Fiabe e leggende/I tre amanti di Bella

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I tre amanti di Bella

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I due poeti Paesaggi

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I TRE AMANTI DI BELLA

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I TRE AMANTI DI BELLA


I.


     La stanzuccia di Steno stava accosciata in alto
Di un palazzo affittato da un ebreo di Rialto;

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Palazzo in cui da secoli i topi son signori,
E che allora un patrizio, roso dai creditori,
Avea, dopo molto esitare, esitato,
Dicendo: va la casa, ma mi resta il casato.
 
     Però il dì della vendita l’aule antiche degli avi
Cigolando gemettero dalle tarlate travi;
Gemettero d’angoscia, giacchè una legge arcana
Affratella le cose alla famiglia umana.
Si ricordano, e serbano l’orror della mitraglia,
Nel desolato aspetto, i campi di battaglia;
Certi monti han profili beffardi e minaccianti
Perchè memori ancora del passo dei giganti;
Sospira al re lontano il velluto dei troni,
E alle nonne defunte pensano i seggioloni;
Sicchè il vecchio palazzo di cui vi parlo adesso
Sul torbido canale pianse il passato anch’esso.
E le quattro cariatidi curve sotto il balcone,
E i putti che coll’ali sostengono il blasone,
Bassorilievi e fregi lombardi e bisantini,
D’antiche gesta memori e di antichi quattrini,
Presero l’aria cupa di un popolo di sasso
Che più non sappia illudersi su questo mondo basso;

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E il Dio delle leggende, nella facciata nera,
Profeta malinconico, piantò la sua bandiera.
 
     Oh le feste di un tempo! Conviti e serenate
E variopinte gondole alla soglia affollate!
Quando dame e patrizi, fanciulle e cavalieri,
Giungevano al palazzo con paggi e trombettieri,
A esilararsi l’animo dalle cure di Stato
Tra mantellini serici e gonne di broccato;
A sfoggiar la ginnastica delle battaglie mute,
Degli sguardi fatali, delle parole argute;
Ad affrettar l’arrivo della gioconda bara,
Tra una botte di Cipro e una sembianza cara!
Dove, più di una volta, il vecchio senatore.
Per il giurato premio di una notte d’amore,
Vendette alla bellezza il suo voto in Consiglio;
Dove il capro e la volpe, la tigre ed il consiglio,
Piume al cappello e spada al fianco, in giubba o in manto,
In toga o in armatura, riso celando o pianto,
Le labbra tormentavansi e si rompean le mani
In proteste di affetto svanito all’indomani;
Dove, bersaglio agli occhi, ai motti ed agli inchini,
Era passato, bello di gloria, il Morosini;
Dove intorno al damasco dei tavoli seduti

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Delle nuove d’allora cianciavano i canuti;
Narravano Cromvello pensoso e turbolento,
E il papa Rospigliosi pacifico e contento;
Come, amando una patria, cadeva il re Sobieschi,
E amando una regina, periva il Monaldeschi;
Questo ed altro narravano, mentre in crocchi geniali
Le matrone alla moda leggean le Provinciali.

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II.


     Era il buon tempo. Il Fauno, guardia del porticato,
Fu la più mesta vittima dello splendor passato;
Egli che nel marmoreo malinconico cuore
Una notte ricorda di gioia e di dolore,
In cui, fra il lieto stuolo per la soglia accorrente,

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Una vaga fanciulla, pallida, sorridente,
Dal padre inosservata staccossi, che volgea
Parlando a un Mocenigo, su per l’ampia scalea,
E accanto al piedestallo fermossi, curïosa
E tranquilla, a osservare la sua faccia rugosa.
I begli occhi profondi, le nudità seguendo,
Di uno scultor di Rodi artifizio stupendo,
Avean finito a spingere una mano affilata
A palpargli le vertebre della schiena curvata...
Mai, dopo i colpi arcani del divino scalpello,
Gli avea concesso il mondo un istante più bello...
L’angelo sparve. All’alba ripassò, ma un piumato
Cinquantenne patrizio le camminava allato,
E, assorta nel colloquio, dimenticò la schiena
Tutta per lei di elettriche scintille ancor ripiena.
Povero Fauno! e in estasi, già da due lustri, aspetta
Che ripassi per l’atrio la bella giovinetta;
Ed ogni notte, quando batte a San Marco l’ora
Che la conobbe, ci freme sull’ampia base ancora,
Dalle piante caprine fino all’irsuto mento,
Come uno stel di mammola che si dimena al vento;
E intanto donna Bella, la fanciulla curiosa,
Di messcr Diego Alvaro già da due lustri è sposa.

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III.


     Quando entrò nel palazzo l’Ebreo conquistatore
Tutto mutò sembianza, tutto mutò colore,
E all’amante di sasso crebber le noie e il danno.
Tra le colonne, intorno al piedestallo, or stanno

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Casse di sego, mucchi di corde e chiodi usati,
Arazzi e vecchi mobili ghermiti o sequestrati,
Bottiglie senza tappo, vecchi stocchi sguarniti,
Pelli e corna di buffalo e ermellini ammuffiti,
Libri venduti all’alba da un notaio balzano,
E la sera mutati in vetri di Murano;
Qui, ammonticchiati al prezzo di un bacio o di un ducato,
La gonna della vedova, l’assisa del soldato;
Qui un po’ di tutto e un tutto di niente, a sbalzi, a caso
Arraffato dall’ugna della miseria, e al naso
Della beffarda Usura, fior della fame, offerto!

Quanto agli appartamenti, per molti giorni incerto
Fu il novello padrone circa modum tenendi;
Eran tappezzerie, candelabri stupendi,
Tele piene del genio di seppelliti artisti.
Dei poveri antenati ambizïosi acquisti...
Rividero il sereno venduti al forastiero;
E quel giorno gli scheletri piansero in cimitero,
Gli scheletri obliati dei divini pittori,
Cui certo un dì non s’erano pagati che i colori.
Mentre l’Ebreo, felice dell’oro conquistato.
D’esserne debitore ai morti avea scordato,

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Nè un pensier, nè una lagrima, nè un fiorellin soltanto
Avea, passando a caso, gettato in camposanto.
Fatto il vuoto, divise l’aule immense e i saloni,
Come se li allestisse per nidi di piccioni,
In camerette anguste, in stanzuccie pigmee;
Lamentandosi molto che Bacchi e Citeree
E Silfidi ed Amori, sulle volte dipinti,
Non si potesser vendere perchè alla calce avvinti.
Si vendicò, tagliandoli coi muri a centellini,
E dandone una parte a tutti gli inquilini.
E qui vedi una Venere che ha la bella sembianza,
Le braccia e il seno eburneo nella vicina stanza;
Qui il piè di una baccante e là sbuca una cetra,
Poi del fanciul terribile un piede e la faretra,
Poi Giunone che al laccio della parete appresa
Ha l’ala azzurra e piangere ti sembra dell’offesa.
Un tal del primo piano cui toccò in sorte parte
Di un’imagine nuda che non vo’ porre in carte,
Lagnossi al proprietario e voleva andar via;
L’Ebreo gli rispondeva: questa è un’allegoria,
L’ha pinta il Tintoretto, è un egregio disegno, —
E l’altro a replicargli: fu un pittoraccio indegno! —
Più di una vecchia cabale astruse avea cavate
Numerando le membra sul capo suo librate,

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E quando un mendicante che stava al quinto piano
Vi fu trovato morto col suo rosario in mano,
«Io bene, io ben sapevalo, ronzava una donnetta,
Quella nicchia portava la cifra maledetta,
Tra braccia e gambe e piedi e dita bianche e scure,
Le ho ben contate un giorno, son tredici pitture!» —
E più il povero Ebreo non l’avrebbe affittata
Se Steno, il giovinetto dall’aria sventurata,
Dal crin lungo le spalle cadente in brune anella.

