Annali (Tacito)/IV

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Libro 4

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Publio Cornelio Tacito - Annali (II secolo)
Traduzione dal latino di Bernardo Davanzati (1822)
Libro 4
III V
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LIBRO QUARTO

SOMMARIO

I. Origine e costumi d’Elio Seiano. II. Cattivasi soldati e senatori, coll’occhio al trono. — III. In che stato trovi la truppa e la repubblica. — VIII. D’accordo con Livia moglie di Druso, l’avvelena: primo scalino a sua speme di regnare. Mesto di tal morte, il senato rincora Tiberio; e di Germanico i figli, come eredi dell’impero, gli accomanda. — XII. De’ figli di Germanico e d’Agrippina madre la rovina trama Seiano, fiero da non risparmiar delitto. — XIII. Ambasciate e accuse di province. Cacciati d’Italia gl’istrioni. — XV. Tempio dalle città d’Asia decretato a Tiberio, a Livia, al senato. — XVI. Nuova legge sul flamine di Giove. XVII. Duolsi Tiberio che per Nerone e Druso, figli di Germanico, orassero i pontefici. -XVIII. Di là i più franchi amici di Germanico atterra Seiano. Altri accusati e sentenziati. — XXIII. La guerra d’Affrica chiude Dolabella, ucciso Tacfarinata. XXVII. Semi di guerra schiavesca in Italia tosto stiacciati. XXVIII. Vibio Sereno accusato dal figlio. Dannati P. Suilio, Cremuzio Cordo, e altri. — XXXVI. A’ Ciziceni tolta libertà, — XXXVII. Spregia Tiberio il tempio dagl’Ispani offertoli. — XXXIX. Seiano da troppa fortuna cieco chiede [p. 179 modifica]Livia in moglie. — XLI. Caduto di tale speme, il principe spinge a starsi fuor di Roma. - XLIII. Legazioni de’ Greci sul dritto degli Asili. XLIV. Morte di Gn. Lentulo, e L. Domizio. — XLV. L. Pisone ucciso in Ispagna. -- XLVI. Trionfali date a Poppeo Sabino domator de’ Traci. LII Accusa e condanna di Claudia Pulcra per adultera. LII. Agrippina chiede marito indarno. — LV. Undici città d’Asia in gara, in qual d’esse ergasi tempio a Tiberio. Vince Smirne. LVII. Tiberio in campagna. In periglio; per subito franar di pietre, gli fa scudo del suo corpo Seiano; ingrandito quinci, e contro ai germe di Germanico più audace. - LX. Addenta Nerone. - LXII. Cade l’anfiteatro a Fidene; pesti o fracassati cinquantamila. — LXIV. Arso Monte Celio. — LXVII. Ascondesi in Capri Tiberio. Sfacciate insidie dì Sciano contro Agrippina e Nerone. — LXVIII. Tizio Sabino a capo d’anno punito per amico di Germanico. — LXXI. Muore Giulia d’Augusto nipote. — LXXII. Frisoni ribelli a stento repressi. — LXXV. Agrippina di Germanico figlia sposata a Gn. Domizio.
Anno di Roma dcclxxvi. Di Cristo 23.

Consoli. C. Asinio Pollione e C. Antistio Vetere.

An. di Roma dcclxxvii. Di Cristo 24.

Cons. Sergio Cornelio Cetego e L. Visellio Varrone.

An. di Roma dcclxxviii. Di Cristo 25.

Cons. M. Asinio Agrippa e Cosso Cornelio Lentulo.

An. di Roma dcclxxix. Di Cristo 26.

C. Gn. Cornelio Lentulo Getulico e G. Calvisio Sabino. [p. 180 modifica]

An. di Roma dcclxxx. Di Cristo 27.

Cons. M. Licinio Grasso e L. Calpurnio Pisone.

An. di Roma ccclxxxi. Di Cristo 28.

Cons. Ap. Giunio Silano e P. Silio Nerva.

I. Era il consolato di G. Asinio e G. Antistio, il nono anno che la repubblica in mano di Tiberio quietava, e la sua casa fioriva (ponendo egli la morte di Germanico tra le felicità); quando la fortuna cominciò repente a voltare, egli a incrudelire o darne animo altrui; e tutto nacque da Elio Seiano, generale de’ soldati di guardia, della cui potenza di sopra toccai; ora dirò sua origine e costumi, e con che ardimento tentò signoria1. Nacque in Bolsena di Seio Strabone cavalier romano; fu paggio di G. Cesare nipote d’Augusto: non senza nome d’aver venduto ad Apizio ricco e prodigo, l’onestà, guadagnossi poi con varie arti Tiberio sì, che lui a tutti altri cupo, rendè a sè solo aperto e confidente; non tanto per suo sapere (perchè con questo fu vinto) ma per ira degl’Iddii; onde con pari danno di Roma crebbe e cadde. Fu faticante di corpo, ardito d’animo; sè copriva, altri infamava; adulatore e superbo insieme era: di fuori contegnoso, entro avidissimo; e, per avere, donava e spandeva; e spesse industrie usava, e vigilanze, che troppo costano quando sono a fin di regnare. [p. 181 modifica]

II. Il generalato della guardia non era gran cosa; il fece egli, col ridurre in un sol campo i soldati, che alloggiavano sparsi per Roma, dicendo, uniti poter meglio ubbidire: vedendosi in viso, e di tanto numero e forze, più confidare e altrui atterrire; in caso subitano, più pronti aiutarsi; sceverati corrompersi; viverieno più severi, piantandosi ’l campo fuori delle lascivie della città. Fatto questo, prese a poco a poco gli animi de’ soldati, col visitare, chiamar per nome, fare i centurioni e i tribuni; nè mancava di acquistarsi senatori, onorando i suoi partigiani di magistrati e reggimenti; essendogli Tiberio largo, e tale affezionato, che non pure nel confabulare, ma nel parlare a’ Padri e al Popolo, lui celebrava per suo utile compagno alle fatiche, e lasciava venerare le sue statue ne’ teatri, ne’ magistrati, e tra gl’Iddii del campo2.

III. Ma l’essere in quella casa tanti Cesari, un figliuolo, nipoti grandi, lo ritardava. Ammazzarne tanti insieme non si poteva: i tradimenti volevan tempo; questi elesse; e farsi da Druso per fresca ira, perchè Druso, che non voleva concorrente, ed era rotto, bisticciando a sorte con Seiano, gli andò con le pugna in su’l viso; e volendosi ei rivoltare, lo li battè. Adunque, tutto pensato, parve da servirsi di Livia moglie di Druso, sorella di Germanico, di brutta fanciulla, bellissima donna. Finse amarla d’amore: e conseguitolo, non essendo cosa che donna privatasi d’onestà non facesse, la ’ndusse a dar veleno al marito, per lui pretendere e insieme regnare. [p. 182 modifica]Così, colei, cui erano Augusto zio, Tiberio suocero, di Druso figliuoli, vituperava sè, i passati e i futuri suoi, giacendosi con un castellano, per aspettare cose incerte e scelerate, in vece delle presenti oneste. Chiamano nella congiura Eudemo medico, e amico di Livia; e ne trattano spesso sott’ombra dell’arte. Seiano ne rimanda la moglie Apicata, che n’aveva tre figlinoli, per levar sospetti all’adultera. Ma sì gran fatto portava seco paure, indugi e variare di consigli.

IV. Nel principio di quest’anno Druso di Germanico prese la toga virile: e in lui voltarono i Padri tutti gli onori già decretati a Nerone suo fratello: e Cesare con bella direria lodò il figliuolo, che i nipoti amasse da padre. Perchè Druso (benchè signoria non voglia compagni) era amorevole, o certamente non avverso a que’ giovanetti. Indi propose lo imperadore la sua vecchia e spessa novella del riveder le province: dicendo, aver gran bisogno gli eserciti d’essere svecchiati e riforniti; soldati di buona voglia esservi pochi, e poco buoni o modesti, non pigliando soldo volontario, se non fracassati o vagabondi; e quante legioni, e quali province guardavano, riandò. Il che invita me ancora a dire quanta gente romana era in arme3, quali re collegati, quanto minore l’imperio. [p. 183 modifica]

V. Guardavano Italia due armate, nell’un mare sotto Miseno, e nell’altro a Ravenna: e la vicina costa di Gallia le galee con forte ciurma, che Augusto prese ad Azio, e mandò a Fregius. Otto legioni (il nerbo delle forze) stavano in su’l Reno a ridosso a’ Germani e a’ Galli; tre nelle dianzi domate Spagne. Il regno de’ Mori dal popol romano teneva in dono Iuba; due legioni frenavano il rimagnente dell’Affrica; due l’Egitto, e quattro tutto ’l girone di terra dalla Soria all’Eufrate, confinato dall’Ibero, dall’Albano e altri re, cui la nostra grandezza difende dall’altre potenze. Tenevano la Tracia Remetalce e i figliuoli di Coti; la ripa del Danubio due legioni in Ungheria, due in Mesia; e due eran poste in Dalmazia alle spalle di quelle, e comode ad ogni repentino soccorso d’Italia; ancora che la città tenesse in corpo per sua propria guardia tre coorti di romaneschi, e nove pretoriane, scelte quasi di tutta Toscana, Umbria, Lazio e romane colonie antiche; e ne’ luoghi opportuni delle province nostre, stavano armate de’ collegati, fanti e cavalli d’aiuti, di poco minori forze; l’appunto non si può dire, essendo messe qui e qua, più e meno, secondo i tempi.

VI. Farmi anco da dar conto, come l’altre membra della repubblica stessero sino allora, poiché in quell’anno cominciò Tiberio a peggiorare il principato. Primieramente le cose pubbliche e le maggiori private, trattavano i Padri; i principali ne dicevano i pareri; dava egli a’ troppo adulanti in su la boce; [p. 184 modifica]gli onori senza dubbio a’ migliori per antica nobiltà, virtù civile e gloria d’armi. Tenevano i consoli e pretori l’apparenza: i minori magistrati esercitavano la loro podestà; le leggi, fuor dei casi di maestà bene usate; grani, tributi e altre entrate pubbliche, maneggiate da compagnie di cavalieri romani. Le cose sue faceva Cesare ministrare a cima d’uomini, di prova o di nome: tenevali tanto, cbe molti invecchiavano in uno uficio. La plebe pativa del caro; ma che colpa del principe? Anzi egli accrebbe il coltivare e ’l navigàre con ogni possibile spesa e industria. Gravezza nuova non pose: le vecchie faceva senza avarizia e crudeltà de’ ministri tollerare, non le persone affliggere, pon de’beni privarle.

VII. Pochi stabili per l’Italia teneva, non turbe di schiavi, pochi liberti in famiglia: se litigava con privati, chiedeva giudice e ragioni. E tutte queste benignità per modi non benigni, ma villani o spaventosi4 ritenne, insino alla morte di Druso; perchè Seiano nel cominciare a crescere, voleva nome di consigliare il bene, e temeva di Druso, nimico già scoperto e sbuffante, che dov’era il figliuolo, si chiamasse all’imperio altro aiuto: „Che gli manca a farsi compagno? Duro è tentar signoria: se vi metti una branca, partigiani e ministri ti corron dietro. S’è fatto ’l campo a suo modo: datogli in mano la milizia: vedesi nelle fabbriche di Pompeo la sua bella figura: mescolerassi questa razza col sangue de’Drusi; botianci alla Modestia ch’ei fermi qui„. [p. 185 modifica]Sovente, e in pubblico tali cose dicea, e la rea moglie ridicea le segrete.

VIII. Seiano adunque, parendogli da sollecitare, scelse veleno lento, che mostrasse altro male: e diello a Druso Ligdo eunuco; il che si seppe otto anni dopo. Tiberio, mentre durò il male, ebbe o finse, fermo cuore; e quando era morto e non seppellito, entrò in senato; e a’ consoli che, per duolo mostrare, erano in sedia vile, ricordò l’onor loro e del luogo: e con gli occhi asciutti e parlar non rotto, confortò il senato, che dirottamente piangeva, dicendo: „Che del venir quivi in cotanto dolore a farsi vedere, sapeva poter aver biasimo, solendo gli afflitti per lo più fuggire i conforti de’ parenti e la luce, senza nota di debolezza; ma esso nell’abbracciare la repubblica aver cercato i veri conforti. E compiantosi dell’età d’Augusta decrepita, e della sua mancante, con due nipotini col guscio in capo5;„ domandò condursi quivi i figliuoli dì Germanico conforti unichi de’presenti mali. Andaro i consoli per que’ giovanetti, e [p. 186 modifica]fatte lor le parole, li presentaro. Abbracciolli6, e disse: «Padri coscritti, io consegnai questi orfani al zio; e pregailo, die quantunque figliuoli avesse, gli carezzasse, o come suo sangue allevasse per sostegno suo, e de’ suoi avvenire. Ora che Druso n’è tolto, prego e presenti gl’Iddii, e la patria scongiuro voi, che questi d’Augusto bisnipoti di chiarissimo sangue nati, prendiate, reggiate, e’l debito vostro, e ’l mio adempiate. Questi, o Nerone, o Druso, sono i vostri genitori: e voi sete nati tali, che i beni e i mali vostri sono della repubblica».

