Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini/Discorso intorno la vita e le opere di Luciano/Capo III. Le opere di Luciano

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Discorso intorno la vita e le opere di Luciano - Capo III. Le opere di Luciano

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CAPO TERZO.

LE OPERE DI LUCIANO.


XXXIX. Essendo tutte queste opere disposte a caso, per ragionarne bene dobbiamo considerarle in un certo ordine, che ci sarà dato dalla materia che esse trattano, che è, o l’arte, o la fIlosolia, o la religione, o il costume; dal carattere che esse hanno, o serio o satirico; e dalla diversa forma che pigliano, dialogistica discorsiva.

arte.

XL. opere serie. Dicerie, προσλάλιαι, adlocutiones. La prima tra le opere che si legge è il Sogno, discorso che Luciano recitò in patria quando vi ritornò retore già famoso.1 È piena di leggiadrie e di motti, ma senza [p. 77 modifica]satira, perchè parla ai suoi cittadini, cui vuole essere utile con l’insegnamento e con l’esempio, vuole piacere con lo stile grazioso e forbito, e vuole mostrarsi con un certo sfoggio di eloquenza, come nel sogno parevagli di pompeggiare nel robone di porpora. E forse fu accorgimento il ricordare così schiettamente a quelli che lo conoscevano la prima e povera sua giovanezza per fuggire l’invidia e la maldicenza paesana: e fu franchezza il dire piacevolmente che lo zio passava pel più bravo scarpellatore, e il più valente a fare i Mercurii che si mettono agli usci delle case, non già scultore e statuario, come altri ha interpretato. Ei non istà sul serio, non piglia il tuono arrogante di sofista, non parla di cose astruse alla conoscenza e lontane dalla speranza dei giovani, ma ridendo e motteggiando so stesso parla all’intelligenza, alla fantasia, all’affetto, al senso; e questo parlare che investiva tutto Tuomo doveva essere necessariamente efficace.

Sono anche dicerie l’Erodoto, il Zeusi, l’Armonide, lo Scita, i Dipsi, inferiori di bellezza al Sogno, ma anteriori per tempo, e scritte forse quando Luciano era giovane, e andava per la Macedonia. Non affermerei certo che sono genuine, ma non mi bastano poche parolette ineleganti, che i dotti vi notano, per affermare che sieno apocrife; perocchè queste ineleganze hanno potuto scorrervi per imperizia dell’autore non ancora fatto, o dei copisti. Il Bacco poi, e l’Ercole, e l’Ambra sono dell’ultima sua età, di vena purissima, di maturo senno e piacevole. In tutte quante si scorge la stessa maniera, che è di trovare una storia, una tradizione, una favola, una finzione qualunque, la quale abbia una relazione con la cosa che si vuol dire, e che per sè stessa è piccola, e con un paragone viene ad essere ornata ed aggrandita. Questa maniera [p. 78 modifica]usata da chi ha poco a dire, o dai retori, e dai giovani, è pericolosa perchè conduce facilmente nel falso, essendo ben difficile trovare storia o finzione che quadri bene alla cosa, non sia più grande nè più piccola, e che il legame tra loro si vegga naturale e spontaneo. Nel Sogno, nell’Ercole, nel Bacco, e nell’Ambra la finzione è bella, ha un certo ardire di novità, ed è perfettamente accomodata al soggetto; e si passa dalla finzione al soggetto con bel modo, anzi nella finzione stessa lo vedi già trasparire; sicchè nella scelta di queste finzioni e nel modo di presentarle tu scorgi il giudizio e l’arte d’un uomo già maturo. Ma nelle altre dicerie vedi un giovane che si lascia trasportare dal suo ingegno, e purchè trovi una finzione bella, non si cura troppo se ella sia o no conveniente al soggetto, la vagheggia, l’adorna, se ne compiace di troppo, cornee quel quadro della Centaura nel Zeusi, e l’incontro di Anacarsi e Tossari nello Scita; e talvolta non si contenta di una finzione o di una storia sola, ma ne trova due, senza una necessità, soltanto per trasmodanza di fantasia, come nell’Erodoto e nel Zeusi. Questa sconvenienza fa credere a molti che esse non sieno di Luciano; ma se si attribuiscono a lui giovane, si può ammirare la finzione per sè stessa, e separata dal soggetto: come per esempio quanta freschezza leggiadria non è in quei due quadri della Centaura, e di Rossane? La maniera che in tutte è la stessa, mi fa credere che tutte sieno dello stesso autore. Queste dicerie erano recitate a scelto numero di ascoltatori, ed alcune di esse potevano essere prolusioni, cui seguitavano altri discorsi che esponevano precetti di eloquenza. Oggi in Inghilterra alcuni professori di scienze e di arti, e i colti esuli che vanno ivi a cercare libertà e mezzi da vivere, sogliono recitare innanzi ad elette persone certi discorsi che chiamansi lectures, nei quali danno saggio [p. 79 modifica]del loro sapere. Simili a queste lezioni mi paiono le dicerie dei Greci: se non che le lezioni sono intorno a materie utili come vuole il secolo, e le dicerie erano vuole dentro, non altro che belle chiacchiere per buscar pane.

XLI. Diverse da queste dicerie sono le declamazioni, μελέται. Chi ricorda che gli antichi distinguevano tre generi d’eloquenza, il giudiziale, il deliberativo, e il dimostrativo, scorgerò subito che il Tirannicida e il Diredato appartengono al primo genere, i due Falaridi al secondo, ed il Bagno, la Sala, e la Patria al terzo. Sono esercizi di scuola, e nel loro genere non mancano di certo pregio, massime il Bagno, che è la più semplice modesta ed utile per le notizie che contiene: ma dentro non hanno niente che possa farle pregiare per sè stesse, crederle scritte da un ingegno non comune. Nelle Variaæ lectiones del Belin de Ballu, che sono stampate nel decimo volume del Luciano Bipontino, trovo scritte queste parole intorno di Diredato. In Abdicatum. Declamationem hanc, indignam Luciano, auctorem habere Libanium sophistam apparet ex sententiis a Macario in Rosario ex Libanii declamationibus excerptis, editis a cl. Villoisono in Anecdotis Græcis, vol. II, pag. 12, seq. E se il Diredato è di Libanio, forse qualche altra di queste declamazioni può essere anche sua. Per me nessuna è di Luciano, il quale disprezzava questi dimenamenti e sbracciamenti di eloquenza scolaresca, li abborriva, e cercava di allontanarsi dalle carraie delle scuole; e se anche da giovane e per primi esercizi le avesse scritte egli, non le avrebbe mai pubblicate: esistono perchè chi le compose le pregiava, e le pubblicava.

XLII. Luciano, altro che pregiare le declamazioni, ne fece una piacevolissima satira in due brevi scritture piene di grazie e di lepori, delle quali parlerò qui che mi viene in taglio, quantunque esca un poco [p. 80 modifica]dell’ordine che mi sono proposto. L’Encomio della Mosca è la satira delle declamazioni dimostrative, e dà la baia agli elogiatori del suo tempo, che non contenti di celebrare Dei, eroi, ed uomini famosi, magnificavano con le parole ogni cosa animata ed inanimata, e sin le più inette corbellerie. È satira, e non altro che satira: se no, è uno sciupo di parole, un’inezia che non meritava dì essere tanto illeggiadrita da un valente scrittore, che non parlava a caso, pregiava poco gli uomini e le loro opinioni, e non aveva il gusto di Domiziano a trattenersi con le mosche. Il giudizio delle Vocali è la satira delle declamazioni giudiziali. Non l’ho tradotto in italiano perchè ha tante malizie e giuochi di parole, che non possono tradursi in nessuna lingua: ma ne dirò qui in breve qualche cosa per darne un’idea.

I Greci e più di tutti gli Ateniesi invece del doppio sigma usavano il doppio tau, dicevano Tettalia invece di Tessalia, e scambiavano ancora parecchie altre consonanti, come il popolo da per tutto suol fare, onde nascono piacevoli equivoci. Luciano adunque non tanto per motteggiare gli Ateniesi di questo vezzo, che è naturale e scusabile, quanto per canzonare quei loro retori che in ogni piccolo piato si mettevano sul grande, e pigliavano il tuono di Demostene, finge che essendo Arconte Aristarco, il gran critico di Omero, innanzi al tribunal delle vocali si presenta il Sigma che accusa il Tau, e sciorina una diceria: «Finchè, o Vocali giudicesse, poco mi offendeva questo Tau, abusando della roba mia, e ficcandosi dove ei non doveva, io gli ebbi pazienza; e le cose che ei diceva, feci le viste di non le udire, adoperando quella moderazione che voi sapete che io serbo con voi e con le altre sillabe. Ma poichè è venuto in tanta baldanza ed arroganza, che fatto ardito del mio silenzio, cresce le offese e le [p. 81 modifica]violenze, io sono costretto di accusarlo innanzi a voi, che ci conoscete tuttedue. Io ho un timore grande che ei continuando e crescendo sempre le offese, mi scaccerà proprio di casa mia, ed io dovrò tacere, non essere più annoverato tra le lettere, e non avere altro suono che un sibilo.» E sèguita, dicendo che non pure le vocali, ma tutte le lettere dovrebbero badare che ciascuna stesse al posto suo, e non pigliasse l’altrui: che se si fosse fatto così, il lambda ed il ro, il gamma ed il cappa non si bisticcerebbero sì spesso in molte parole. Ogni lettera deve ritenere il luogo, la qualità e la forza sua assegnatale da Cadmo, da Palamede o da Simonide, o da chi altro ne fu inventore e legislatore: e non trasgredire a queste leggi, delle quali, voi, o Vocali, come le maggiori, siete le custoditrici. Questo miserabile Tau, che non avrebbe neppur suono, se non fosse sostenuto dall’alfa e dall’ipsilon, ecco quanti luoghi mi ha usurpati (e li annovera con bizzarria e grazia); e non pure con me, ma se l’ha pigliata ancora col delta, col thita, e con lo zita (e ne adduce le pruove); nè contento di offendere noi, l’attacca agli uomini, li sforza a dire una cosa per un’altra, insulta finanche un gran re, gli leva il cappa, e da Ciro lo fa diventar Tiro (cacio). Questo Tau ribaldo ha fatto un gran male agli uomini, che maledicono Cadmo che lo messe tra le lettere: perchè i tiranni imitando la figura del T, fecero la croce, su la quale appendono tanta povera gente. Onde per tante sue malvagità è giusto che egli sia dannato a morte, ed impiccato su lo strumento che porta la sua figura.

Se questi due scritti saranno considerati come satire di due maniere di declamazioni, essi non parranno frivoli e leggieri, ma avranno un senso nelle opere di Luciano: e per il loro carattere, per lo stile, e per la [p. 82 modifica]bizzarria dei concetti saranno tenuti senza dubbio genuini.

XLIII. Segue un’altra maniera di scritti, che non sono nè dicerie nè declamazioni, ed io non so come chiamarli. Primo tra questi scritti vari è una specie di lettera che Luciano scrive ad uno, che pare sia un valente avvocato, il quale gli diceva: Tu sei un Prometeo. Operetta elegante, ed assai importante, perchè ci dichiara il giudizio che facevano di lui i suoi contemporanei, e che faceva egli stesso delle opere sue. Che vuoi dire che io sono un Prometeo? che le opere mie sono di creta? Oh, lo so che le sono fragili e cosa da nulla. Chele son nuove, e che io il primo ho osato di unire insieme la commedia burlevole ed il dialogo grave? Ma questa unione ardita e nuova non basta per la bellezza, se manca l’armonia e la simmetria. Or sono io riuscito ad unirle bene? Temo che gli uomini non s’ingannino a lodare la sola novità: temo che io mescolando due cose belle non ne abbia composta una brutta. Lo stesso concetto è nel Zeusi, quale a me pare (e lascio che altri vi noti alcuni nei) che sia nato dalla stessa mente, ma espresso in diversa forma, e quando Luciano ancor giovane rispondeva agli ascoltatori che ammiravano la novità delle sue dicerie. E questa lettera risponde a chi lodavalo dei dialoghi: però ella ti mostra un uomo di certo tempo, meno credente, dubitante anche di se stesso, e scrivente ad un amico con maggiore correzione ed arte e facilità.

XLIV. In questa Luciano parla de’ suoi scritti, nell’Apologia ragiona della sua vita. Aveva egli scritto un libro intorno a quei che stavano a mercede coi ricchi signori romani, e disonoravano la sapienza e sè stessi, senza cavare alcuna utilità da quella servitù volontaria. Gli fu fatta l’obbiezione: E tu non [p. 83 modifica]istai a mercede, che hai l’uffizio di Procuratore in Egitto? non sei servo anche tu? non ricade su di te il biasimo che hai scritto degli altri? Egli dunque scrive questa Apologia nella quale espone primamente con istudiata rettorica tutta l’obbiezione che gli si fa; poi dice le cose che forse alcuni suoi benevoli dicevano per iscusarlo: e queste accuse e queste scuse sono dette in certo modo beffardo, come da uno che si sente superiore alle une ed alle altre, ed ha buono in mano. In fine lascia questo modo, e dice sul serio e semplicemente la ragione vera: che un uffizio pubblico non disonora nè fa servo chi lo esercita; che esser Procuratore imperiale e governar l’Egitto è ben altra cosa che mettersi a servigio d’un signore, e stargli sempre a’ fianchi come un servitore. Egli poi non fa professione di sapiente, nè si briga di giungere a quell’alta cima di perfezione dove dicono stare la virtù: ebbe pubbliche provvisioni in Gallia, dove insegnò eloquenza e fece grossi guadagni, che maraviglia è se ora ha un uffizio pubblico? Questo dico a te, amico mio, che mi sai, e che io stimo, e di cui desidero la stima: gli altri li lascio gracchiare. Questa Apologia è scritta con tanta sicurezza e superiorità, che ben ci vedi un uomo vecchio, conoscitore del mondo, ed alto locato, che sprezza le vane parole del volgo e ne parla con riso ad un amico, al quale brevemente dice la ragione vera, gli ricorda il tempo passato insieme, e finisce gettando un motto di disprezzo su chi non l’intende e vuole giudicarlo. Onde io non consento affatto col Weise, il quale afferma che l’obbiezione è sciocca, l’introduzione quasi manca del senso comune, e lo scritto non è genuino.2 Io per [p. 84 modifica]contrario ci vedo Luciano schietto, sempre satirico, che usa quella rettorica appunto per rendere più ridicola la sciocca obbiezione di coloro che si credevano di averlo colto in fallo, e di poter satireggiare il satirico; che vuol dimostrare appunto che quelli che lo riprendevano mancavano del senso comune. La natura del suo ingegno era cosiffatta che subito e prima d’ogni altro ei vedeva il ridicolo nelle cose, e lo presentava per dilettarsene; quando aveva riso a bastanza, allora parlava serio. Or questo procedere della mente, questo mescolare il ridicolo ed il serio, io lo vedo qui come in altre sue opere: ci vedo spontaneità e leggiadria di stile: che altro vorrei per tenere genuina questa Apologia, e degna di Luciano?

XLV. Un’altra specie di apologia è lo Sbaglio in un saluto. Un uomo potente, forse un capitano d’eserciti, era ammalato: Luciano una mattina va a visitarlo, e invece di dirgli χαῖρε, godi, che era il saluto mattutino, gli dice ὑγίαινε, sta sano, saluto della sera: v’era intorno molta gente, che si messe a ridere di questo sbaglio. Luciano vuol dimostrare che infine ei non’ha sbagliato come si crede, allega con buon garbo molti esempi ed autorità, con le quali prucva che si è detto in un modo e nell’altro. E se ora non s’usa più, il che non è vero interamente, non importa; perchè meglio m’è venuto detto ad un ammalato sta sano, che godi, e ringrazio gli Dei che mi hanno messo su la bocca questa parola di buono augurio; che forse Igea ed Esculapio mi hanno ispirato essi, e ti promettono la sanità per la bocca mia. Infine l’intenzion mia era buona. Alcuno dirà che io ho sbagliato a posta per scrivere quest’apologia. Utinam, o bone Æsculapi, paia davvero [p. 85 modifica]che io non abbia scritto un’apologia, ma cercata un’occasione per isciorinare una diceria: cioè utinam, egli risani, ed io non abbia dotto male, e non ci fosse stato bisogno tanto scrivere, e quello che ho scritto sia una chiacchierata. Ecco, come a me pare, il senso naturale e piano di questo scritto. Gl’interpetri qui scambiano il medico per l’ammalato, dicono che l’infermo si chiamava Esculapio; ed intendono le ultime parole come una confessione che non si è voluta scrivere un’apologia vera, ma una esercitazione rettorica: però credono che questa scrittura sia roba da scolare, ed indegna di Luciano. Io non sono un valente grecista, ma qui anche un par mio vede che si è preso un granchio, e de’ grossi: e per vederlo basta avere un po’ di senso comune. Quando si fa Esculapio un generale, non è maraviglia poi che si creda Luciano uno scolarello. Questa è una scrittura di occasione, è come una lettera di cortesia: non la tengo una perfezione di stile, non vi trovo dentro gran cosa perchè gran cosa non ci doveva essere, ma la tengo di Luciano.

XLVI. Che specie di scrittura sia quella intitolata, i Longevi io non mi so dire. È un catalogo di re, di capitani, di filosofi, e di altri uomini illustri che pervennero a tarda vecchiezza; di ciascuno sono indicati gli anni che visse, ed il genere di morte. L’autore dice che egli l’ha scritta per divino comando avuto in un sogno, e l’offre ad un Quintilio nel giorno del costui natale, come augurio di lunga vita. Pare che questi sia uno dei due fratelli Quintilii, celebri per il loro amore fraterno, e per le loro virtù, i quali furono insieme fatti consoli da Antonino, insieme nominati governatori della Grecia da Marco Aurelio, insieme uccisi da Commodo. (V. la Storia del Gihhon, cap. 4.) Il far menzione di un sogno (dice Gio. Clerico, Bibl. ant. e mod., [p. 86 modifica]t. XXII, p. 226) è argomento che questo libro non è opera di Luciano, ma sì di Aristide, del quale si conosce la superstizione. I primi periodi sono così ravviluppati e confusi che lo scrittore non sa egli stesso quel che si dica, e pare un melenso. Chi messe questo scritto fra le opere di Luciano, certamente lo credette utile per le notizie che contiene di molti uomini illustri; ma come si può stare a queste notizie se vengono da un melenso e di poco giudizio?

XLVII. Tra gli argomenti serii la bellezza di una donna, e la vita e la morte del più grande oratore potevano bene trattarsi in una forma artistica.

Che Luciano avesse potuto lodare ed anche adulare una bella donna amata da un imperatore romano, si può concedere; ma che egli abbia scritte le profuse e stemperate lodi che si leggono nei due dialoghi delle Immagini, a me pare impossibile, perchè ripugna alla natura del suo ingegno, ed al suo gusto nell’arte. Non è possibile che un uomo che suole ridere di tutte le cose divine ed umane, diventi a un tratto sì caldo ammiratore d’una donna, e lodandola non rida mai, non piacevoleggi mai, non dico già di lei, ma delle tante persone e cose che gli si presentano alla mente mentre parla di lei, non mostri neppure una favilla del suo fuoco, e paia un altro uomo diverso: non si può mentire fino a tanto la propria natura, la quale non cangia così neppure per amore di donna. Quella Smirnese poi che lo scrittore si sforza di mostrare bella, raccogliendo nel farne il ritratto quanto di bello egli conosceva nelle statue, nelle dipinture, nel sapere, e nel valore degli uomini e delle donne illustri, non è bella punto, e pare quell’Elena che fu dipinta da uno scolarello di pittura, il quale non sapendo farla bella, la fece ricca di vesti e di gemme. Luciano, gran maestro dell’arte, [p. 87 modifica]sapeva bene come Elena fu dipinta da Omero in due parole messe in bocca ai vecchioni su la torre d’Ilio. Le Immagini, come ben dice il Weise, sono una scrittura ostentatoria, assai lontana dalla vera arte e dalla sobrietà di Luciano. Vi trovi bassezza di animo, intemperanza d’ingegno, e una maniera che conviene solamente alla cortigiana di Lucio Vero: ornamenti meretricii, non bellezze di arte.

XLVIII. L’Encomio di Demostene fra tutte le altre opere è la sola che faccia palpitare il cuore ed abbia una bellezza di sentimento: ma il sentimento non si accorda con l’arte. Leggendo da prima trovi un informe affastellamento di cose; non sai perchè Omero è unito a Demostene; ti spiacciono i concetti forzati, le immagini volgari, lo stile scuro, lungaggini senza ragione, molta falsa rettorica: sicchè fa proprio pietà vedere il massimo degli oratori venuto a mano d’un povero retore. Ma questo povero retore aveva un gran cuore, e quando dipinge Demostene che muore spregiando le minacce e le promesse dei tiranni della sua patria, quando pone in bocca ad essi tiranni l’elogio dell’ultimo cittadino d’Atene, ci fa dimenticare le sue imperfezioni nell’arte: allora il concetto vince la forma, non è offeso nè menomato dalla rozzezza o scarsezza di questa; allora non ci apparisce altro che la grande immagine di Demostene, e siamo costretti a venerarla. Luciano non aveva questa caldezza di cuore, nè soleva dipingere con questa maniera; onde questo dialogo none, e non può esser suo, come a me pare, perchè altra mente, altro cuore, altr’arte, altro uomo si vede in esso. Piace non ostante che manchi d’arte, perchè dentro ha qualche cosa che supera l’arte. Questo, e i due dialoghi delle Immagini vorrebbero più lungo discorso, ma perchè non li ho per genuini, basti il detto. [p. 88 modifica]

XLIX. Opere satiriche. Cominceremo da quelle che hanno la forma discorsiva, e poi verremo alle altre che hanno la forma dialogistica.