Non l’avesse, bizzarro caso, trovata bella,
Quando seppe che dentro v’era stato il becchino.
 
     Steno vi prese alloggio quello stesso mattino.

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IV.


     Puri amor che crescete nell’ombra e nel silenzio,
Terrene ambrosie fatte di cicuta e di assenzio,
Genuflessioni d’anime dall’idolo ignorate,
Voti, carezze, amplessi, lagrime prodigate
All’idea d’una donna, amor senza speranze,
Eppure amor capaci di profonde esultanze;
Che non chiedete l’obolo a Lei pur di un sorriso,
Di uno sguardo che certo sarebbe il paradiso,
E taciti, rodendo il cor che vi contiene,
Valicate con esso alle spiaggie serene;
Puri amor che in silenzio e nell’ombra vivete,
Oh non cosa mondana, amor d’angeli siete!
E certo in ciel si compie una giustizia: Iddio
Premia le spente vittime del lutto e dell’oblio,
E ripara e punisce le cecità mortali,
E i rossor non veduti e i disprezzi fatali,

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Accoppiando le belle ignare ispiratrici
Agli amanti che in terra fur timidi e infelici!
I castighi, là in cielo, son castighi d’amore.

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V.


     Bella dama che uscite dal tempio del Signore,
Cui sta ancor forse un’ave sulle labbra vagante,
Bella dama, col viso pallido e l’occhio errante,
Senza saperlo, adesso l’elemosina fate:
Quell’occhio vagabondo due pupille ha scontrate,
Quel pallor senza nome le innondava di cielo.

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Oh non troppo correte, non abbassate il velo!
L’uomo ignoto che segue, come un povero cane,
I passi onde intrecciate le vostre corse strane,
Che per baciar la terra dove l’orme ponete
Salirebbe una croce e vi morria di sete,
Che toglierebbe il serto di fronte alla doghessa
Per deporvelo ai piedi quando siete alla messa,
È un timido poeta, nè vuol nè chiede nulla.
La Musa e la Sventura che l’han raccolto in culla
Gli fur madri operose: giovane ancor, vent’anni!
Gli eran compagni i dubbii, le noie e i disinganni...
Oh i suoi canti! Caligini cosparse di faville,
Raggi erranti nel buio come fatue scintille...
Se voi li conosceste!...
                                           Bella, pura, felice
Gli appariste una sera, inconscia amaliatrice,
E rinnegò dolori e disinganni e noie,
E la vita gli apparve tutta piena di gioie!
Oh come attese il sole quella notte, vegliando!
Come accolse il suo primo raggio soave e blando!
O sol! punta spietata fitta alle nostre reni,
Se chi è stanco di passi a risospinger vieni,
A gridargli: sei vivo, su la croce, cammina!..
Quando porti a un felice la candida mattina,

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Apparenza di Dio verissima! Da un anno,
Bella dama, i pensieri del giovinetto stanno
Intorno a voi, dì e notte: la sua delizia è questa.
Possedervi sarebbe, lo so, più allegra festa;
A lui basta vedervi qualche poco: la sposa
Siete di un vecchio illustre e l’amica pietosa,
Tale vi crede il mondo, e tal, nell’ombra, ei v’ama. —
Ma lontana dal tempio è già la bella dama.


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VI.


— Di chi è quella casa? Dimmelo, vecchio —
                                                                  Quella? —

— Dove è entrata una donna...
                                             — Affè, la è una storiella
Che mi chiedete, o Steno, pericolosa alquanto;
Ma se voi mi giurate...

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                                       — Parla per il tuo santo!
— Vi si è allogato un ricco cavalier di Ferrara,
E vi tien da più giorni gran tripudio e bambara,
Fuorchè nell’ore in cui quella dama...

                                                       — O Signore!
— Lo viene a visitare... è una storia d’amore. —


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VII.


     Lettor, che bella notte! La luna è argento fino,
Le nuvolette invece son zaffiro e rubino;
Come tiepida è l’aura, come tutto riposa!
Oh l’antica Repubblica come dorme! la sposa
Dell’Oceano stanotte si rifiuta all’amplesso,
E il mar, senza rampogne, s’è addormentato anch’esso.
Però veglian gli amanti; odi la serenata?
Già sospirato ha il flauto, la ghitarra è intonata,
E la gondola, nido d’affetto e di armonia,
Lungo il buio canale lentamente s’avvia.
Senti il dolce motivo e le dolci parole:

                         «Io son come la zànzera
                    Intorno al candelabro:
                    Mi struggo a un vago raggio
                    Di neve e di cinabro! »

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                         «Sporgi al veron la candida
                    Faccia che m’innamora,
                    Quelle due labbra rosee
                    Fa ch’io le vegga ancora!»

                         «Io son come la nuvola
                    Che assorbe il sol d’estate:
                    Dileguerò guardandoti,
                    E morirò di occhiate...»

Luna, vedi due lagrime cader silenti e sole?
Tu le illumini in cima di quel palazzo tetro,
E forse le supponi il scintillar di un vetro...

                         «Sporgi al veron le piccole
                    Mani, una sola almeno,
                    E sembrerà un miracolo
                    Di più nel ciel sereno.»

                         «E vincerà, bell’idolo,
                    Le stelle del Signore,
                    Se mi farai, schiudendola.
                    La carità di un fiore!»

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                         «Io son come il famelico
                    Che muor sotto la reggia...»

Luna, mentre la musica, sull’acqua che nereggia
Lenta lenta svanisce, il tuo raggio balzano
Ha illuminato un fauno di sasso in modo strano;
Forse è il vento che move dall’azzurro ove siedi...
Si diria che la statua trema dal capo ai piedi.


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VIII.



     — Chi scelse a battezzarti questo nome divino,
Mia piccola Contessa, fu un vate o un indovino? —
Il mio nome di Bella!... furon due tristi cose,
Il tempo e l’abitudine...

                                        — O viole, o gigli, o rose,
O piume di colibrì, raggi di sole e note
Che i serafini cantano sul carro di Boote,
Voi che, il dì delle Palme o il dì della Madonna,
Vi congiungeste in cielo per crear questa donna,
Perchè stillar lasciaste sulle sue guancie altere
Tanto pianto di notti, tanto rossor di sere?...
Oh sorridimi... e serba questo volto allibito
Per le incresciose veglie del tuo vecchio marito:
Ridi, canta, folleggia, perdio! l’amante io sono,

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E voglio il lieto amore, la celia e l’abbandono!
— L’abbandono!... dicesti un’orrenda parola!
— Orrenda?

                    — Dopo i nostri deliri, quando sola
Resto, o Lionello, e ancora t’ho col pensiero accanto,
Nè ancor giunto è il rimorso, nè ho ancor pregato e pianto,
Lo sai tu che mi avvenga?... A lungo in queste braccia
Bacio e ribacio e ammiro la tua superba faccia...
— Angeli del Signore!

                                   — Ma è breve il dolce inganno;
Le tue forme sciogliendo lentamente si vanno...
Pensa, questo palazzo è così buio e tetro!...
Tu Lionello allora, tu diventi uno spetro,
Uno spetro che fugge, che mi fugge lontano,
Ed io tento seguirti e ti richiamo... invano;
Lo spetro è innamorato di un’altra donna!