IX. Fece cader le lagrime e pregare felicità; e se egli finiva qui, aveva di compassione e gloria sua ognun ripieno. Tornato a sue novelle, tante volte derise, di lasciar la repubblica, del prenderne i consoli, o qualcuno il governo; non gli fu creduto anche il vero e l’onesto. Alla memoria di Druso s’ordinaro gli onori di Germanico, e più altri, come vuole adulazion seconda; l’esequie furon pomposissime d’immagini: Enea, origine de’ Giulj, tutti i re Albani, e Romolo, fondator di Roma: la nobiltà dei Sabini, Atto, e gli altri Claudi, seguiano in lunga fila.

X. Ho tratto la morte di Druso da’ più, e più fedeli scrittori. Ma io non tacerò la voce andata in quel tempi, che ancora dura: Che Seiano corrotta Livia, si guadagnò con la medesima disonestà l’animo di Ligdo eunuco, donzello vago e caro al signor suo, e de’ primi ministri. E, fermato tra i congiurati che egli desse il veleno, e dove e quando, ardì [p. 187 modifica]variar l’ordine e disse piano a Tiberio, cenante con Druso: „Druso t’avvelena nella prima tazza, non la bere„. Il vecchio per tale inganno la prese, e porse al figliuolo; il quale, come giovane, la tracannò; e tanto più fece credere d’essersi per paura e vergogna ingoiata la morte che al padre mescea.

XI. Questa è boce di popolo: storici non la confermano, nè è da credere; perchè quale uomo di prudenza mezzana, non che Tiberio di cotanta, avrebbe così alla cieca porto la morte al figliuolo di sua mano, da non poterla ritirare? Martoriato anzi il coppiere; cercato chi ’l fece fare; andato a bell’agio, come vuol natura contro alli strani, non che a un figliuolo unico, state sempre buono. Ma per esser Seiano camera d’ogni enormezza, troppo amato da Cesare, ambi odiatissimi, ogni disorbitante favola se ne crèdeva, e nello morti de’ padroni le lingue sfringuellano. L’ordine di questo fatto fu rivelato da Apicata di Seiano, chiarito per tormenti d’Eudemo e di Ligdo. Scrittore non è sì nimico di Tiberio, che gli dea tal carico; e pur gli ritrovano l’altre cose e l’accrescono. Ho voluto dire e riprovare questa ciancia, per ìsbandirle con sì chiaro esempio; pregando chi leggerà queste nostre fatiche, a non anteporre le sconce cose, che il volgo troppo accetta e sparge, innanzi alle vere e non stravaganti.

XII. Lodando Tiberio il figliuolo in ringhiera, il senato e ’l popolo avevano panni e voci da duolo, ma dentro gioia, che la casa di Germanico si ravvivasse. Il quale incominciato favore, o’l non sapere la madre Agrippina coprir la speranza, affrettarono la rovina; perchè Seiano, veduta la morte di Druso [p. 188 modifica]riuscita franca, e al pubblico non doluta, come fiera insanguinata del primo ratto7, pensava come levar via i figliuoli di Germanico, certi succeditori. Avvelenare tre non poteasi, essendo troppo fidati i custodi, e candida Agrippina. Diedesi dunque a sparlare dell’alterigia di lei; sollecilare Augusta per l’antico odio, e Livia per lo nuovo peccato, che mostrassero a Cesare, che questa superba, fondata nei tanti figliuoli, nel favor del popolo, spasimava di regnare; e per mezzo di Giulio Postumo, adultero di Mutilia Prisca, cameriera cara d’Augusta, faceva tutto di punzecchiare questa vecchia, per natura avida di potenza, a levarsi dinanzi questa nuora, questa padrona: e mandava ad Agrippina a darle consigli a rovescio, e quelli accesi spiriti rinfiammare.

XIII. Ma Tiberio niente smagato, pigliandosi per conforto i negozi, faceva ragione ai cittadini, sentiva le dimande de’ collegati: e volle che Gibira in Asia, Egira in Acaia, fracassate da’tremuoti, si sgravassero per tre anni di tributo: che Vibio Sereno, viceconsolo della Spagna di là, dannato di pubbliche storsioni, fosse confinato per li suoi modi atroci8 nell’isola d’Amorgo; che Carsio sacerdote e C. Gracco9, accagionati di data vettovaglia a Tacfarinata, fossero assoluti. Gracco fu portato in fasce da [p. 189 modifica]Sempronio suo padre nell’isola di Gercinna seco in esiglio; e quivi tra sbanditi e rusticani allevato, andò ramingo per l’Affrica e per la Sicilia, facendo per vivere il ferravecchio; e nondimeno corse pericolo da grande; e se Elio Lamia e L. Apronio, che l’Affrica governavano, non difendevano lo innocente, era per lo sventurato gran sangue e per l’avversità del padre, levato via10.

XIV. Anche questo anno vennero di Grecia ambasciadori per la conferma dell’antiche franchige de’ tempi; i Sami, di Giunone, e ne mostravano decreto delli Anfizioni, fòro comune delle città edificate nell’Asia da’ Greci, già padroni di quelle marine; i Coi, d’Esculapio, e ne avevano antichità non minore, e proprio merito, per aver in essa franchigia salvati i cittadini romani quando il re Mitridate gli faceva per tutte l’isole e città dell’Asia ammazzare. Finalmente Cesare propose le spesse e non attese querele de’ pretori, dell’insolenze de’ commedianti, scandolosi in pubblico e disonesti per le case. Questi, già mattaccini11 per far un poco ridere il popolo, esser venuti a tali sceleratezze e insolenze, che bisognavano i Padri a correggerli; onde furon cacciati d’Italia.

XV. In questo anno Cesare ebbe nuovo dolore, per la morte di un di que’ binati di Druso: nè [p. 190 modifica]minore per quella di Lucilio Longo, amico suo, partecipe d’ogni suo dispiacere e allegrezza; nè altro senatore gli tenne compagnia nella ritirata di Rodi. Laonde esequie da censore, benchè uomo nuovo, e statua nel fòro d’Augusto, a spese pubbliche, gli ordinaro i Padri: per mano de’ quali per ancora faceva ogni cosa; onde fecero comparire a difendersi, e condannarono Lucillio Capitone, procuratore dell’Asia, accusato dalla provincia d’aver fatto uficio di governatore e adoperato soldati; molto avverando Cesare, non avergli, oltre a’ suoi schiavi e danari, autorità data, se soprusata l’avesse; facessono alla provincia ragione. Per questa e per altra ragion fatta l’anno innanzi contro a C. Silano, le città dell’Asia deliberaron fare a Tiberio, alla madre e al senato, un tempio: fu conceduto, e fatto. E Nerone fece le parole del ringraziamento a’ Padri e all’avolo; imbambolato quegli uditori sviscerati della memoria di Germanico, a’ quali pareva veder lui, udir lui: e nel giovane erano modestia e bellezza da principe, e per lo noto odio e pericolo di Seiano, più graziose.

XVI. Nel medesimo tempo Cesare parlò di rifare il flamine di Giove12 in luogo del morto Servio Maluginese, e riformarlo; usandosi per antico eleggerne uno di tre nominati patrizj, e di padre e madre confarrati: „Per esser cosa faticosa (diceva egli) a trovargli per esser dismessa o poco ritenuta la cirimonia del confarrare; perchè nè uomo, nè donna se ne curava, per le molte difficultà che [p. 191 modifica]v’aveva; e per fuggirle ci emanceppava colui che pigliava il flaminato, e colei che a flamine s’impalmava. Perciò rimediasseci con decreto o legge il senato; siccome anco Augusto ammodernava certe ruvide antichitadi.„ Studiata tale divinità, piacque non toccare gli ordini de’ flamini; ma si fece legge che la flamina di Giove fosse in podestà del marito nelle cose del flaminato; nel resto, come l’altre donne; e fu rifatto il figliuolo del morto. E per dare reputazione al sacerdozio, e animo a pigliare gli ordini; si donò a Cornelia, rifatta in luogo di Scanzia, cinquecento fiorini: e stabilissi che nei teatri Augusta sedesse tra le Vestali.

XVII. Entrati consoli Cornelio Cetego e Visellio Varrone, i pontefici, e con loro gli altri sacerdoti, pregaron gl’Iddii per la vita del principe e anche di Nerone e Druso, non per carità verso que’ giovani, ma per adulazione, nella quale il popolo corrotto erra nel troppo, come nel poco. Laonde Tiberio alla casa di Germanico non mai benigno, qui si versò, che pari di lui vecchio, si pregasse per quei fanciulli. Mandò pe’ pontefici, e domandolli, se il fecero per preghi o minacce d’Agrippina; e, negando li garrì destramente, essendoli parenti o principali della città; ma in senato avvertì, che un’altra volta non levassono i lievi animi de’ giovanetti in queste superbie di acerbi onori. Perchè Seiano non finava di dire: „La città è in parti, come in guerra civile: alcuni si chiamano di que’ d’Agrippina: e cresceranno, lasciandogli fare; alla crescente discordia altro rimedio non ci ha che scapezzare uno o dua di questi feroci.„

XVIII. Cogliesi innanzi C. Silio, e Tizio Sabino, [p. 192 modifica]d’ambo i quali l’amicizia di Germanico fu la rovina; e di Silio più, che avendo governato un grosso esercito sette anni, acquistato le trionfali in Germania, vinto Sacroviro, quanto maggior macchina era, con più spavento degli altri cadeva. Offese Tiberio ancor più lo suo tanto vantarsi dell’essere stati i soldati suoi sempre ubbidienti, quando gli altrui sediziosi: e che egli non sarebbe imperadore, ogni po’ che avessero scherzato anche le sue legioni. „Adunque (diceva Tiberio) io sono niente; non lo potrò mai ristorare.„ Perchè i benefici rallegrano in quanto si posson rendere; gli eccessivi si pagano d’ingratitudine e d’odio13.

XIX. Era moglie di Silio Sosia Galla, odiata dal principe, perchè Agrippina l’amava; questi due risolvè assalire e Sabino prolungare. Varrone consolo non si vergognò ubbidire a Seiano in dar la querela con la sentenza, che i Padri loro eran nimici. Chiedendo il reo tempo breve, che l’accusatore uscisse di consolo, Cesare disse: „Che l’aggiornare le parti stava a’ magistrati; nè si poteva menomare la balìa del consolo, nella cui vigilanza consiste che la repubblica non riceva danneggio.„ Era proprio di Tiberio con simiglianti parole prische ricoprire le malvagità sue nuove. Fece dunque gran ressa di ragunare i Padri, quasi a giudicar s’avesse [p. 193 modifica]Silio con le leggi, o fusse Varrone consolo, o caso pubblico quello. L’aver saputo, e tenuto mano alla guerra, chiuso gli occhi alla fellonia di Sacroviro14, guasto la vittoria con l'avarizia, e Sosia sua moglie, erano i peccati. „L’ira di Cesare è il mio peccato,„ disse sempre, nè mai altro, per sua difesa. Al governo non potevano apporre; ma all’accuse di stato non si poteva rispondere. Silio non aspettò la sentenza, e s’ammazzò.