La servilità dei greci filosofi, relori, grammatici, musici, ed altri artisti e scienziati che stavano a mercede nelle case dei signori romani, e la grandigia di quei superbi ed ignoranti padroni dovevano offendere il libero animo ed il retto senso d’un Greco che amava e pregiava il sapere. Il libretto intitolato: Di quei che stanno coi signori, è una satira piuttosto amara che scherzevole, perchè faceva dolore a vedere il sapere prostrato vilmente; ed ha per iscopo di svolgere i Greci da quella vergogna. Da prima si cercano le cagioni che possano indurre uno a mettersi da se in questa servitù; poi si descrive con vivezza mirabile quanto bisogna durare ed affaticarsi per entrare in grazia del signore, il primo convito, i patti, l’ammissione in casa; poi le belle speranze che svaniscono, e le fatiche, le umiliazioni, i dispregi che bisogna sopportare. E qui lo scrittore, che talvolta ha preso un tuono violento, e talvolta un tuono di scherno, essendosi svelenito, torna alla sua natura, e piacevoleggia narrando il caso dello stoico Tesmopoli, che per viaggio portava nel mantello la cagnolina d’una signora. Dopo questo racconto naturalissimo e conveniente, viene la trista cacciata; ed infine, invece di epilogo, la descrizione di un quadro che rappresenta tutta la vita del mercenario. Ma se Luciano è costretto a parlare di ciò che tanto gli duole, e biasimare i suoi Greci, ei non risparmia neppure i romani signori, e ne svela le turpitudini, e ne ride. Questo scritto di concetto sì nobile, e di forma sì compiuta per ordine ed integrità di pensieri, per lucidezza di stile, per vivezza d’immagini, e per purità di lingua, è certamente di [p. 89 modifica]Luciano. Nondimeno il Weise crede che gli ultimi capitoli, propriamente cominciando da quello in cui si narra il caso di Tesmopoli, non sono bene composti come i precedenti, e forse sono stati aggiunti più tardi da altri. Secondo il concetto che io mi ho formato dell’ingegno e della natura di Luciano, a me pare che quei capitoli sieno composti benissimo; anzi in essi, che sono più pittoreschi e piacevoli degli altri, io riconosco la sua natura lieta e satirica, la sua arte che dipinge sempre, la sua maniera nel raccontare spesso aneddoti, il suo costume di mordere come può i filosofi del suo lampo. E se sono aggiunti, come e dove finiva lo scritto? era esso monco? fu lasciato così imperfetto da Luciano, o questa ultima parte andò perduta, e poi fu rifatta? Formatemi l’uomo, formatemi Luciano su le sue opere; non considerate queste opere riguardando ad un uomo che voi vi avete figurato nella mente, e che non è Luciano. La buona critica sa trovare i principii nelle opere stesse, non li cerca fuori di quelle.

L. Così ancora se tu credi che l’operetta Come si deve scrivere la storia, sia puramente didascalica, simile ad altre di questo genere, e vuoi trovare in essa la ragione ed il modo delle opere didascaliche, tu non la giudicherai bene. Lascia ogni preconcetto, lascia anche il titolo, che forse Luciano non ce ne messe affatto, e leggi senz’altro quello che sta scritto. Gli Abderiti una volta andarono pazzi per recitare tragedie, e ai tempi nostri si va pazzi per scrivere storie, e tutti sono Tucididi, Erodoti, e Senofonti. È venuta anche a me una pazzia, non di scrivere storie, ma di dare qualche consiglio a chi le scrive. Sebbene egli è come fare un buco nell’acqua, perchè costoro credono di esserci nati, e di non aver bisogno di consiglio; pure potrò forse essere utile a qualcuno. Ogni consiglio fa due cose: ti dice [p. 90 modifica]quello che devi seguire, e quello che devi fuggire. Cominciamo da quello che si deve fuggire, cominciamo a considerare le sciocchezze che oggi si scrivono, che ci sono presenti, e ce le sentiamo ogni giorno nelle orecchie: la buona storia, che è lontana da noi, la vedremo dipoi. Oggi invece di scrivere storie si scrivono encomii di re e di capitani; invece di narrare fatti avvenuti, si contano favole, e invenzioni, e basse adulazioni. Questo male nasce da un’opinione (di Dionigi d’Alicarnasso che non è nominato) che la storia si propone il dilettevole e l’utile; e però vi mettono dentro l’encomio. Uno è il fine della storia, l’utile, che si ottiene dal solo vero: il dilettevole, se v’è, tanto meglio, se no, non importa. Ma non è dilettevole raccontar favole che non possono piacere se non al volgo, e sbracciarsi in adulazioni sperticate che fanno stomaco fino agli stessi adulati. La maggior parte oggi scrivono per utile proprio, sperando di cavar profitto dalle loro adulazioni: gente sciocca e fecciosa, guastano un nobile mestiere, e non pensano nè alla fama nè ai posteri. E qui Luciano in venti capitoli discorre piacevolissimamente di molte storie udite da lui, che narravano la guerra che Lucio Vero fece contro i Parti. La guerra, tra gli altri mali, ha prodotti ancora tanti sciocchi scrittori: chi vuol fare il grave, e guasta, storpia, copia il povero Tucidide, mutando solamente i nomi; e fa uscire la peste non del forziere, ma dell’Etiopia, e scendere in Egitto, e spandersi nelle terre del gran re: chi vuole imitare la semplicità di Erodoto, e dice balordaggini: senza conoscenza di luoghi, di armi, delie cagioni della guerra, dei fatti avvenuti e di quanto bisogna ad uno scrittore, scrivono le più sciagurate scempiaggini del mondo. Or questi venti capitoli pieni di sali, di frizzi e di satira mordacissima, sono creduti dal Weise roba altrui, e [p. 91 modifica]rimpinzati come borra in quest’opera, la quale però gli è sospetta e gli pare dubbio se sia o no tutta quanta di Luciano. Il quale giudizio nasce dal presupposto che questa opera sia didascalica, e voglia insegnare veramente come si deve scrivere la storia; e però non può contenere quei venti capitoli di piacevolezze. È questo un argomento didascalico sì, ma che passa per la mente di uno scrittore satirico, avvezzo a guardare nelle cose più il lato ridicolo che il serio, più il cattivo che il buono: quindi deve necessariamente avere molta parte, anzi la maggior parte di satira. Luciano non vuole insegnare, ma vuol ridere, vuole frustare quei pazzi scrittori del suo tempo, la cui pazzia è la prima idea che gli si affaccia alla mente, la prima che egli esprime, e la principale che domina in tutta l’opera. Però la menzione di tante sciocche storie è così ampia, e precede la esposizione della buona storia, ed è più piacevole di questa, e spesso torna anche in mezzo a questa. Un retore poteva scrivere benissimo la seconda parte, dove si espone le qualità della buona storia, e si discorre dei pregi dello storico: ma solamente un satirico e piacevole scrittore poteva scrivere quei venti capitoli. Sicchè noi ci troviamo ad una conchiusione opposta a quella del Weise; cioè che in quei venti capitoli più che negli altri è Luciano, è lo stampo del retore satirico; e in tutta l’opera è la forma singolare della sua mente; sicchè non altri che egli può esserne l’autore, perchè non altri che egli sa così mescolare e contemperare il ridicolo ed il serio, sa dire tante piacevolezze bizzarre, e tante verità importantissime in una forma schietta ed amabile. Data una buona castigatoia a quegli sciocchi raccontatori, spazzato il campo da quei pruni e da quelle spine, come egli dice, viene a ragionare della storia. La non è cosa che si può fare [p. 92 modifica]da ognuno, nè vi bastano precetti: ci vuol uno che da natura abbia avuto molti doni nobilissimi d’ingegno e di animo, che abbia molte conoscenze di mondo, di politica, di armi, di luoghi, che abbia egli veduto i fatti, e sia stato in mezzo ai negozi, libero, giusto, senza speranze, senza timori, senza parte, amico del solo vero. Tale fu Tucidide, che non volle dilettare i contemporanei con favole, ma scrivere la verità per gli avvenire. A cosiffatto scrittore bastano pochissimi avvertimenti. E pochi ei ne dà, ma veri, pieni di senno, senza aridezza rettorica, con la grazia tutta sua. Avendo egli questa opinione, che per iscrivere una buona storia i molti precetti non sono bastanti, egli non poteva proporsi di dar precetti in questo scritto, ma sì di biasimar coloro i quali senza naturali doti e senza le necessarie conoscenze si mettevano a scrivere stolte adulazioni. Suo scopo principale è deridere costoro: però lo scritto è principalmente satirico: ma per mostrare che egli aveva ragione e diritto di deridere il cattivo, fa vedere brevemente che egli sa come è fatto il buono, e dov’è, e come si acquista: sebbene in cuor suo sia persuaso, come apparisce dalle ultime parole, che a volerlo fare intendere a coloro è tempo perduto, ed è meglio ridere.

LI. La Storia vera è un racconto immaginario che diletta non pure per la novità e piacevolezza dell’argomento e dello stile, e per le varie invenzioni bizzarre, ma ancora perchè tutte queste invenzioni sono piccanti allusioni a molte favole e maraviglie contate dagli antichi poeti, storici, e filosofi, dei quali non si dicono i nomi, perchè le allusioni sono chiare. Così Luciano stesso ci dice quale è la natura e lo scopo di questo suo scritto. Noi non possiamo riconoscervi tutte le allusioni, perchè ben pochi scrittori antichi sono pervenuti sino a noi; ma possiamo ben riconoscervi un’ardita [p. 93 modifica]fantasia, che inventa le più malie cose del mondo con una larga vena di motti e di frizzi, un dettato facile e piacevole. Luciano vuole mordere con questi due libri di Storia vera tutti gli scrittori di storie e di viaggi che contavano bugie, e il volgo se ne piaceva, e le teneva per verità: li trafigge in mille modi, li strazia, e, infine, li pone nell’isola dei malvagi, dove dice di aver veduto Ctesia di Gnido, Erodoto ed altri che erano puniti per aver contato maraviglie e bugie. Santa cosa è amare la verità, ma questa non è sempre realtà palpabile: e non è ragionevole tenere per falso tutto ciò che si allontana dai nostri costumi, dalle nostre idee, dal nostro modo di sentire, tutto ciò che noi non sappiamo per nostra ignoranza. Erodoto fu tenuto bugiardo dagli antichi, e certamente molte cose esagerò, inneggiando anzi che raccontando le imprese dei Greci: ma l’esperienza, le ricerche e le conoscenze di molti secoli hanno confermate per vere molte cose che Erodoto affermò intorno ai luoghi e ai costumi di altri popoli: ed oggi Erodoto non è tenuto sì bugiardo come lo teneva Luciano. Ma il satirico ride anche dei suoi amici; e la battaglia tra gli abitanti del Sole e quei della Luna nel primo libro di questa Storia vera, è una parodia della gran battaglia navale tra i Corciresi ed i Corintii, descritta nel primo libro della Storia di Tucidide. Questa Vera istoria, nella quale Luciano si prolesta di non dire nessuna verità, ne contiene una importante per noi, ed è che la poesia era ridotta ad un favoleggiare vuoto, ad un puro giuoco di fantasia, non era più ispirazione del cuore, non rappresentava più la vita dell’intelletto e del sentimento ellenico. Luciano si ride non pure delle favole raccontate dagli storici e dai viaggiatori, ma anche delle invenzioni poetiche di Omero. Noi sappiamo come lui che quelle sono invenzioni, ma sono [p. 94 modifica]invenzioni viventi, credute e sentite dal poeta che le fa sentire e credere anche a noi, mentre ce le racconta: e perchè sentite sono vere e belle; mentre queste fantasie di Luciano da lui stesso non sentite nè credute, ci riescono fredde. Non valgono motti, leggiadrie, eleganze a farle vive: vi bisogna qualcosa che qui non è, che esca del cuore, dov’è la fonte vera di tutte le ispirazioni e di ogni poesia. Però questo poetare tutto fantastico doveva necessariamente o cessare o unirsi a qualche sentimento: ed essendo già spenti i sentimenti nobili, si appigliò all’amore sensuale, solo che esistesse potente in secolo corrotto. Così nacquero i tanti racconti erotici che cominciano ad apparire in questo secolo, e sono tanto comuni nei secoli che seguirono.

LII. Il Precettore dei retori è una fiera satira contro un retore che forse è Giunio Polluce, autore dell’Onomastico, sebbene l’Hemsterusio che ha tradotto e comentato l’Onomastico creda di no. Gli odi che nascono da gelosia di mestiere sono implacabili, e spesso ingiusti e feroci. Luciano finge di rispondere ad un giovane che gli chiede un consiglio per apprendere la rettorica; e gli dice che ella sta sovra un alto monte, e ci sono due vie per salire a lei; l’una faticosa, aspra, lunga, nella quale si vedono poche orme grandi, ma quasi scancellate dal tempo; l’altra facile, piana, breve, nella quale ti condurrà un amabii maestro. E qui è descritta l’ignoranza, la vanita, l’impostura, la sfacciataggine, la ribalderia di un retore, che, se non è Polluce, rassomiglia certamente a molti retori di quel tempo: la pittura è dal vivo, però è vera ed efficace, ed un’acre ironia la rende piìi rilevata. La finzione delle due vie era comune ai Greci, e ricorda l’Ercole al bivio di Prodico, e le due donne del Sogno.

Luciano anche quando si lascia trasportare dallo [p. 95 modifica]sdegno, non dimentica mai l’arto, e parla con quella gentilezza che l’arte ha renduta abituale in lui: il che non si vede nei due scritti intitolati: Contro un ricco ignorante che comperava molti libri,3 ed il Conto senza l’oste, ocontro Timarco; i quali non hanno nè arte nè gentilezza, non sono satire ma invettive furiose e verbose, nelle quali non si scorge nulla che possa farne credere Luciano autore, ma sì qualche arrabbiato scrittore, non egli sempre ridente e piacente.

LIII. Passiamo ora alle opere satiriche che hanno forma di dialogo.

Bellissimo il Lessifane, mette in canzone uno di quei saccentuzzi che vanno spigolando le parole più antiquate e storpiate, ne compongono le più sperticate, raccolgono dal popolazzo i modi più fangosi, e per parere gentili riescono goffi. Luciano non si sdegna allatto, ma si piglia spasso di questi scrivacchiatori, e ce ne presenta uno, il quale gli legge un suo dialogo, in cui crede di sgarare il convito di Platone, o come ei dice, anticonvitggia al figliuol d’Aristone, piacevolissima caricatura che non può mai esser tradotta bene. Egli ha la pazienza di ascoltare per alquanto tempo, ed ode le più nuove sciocchezze del mondo nelle più sformate parole: gli viene pietà del poveruomo, lo crede pazzo, e chiama un medico per curarlo. Gli danno un farmaco, e quei vomita tutto quel parolame guasto che si aveva ingollalo. Purgatolo di quella roba e di quella pazzia, Luciano gli dà pochi e savi avvertimenti come si ha a parlare con garbo per farsi intendere e piacere. Così, dopo la dipintura del brutto, viene un raggio di bello, [p. 96 modifica]dopo la satira che li fa ridere, viene un consiglio savio che ti giova, e ti lascia nell’anima una verità. Mi viene il sospetto che in questo dialogo sia rappresentato qualche vanitoso che voleva sgarare non Platone, ma Luciano proprio, il quale vedendo il pazzo rivale che gli si leva contro, se ne ride, e lo tratta come un bimbo dandogli uno scappellotto. La maggior parie delle opere piacevoli sono fatte sempre per un’occasione, la quale, se non è conosciuta, non si può gustare interamente la bellezza dell’opera. Io cerco d’indovinare l’occasione; ma è assai difficile a tanta distanza di tempo anche il congetturare.

LIV. Se il Lessifane è un dialogo drammatico che ci presenta una satira piacevole, costumata, utile, ed un’opera veramente d’arte che non può tradursi esattamente, il Pseudosofista, non può tradursi affatto: e non è gran danno se io l’ho tralasciato. Un sofista crede di non fare solecismi quando ei parla, e di saper conoscere quelli che altri fa. Luciano gli parla, ne fa a posta, e quei non se n’accorge. Ora ne ho fatto uno. — E qual è? — Questo, quest’altro. E così seguita, e infine il sofista si vede stretto, e confessa che ei ne fa, e non sa distinguere gli altrui, ed è un ignorante. Questo dialogo è un freddo scherzo grammaticale, non ha altro che la pura forma esterna dialogistica, non contiene nulla che possa farti vedere che sia opera genuina del gentile ed ingegnoso Luciano. Al concetto meschino ed alla maniera melensa, pare fattura d’un povero pedante che dà grande valore alle parolette, e crede che il non si può sia una scienza importantissima.

LV. La Chiacchierata con Esiodo è un ghiribizzo, e parrà una freddura se non si ricorda che al secolo di Luciano si prestava fede alla magia, agl’indovini, ai profeti, e si aveva grande riverenza agli antichi poeti, [p. 97 modifica]non pure per l’arte loro, ma perchè si credeva che fossero stati ispirati dagl’iddii, ed avessero predetto l’avvenire. Su questa credenza pare che voglia scherzare, e fa un po’ di chiacchiera con Esiodo, il quale si vantò di avere avuto dalle Muse il dono di predir l’avvenire, e non predisse nulla. Ai poeti non bisogna credere, perchè dicono ciò che loro viene in bocca, e non bisogna esaminar tanto pel sottile le loro parole e ritrovarvi quello che non c’è. Se ci fosse profezia, ella sarebbe tutto altro che pronosticar la buona e la cattiva raccolta da certi segni, come fa Esiodo, il quale non fu profeta, ma soltanto poeta, e non dei più valenti, e spesso parlò a caso. E qui Luciano si ferma, per non dire altro di un poeta amabile, che i Greci avevano caro per la sua modesta semplicità. Il dirne più oltre non sarebbe stato piacevole; onde il dialogo è breve, e piglia un colore semplice dal soggetto stesso, quasi che parlando con Esiodo venga spontanea quella stessa sua maniera schietta e piana.

LVI. Leggiadra parodia della tragedia antica è la Tragedopodagra, dramma in versi pulitissimi. Il poeta Rintone di Siracusa per deridere la impotenza degli scrittori tragici del suo tempo, che non sapevano e non potevano imitare i grandi antichi, scrisse parecchie ilarotragedie tragedie allegre, le quali per la novità, la festività e bizzarria degli argomenti, e per le grazie del dialetto siracusano piacevano moltissimo agli Alessandrini, e furono celebrate molto fra tutti i Greci. Or Luciano, seguendo l’esempio di Rintone, e forse per rispondere a taluno che gli diceva: Perchè non fai della tragedia come hai fatto della commedia? scrisse questo dramma piacevolissimo. Nel quale la Podagra, felicemente paragonata all’Ate di Omero che cammina su le teste degli uomini, pare il fato tragico, a cui nessuna [p. 98 modifica]forza e intelligenza umana può resistere. L’intreccio della favola semplicissimo, i personaggi reali e fantastici, il coro de’ podagrosi coronati di sambuco ed appoggiantisi a bastoncelli, i loro canti che celebrano la nascita della dea Podagra, la sua potenza e le sue lodi; lo stile, le immagini, le parole composte con nuova piacevolezza, le sentenze dei grandi tragici voltate a rovescio, i versi corretti ed eleganti, tutto è cosa greca e di antica imitazione. E Luciano si mostra valente poeta non meno che era valente prosatore, perocchè questa poesia è sua certamente. La podagra, al suo tempo assai comune per la intemperanza e la morbidezza dei costumi, essendo come una cosa fatale, contro di cui non vale altro rimedio che lo scherzo e il buon umore, gli parve argomento fatto pel suo genio; e nel trattarlo potè motteggiare gl’impostori che pretendevano di guarirla, e gli sciocchi che credevano a vani rimedii. Forse è ancora una scrittura fatta per qualche occasione che ora ignoriamo, il certo è che ella è graziosa, giocosa, elegante, e degna di un bell’ingegno.

Il Velocipede è una sciocca e monca imitazione della Tragedopodagra, e non merita che se ne dica altro.

filosofia.

LVII. opere serie. Queste opere sono tutti dialoghi, eccetto due, la Vita di Demonatte, e il trattatello Di non credere alla dinunzia: e quasi tutte si dubita se sieno genuine, perocchè Luciano non credeva nella filosofia, e non poteva ragionarne seriamente.

Il Demonatte è la vita di un filosofo amabile, lontano dall’orgoglio e dai pettegolezzi delle sètte, che usò del sapere non a speculazioni vane, ma ai bisogni ed [p. 99 modifica]alle faccende della vita; s’introduceva nelle case per portarvi la pace e farvi udire la ragione, ed era chiamato padre dal popolo Ateniese in mezzo al quale visse e morì. Egli è un Menippo senza acerbità, e un tipo di filosofo come Luciano lo voleva. Le sue azioni sono narrate brevemente, perchè poche e poco strepitose sono le azioni di un filosofo: i suoi detti sono riferiti più largamente, come quelli che ritraggono la mente e l’indole di quel buon vecchio, e ce lo rappresentano vivente e conversante con gli uomini del suo tempo. Noi lo vediamo che motteggia Favorino ed Apollonio, che piacevoleggia con Epitteto, che trafigge quell’impostore di Peregrino, che raffrena il matto dolore di Erode il gran ricco Ateniese, che si fa rispettare da un popolo sdegnato, che corregge, consiglia, riprende persone di ogni specie con le quali egli conversa: le fornaio facevano a chi desse prima il pane al vecchio, e i fanciulli gli porgevano frutti, e lo chiamavano babbo. Questa maniera schietta e naturale usata da Plutarco nel narrare le vite degli uomini illustri, è più efficace a dipingere la vita privata e modesta di un filosofo. Io per me credo che questa operetta sia di Luciano, perchè ci vedo la sua idea, e la sua maniera: solamente lo stile mi fa sospettare che ei la scrisse giovane, e pieno la mente deli’ immagine di quel buon vecchio che gli Ateniesi amarono ed onorarono sinceramente anche dopo che fu morto. E vedo ancora che nei motti e nelle piacevolezze del filosofo è nascosto lo scrittore satirico, il quale si piace e si diffonde a riferirli.

