,
     E dietro a tutti Ulisse e Diomede.

121


E come già aveva fatto Arcita,
     Così e Palemon co’ suoi si trasse,
     E del teatro tenne una partita,
     Solo aspettando che ’l segno sonasse:
     Ma guardando Teseo la gente ardita,
     Comandò che giammai non si trombasse
     S’e’ nol dicesse; e lor fiso mirando
     Ciascun per sè, e tututti lodando.

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122


Mentre così mansueta la cosa
     Si stava, attesa dagli circumstanti,
     Arcita sotto l’elmo l’amorosa
     Vista levò, e quasi a sè davanti
     Vide colei che a tanto perigliosa
     Battaglia li metteva tutti quanti:
     E sotto l’elmo, sospirando molto,
     Così parlava con levato volto:

123


O bella donna, più degna di Giove
     Che d’uom terren, se moglie ei non avesse,
     E d’ogni guiderdon di maggior prove
     Che qualunque Ercole al mondo facesse,
     O qual pur fu più forte Iddio là dove
     Bisogno fu la rabbia si abbattesse
     De’ perfidi Giganti, ch’agognaro
     Il ciel, d’onde venisti, o lume caro:

124


Tu se’ bellezza ineffabile tale
     Che ’l mondo mai non vide simigliante:
     Nè credo che il ciel n’abbia altra eguale
     A te, che vinci Titan luminante
     Di lungo andar di splendor naturale,
     E con lui insieme l’altre luci sante:
     Se’ di virtù fontana e d’onestateFonte/commento: Milano, 1964,
     Di leggiadria esemplo e d’umiltate.

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125


Non isdegnare adunque il mio amore,
     Che a combatter per te fiero m’induce;
     Ma con preghiere lo sommo Fattore,
     Che creò te e ciascun’altra luce,
     Tenta per te e per lo mio onore,
     Il fin del qual più là non si conduce
     Che per premio poterti possedere,
     E me per tuo in eterno tenere.

126


E’ non saprebbe, posto che ’l volesse,
     Tornar indietro, bella donna e cara,
     Cosa che la tua bocca gli chiedesse:
     Dunque non m’esser de’ tuoi preghi avara;
     Alli qua’ dimandar, se io potesse,
     Senza fallo verrei: ma tu, che rara
     Savia fra l’alte se’, conoser puoi
     Ciò ch’io domado tacendo, se vuoi.

127


E ciò che è con preghi domandato,
     Donna, non è soverchio da gradire,
     Perocchè par venduto e non donato.
     Adunque poichè sai il mio disire,
     Che di te fui pria ch’altro innamorato,
     Senza aprirtel provvedi al mio languire,
     E fammi lieto di sì fatto dono,
     Che vaglio sol perciocchè di te sono.

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128


In cotai preghi tacito si stava
     Arcita, e gli occhi non partia da quella;
     E Palemon, ch’ancora la mirava,
     Quasi con questa medesma favella
     Tacito sotto l’elmo ragionava,
     Quasi dea fosse quella damigella:
     E così stando fuor di sè ciascuno,
     Del suon della battaglia sonò l’uno.

129


E quale è que’ che dal sonno disciolto
     Si leva su di subito stordito,
     E ’n qua e ’n là va rivolgendo il volto
     Per conoscer che è quel ch’egli ha sentito:
     Così ciascun di loro in sè raccolto
     Del pensier fuori si fu risentito,
     E del combatter ritornò il furore,
     Per lo già conosciuto trombadore.

130


Levossi allor Teseo, e con la mano
     Silenzio pose al molto mormorare
     Che nel teatro i popoli faciano;
     E senza troppo lungo dimorare,
     Del loco dove stava scese al piano,
     Largo alla genti facendosi fare:
     E qui alquanto stette fermo in piede
     Seco pensando, giudica e provvede.

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131


Esso gli fece avanti a sè venire
     Ciascun con parte degli suoi armati,
     E le lor condizion fe’ riferire
     Alle qua’ s’eran davanti obbligati:
     E poi vi aggiunse, cominciando a dire:
     Signor, que’ che di voi saran pigliati,
     L’arme per mio comando lascieranno
     E staranno a veder, sed e’ vorranno,

132


E qual, fosse per caso fortunoso,
     O per altra cagion, di fuori uscisse
     Del teatro, d’allora non sia oso
     Che più nella battaglia rivenisse;
     Della qual chi sarà vittorïoso
     Avrà la donna, e l’altro ciò che disse
     La mia prima sentenza: adunque andate
     E valorosamente vi portate.