XX. E nondimeno si corse a’ beni; non per restituir tributi, come dicevano, mal presi (chè niuno si risentiva), ma per torgli il dono fattogli15 Augusto, del suo debito; riscosselo il fisco sino ad un picciolo: e fu questa la prima diligenza di Tiberio contro alla roba d’altri16. Sosia fu sbandita, per parere d’Asinio Gallo, che parte de’ beni dava a’ figliuoli; il resto al fisco. Manio Lepido disse: „Il quarto agli accusatori per forza della legge, il resto a’ figliuoli.„ Trovo che questo Lepido fu grave e savio uomo di que’ tempi, perchè molte crudeltà trovate dagli adulatori, temperò e poteo farlo, per [p. 194 modifica]l’autorità e grazia17 che ebbe sempre con Tiberio. Cosa che mi fa dubitare, se l’avere i principi chi a grado, chi a noia, venga come l’altre cose dal fato, e riscontro di nascite; o pur possiamo alcuna cosa noi destreggiando, e senza, nè sempre adulare, nè sempre dir contro, scansare pericoli e viltà, tenendo mezzana via. Ma Cotta Messalino, non meno di legnaggio chiaro, ma di mente diversa, disse, doversi decretare, che degli aggravi, che fanno alle province le mogli, si punissero i mariti, benchè nescienti, come de’ propri loro.

XXI. Trattossi poi di Calpurnio Pisone, nobile e feroce, che fece quel romore in senato de’ tanti accusatori, e che s’andrebbe condìo; e ardì, a dispetto d’Augusta, trarre in giudizio, e di casa il principe Urgulania. Le quali cose Tiberio prese civilmente allora; ma l’ira dell’inghiottita offesa in quell’animo rugumante ribollì; e fece da Granio accusar Pisone d’aver tenuto ragionamenti segreti contro allo stato, veleno in casa, arme sotto in senato. Questa accusa ultima fu sprezzata, come atroce oltre al vero; tutte l’altre che gli piovevano, accettate e non ispedite; perchè egli si morì a buona [p. 195 modifica]stagione. Ancora si trattò di Cassio Severo confinato: costui di brutta origine, mala vita, ma eloquentissimo, si fe’ tanti nimici, che per giurato giudizio18 il senato il cacciò in Candia; dove avendo19 cielo e non vezzo mutato, e rimbottato nuove cagioni, toltogli beni, acqua e fuoco, invecchiò nel sasso di Serifo.

XXII. Nel detto tempo Plauzio Silvano pretore gittò da alto Apronia sua moglie; non si sa la cagione. Tratto da L. Apronio suocero dinanzi a Cesare, rispose barbugliando, che dormiva profondo: non potea sapere: gittossi dassè. Tiberio tosto ne va alla casa: vede in camera le tracce delle fatte forze e difese: riferisce al senato: e dati i giudici, Urgulania avola di Silvano gli mandò il ferro, credesi di consiglio del principe, per l’amicizia d’Augusta con lei. Al reo la mano tremò; e fecesi segar le veni. Numantina, sua prima moglie, fu d’averlo con malie latto stolido accusata, e assoluta. [p. 196 modifica]

XXIII. Quest’anno liberò fìnalmente il popolo romano della lunga guerra di Tacfarinata Numido; perchè i passati capitani quando si vedevano aver meritate le trionfali, ti lasciavano il nimico. Già erano in Roma tre statue con l’alloro: e Tacfarinata rubacchiava ancor l’Affrica, rinfrescato d’aiuti di Mori, che per fuggir l’insolente imperio servile di liberti del re Tolomeo figliuol di Iuba, giovane che non ci badava, andavano alla guerra. Il re dei Garamanti era compagno al rubare, e riponeva le prede: non v’andava con esercito, ma vi mandava poca gente con grido di molta: e d’Affrica a questa guerra ogni mal andato e scapestrato più correva; perchè Cesare, dopo le cose da Bleso fatte, come non vi restassero più nimici, avea richiamato la nona legione: nè P. Dolabella, viceconsolo di quell’anno, ardì ritenerla, temendo il comandamento del principe più che il pericolo della guerra.

XXIV. Tacfarinata adunque sparge fama che i Romani da altre nazioni erano tartassati20; però s’uscivano d’Affrica a poco a poco, potrebbesi disfare ogni resto se gli amadori più di libertà che di servaggio ci si mettessono. Ingrossa e assedia la terra di Tubusco. Dolabella messi insieme tutti i suoi, col terrore del nome romano, e perchè i Numidi alla fanteria non resistono, alla prima levò l’assedio: i luoghi importanti fortificò, e i capi de’ Musolani sollevantisi decollò. E veduto per lungo [p. 197 modifica]guerreggiare con Tacfarinata non si vincere questo nimico scorridore con uno affronto solo e grosso, tratto in campagna Tolomeo re co’ suoi paesani, ne fece quattro squadre, e le diè a’ Legati e tribuni; e la gente da scorrerie a’ capitani moreschi: esso aveva l’occhio a tutti.

XXV. Non guari dopo venne avviso che i Numidi s’erano attendati sotto Auzea, castello rovinaticcio, che già l’abbruciarono; fidatisi nel sito cinto d’immenso bosco. Allora spinti a corsa senza saper dove, i nostri fanti e cavalleggieri bene schierati, disposti e provveduti, con trombe e grida orrende all’alba furo addosso a que’ barbari; che sonnacchiosi, co’ cavalli alle pasture o in opere, senza avvisi, arme, ordini o consigli, erano come pecore presi, sgozzati, strascinati da’ nostri; che ricordandosi delle fatiche durate per venire a questa bramata, e tante volte loro schippita pugna, si saziavano di vendetta e di sangue. Per le squadre andò grida: „Ciascun si difili a Tacfarinata; per tante battaglie lo conosce ogni uno, la guerra non avrà fine se non le si tronca questo capo.„ Egli, mortagli tutta la sua guardia21, veduto prigione il figliuolo, e sè di Romani per tutto cinto, s’avventò nel mezzo dell’armi, e con morte ben vendicata fuggì prigionia, e fu finita la guerra.

XXVI. Dolabella domandò le insegne trionfali. Tiberio, perchè non iscurasse la gloria di Bleso, zio di Seiano, le li negò. Ma Bleso non ne acquistò; ébbene Dolabella maggior rinomo per avere con minore esercito fatto gran prigioni, morto il [p. 198 modifica]capitano, finita la guerra: vedersi in Roma gli ambasciadori de’ Garamanti (cosa rara) morto Tacfarinata, sbattuti scolparsi col popol romano. A Tolomeo per riconoscenza de’ suoi meriti in questa guerra, i Padri, rinnovando l’antico costume, mandarono un senatore a presentargli il bastone dell’avorio22, e la toga dipinta, e chiamarlo re, compagno e amico.

XXVII. In quella state nacquero semi di guerra servile in Italia, e li spense la sorte. Mosse il tumulto Tito Curtisio, stato soldato di guardia, chiamando a libertà, prima con ragunanze segrete in Brindisi, e per quelle terre; poi con pubblici cartelli, schiavi rozzi e feroci dei boschi lontani; quando, quasi per grazia divina, v’arrivarono tre galee fatte per li passeggieri di quel mare. Eravi Curzio Lupo tratto, come s’usa, questore della provincia di Calle; il quale pose la gente di quelle galee in vari luoghi, e sbrancò la congiura in su ’l cominciare. E Cesare vi mandò prestamente Staio tribuno con buone forze, che ne menò il Capo e i principali a Roma, già impaurita per lo gran crescere delli schiavi, scemando la plebe libera.

XXVIII. In questo consolato nacque esempio miserando e atroce; un figliuolo accusò il padre; fu Vibio Sereno d’ambi il nome. Tratto lo infelice d’esiglio, e sucido, spunto, in catena, condotto in senato appetto al figliuolo, che lindo e gioiante, testimonio e spia insieme, diceva: „Aver suo padre [p. 199 modifica]teso insidie al principe; mandato in Gallia sommovitori a guerra; e Cecilio Cornuto, stato pretore, trovati i danari;„ il quale per lo dispiacere, e perchè allora il pericol di morte era certezza, la si avacciò. Ma il reo niente perduto d’animo, scoteva verso il figliuolo le catene, chiedeva vendetta agl’Iddìi: „Rimettesserlo nel suo esiglio, lontano da modi tali, seguisse mai più il supplizio di cotal mostro.„ Sagramentava, Cornuto esser innocente, fattosi paura dell’ombra; „che più bello che far venire i compagni? non potendo già egli aver tolto a uccidere il principe, e rimutare lo stato con costui solo.„

XXIX. Allora l’accusatore nominò Gn. Lentulo, e Seio Tuberone, a grande onta di Cesare, che due più cari amici suoi, i primi della città, Lentulo decrepito, Tuberone infetto, fossero accusati di tumulti, guerra e congiura controgli; però di questi non si parlò. I servi esaminati contro al padre, dissero contro al figliuolo; il quale sbalordito per lo peccato e per lo popolo che gli gridava dietro: „Rovere, Sasso, Otro23,„ si fuggì a Ravenna; funne rimenato, e fatto seguitar la querela. Tanto rancore mostrò Tiberio contro a Sereno vecchio, per avergli scritto sin quando fu dannato Libone: Solo esso averlo servito senza frutto, e altre parole risentite, non da orecchi superbi e sdegnosi. Otto anni le li serbò, nel qual tempo gli tese più trappole, ma i servi ressero a’ tormenti. [p. 200 modifica]

XXX. I pareri gli davano il supplizio antico; egli, per iscemarsi carico, contraddisse. Gallo Asinio lo confinavi in Giaro o Donusa, isole. Non gli piacque; dicendo in niuna esser acqua; dovere chi vuole che altri viva, sì fare ch’ei possa. Onde fu riportato in Amorgo. E per essersi Cornuto ucciso, fu proposto che quando il reo di maestà s’uccidesse innanzi al giudizio, le spie non guadagnassero; e vincevasi, se Cesare non si fusse per quelle, fuori di sua usanza, alla scoperta opposto e doluto: „Guastarsi gli ordini; la repubblica precipitare: levasson via le leggi, anzi che i conservadori di esse:„ Così le spie, gente trovata per rovinar ogni uno, non mai a bastanza rattenute con pene, eran allettate coi premj.

XXXI. Tra cotanti e si continovi amari, entrò un poco di dolce; che Cesare a C. Cominio cavalier Romano, convinto d’averlo con versi infamato, perdonò a’ preghi del fratello senatore. Tanto più maraviglia è, che vedendo il meglio, e quanto si celebrava la clemenza24, ei s’appigliasse al peggiore. Non è di dire: E’ peccava per ignoranza; e ben si conosce quando uno esalta un fatto del principe con vera lode, e quando con orpellata. Tiberio stesso favellatore a spizzico, quando giovava, era largo e pronto. Ma egli, essendo P. Suilio, tesoriere già di Germanico, cacciato fuori d’Italia, per moneta presa per dare certa sentenza, lo confinò in [p. 201 modifica]isola, di sì gran volontà, che egli giurò ciò essere utile della repubblica. Cosa che parve allora cruda, ma ne lo benedisse l’età seguente, che vide Suilio tornato potente, vendereccio usar la grazia di Claudio lungamente con felicità, e sempre senza bontà. La medesima pena ebbe Cato Firmio senatore, per querela falsa di maestà data alla sorella. Costui, com’è detto, aveva carrucolato, e poi accusato Libone. Tiberio di questa buon’opera ricordevole, sott’altro colore gli campò l’esilio; pure lo lasciò radere del senato.

XXXII. Minute e poco memorevoli25 veggo io che parranno le più delle cose ch’io ho detto, e dirò; ma non sia chi agguagli questi nostri Annali alle storie antiche di Roma. Gli scrittori di quelle narravano guerre grosse, città sforzate, re presi e sconfitti; e dentro, discordie di consoli con tribuni, leggi a’ terreni, a’ frumenti, zuffe della plebe co’ grandi; larghissimi campi. Il nostro è stretto, e scarso di lode pace ferma o poco turbata; Roma attonita; principe dì crescere imperio non curante. Ma non fia disutile notomizzare cotali membretti di storia, che da prima niente paiono; ma ci sono alla vita grandissimi insegnamenti26. [p. 202 modifica]

XXXIV. Avvenga che le nazioni e città si reggano, o dal popolo o da’ grandi o da uno. Forma di repubblica quindi tratta, si può più lodare che trovare o durare. Come adunque, quando la plebe, o quando i Padri, potevano, conveniva sapere la natura del popolo, e come temperarlosi: e chi intendeva andar del senato e de’ grandi, si diceva saputo e scaltrito navigatore a quei venti; così ora che lo stato è rivolto e comandalo un solo, queste minuzie ci bisogna speculare e notare; perché pochi sono i prudenti che discernano le cose utili e le oneste dalle contrarie; gli altri le apparano dagli altrui avvenimenti. Queste arrecano, benché utili, poco piacere; perchè descrizion di paesi, battaglie varie, morti di gran capitani, invogliano e tengono i leggitori; a noi toccano comandari atroci, accuse continove, precipizi d’innocenti, ingannevoli amicizie, e loro cagioni, riuscite spesso le medesime e tediose. Oltre a ciò gli scrittori antichi non sono lacerati, a niuno rilevando se tu le schiere romane o le cartaginesi vantaggi; ma, regnante Tiberio, furon puniti o svergognati molti, li cui posteri vivono. E quando fossero spenti; tale legge il peccato d’altri che l’ha, e credelsi rinfacciato; anche la virtù e la gloria ha dei nimici, quasi riprendenti troppo da vicino i loro contrari. Ma torniamo a nostra materia.