LVIII. Il trattatello Di non credere facilmente alla Dinunzia ha un concetto morale ed utile alla vita, una forma discorsiva piacevole ed elegante, ed è composto benissimo, come dice il Weise. Il che a me non pareva interamente quando io lo voltavo in italiano. [p. 100 modifica]Imperocchè giunto a quel luogo dove dice che il dinunziante talvolta può essere un uomo dabbene e giusto, come fu Aristide che calunniò Temistocle, e come fu Ulisse che insidiò Palamede, soggiunge queste parole: Che si dirà di Socrate ingiustamente calunniato appo gli Ateniesi, come un empio ed un insidiatore? e di Temistocle e di Milziade, che dopo cotante vittorie vennero in sospetto come traditori della Grecia? Ci ha mille esempi, e quasi tutti conosciuti. Le quali parole non si accordano punto ai concetti precedenti, perchè gli uomini giusti che talvolta possono calunniare non han che fare con Socrate, Temistocle e Milziade che furono calunniati. Ora io non muto opinione in quanto alla discordanza di queste parole dalle altre, anzi la confermo, e dico che esse mi paiono una glossa di copista che volle dottoreggiare a sproposito, e credo che si debbano interamente togliere dal testo; il quale senza queste poche parole, che formano il 29° capitoletto, è chiaro e limpido. Così il trattatello non mi pare più confuso come prima, e ritengo che sia di Luciano, il quale si piaceva di questo modo di filosofare, che ha un uso pratico, e soleva adoperare le pitture, gli aneddoti, e le storie, che rifioriscono questa scrittura.

LIX. Il Nigrino è un dialogo serio nel quale sì ragiona di gravi, mirabili e divine cose (cap. 38) dette da un filosofo in lode della Grecia, e specialmente di Atene, citta di quieti studi e di modesti costumi, ed a biasimo di Roma, sentina di tutti i vizi e le corruttele. Chi riferisce queste grandi cose se ne mostra come invasato, gli pare di avere ancora nelle orecchie le savie parole, e innanzi gli occhi il venerando aspetto del filosofo, crede di non poterle riferire convenevolmente, e si scusa in vario modo che egli è troppo meschino attore a rappresentare cotanto personaggio. Lodando i costumi del [p. 101 modifica]filosofo si loda la filosofia con ardore di affetto giovanile, e si leva a cielo con le più alte parole. Il concetto di questo dialogo è tutto filosofico, l’unico sentimento che vi domina è l’ammirazione per la filosofia e pel filosofo: non v’è neppure ombra di satira, per modo che anche dove discorrendosi dei vizi e del lusso dei Romani si potrebbe gettar qualche motto e lo scrittore rivelarsi, il biasimo è serio, non piacevole. Nè le scuse che si fanno prima di riferire il ragionamento, mi paiono fatte per beffare i retori, soliti a parlare con tali aggiramenti; che nè beffa nè malizia alcuna io vedo in questo scritto, ma soltanto ammirazione. Sebbene questo dialogo sia preceduto da una breve lettera di Luciano a Nigrino, e gl’interlocutori sieno Luciano ed un suo amico, pure molti interpetri hanno negato che sia genuino, ed altri dicono che potè essere scritto da Luciano giovane. Che sia lavoro d’un giovane pare allo stile pieno di una certa baldanza, all’affetto, alle immagini, al tuono declamatorio, a tutto insomma il tenore del dialogo: ma che questo giovane sia Luciano non pare certo. Chi è arguto e motteggiatore, anche da giovane motteggia; perchè piacevolezza è natura, non istudio; apparisce spontanea, non s’apprende: ed in ogni giovane s’intravede sempre l’uomo maturo. Chi uomo nega ogni cosa, giovane ha dovuto dubitare di molte cose; ed un intelletto dubitante è sempre independente, e non si abbandona alla lode ed all’ammirazione smoderata. Luciano giovane poteva benissimo amare ed ammirare Nigrino, come amò e rispettò Demonatte, ma parlarne a quel modo non poteva, come a me pare; ripugna alla sua natura, a quella intelligenza, a quel suo senso retto col quale conobbe in che stato era la scienza e l’impostura dei filosofi, e non pregiò altro che una realtà della vita. Luciano avrebbe ammirato meno, lodato meglio: il [p. 102 modifica]concetto non è suo, la forma non è corretta, la espressione non è di quella schiettezza e limpidezza che piace tanto nelle altre sue opere: onde a ragione si può dubitare se il Nigrino sia suo. Nondimeno se questo dialogo non ci rivela l’ingegno e l’arte di Luciano, dimostra, come lavoro d’un Greco, in che cosa i Greci si sentivano superiori ai Romani, e come cercavano sempre di foro più spiccare questa loro superiorità nel sapere e nel costume.

LX. Per le ragioni medesime il Cinico non è a tenere genuino. Si dipinge in questo dialogo l’immagine di un cinico perfetto, e si vorrebbe far vedere come questa è l’immagine vera dell’uomo e del savio. Taluno crede che sia una satira indiretta dei Cinici del tempo, ai quali si contrappone questo tipo; ma le vie indirette non piacevano a Luciano, franco ed impavido motteggiatore, massime dei Cinici che egli morde senza pietà nè riguardi. E qui i Cinici non sono nominati nè ripresi affatto, ma sono personificati tutti quanti in uno; il quale tipo non è nè bello, nè savio, nè umano, e non poteva entrare nella mente di un valente artista. Egli è vero che Luciano prese quel suo tipo del Menippo dai Cinici, e messe un Cinico a disputare con Giove e confutarlo: ma quel tipo lucianesco, era spoglio della presunzione, arroganza e sfacciatezza cinica, era simbolo del senno popolare acuto, pronto, schietto, gaio, ridente, diverso da questo interamente; era tipo non di filosofo, ma di uomo, non declamatore, ma motteggiatore; e messe un Cinico a petto di Giove per mostrare che a confutare e bollare il massimo iddio, bastava il senno più volgare. A me pare adunque che questa scrittura non sia affatto una satira, ma una presuntuosa e rabbuffata declamazione, senza verità, senz’arte, certamente non di Luciano, forse di qualche fanatico settatore. [p. 103 modifica]

LXI. L’Alcione è un dialoghetto di semplice e puro dettato. Cherefonte passeggiando con Socrate lungo il lido del mare, ode la voce dell’alcione, che non aveva mai udita. Socrate gli racconta la favola di quella fanciulla che piangeva l’amante perduto, e lo andava cercando per terra e per mare, e gli Dei per pietà la mutarono in alcione. Ma come mai si può credere agli antichi, dice Cherefonte, che alcune donne furono mutate in uccelli? questo pare sia impossibile. E Socrate risponde: gli uomini non conoscono quale cosa è possibile, e quale impossibile; e male misurano dalla forza loro quella degl’iddii: non pareva meno incredibile dopo gran tempesta di giorni fa, dovesse venire questo sereno e questa calma; non pare meno impossibile che da un verme nasca l’ape, e dalle uova inanimate nascano tante specie di animali: Noi non sappiamo nulla di certo, e nulla possiamo affermare. Or qui non vi pare che Cherefonte sia più savio di Socrate, il quale con quel suo sapere di non saper nulla ammette la possibilità delle trasformazioni? Il Weise dice: Hic dìalogus nec est Luciani, nec Platonis, ut quidam opinabantur, sed Leonis Academici, at non indignus qui inter opera Luciani locum habeat. Per il dettato sì, può stare tra le opere di Luciano, ma pel concetto no, che è ben meschino.

LXII. Bello argomento e stile modesto si vede nel Tossari. Un Greco ed uno Scita ragionano dell’amicizia, e ciascuno sostiene che la sua nazione valga più dell’altra in questo nobile sentimento. Lo Scita propone di finire la gara raccontando ciascuno pochi esempi di amicizia, non antichi nè mezzo favolosi, ma moderni e veri. Il Greco accetta la disfida, e narra cinque fatti di amici greci, ed altri cinque ne narra lo Scita. Con molto accorgimento non si giudica quali sieno i più belli, perchè ogni popolo è capace di questo sentimento, che varia [p. 104 modifica]soltanto nella forma: e i due contendenti diventano amici. Le narrazioni greche sono schiette e brevi, le scitiche più variate e strane, secondo i costumi: tutte affettuose e nobili, espresse con buon garbo e in buona lingua. Se questo dialogo sia di Luciano io non saprei nè affermare nè negare. Se non fosse tra le sue opere, a nessun segno saprei riconoscerlo per suo: v’è, e per nessun segno posso dire che non gli appartiene. Concetto speciale di Luciano non v’è, eppure non importa, perchè Luciano poteva avere altri concetti; non v’è quell’aura di stile lucianesco che si sente da chi legge nel greco e non si sa spiegare: eppure si può piuttosto dubitare che affermare qualche cosa.

LXIIL Ma quell’aura ti viene fragrante e piacevole quando leggi l’Anacarsi, e ti pare di essere nei bei tempi della Grecia. Solone il legislatore ateniese spiega allo scita Anacarsi l’utilità degli esercizi ginnastici, che sono parte della pubblica educazione, della quale ragiona largamente con senno antico. Discorre come i Greci educano i giovani a fine che riescano cittadini buoni di animo e forti di corpo: e quali discipline s’insegnano nelle scuole, quali esercizi nei ginnasii per conseguir questo fine. Argomento grave e di civile importanza in un secolo in cui i Greci, dimentichi delle loro antiche e savie istituzioni, non pregiavano più gli esercizi ginnastici, ma si piacevano delle corse delle carrette. Luciano cerca di ricondurli al loro costume antico; e forse anche vuole mostrare ai barbari, che spregiavano quegli esercizi come giuochi di fanciulli, che con queste arti i Greci seppero difendere la loro libertà, acquistar gloria e potenza. In ultimo, egli fa dire da Solone allo Scita: Se a te non finisce di piacere quanto io ti ho detto del modo onde noi Greci educhiamo i giovani, dimmi come li educate voi altri Sciti, in quali esercizi li esercitate [p. 105 modifica]per farli diventare uomini valenti (cap. 40). Le quali parole, come a me pare, sono indirizzate a tutti gli altri popoli e Sciti, e Galli, e Romani, e Germani: se voi ci biasimate, dite che sapete voi fare di meglio. Il modo onde è trattato questo argomento è bello e conveniente. Due savi ragionano tra loro: Solone greco dice parole gravi di sapienza civile, ed ornate di lepore ateniese: Anacarsi scita discorre col senno naturale, e con certa baldanza propria d’un barbaro; rispetta Solone, e sebbene non si persuada interamente, pure lo ascolta per imparare, e sempre lo ammira. Dialogo bellissimo, e degno di Platone per la materia e per l’arte.

LXIV. Il Ballo è un dialogo di molta erudizione, ma di non molto giudizio. Per lodare il ballo si dice che ei nacque con Amore generatore dell’universo, e stette prima tra i pianeti su le sfere, e poi discese su la terra, dove tutti i popoli l’accolsero come cosa bellissima e piacevolissima. Nella guerra, nelle feste religiose, nella tragedia, nella commedia si adopera il ballo. Poi dal ballo si passa alla Mimica ed ai mimi, e si loda quest’arte, e si discorre delle qualità che deve avere il buon mimo. Si crede dagl’interpetri che qui sia confusione, che si salti da una cosa ad un’altra: ed a me non pare. Imperocchè la mimica non è altro che ballo, direi quasi intelligente, rappresenta qualche cosa coi gesti e i movimenti del corpo. Ballo senza rappresentazione, solo dimenamento di persona, non è cosa d’arte, e non poteva essere soggetto di lode e di discorso. È vero che ora, come tra gli antichi, si distingue il ballo dalla mimica, ma è vero ancora che con la parola ballo ora s’intende, come s’intendeva, l’una cosa e l’altra. E però non mi pare che sì confondano cose che sono strettamente unite tra loro, e che parrebbero meno diverse se la forma fosse più corretta, e se il trapasso [p. 106 modifica]dall’una all’altra fosse più facile. La poca correzione della forma, e la farragine delle notizie, che pure non ci danno un’idea compiuta dell’arte mimica degli antichi, fanno dubitare se questo dialogo sia di Luciano: vi manca la sobrietà, la schiettezza, il senno, e le grazie che sono nelle opere genuine.

LXV. Il Caridemo ed il Nerone ultimi di tutte le opere, non appartengono a Luciano, neppure secondo il giudizio dei copisti: perocchè in fine del primo sta scritto in greco: Nè questo pare di Luciano; ed in capo del secondo è scritto: Se genuino.

Il Caridemo contiene tre discorsi su la bellezza, e non v’è dialogo men bello di questo, povero di pensieri, e di arte, e scorretto di lingua. A molti dotti uomini, fra i quali al Gesnero, pare una esercitazione scolastica e quasi puerile, un cattivo raffazzonamento del panegigirico d’Isocrate in lode di Elena.

Nel Nerone il filosofo Musonio confinato nell’isola di Lenno4 discorre con un suo amico del tentativo che fece Nerone a cavar l’istmo di Corinto, non ostante la credenza sparsa che i matematici egiziani avessero trovato il mare nel golfo di Corinto superiore a quello del golfo d’Atene. La quale credenza, rigettata da Musonio come una sciocchezza, è corsa anche nei tempi nostri, e sino a ieri si è creduto che il mar rosso fosse superiore al Mediterraneo. Poi parla della voce di Nerone, dei gesti con cui. accompagnava il cantare e il citarizzare, e del fatto di un tragediante che aveva bella voce e non gli voleva cedere, ed egli lo fece dai suoi cagnotti scannare sul teatro innanzi a tutti i Greci. Mentre così ragionano, s’avvicina una nave che reca la novella che Nerone è morto. La dizione di questo dialogo è dura e studiata, e in molte parti scura e sforzata appunto come la voce [p. 107 modifica]di Nerone: e non è cosa di Luciano affatto. Entrambi questi dialoghi, e quasi tutti gli altri che noi abbiamo scartati e scarteremo, sono tenuti per genuini dal Wieland, dotto uomo, il quale ha fatto una traduzione delle opere di Luciano, che dai suoi Tedeschi è stimata un capo d’opera. Io non so, nè ho modo di sapere le ragioni avute da quel valentuomo per formarsi questa opinione, che ad altri dotti Tedeschi, ed al Weise non piace sempre: e però mi attengo al mio giudizio, e lo espongo schiettamente, e con la coscienza di averci pensato e studiato.

LXVI. Opere satiriche. Sono tutte dialoghi, eccetto il Peregrino, che però sarà esaminato a suo luogo.

Cominciam dal Timone, tenuto giustamente per uno dei più belli, dei più eleganti, e finiti per forma. Ne diremo un poco a lungo, perchè se esso non sarà bene inteso, parrà discordante da tutte le altre opere di Luciano, un capriccio d’arte, senza ragione, e senza vera bellezza. Timone in poco tempo divenuto ricchissimo (νεοπλοῦτος, cap. 7) avendo sparso e sparnazzato ogni cosa in beneficare ed arricchire moltissimi Ateniesi, abbandonato da tutti, e ridotto dall’ultima miseria a zappare la terra, si volta aspramente a Giove e gli dice un gran vitupero. L’ode Giove, e invece di sdegnarsi, si dispiace di aver trascurato un uomo dabbene e religioso: ma le tante faccende, e lo scompiglio che è nel mondo l’hanno impedito di guardare su l’Attica, dove le grandi chiacchiere dei filosofi non fanno udire le preghiere: e però gli è avvenuto di non badare a quest’uomo che non è tristo (οὐ φαῦλον ὄντα, cap. 9). Intanto comanda a Mercurio di andare a prendere Pluto, che rechi un tesoro a Timone. Pluto non vuole andare, perchè è stato offeso da Timone, e sparpagliato pazzamente. Io ero amico di suo padre, ed egli mi ha scacciato di casa, mi ha gittato [p. 108 modifica]via come chi ha il fuoco in mano e lo butta: se vi torno, farà lo stesso. Oh Timone non farà più cosi, risponde Giove: la povertà lo ha corretto: or va’, che lo troverai più savio; e se tornerà alla prodigalità passata, tornerà povero subitamente. Va Pluto, che quantunque cieco e zoppo, ora non va a caso, perchè guidato dal veggente Mercurio, e va da Timone che da Giove è giudicato degno di arricchire, quantunque gli abbia detta quella gran villania. Giove, supremo senno, sa che quella villania non fu detta col cuore, e che Timone dentro è un uomo dabbene. Questo è il significato del ragionamento che fanno Mercurio e Pluto andando per via. Giungono a Timone che zappa, e vicino gli sta la Povertà con la Fatica, la Robustezza, il Senno. Mercurio comanda alla Povertà di andar via, ed ella malvolentieri vassene con la sua schiera. Si avvicinano a Timone, che da prima vuole cacciarli a sassate: ma a poco a poco con le buone parole gli fanno capire che la colpa è stata sua, a dare la roba a cani e porci, profondendola agli adulatori ed alle cortigiane; ubbidisca a Giove, che lo rivuole ricco. Si persuade e ubbidisce. Pluto comanda al Tesoro nascosto sotterra di lasciarsi pigliare, e se ne vanno. Timone con la zappa cava, e rinviene un tesoro maggiore di quelli di Mida, di Creso, del tempio di Delfo, del re di Persia. Consacra la zappa e il pelliccione a Pane, si compera il podere dove ei lavora, e vi costruisce una torre dove vuole abitare solo e lontano dagli uomini, ed esservi sepolto. Rifatto ricco, rinunzia all’umano consorzio, rompe ogni patto con gli uomini, si propone di fare tutto il male che ei può, ed essere il nemico del genere umano. Se vedo uno che è caduto nel fuoco, e mi prega di aiutarlo, io gli getterò olio addosso; uno che è nell’acqua, e mi prega di porgergli una mano, io ve l’attufferò e lo terrò sotto. Vorrebbe che tutti [p. 109 modifica]sapessero la sua nuova ricchezza acciocchè ne avessero dispetto. Ed ecco tutti la sanno, e corrono a lui parassiti, adulatori, retori, filosofi: specialmente un retore che già ne aveva avuti dodici talenti, e poi l’aveva sconosciuto, ed ora gli fa il parente, e gli porta a leggere un decreto che ei proporrà al popolo, nel quale Timone sarà dichiarato capitano d’eserciti, vincitore d’Olimpia, ottimo retore, e tutto. Timone con la zappa te li concia tutti quanti, e li manda storpi. Corrono altri; Timone piglia i sassi; quelli dicono: Non scagliare, che ce n’andiamo. — Voi non ve ne anderete senza sangue e senza ferite. E con le sassate finisce il dialogo.

Chi è questo Timone? È egli forse quel tristo, nemico e spregiatore degli uomini, che visse in Atene al tempo di Alcibiade, e che una volta venne in piazza e disse: Cittadini, io ho nell’orto una ficaia a cui molti si sono impiccati: se vi si vuole impiccare qualche altro, faccia presto, perchè io la voglio tagliare? Ma questi non fu mai uomo dabbene: Luciano stesso nella Storia vera (lib. 2, cap. 31) lo pone a custode nell’isola degli empi, e Cicerone nel libro De Amicitia ne parla come di un tristo che contro gli uomini vomebat virus acerbitatis suæ. Non si sa che egli avesse trovato un gran tesoro, e che fosse stato un riccone e gran prodigo. Per qual cagione adunque Luciano lo fa diverso da quello che fu? Se intendi che sia il vero Timone, questo dialogo è serio, non satirico; ed il suo concetto non è nè bello nè vero, perchè un gran ricco, che impoverito per molto spendere accusa Giove della sua sciocchezza, e rifatto ricco odia gli uomini con un’acerbità crudele, e minaccia stragi e sangue, non è ridicolo, ma pazzo scellerato. Il dialogo non sarebbe secondo la natura di Luciano, il quale, come Menippo, ride sempre, γελᾷ δ´ἀεί, e motteggia, e qui getterebbe fuori un veleno rabbioso [p. 110 modifica]senza scopo di arie, e contro la ragione di tutte le altre sue opere. Il Timone dipinto da Luciano in fondo non è misantropo nè tristo; ma per contrario un uomo amorevole e dabbene, che ha peccato per troppa bontà, che per uno sdegno momentaneo si scaglia contro Giove, e fa lo strano proposito di abborrire tutti gli uomini, e che esagerando il suo odio, mostra che egli non lo sente davvero; uno che voleva fare il Timone contro la sua natura, e però è ridicolo, e Luciano lo motteggia come si può motteggiare un uomo del quale si rispettano le buone qualità che egli possiede. Ma chi è questo gran ricco e prodigo, benefattore degli Ateniesi, amorevole e buono, che per ira pare cattivo, e però è ridicolo? Io fo una congettura, che mi pare dia gran lume a questo dialogo.