                                                                 — Effetto
Di queste cupe stanze: da spetro a cataletto
Il passo è breve! Il conte che qui ti ha seppellita

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Di questi vani incolpa terror della tua vita;
Oh foss’egli uno spetro davver!
                                                  — Taci!

                                                                 — Sul mare
Conosco un’isoletta, e te la vo’ narrare;
È un giardino, vi cresce il banano e la palma,
La vita vi è delizia, lusso, sorriso e calma,
E non vi son mariti ne consiglio dei Dieci;
L’amor libero e santo, e Iddio ne fan le veci...
Spira vento propizio, fidato ho il gondoliere,
Qui le notti son buie, ed io son cavaliere...
Bella! —
               E tacque. La dama guardava il giovinetto,
Fissamente, e dai fregi del serico corsetto
La sua candida mano da un tremito agitata,
Traeva una medaglia di gemme tempestata,
V’era pinta una veneta faccia, seria, canuta.
Che due grandi occhi apriva fra una carne sparuta,
E, in quel piccolo avello fatto d’oro e d’argento,
Pareva dir: son morta, ma veggo ancora e sento.
— È mia madre... —
                                   E la voce somigliava un sospiro,
E una lagrima cadde.

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                                        Oh anch’io piango, e vi ammiro,
Povere creature, olocausti d’amore!
O lotte del pensiero, e vittorie del cuore!
Misteriosi lutti nell’anima celati,
Mentre carezze e baci son dati e ricambiati,
Mentre il delirio canta le magiche canzoni,
Mentre il corpo tripudia nelle immense oblivioni!

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Donna Bella a che pensa?... Oh le forme divine!
E la è degna cornice quel suo profondo crine?
L’occhio è azzurro di cielo, il labbro è rosa viva...
Oh come in un baleno tutto il volto si avviva!...
— Lionello, Lionello!... —


                                                  E allor fu un’epopea.
Come se fosse d’angeli quella coppia splendea;
E Dio certo, vedendola dall’alto, perdonava...
Ma in terra era caduto il ritratto dell’ava.



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IX.


     L’uscio tarlato e nero chiuse a doppia chiave,
E al chiodo che pendeva da una sconnessa trave
Sorrise come al volto di una donna amorosa,
O alle socchiuse foglie di un bottoncin di rosa.
Poi da un angolo trasse una corda sottile,
Milionesima parte d’una che in campanile
Dimagrò stiracchiata da un monaco scortese,
Ora saran tre secoli morto di mal francese.
L’attortigliò, la strinse, montò, l’avvinse al chiodo,
E poi la smunta faccia, muto, cacciò nel nodo...
Ma in quell’istante il sole ruppe una nube in alto,
E un raggio immenso il mondo scese a baciar d’un salto.
Fu il cader di una maschera, cieca, stonata, abbietta,
Che discopra una pura faccia di giovinetta;
Tale il mondo sorrise e le faccio mortali,

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Chine ai libri o alla mota, confitte ai capezzali,
Dal pianto affaticate, o róse dalla noia,
Guardaron tutte in cielo e risero di gioia.
L’uomo che si appiccava gettò la corda e, come
Chi, mentre altrove è assorto, sente chiamarsi a nome,
Alla finestra corse, cacciò la testa fuori,
Tra due piccoli vasi di sitibondi fiori,
E immobile restovvi.

                                   Di nubi accavallate
Scorrean cime e voragini, a trotto, a volo, a ondate,
E un passero, tranquillo sotto l’orrenda scena,
Lieto osservava i piccoli figli seduti a cena
Nel niduccio ravvolto alla vicina gronda;
E, se avesse cantato il caso di Ildegonda,
Di più soavi trilli non avrebbe guaito,
Tra i fumanti comignoli, la molle eco del sito.


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X.


     Il ciel rasserenavasi: bella, superba e sola
La faccia del pianeta splendea da Chioggia a Pola;
Una striscia d’argento che dal canale uscìa
E dritta, aguzza, immobile, in alto mar svanìa,
Pareva una gran spada brandita da Cagliostro
Contro l’ascoso ventre di qualche immenso mostro;
San Marco circondavano i voli dei colombi,

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Qualche gufo, fiutando, roteava sui Piombi,
E in aria si incontravano comandi di nocchieri,
Urli di ciurme e strofe di allegri gondolieri,
Canzoni della pesca e nenie del bucato:
Tuttociò, lungamente rifuso e trasformato
A furia di sbadigli e di malinconie
Dai poveri impiegati delle Procuratie,
Arrivava sull’alta finestra al giovinetto
Da quel sole improvviso rapito al cataletto.
Egli era sempre immobile fra i due vasi languenti,
Non so se contemplando l’aspetto dei viventi,
Come re Carlo Quinto dalla socchiusa bara,
O bevendo il viatico di una memoria cara.
Certo aveva la febbre, che non udì la porta
Cader sotto un gran calcio, e la sembianza smorta
Non rivolse che all’urto di un cavalier piumato
Che, chiamandolo a nome, gli sorrideva allato.

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XI.


     — Tu, Lionello?
                              — Steno!
                                             — Venezia, Lionello?
— Abbracciami, collega...
                                        — Dammi un bacio, fratello!
— Ma chi ti disse...
                              — Il tetto dove attaccasti il nido?
Me l’ha insegnato un vecchio che tien bottega al lido;

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Fu caso; fra i suoi libri presi un Catullo in mano,
Tu sai quant’io l’adoro quel peccator romano!
Lo tengo sempre meco; ma un ultimo esemplare
Che avea comprato a Siena, lo diedi al mio compare;
Or contrattando questo, perchè oltremodo usato,
(Il libro è come il fiasco, mi piace impolverato)
Ve’ che vi leggo un nome...
                                        — Il mio...
                                             — Siam sempre al verde?
— La vita...
               — E un giocherello!
                                   — Chi guadagna e chi perde!
— Via, ma vendere un libro che non costa un ducato...
— Erano quattro giorni ch’io non avea pranzato!
— Eppur — Catullo in ghetto per desinar non vale;
O che gli hai dato a braccio Virgilio o Giovenale?
— Erano usciti prima, usciti in processione,
Un dopo l’altro, tutti...
                                   — Il tuo bel Cicerone?...
— Eccolo —
                    E si toccava la giubba di velluto.
— Davver non lo ravviso, e gli nego il saluto.
E le sante Pandette?
                              — Eccole —

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                                                       E gli mostrava
Due guanti in un cantuccio. E l’altro sghignazzava:
— Così calzano meglio...
                                        — E quel tuo Quintiliano
Legato a ghirigori?
                              — E adesso il mio pastrano...
— Tu hai tutta quanta l’aurea latinità sul dosso!...
Ma, dimmi, è anch’esso un classico questo bel nastro rosso?
— Ah! l’avevo scordato!... —
                                             E, toltolo dal collo,
Dall’aperta finestra mestamente lanciollo.
— Povero mio, m’accorgo che tu sei sempre quello!...
— Ti mutasti tu forse? —

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XII.