XXXIV. Essendo consoli Cornelio Cosso, e [p. 203 modifica]Asinio Agrippa, Cremuzio Cordo ebbe una novissima accusa d’avere in suoi pubblicati Annali lodato M. Bruto, e chiamato C. Cassio l’ultimo romano. Accusavanlo Satrio Secondo, e Pinario Natta, lance di Seiano. Questo gli dava lo scacco: e il viso dell’arme che faceva Cesare alla difesa; la quale Cremuzio, certo di morire, così cominciò: „Io sono, Padri coscritti, sì di fatti innocente, che costoro mi appuntano in parole, non dette contro al principe o sua madre, compresi nella legge dì maestà; ma lode di Bruto e di Cassio, i cui fatti scrissero molti, e niuno li ricordò senza onore. Tito Livio, sovrano in eloquenza e verità, loda tanto Gneo Pompeo, che Augusto il dicea Pompeiano; e pur se lo ritenne amice: chiama Scipione, Afranio, questo Cassio, questo Bruto, segnalati uomini, e non mai ladroni, traditori della patria, come oggi odo. Gli scritti d’Asinio Pollione di essi fanno eccelsa memoria. Messala Corvino appellava Cassio il suo imperadore; e l’uno e l’altro gran potenza e onori ebbe. Al libro di Marco Cicerone, che mette Catone in cielo, che altro fe’ Cesare dettatore, che contrascrivere, e quasi rispondere alle civili? Lettere d’Antonio, dicerie di Bruto, dicono d’Augusto lordure false, ma velenose. Versi di Bibacolo e di Catullo trafiggono gl’imperadori; e pure essi Giulio e Augusto, i divini, gli patirono, e lasciaro leggere: dire non saprei con qual maggiore, o modestia o sapienza, perchè queste cosa sprezzate svaniscono; adirandoti, le confessi27. [p. 204 modifica]

XXXV. „Lascio, che i Greci potevano parlare, non pur libero, ma sbarbazzato; al più vendicavano detti con detti. Ma lo scrivere de’ morti, che non s’odiano nè amano più, nè vietato nè biasimato fu unque. Vo io forse con Cassio e Bruto armati, nei Filippi, a infiammare il popolo a guerra civile? Settanta anni fa moriro; e pur son lasciate riconoscere le loro effige nelle statue salvate, eziandio dal vincitore, e parte de’ loro fatti nelle memorie delli scrittori. L’età che succede rende a ciascuno il suo onore. Nè perchè io sia condannato, mancherà chi ricordi e Bruto e Cassio, e me ancora.„ Uscì di senato, e morì per digiuno. I Padri ordinaro che gli edili ardessero i libri. Ma furon salvati, nascosi, e poi dati fuore. Onde mi rido del poco accorgere di chi crede che i principi possan levar le memorie a’ posteri col punire gl’ingegni; anzi dan loro più credito; nè altro hanno i re stranieri, o altri per tal severità, partorito che a sè vergogna e a quei gloria.

XXXVI. Fioccarono in questo anno tante le cause, che fatto Druso di Roma governatore, venuto per le ferie latine in tribunale, per dare in buon punto principio, Calpurnio Salviano gli venne innanzi contro a Sesto Mario; ma biasimatone in pubblico da Cesare, fu mandato in esilio. I Ciziceni imputati di aver trascurata l’uficiatura del divino Augusto, e soperchiato cittadini romani, ne perdero la libertà guadagnata nell’assedio di Mitridate, cacciato non [p. 205 modifica]meno per loro sofferenza, che per soccorso di Lucullo. Fonteio Capitone, stato viceconsolo in Asia, fu assoluto dalle accuse, riuscite false, di Vibio Sereno, il quale non pati perchè ognun l’odiava, e perchè le spie grosse erano sagresante, e la pena era fatta per le minute28.

XXXVII. In questo tempo la Spagna di là mandò ambasciadori al senato a chieder licenza di fare, come l’Asia, tempio a Tiberio, e alla madre. Egli non si curava di questi onori: e per rispondere a certi, che ’l diceano diventato vano, così cominciò: „Io so, Padri coscritti29, che molti mi tengono di poca fermezza, perchè io alle città dell’Asia, dianai questo medesimo domandanti, non contraddissi. Dirovvi la cagione perchè tacqui allora e l’animo mio per l’avvenire. Non avendo il divino Augusto disdetto il rizzar tempio in Pergamo a lui e alla città di Roma, io, perchè ogni suo detto e fatto m’è legge, seguitai l’esempio, e volentieri, perchè al mio divino onore era congiunta la venerazion del senato. L’averlo accettato una volta mi si può perdonare; ma il farmi per ogni provincia sagrare immagini e adorare, sarebbe ambizione e superbia: e l’onore d’Augusto avvilirà se adulazione il divolga.

XXXVIII. Io sono uomo, e fo e vivo, come gli altri uomini: e ’l soddisfare al grado in ch’io sono, mi basta. Siatemene testimoni voi, Padri coscritti, e sappianlo le genti avvenire; le quali onoreranno pure [p. 206 modifica]assai la mia memoria se crederanno che io sia stato degno de’ miei maggiori, alle cose vostre ben provvedente, ne’ pericoli forte, e d’offender chi si sia, per lo ben pubblico, non curante. Questi saranno i miei tempj negli animi vostri; questi l’effigie bellissime, o da durare. Le opere di sasso, se chi vien dopo le guarda con occhi torti, son sepolture che fetono. Piaccia a tutti i nostri allegati e cittadini e Dii: a questi, mentre avrò vita, concedermi quiete, e intendimento di ragione romana e divina; a quelli, dopo mia morte, con laudi e benigne ricordazioni favorire i fatti e la fama del nome mio.„ Seguitò ne’ suoi privati ragionari ancora dì rifiutare simili adoramenti. Chi diceva, per modestia, molti per diffidare della durata, altri per viltà. Aspirano i mortali generosissimi alle cose altissime; così Ercole e Bacco, appo i Greci, Quirino appo noi, furono fatti Iddii. Meglio fe’ Augusto che lo sperò. Avanzano ai principi tutta le cose; una non deon mai vedersi sazj di procacciarsi, la memoria buona di sé; perchè, spregiando fama, si spregia virtù.

XXXIX. Seiano accecato da troppa fortuna, e riscaldato da Livia del maritaggio promesso, scrisse al principe, benché presente, come s’usava, una lettera così compilata: „La benevolenza d’Augusto, e li molti favori di Tiberio averlo avvezzato a dire i suoi desideri a’ suoi signori sì tosto come agl’Iddii; non aver mai ambito abbagliamento di onori; vegliato, anzi faticato, per l’imperadore, come uno degli altri soldati; e nondimeno conseguito gran cosa, d’esser parente di Cesare. Quinci venirgli speranza; e sappiendo che Augusto nel rimaritar la figliuola ebbe animo a’ cavalieri romani, caso che Livia si dovesse [p. 207 modifica]rimaritare, ricordassesi dell’amico. E basterebbegli, senza lasciar suo grado nè ufficio, la gloria del parentado, e dalle inique malevoglienze d’Agrippina assicurare i figliuoli; chè, quanto a sè, gli sarà d’avanzo aver terminato la vita al servigio d’un tanto principe.„

XL. Tiberio gli rispose: Lodò la sua divozione, toccò de’ benefici fattigli; e prese tempo a pensarvi: il che fatto, riscrisse: „Gli altri uomini guardare a quello che fa per loro; a’ prìncipi non convenire, ma il primo occhio avere alla fama: però seco non se ne spaccerebbe di leggieri, come potria riscrivendo; poter essa Livia risolvere, se maritarsi dopo Druso le par meglio che vedova nella medesima casa quietare; aver madre e àvola proprie consigliere. Ma gli direbbe sinceramente: prima, che la più nimicizia d’Agrippina leverebbe più fiamma se Livia, maritandosi, quasi dividesse la casa de’ Cesari. Scoppiar le gare tra queste donne pur così: dimembrare queste discordie i suoi nipoti: che sarebbe, se questo matrimonio appiccasse maggiore zuffa? Perchè, Seiano, tu l’erri se credi poterti star ne’ tuoi panni, e che Livia, stata moglie d’un Caio Cesare, e poi d’un Druso, voglia invecchiare cavalieressa romana. Quando io il passi, credi tu che stian forti quei che hanno veduto il fratel di lei, e ’l padre, e i nostri passati ne’ sommi imperi? Tu lo di’ tu che vi ti starai; ma que’ magistrati, que’grandi che entrano contro tua voglia, e d’ogni cosa dicon la loro, sanno molto ben dire, che egli è un pezzo ehe tu uscisti di cavaliere, e che mio padre non alzò mai uno tanto, e me ne biasimano per invidia. Augusto ebbe concetto di dar sua figliuola a cavaliere, è [p. 208 modifica]vero, perch’ei pensava a ogni cosa; e vedendo quanto chi la togliesse s’alzasse, ragionò di Proculeio o di altri quieti e non curanti di stato. Ma guardisi quel che ei fece: la diede a Marco Agrippa, e poi a me. Mi ti sono aperto come amico, nè mi opporrò ai disegni tuoi e di Livia. Quello che ho pensato io, di come ancor più stretto interassarmiti, per ora non dico bastiti, che altezza non è che da coteste virtù e animo verso di me, non sia meritata; e con l’occasioni in senato e al popolo ne farò fede„.

XLI. Seiano non più del matrimonio, ma più alto temendo, de’ sospetti, del grido del popolo e della invidia si raccomandò; e, perchè serrando la porta a tanti che venivano a corteggiarlo si toglieva la potenza, e, aprendola, dava alle lingue che dire, prese a persuadere Tiberio che vivesse fuori di Roma in luoghi ameni, vedendovi molti vantaggi per sè. „Sarebbe padrone dell’udienze, e delle lettere, portandole i soldati: Cesare già vecchio, in quella ritirata impigrito, lascerebbe fare a lui ogni cosa; scemerebbe la invidia di tanta turba salutatrice; mancherebbe vanità, e crescerebbe vera potenza.„ Cominciò adunque a dire: „Che si levasse tanti negozi della città, tanta calca e tempesta di popolo, a celebrare la quiete e la solitudine, ove farebbe senza fastidi e dispetti le cose più importanti.„

XLII. Abbattessi in que’dì il giudizio di Vozieno Montano, uomo di grand’ingegno, a far risolvere Tiberio già piegato, a non voler più veder Padri, nè sentirsi rinfacciare sue vergogne e veri vituperi. Vozieno ebbe querela di satira fatta contr’a Cesare. Emilio soldato testimoniava tutte quelle brutture di gran volontà; eragli dato in su la voce, ed ei le pur [p. 209 modifica]fornì. Così Tiberio udì sue vergogne, con tale scandalezzo, che gridò volerle purgare allora in giudizio: e a pena gli amici pregando, tutti adulando, l’acquetarono. Vozieno ebbe pena di lesa maestà. E sentendo Cesare dirsi troppo crudo nel punire, più s’accanì; e avendo Lentulo Getulico, disegnato consolo, dannato Aquilia adultera con Vario Ligure, nella legge Giulia, nell’esilio la dannò, e rase del senato Apidio Merula, per giuramento non dato ad Augusto.