Al tempo degli Antonini uno de’ più grandi e famosi ricchi dell’impero fu Erode Attico, cittadino ateniese, nato verso il 104 in Maratona. Suo padre, che era un poveruomo, trovò a caso un immenso tesoro sepolto sotto un vecchio casamento, e divenuto ricco, fece educare il figliuolo con ogni cura. Erode ebbe a maestri i più riputati uomini del suo tempo, Scopeliano, Favorino, Secondo, e Polemone retori; imparò filosofia platonica da Tauro Tizio, critica da Teagene di Cnido, ed eloquenza da Munazio di Tralle: ebbe bell’ingegno, diventò valente oratore, ed insegnò in Atene, e poi in Roma, dove ebbe a discepolo Marco Aurelio che sempre lo rispettò. Ebbe i maggiori uffizi in patria e fuori, e nel 143 fu fatto console. Fu magnifico e splendidissimo nell’usare delle ricchezze, ornò Atene d’uno stadio, d’un teatro, di acquedotti; fece grandi benefizi a molte città; prodigò il suo agli amici, agli artisti, ai dotti che gli erano intorno: e Filostrato, che ne ha scritto la vita, racconta che ei donò al sofista Polemone quasi [p. 111 modifica]sedicimila zecchini per tre declamazioni. Ma l’ingegno, la bontà, e i benefizi non lo salvarono dall’invidia. Suo padre avea lasciato per testamento una mina a ciascun ateniese ogni anno. Egli fece un accordo, e ne pagò cinque una volta sola, ma ne sottrasse quello che alcuni dovevano a suo padre: di qui nacque grand’ira contro di lui, ed il popolo gliene volle sempre male. Teodoto, già suo discepolo, Prossagora, e Demostrato, suoi nemici, per attizzare più quest’ira, scrissero orazioni contro di lui, e lo accusarono a Marco Aurelio, come ambizioso che macchinava contro lo Stato. Egli andò a Sirmio, dove era Marco, si purgò delle accuse, e fece punire i suoi calunniatori: ma addolorato e noiato della ingratitudine de’ suoi cittadini, si ritirò nella villa Cefisia presso Maratona, e lì visse solitario fra pochi discepoli. Marco Aurelio gli scrisse una lettera nella quale lo assicurò della sua stima: ma nulla valse a consolarlo, perchè egli era uomo che si lasciava abbattere dal dolore.5 Quando perdette la moglie Regilla, ed il liberto Polluce, mortogli nel fiore degli anni, si abbandonò al più stemperato dolore, si chiuse per non vedere più la luce, fece le più strane spese, comandò si tenesse sempre pronto un cocchio coi cavalli, come se il giovane dovesse montarvi, e sempre imbandito un banchetto, come se la moglie e Polluce dovessero banchettare. Onde il filosofo Demonatte lo motteggiava di quella mollezza nel dolore, e diceva che Erode aveva due anime, con una faceva quelle pazzie, e con l’altra componeva belle declamazioni (V. la Vita di Demonatte). Si crede sia morto di settantasei anni, nel 180. [p. 112 modifica]

Pensomi adunque che questo Erode sia il Timone di Luciano. Egli fiaccato dal dolore, e ritirato nella solitudine, forse diceva, come tutti gli uomini della sua tempra, che egli odiava tutti, perchè tutti erano tristi ed ingrati; si credeva divenuto un Timone, un nemico degli uomini, e non era, nè poteva esser tale: ma nello sforzo di divenire un Timone sta appunto il ridicolo che Luciano ha saputo cogliere ed esprimere bene. Quell’odio suo irragionevole era ridicolo quanto la sua amorevolezza sconsigliata; e però l’uno e l’altra sono derisi, ma con quella moderazione, e direi quasi con quel rispetto che si deve alle debolezze d’un uomo dabbene. Tu non l’odii questo Timone, ma l’ami, e ne ridi. Inoltre i particolari della vita d’Erode corrispondono a quelli del dialogo. La legge che Timone fa a se stesso nella forma solenne di pubblico decreto è pur ridicola, perchè può ricordare i tanti decreti fatti in onore d’Erode da un popolo misero e servo: quell’ingrato retore che gli presenta il decreto può essere anche il discepolo Teodoto: quel dichiararlo ottimo capitano è un allusione al suo consolato; ottimo retore è una lode vera e meritata: quell’ira poi, quei colpi di zappa, quelle ferite, quel sangue per eseguire la strana legge, non fanno male a nessuno, perchè sono fantasie d’un uomo che aveva fatto sempre bene in vita sua, e non avria ammazzata una pulce. E forse è consiglio di Luciano, il quale gli dice: Se tornano a te quei furfanti di retori e di filosofi per venderti le loro corbellerie ed adulazioni, piglia una mazza e cacciali; che se prima avessi fatto così, non avresti avuto tante noie.

Insomma io credo che questo dialogo non abbia alcun senso, alcuna bellezza d’arte se rappresenta il Timone vero: mi pare che Luciano sotto il nome di Timone rappresenti Erode, che egli dovè conoscere in [p. 113 modifica]Atene, e udirlo e stimarlo, e poi riderne, egli che rideva di tutti, e spesso anche di sè stesso. Se questa congettura non piace, si trovi di meglio.

LXVII. Seguono la Vendita e il Pescatore, due dialoghi strettamente uniti tra loro che dal Weise e da altri sono tenuti spurii ed inetti;6 ed io per me li credo non pure genuini, ma bellissimi, e tra i capilavori di Luciano: ed allegherò le ragioni di questo mio credere. Quando io leggo un’opera di Luciano, io dimando a me stesso primamente, se essa è consentanea o almeno accordabile al concetto comune che si ha di Luciano, cioè d’un uomo d’ingegno e di senso retto che derise i vizi e gli errori del suo tempo con un lepore ed una grazia che lo han renduto immortale: e poi dove, e quando e perchè l’opera potè essere scritta. Così cerco di trovare la ragione dello scritto nella storia, e di fare, come si suole in pittura, il campo intorno all’immagine per vederla più chiara e rilevata. Ora leggendo la Vendita ed il Pescatore non si può dubitare affatto che essi furono scritti in Atene: la quale citta era un formicaio di filosofanti che parlavano e disputavano in ogni tempo, in ogni luogo, e di ogni cosa. Quattro scuole secondo le sètte principali degli stoici, degli epicurei, [p. 114 modifica]dei platonici, e dei peripatetici, erano state fondate o ristorate da Marco Aurelio, che a ciascuna aveva assegnato un maestro con ben grossa provvisione. Immaginate un po’ in mezzo a tutta quella sapientaglia Luciano con quel suo ingegno che gli aveva dato tanta fama nell’eloquenza, con quel buon senso che gli aveva fatto spregiare le vanità della rettorica, un arguto motteggiatore che non credeva a nulla, si sentiva superiore agli altri, e rideva degli uomini, che cosa doveva sentire, e che doveva dire? Naturalmente gli veniva detto: E questa è la sapienza? questa bindoleria e queste chiacchiere? E costoro sono gli amici della verità e della virtù, costoro che sono pieni di tutti i vizi, e che offendono in tutti i modi la ragione umana ed il senso comune? A che dunque è buona questa gente? Perchè Marco Aurelio li paga? Oh, se egli avesse miglior giudizio.... Ed ecco il concetto di un dialogo, ecco questo miglior giudizio personificato in Giove, che non paga ma vende come schiavi inutili e molesti proprio i capocci della filosofia. Così Luciano entrando in un mondo ideale, ivi dipinge per riflessione il mondo reale che gli sta intorno; anzi, confondendo insieme l’uno e l’altro, forma un’immagine, la quale, come tutte le creazioni artistiche, non è puramente ideale nè puramente reale, e pare contraddittoria a chi non considera bene le ragioni dell’arte. Tale è l’immagine dei filosofi nella Vendita, i quali non sono Pitagora, Diogene, Socrate, Crisippo interamente e veramente quali essi furono, ma sono nella parte che essi ebbero debole e ridicola e comune coi filosofanti posteriori: non è l’immagine compiuta dei capiscuola, nè l’immagine compiuta dei degenerati discepoli, perchè questa non sarebbe stata artistica come priva di bellezza, quella non sarebbe stata efficace perchè priva di somiglianza. È una [p. 115 modifica]immagine mista che a primo vederla ti fa dubitare e scambiare l’una cosa con l’altra; e l’artista questo vuole che tu dubiti e scambi, che nel brutto reale tu veda qualcosa del bello ideale: perocchè questo scambio è la natura del suo concetto, ed è la cagione della bellezza che egli ti rappresenta. Ma se riguardi bene, tu vedi l’una cosa distinta dall’altra: perchè le dottrine vere, che sono l’essenza dei grandi filosofi, non sono esposte affatto; ma solamente è esposta l’ultima ed accessoria parte di esse dottrine, quella parte che è accidentale, esterna e confinante con l’errore, quella parte dove è facile lo scambio, dove sta il ridicolo da cui l’arte può ritrarre il bello. E però il dialogo è una vendita all’incanto non di filosofi, nè di sètte, nè di servi, uè di nulla, ma βιῶν πρᾶσις, Vitarum auctio, vendita di vite, vendita di persone, vendita di certi tali, e non dice di chi, per lasciarti nel vago, e poter ridere e scherzare a suo modo liberamente. Alla bellezza artistica del concetto si accordano benissimo i particolari: ciascun ritratto in quattro colpi è compiuto: il ridicolo che li colorisce è di due specie; o sono esposte come scienza alcune pratiche esterne che non hanno nulla che fare con la scienza, o pure sono ripetute alcune formule e parole che tratte fuori della scienza e del sistema, e intese come suonano comunemente le parole, paiono stranissimi paradossi. I filosofi adunque sono venduti perchè sono inutili al mondo: i compratori sono innominati perchè rappresentano tutto il genere umano: i prezzi sono diversi, per indicare la diversa stima che il mondo, secondo l’opinione di Luciano, deve fare delle loro dottrine. Primo è venduto Pitagora, il quale parla nel suo dialetto giono di Samo; lo comperano per dieci mine trecento Italiani della Magna Grecia, dove le dottrine di quel filosofo ebbero più voga. [p. 116 modifica]Poi viene Diogene con la sfrontatezza e sacciutezza dei Cinici: uno offre per lui due oboli, e vuole servirsene per rematore o per guardian dell’orto: glielo danno per torsi dattorno una molestia. Aristippo non trova compratori, perchè l’usare di tutto, il raccogliere piacere da tutto è dottrina che non giova, nè è onesta. Così ancora non trovano compratori Democrito, pel quale niente era serio, ed Eraclito pel quale tutto era troppo serio: concetto profondo che significa come il riso ed il dolore sono indivisi. Viene Socrate, il cui sapere è umano e riguarda il costume, però è venduto per il maggior prezzo di due talenti; e lo compera Dione Siracusano, che fu amico non di Socrate ma di Platone, e lo chiamò in Sicilia, e lo riscattò dai pirati che lo avevano preso: e questa è la ragione per la quale egli solo fra i compratori ha nome, perchè egli comperò veramente un filosofo. Lo scambio poi tra Socrate e Platone non è caso, ma fina satira, e vuole indicare come Socrate fu il vero capo della scuola che si chiamava platonica. Segue Epicuro, comperato per due mine da uno che promette dargli mangiare fichi secchi e dolciumi. Quello poi che è aspettato da più compratori, che più parla di sè e discute, è Crisippo lo stoico, venduto per dodici mine, comperato da gente grossa e di spalle forti, che più facilmente possono coprire la loro ignoranza sotto una dottrina austera. Aristotele dopo di Socrate è venduto a più caro prezzo, per venti mine, perchè la sua dottrina è umana (ἀνθρώπινα φρονεῖ), e moderata. Ultimo è Pirrone, che appena tra i pochissimi compratori rimasti trova uno che se lo piglia per una mina; ma siccome ei dubita del fatto, e non vuole andare col padrone, è persuaso dallo stringente argomento dello staffile.

Ecco il dialogo spurio ed inetto. Io non so come si [p. 117 modifica]possa non vedere la bellezza di questo concetto, ed il moto, l’azione, la vivacità, il frizzo e la piacevolezza comica sparsa in tutto questo dialogo che Aristofane non isdegnerebbe per suo. In ultimo Luciano prevedendo che la sua satira saprà agra a molti, fa che Mercurio si volga al popolo e dica: Voi ci tornerete domani, che vi venderemo τοὺς ἰδιώτας, gl’ignoranti filosofastri, i facchini della scienza, i disputatori di piazza. Le quali parole fanno intendere quest’altre: Finora ho scherzato coi buoni antichi; se mi tentate, farò davvero coi moderni. E la minaccia ebbe tosto effetto.

LXVIII. Imperocchè moltissimi dovettero altamente scandalizzarsi che Luciano se l’aveva pigliata con tutta la filosofia, mettendo così ridevolmente in vendita i maggiori e più venerandi filosofi dell’antichità; e dovettero dirne tante contro di lui, e tentarlo tanto, che egli scrisse il Pescatore, dialogo simile ad una balista che scaglia mille punte.7 Il concetto è ardito e largo. Ho fatto poco nella Vendita, dove ho nominato gli antichi per un certo riguardo ai moderni: ora la lode ed il biasimo a chi tocca. I buoni non si confondano coi tristi: ed ai buoni deve piacere che i tristi sieno smascherati. Proviamo ora se i moderni filosofi sono degni di questo nome modesto, e se essi non isvergognano quei savi, [p. 118 modifica]le cui dottrine essi dicono di seguitare. Siccome Luciano vuol dimostrare non pure la ragione dal lato suo, ma il torto dal lato degli avversari, così pare che il dialogo abbia due parti e quasi doppio argomento: il che non è; perchè il pensiero è uno, ed egli, per dirla alla greca, ci porge un solo vino in due coppe.

Comincia la scena con un parapiglia. Luciano si trova in mezzo ad una gente arrabbiata che gli dà addosso con pietre, con bastoni, con mani, gli dice un sacco di villanie, lo vuole accoppare, squartare, arrostire. Il poveruomo dimanda pietà: Ma che v’ho fatto? ma chi siete, che mi volete ammazzare? E quei tosto rispondono: Siamo i filosofi che tu hai venduti: avutane licenza da Plutone, siamo risuscitati e venuti a punirti.8 Il meschino piglia fiato. E voi, filosofi, vi adirate tanto? E poi contro di me che vi ho sempre onorato e vendicato? Non avrei mai creduto che un Platone, un Aristotele, un Crisippo si fossero mai sdegnati, e sino a questo punto. — Quest’ira filosofica è dipinta da uno che si ride degli adirati, e in mezzo a loro serba tanto sangue freddo da far parodie di versi: e mentre fa di scusarsi, non può stare che non esca in certe parole equivoche; mentre pare che preghi, egli piacevoleggia, perchè egli li rispetta come savi ed onesti, ma in fondo del cuor suo non li crede. — Voi vi tenete offesi da me: ascoltate le mie ragioni e giudicatemi: mi giudichi la Filosofia, giudicatemi voi stessi tutti quanti. Ma dov’è la vostra Filosofia? dove sta di casa? che io non lo so. — E neppur noi veramente: ma certo la troveremo in piazza. In piazza al parlare sennato la riconoscono, e le vanno incontro: ella calma quegl’irati, e con la [p. 119 modifica]Verità, la Giustizia, la Modestia, la Libertà, la Franchezza e la Pruova, li conduce tutti su la cittadella d’Atene per trattar questa causa. Mentre la Sacerdotessa apparecchia le seggiole sotto il portico del tempio di Pallade, Luciano fa la sua preghiera alla dea. Siedono giudici tutti, anche i filosofi, eccetto Diogene che fa l’accusa contro il retore. Costui, dice, lasciata la rettorica, si è messo a strapazzare la filosofia, e fa cenci dei filosofi, e il popolo appresso a lui ci deride. E facendo questo, ei si crede di filosofare, ed usa il nostro dialogo, ed ha persuaso Menippo ad abbandonar noi ed accordarsi con lui, e darci la baia: ed ultimamente ci ha venduti come servi, e me per due oboli. Luciano sotto nome di Parlachiaro si difende in una lunga diceria, nella quale sverta tutti i vizi, le imposture, e le ribalderie di quelli che svergognano la filosofia. La Verità fa testimonianza per lui: egli è assoluto a pieni voti, ed è dichiarato amico della Filosofia e dei filosofi veri. Ma la Virtù non si contenta, e vuole che ora Parlachiaro accusi gli avversari per farli punire. E qui pare che cominci la seconda parte. Il Sillogismo dall’alto della cittadella fa il bando, e chiama i filosofi a render conto di sè: vengono pochissimi. Lasciate che li chiami io, dice Parlachiaro, e vedrete. Tutti quelli che si tengono filosofi, venite qua; c’è distribuzione, due mine per uno, focacce, e dolciumi. Corrono, s’arrampicano, s’affollano, s’aggruppano, e ronzano come pecchie, si urtano, si bisticciano; ma come odono che si tratta di provare se sono buoni filosofi, spulezzano tutti: nella bisaccia caduta ad un cinico trovano oro, dadi, e galanterie. Sono fuggiti, non si può giudicarli, come si ha a fare per distinguere buoni dai tristi? Manderemo Parlachiaro pel mondo, ed egli con la Pruova li conoscerà e metterà una corona in capo ai buoni, e marchierà in fronte i tristi con un [p. 120 modifica]ferro rovente. La pruova sarà questa, dice la Filosofia. Presenta oro, gloria, piaceri: se vi guardano senza curarsene, sono veri figliuoli d’aquila: se vi fan l’occhio d’amore, sono bastardi. Questa pruova è facilissima, e possiamo cominciarla da qui, dice Parlachiaro. Sacerdotessa, dammi la canna del pescatore, e un po’ d’oro, e fichisecchi per inescar l’amo: caliamolo in mezzo la piazza: ve’, ve’ quanti pesci vi corrono: eccone uno preso: è tua questa bestia, o Diogene? e quest’altra, o Platone? e questa, o Crisippo? Noi non li conosciamo. Dunque giù dalla rocca. Dopo questa pesca piacevolissima, la Filosofia dice a Luciano: Vattene pel mondo con la Pruova, e corona o marchia come t’ho detto.

Questo dialogo è un vero dramma, ha movimento ed azione più di tutti gli altri, e si potrebbe proprio rappresentare. I motti, i frizzi, le piacevolezze sono versate a larga mano, e non ti stancano, anzi ti rallegrano sino all’ultimo. Vendere i filosofi è un’acre beffa certamente, ma almeno i venduti sono considerati come persone, e non perdono la loro qualità umana; ma pescarli nella piazza di Atene è una terribile satira, è considerarli come le ultime delle bestie che non hanno neppur voce. Luciano ha un giusto sentimento di sè stesso, assume l’ufficio di frustare gl’impostori, e lo adempie mirabilmente con una fantasia, un ardire e con un senno insieme ed un’arte che ha pochi pari, e che dimostra un grande ed originale scrittore. Non è un argomento per negare che questi dialoghi sieno di Luciano il dire che egli nella Vendita fa quello strazio dei grandi filosofi antichi, e nel Pescatore si scusa, e dice che egli intende parlare dei cattivi, non dei buoni. Innanzi abbiamo mostrato qual è il vero concetto dell’artista, e come s’ha ad intendere: ora aggiungiamo che nel Pescatore queste scuse non ci sono, ei non si pente, [p. 121 modifica]non muta il suo concetto, ma lo spiega più chiaramente. I veri savi chi li può biasimare? Ma siccome egli è persuaso che saper vero non c’è, o è tutt’altro da quel che si dice, così mentr’egli onora quei savi per alcune parti, per altre li canzona. Lo scettico stima un uomo dotto e savio, sebbene si rida delle sue opinioni: il motteggiatore motteggia anche il sapiente in quella parte che gli trova ridicola, ma non però lo spregia. Luciano era un cervello bizzarro che ne aveva per tutti; e se ei vivesse ora, ne avrebbe delle buone per chi gli vuol togliere due dialoghi bellissimi, e forse anche pel suo traduttore italiano.

LXIX. Il Menippo e l’Icaro-Menippo hanno il medesimo concetto: aver cercata e non aver trovata la verità su la terra, dove i filosofi dicono mille cose contraddittorie, e loro non si può credere. Nel Menippo si cerca la verità morale; nell’Icaro-Menippo la verità fisica ed intellettuale ancora.

Nel dialogo intitolato il Menippo o la Necromantia, Menippo dice così: Quand’io ero bimbo, e leggevo in Omero che gli Dei fanno adulterii, furti, incesti e cose simili, io le credevo lecite e sante, perchè le fanno gli Dei: ma fatto grandicello, seppi che le leggi proibiscono queste cose come misfatti, e le puniscono. Mi trovai imbrogliato, e ricorsi ai filosofi: peggio di peggio, m’imbrogliarono di più. Poeti no, leggi no, filosofi no, come dunque dovrò fare per conoscere il vero, e vivere bene? Pensa e ripensa, mi viene l’idea di ricorrere alla Necromantia. Allora che tutti ci credevano, quest’idea era naturalissima. Menippo adunque dice che egli si propose di scendere all’inferno e dimandare a Tiresia, savio ed indovino famoso, come si deve fare per menare una buona ed onesta vita in questo mondo. Descrive certi incantesimi, la discesa nell’inferno, dove vede in [p. 122 modifica]tribunale Minosse che giudica e fa anche qualche parzialità: vede i castighi dei ribaldi, e vede gli eroi e le eroine, e gli altri morti, quali rosi ed intarlati per l’antichità, e quali ancora freschi, massime gli Egiziani, perchè ben salati: tutti scheletri simili ed indistinti. Fatte alcune considerazioni su la vita umana che è simile ad una favola rappresentata su la scena, finalmente trova Tiresia, e lo dimanda. Il buon vecchio non glielo vorria dire, infine tiratolo in disparte gli dice all’orecchio: La vita degli ignoranti è la più savia: non udire chiacchiere di filosofi: fa come tutti, ridi di tutto, e non curarti di nulla. A questa conclusione si doveva venire dopo tante ricerche e tanti affanni! E perchè si doveva venire a questa conchiusione, che è negativa, però si dipinge largamente l’inferno, in cui è riflesso il mondo di quassù, dove è il positivo ed il reale. I dotti, dice il Weise, a ragione dubitano della genuinità di questo dialogo, in cui le sentenze sono una mera ripetizione di quelle che si leggono nei dialoghi dei morti. Ripetizioni ce n’ha, ma non tante: nè scioccamente fatte da cagionare questo giudizio. Uno scrittore spesso ripete le sue idee con le stesse frasi e parole, e non però fa credere che egli sia un altro. Il Giove confutato ripete il concetto che è nell’ultimo dialogo dei morti; però non è genuino? Se si ripete male, allora la ripetizione è cosa di altra mente. Io per me ci vedo Luciano, che ha sempre innanzi la mente la religione ed il sapere del suo tempo, e non si lascia mai sfuggire l’occasione di mordere la vacuità dei retori: ci vedo lo scettico che si ride di ogni cosa. E invece di notarvi qualche inezia nella dizione, come dice il Weise, io vi noto alcuni tratti belli, come quei vuoti e nuovi retori che fanno da accusatori ai morti, e sono le ombre dei loro corpi vivi; il giudizio di Dionisio assoluto pel [p. 123 modifica]favore di Aristippo; quei morti insalati, quei re che fanno i ciabattini, quel Tiresia con una vociolina sottile, ed altri. Sicchè io tengo il dialogo bellissimo no, ma bello e genuino.