                                                  Era un gaio cervello
Già di togate zucche nella dotta Bologna,
E di dottori in fieri la gioia e la vergogna;
Gran rompitor di ciotole, gran maestro d’imbrogli,
Satana dei mariti e Messia delle mogli,
Gettando nell’azzurro degli inconsci trent’anni
La fortuna di Rolla e il cor di Don Giovanni,
Vivea la vita come può viverla un uccello,
In aria, a caso, a voli dal fiore all’arboscello,
Immemore del prima, del dopo indifferente,
Pigro, annoiato, strano, volubile e innocente.
Solca dir d’esser nato alla vita mondana
Dall’abbraccio di un diavolo con una Dea pagana;

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Però a far certo il prossimo d’essere un grande infame,
Lo credereste? a volte patito avea la fame
Per dar l’ultimo scudo a un cieco o a un saltimbanco...
Vivaddio! colle piume in testa e il ferro al fianco,
In quel tempo di balde e facili avventure,
Di follie malinconiche e di allegre paure,
Vi giuro, o mie fanciulle, che, con vostro permesso,
Diverso come or sono, stato sarei lo stesso!
Ora tutto è svanito! e (perchè nol direi?)
I nostri dì son tetri senz’essere men rei;
Nel lenzuolo del Solito sepolta è l’avventura;
II bardo e il cavaliero davanti alla Questura
In ginocchio han deposto il brando e il colascione;
Il motto erra sul lastrico del popolo padrone;
Tolto è all’oro il tripudio delle superbe offese,
Tolta al vulgo la gloria delle balzane imprese;
Della Corte d’Assisie Baiardo è un latitante,
E Fanfulla è un evaso dal medico curante;
Si è sicuri e difesi, si è posati e dabbene,
Parliam di colti allori e d’infrante catene,
Ma interrogate il cuore di tutti, ad uno ad uno,
E troverete un viscere d’aria e d’amor digiuno!

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XIII.


     I due colleghi a braccio camminavano; Steno
Come un uom strascinato, l'altro franco e sereno.

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— Dunque c’entra un rivale? diceva il Ferrarese,
Firmagli il passaporto per un altro paese,
Ammazzalo! la bella, s’anco diggià non t’ama,
Ti adorerà pel colpo della tua nota lama.
Le son fatte così; vesti un abito strano,
Accoppa un galantuomo e, se sei bello e sano,
Gli è più che basta, tutte ti apriran cuore e alcova!
Credi a me...

                    — Il tuo consiglio al caso mio non giova.
Fosse domani sola, libera e innamorata.
Più non saprei svelarle la mia fiamma ignorata.
— Ti conoscea poeta, non ti credevo un pazzo...
— Io la donna sognai non creta e non sollazzo!
Quella, il cui nome al labbro non mi verrà giammai,
Era il simbolo puro dell’idea che sognai;
Tu dubiti che m’ami?... forse ch’io mai le dissi
Uno solo dei cieli, uno sol degli abissi
In cui per lei travolta è la mia vita?
 
                                                            — E come
Se di te non conosce che la faccia ed il nome...
— Veder la sua da lungi e lei nomar da solo,
Perchè i santi entusiasmi desse a’ miei versi e il volo,

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Ciò mi bastava! adesso... i miei versi morranno!
— No, perdio! finchè io vivo vivranno e ben vivranno!
Senti, Steno, ho molto oro; noi siam vecchi all’usanza
Di mettere in comune penuria ed abbondanza;
Ci rifarem la cara gioventù di Bologna...
Tu ti sei rovinato, non averne vergogna.
Sì, rovinalo fino all’inedia, o poeta,
Per seguir di cotesta tua fatua cometa
Il corso fra le stelle che le girano intorno;
La cometa si è scelto un astro in Capricorno...
Disperarci per questo? Eh son tante le stelle,
Che per una è da ciuco il perderci la pelle...
Ma, a proposito, diavolo! una or io ne scordava... —
Steno senza far motto l’amico seguitava.
— Volgiamo a manca.
 
                                   — Dove mi conduci?
                                                                 — A un negozio
Cui ti potrai rivolgere ne’ tuoi momenti d’ozio —


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XIV.


     L’occidente era in fiamme e Venezia imbruniva.
Qua e là per le finestre qualche face appariva,
Errante, come in mezzo a una carta abbruciata,
Dai pargoli ridenti sul focolar gettata,
Quelle ultime, vaghe, fantastiche scintille
Che sembrano una ridda di monachine brille.
L’acque oscure parevano assetate di foco,
E fiaccole e lanterne, accese a poco a poco,
Vi prendevan la forma delle cose succhiate.
Le galere di Cipro e di Morea, poggiate
Sull’àncore, dormivano sonno cupo e solenne;
E pei fitti cordami delle vetuste antenne,
Qual per entro ai capelli di sognanti titani,
Certo correan fantasmi di naufraghi ottomani,
Col petto ancor squarciato dalla punta dei rostri.
Era l’ora che i bimbi han paura dei mostri,
E, a non vederli, il capo caccian sotto le coltri.

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XV.


     — Che orrendo androne è questo per cui vuoi che m’inoltri?
— Seguimi. —
                    Proseguirono per l’aer pesante e fuio.
Steno sentia qualcosa d’arcano intorno; il buio
Gli impedìa di vedere. Ma cogli occhi dell’alma
Vedeva. In quella tragica, misterïosa calma,
Giacean creature umane al suolo; o addormentate
O speranti nel sonno; certo stanche e affamate.
Si udivano respiri affannosi; talvolta
Lo scoccare di un bacio (qualche donna travolta

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Dalla miseria in mezzo a quello stuol di oppressi,
Per marcarne le brame, o per morir con essi);
E forse fra le immonde capigliature, oh cosa
Triste! stavano avvolte pur le guancia di rosa
Di qualche bambinello, nato a far dolce il nido
Della povera madre, e che doman sul lido
Stenderà le manine alla folla ciarliera,
E comporrà le labbra alla prima preghiera
Per cercar l’elemosina!

                                        — E ben cotesto l’uscio;
Ma, a quel che sembra, l’ostrica s’è già chiusa nel guscio.
Berenice! eh, la vecchia! È il cavalier Lionello
Che vi chiede l’onore di entrar nel vostro ostello!
Vedrai, Steno, una reggia... chi la grama vecchiaccia!
Non son uso ad attendere per veder la tua faccia;
Apri, o getto la porta! —
 
                                             Pur nessuna risposta.
Come al vento d’autunno una tarlata imposta,
Sbadatamente chiusa da un mandriano in viaggio,
Tal quella porta offerse a un urto sol passaggio.
Entràr, ma tosto colti da ribrezzo improvviso,
Retrocessero. E Steno: — Santi del paradiso!

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È una tomba cotesta che scoperchiasti!...
                                                                      — Taci;
Questa lanterna cieca val candelabri e faci,
Ma non qui fuor. Rientriamo e chiudi ben la porta...
— Impossibile... questo è odor di cosa morta...
— Avanti, avanti... —
 
                                        L’altro lo segui nello scuro.
— Una mano alle nari, tienti coll’altra al muro,
E non temere; è morto certo il gatto di casa. —


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XVI.


Ed apre la lanterna. La luce che n’è evasa
Saltellando si posa su quattro basse mura,
Dove leggonsi cifre di magica scrittura,
E pendon croci e teschi e cappelli di preti;
Pur nessun che respiri fra le strane pareti.
Ma Lionello ha in un angolo scoperto un seggiolone:
— È là che dorme; andiamola a svegliar colle buone;
Tien tu il lume. —

E accostatisi, la man del cavaliere
Piano piano la testa scosse che, in bende nere
Stretta, e china su un mazzo sparpagliato di carte,
Parea sognar. Toccata, cadde dall’altra parte,
Lugubramente. E un soffio esalò dalla salma.
La carogna turbata par che riacquisti un’alma;

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Il fetore che l’abita vuol la quiete profonda:
Se lo tocchi, s’ingrossa, come il verme, e t’innonda.
— Deponi la lanterna e aiutami; la vesta
Mi convien perquisirle...
                                        — Ma chi è dessa?...