XLIII. Udirsi gli ambasciadori de’ Lacedemoni e de’ Messenj, che litigavano il tempio di Diana Linnate30, i Lacedemoni lo provavano per storici e poeti, fatto da’ lor maggiori nella lor terra; ma tolto in guerra da Filippo di Macedonia; e per sentenze di C. Cesare e di Marcantonio riavuto. In contrario, i Messenj mostraron carta antica del Peloponneso, diviso tra i discesi d’Ercole, come il tenitorio d’Elea, dove il tempio era, toccò a Pentilo re loro, e ce n’erano memorie in marmi e bronzi antichi. Volendo testimoni di storie e versi, a loro n’avanzarono; averlo Filippo, non di potenza, ma di ragione, aggiudicato. Antigono re, e Mummio generale confermato; così i Milesi per pubblico compromesso lodato: in ultimo Atidio Gemino, pretore in Acaia decretato. Giudicossi in favore de’ Messenj. Chiedero i Segestani che ’l tempio di Venere nel monte Elice, per antichità rovinato, si rassettasse, ricordando le sue note origini; e Tiberio ne prese lieto (come di quel sangue31) la cura. A’ preghi de’ Marsiliesi fu approvato che Volcazio Mosco, di Roma bandito e [p. 210 modifica]fatto cittadino di Marsiglia, potesse come sua patria lasciarla reda; sì come Pubblio Rutilio, alsì bandito per legge, ricevuto da Smirna, lei lasciò.

XLIV. Morirono in quest’anno due chiari cittadini, Gn. Lentulo, per la ben tollerata povertà, e poscia lealmente fatta, e parcamente usata ricchezza, oltre al consolato e le trionfali acquistate de’ Getuli; e L. Domizio, per lo padre, nelle guerre civili potente in mare, accostato poi ad Antonio, indi a Cesare. L’avolo morì per li ottimati in Farsaglia; egli fu eletto a marito d’Antonia minore, nata d’Ottavia; poscia con esercito passò l’Albi, e più entro di tutti penetrò la Germania, e n’ebbe le trionfali. Morì ancora L. Antonio di gran chiarezza di sangue, ma sventurata; perchè Augusto punì di morte Giulio Antonio suo padre, adultero di Giulia, e lui, nipote d’Ottavia, mandò giovanetto in Marsiglia, ove sott’ombra di studio, stesse in esilio. Il senato nondimeno gli decretò esequie, e l’ossa ripose tra gli Ottavj.

XLV. In questo anno nella Spagna di qua seguì cosa atroce. Un villano da Termeste uscì addosso per cammino a L. Pisone governatore, che per la pace non si guardava, e diegli ferita mortale. Spronò al bosco, ove lasciato il cavallo, per macchie e burroni, uscì d’occhio a’ perseguenti. Poco gli valse, perchè il cavallo fu ripigliato, e fatto per quei villaggi riconoscere essere il suo, fu preso32, e collato terribilmente per dire i consapevoli. Con voce alta disse in sua lingua: Che e’ perdevano il tempo; [p. 211 modifica]fussero pur' eglino quivi presenti, che per quantunque spasimi nol direbbe33. L’altro dì rimesso in disamina, si scotè da’ fanti di sì gran forza, e sfracellossi in uno stipito il capo, che quivi spirò. Credesi facessero ammazzar Pisone i Termestini, perchè gli scannava con le gravezze.

XLVI. Nel seguente anno, consolato di Lentulo Getulico e C. Calvisio, furon date le trionfali a Poppeo Sabino, per avere rintuzzati i Traci di quelle alte ed aspre montagne, però feroci. Levaro in capo per lor natura, e per non dare il fiore della loro gioventù alla nostra milizia, avvezzi a disubbidire anche i re; o mandare aiuti a lor posta, sotto lor capitani, e in guerre vicine; e allora dicevano, che [p. 212 modifica]sarieno in capo del mondo strascinati, sbrancati, mescolati tra varie genti. Ma prima che pigliar l’arme, ricordarono per ambasciadori la loro amicizia e osservanza, per mantenerle, non gli stuzzicando con carichi nuovi; ma se gli volessero per ischiavi o vinti, aver ferro e gioventù, e cuore da viver liberi o morire; e mostrando in alti greppi loro bicocche, ove messo aveano lor vecchi e mogliere, minacciavan guerra fastidiosa, dura, sanguinosa.

XLVII. Sabino diè buone parole, sino arrivasse Pomponio Labeone con la legione di Mesia e Remetalce co’ Traci suoi, rimasi in fede. Con questo rinforzo n’andò a trovare il nimico già postosi ai passi della boscaglia: alcuni più arditi si vedevano nelle colline scoperte. Il capitano romano le sali, e caccionneli agevolmente con poco lor sangue, per la ritirata vicina. Quivi s’accampò, e con ottima gente prese la schiena d’un monte piana sino a un castello difeso da molti armati senz’ordine. Contro ai più fieri, che innanzi alle trincee con suoni e cauti danzavano a loro usanza, mandò valenti arcadori, che da discosto diedon molte ferite e franche; appressatisi, furon da subita uscita de’ castellani disordinati ma soccorsi dalla coorte Sicambra, la quale il capitano accostò, pronta, nè meno per strepito di canti e d’armi, terribile.

XLVIII. Il campo si pose accanto al nimico, lasciati ne’ vecchi ripari que’ suddetti Traci nostri aiuti con licenza di guastare, ardere, rubare sino a sera; ma la notte stessonvi desti e in guardia. Così fecero dapprima; poi datisi ai piaceri34, e di preda [p. 213 modifica]arricchiti, laecian lor poste, tuffansi nelle vivande, nel vino e nel sonno. I nemici veduta lor tracutaggine, fanno due schiere, per assalire una i saccheggianti, e l’altra il campo romano; non per pigliare, ma perchè ciascuno per le grida e armi al pericolo suo badando, non sentisse dell’altra zuffa il rumore: e andaron di netto per più spavento. Gli assalti romani gli scacciarono di leggiere; gli aiuti Traci, spaventati dal subito assalto, e trovati chi dentro a poltrire, chi fuori a rubare, furono ammazzati con rabbia, e rimproccio di fuggitivi, di traditori, prenditori d’arme per fare schiavi sè e la patria.

XLIX. L’altro giorno Sabino si presentò in un piano con l’esercito, se forse i Barbari per l’orgoglio di quella notte li annasassero. Non uscendo essi del castello e suoi congiunti monti, cominciò assediarli con bertesche ben munite, e quattro miglia intorno gli affossò e trinceò; e per tor loro acqua e pastura, a poco a poco il chiuso ristrinse; e un battifolle rizzò già vicino al nimico, per batterlo con sassi, dardi e fuochi. Ma sopra tutto gli consumava la sete, essendo a tanta gente utile e disutile, una sola fonte rimasa; i cavalli e gli armenti con loro, a loro usanza, rinchiusi senza pasciona, morieno: giacieno i corpi degli uomini morti di ferite o di sete. Di sangue puzzo e morbo ogni cosa fetea, e v’entrò la discordia, nelle avversitadi suggello di tutti i mali; volendo chi darsi, chi l’un l’altro uccidersi; i [p. 214 modifica]migliori (benché diversi nel modo), uscir fuori e morir vendicati.

L. Ma Dinis, capitano vecchio, per lunga pratica della romana forza e clemenza, consigliava posar l’armi, solo rimedio: e innanzi a tutti s’arrese con la moglie e figliuoli. I deboli per età o sesso, e i più vaghi di vita che di gloria, seguitaron lui; ma la gioventù, Tarsa e Turesi, deliberati ambo di morir liberi. Ma Tarsa, gridando, doversi finirla vita, le speranze e le paure, a un tratto si passò col ferro il petto, nè mancò chi ’l seguitasse. Turesi disegnò co’ suoi uscir fuori la notte. Il nostro capitano il seppe, e raddoppiò le guardie. La notte tempestosa terribilmente, e loro grida atroci, o silenzio orrendo, tennero gli assedianti sospesi. Sabino attorno andava ricordando: „Non per incerte grida, non per finta quiete si turbassero; non dessero occasione agli inganni: stesse saldo ciascuno a suo uficiò: non lanciassero a voto„.

LI. Eccoti a corsa frotte di Barbari con gran sassi, pali abbronzati, e pedali di querce, dare nello steccato; riempiere i fossi di fascine, di vinchi, di cadaveri: ponti e scale aggiustate, appoggiate a’ inpari: quelli prendere, giù tirare, sù salire, i difenditori spignere. Essi, per contra, li ripignevano, ammazzavano, precipitavano, con targate, lanciottate, sassi e cantoni. Accendeva questi la vittoria in pugno, e la vergogna, che sarebbe di tanto maggiore; quelli, la loro ultima salute, e la presenza e i pianti di loro madri e mogli. La notte dava a chi cuore, a chi timore; colpi sprovveduti venivano e andavano, senza sapersi onde, nè dove: nè amici da nimici discernere. I monti faceano eco alle grida dei nimici a [p. 215 modifica]dirimpetto, che parendo alle spalle comparsi, spaventarono in guisa, che alcuni Romani abbandonarono le trincee, credendole sforzate. Pochi de’ nemici v’entrarono; gli altri morti o feriti i migliori. All’alba furon ripinti suso al castello, che s’ebbe a forza, e i suoi contorni d’accordo: il difese da sforzo o assedio, l’avacciato e crudo gielo del monte Emo.

LII. In Roma, essendo la casa del principe in trambusto, per ordire ad Agrippina la morte, Claudia Pulcra sua cugina da Domizio Afro, di fresco stato pretore, poco noto e frettoloso di farsi per ogni via, fu accusata d’adulterio con Furnio, di veleno contr’al principe e d’incantesimi. Agrippina sempre feroce, e allora infocata per lo pericolo della cugina, ne va a Tiberio, che appunto sacrificava al padre. Quinci mordendolo disse: „Che vale offerir sangue di bestie ad Augusto, chi perseguita il sangue di lui? Quella celeste anima non è scesa in coteste immagini mutole; ma l’immagine vera, nata di celeste sangue, vede i pericoli e sente gli smacchi. Lascia star la Pulcra, che altro peccato non ha che l’essermi divota: nè si ricorda la milensa, che Sosia non per altro capitò male35.„ Tali parole fecero uscir Tiberio, tanto cupo; e ripresela con quel verso greco: „T’adiri chè non regni.„ La Pulcra e Furnio furon dannati: e Afro n’ebbe rinomea tra’ primi oratori: e Tiberio, con l’autorità il confermò. Seguitando l’arte dell’accusare e difendere, acquistò fama di più eloquenza che bontà: [p. 216 modifica]e anche di quella molto perdè nell’ultima vecchiaia, che l’acciaio era logorato, e non sapeva rimanersene.

LIII. Agrippina rodendosi, ammalata e visitata da Cesare, dopo lungo piagnere, e non parlare, lo punse e insieme pregò: „Soccorresse di marito l’abbandonata. Essere ancor fresca donna; le oneste non aver altro conforto; esser nella città36 chi avrebbe di grazia ricevere la moglie e i figliuoli di Germanico:„ Ma Cesare, che intese quanto importassero quelle dimande; per non mostrar paura nè ira, si partì senza risposta, benché molto richiesta. Questo particolare non è negli Annali. Io l’ho trovato nelle memorie che Agrippina sua figliuola, madre di Nerone imperadore, lasciò di sé e de’ suoi.

LIV. Ma Seiano trafisse l’addolorata, e poco accorta, di spina più velenosa; mandò chi l’avverti, quasi per carità, esserle ordinato veleno: non mangiasse col suocero. Ella, che fingere non sapea, cenandogli allato, nulla per cenni o parole pigliava. Tiberio, che se n’avvide, o gli fu detto, per chiarirsene, lodando certe belle frutte, le porse di sua mano alla nuora; la quale tanto più insospettita, le diè senz’assaggiare, a’ sciavi. Tiberio a lei niente; alla madre voltatosi disse: „Dachè ella m’ha per avvelenatore, non si maravigli se io le farò qualche scherzo.„ Quindi si sparse che l’imperadore [p. 217 modifica]cercava farla morire per modo segreto: non ardiva in aperto.