LXX. Menippo per conoscere che cosa è questo universo, e il sole, e la luna, e le stelle, e perchè piove, e tuona, e grandina, si mette l’ali d’Icaro, e sale al cielo, per dimandarne Giove; perchè non altri che Giove può conoscere queste verità, delle quali i filosofi su la terra dicono le più matte cose. Descrive il suo viaggio aereo, e la prima posata che fa nella Luna, dove trova il fisico Empedocle scagliatovi dall’Etna in un’eruzione, il quale gl’insegna come vedere di lassù le cose della terra. Volando egli dalla Luna, questa piglia faccia e voce femminile, e gli raccomanda dire a Giove che i filosofi le danno noia ogni giorno, la misurano, la squadrano, e vogliono sapere tutti i fatti suoi. Viene finalmente al cospetto di Giove, gli conta ogni cosa de’ suoi dubbi, del suo desiderio di sapere, dei filosofi che gli avevano messo sossopra il cervello con le loro pazzie. Giove s’informa che si fa su la terra, che pensano di lui gli uomini, e se sono religiosi; ed egli stesso riconosce che è curato poco. Così ragionando, vanno ad un luogo dove Giove apre alcuni finestrini, e si mette ad udire le preghiere, e le promesse, e i voti che si alzano dalla terra. Dispone la pioggia, la grandine, i tuoni, e conduce Menippo a cena. Il giorno appresso chiama gli Dei a parlamento, e fa una diceria nella quale discorre dei filosofi: gente presuntuosa ed oziosa che vuole ragionare di tutto, trova da ridire in tutto, spia tutto, si mischia dei fatti nostri, dice che noi non siamo niente, e che gli uomini ci sprecano i sacrifizi con noi, e tra breve ci ridurrà a morirci di fame in cielo. Gli Dei frementi gridano: [p. 124 modifica]Fulmini e Tartaro. Giove risponde: La sentenza sarà eseguita, ma ora no, perchè sono giorni di festa: l’eseguiremo a primavera certamente. Il parlamento si scioglie, e Menippo è posato da Mercurio nel Ceramico di Atene. — Questo dialogo bellissimo, pieno delle più liete e festive invenzioni, di sali e di motti piccanti, vago di stile leggiero e spigliato, corretto in tutte le parti, è certamente di Luciano, secondo la mia opinione. I soliti dotti al solito dicono di no, senza darne una ragione. Luciano per loro è un mezzo filosofo, e veneratore della filosofia come sono essi, poco meno che un dottor laureato in utroque: però quando leggono un dialogo ardito che lacera i filosofi, e tira giù contro la filosofìa senza riguardi, e ride, sentenziano tosto: Oh, non può esser suo; non è suo; è spurio; roba da scapestrato e da scolare. Se si volesse stare al giudizio di questi areopagiti giudicanti nel buio, le opere certamente di Luciano sarebbero meno di una dozzina. Ei credeva che la filosofia fosse una ciancia, e i filosofi degl’impostori. Buona o cattiva questa era l’opinione sua, e non bisogna dimenticarla nel leggere le sue opere.

LXXI. Ho ragione di così dire, perchè leggo che la Vendita ed il Pescatore dialoghi sì belli per arte sono dichiarati inetti e spurii, e poi l’Ermotimo, dialogo pregevole sì, ma non paragonabile a quei due, è tenuto come il capolavoro di Luciano, e lodato più di tutti: Scriptio vere Lucianea, ac genuina, ac plane egregia. Io non lo biasimo, non nego che abbia bellezze, ma dico che non è di quella bontà e perfezione che altri dice. L’Ermotimo non è altro che una disputa intorno alla filosofia ed alle sètte filosofiche; e pare scritto da Luciano quando lasciò la rettorica e si messe a conversar coi filosofi, essendo su i quarant’anni. Lo scopo della filosofia è la felicità, a cui si [p. 125 modifica]giunge con la cognizione della verità. Per giungervi bisognano anni assai, e neppure vi si giunge. Ci ha tante sètte, che sono tante vie, che menar dovrebbero alla verità; quale di queste è la vera? Ognuno ti dice che la sua è la migliore. Per giudicare, dovresti conoscerle tutte: e se per conoscere il solo stoicismo tu dici che appena bastano vent’anni,per conoscere tutte le sètte ci vorranno due secoli almeno. E dato anche che tu le conosca tutte, devi sapere scegliere la migliore: e sceltala, chi ti assicura che esista quella verità per la quale ti sei tanto affaticato? Può essere che nessuna delle vie meni allo scopo, e che la Verità sia una bugia bella e buona. Adunque tutte coteste ricerche sono vane, la virtù sta nei fatti non nelle parole; i filosofi insegnano chiacchiere. Vivi come gli altri, ed avrai quella felicità che vai cercando. — Questo scetticismo, questo modo di considerar la filosofia è ben volgare; e se in un’opera d’arte è cagione di bellezza e piace, in un’opera che si propone di confutare seriamente la filosofia, non piace molto nè può piacere, perchè è troppo leggiero e superficiale per un filosofo, troppo grave ed impacciato per un artista. Per combattere la filosofia da filosofo, bisognano argomenti di maggior peso, e per combatterla da artista ci vuole altro ardire e immaginativa. Di questi Luciano non mancava, ma egli era preoccupato dalla gravità della materia, stava in mezzo alle disquisizioni filosofiche, avrebbe voluto dire tutto, e non può, perchè la materia gli manca. Però egli si dibatte in vano; potrebbe dire più breve, e si dilarga in molte parole; accumula esempi ad esempi senza una necessità, e quasi con la coscienza di non giungere ad esprimere bene ciò che egli sì sforza di esprimere. Insomma egli per mostrarsi filosofo non riesce nè filosofo nè artista. O volete filosofico questo dialogo, o lo volete [p. 126 modifica]artistico: filosofico non è, perchè la materia è volgare; artistico non è, perchè è di forma grave e platonica, non altro che un ragionamento serio con poca e sottile ironia. L’unico suo pregio è uno stile lucente, una maniera schietta, la lingua pura: pregio non suo particolare, ma di tutte le altre opere di Luciano. Eppure lo stile manca di quella leggerezza e semplicità che nasce dai pensieri più che dalle parole. E per questo pregio tutto esterno s’ha a dire che sia una scrittura piane egregia? Nè vi trovo alcuna idea o parola che alluda a Marco Aurelio, sì che io possa congetturare, come altri ha fatto, non so su quale argomento, che sia stato composto per pungere lo stoico imperatore. Credo che fu scritto prima del Pescatore e della Vendita, dell’Accusato, e degli altri dialoghi drammatici, appunto allora che Luciano conversava nell’Accademia e nel Liceo. È la prima lancia che ei ruppe contro la filosofia. Ci vedi senza dubbio un uomo ingegnoso, ma che combatte con arme non sua: quando dà di mano all’arte, allora ferisce e vince. L’Ermotimo in una forma platonica racchiude uno scetticismo volgare, ed io non lo tengo dei più fini lavori di Luciano.

LXXII. L’Accusato di due accuse contiene importanti notizie intorno la vita di Luciano, delle quali abbiamo ragionato innanzi; ed è uno dei dialoghi più belli, un quadro di tutto il mondo greco, nel cui centro è Luciano stesso, che osserva quanto gli sta intorno e ride. Tu lo vedi col suo scetticismo religioso e filosofico, col disprezzo che aveva per le inezie rettoriche, e pei dotti vanitosi del suo tempo, rispondere a chi lo accusa, parlare sicuramente di sè, e rovesciare il ranno addosso a chi l’offende. In Atene tutta la greggia degli studianti doveva accusarlo di leggerezza e di mutate opinioni: i retori lo biasimavano di aver lasciata la rettorica, onde [p. 127 modifica]aveva tratto gloria e ricchezze: ed i filosofi di avere apprese le loro dottrine per beffarle, di avere studiato Platone per guastarne l’arte. A queste due accuse ei rispondeva trafiggendoli, e dicendo: Lasciare il peggio per appigliarsi al meglio non è leggerezza ma buon giudizio: molti grandi ed illustri così mutarono, e sono lodati. Polemone da giovane scapestrato diventò filosofo; Dionisio da stoico diventò epicureo; Aristippo da severo diventò voluttuoso; Diogene lasciò il banco e Pirrone la pittura, e si diedero alla filosofia. Perchè biasimate me che ho lasciata la rettorica e la filosofia, e mi sono messo a scrivere dialoghi? E qui naturalmente doveva allegare molte ragioni per dimostrare come la rettorica era scaduta, e non più professione per un uomo onesto, e come la filosofia ridotta a vuote disputazioni non poteva piacere ad un uomo di senno. Questo era il senso della risposta, non la risposta di Luciano. Egli retore, non sa dimenticare i tribunali; egli in Atene, non vede nè ode altro che piati, che piacciono tanto a quel popolo: quest’accusa è un piato vecchio che già appartiene al mondo dell’immaginazione, nel quale egli ti trasporta, e scrive questo dialogo.

Ecco Giove che si lagna di avere per mano tante faccende da non fargli chiudere occhi nè respirare: si affatica notte e giorno a governare il mondo, e pure molti sparlan di lui, e sono malcontenti, e dicono che egli è un poltrone. Molti affari sono trascurati per mancanza di tempo: stanno lì un monte di processi coperti di ragnateli, e non potuti sbrigare: sono citatorie e libelli e querele che le Arti e le Scienze hanno fatto contro alcuni uomini: e questi processi non sono ancora giudicati. A consiglio di Mercurio egli decide di farli giudicare in Atene, ne dà l’incarico allo stesso Mercurio e alla Giustizia, la quale si turba a sentire che deve [p. 128 modifica]scendere di nuovo su la terra, e specialmente in Atene. Ma Giove la conforta e l’assicura che il mondo è mutato per opera di tanti filosofi che vi sono: ed ella deve ubbidire. La poveretta non persuasa interamente, mentre scendono, dimanda a Mercurio come sono i filosofi, e se ella può stare con essi. Mercurio se n’esce pe’ generali: ce n’ha di buoni e di cattivi, i cattivi sono i più, ma pur ci sono i buoni coi quali puoi stare. Ma Pane, che vien loro incontro e che abita nella spelonca sul Partenio, donde si vede tutta Atene di sotto, le dice schiettamente che egli ode sempre grida e schiamazzi e risse di questi tali, e vede che fanno di brutte cose. Intanto Mercurio chiama per bando gli Ateniesi a venir su l’Areopago dove si giudica dei piati: e gli Ateniesi corrono a giudicare ed a piatire. La Giustizia dice: Oggi giudicheremo solamente le querele che le Arti, le Scienze e le Professioni hanno dato ad alcuni uomini: dimani giudicheremo le altre querele. Si sorteggiano le cause, ed a ciascuna, secondo la sua importanza, si destina un numero di giudici. L’Ubbriachezza accusa l’Academia di averle rubato il suo servo Polemone: ma avendo la lingua grossa, non può parlare, e Mercurio propone che l’Academia, la quale in tutte le cose suole sostenere il pro ed il contra, faccia ella stessa l’accusa e la difesa. L’Academia accusa, e difende, e vince la causa. La Stoa accusa la Voluttà di averle rapito Dionisio: difensore della Voluttà è Epicuro, che parla e vince. La Stoa vuol cavillare coi sillogismi, ma non può altro, e si appella a Giove. E finchè Giove non giudichi di questo appello, è differita la causa tra la Voluttà e la Virtù che contendono per Aristippo. Diogene che si ode accusato dal Banco, gli corre appresso, e vuol decidere egli la lite col bastone. Pirrone non si presenta, perchè dubita, e si astiene, e sarà [p. 129 modifica]giudicato in contumacia. Si viene adunque alla causa del Siro, che e Luciano, accusato di due accuse, dalla Rettorica e dal Dialogo. La Rettorica dice che ella prese a nutrirlo ed educarlo garzone, lo fece ammirare, celebrare, arricchire, conoscere in tanti paesi; e l’ingrato mi ha lasciata, me bella e ricca e desiderata da tanti e innamorata solo di lui; ed ora se ne sta col vecchio e malinconico Dialogo, e di lui si piace; sebbene sento che hanno tra loro qualche briga. Il Siro non nega i benefizi ricevuti, ma dice che ella è divenuta una sfacciata sgualdrina, e però gli è convenuto lasciarla, e ricoverarsi a casa il Dialogo, che lo ha accolto benignamente. Vince il Siro, ed ha un solo voto contrario, forse di qualche retore. Il Dialogo accusa il Siro che lo ha spogliato del suo grave e composto vestimento, e gli ha messa indosso una giornea comica e satirica: gli ha sguinzagliato addosso Menippo, vecchio cane cinico che ride e morde tutti; e che lo ha fatto diventare mezzo prosa e mezzo verso. Luciano risponde, che egli lo ha renduto piacente, gli ha tolta l’asprezza e la ruvidezza che aveva, lo fa parlare di cose utili ed umane, non di aeree vanità. Ed ha tutti i voti, salvo quello del solito retore.

Si può egli con più bella immaginazione, con maggiore grazia e vivezza, e con più fina satira rivestire un concetto, e difendersi da un’accusa di leggerezza? Il Pescatore e l’Accusato sono due drammi compiuti, hanno azione e forza comica più di tutti gli altri, e come lavori d’arte a me piacciono più di tutti gli altri. E perchè Luciano trattava in essi la causa propria, vi messe ogni sforzo d’ingegno e di arte, quanto potè dire della sua vita, de’ suoi studi, delle sue opinioni, infine tutto sè stesso.

LXXIIL Nei quattro dialoghi gli Osservatori, il [p. 130 modifica]Tragitto; il Gallo ed il Naviglio, non si trova concetto particolare di Luciano, nè la sua maniera; ma si vede un moralista che satireggia su i generali, ed ora osserva la vita umana e ne deride la vanità, ora guarda la superbia dei potenti e si piace a vederla punita, ora il fasto e la mollezza dei ricchi che stanno in fondo a mille turpitudini, ed ora la stoltezza di quelli che agognano ricchezze e fanno castelli d’oro. Il pensiero di tutti e quattro pare sia uno, che la ricchezza e la potenza non sono un vero bene, ma una vanità, sono accompagnate da vizi orribili, e sono punite in questa vita e nell’altra. Tutti e quattro sono tenuti certamente spurii. Io per me affermo che solo gli Osservatori non mi pare dialogo genuino, e degli altri dubito. Non ho detto, nè credo che nella mente di Luciano non entrassero altri concetti che quelli di cui ho parlato, e che egli non sapesse altro che motteggiare la religione, la filosofia, e i cattivi artisti. La morale per sè stessa è tale argomento che ben egli poteva trattarlo; e Luciano pittore di costumi, vedeva l’insolenza dei ricchi, le sofferenze dei poveri, l’avidità di tutti, spettacolo ben grave in quel tempo, e degno di essere fedelmente ritratto. E se egli ne dipinse un lato piacevole nei suoi leggiadri Saturnali, non poteva ritrarne il lato tristo e più vero in tre dialoghi? Io dunque credo che per la materia possono appartenere a Luciano. Ci ha fantasia molta, ci ha molti sali e leggiadrie: manca la sola limpidezza del dettato: ma tutte le opere di uno scrittore sono tutte di egual pregio? Per queste ragioni io dubito, e non so dire nulla di certo.

Gli Osservatori sono Caronte e Mercurio, che declamano su le generali vanità del mondo, e per osservare queste generalità si fanno un ridicolo osservatorio di monti sovrapposti a monti: il che non e satira nè [p. 131 modifica]imitazione d’Omero, come l’autore vorrebbe fare intendere, ma niente altro che una goffaggine. Nè il dialogo tra Creso e Solone ficcato in questo dialogo è una invenzione molto felice. Le osservazioni poi sono comuni e volgari, e non osservano nulla di particolare e di piacevole.

Il Tragitto è pieno di azione, non manca di bellezze e di sentimenti generosi: mostra la pena che si dà nell’inferno ad un Tiranno scelleratissimo: glie opposto un Cinico che lo accusa di tutte le ribalderie commesse, ed un povero ciabattino vissuto onestamente. Vi scorgi acerbità molta, non quel sentimento di disprezzo che Luciano aveva per gli uomini e per le opinioni del suo tempo. Il cinico, tipo dell’uomo onesto e generoso, è opposto al tiranno; ma il filosofo maestro e medico degli uomini, non è concetto dello scettico Luciano, che si rideva della filosofia e dei filosofi.

Il Gallo è fatto per consolare i poveri, e persuaderli a non invidiare ai ricchi, dei quali si descrive a lungo la vita, le noie, i vizi, e infine se ne dimostrano le infamie. L’avidità del plebeo che non ode sermoni, e guarda soltanto alla materia ed all’utile, è dipinta assai bene. Consolatore del povero artigiano è un gallo nel quale è l’anima di Pitagora, è la filosofia che scende sino al povero, è il suo buon senso stesso che gli dimostra il vero. Ma questo buon senso non basta: il ciabattino deve vedere e toccare: così si persuade e si contenta della sua povertà. Il dialogo è bello, e non manca di molti mali bottoni gettati contro i filosofi.

Il Naviglio non mi pare indegno di Luciano, ed è una satira degli Ateniesi chiacchieroni e facitori di castelli. Capita nel Pireo una gran nave carica di grano per Roma: quattro amici scendono a vederla: risalendo in città, e chiacchierando della ricchezza che portava [p. 132 modifica]la nave, cominciano ad immaginare mirabilia, e fanno a chi desidera una cosa migliore. Il primo vorrebbe quella nave carica d’oro; il secondo vorrebb’essere un conquistatore; il terzo vorrebbe un anello che lo rendesse invisibile; il quarto, che pare esso Luciano, si burla degli altri, e dice che egli non è così pazzo da desiderar cose impossibili. Forse il fatto e i discorsi furono veri, e lo scrittore che li riferisce, li adorna di molte piacevolezze.

LXXIV. L’Eunuco ed il Convito mordono i mali costumi dei filosofi, e sono tenuti spurii senza dubbio per la grave ragione che non hanno bastante rispetto alla filosofia!

Nell’Eunuco si descrive una scena ridicola tra due filosofi che contendono in piazza innanzi ai giudici per avere il posto e la provvisione di pubblico professore, che aveva mille dramme l’anno. L’uno diceva che l’altro non poteva essere professore, perchè eunuco: l’altro sostiene che un eunuco può essere un gran savio, e ce ne sono stati, ed essendo professore fa meglio pei giovani. Entra un terzo e dice, che questi che pare eunuco fu già colto in adulterio. Tutti ridono: chi propone una pruova, chi un’altra: i giudici s’imbrogliano, e per far cessare le risa e lo scandalo, rimettono all’imperatore il giudizio di questo gran caso. — È un capriccio ardito ed allegro, una scena accaduta in piazza e gittata su la carta così come era stata. Il concetto è di Luciano, lo stile facile, la dizione chiara e scorrevole, la satira pungente: e non è a torcere il muso alle ultime parole non troppo costumate, ma ricordare la differenza dei costumi, e come i Greci nel parlare non usavano quei gentili riguardi che usiam noi. Io dunque non sono senza dubbio, e pendo piuttosto a crederlo genuino. [p. 133 modifica]

A proposito di questo Eunuco, trovo infine della prefazione latina che il Reitz ha premessa al suo Luciano, queste parole: Matrimonium iniit media celate (Lucianus); filiique meminit Eunuchus, c. 13, f. E più giù queste altre: Periisse podagra non affirmare ausim cum Bourdelotio, licet id non absimile vero sit, si ipse auctor est Tragodopodagræ. Il Reitz adunque crede che Luciano ebbe moglie ed un figliuolo, perchè d’un figliuolo si parla nell’Eunuco; e non afferma col Bourdelot, ma crede possibile che ei sia morto di podagra, se egli è l’autore della Tranodopodagra. Questi bravi eruditi talvolta ne dicono delle grosse.

LXXV. E così pendo ancora per il Convito. Questo dialogo descrive un banchetto in casa di un ricco, dove convengono filosofi di ogni setta, e un retore, e un grammatico, e un medico, ed altri savi. Le cose che fanno e che dicono costoro sono le più nuove del mondo, infine scoppia tra loro una rissa, vengono alle mani ed al sangue, e nasce un parapiglia che ti sforza a ridere, lo sarei tentato a credere che è una satira dei Dipnosofisti di Ateneo, il quale tratta sul serio questo argomento d’un convito, dove si raccolgono savi di ogni specie e ragionano di molte e belle cose: ricordanza dei lieti tempi nei quali i Tolomei pascevano greggi di letterati, che talvolta si ragunavano anche alla mensa reale. Luciano che non pregiava molto la sapienza cortigiana, avrebbe detto ad Ateneo: Sì, raccoglili a mensa, e vedrai che staranno insieme come un sacco di gatti, non saranno dipnosofìsti, ma dipnolapiti. Infatti i convivanti lapiti di Luciano recitano versi e dicerie, come i sofisti di Ateneo; ed alcuni hanno gli stessi nomi e la stessa appellazione, come il divino Iono. Ad ogni modo se questo dialogo non è la satira dei dipnosofisti, se non fu scritto a posta per [p. 134 modifica]pungere Ateneo, è scritto certamente con intendimento contrario a quello d’Ateneo. Ora dove sono meglio dipinti i filosofi ed i savi del secolo, in questo Convito o nei Dipnosofisti? Ateneo si traportò in un tempo antico, e ci rimase nella sua opera una raccolta di tutte le cognizioni che erano nel tempo suo: Luciano dipinge con più verità gli uomini della sua età, e fa un’opera d’arte che riesce bella ed allegra: l’uno è un erudito, l’altro è un artista. Egli è vero che lo stile e la lingua di questo dialogo non hanno il candore ed il nitore lucianesco: ma se esso è una caricatura, come io sospetto, lo stile dev’essere un poco sforzato: e se io avessi l’opera di Ateneo, vorrei vedere se quella che non pare semplicità, sia pieghevolezza ed imitazione naturalissima. È questa una tentazione che m’è venuta, e l’ho detta per quanto vale. Quello che mi pare certo è che il dialogo è piacevole, e dimostra ciò che Luciano cerca sempre dimostrare, che la più parte dei savi di quel tempo erano una gente presuntuosa che diceva grandi paroloni, mentre era fitta in una fangaia di vizi e di turpitudini.