                                                                  — Cotesta
Fu già un’allegra e vaga cortigiana spagnuola
Esperta all’Ars amandi più di Ovidio; ora, sola
E vecchia, gironzava per le strade e le piazze
E stendeva la mano alle belle ragazze,
dueste per elemosina vi lasciavan cadere
Un foglietto di carta... pel damo o il cavaliere,
E talor pel sicario. Questa vecchia, mio caro,
Rinchiude più segreti che messer Diego Alvaro

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Consigliere dei Dieci, te lo dice Lionello,
E fe’ più matrimonii che il Patriarca, quello
Che li fa là in San Marco. Tienle un po’ il braccio alzato...
Ecco già un bigliettino... senti s’è profumato!

— Un mite odor di viola si diffuse.

                                                            — Leggiamo. —

     «Se tu lo vedi gli dirai che l’amo,
Che l’amo ancora come ai primi dì;
Che nei languidi sogni ancor lo chiamo,
Lo chiamo ancor come se fosse qui.

     «E gli dirai che colla fe’ tradita
Tutto il gaudio d’allor non mi rapì;
E gli dirai che basta alla mia vita
L’ultimo bacio che l’addio finì!

     « Nessun lo toglie dalla bocca mia
L’ultimo bacio che l’addio finì!...
Ma se vuoi dargli un altro in compagnia
Digli che l’amo e che l’aspetto qui. » —

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     — Questa donna ti giuro che per me non farebbe:
La dev’essere un ninnolo di miele e di giulebbe;
Amo le forti, e tu? Ecco un altro messaggio:

     «Doman, Lenuccia mia, gli è dì di festa,
E il mio padrone è ammalato a palazzo.
Nella sua gondola
     Vuoi che usciam bellamente in Canalazzo?
 
     «Mi adatterò la sua parrucca in testa.
Ne porterò la spada e il giustacuore,
Le piume, i ciondoli,
E l’amante parrai di un senatore!
 
     «L’anima ho piena di versi rimati,
E porterò con me la mia mandòla:
Parole e musica
     Ti alletteran come una cosa sola!
     .          .          .          .          .          .     »

— Leggiam quest’altro —
                                             «Il bimbo
Viaggia in fondo al mare,
E l’alma sua nel limbo...»

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— Infamia!

                         Oh Lionello, usciam da questo orrore!
Ho la testa che bolle, e mi si spezza il cuore;
Certo un malor ci aspetta...

                                             — Un malore! t’inganni.
Qui un viglietto mi attende per cui darei vent’anni
Di sonno e di bagordi... eccolo!... affediddio,
Viva la Berenice! è ben cotesto il mio!
Grazie, povera morta; che il ciel vi ricompensi,
Nè ai vostri peccatucci il buono Iddio ripensi...
     — Bada, un’ombra è passata sul muro... alcun ci spia.
     — Oh fosse un sì che scrive la coutessina mia!
     — Bada, l’ombra si appressa. —

                                                            E la lanterna cieca
Drizzò alla porta. Videro come una forma bieca
Di cui gli occhi soltanto apparivan. Lionello
Ha sguainata la spada.

                                        — Spegni il lume, fratello —

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Ma la strana figura s’era già dileguata.
Allor dall’atra stanza, di fogli seminata,
Chetamente sortirono; ripassàr per l’androne
In cui parea vagasse come un’alta visione
Di mister, di delitti, di stanchezza e d’amore,
E rividero il cielo tutto calma e splendore.


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XVII.



     Genti pie che pregate prima di porvi a letto,
Non pregate pei morti che stan nel cataletto,
Non pregate per gli ospiti del tenebrore eterno,
Che dal mondo partendo sono usciti d’inferno.
Stesi placidamente e colle braccia in croce,
Della sacra Natura ascoltano la voce:
Senton la vita immensa che si prepara al sole,
Han nei capegli l’umide radici delle viole,
Han nei pugni gli steli che diverranno abeti;
I morti nella terra sono tranquilli e lieti.
Genti pie che pregate quando la notte cade,
Non pregate pei morti che bevon le rugiade,
Che si mutano in foglie, che si mutano in fiori;
Non pregate pei giunti, pregate pei viatori,
Per i vivi pregate quando cade la notte.
È allor che i Mali intorno scaraventansi a frotte,

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E par che Iddio dimentichi le misere creature,
Come s’ Ei pur dormisse nelle sue reggie oscure.
Pregate per le madri che aspettano; pregate
Per le livide teste nel gioco ottenebrate;
Per la donna che stende le braccia all’uomo ignoto,
Pel povero poeta, altro prigion del loto,
Che assalta il ciel coll’anima che lagrima e fa sangue;
Pregate per la turba negli ospitali esangue,
Sovra cui, col crepuscolo, peggior dell’agonia,
La memoria s’abbatte e la malinconia;
Per gli amanti pregate, scongiurate il Signore,
Che creò la Sventura quando creò l’Amore!

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XVIII.



     Benchè adorna di pelo molto canuto e raro
Era bella la testa di messer Diego Alvaro;
Quando uscia dal Consiglio nell’ampia toga bruna,
Pareva in lui vivente la veneta fortuna.
Camminava securo, parlava ad alta voce.
Era come il leone benevolo e feroce;
L’amor della repubblica, l’amor della sua Bella,
Non aveva altre gioie, non aveva altra stella.
Or s’è mutato: attoniti se ne accorsero i servi;
Un tremito convulso, cupo, gli agita i nervi;

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Non parla più, ma sembra interrogar cogli occhi
Chi gli sta intorno; a volte, come se un serpe il tocchi,
Balza repente, e corre per le stanze, e si affaccia
Agli specchi, e si scruta nella pallida faccia.
Ier prendendo commiato dalla sposa, la mano
Così torvo le strinse, e un mormorio sì strano
Lasciò uscir dalle labbra che donna Bella pianse.
Staman, quasi ruggendo. l’anel di nozze infranse.


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XIX.


     — È un sì! — gridò Lionello, e fu un grido sì forte
Che rintronò per tutte le taciturne porte
Del palazzo affittato dall’ebreo di Rialto.
Certo il Fauno guardava il cavalier dall’alto:
L’eco di quella voce, fra le sue forme desto,
Errò nel peristilio, a lungo, oscuro e mesto.
Ma il cavalier, beato come un chierco in vacanza,
Gli saltava d’intorno in forsennata danza.
— Stanotte! Ella acconsente... mi seguirà stanotte!
Ah messer Diego Alvaro! le Fondamenta Rotte
Vedran sciogliere un legno a insaputa dei Dieci!
Ben n’era certo! e tutto a predispor ben feci:
A quest’ora Consalvo già appresta; donna Bella
Finge di coricarsi e rimanda l’ancella...
Grazie! cortese lampada che a legger m’aiutasti.
Scriveremo un poema per narrare i tuoi fasti!

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Insiem lo scriveremo, mio dolce Steno, insieme!
Perchè a te pur l’amore, perchè a te pur la speme
Dee ricantar la bella canzon dei dì passati:
Va, raccogli i tuoi versi, saluta i tuoi penati,
E qui mi attendi; un fischio ti avviserà; d’un salto
Nella gondola sei, e domattina in alto

Mar, sulla mia galera che fugge in Oriente,
Al suon della mandòla, in faccia al dì nascente.

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Alla più vaga donna ti inchinerai del mondo!
Solo il vederne gli occhi ti rifarà giocondo;
E poi, giunti al paese là delle eterne rose,
Ti sceglierai fra quelle giovanette amorose,
Per viaggiar nei piaceri, qualche pietosa stella...
La mia, sappilo, è il sole... è la contessa Bella! —
Tutto ciò in un minuto fu detto, e senza pure
Guardar l’altro nel viso, via per le strade oscure
Il cavalier disparve.