133


Poi, questo detto, il secondo sonare
     Fece Teseo, senza tardar niente:
     Laonde Arcita cominciò a parlare
     In cotal guisa, vôlto alla sua gente:
     Signor, che siete in così dubbio affare
     Per me venuti, siccome è il presente,
     Poco conforto di parole a voi
     Credo ch’abbiate bisogno da noi.

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134


Ma tuttavia, per un’antica usanza
     Servar, me ascolterete, se vi piace:
     In voi ho ferma e sta la mia speranza,
     In voi la vita e la mia morte giace,
     In voi la pena e la mia dilettanza,
     In voi è la mia guerra e la mia pace:
     In voi sta e nel vostro potere
     Quanto di bene o di mal possa avere.

135


Dunque, per Dio, la vostra virtute
     Oggi si mostri davanti a Teseo,
     Acciocch’io prenda di quella salute,
     Che è il fin che qui venir vi feo,
     Non risparmiate le vostre ferute,
     Nè la morte al bisogno per Penteo:
     Il qual da morte a vita recherete,
     E per vostro in eterno il comperrete.

136


Poi potete veder ch’i’ ho ragione
     Di tal battaglia; onde avremo il favore
     Del forte Marte, e ’n la nostra quistione
     Il cor mi dice i’ sarò vincitore.
     Perocch’io volli già con Palemone
     Partecipare, amando, questo amore
     Con pace, ed e’ non volle; ond’io son certo
     Che dagl’iddii n’avrò debito merto.

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137


E se non m’ingannar le calde are
     Del nostro grande Iddio armipotente
     Jer quando a lui andai sacrificare,
     Senza dubbio nïun sarò vincente:
     Ma se ’l contrario ne dovesse fare,
     Per ira concreata giustamente,
     Sopra la testa mia prego che caggia,
     Anzi che alcun di voi nessun mal n’aggia

138


Ma io non sento averla meritata,
     Sicchè pur ben mi promette speranza,
     Insieme con vittoria, che acquistata
     Mi fia, non già per mia poca possanza,
     Ma per la vostra grande ed onorata
     Fama, che in ciò mi dà ferma fidanza,
     E dell’affanno me per vostro avrete,
     Se ben pugnando per forza vincete.

139


E bench’io non sia premio a tanto affanno,
     Nè per me vi movesse amor nè fede
     A sostenere il già offerto danno,
     Ricordivi di cui voi siete erede,
     E qual sia il nome che i vostri primi hanno,
     Se alla prisca fama nessun crede:
     E chi voi siate ancora vi pensate,
     E poi come vi piace così oprate.

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140


Hanno gl’Iddii in mezzo a questo prato
     Posto della virtù per premio onore:
     Se pur v’aggrada ch’io ne sia levato,
     Che ancor vi son legato da amore;
     E ben sapete e non fia impugnato
     Da gente vile e senza alcun valore;
     Ma ben da tali chenti noi qui siamo,
     O miglior forse, convien che l’abbiamo.

141


Li qua’ se voi vincete, maggior gloria
     Ne fia che non saria di gente vile:
     Ella sarà di lor doppia vittoria
     Quella che d’essi avrem gente virile:
     E la crescente fama con memoria
     Eterna a’ successor con dritto stile
     Ci renderà, e saremne lodati
     Da tai ch’ancor non sono ingenerati.

142


Dunque di voi vi ricordi per Dio:
     E se ne fu nïuno innamorato,
     Dimostri qui chente avesse il disio:
     Voi non avete con duplificato
     Popolo a ricercar di Marte fio:
     Anzi è, come sapete, apparecchiato
     Di numero con voi, e voi ’l sapete,
     E tutti a voi davanti gli vedete.

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143


Pensate ancora quanti riguardanti,
     E che persone sono in questo loco:
     Voi gli vedete tutti a voi davanti:
     Però come volete, o molto, o poco
     Aoperate omai, che cota’ vanti
     Avrà la fiamma chente fia il fuoco;
     Pregovi pur quant’io posso di bene,
     Perocchè male a voi non si convene.

144


Egli era tale a veder nell’aspetto
     Quando parlava, qual nel cielo avverso
     O da mane o da sera nuvoletto
     Ha il sole, con parlare alto e diverso
     Dal suo usato; e ’n su le strive eretto,
     Con l’una man reggea ’l caval perverso,
     Ch’anitrendo era senza alcuna posa,
     L’altra alla spada nel fodero ascosa.

145


Egli avea detto: e Palemone ancora
     Con alte boci li suoi invitava
     A grandi onori, ed a ben far gl’incora
     Quanto poteva, e molto gli pregava:
     Laonde l’una parte e l’altra allora
     Sì per lo dir de’ due incoraggiava,
     Che appena suon volevano aspettare,
     Tanto disio avean d’avanti andare.