LXXVI. E per ammaccare questa presunzione, per rallegrare e ridere e dire una bizzarria, è scritto il Parassito, che con molti sottili e speciosi argomenti vuol dimostrare che l’arte parassitica è la maggiore e migliore di tutte le arti, e sorpassa anche la filosofia e la rettorica tenute sì grandi. E questa dimostrazione è fatta con molto fine accorgimento, molte grazie e lepori: se non che lo scherzo è protratto un poco troppo a lungo; e talvolta la molta saccenteria genera una certa freddezza, ed incresce. Può essere di Luciano, ma non ha la forma breve e leggiera, il fare libero e sicuro che è nelle altre opere: onde ragionevolmente si dubita se sia suo. Noi non conosciamo l’occasione per la quale [p. 135 modifica]questo ed altri dialoghi furono scritti, e però non possiamo farne giudizio esatto, nè dirne altro. E forse è bene di non dire molto di uno scherzo troppo prolungato.

LXXVII. Se alcune delle più belle opere di Luciano, perchè strapazzano la filosofia ed i filosofi, non sono tenute per sue, il Peregrino, perchè narra la morte di un impostore che fu cristiano, e perchè dice per incidente poche parole generali intorno ai cristiani, ha fatto nascere mille scrupoli, mille dubbi, mille clamori, ed è stato sentenziato come scritto empio, scellerato, apocrifo, e monco. Osserviamo senza preconcetto. Non è un dialogo, ma una lettera di Luciano a Cromo, nella quale con molti particolari si narra la morte di Peregrino, detto il Proteo, che da sè stesso si gettò in una pira accesa innanzi a moltissimi spettatori raccolti per i giuochi olimpici. Lo scrittore afferma di avere già prima conosciuto quel tristo, e di aver navigato con lui: racconta che egli con altri amici andò in Elide e lo rivide, l’udì parlare prima di morire, e con gli occhi propri lo vide gettarsi nel fuoco. Bisogna pur credere a chi afferma di aver veduto con gli occhi suoi, pure non bisogna credere più a nessuna persona al mondo. Può egli avere esagerato i vizi di Peregrino; può non essere del tutto vero che Peregrino fu adultero, corruttore de’ giovani, parricida, e quel sozzo e scellerato impostore che è descritto: una cosa è vera, e veduta con gli occhi propri, e della quale non c’è ragione di dubitare, che Peregrino gettossi da sè nel fuoco in Olimpia per desiderio di una famosa morte. Questo basta per rigettare il sospetto di Stefano Le Moyne, il quale crede che questo Peregrino, che si bruciò da sè in Olimpia, sia san Policarpo, che fu bruciato a Smirne, e la cui anima, dicesi, fu veduta [p. 136 modifica]volare dal rogo in forma di colomba: e che però Luciano disse per beffa che l’anima di Peregrino volò dal rogo in forma di corvo. Sospetto ingiusto, senza fondamento, e quasi puerile, venutogli unicamente da quel corvo che gli parve scambiato con la colomba. Luciano non aveva ragione di nascondere e mentire nome, luogo, persone, e tutte le circostanze del fatto; egli che non suole risparmiare nessuno e non aver riguardi per nessuno, avrebbe egli parlato con lontane allegorie di un povero cristiano perseguitato e giustiziato, se egli fosse stato sì vile da infamarlo e beffarlo? Rigettato questo sospetto, e stabilito che Peregrino non fu altro che Peregrino, si cerca di sapere se fu veramente un tristo, se ei fu calunniato. Di lui parlano A. Gellio, Atenagora, Tertulliano, Ammiano Marcellino: i pagani ne dicono gran male, i cristiani gran bene, e lo annoverano tra i martiri. Senza entrare molto in questa discussione, che forse è inutile; e considerando che lo zelo religioso, come ogni amore di parte, ci guasta il giudizio e ci fa credere buoni tutti quelli che sentono come noi, e malvagi tutti quelli che sentono diversamente da noi, possiamo dire che i pagani riguardavano in Peregrino le azioni della vita e lo vituperavano, i cristiani la sola fede e lo lodavano a cielo: ed in quest’opera noi troviamo che ei fu malvagio e cristiano, qualità che possono stare insieme benissimo, perchè la fede non ha che fare con la morale, ed oggi il mondo è pieno di malvagi cristiani. Ma nessuno degli scrittori sì pagani che cristiani, dice con tante particolarità: io con gli occhi miei l’ho veduto morire; però Luciano merita più fede, voglio dir solamente per la morte. Ora chi sceglie quel genere di morte, che non è nè savia nè cristiana; chi ha il soprannome di Proteo, perchè mutossi in mille guise; chi da vecchio muore a quel modo, [p. 137 modifica]fa credere ragionevolmenle che ei visse da giovane assai male, e che veramente fu un ribaldo ed un impostore. Luciano non biasima Peregrino perchè fu cristiano, ma perchè fu un malvagio, perchè fu un impostore anche tra i cristiani. Bisogna adunque distinguere e separare Peregrino dai cristiani, e non confondere la causa d’un tristo con quella d’una religione. Vediamo come Luciano parla dei cristiani. Poichè Peregrino per i suoi misfatti fu costretto a fuggire dalla patria, capitò nella Palestina, dove apprese la mirabile sapienza dei cristiani. Questo farsi cristiano dopo una vita scorretta e dopo grandi delitti, è cosa confermata da mille esempi nella storia. In breve tempo questo furbo, che era intelligente assai e destro, sorpassò i sacerdoti ed i dottori cristiani, e diventò profeta, e interpetre, e spositore, e scrittore ancora dei libri sacri: sicchè i cristiani lo stimavano come un dio, lo tenevano come legislatore, lo intitolavano loro capo. Infatti essi adorano quel grande uomo che fu crocifisso in Palestina, perchè introdusse questa nuova religione nel mondo. Incarcerato come cristiano, fu da ogni specie di cristiani aiutato, visitato, sovvenuto; le vedove e gli orfani lo servivano, i principali andavano in carcere ad intrattenersi con lui, e lo tenevano come il loro Socrate; le città gli mandavano ambasciatori e danari, ed ei ne raccolse assai. Perocchè questi sciagurati credono che saranno immortali e che vivranno nell’eternità: però spregiano anche la morte e le vanno incontro. Poi che il loro primo maestro li ha persuasi a tenersi fra loro come fratelli, quando essi abbandonano gli Dei de’ Greci, adorano quel loro sofista crocifisso, vivono secondo le sue leggi, spregiano ogni cosa, hanno tutto in comune esattamente. Sicchè se entra fra loro un uomo astuto e destro, tosto si fa ricco, avendo a trattare con uomini ignoranti. Ecco tutto il gran male che un [p. 138 modifica]pagano dice dei cristiani! li chiama sciagurati ed ignoranti, ma buoni e, soccorrevoli tra loro. Un pagano che non credeva nella divinità di Cristo, pur l’onora, perchè lo chiama quel grand’uomo che fu crocifisso in Palestina, e sofista crocifisso; e dice non per ironia che la sapienza de’ cristiani è mirabile, ma davvero, perchè ella era nata da un grand’uomo, e praticata da gente di bontà e credulità mirabile. Ora dire che Luciano in quest’opera derida Cristo e i cristiani è la più grande e sciocca bugia che sia stata detta, e che si riconosce subito da chiunque si fa a leggere questo scritto. Luciano, come pagano, e come quel satirico scrittore che egli è, tratta benignamente i cristiani; non come Tacito, che li chiamò nemici del genere umano: egli biasima solamente Peregrino, pessimo uomo, cattivo cristiano. E questa moderazione che egli usa parlando dei cristiani, ci dimostra chiaro che egli non si lasciava traportare da passione, e diceva il vero quando vituperava quel tristo che dai cristiani istessi fu infine conosciuto e scacciato dalla loro comunione, quel Proteo che anche dopo la morte doveva pigliar nuove forme, e dalla superstizione essere ascritto tra i martiri. Oh come la superstizione stravolge gli uomini ed i giudizi! Un onesto pagano che parla moderatamente e con certo rispetto del cristianesimo, e lo dice mirabile sebbene nol conosca, è un empio; ed un parricida che si mette la maschera di cristiano, è un santo. Infine non avendosi che altro dire, si ricorre a supposizioni, e si afferma che in questa opera sono stati soppressi molti dispregi che vi eran detti dei cristiani, e si addita anche una lacuna nel cap. 11, prima delle parole Infatti essi adorano ancora quel grand’uomo: dove ognuno che ha senno e sa un tantino di greco, vede che lacuna non v’è, nè vi può essere. Tutto lo scandalo è nato perchè Cristo [p. 139 modifica]è detto grand’uomo da uno che non lo credeva Dio. Ma lasciamo pure questa discussione, e diciamo con piena coscienza che Luciano nel Peregrino non deride nè oltraggia i cristiani in nessun modo: e che gli uomini timorati possono leggere senza scandalo questo scritto, i sennati farne giudizio più giusto.

Non è già una fantasia, ma un’usanza dei Greci quel parlare che fanno nel ginnasio un Cinico, il quale loda Peregrino come il maggiore dei filosofi, un miracolo di natura, paragonabile solamente a Giove olimpico; ed un altro innominato (che forse è Luciano stesso) il quale ne racconta diffusamente la vita e le vergogne, e discorre del proposito fatto di bruciarsi vivo per acquistare gran fama, ed essere tenuto come un iddio dalla gente sciocca, ed infine vorrebbe che tutti i cinici seguissero l’esempio del loro maestro. La gran vanità di Proteo, il suo dubitare, poi decidersi, il rogo, la processione, il bruciamento, i Cinici che rimangono immobili, Luciano che li deride, quelli che gli si voltano in cagnesco, e alle minacce cagliano, la partenza, i discorsi della gente che ritorna dal fatto, ogni cosa è descritto con evidenza e con bellezza di stile e di parole. Io vi riconosco Luciano che si ride delle sciocchezze umane, e si piglia spasso a descrivere gli sciocchi, ma non perdona mai e niente a coloro che fanno il tristo mestiere d’ingannare il genere umano: e per me quest’opera è certamente genuina.

LXXVIII. Ei pare che alcuni di quei Cinici seguaci di Peregrino, che Luciano minacciò afferrarli e gettarli nel rogo appresso al loro maestro, avessero sparlato di Luciano: il quale avendo dipinto il maestro, dipinge gli scolari nel dialogo i Fuggitivi. Al Bourdelot ed al Marcilio questo dialogo non pare di Luciano: al Kustero sì, e per la materia e per lo stile. La scena, come in [p. 140 modifica]molti altri, è prima in cielo poi su la terra. Apollo dimanda a Giove se egli è vero che un vecchio si è gittato da sè nel fuoco in Olimpia, e per quale cagione: e mentre Giove sta per dirglielo, viene la Filosofia tutta sossopra e lagrimosa a chiedere aiuto e vendetta contro una gente piena d’ignoranza e sozza di ogni vizio, i quali l’hanno offesa, e sfacciatamente pigliano il suo nome, e si chiamano filosofi. Questi sono la più parte vilissimi artigiani, nettapanni, scardassieri, ciabattini, che non potendo vivere dell’arte loro, indossano mantello e bisaccia, e si spacciano filosofi. Al racconto delle ribalderie di quei tristi, Giove rimanda su la terra la Filosofia accompagnata da Mercurio e da Ercole, per scopare quella sozzura dal mondo. Scendono in Tracia, s’abbattono in alcuni uomini che vanno cercando certi loro servi fuggitivi, ed in un povero marito cui è stata rubata la moglie da uno di quei servi. Si dimandano gli Dei e gli uomini, si rispondono, scoprono che i tre servi fuggitivi sono divenuti tre filosofi cinici, e la donna cinicamente filosofeggia con tutti e tre. Mercurio promette per bando un premio a chi indica i fuggitivi. Comparisce Orfeo, gentil poeta e legislatore, però nemico di ogni impostura ed ingiustizia, il quale indica una casetta dove essi sono, e ritirasi. Te li acchiappano tutti e quattro, te li riconoscono per quei ghiotti che sono; e Mercurio comanda che la donna torni al marito che non la vuole più, i servi ai padroni, ed ai mestieri che facevano, ma uno, il più sfacciato, sia legato, pelato, battuto, ed esposto nudo su la neve di monte Emo. Il dialogo ha molta vita ed azione; e massime nel riconoscimento dei fuggitivi è una forza e celerità comica, un gruppo di motti, di allusioni, di malizie che mi fanno riconoscere l’ingegno, l’arte, e la maniera di Luciano. [p. 141 modifica]

religione.

LXXIX. Opere satiriche. Quando leggi il Prometeo di Luciano naturalmente ti viene a memoria il Prometeo di Eschilo: ambedue cominciano quasi nel modo stesso, ma quanto sono lontani e diversi tra loro! L’uno fu scritto al tempo che vivevano i giganti di Maratona, ed è opera gigantesca: l’altro fu scritto al tempo dei sofisti, ed è una diceria sofistica. Eschilo in quel Titano sapiente e magnanimo rappresenta la persona della intelligenza umana che soffre per aver fatto il bene, e nel suo sofferire è più grande di Giove fortunato e potente: quindi il bene che Prometeo ha fatto, ed il dolore che egli soffre sono le due grandi idee che il poeta mostra e spiega largamente: le accuse che gli si danno, ed il pretesto pel quale egli è fatto sofferire, essendo cagioni lievi e false, sono accennate leggermente. Quel grande patisce ingiustizia, e non discute, ma tace. Luciano per contrario si appiglia appunto a quel pretesto, a quelle accuse, a quelle colorate cagioni, e ne dimostra la falsità e la sciocchezza: egli tocca poco del bene fatto da Prometeo, e niente del dolore di quel magnanimo; il quale non è più quel subhme sapiente che non si abbassa a dire neppure un ahi innanzi ai suoi tormentatori, che rifiuta ogni intercessione d’amici, che non cessa di beneficare, consigliare, e confortare di speranze gli altri sventurati come lui perseguitati dall’ira dei potenti, che disprezza e ributta chi gli consiglia una viltà, che sfida impavido tutta l’ira ed il furore del cielo; ma è divenuto un sofista linguacciuto e pettegolo, che vuol contare le sue ragioni al bargello, e non potendo dimenticare i piati e i tribunali, fa giudici ed accusatori i birri, ed ei sciorina la diceria della [p. 142 modifica]difesa. Se leggi il Prometeo di Eschilo, quella sublimità di concetti, quella solenne e sobria melodia di arte ti fa spiacere il Prometeo di Luciano. Ma se consideri che Luciano non volle fare una poesìa, ma una satira religiosa, troverai che egli non poteva appigliarsi ad altro per cavarne il ridicolo, e che assai abilmente, e secondo retore, ha trattato il soggetto, ed ha raggiunto il suo scopo di mostrare sciocco il senno supremo del mondo. E la satira è più amara perchè fatta con una specie di apparente moderazione. Insomma Eschilo ti vuol fare ammirare Prometeo, Luciano ti vuol fare disprezzar Giove, atterrare questo grand’idolo della fantasia antica: l’uno innalza un grande intelletto al di sopra di tutti gl’iddii; l’altro piglia il massimo degl’iddii e te lo abbassa al di sotto del senso comune degli uomini.

LXXX. Il Giove confutato contiene un concetto profondo, il gran problema della prescienza divina e della liberta umana, che tutte le religioni cercano di sciogliere. Un Cinico fa a Giove certe semplici dimando, e lo imbroglia, lo fa cadere in contraddizione, lo deride. Se le Parche prestabiliscono ogni cosa, e nessuno può mutare i loro destinati, a che si fanno preghiere e sacrifizi agli Dei, i quali non possono nulla, e sono soggetti alle Parche come gli uomini, anzi più degli uomini, perchè questi servono per il breve tempo della vita, ed essi sono eterni servitori e ministri di quelle? Se tutto è prestabilito ed ordinato, i vaticinii sono inutili bugiardi, la provvidenza degli Dei non esiste, e l’uomo non deve avere nè colpa nè merito delle sue azioni, che non sono volontarie ma predestinate. Giove che si sente nei lacci, si dimena per uscirne, e non sa, e ricorre infine alle minacce, ed il Cinico lo sfida: Fulmina pure, percuotimi se è destinato che io debba essere percosso dal fulmine; io non te ne vorrò male, perchè so che [p. 143 modifica]non mi percuoti tu, ma il fato, e tu sei impotente. Questo dialogo è l’espressione più compiuta dello scetticismo religioso di Luciano, ed è fatto con molta schiettezza e molti lepori: ma non è altro che una semplice discussione, non un’opera d’arte. Lo scrittore sente la gravità del suo argomento, e lo tratta con certo rigore, che ammette pochi ornamenti, e rifiuta le invenzioni e la poesia. Il fato sì terribile agli antichi e scuro ed inevitabile è mostrato ridicolo, perchè è già conosciuto e vinto dalla ragione umana. E il Cinico che la rappresenta, si protesta di non usare gli argomenti della scuole, ma le osservazioni del senno naturale contro Giove, personificazione della ragione sacerdotale antica. Questa discussione è importantissima; finisce con l’annullamento del fato ed il trionfo pieno della libertà umana, per dir meglio e come l’intendeva Luciano, della libertà individuale. Poteva egli entrare poesia in questa discussione sì grave?

LXXXI. Lo stesso concetto è nel Giove tragedo, ma non nella stessa ampiezza, però il dialogo piglia una forma artistica e leggiera, ha molta comica poesia, e molte grazie. Giove pensoso e tristo come un re di tragedia, si lagna di una grande sventura: gli fanno forza a dire, ed ei dice: Ieri uno Stoico ed un Epicureo in Atene disputavano pubblicamente intorno alla provvidenza ed agli Dei; la gente che udiva era molta, ed aspettano chi uscirà vincitore della disputa, che oggi dovrà finire. Che consiglio prendere? Convocare tutti gli Dei a parlamento, perchè la è una faccenda che importa a tutti. Chiamati, convengono tutti, e siedono ciascuno secondo che è di oro, di argento, di bronzo: viene anche il Colosso di Rodi, e rimane in piedi e fa da ombrella all’adunanza. Giove fa la sua diceria raffazzonando Demostene, ed espone il caso. Momo dimanda [p. 144 modifica]la parola libera, e dice che gli Dei hanno meritato questo male e peggio perchè non si curano affatto delle cose del mondo, e sono un punto peggiori degli uomini. Nettuno propone di fulminare l’epicureo: ma la proposta è scartata, perchè il fato nol consente. Apollo propone di dare un avvocato allo stoico non troppo bravo parlatore: ed è anche scartata, perchè ridicola. Ercole propone, se la disputa piglia cattiva piega, di scrollare il portico e farlo cadere in capo all’epicureo: ed è scartata come un poco bestiale, ed anche non voluta dal fato. Intanto ecco il Mercurio di piazza che viene ad annunziare cominciata la disputa: si aprono le porte del cielo, e tutti gli Dei guardano ed odono i due disputanti in mezzo una grande moltitudine di ascoltatori. Lo Stoico villanamente attacca l’Epicureo, e l’ingiuria: questi freddo risponde, discorre delle cose del mondo, e dice che non sono governate da alcun senno. Mentre si parla in terra, non si tace in cielo: mentre l’Epicureo gitta bottoni grossi contro gl’iddii, Momo di su rinforza le botte, e Giove, che si sente ferito più degli altri, vanamente si dibatte. Infine lo Stoico vinto si scaglia nelle più grossolane villanie, e mette mano ai sassi: l’Epicureo ride e vassene, e con lui tutta la gente, che lo applaudisce. In cielo gli Dei tacciono. Giove dice: E che faremo ora? Nulla, risponde Mercurio; non è gran male che pochi la pensino così: nel mondo non mancherà mai una gran moltitudine di sciocchi che ci adoreranno. Ma io vorrei, ripiglia Giove, piuttosto un savio solo da mia parte, che molte migliaia di sciocchi. — Da queste ultime parole si raccoglie che il problema della provvidenza e della esistenza degli Dei non è presentato alla ragione per iscioglierlo, ma alla fantasia; quindi nel dialogo non sono argomenti per convincere la ragione che è sempre di pochi, ma immagini convenienti a [p. 145 modifica]muovere le fantasie del popolo in mezzo al quale è la disputa. Io non so per quali ragioni questo dialogo, che a me pare genuino per il concetto, per lo stile, per le leggiadre invenzioni, e per la correzione della lingua, paia al Weise un dialogo spurio, dialogus spurius, senza aggiungervi altro. Forse l’argomento, forse il titolo, forse i versi onde comincia il dialogo fanno dare questo giudizio? Ma se Luciano è uno scettico che deride la religione del paganesimo, perchè scandalezzarsi che egli spinga troppo in là il suo scetticismo, e per lo scandalo negargli questo dialogo? Il quale per l’argomento è assai meno grave, o per dirla con una frase religiosa, è assai meno empio del Giove confutato: or se questo non si dubita che sia di Luciano, perchè deve dubitarsi del Giove tragedo? Questo titolo poi è convenientissimo, e vuol dire quasi Giove piagnone, Giove simile ad uno di quei re di Euripide caduti in basso e spogliati del regno, e però dolenti, Telephus et Peleus pauper et exul uterque. I versi ci stanno a proposito, perchè Giove dev’essere ridicolo, e deve dire ampullas et sesquipedalia verba; e sono parodie dei versi di Euripide, col quale Luciano non ha lo sdegno di Aristofane, ma non ha neppure molta simpatia, e quando può dargli una bolzonata, non la risparmia. Dunque per quali ragioni è spurio? Per dichiarare spurio un figliuolo, tutte le leggi del mondo vogliono che si proceda con assai riguardi e con pruove sovrabbondanti, le quali non sono allegate affatto. Io allego le contrarie, sostengo che questo figliuolo è legittimo, e dico: Guardatelo in viso, e vedete come esso alle fattezze, al moto, al riso, al parlare, somiglia tutto a suo padre.