LV. Cesare, per divertire questa voce, era sempre in senato, e molte udienze diede agli oratori dell’Asia, che disputavano qual città dovergli edificare il tempio conceduto. Undici ne gareggiavano con pari ambizione e forze dispari; allegavano quasi eguali antichità di loro nazioni, e servigi fatti al popolo romano nelle guerre di Perse, d’Aristonico e d’altri re; ma gl’Ipepeni, Tralliani, Laodiceni e Magnesi, ne furono rimandati, avendoci poca ragione; gl’Illesi la gloria sola dell’antichità, essendo Troia madre di Roma. Dubitossi alquanto sopra gli Alicarnassini, che da mille dugento anni in qua, tremuoto non avea scosso lor terreno, e fondavano in sasso vivo. A’ Pergameni, l’aver un tempio d’Augusto (che era la loro ragione) parve che dovesse bastare: e che pur troppo occupassero37 l’uficiature d’Apolline i Milesi, di Diana gli Efesj. Il giudizio batteva tra’ Sardiani e gli Smirnesi. Quei [p. 218 modifica]lessero un decreto di Etruria, che gli provava di nostro sangue; che Tirreno e Lido, figliuoli del re Ati, si spartirono la gente moltiplicata; Lido rimase in sua terra, a Tirreno toccò a procacciarsi paese; e l’uno e l’altro pose a sua gente suo nome, quegli in Asia, questi in Italia. Cresciuti di nuovo i Lidi, mandarono uno sciamo in Grecia, dal nome di Pelope appellato. Mostravano ancora lettere d’imperadori; leghe fatte con esso noi nella guerra de’ Macedoni; lor fiumi fertili, aria ottima, ricche terre vicine.

LVI. Gli Smirnesi, ricordata loro antica origine da Tantalo figliuolo di Giove, o da Teseo, divina stirpe anch’egli, o da una Amazzona, passarono all’importanze de’ meriti col popolo romano; mandatogli armate non pure a guerre fatte altrui, ma patite in Italia; fatto tempio alla città di Roma prima degli altri, nel consolato di M. Porcio, quando il popolo romano era grande sì, ma non in questo colmo, stando in piè Cartagine e in Asia possenti re: sovvenuto l’esercito di L. Silla (egli il sa in che periglio) quando di fitto verno, rimaso brullo di vestimenta, avutone l’avviso gli Smirnesi in consiglio, ciascuno si spogliò le sue, e mandaronsi alle legioni abbrìvidate. Richiesti adunque di sentenza, i Padri antiposero gli Smirnesi: e Vibio Marso disse, che M. Lepido, cui toccò quella provincia, s’eleggesse38 un operaio a fare quel tempio, e [p. 219 modifica]ricusandolo per modestia, li si mandò Valerio Naso Pretorio per sorte tratto.

LVII. Allora finalmente Cesare, dopo lungo consiglio e indugio, andò in campagna, in nome di edificar tempj in Capua a Giove, in Nola ad Augusto; ma risoluto di viversi fuor di Roma. Dissi con molti autori, che questa fu arte di Seiano; ma, veduto che ucciso lui, egli stette sei anni in quella solitudine, vo pensando se e’ fu pure suo concetto, per nascondere con le luogora le crudeltà e sporcizie ch’ei pubblicava col farle. Altri credevano, per vergognarsi ancor vecchio del suo brutto corpo lungo, sottile, chinato, calvo; viso chiazzato di margini, e spesse schianze o piastrelli; e anche in Rodi sfuggiva la brigata, e i piaceri nascondeva. Altri dicono, per levarsi dinanzi alla madre insopportabile; chè per compagna nel dominare non la voleva: e cacciare non la poteva, avendo lo imperio da lei; avvegnaché Augusto volesse darlo a Germanico, nipote di sua sorella39, che piaceva a ogn’uno; ma vinto dalle moine della moglie, adottò a sè Tiberio, e a lui Germanico; il che Augusta gli rimproverava, e se ne valeva.

LVIII. Partissi con poca corte; di senatori vi fu solo Cocceo Nerva, stato consolo, in giure ammaestrato: di cavalieri romani di conto, Seiano e Curzio Attico, e altri scienziati, li più greci, per trattenerlo col ragionare. Diceanlo gli strolaghi, partito in punto da non tornare in Roma; che fu rovina di molti, che intendevano e cicalavano che e’ [p. 220 modifica]morrebbe tosto; non potendo antiveder caso sì da non credere, che egli avesse a star fuori a diletto undici anni. Videsi poi quanto l’arte rasenti l’errore e sia scura la verità. Che in Roma non tornerebbe, fu detto bene; ma non veduto, che egli per le ville, presso o lungo il mare, e spesso in su le mura della città, invecchierebbe tanto.

LIX. Un pericolo corse in que’ di, che aggiunse al popolo che dire, e a Tiberio fede di un grande e fermo amore di Seiano. Mangiando alla Spelonca, villa tra ’l mare d’Amucla e i monti di Fondi, in una natural grotta, la sua bocca franò con molti sassi addosso a certi serventi. Fuggirono tutti a spavento. Seiano appuntò ginocchia, capo e mani, e fece sopr’a Cesare di sè arco e riparo40 alla cadente materia; così sospeso il trovarono i soldati corsi in aiuto. Questo caso lo fece maggiore, e ogni rea cosa che ei proponesse gli era creduta come non curante di sè. Facevasi arbitro delle accuse, che egli medesimo, sotto altri nomi, alla casa di Germanico dava; massimamente a Nerone, primo a succedere, giovane modesto, ma non sapea navigare, e li suoi liberti e partigiani, che non vedevan l’ora di farsi grandi, l’aizzavano a farsi vivo, mostrare il dente; così voleva il popol romano; desideravano gli eserciti; nè ardirebbe Seiano guatarlo, che ora della pazienza del vecchio, e della freddezza del giovane si facea giuoco.

LX. Questi curri non lo inducevano a mali pensieri, ma a parole superbe, mal pesate; le quali [p. 221 modifica]essendo da’ raccoglitori a ciò tenuti, riportate maggiori, e Nerone non lascialo scusarsene, partorivano vari fastidi. Chi lo scantonava, chi renduto il saluto fuggiva, chi tagliava i ragionamenti; fermandosene per contro in faccia, e ridendosene, i Seianesi. Tacesse o parlasse il giovane, facea male; Tiberio sempre il guardava con cipiglio o ghigno falso. Non era sicuro anco la notte, perchè la moglie rificcava a Livia sua madre, quanto egli aveva dormito, vegghlato, sospirato, ed ella a Seiano; il quale tirò dal suo anche Druso fratel di Nerone, con la speranza del primo luogo, se a costui, che gli era innanzi, e già barcollava, desse la pinta. L’alterezza di Druso, oltre alla cupidigia del regnare, e l’odio solito tra’ fratelli, era riacceso da invidia che Agrippina voleva meglio a Nerone; nè Sciano aiutava sì Druso, ch’ei non tendesse rete anco a lui, atto a farvi maggior sacco, come bestiale.

LXI. Al fine dell’anno morirono due segnalati uomini, Asinio Agrippa, d’antenati più chiari che antichi, e di vita non tralignante; e Quinto Aterio senatore, e dicitor celebrato in vita. Gli scritti non sono di quella stima, perchè aveva più vena che diligenza. Ma dove squisitezza e fatica agli altri dà vita, quel suo risonante fiume41 finì seco. [p. 222 modifica]

LXII. Nel consolato di M. Licinio e L. Calpurnio avvenne caso repentino, pari alle sconfitte delle gran guerre: ebbe insieme principio e fine. A Fidene, un certo Atilio, libertino, prese a celebrare lo spettacolo degli accoltellanti, e fece di legname l’anfiteatro male fondato di sotto e peggio incatenato di sopra; come colui, che tal negozio cercò, non per grassezza di danari, nè per boria castellana, ma per bottega. Roma era vicina, e Tiberio non la festeggiava. Per ciò vi corse popolo infinito, d’ogni età e sesso, avido di vedere; onde fu maggiore il flagello. La macchina, caricata si spaccò, e rovinando fuori e dentro, gl’infiniti spettatori seco trasse e i circostanti schiacciò. Morirono questi almeno senza martìro; più miserandi erano gli storpiati, che di dì vedevano e di notte udivano lor mogli e figliuoli urlare e piagnere. Corse chiunque [p. 223 modifica]potè al romore; chi padre e madre, chi fratello o parente o amico piangea; e di qualunque per altro non si rivedeva, si stava con tremito tanto maggiore, quanto più incerto, sin fu chiaro cui la rovina cogliesse.

LXIII. Scoprendosi quelle rovine ciascun correva a baciare, abbracciare i morti suoi: e bene spesso, se per viso infranto, età o fattezze, nel riconoscerli erravano, ne combattieno. Cinquantamila persone vi furono, che sfragellate, che guaste. Il senato proibì tal festa farsi per innanzi da chi avesse meno di diecimila fiorini d’oro; nè teatro fondarsi se non in ben tastato suolo. Atilio fu mandato in esiglio42. Tennero i grandi ne’ primi giorni le case aperte piene di medici e d’unguenti. La città mesta pareva quella de’ tempi antichi dopo le grosse giornate, quando erano i feriti con gran carità e sollecitudine governati.

LXIV. Non erano asciutte le lagrime, che Monte Celio arse, e alterò più che mal la città: „Pistolente anno, dicevano, questo essere, e dal principe in mal punto preso consiglio di star fuori della città;„ de’ casi di fortuna, come fa il volgo, incolpandolo. Ma egli valutò e pagò i danni; e con tal pasto gittate in gola43 a Cerbero, lo racchetò. [p. 224 modifica]I grandi in senato, il popolo a una boce lo ringraziarono di tanta carità senza ambizione, mezzi o preghi, usata eziandio a i non couoseiuti e mandati a chiamare. Furono i pareri che Monte Celio per innanzi si dicesse Augusto; poiché quando in casa Giunio senatore, ogni cosa d’intorno ardea, l’immagine di Tiberio sola non fu tocca; così due volte avvenne già a quella di Claudia Quinta; perciò consagrata da’ nostri antichi nel tempio della madre degl’Iddii. „Santi, e dagl’Iddii amati, dicevano i Claudj essere: doversi quel luogo, ove gl’Iddii tanto onorarono il principe, solennizzare.„

LXV. Quel monte (poiché ci viene a proposito) si disse per antico Quercetolano, perché di querce pieno era e fertile. Fu poi detto Celio da Cele Vibenna, capitano delli Etruschi, che venuto in aiuto di Tarquinio Prisco, o d’altro re (nel che solo discordano gli scrittori), quivi con la sua molta gente s’accasò, e nel piano ancora, e presso al fòro, e fu dal vocabolo forestiero detto quel borgo; Toscano.

LXVI. Se l’amorevolezze de’ grandi e la liberalità del principe diedono a quei casi conforto, la pestilenza dell’accuse ogni di più, senza alleviamento, fioccava e incrudeliva. Domizio Afro, condannatore di Claudia Pulcra, madre di Varo Quintilio, ricco e parente di Cesare, investì anche lui. Che costui [p. 225 modifica]morto gran tempo di fame, e testé di quest’arte arricchito e scialacquante, la seguitasse, non fu miracolo; ben fu, che compagno alla spiagione gli fosse Publio Dolabella, di chiara famiglia, parente stretto di Varo, disperdesse la sua nobiltà, il suo sangue. Il senato volle che si aspettasse l’imperadore, unico soprattieni agli urgenti mali.

LXVII. Avendo Cesare dedicato in campagna i tempj, e bandito che niuno gli rompesse la sua quiete, e posto le guardie che non lasciasson passare chi venia; odiando e terre e colonie, e ciò ch’è in terra ferma, si rinchiuse nell’isola di Capri, tre miglia oltre al Capo di Sorrento. Dovette piacergli, per essere solitaria, e senza porti: appena potervisi accostare navili piccoli, nè alcuno di nascosto approdarvi: d’aria il verno dolce, per lo monta che le ripara i venti crudi: volta per la state a ponente, con amena vista del mare aperto, e della costa bellissima, non ancora difformata da’ fuochi del Vesuvio. Dicesi che la tennero i Greci, e Capri i Teleboi. Starasi allora Tiberio intorno agli edifizj e a’ nomi di dodici ville. E quanto già alle cure pubbliche inteso, tanto ivi in tristo, ozio e libidini occulte invasato: e nella folle credenza de’ sospetti, che Seiano in Roma faceva attizzando avvampare, e qui levar fiamma con insidie già scoperte contro a Nerone e Agrippina; tenendo soldati a scrivere quasi in annali ogni lor andamento, fatto e detto, aperto e segreto: e falsi consigliatori a fuggirsene in Germania agli eserciti o alta statua d’Augusto, a piazza piena, e abbracciarla, e gridare: »Accorrete, buona gente, accorri senato: aiutateci;" e tali cose da loro abborrite, rapportavano per ordinate. [p. 226 modifica]

LXVIII. Brutto capo d’anno fece il consolato di Giunio Silano e Silio Nerva, avendo strascinato in carcere Tizio Sabino, illustre cavalier romano, perchè fu amico di Germanico, e seguitava d’esser divoto alla moglie e figliuoli; e far loro corte fuori, servigi in casa, solo tra tanti obbligati; però lodato da’ buoni, odioso a’ contrari. Lo assalsero Latino Laziare, Porcio Catone, Petilio Ruffo, e M. Opsio, stati pretori, e bramosi del consolato, al quale non si entrava se non per la porta di Seiano, che non s’apriva per bontadi. Convennero che Laziare, bazzica di Sabino, fosse lo schiamazzo, e gli altri il vischio. Ei ragionò seco di varie cose; poi cadde in lodarlo di fermo animo, che non aveva, come gli altri, servita quella casa nella felicità, piantata nelle miserie; e in onore di Germanico, e compianto d’Agrippina, molto disse. Le lagrime a Sabino (come i miseri inteneriscono) grondarono con lamenti; e già, preso animo, la crudeltà, la superbia, i disegni di Seiano proverbiò; nè la risparmiò a Tiberio, parendo di vera amistà segno il discredersi di cose sì gelose. Onde Sabino già da sè stesso cercava di Laziare: trovavalo a casa; aprivagli, come a suo cuore, i suoi guai.