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XX.


                                   Tutti abbiam nella vita
L’ora fatal che resta, come un negro stilila,
Sul nostro capo, immobile, finchè andiam sottoterra;
L’ora in cui l’uom s’accorge che la pugnata guerra,
Le lagrime versate, le sciagure sofferte,
L’ostie fatte coi lembi del cuor, sull’are offerte
Del suo triste cammino per questa scabra valle,
Eran peso leggero alle sue scarne spalle,
Eran foglie di rosa. Da quell’ora (deh! amici
Di me non vi burlate perchè siete felici!
Essa vi attende al varco, è il fato universale,
Il lotto irrevocabile del sempiterno Male),
Da quell’ora il suo sguardo è confitto alla mota,
E la tomba è vicina.
                                   Dimmi, pupilla immota,

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Qual fu per te?... Fu l’ora che conoscesti l’Eva,
E ti impietrì una vipera che un angelo pareva.
E qual per te, fanciulla languente come un’ava?
Fu l’ora in cui la povera tua madre agonizzava.
Qual per te, vecchio curvo come un tronco abbattuto?
L’ora che solo, attonito, coi mendichi caduto,
Come in sogno fra i passi dei cittadini errante,
Il primo obol sentisti nella mano tremante.
E per te, è questa, o Steno!

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XXI.


                                                  Egli è là steso al suolo.
Il manto ha già le pieghe del funebre lenzuolo,
La faccia ha già composta, quasi, alla pace eterna;
E negli occhi che immobili affisan la lucerna,
Palpitante di fievoli raggi e morente anch’essa
Sembra la arcana calma dell’infinito impressa.
Oh quel raggio di sole, perchè giunse in quel punto?
A quest’ora ei sarebbe un pallido defunto,
Obliante e obliato; sarebbe all’ombre sceso
Da men feroce strale in mezzo all’alma offeso!
Veder l’astro cadere dal suo cielo pudico,
Perder l’idolo, e perderlo per la man di un amico
Che lo strappa all’altare per gettarlo all’alcova!
Oh fu ignobile il gioco, fu d’inferno la prova,
Raggio dal ciel caduto quand’ei, forse presago,
Già avea l’impronte al collo dell’imprecato spago!
E or l’orribile morte pur gli è presso, e nol vuole.
Come ad ebro sospinto in rapide carole,

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Tutto che ingombra il sordido peristilio traballa
Intorno a Steno, orribile famiglia macra e gialla.
Son gli stocchi che guizzano come in mano a ribelli,
Son gli arazzi che sembrano ali di pipistrelli;
Son le gonne vendute dalle Circi del ghetto
Che gli danzano in giro e gli sfiorano il petto;
Son le coltri, lasciate dalle tremule vecchie,
Che passano, gettandogli vaghe preci all’orecchie;
E in la cupa vertigine, fra le larve e il fetore
Delle casse di sego, allo scoccar dell’ore,
Oh meraviglia! è il marmo che si muove, è il macigno
Da cui sembra svanito il cinico sogghigno,
E il Fauno che si abbassa sulla testa di Steno,
E par dica: — per piangere, ora ho un compagno almeno!

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XXII.


     Dio che misura il vento all’agnello tosato
Perchè all’uom non misura, quando il verno è arrivato
De’ suoi dì tempestosi, le bufere del cuore?
Perchè, se su lo sterpo inaridisce il fiore,
L’amor non appassisce sotto i capelli bianchi?
Ah, piuttosto una serpe mi si configga ai fianchi
Che alloggiarvi il bell’angelo dei celestiali affanni,
Quando dal mio battesimo conterò sessant’anni!
Cavalier di ventura cerca castel fatato;
Ed è triste ospitare in tugurio gelato
Chi fa avvezzo alle fiamme dell’ampio focolare.
Sei vecchio, e chiedi amore, e ti ostini ad amare?
Sei vecchio, e dentro il pugno pur stringi il frutto sacro?
Vuoi che il prete ti trovi, all’ultimo lavacro,

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Dell’odor della donna tutto olezzante ancora?
Più misero del gufo quando spunta l’aurora!
È il crin biondo del giovane che te al buio rincaccia,
È la sua balda gioia che ti offusca la faccia.
Tu sprezzalo, dimentica, chiudi gli occhi, ti abbranca
Alla maga Illusione!... vestal sommessa e stanca,
Vegli una figlia d’Eva l’imbiancata ara tua...
E doman, dietro quella, tu scoprirai la sua!


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XXIII.


     Povero conte Alvaro!... ecco ei pensa la sera
(Era già ben lontana da lui la primavera
E la volubil ridda delle ore serene)
In cui scopri la blanda fanciulla, e nelle vene

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Gli rifluì l’antico nobil sangue, e gli parve
Rivedersi d’intorno dell’infanzia le larve,
E che fosse il baleno di un attimo passato
Dai lontani, beati dì che già aveva amato...
Ei passò fra i garzoni della fanciulla al fianco,
Poscia sentì il profumo del suo bel seno bianco,
Poscia baciò la cara paradisiaca faccia,
Poi l’ideal creatura si sentì nelle braccia;
Ma sempre, e nelle feste quando un altro venia
A invitarla alla danza e insieme a lei sparìa;
O alla messa, se alzava dal sacro libro il volto,
E nell’aurata alcova quando, tra il crin disciolto,
Vedea nel sonno immergersi la sua pupilla bruna,
Al chiaror di una lampada mite come la luna;
Sempre, ovunque, all’orgoglio, alla dolcezza vaga
Del possesso invidiato e della voglia paga,
Nell’anima del vecchio mescevansi i pensieri
Surti come fantasimi, il primo dì, fra i ceri
Della chiesa auspicante alle sue nozze, quando,
Dopo i motti latini, il prete venerando
Avea detto al bell’angelo: «Voi beata tre volte,
O fanciulla, cui Dio, in un sol uomo accolte
Le virtù riserbava di un padre e di uno sposo!...»
Padre!... Padre!... il più augusto dei nomi al vanitoso

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Vecchio suonò bestemmia e vituperio, e in core
Gli accoppiò, nodo orribile, lo spavento all’amore!...
Or quel prete è sepolto sotto le zolle mute,
E il conte Alvaro, a prezzo dell’eterna salute,
Vede, ancor più beffarda, la sua disciolta creta,
E vorrebbe coll’ossa dell’infausto profeta
Farsi una clava e correre per il mondo con quella,
Inzuppata nel sangue della contessa Bella.


[p. 96 modifica]

XXIV.


     Dimmi, santa memoria del mio più dolce amore,
Dimmi come a Lionello battea frattanto il core!

[p. 97 modifica]

Solo colla sua gondola, tacito, palpitante,
Attendeva nell’ombra la sospirata amante...
O minuti divini di speranza e dubbiezza,
Non vi valgono quelli della secura ebbrezza,
Come non vince il sole del meriggio possente
Il mite oro onde l’alba inghirlanda l’oriente!
Attendeva nell’ombra, presso la riva, a pochi
Passi dal gran palazzo di Don Diego. I fochi
N’erano spenti; solo da una rossa cortina
Un barlume che andava e venìa, peregrina
Facella, certamente in mano alla contessa.
S’apre una porticina... alcun ne scende, è dessa.
Un baleno, ed ei l’ebbe nelle braccia.
                                                            — Se t’amo!
— Angiol mio!... come fredda...
                                             — Non è nulla, fuggiamo!
— Perchè tremi?...
                              — Scoperti... ah! è già tardi! —
                                                                           E svenuta
Rotolò dentro il felze.
                                   Or Lionello, t’aiuta!
Tre gondolier stemmati guidano alla vendetta
L’uom tradito... t’ingolfa dove l’acqua è più stretta,
Vola, devia, ti perdi nei laberinti oscuri,

[p. 98 modifica]

Cerca aiuto alle mille convessità dei muri,
Alle volte dei ponti, ai trabaccoli vuoti;
Che il nemico non senta ove il remo percoti,
E, ora a destra, ora a manca, come guizzo di lampo.
Lo abbarbaglia!...
                         Sventura!... non più speme di scampo!