LXXXIL Anche legittimo figliuolo ed amabile è il Parlamento degli Dei, piacevole finzione, in cui si deride la sformata accozzaglia di Numi forestieri venuti ad [p. 146 modifica]abitare l’Olimpo de’ Greci. Giove chiama un parlamento come quelli che si facevano in Atene, e fa che il banditore dimandi chi degli Dei perfetti, a cui è permesso per legge, vuol parlamentare. Si leva Momo, e dice: che la gran folla de’ forestieri in cielo è ormai insopportabile, e vi ha fatto incarare il prezzo dell’ambrosia e del nettare: che Bacco vi ha condotto una truppa di villani, di caprai, di brutti figuri, di bagasce, ed una di queste anche con un cagnolino: che non tutti gli Dei che si tengono per cittadini veraci, sono tali; e Giove stesso non si sa se è tale, perchè si tiene che sia sepolto in Creta: che Giove coi suoi amorazzi ha empiuto il cielo di bastardi, ed ogni dea ha voluto condurvi il suo ganzo, ed ogni dio il suo mignone. Gli dei dei Goti e degli Sciti si conoscono al vestito: ma che vuol dire che sono nell’Olimpo anche il toro di Menfi, e le scimmie, e i cani, e gl’ibi, e i becchi, e gli altri dii egiziani? E lasciando questi mistici egiziani, come si può sopportare che ogni impostore e furfante che muore, è fatto iddio, e dà oracoli, e gli si rizzano are, e gli si offrono corone? Infine, come se fossero pochi tutti questi, i filosofi hanno inventato certi vuoti nomi, come la Virtù, la Natura, il Fato, la Fortuna, e ne hanno fatto altri iddii. Però Momo propone un decreto, nel quale si ordina che chiunque si tiene Dio vero debba provare la sua divinità con buoni e validi documenti innanzi sette arbitri giurati, che saranno scelti tre dal vecchio consiglio di Saturno, e quattro dai Dodici; i quali esamineranno i titoli di ciascuno, la patria, il padre, la madre, ogni cosa: ai filosofi vietato di foggiar nomi, e ragionare di cose che non conoscono. Giove approva da sè il decreto, il quale se fosse messo a partito sarebbe ributtato da molti voti contrari; ed annunzia che gli arbitri faranno giustizia senza [p. 147 modifica]guardi per nessuno. Questo Momo è il senno volgare, il quale considera le credenze di tutti i popoli ormai mescolati e confusi; e ride di tutto il politeismo, come di una varia, diversa ed immensa mole di vuote fantasie che tra poco dovevano cadere.

LXXXIII. Il titolo del Filopseude è la prima piacevolezza di questo dialogo piacevolissimo, nel quale Luciano deride coloro che facendo professione di sapienti, non erano vaghi della sapienza, ma della bugia, non filo-sofi, ma filo-pseudi; e andavano perduti dietro la medicina empirica, gl’incantesimi, la ciarlataneria, ed ogni specie di superstizioni religiose. Essendo venuta meno quella forza d’intelletto che cercò la verità nel mondo della ragione e vi fece sì grandi conquiste, si cercava la verità nel mondo della natura e nel mondo dell’immaginazione. Onde questo dialogo, quantunque sia una satira dei filosofi del tempo, pure tratta di argomento religioso, e per dire più corretto, della superstizione religiosa. La quale non è dipinta in persone del volgo, ma in uomini di una certa intelligenza e conoscenza, cosicchè più spiccato è il contrasto che produce il ridicolo. Ecco adunque in casa di un filosofo, uomo assai riputato e dabbene, che giace in letto ammalato, una conversazione di filosofi di varie sètte, i quali ragionano di malattie risanate con rimedi strani o ridicoli, con parole ed incantesimi. In mezzo a questo mazzo di sapienti capita un uomo di buon senso che ride di tali sciocchezze, e quelli, come suole questa gente, dicono che egli non crede negli Dei. Or uno, or un altro raccontano di maghi ed incantatori che camminavano per l’aria e sull’acqua e sul fuoco, e risuscitavano morti, e facevano uscir dell’inferno le ombre, e scendere la luna dal cielo, e liberavano indemoniati: poi della virtù d’un anello; e dei prodigi che fa una [p. 148 modifica]statua che ogni notte scende del piedistallo, e va per la casa, e risana ogni specie di malattie. Non sono impostori che vogliono ingannare, ma uomini ignoranti e fanatici, che credono pienamente alle loro fantasie, ed affermano di aver veduto con gli occhi loro quei prodigi che narrano, e che sono stati veduti da altri che essi allegano a testimoni. Specialmente il filosofo padron di casa racconta come in una selva ei vide la terribile figura di Ecate, e chiama in testimone un servo; e narra innanzi a due figliuoli giovanetti, come la madre loro e sua moglie già morta gli apparve una volta, e gli ragionò. Il medico presente a questo racconto dice, che anch’egli ha una statuetta d’Ippocrate, che la notte gli va camminando per la casa; e che egli conosce un uomo il quale morì e dopo venti giorni resuscitò. Il più leggiadro di questi racconti è quello dell’Egiziano, che sapeva fare d’un palo o d’un pestello un servitore che andava in piazza, spendeva, portava acqua, faceva il cotto, e tutte le faccende di casa: favola che il Goethe in una delle sue poesie ha saputo anche più illeggiadrire, e mettervi dentro un sentimento più vero. Insomma costoro che insegnavano sapienza ai giovani, ed erano fiori di senno e di dottrina, raccontano le più matte fole di fantasmi, di anime, di miracoli, con la maggior fede e serietà. Quell’uomo di senno che sta ad ascoltare, li rimbecca e li punge con frizzi e motti; ma infine non potendo più, e parendogli scortesia contraddire più oltre, e motteggiare, vassene, lasciandoli liberamente scialare delle loro corbellerie. — Il dialogo è fatto con arte assai fina; i racconti sono schietti ed efficaci per modo che ti pare di essere in mezzo a quei vecchi, e udirli parlare, e vedere le cose che raccontano. Quanto è vero il guizzare del giovanetto, quando il padre, parlando della mamma già morta, gli mette una mano su la spalla! Io [p. 149 modifica]crederei quasi che Luciano fosse stato presente a simili discorsi in casa di qualcuno: tanto al naturale ei ritrae le persone ed i discorsi, e con quella sobrietà e snellezza che è tutta greca, e tutta sua.

LXXXIV. Il Filopatride per consenso di tutti non è di Luciano certamente. Il Gesnero in una dissertazione che si legge nel vol. IX del Luciano Bipontino, dimostra lucidamente che questo dialogo fu scritto in Costantinopoli, poco innanzi la morte dell’imperatore Giuliano, quando i Cristiani oppressi desideravano e predicevano sconfitte a Giuliano, ed i loro avversari ed oppressori si levavano ad alte speranze, avendo saputo le prime vittorie dell’imperatore contro i Persiani. Sospetta che può essere stato scritto da un altro Luciano, sofista ed amico di Giuliano, ed allega una lettera che Giuliano, gli scrive, e che leggesi nelle sue opere.9 Io seguo intieramente l’opinione di quel dotto uomo; e solamente per più confermarla aggiungerò alle molte ragioni che egli adduce alcune poche di altra natura. Questo dialogo vuol dimostrare che i Cristiani sono una setta di sciagurati fanatici, nemici della patria, che desiderano e pregano pubbliche calamità e disastri all’esercito che combatte contro i Persiani, e però lacera essi ed i loro dommi con molta asprezza. Questo scopo non poteva averlo nè Luciano, ne alcun uomo del suo tempo; perchè [p. 150 modifica]i Cristiani nel secondo secolo erano ancora pochi, deboli, poveri, ed umili. Luciano nel Peregrino ne parla come di gente fanatica ma bonaria, amorevole, ignorante, facile ad essere abusata da ogni scaltro impostore, non già nemici pubblici, ed uomini abbominandi come qui sono chiamati. Quell’asprezza dimostra che i Cristiani erano già potenti, ed avevano fieri nemici. Lo scrittore trova un leggiero appicco per parlare ancora con molto disprezzo degli Dei del paganesimo: nel che vedesi un tempo, in cui il Cristianesimo, perchè potente, era odiato, ed il paganesimo, perchè cadente, era disprezzato; e vedesi un uomo che è un sofista saccente, che non vuole lasciare occasione di sfoggiare erudizione, che dimostra il dimostrato, e dà la pinta al caduto. Questo saccente non cristiano nè pagano, che non riconosce nè adora altro che l’Ignoto Dio che è in Atene, è un cortigiano che vuole adular Giuliano tenero di Atene. Se il vecchio Luciano ributtava il cristianesimo e il paganesimo, adorava egli un Dio ignoto? Se ne sarebbe riso. E se il concetto di questo dialogo non può appartenere a Luciano nè al suo tempo, la forma di esso è anche lontana da lui, e dal suo tempo. Quell’uscire a parlar degli Dei senza un perchè, e passarli a rassegna ad uno ad uno dicendone delle freddure o delle sozzure; quei tanti versi male infarciti e rimpinzati; quelle sozze corregge che mettono Borea su la Propontide, sono sciocchezze e sporchezze tali che non possono comportarsi in un’opera d’arte. E lo stile è cosi povero d’idee, ed intralciato, e rabbuiato; così frequente è il vezzo di non dir mai le cose con le parole proprie e semplici, ma andare cercando con lo spilletto le più strane; così torbida e fecciosa è la lingua, che tosto si vede lo scritto non essere opera di gentile ingegno. I Cristiani sennati non si scandalezzeranno a leggerlo, perchè il [p. 151 modifica]Cristianesimo ormai si ride delle satire che gli si facevano nella sua prima età, come noi fatti adulti ridiamo di qualche offesa fattaci nella fanciullezza da qualche scioccherello nostro coetaneo. Chi volesse saperne altro legga la bella dissertazione del Gesnero.

LXXXV. Le opere satiriche di forma discorsiva non sono più di tre: l’Alessandro, i Sacrifizi ed il Lutto.

Alessandro di Abonotechia, piccola città di Paflagonia presso Sinope, uomo di non volgare ingegno, fu un impostore famoso che acquistò molte ricchezze per un tempio ed un oracolo che stabilì nella sua patria, al quale traeva gente da ogni parte, e finanche i più illustri di Roma. Di costui Luciano scrive la vita a consiglio di Celso suo strettissimo amico, filosofo epicureo, eloquente, ed avversario dei Cristiani. Il fine che ebbero Celso nel consigliare, e Luciano nello scrivere quest’opera, fu di mostrare apertamente tutte le astuzie onde i furbi ingannavano i semplici, e di confermare sempre più gli uomini di senno nel disprezzo delle superstizioni e delle ciarlatanerie. I pochi savi che si affaticavano ad insegnare e diffondere la verità, dovevano sentire un nobile sdegno contro di quelli che si affaticavano a diffondere l’errore nel popolo, per trarne profitto a proprio vantaggio. Chi sostiene l’errore perchè ne è persuaso, e senza fine di utile particolare, può essere sciocco, non è tristo; ma chi abusa della credulità della gente grossa, e fa bottega del suo ingegno, ò un ribaldo che merita davvero di essere dato a sbranare alle scimmie ed alle volpi. In questo scritto Luciano nomina sè stesso, narra come egli aspreggiò ed offese Alessandro, come lo tentò con varie dimande, come gli morse la mano datagli a baciare, e poi il pericolo che corse per questo fatto: onde sia per tutto questo racconto, che per nessuna ragione si può credere finto, sia ancora per la materia [p. 152 modifica]dello scritto, e la forma, e la lingua, io non dubito che sia genuino. Luciano compose questo scritto quando era già provetto negli anni, e dopo la morte di Marco Aurelio, perchè dice che Alessandro mandò un suo oracolo in Roma mentre ardeva la guerra di Germania, e il divo Marco era alle mani coi Quadi e coi Marcomanni. Or l’epiteto divo si dava solamente agl’imperatori già morti: ed alla morte di Marco era Luciano, se non vecchio, molto attempato. Ma i fatti che egli narra, avvennero quand’egli era nel vigore degli anni, e famoso, e aveva suo padre (cap. 56), ed era pieno di baldanza giovanile, sì che non seppe ridere dell’impostore, e volle irritarlo. Egli si scusa di scrivere la vita di costui, che avria dovuto essere dimenticato, o gittate alle fiere, dicendo di fare il volere dell’amico, ed allegando l’esempio di Arriano, discepolo di Epitteto, prode capitano ed isterico, il quale scrisse la vita di un Tilliboro ladrone. Ed Arriano, governatore della Cappadocia, forse fu quell’amico che gli diede i due soldati che lo salvarono, quand’egli morse la mano al profeta. Tutta la vita di questo furbo, dalla sua fanciullezza, è narrata con molti e minuti particolari, che Luciano sapeva solamente per fama, e forse potè esagerarli per odio. Ognicosa è dipinto al vivo: la persona bellissima, l’ingegno ardito, le prime furfanterie della giovanezza, il disegno di stabilire un oracolo, tutta quella commedia onde l’oracolo fu stabilito, i prodigi che faceva il nuovo iddio, le risposte che dava, la celebrazione de’ misteri, nei quali Alessandro faceva da ierofante e da Adone, e la moglie di un procuratore faceva da Venere, e quei mascalzoni di Paflagoni fetenti d’aglio, che gli facevano coro, e gridavano: viva Alessandro! tutto è descritto mirabilmente. Il carattere di Rutiliano è forse più importante del carattere di Alessandro stesso; perchè, essendo dipinto [p. 153 modifica]senza odio, pare più vero. Quel patrizio romano, bravo nelle faccende di governo, ma sì perduto di superstizioni, che se pur vedeva una pietra unta di olio o con una corona sopra, tosto smontava del cocchio e adorava e pregava per molte ore; che mette sossopra tutta Roma e la corte parlando del nuovo oracolo, e spedisce corrieri sopra corrieri a consultarlo; che, vecchio com’è, sposa la figliuola di Alessandro; e che dopo la morte di costui non ardisce di succedere egli al profeta, nè vuole che altri gli succeda, è un uomo vero e vivo con tutti i vizi e la virtù d’un Romano di quel tempo, e tu ne ridi come ne rideva Luciano, ma senza odiarlo. Nondimeno l’asprezza con cui è trattato Alessandro non offende la verità della narrazione, perchè certamente colui fu un impostore; ed un impostore è sempre un tristo: vi può essere un po’ di colorito soverchio, ma il disegno della pittura è vero. Lo stesso animo generoso dettò la vita di Demonatte e quella di Alessandro; ammirò il savio dabbene, e abborrì l’impostore ribaldo. Nella giovanile baldanza combattè e smascherò i furbi; nel senno virile, accortosi di non potere contrastare alla piena dell’ignoranza e della malizia unite insieme, se ne trasse fuori, e con amaro sorriso vendicò la verità offesa, e ne infamò in perpetuo gli offensori.

LXXXVI. Prendendo occasione dai Sacrifizi che si facevano agli Dei, si ragiona con molta piacevolezza delle favole che i poeti avevano inventate intorno a tutte le Divinità, ed il volgo credeva cecamente; e poi dei templi e delle statue. E prendendo occasione dal Lutto che si faceva pei morti, si ragiona delle favole e delle divinità dell’inferno, e dei riti che si serbavano nei funerali. L’una e l’altra scrittura, intitolate Dei Sacrifizi, e del Lutto non mancano di motti, e dimostrano che lo scrittore si rideva delle comuni credenze; ma [p. 154 modifica]non hanno alcuna forma d’arte, non sai come chiamarle; e pure l’una e l’altra erano capaci di bella forma. Però in esse manca una gran parte di Luciano, e giustamente si dubita se sono genuine.

LXXXVII. Opere serie di argomento religioso non dovremmo trovarne tra gli scritti di Luciano, per la semplicissima ragione che egli non credeva a nulla. Pure ce ne ha due, l’Astrologia e la Dea Siria: ma queste non sono, e non possono essere sue, come nel primo leggerle si vede al concetto, alla credulità, alla mancanza di arte, ed al dialetto gionico in cui sono scritte, a differenza di tutte le altre che sono nel puro dialetto attico.

Nell’Astrologia lo scrittore non vuol dare precetti, ma lodarla; e si lagna che ella sia trascurata dagli studiosi come scienza bugiarda e inutile. Eppure questa fu sapienza un tempo; gli Etiopi, gli Egiziani, e i Babilonesi l’ebbero in gran pregio. Tra gli Elioni la portò Orfeo, che ad imitazione della gran lira dell’universo compose la sua lira, e vi adattò sette corde quanti sono i pianeti: ed egli, la sua lira, il toro, il leone, e gli altri animali che stanno intorno a lui, non sono altro che immagini di costellazioni che stanno nel cielo. Molte favole e tradizioni, come Tiresia, Dedalo, Atreo e Tieste, Pasifae non sono che immagini di astrologia: Endimione fu osservatore della luna, Fetonte del sole; l’adulterio di Marte e di Venere è simbolo della congiunzione di questi due pianeti. Infine si conchiude che l’Astrologia non è nè bugiarda nè inutile. Questo concetto e questa affermazione non poteva entrare in mente di Luciano, non poteva esser detto da lui, se non per celia. Lo scrittore crede davvero a ciò che dice, e benchè mostri un certo acume d’ingegno, e scriva con certa leggiadria, pure si vede in lui un uomo pieno dei [p. 155 modifica]giudizi del tempo. E come egli pretende che la mitologia pagana pigliava i suoi simboli dall’astrologia; così al tempo de’ nostri padri il Dupuys, con altro ingegno e con altra dottrina, volle dimostrare che il Cristianesimo ha fatto lo stesso. Nil sub sole novum.

LXXXVIII. Il libro intitolato la Dea Siria contiene la descrizione del famoso tempio di Gerapoli, e della religione che ivi era, delle feste che si celebravano, dei riti, dei sacerdoti, del culto. Poco giudizio, nessuna arte vi trovi: unico pregio, e non piccolo, è una mirabile trasparenza dei pensieri in una lingua schiettissima: ti pare di leggere una scrittura ascetica del nostro trecento, così rozza, semplice, scucita, e così efficace. Non può essere di Luciano; o egli doveva avere due nature diverse ed opposte. È stimata importante per molte antiche notizie che ci ha conservate; e forse per questa ragione è stata messa tra le opere di Luciano. Ma io non farei molto capitale, e non formerei giudizio sicuro sopra notizie fornite da persona che tutto crede, ed è di poco conoscere.

Costume.

LXXXIX. Ognuno sa che specie di feste erano i Saturnali. Luciano ce li dipinge in alcune leggiadrissime operette. La prima è un dialogo tra Saturno ed il suo povero Sacerdote, nel quale si descrive l’allegria della festa, si parla dell’origine e della ragione di essa, e si ride piacevolmente di alcune favole intorno a Saturno, spacciate dai poeti e credute dal volgo. La festa è bella, il costume è buono, serbiamolo senza queste favole sciocche. La seconda è il Saturno-Solone, ossia il Legislatore dei Saturnali, che è una specie di programma piacevole, cui seguono le leggi che governar [p. 156 modifica]dovrebbero la festa, e che paiono una parodia delle leggi di Solone. In terzo luogo vengono le Lettere Saturnali, che sono quattro. Il sacerdote scrive a Saturno in nome dei poveri, che si lagnano della ineguale distribuzione dei beni, e dimandano o un’altra divisione giusta, per la quale ognuno abbia la sua parte, o che i ricchi sieno più larghi e meno insolenti coi poveri. Saturno risponde che quella distribuzione ineguale l’ha fatta Giove, e che egli cercherà nella sua festa di persuadere i ricchi ad essere più generosi e compagnevoli: che i poveri poi non abbiano invidia alla ricchezza, sotto la quale stanno magagne assai; non se ne curino molto, e vedranno che i ricchi stessi anderanno ad invitarli e condurli in casa loro. Poi Saturno scrive ai ricchi di trattar bene e senza superbia i poveri, specialmente nella festa. Ed i ricchi gli rispondono che essi lo faranno volentieri, purchè i poveri non commettano insolenze e scostumatezze. Tutte queste scritture dipingono il costume con facilità e naturalezza, con una vena allegra di pensieri e di motti e di leggiadrie che ti solleva, e vorresti, come vuole lo scrittore, che nella festa regnasse benevolenza e cortesia, costumatezza ed allegria. E qui si vede la potenza dell’ingegno che sa fare oro di qualunque cosa gli viene alle mani: cerca di correggere gli abusi rimproverando a ciascuno i suoi torti, e di ridurre il costume a certa ragionevolezza. Il che in certo modo si ottiene quando si dicono alcune verità che per la forma nuova e bella colpiscono, piacciono, sono ricordate, ripetute, e spesso ancora messe in pratica.

XC. Io non ho letto l’Asino di Apuleio, ed ho una vaga rimembranza della pulitissima traduzione che ne fece il Firenzuola, e però non saprei paragonare l’Asino latino col greco. Ma quantunque sia cosa certa che il latino è assai rozzamente fatto in lingua fangosa, e [p. 157 modifica]questo Asino greco è una facile e piacevole scrittura in dialetto gionico, pure ei non pare che sia di Luciano. Un giovanotto scapato, vago di femmine e d’incantesimi, per forza d’un incantesimo diventa asino; e così serve a molte persone, e incontra molti casi, infine ritorna alla sua prima forma umana. L’importante di questa favola sarebbero i casi incontrati: ma scegliere quelli che contengono un insegnamento utile, una pittura di costumi, una verità morale, un interesse vivo e generale, quelli insomma che hanno uno scopo ragionevole, e narrarli con facilità e schiettezza, è cosa che richiede buon giudizio ed arte. Ora in questa scrittura i casi dell’asino sono senza scopo, senza insegnamento, senza utilità veruna; sono molti, e potrebbero essere dieci volte tanti, torneria lo stesso; è sempre una superficiale descrizione di ciò che avviene ogni giorno tra contadini, ortolani, mugnai, asinai, e simile gente; un racconto della nuda e bassa realtà, senza arte e senza invenzione. Quello che fa il giovane Lucio prima di diventare asino, e come viene a sapere che la moglie del suo ospite è una maga, e la tresca con la fante, è narrato con troppa prolissità, e con certa aria di credulità. Se Luciano avesse avuto il capriccio di scrivere una favola milesia, vi avrebbe messo, anche senza volerlo, quelle osservazioni fine e giuste che sono abituali ad un ingegno grande, avrebbe mirato ad uno scopo, non avria narrato così per narrare e per chiacchierare a vanvera. In queste fantasie contadinesche, e in queste oscenità non v’è pensiero, non v’è arte, non v’è altra bellezza che una dizione semplice; pregio che può avere ogni balia cui stia bene la lingua in bocca, e che racconti una novella per acchetare i bimbi. L’Asino adunque è opera di basso ed umile scrittore: e sta tra quelle di Luciano perchè sotto il nome del grande e celebrato satirico si sono [p. 158 modifica]ricoperte tutte le scritture mediocri che offendevano la religione ed il costume.