LXIX. I prod’uomini consultano, come e dove potergli far dire tali cose a quattr’occhi, e più orecchi: e perchè dietro all’uscio potevano esser per isciagura scoperti, o far romore o dar sospetto, sofficcansi i tre senatori, con laido non meno che traditore nascondiglio, tra ’l tetto e ’l soppalco44, [p. 227 modifica]e pongon l’orecchio a’ buchi, a’ fessi. Laziare esce fuori, trova Sabino, dicegli, avergli da dire; menalo in casa, tiralo in camera, ricordagli cose passate e presenti (chè troppe ve n’avea), e mettegli paure nuove. Esso ridice le medesime, e più non sapendo chi entra nei suoi affanni, finare. Corrono a metter la querela; scrivono a Cesare l’ordine dello inganno e lor vituperio. Roma non fu mai si ansia, spaventata, guardinga, eziandio da’ suoi medesimi; fuggivano i ritruovi45, i cerchi e qualunque orecchio; le cose ancor senza lingua e senz’anima, tetta e mura e lastre, eran guardate intorno se vi dormisse lo scarpione.

LXX. Cesare nelle calende di gennaio, per una lettera a Padri, dato prima il buon capo d’anno, disse che Sabino aveva corrotto certi liberti contro [p. 228 modifica]a sua persona; che voleva dire: „Sentenziatelo a morte;„ e così fu incontanente. Menato a morire gridava quanto n’aveva nella gola, benché imbavagliato: „Così si celebra capo d’anno: queste vittime s’ammazzano a Seiano.„ Ovunque dirizzava occhio o parola, faceva spulezzare46, sparire, votar le vie, le piazze: e tale tornava a farsi rivedere, per tema d’aver temuto. „Tiberio non ha inteso tirarsi tant’odio addosso; ben ci ha chi ha voluto mostrare che i magistrati nuovi si posson cominciare dalle carceri, come dai tempj e altari. E qual giorno, dicevano, fia scioperato il carnefice, se oggi tra i sagrificj e l’orazioni, che non si suol dire parola mondana, s’adoperano le manette e i capestri?„ Per altra lettera ringraziò dell’avere spento quel nimico della repubblica; e soggiunse, che viveva con pericolo dubitava d’agguati di suoi nimici, senza nominarli. Ma s’intendeva Nerone e Agrippina.

LXXI. Se io non avessi deliberato di narrare ciascheduna cosa pel suo anno, volontieri qui direi la fine di Latinio e d’Opsio, e di quegli altri ribaldi, non pure imperante C. Cesare, ma Tiberio medesimo; il quale non volle mai che niuno toccasse i ministri delle sue scellerità; ma sempre ch’ei ne fu stucco si servì de’ nuovi, e i vecchi noiosi si tolse dinanzi. Diremo adunque’ a’lor luoghi le lor pene. Allora Asinio Gallo, benché cognato d’Agrippina47, [p. 229 modifica]pronunziò doversi chiedere a Tiberio che chiarisse di chi egli temerà, e lasciasse fare a loro. Non ebbe Tiberio virtù (secondo lui) sì amica come l’infìngere; però gli seppe agro quel ch’ei copriva, scoprirsi. Ma Seiano il mitigò; non per giovare a Gallo ma perchè il principe desse fuori mai più que’ nomi; sapendo con che tuoni e folgori di parole e fatti, da quel nugoloso petto scoppierebbe la sobbollita ira. In questo tempo mori Giulia nipote d’Augusto, da lui per adultéro dannata all’isola di Tremiti, vicino alla costa di Puglia, dove venti anni visse alla mercè d’Augusta; la quale spense in occulto i figliastri felici, e mostrò in pubblico a’ miseri misericordia.

LXXII. Nel medesimo anno i Frisoni, popoli oltre al Reno, ruppero la pace, più per nostra avarizia che per loro tracotanza. Druso pose loro un tributo piccolo, secondo loro povertà, di cuoia bovine per bisogno de’ soldati a grossezza o misura non si guardava. Olennio soldato primipilo loro governatore, scelse alcune pelli d’uri48, e volevale a quel ragguaglio. Era duro a tutte nazioni, ma più ai Germani, che grandi bestie hanno ne’ loro boschi, ma pochi armenti alle case. Davano dapprima essi buoi, poscia i campi, indi le mogli, e’ figliuoli al servigio. Quinci le doglienze e le grida; e non giovando, la guerra. Furono i riscotitorì rapiti e crocifissi. [p. 230 modifica]Olennio si fuggito nella fortezza di Flevo; guardando nostra gente, non poca, quelle marine.

LXXIII. A tale avviso L. Apronio, vicepretore della Germania bassa, chiamò dall’alta più compagnie di legioni: un fiore di fanti e cavalli d’aiuto: e l’uno e l’altro esercito per lo Reno messe in Frisia. Lasciato quell’assedio, i ribelli andaro a difendere casa loro. Sopra i primi stagni Apronio fece argini e ponti per passare gli armati; e trovato il guado, mandò la banda de’ cavalli Caninefati, e tutta la fanteria germana, che serviva noi, alle spalle dei nimici: i quali già ordinati, ruppero que’ cavalli, e li nostrali mandati a soccorrerli. Allora vi spinse tre coorti leggiere, e poi due: indi a poco più cavalli, che tutti insieme avrien vinto; ma i pochi per volta non giovavano ai fuggenti, che se ne li traportavano. Il resto degli aiuti ebbe Cetego Labeone, Legato della legion quinta; il quale vedutigli a mal termine, e dubitando, mandò a chiedere aiuto di legioni. Avventansi primieri i Quintani: e con fiera battaglia rompono il nimico, e riscuotono le coorti e bande; piene di ferite. Il capitan romano non ne fe’ vendetta, nè i morti seppellì; quantunque molti ve ne fosser tribuni, luogotenenti e segnalati capitani. Poscia s’intese da’ fuggiti, esser morti novecento Romani nella selva di Baduenna, combattendo sino all’altro dì: e quattrocento ritirati in una villa di Cruttorice, già nostro soldato, per tema di tradigione essersi ammazzati l’un l’altro.

LXXIV. I Frisoni ne saliro in gran fama tra’ Germani. Tiberio frodava il male per non commettere questa guerra ad alcuno, e ’l senato non si curava che l’orlo dell’imperio patisse vergogna. Paura [p. 231 modifica]interna gli tribolava, a cui si cercava rimedio con l’adulare. Per ogni cosa che si trattassi, deliberavano altari alla Clemenza, altari all’Amicizia, immagini a Cesare e Seiano, supplicandoli che si lasciassero vedere. Troppo era venire in Roma o vicino; bastò uscire dell’isola, e mostrarsi presso a Capua. Là Padri, là cavalieri e molta plebe, corsero affannati per veder Seiano: cosa ardua, ambita con favori e con farsi compagno alle scelleratezze, fasto senza dubbio gli accrebbe quel brutto servaggio, apparso molto più quivi; perchè in Roma le strade corrono, la città è grande, non si sanno i negozi. Quivi per i campi e lito, tutti a un modo giacieno dì e notte, aspettando a discrezione de’ portieri: e questo anche vietato, tornaronsi a Roma sbaldanziti, cui non degnò udire, nè vedere: altri con baldanza infelice di quell’amicizia, cui soprastava rovina.

LXXV. Tiberio fece sposare in sua presenza Agrippina di Germanico sua nipote, a Gn. Domizio, e le nozze farne in Roma. In Domizio, oltre all’antichità della famiglia, piacque l’esser parente de’ Cesari, essendogli avola Ottavia, e per lei zio Augusto.

fine del libro quarto.