[p. 99 modifica]


XXV.


     Un grido acuto, lungo, angoscioso, la oscura
Squarciò calma notturna. Di livida paura
Ansimante, l'Ebreo, signor di quel palazzo
Da cui la mia leggenda prese il suo folle andazzo.

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Si gettò dalle coltri e lanciossi al verone.
In quel punto una gondola costeggiava il portone.
E il grido non finiva: — Steno! Steno!... fratello! —
Ritti in fronte i capegli, allor l’Ebreo, zimbello
Spesso dei sogni, vide uscir sulla scalea
Uno spetro.
                    La luna sul suo viso splendea
E splendea sulla gondola.
                                        Il remator gli porse
La man; la sua lo spetro atterrito ritorse.
( — Se lo spetro ha paura, gli è che l’altro è Salano.
Pensò l’Ebreo).
                         Quand’ecco sull’acqua e non lontano
Una face, e un sommesso vociar di gondolieri.
I due sotto il verone, fantasmi cupi e neri,
S’eran stretti a colloquio.
                                        A un tratto, quello uscito
Dal palazzo, come abbia terribil cosa udito,
Si slancia nella immobile gondola, afferra il remo
E, col ringhio di un veltro cui tocchi il colpo estremo,
La sospinge...
                    È sparita.

[p. 101 modifica]

XXVI.


                         Lionello è solo. Il conte
L’ode, rivolta all’atrio del palazzo la fronte,
Dir con voce secura e gentil: — Donna Bella,
Volger piacciavi a manca; salite, e la mia cella
Troverete dischiusa. Io vi raggiungo tosto. —
Non finì; che Don Diego, con uno sbalzo, accosto
Gli si era piantato. L’altro ha snudato il ferro,
E sta innanzi alla porta come un tronco di cerro.
Orribile minuto!
                         Quel vecchio dalle braccia
Conserte al petto, immobile e taciturno, in faccia
Non ha pinta la rabbia, non ha pinto il terrore,
Ma un alto, inenarrabile, sterminato dolore.

[p. 102 modifica]

Non trema, ma i suoi labri dalla febbre riarsi
Somigliano a due belve che anelino a sbranarsi.


Ha stretti i pugni e stillano sangue. Oh pietà! Gli spunta
Dalle ciglia una lagrima, e sul giovin le appunta.
— Dio del ciel! Come bello, come è giovane e bello! —

[p. 103 modifica]

Ciò non disse, pensò; poi proruppe:
                                                                 — Lionello,
Per la tua madre morta, per l’orror dell’inferno,
Per l’angelo custode che ti amica l’Eterno,
Giurami che fu un filtro che te la diè in balia,
Che un maleficio ha vinto la creatura mia,
Ch’ella è innocente...
                                   — Conte, rispose il giovinetto,
Non conobbi mia madre, l’inferno ho in gran dispetto,
Nè posseggo, ch’io sappia, amici in paradiso,
Da onesto cavaliere la contessa ho conquiso,
E or vi prego osservare che m’ho un ferro snudato,
Che il mio custode è questo, e che al trezzo gelato
Potrebbe irruginire. Ciò mi dorria da senno. —
I gondolier stemmati partono a un muto cenno,
E già nell’aria tacita sfavilla un altro brando.

[p. 104 modifica]

XXVII.


Or tutto da quei petti, fuorchè il furore, è in bando.
— Ferro e inferno! cotesta, e quest’altra ripara!
— Dalla man di un vegliardo tu a darle meglio impara!

[p. 105 modifica]

E non son più due spade, son due lampi che guizzano
Or volano or s’abbassano, or rotano, or si drizzano
Or si arrestano di un tratto...
                                             Allor potevi udire
I fiati ansanti, e credere che a sceglier chi colpire
L’invisibile Fato fosse in mezzo indeciso.
— Tu fai sangue...
                         — Tu menti!
                                             — Già la morte hai sul viso!
— Vecchio, son gioia e amore, e a te sembran la morte? —
Non avesse proferta l’ingiuria!
                                                  Come sorte
Il boato che annuncia la rabbia del vulcano,
Dalle fauci del conte un urlo uscì...
                                                       Di mano
Sfugge il ferro a Lionello che china il capo e cade.
Pur mentre il sonno eterno freddamente lo invade,
Non lo lascia la balda fierezza indifferente.
— Fu un bellissimo colpo, messer, dice il morente;
Se non fossi obbligato a partir, giuro a Dio!
Che darei mille scudi per impararlo anch’io. —
Poi con voce più fioca, riprese:
                                                  — Alla malora!
Facciamo un po’ di bene, almen nell’ultima ora...

[p. 106 modifica]

Don Diego... non cercate madonna in questa casa...
Quando mi raggiungeste... ella era già evasa...
Buona notte... alcun soffia davver sull'alma mia...
 
Non temete per Bella... è in buona compagnia. —
Così morì Lionello, cavalier ferrarese.

[p. 107 modifica]

XXVIII.


     Quelle estreme parole non le ha don Diego intese?
O credere non vuole che Dio possa far tanto
Per strappar dalle viscere di un uom l’ultimo pianto?
Perchè nell’atrio oscuro s’inoltra, e brancicando
Per l’ingombro cammino colla punta del brando,
Al livido barlume dell’imminente aurora.
Attonito, atterrito, l’aula squallida esplora?
Un’arcana potenza lo strascina; il suo passo
L’eco fievole sembra invitar; fra l’ammasso
Lutulento s’innalzano, come in sogno, figure
Che gli fan cenno, e sfumano. Egli vacilla, eppure

[p. 108 modifica]

Retroceder non vuole; non può, forse!
                                                            Repente
Gli appare il Fauno.
                              Orrore!
                                             Gli si schiara la niente,
Riconosce il palazzo dove Bella ha incontrato
E chiesta al padre.
                              È questo il portico incantato
Per cui passò, premendo il suo braccio di neve,
Braccio di fata, ahi lasso! di una piuma men greve...
Scorser due lustri appena, ed era l’ora istessa!
Come splendean le faci! Con che fronte dimessa
Qual per pudore inconscio, accanto alla sfacciata
Nudità di quel Fauno era colei passata!...
Quel Fauno!...
                    Ah! fuggi, fuggi, misero conte Alvaro!
A sollevar le nubi del tuo passato amaro
Non sei solo qui dentro... fuggi... un mister qui regna...
Di tremuli vapori l’aria fosca si impregna...
Par profumi l’ambrosia!
                                        Miracolo!
                                                       Che avvenne?

..........

..........

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La leggenda s’arresta a un segreto solenne:
Come cadder dall’alto di San Marco sei ore,
Il palazzo fu scosso da un immenso fragore.

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XXIX.