XCI. Lo stesso è a dire per gli Amori, scrittura di sozza oscenità, e di stile contrario a quello dell’Asino, piena di concetti lambiccati, di locuzioni strane, di parole studiate e ricercate col fuscelli no. Luciano che non rifinisce mai di riprendere il mal postume, massime nei filosofi, avrebbe egli fatto uno scritto nel quale si vuole giustificare un sozzissimo costume? Era egli uomo libero e piacevole, secondo greco, ma amava troppo l’arte, e non l’avria prostituita a tanta bruttura. Lo stile scuro, intralciato, e torto pare che sia un’espressione della coscienza dello scrittore, il quale sentiva di fare opera poco onesta, e però nel farla procede con quella peritanza che suole sempre essere in chi si mette ad una turpitudine. Ci vedi una certa ipocrisia sino nelle parole, la quale in ultimo si svela, e la maschera cade. Io non credo affatto che questo dialogo sia di Luciano, e non voglio più dirne.

Mimi.

XCII. Sebbene le quattro raccolte dei dialoghetti, che a me piace di chiamare Mimi, potevano essere esaminate con gli altri dialoghi, secondo ciascuno argomento, la religione, o l’arte, o la filosofia, o il costume; pure m’è sembrato meglio ragionare di tutti insieme.

I Dialoghi degli Dei deridono la sciocchezza e la turpezza delle credenze religiose serbate nelle tradizioni e nei poeti: i personaggi sono tutti iddii, esseri fantastici che soli popolano il mondo soprannaturale. Creati dall’uomo, hanno tutte le sue passioni, i suoi vizi, e talvolta sono peggiori di lui. Giove, tenuto massimo senno, non ne ha dramma: non sa quel che fa, e viene [p. 159 modifica]a patti con Prometeo suo nemico, perchè questi gli predice quello che ei non conosce, e gli mette addosso la gran paura di perdere la signoria: si sdegna con Amore che si fa gioco di lui; fanciulleggia con Ganimede; pettegoleggia con Giunone per amore del zanzero; e saputo che Issione gli ha tentata la moglie, con divina tolleranza propone im mezzo di salvare la fama di Giunone, e contentare il povero innamorato. Per fare figliuoli, questi è un padre d’oro, e talvolta fa anche da madre, si sgrava di Minerva facendosi spaccare il capo con una scure, e partorisce Bacco da una coscia. Per generar Ercole, che fu quel gran forzuto, gli bisogna lavorare tre giorni, e il mondo sta per lo spazio di tre giorni all’oscuro, e non se n’accorge. Mercurio suo figliuolo e valletto è un finissimo ladroncello, il quale talvolta stanco di andare su e giù, si discrede con la mamma, e sverta tutte le segrete libidini del padrone. Nè state a credere ad Omero quando racconta della gran forza di Giove, che avria tirata in su una catena cui si fossero appesi tutti gli Dei e la terra tutta ed il mare, perchè Omero stesso dice che tre soli dii, Nettuno, Giunone, e Pallade una volta lo volevano legare, ed ei tremava, e se leti non avesse chiamato in soccorso Briareo, te lo avrebbero legato con tutto il fulmine ed il tuono. Insomma Luciano s’attacca specialmente a Giove, e quando l’ha per mano, ne fa un cencio, e lo strapazza. Nè risparmia gli altri Dei: ora ti rappresenta Ercole ed Esculapio, che si bisticciano villanamente tra loro; ora trafigge Castore e Polluce, coppia di giovanotti scioperati che non fanno, nè sanno far nulla. Motteggia le follie amorose degli altri, e vuol mostrarti che sono come le umane: ti pone innanzi gli occhi Endimione che dorme, e l’amante Luna che tacita gli si avvicina, e ne sente l’ambrosio respiro: ti fa vedere la [p. 160 modifica]vecchia Rea col suo Atte in mezzo ai Coribanti furiosi, ed Amore a cavallo ai leoni che gli leccano le mani: ti fa compatire ad Apollo addolorato per il suo Giacinto; ridere di Bacco tentato da Priapo; e di Mercurio bellissimo, che per ingannare una donna prese la figura di becco, e divenne padre di Pane bruttissimo e mezzo caprone. Apollo bel giovane è sfortunato in amore; Vulcano brutto, zoppo, ed artigiano ha due mogli bellissime che gli fanno le fusa torte: infine Marte colto in adulterio con Venere non è biasimato, ma invidiato dagli altri. Il giudizio di Paride non è satira, ma lavoro d’arte, vaghissimo, spirante tutta la fraganza della bellezza e della voluttà: ha tutta la leggerezza, il moto, e la leggiadria delle Grazie, ed è cosa veramente divina. Sono ventìsei questi mimi, tutti genuini, e di ogni parte perfetti.

XCIII. I Dialoghi marini sono lavoretti d’arte, quindici vaghe miniature, che rappresentano Nereidi, Tritoni, ed altre divinità del mare, ed anche alcuni uomini elevati a perfezione eroica, come Polifemo, Anfione, Perseo, Ulisse, Menelao. Alcuni traggono l’argomento da Omero, ed hanno il motto contro quel poeta, ma il motto leggiero, e nulla più: sono poesia, come l’omerica, ma dentro vi è lo scettico che si mostra appena: e questo suo parere e non parere è cagione di bellezza, perchè ricordi del gran poeta e lo vedi quasi riprodotto, e senti ancora una potenza che lo ammira e lo giudica. Con quale vaghezza e leggerezza è ritratto l’amore di Alfeo e di Aretusa, e come è bella quell’acqua limpida che corre su i sassolini, e pare d’argento! Viene il dubbio dello scettico: ma come un fiume d’Arcadia si può mescolare con una fontana di Sicilia, se vi passa tanto mare per mezzo? Ma questo dubbio molesto, che intorbidirebbe quella pura acqua [p. 161 modifica]ed un puro seutimento, tosto è rimosso, come una dimanda fuori di proposito (περίεργα ἐρωτῶν) a cui non si risponde. Con la stessa arte è dipinto l’accecamento di Polifemo, le trasformazioni di Proteo, il ratto della bella Amimone, velocissimo dialoghetto e bellissimo, la trasformazione d’Io, il bruciamento del fiume Xanto, e l’inganno fatto alla povera Tiro. Alcuni poi sono dipinture originali, poesie freschissime e senza motto alcuno. Polifemo con l’orsatto in braccio che va a mattinare Galatea; Arione che si getta in mare; Elle che tragitta il mare sul montone, e gli si tiene alle corna, e trema, e cade; Danae nella barchetta, che piange e prega l’inflessibil padre, e gli mostra Perseo bambinello che guarda il mare e sorride; Andromeda mezza nudcP legata allo scoglio e salvata da Perseo che uccide la balena; Europa portata dal toro che nuota sul mare, e intorno le vanno le Nereidi, e i Tritoni, e gli Amori, e Venere, e Nettuno con Anfitrite, e pare che tutta la natura senta la presenza d’un gran dio, e si rallegri delle sue nozze. Io por me tengo questi mimi come i più belli fra tutti gli altri, non pure per le vive immagini, ma per una pura vena d’affetto, che raro s’incontra nelle opere di Luciano, ed è limpida come l’acquicella della fontana Aretusa.

XCIV. I Dialoghi dei morti sono i più famosi, perchè presentano l’immagine della vita umana. Diogene manda a chiamar Menippo per mezzo di Polluce (dial. 1), che ogni sei mesi, scambiandosi col fratello, ritorna su la terra, e gli manda a dire: Se hai riso a bastanza costassù, vientene quaggiù che ci avrai da ridere assai della grandezza e superbia umana che vedrai bene ammaccata. Si ride adunque del passato in cui si specchia il presente. Va Menippo con una truppa di morti (d. 10), un leggiadro garzone, un tiranno, un atleta, un [p. 162 modifica]guerriero, un filosofo, un retore, ai quali tutti dispiace lasciare la vita; ed egli solo, che ne conosce la vanità, vassene lieto e scevro. Ma se egli è povero, come pagherà il nolo a Caronte? (d. 22). Si bisticcerà coi navicellaio; ma, vuoi non vuoi, dovrà passare. Anche laggiù gli Dei stanno attaccati al danaro, e Caronte e Mercurio fanno spesso tra loro i conti di ciò che guadagnano (d. 4). Disceso Menippo non ha altra voglia che di vedere come stanno laggiù i grandi della terra, e si piace di beffare e trafiggere Creso, Mida, Sardanapalo (d. 2); poi canzona Trofonio, e Tiresia (d. 3 e 28) impostori ed indovini; e ride di Tantalo (d. 17), e non gli crede che abbia sete e fame, perchè è ombra, non corpo, che sente questi bisogni. Cercando le belle persone, tanto ricercate dai Greci, vede il teschio di Elena, e ride della vanità della bellezza (d. 18): fu fatto e sofferto tanto per una che doveva ridursi a questo! Mentre egli fa questa osservazione, Nireo e Tersite contendono per bellezza (d, 25), e fanno giudice Menippo, il quale decide che sono due teschi eguali, e Tersite è contento, perchè i poveri e i servi sorridono alla morte che li agguaglia a tutti gli altri. Cerca di vedere i filosofi, e parlando con essi (d. 20) sa che Pitagora ha mutato dommi e mangia le fave; che Empedocle si gettò nell’Etna per una fiera malinconia; e che Socrate diceva davvero che egli non sapeva nulla, e la gente credeva che ei lo dicesse per ironia. Dimanda a Cerbero (d. 21) come Socrate sostenne la morte, e quei gli risponde: Gli dispiacque assai, ma come la scorse inevitabile, fece le viste di sprezzarla per essere ammirato. Infine Menippo dimanda al savio Chirone (d. 26): È vero che tu eri immortale, e volesti morire? — Sì, perchè mi noiavo della vita. — E se ora ti noierai della morte e di stare qui, cercherai forse di andare in [p. 163 modifica]un’altra vita? Chi non sa sofferire non è savio. Non pure Menippo, ma Diogene ancora è personaggio principale in questi dialoghi. Diogene deride Alessandro (d. 13) che si faceva tenere per un dio, e morde la crudeltà del conquistatore. Il quale, paragonato a suo padre Filippo (d. 44), non pare più sì grande per geste guerriere, ed è un vanitoso. Poi Diogene mette in canzone Ercole (d. 16), e gli dice: L’ombra tua è nell’inferno, l’anima è dio in cielo, il corpo è cenere sull’Oeta: dunque sono tre Ercoli, o non ce n’è che uno, ed è morto. Infine trafigge Mausolo, che è superbo del sepolcro rizzatogli dalla moglie (d. 24).

Diogene è introdotto ancora in due dialoghi che a me non paiono genuini, perchè non hanno nè concetto nè arte lucianesca. Nel 27° parla con Antistene e Cratete del grande amore che gli uomini hanno alla vita, ed ognuno di essi narra una storiella per confermare questo argomento. Nell’11° Diogene ragiona con Cratete di quelli che uccellano alle eredità dei ricchi, e dice con gran tuono la gran freddura, che egli non desiderava la morte di Antistene per ereditarne il bastone, nè Cratete voleva ereditare da lui la botte e la bisaccia coi lupini. Essi, i filosofi, lasciano ed ereditano sapienza, verità e libertà. Chi può credere che questi paroloni sono di Luciano?

Questo 11° dialogo mi pare una sgarbata imitazione dei cinque dialoghi (5, 6, 7, 8, 9), nei quali Luciano ha dipinti gli uccellatori di eredità, tanto comuni nel suo tempo, che spesso rimanevano uccellati: egli li ritrae a maraviglia, con semplicità, facendoli parlare, e mostrandone l’avidità sozzissima, senza moralizzare a sproposito. Generoso è poi il rimprovero di Antiloco ad Achille (d. 15), che disonestando i due sapienti suoi maestri Chirone e Fenice, aveva dotto voler essere [p. 164 modifica]piuttosto zappatore tra i vivi, che re tra i morti, ed affermava che tutti gli altri sentono così, ma non hanno la franchezza di dirlo. Bisogna sofferire e tacere: il lamentarsi di cosa inevitabile è bassezza d’animo. Questa è una botta ad Omero, che mette quelle parole in bocca ad Achille. E gliene dà un’altra ancora per ciò che dice di Protesilao, il quale morto nello sbarcare sul lido di Troia, ottenne da Plutone di tornare per un giorno solo a vedere la giovane e diletta moglie. Mentre Protesilao prega Plutone (d. 23), questi gli dice: Come, hai bevuto Lete, e non puoi dimenticare la tua donna? — Non posso: in me non fece effetto. — Aspetta, che verrà ella. — Tu fosti innamorato, e sai che tormento è l’aspettare. — Ma come ti riconoscerà ella se tu sei un teschio spolpato? Qui entra Proserpina, che aiuta Omero e Protesilao, e dice al marito: Ordina a Mercurio di toccarlo con la verga, e di rifarlo giovane sposo. Lo stesso Protesilao, dolendosi della morte che lo tolse ad amore (d. 19), se la piglia con Elena, poi con Menelao, poi con Paride, poi con Amore, infine riconosce che di tutto ha colpa il fato, il quale destina ogni cosa, e a nessuno si può imputare nè il bene nè il male. Così ancora Aiace odia Ulisse (d. 29) senza ragione, perchè non Ulisse, ma Pallade, non il guerriero, ma l’intelligenza lo vinse: e pure egli l’odia, perchè eterno è l’odio tra la forza e l’intelligenza. Infine Sostrato, ladrone dannato a supplizio atroce, disputa con Minosse (d. 30) e dice: Se ognuno fa necessariamente quello che la Parca ha destinato, la Parca fa il bene e fa il male: e io non merito pena, perchè ho fatto quello che la Parca mi ha comandato. Minosse lo assolve, e gli raccomanda di non dire a nessuno queste cose. Infine il dialogo 12° in cui Alessandro, Annibale e Scipione contendono innanzi a Minosse del primato nelle armi, non mi pare di Luciano; [p. 165 modifica]perchè è una declamazione rettorica noiosa tra i vivi, noiosissima tra i morti. Solamente in capo ad un retore poteva entrare l’idea di fare Alessandro ed Annibale dicitori di due magre dicerie. Celesta specie di paragoni sono o da Plutarco, o da fanciulli.

XCV. I Dialoghi delle Cortigiane non paiono una scrittura, ma un parlare vivo e vero, schiettamente popolare, ed ateniese: sono quindici scene della vita delle cortigiane d’Atene. Dovunque i Greci potevano vagheggiare e cogliere un fiore di bellezza, essi adoperavano l’arte per coltivare quel fiore. Onde questi dialoghi non sono fatti ad eccitamento di lascivia, che sarebbe fine sozzo ed indegno di Luciano, ma per uno scopo di arte, per godere della bellezza che si rinviene anche nell’amore sensuale. Quindi queste cortigiane non fanno schifo, nè orrore, nè pietà, ma si fanno udire con certa compiacenza, e talune t’interessano; come la Mirtina, che si crede abbandonata dall’amante; la Musetta, fanciulla di diciotto anni, innamorata d’un garzone sì perdutamente, che non vede nè vuole altro che lui; o la Joessa affettuosa e a torto strapazzata dall’amante; o la Innide, a cui un soldato vantatore racconta di avere tagliato, e squartato, e infilzato un capo su la lancia, ed ella inorridisce e vassene; e quei la chiama, promette, prega, confessa che ha detto una bugia, e pure non la persuade. L’indole femminile, e delle femmine cortigiane, è ritratta al vivo: e i Greci solevano compiacersi di queste dipinture della cortigiana non sozza e sfacciata, ma buona od amorosa. Così, credo io, doveva dipingerle Menandro, perchè Terenzio, che l’imitò e copiò, così dipinge la Gliceria nella sua Andriana, che pare simile alla Mirtina o alla Joessa. Non faccia maraviglia adunque che Luciano artista, per uno scopo d’arte, imitando a modo suo i [p. 166 modifica]poeti della commedia nuova, abbia dipinto le cortigiane, e rilevato quel po’ di bene che è in tutte le creature umane anche degradate. Questo è stato fatto sempre e da buoni artisti di tutte le nazioni: e ai tempi nostri il giovane Alessandro Dumas ci ha commossi e dilettati descrivendoci i casi d’una cortigiana, La Dame aux Camelias. Per lo stile e la lingua questi dialoghetti sono d’una vivezza e d’una grazia veramente femminile.

Epigrammi.

XCVI. Compiuta questa lunga esposizione delle opere di Luciano, rimane a dire qualche parola degli Epigrammi che gli sono attribuiti. Epigrammata Luciani, quorum tamen haud panca non Luciani, sed Lucilii, aliorumqm potius habenda videntur, ut. 4, 7, 15, 17, 20, 21, 24, 27, 29, 33.10 E se non sono di Luciano, perchè li avete messi dopo le sue opere? Agli eruditi non pare bello e compiuto uno scrittore antico senza epigrammi, come animale senza coda: dove un povero traduttore trova il più duro a scorticare. Io concedo che Luciano abbia potuto scriverne, ma non so certo che egli ne abbia scritto, egli che nella sua forma de’ Mimi poteva meglio e più artisticamente esprimere i suoi concetti. Tra questi epigrammi ce ne ha de’ leggiadri: ma io non saprei trovare modo, o regola, o principio alcuno per discernere i genuini dagli spurii. Sicchè io dubito di tutti, e non voglio dire di alcuno: anche perchè sì piccola cosa è un epigramma, che non merita molto discorso: egli è un fiore che si fiuta e si lascia.


Note

  1. Vedi le ultime parole del Sogno: οἷος δὲ πρὸς ὑμᾶς ἐπανελήλυθα, quale a voi sono ritornato.
  2. V. Luciani quæ extant et quæ feruntur ad optimorum librorum lectiones, emendata edidit Car. Herm. Weise, Lipsiæ, 1847, editio stereotypa. In questa edizione ciascuna opera è preceduta da un argomento, e spesso da un giudizio scritto dal Weise.
  3. Il gentile Gozzi traducendo questo scritto, lo ha nettato da ogni lordura; e fattolo bello. Così ancora nettò gli Amori di Dafne e Cloe, tanto insozzati dal Caro, e potè offerirli in dono a una donzella, che andava a marito. L’infedeltà di traduttore è un merito quando è congiunta con tanta gentilezza e onestà.
  4. V. Tacito negli Annali, cap, 71 del libro XV.
  5. V. Atticus nel Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, edited by William Smith, London 1849. — Mémoire sur la vie d’Hérode Atticus, par M. de Burigny nel t. XXX delle Mém. de l’Ac. des Inscriptions.
  6. Ecco le parole di Weise. «Ceterum utut lepidus videatur dialogus, tamen et in materia et forma multum inepti deprehenditur. Quis enim sensus inest huic auctioni, cut quomodo philosophos vendere potest lupiter tam multo ante mortuos? Deinde modo ipsi principes sectarum producuntur, modo aliquis ex asseclis eorum. Ex emptoribus autem sohis Dion nominatur. Denique meliori sensu auctio institueretur, si libri forte philosophorum proponerentur, non auctores ipsi (Papæ, Weise, qui bibliopolam maluisses Iovem!). At si, ut in Piscatore asseritur, scriptor non auctores sectarum, sed asseclas eorum malos et ineptos vendere voluisset, non præceptorum dogmata, sed discipulorum vitia commemorari debebant. Quod tamen nuspiani fit. Ergo spurium et ineptum totum scriptum, cuius summa fortasse ex Nigrino oriunda.» Mi dispiace che nessuna delle ragioni di questo valente uomo sa persuadermi.
  7. Ecco il giudizio del Weise sul Pescatore. «Quod si superior ergo,» hæc quoque scriptio supposita erit judicanda, quippe cum illis arctissime cohærens... «Ἔλεγχοι νοθείας quum multi sunt, tum hic præcipuus, quod ait se non in auctores, sed in asseclas invectum, quum tamen illic ipse Pythagoras et Socrates et Plato et Diogenes producantur. Alius, quod nihil ab initio commemoratur, philosophos ex Orco accedere: quæ res, quasi postliminio, infra demum adjicitur. Ipsi quoque versus, a poetis frequenter intersecti, non Lucianum sed sciolum aliquem doctum scripsisse arguunt. Et similiter accuratius contemplanti multa alia νοθείας signa facillime comparebunt.»
  8. Nota una certa attenenza fra i due titoli di questi due dialoghi, βιῶν πρᾶσις, e ἀναβιοῦντες, Vendita di vite, o Vendita di vivi e i Redivivi. Il titolo di Pescatore mi pare aggiunto, e si riferisce all’ultima parte del dialogo.
  9. «Juliani tempore vixit, ipsique amicus imperatori fuit Lucianus sophista aliquis, ad quem extat hodienum scripta a Juliano epistolæ, quac, quoniam brevissima est et elegantiæ omnis pienissima, non ingratum lectori facturus videor si talem adscribam: Ἰουλιανὸς Λουκιανῷ σοφιστῇ. Γράφω, καὶ ἀντιτυχεῖν ἀξιῶ τῶν ἴσων· εἰ δὲ ἀδικῶ συνεχῶς ἐπιστέλλων, ἀνταδικηθῆναι δέομαι τῶν ὁμοίων παθῶν. Epist. 32, pag. 404. ed. Lips. Io. Matthiæ Gesneri de ætate et auctore dialogi Lucianei qui Philopatris inscribitur Disputatio.» La lettera di Giuliano può essere così tradotta in italiano: «Giuliano a Luciano sofista. Scrivo, e desidero mi si renda la pariglia: e se annoio con le continue lettere, prego di essere annoiato anch’io allo stesso modo.» — Il Fabricio nel lib. 4 della sua Biblioteca Greca, in fine del cap. Lucianus, annovera dieci Luciani.
  10. Vedi il Luciano del Weise.