  1. Leggo caeptaverit, non captaverit. Non l’ebbe, perchè Tiberio lo estinse, ma la cominciò, e a tal grandezza venne, che già era chiamato imperadore; e Tiberio podestà di quell’Isole.
  2. Al pari dell’aquile e dell’Insegne, nel luogo detto Principia, dove era franchigia e adorazione.
  3. Da portar arme al tempo di Claudio fu fatto rassegna in Roma d’un milione e settecentonovanzettemila, dice il marino aulico descritto così nel libro degli Epigrammi antichi, stampato dall’Accademia di Roma nel 1521 a’ 24.
    TEMPORIBVS CLAVDIl TIBERII FACTA HOMINVM ARMIGERORVM OSTENTATIONE ROMAE SEPTIES DECIES CENTENA MILLIA LXXXXVII. MIL. il qual marmo il Lipsio a carte 309 dispregia molto nel libro XI di questi Annali, dove si pone la descrizione di tutti i cittadini romani ascendente a sette milioni quarantaquattro mila.
  4. Traeva, diciamo noi, il pane con la balestra. Vedi la postilla del primo libro, §. LXXV.
  5. Le metafore nel favellare sono stelle che scintillano. Il nostro volgare n’è pieno e felice. E perchè chiuder loro la porta a entrare nelle nobili scritture, per dire, la Fabbrica non le ha trovate nelli scrittori? Aprasi a questa de’ pulcini, che pone innanzi agli occhi l’età non capace di regnare di que’ binati di quattro anni; d’altra maniera, che quel rudem adhuc nepotum, cioè habentem nepotes rudes regnandi. Uno di que’ tacitismi che l’Alciato nella Pistola della Storia del Giovio chiama senticeta. Prunaie veramente che s’attaccano a’ panni, e ratteugono e affaticano il leggitore. Con questa metafora il parlare è affettuoso, breve e chiaro; e non so che la metafora faccia bassezza, anzi mostra destrezza d’ingegno in trovare il simile nel dissimile.
  6. Ahi gattone! tanto in odio la casa di Germanico hai, e queste lustre mi fai.
  7. Quanto meglio del latino?
  8. Leggo atrocitatem morum. Può stare ancora temporum, per mitigare l’insolenze de’ viceconsoli.
  9. Così nel Boccaccio il conte d’Anguersa per non esser conosciuto e ammazzato per la taglia della reina di Francia, tapinò per lo mondo a guisa di paltoniere. La crudel prigionia e morte di Sempronio, padre di questo Gracco, si narra nel primo libro.
  10. Come tutti i grandi: gli altri non portavan perìcolo sì al sicuro.
  11. O Zanni o Ciccantoni, che come gli antichi Osci e Atellani, ancora oggi con goffissima lingua bergamasca o norcina, e con detti e gesti sporchi, e novissimi, fanno arte del far rìdere e corrompere la gioventù; e non sono da’ Cristiani, come allora da’ Gentili, cacciati via.
  12. Di questa antichità vedi Boezio nella Topica di Cicerone; e il Lipsio sopra questo luogo, al solito diligente e dotto.
  13. Perciò fugge il fallito, benché accordato, la faccia del creditore; e lo scampato dallo affogare non può vedere lo scampatore, per primo moto e impeto di natura. Nè il ministro del proprio malefìcio si può patir di vedere; perchè lo ricorda, rimprovera, come Aniceto a Nerone, la morte della madre.
  14. Usata come a 70 della quale Tiberio, domandato suo parere, non tenne conto, e nutrì la guerra.
  15. Cioè, da Augusto. V. Prefaz. del tradutt. di Brotier.
  16. La seconda dovette essere, quando fece accusar di giacimento con la figliuola Sesto Mario spagnuolo, adocchiando la sua sfondolata ricchezza e quelle cave dell’oro; come a 117. La terza un poco bigerognola, quando raschiò il testamento di sua madre, che lasciava a Sergio Galba, che poi fu imperadore, Quingenties H-S. che voleva dire milione uno e un quarto d’oro. La qual somma colui che rogò, non compitò, ma scrisse per loro abbaco. Io, e Tiberio gli raschiò il corpo, e fecene un L che diceva Quinquagies; levonne a modo nostro un zero. Suetonio in Galba al quinto. Altri dicono che la scrìtto era Quin. H-S. che potendo dire Quinquagies come Quingenties Tiberio lo intese a suo vantaggio per Quinquagias, cioè cento venticinquemila fìorini, legato meschino alla grandezza d’Augusta e di Galba; e anche, non l’ebbe. La quarta diligenza era forse il lasciare empire le spugne dei suoi ministri per premerle, come dice la postilla del primo libro, LXXIX.
  17. Mecenate e Salustio non si mantennero, e Agricola ancora; e Dione, lib 49 mostra come sia da procedere coi prìncipi.
  18. Quando un senatore aveva detto la sua sentenza, se, oltre alle ragioni, giurava che così credeva esser utile alla repubblica, questo si chiamava giudizio giurato: era creduto; e giuratasi in questa forma: Se io così credo, vengami ogni bene; SI SCIENS FALLO TVM ME DIESPITER BONIS DEIICIAT VT EGO HVNC LAPIDEM DEIIGIO. Con tal giuramento cominciò poi tutto il senato a fare alcuni decreti, per dare loro più forza. Tito Livio nel libro 40 dice che L. Petilio libraio divegliendo un suo campo, vi trovò libri di Numa, dove si disputava dell'autorità del pontefice. Il governator di Roma gli lesse, e giurò giudicarli di scandolo alla religione. Onde furono in pubblico arsi; ma prima stimati e pagati a Petilio.
  19. Questo concetto, per queste fiorentinità, num nam melius, che il latino, che è alla comune?
  20. Dal Greco ταράσσω Teocrito ne’Dioscuri dice che Amico re de’ Bebrici tacendo con Polluce alle pugna col cesto, te lo tartassava, tanfanava, zombava, conciava male. τόν μέν άναξ έχάραξεν; secondo che legge lo Stefani.
  21. Leggo deletis; non delectis o dilectis.
  22. I doni piccioli de’ principi grandi, come questi, e oggi Rosa, Tosone, Gerrettiera e simili, son grandi onori e favori.
  23. In carcere, in cassa di rovere lasciavan morire i brutti scelerati, o li precipitavano dal Sasso tarpeo; e li parricidi cucivano in otro con serpe, scimia e gallo, e gittavano in fiume o in mare. Vedi la postilla del 6 Lb. S. III.
  24. Lo re delle api è senza pungiglione, perchè natura non volle che fosse crudele. Tribuni di soldati si ciguevano il parazonio, che era spada senza punta; perchè non ammazzassino, ma correggessero i loro soldati.
  25. L’Autore nel sedicesimo di questi Annali del suo contare troppo spesse rovine di grandi ne’ medesimi modi, con loro viltà stomachevoli, fa scusa piacevole: Che questa menzione del fatto loro, era l’onoranza e la pompa dell’esequie che loro si venivano, come a grandi, delle quali si vantaggiano dagli altri uomini.
  26. Leggo monitus, non motus. Aristotile nel i delle Parti degli animali, cap. 5, dice che nella natura non è cosa sì vile che non vi siano maraviglie da specolare; e condisce questa sua massima con un bel detto d’Eraclito, il quale ad alcuni che l’aspettavano fuori del fornaio, dove egli si scaldava, disse: Passate; non vi peritate, perchè anche qui abitano gl’Idii. Similmente nelle storie, anche ne’ minuti particalari sono insegnamenti.
  27. È come tagliare l’erbe maligne tra le due terre, che rimettono più rigogliose. Il vero ci ammenda: il falso non fa vergogna; la fa il magistrato, in pubblico, per esempio; e non un poeta in maschera per furore o per odio. Nevio che punse i grandi di Roma, ne fu carcerato Si ridisse con belli versi, e fu liberato. Un altro che con infamia nominò Lucilio in commedia, ne fu assoluto da Caio Celio giudice con dire; E’ si rosecchiano tra lor poetuzzi. L’autor a Erennio.
  28. Ho visto una bella Impresa franzese, che ha un ragnatelo dove i moscherini rimangono, e i mosconi lo sfondano: e dice, Lex exlex.
  29. Puoss’egli mai arrivare alla grandezza e sapienza di questo parlare di Tiberio?
  30. O Linnete: vedi Lipsio, non Limenetide.
  31. I Segeslani si dicevano discesi da Troia come Romani.
  32. Quasi per simil modo s’aggirò quel Poltrot che ammazzò il Duca di Guisa.
  33. Credesi per molti savi e dotti uomini, che il trarre coi tormenti la verità sia cosa non umana, non sicura e dannosa alla repubblica; perchè noi laceriamo i corpi vivi come le fiere, e bene spesso liberiamo il colpevole che può sopportare, e niega la verità; e l’innocente danniamo che mentisce per duolo. Dice Ulpiano che la tortura è prova fallace e pericolosa. E Cicerone in Silla, che in quell’agonia la verità non ha luogo. Perciò i Romani non esaminavano con tormenti le persone libere, ma i loro schiavi; perchè questi erano dalle leggi riputati per niente, e come cadaveri. E noi Cristiani facciamo di noi questo strazio, eziandio dandolo a buon mercato, e alcune volte per cause non degne, non criminali, pecuniarie solamente. Bene il Boccaccio fece a Tedaldo degli Elisei cuosiderare la cieca severità delle leggi e de’ rettori, i quali assai volte, quasi solleciti investigatori del vero, incrudelendo, fanno il falso provare, e sè ministri dicono della giustizia e d’iddio, dove sono della iniquità e del diavolo esecutori. Vedi Anneo Roberto, libro primo, capit. 4 delle Decisioni di Parigi: e la costanza dell’Ancilla esaminata contro la falsa accusa d’Ottavia nel quattordicesimo di questi Annali.
  34. Capti opulentia, ho visto poi che il testo de’ Medici dice, raptis opulenti. Ognun vede quanto meglio. Di non aver durato a riscontrarlo ogni fatica, mi pento: e così mi racconcio, Datisi al piacere, e di prede arricchiti.
  35. Come sopra a 87. Tutte queste parole d’Agrippina pajon più piccanti che le latine.
  36. Di questo luogo disperato traggo per disperazione questo sentimento sino a che meglio si corregga. Il chieder marito Agrippina era un chieder la successione, perchè un marito di sì gran donna non poteva non essere imperadore. Però Tiberio scrive sopra a Seiano, che Augusto ebbe animo di maritar Giuba a Proculeio, giovane posato, da non vi aspirare.
  37. Perciò ha confermato santamente il Concilio di Trento le residenze de’ curati alle lor chiese. Di sopra nel 3 l. s’è detto de’ flamini. In su l’altare consagrato ad Augusto in Aragona essendo nata una palma, gli Aragonesi gli mandarono ambasciadori a rallegrarsi di questo segnale che le sue vittorie erano eterne. Questo è segnale, diss’egli, di quanto voi mi siate divoti, poiché nel mio altare, per non veder mai fuoco nè cenere, nasce la palma.

    Le mura che solieno esser badia,
    Fatte sono spelonche; e le cocolle
    Sacca son piene di farina ria.

    E il nostro poeta piacevole, primo, e sommo in piacevolezza.

    Non che tovaglia, e’ non v’è pur altare.

  38. Non leggo legeretur, perchè sarebbe contro alla storia che il governator dell’Asia fosse eletto operaio d’un tempio: ma, legeret, cioè che egli lo eleggesse.
  39. Germanico d’Antonia minore, d’Ottavia maggiore, di Augusto sorella.
  40. Se questa grotta faceva come quella dì Polidamante, era sepoltura d’ambidue.
  41. Uccella similmente nel fine del i dell’Istorie Galerio Tracalo, che per’empiere gli orecchi del popol valeva un castello. I cemboli senza musica non dovevano gran fatto piacere a Cornelio, che tanto stringava i suoi scritti per aver vita. Dubitasi qual vaglia più, o la natura o la dottrina. Quando si dessero scompagnate del tutto, la natura per sè varrebbe qual cosa; la dottrina niente. Il campo grasso non coltivato produce cose selvagge; il sasso, niente, e non riceve coltura. La natura porge la materia rozza; la dottrina o l’arte le dà la forma. Ma nulla porgendolesi, non ha che formare. E se la natura non comparisce sul campo, l’arte non la può vincere. Unite insieme, vince la più eccipiente. Ambo perfette, fanno perfetta l’opra. Ma nel perfetto dicitore quale ha più parte? In voce, la natura, in carta, la dottrina. La voce con le ragioni aperte, riscaldale dal porgere, muove il popolo, a cui le dotte e sottili sarebbon perdute o sospette. Si come la somma diligenza nel finire le statue o pitture, che veder si deono da lontano, riesce stento e secchezza. La scrittura che si tiene in mano, e si esamina sottilmente dalli scienziati, riesce volgare, e non vive se non vi ha dottrina squisita e fatta, quasi oro brunito, risplendente dalla diligenza e fatica. Queste trovo essere state grandi ne’ grandi scrittori e artisti nobili, avidi e non mai sazi dell’eccelleuza e gloria. Lodovico Cardi, detto il Cigoli, giovane innamoratissimo della pittura, mi pare che li vada molto bene imitando.
  42. Poca pena a strazio di cinquantamila persone.
  43. Con questo ingoffo, era detto più breve, e proprio. Voce fiorentina non goffa, ma composta (cosa rara in volgare) di tre, in gulam offa. Ma l’amor di Dante m’ha fatto quella sua bella similitudine ombreggiare.

    Qual’è quel cane ch’abbaiando agugna,
    E si racqueta poi che ’l pasto morde,
    Che solo a divorarlo intende e pugna;

    Cotai si fecer quelle facce lorde
    Dello Dimonio Cerbero, ch’intruona
    L’anime sì, che esser vorrebber sorde.

    E non credo errare ad aggiugner di mio ornamenti o forze a’ concetti di Cornelio ulcune volte. Vada per quando io lo peggioro.

  44. Di simili tratti si trovano in Tucidide, l. i. Probo in Temistocle, e Pausania. Diodoro, l. 2, Plutarco in Temistocle. Giustino, l. 2. Piero dei Medici nascose dietro al cortinaggio l’ambasciador di Carlo VIII re di Francia, perché udisse quanto gli diceva l’ambasciador di Lodovico Sforza del suo perfìdo animo contra esso re. Non averlo chiamato in Italia per sottoporla a’Franzesi, perpetui nimici, ma perchè contro alli Aragonesi lui aiutasse. Il che fatto, avrebbe modo a farloci rimanere. Così dice la storia di Bernardo Rucellai latina, da Erasmo veduta, e lodata di molta eleganza. E di poi il Giovio nel i libro delle Storie.
  45. Spiritavano anche al tempo d’Augusto di questo medesimo. Valerio Largo accusò e rovinò Cornelio Gallo, suo dimesticissimo, per aver detto male di esso Augusto. Onde Proculeio, ottimo giovane, riscontratolo, si turò il naso e la bocca dicendo: dove costui è, non si può alitare. Un altro l’affrontò con testimoni e notaio, e disse: Conoscimi tu? rispose, No; ed ei soggiunse: Notaio roga, e voi siate testimoni come Valerio non mi conosce: adunque non mi potrà spiare.
  46. Volar via come la pula al vento. E non volete che sì bella metafora popolare entri nelle scritture?
  47. Il Testo dice: De’ cui figliuoli Agrippina era zia; idem per diversa. Ma cognato è più corto e chiaro; perchè zia significa a noi così amita sorella del padre, come matertera della madre. Vipsania moglie di Gallo, e Agrippina erano sorelle nate di Vipsanio Agrippa, e di Giulia figliuola d’Augusto.
  48. Buoi salvatichi, poco minori di liofanti, veloci, terribili, descritti da Cesare nel sesto della Guerra Gallica: detti da όρεων, cioè da’monti, ove stavano.