     La marina rifulge simile a terso argento;
Non un fiocco di nube, non un filo di vento;
L’alcïon che coll’ali sferza l’acque tranquille
Le increspa e, alzando il volo, vi fa cader scintille.
Libellule e farfalle i fiori hanno lasciati
E, attratte dalla calma, i deboli meati
Cimentan per vedere negli azzurri cammini
Rotear gaiamente la danza dei delfini...
Empie un alto riposo l’Universo ferace,
Tutto il ciel dice: Amore! tutto il mar dice: Pace!

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XXX.



     Poichè il lido è scomparso, poichè nulla ne appare,
Steno lascia alla forcola il remo.
                                                       Il cielo e il mare
E il fatale amor suo!
                                   Tutto il resto è caduto.
Bella è là dentro, ignara dello scambio avvenuto;
Tanto terror la prese che ancor non mosse accento.
Il giovinetto trema come una foglia al vento,
E, offrendo in olocausto l’anima al suo buon santo,
Rattenendo il respiro e rattenendo il pianto,
Quasi aprisse la porta di una chiesa, la porta
Del felze schiude.
                              Immobile, bianca come una morta.
Bella a lungo lo fisa, poi guarda intorno... sola!
Indietreggia, fa un cenno, ma al labro la parola

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Le si gela, e qual vinta da un affanno deliro,
Si copre il viso e cade.
                                        Non han pure un sospiro
I malor sterminati.
                                   In ginocchio, con voce
Che sembra uscir da un tumulo, e colle mani in croce,
Così favella il misero:
                                        — Madonna... non temete
Se a voi davanti un povero sconosciuto vedete...
Fu Lionel, per salvarvi, che m’affidò quel remo...
O, forse, Iddio! —
                              La dama, con uno sforzo estremo,
Solleva il capo e volge gli occhi sullo straniero
Che segue:
                    — Perdonatemi... fui troppo ardito, è vero,
Ma era grande il pericolo... e poi... benchè la morte
Già mi fosse vicina, sentia che il braccio forte
Abbastanza per trarvi in salvamento avrei...
I più felici istanti vissi dei giorni miei;
Or Lionello certo non tarderà a venire
Col legno... e partirete... ora posso morire... —

No, non è inganno: a Steno già già sfugge la vita,
E la contessa Bella, trepida, impietosita,

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Come attratta da un fascino dolce e misterioso
Gli solleva il bel crine che quasi ha il volto ascoso,
E,
— Vi conosco! esclama; giovinetto, quel nastro
Ch’io perdetti alla messa, l’anno scorso... —
                                                                           Se un astro
Fosse disceso sotto le pupille di Steno
Dippiù non brillerebbero; ma l’ansia del suo seno
Or si è fatta terribile.
                                        — Fu raccolto da voi,
E da lontano sempre mi seguiste dippoì...
Perchè? —
                    Due grosse lagrime fur la risposta.

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XXXI.


                                                                                Ignoro
Ciò che farebbe quella ch’io senza speme adoro,
Ove per l’amor suo me trapassar vedesse.
Non avrei meraviglia s’ella fra sè ridesse!
Molte ridere ho viste, mentre, in fondo all’oblio,
V’eran anime umane maledicenti Iddio,
E pugni che cercavano la pistola o il pugnale...
Ma digredisco ancora, e in questo punto è male.

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XXXII.


     Che vide allor l’ascoso occhio dell’Influito?
Piansero i cherubini, su in ciel, mostrando a dito
Quella barca perduta sul lontano emisfero,
Picciola tanto eppure contenente un mistero
Più di una culla dolce, più buio di un avello?...
Solo forse nell’aria qualche migrante augello
Tentò un trillo di gioia, quando quelle due teste,
In così immensa calma gravide di tempeste,
Mirò l’una ver l’altra chinarsi, e l’occhio ardente
Cercar l’occhio di affanno e di languor fulgente;
E già stese le braccia, ed avida una bocca
Del contatto supremo da cui l’amor trabocca,
Pender da un’altra attratta dallo stesso desio!...

     Miserere!... al poeta non concesso è l’oblio...
Come offusca lo specchio di un bambolo il respiro,
Come sfoglia la rosa un placido zeffiro,

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Così l’ora, il minuto, l’attimo sciagurato
Può nel cor che pel Bello e per il Giusto è nato
Avvelenar la santa semenza del futuro! . . .
Quanti corron baleni dalla luce allo scuro?
Povero Steno!... è dessa, la blanda incantatrice,
Quella che segui estatico da un anno, ed è infelice
Come lo fosti, e è tua!...
                                             Vedi se la Sventura,
Questa provvida Erinne che per il ciel ci appura,
Non affratella; vedi se non è premio il fine
Di chi lieto sul cranio si conficcò le spine;
Vedi, sol due parole, sol due lagrime, e tutto
Che di smanie ti pesa sull’anima e di lutto
Si svelò nel fatidico animo femminile!...
È ben dessa, la donna sopra tutte gentile,
È ben dessa, o poeta...
                                             Ma quel vecchio ti disse
Come occulta ai convegni di uno stranier venisse;
È la contessa Alvaro, ma sotto al suo balcone,
Hai sentito alitare la tenera canzone;
È l’idol tuo, ma ruggono ancor nel tuo cervello
Le sonore risate del povero Lionello!...

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XXXIII.


     Oh sì beati i morti che bevon le rugiade...
Chi saprà dir se in mare ei si getta o vi cade?


XXXIV.


     Il mare è generoso come ogni cosa grande:
Ama tanto la terra che gonfio in lei si espande;
Della rondin che porta dall’uno all’altro lido
Le querule speranze e la pietà del nido

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L’ali cogli infallibili aliti suoi distende;
Ciò che cade disprezza il mar che all’alto tende:
Quando l’albero è infranto e sommersa è la stiva,
Li rifiuta e, sdegnoso, li rimanda alla riva;
E vi getta le perle e le conchiglie, e, chino
Come sul formidabile specchio del suo destino,
L’uom su quel glauco abisso, non sa, triste ed anelo,
S’esso mai non racchiuda più misteri che il cielo.
E il mar conosce l’uomo più che l’uom nol conosca;
Ond’è che dal profondo della sua valle fosca
È risospiuto il naufrago alla luce del sole.

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XXXV.


     — Troppo tardi!
                                   — Di Steno tur l’ultime parole.
E sparì.
               Mie signore dalla cera stravolta
Perchè, mai non avendo che un amante alla volta,
Già m’aspettate al varco per gridar: «l’eroina
Fino a qui perdonabile or del tutto rovina,
Che fra Steno e Lionello si appiglia all’uno e all’altro».
V’ingannate, signore; la Dio mercè son scaltro.
Nè saprete che avvenne nel cor di Bella Alvaro.

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Sol vi dirò che quando il freddo corpo ignaro
A fior d’acqua riapparve, sulla faccia spetrale
Del morente poeta cadde un bacio...


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XXXVI.


                                                                 Fatale
Notte! notte di incanti e meraviglie!
                                                                 Un grido
Sommesso, dai canali più spopolati al lido.
Corre di bocca in bocca nella folla atterrita.
Fu trovato Don Diego disteso e senza vita
Sotto un Fauno di marmo dalla base travolto!

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I pescator di Chioggia, collo stupor sul volto,
Han portato un cadavere che gettò la marea.
E mirabile a dirsi! quel morto sorridea!
E sulla spiaggia è un premersi di mozzi e di nocchieri,
Dai berretti turchini e dai capucci neri,
Che non san per qual strana avventura di mare
Una gondola errante sull’orizzonte appare.
E così ben si aggruppano le sussurranti torme
E v’è tanta dovizia di colori e di forme,

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Da innebriar di gioja l’anima di un artista.
A mezzodì la gondola si perdette di vista.