Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo IV/Libro II/Capo II

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Capo II – Filosofia e Matematica

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Capo II.

Filosofia e Matematica.

1. Benché ne’ due ultimi secoli precedenti alcuni tra gl*Italiani avessero, per così dire, richiamati a vita i filosofici studi che per tanto tempo si eran giaciuti in una totale dimenticanza , gli sforzi lor nondimeno più alle straniere nazioni che alla comune lor patria avean recato giovamento ed onore. Lanfranco e S. Anselmo avean comunicati i lor lumi alla Francia; Giovanni avea fa Ho ammirare il suo ingegno a Costantinopoli; Gherardo cremonese era andato tra gli Arabi della Spagna. Pochi in Italia erano stati coloro che in questi studi ottenuto avessero qualche nome; e le scuole di filosofia ch’erano in Bologna, e probabilmente ancora in altre città, non par che fossero tali che questa scienza potesse esserne illustrata, come sarebbe stato opportuno. Aristotele, il miglior tra’ filosofi dell’antichità, di cui fosser rimaste le opere, appena era noto di nome. Ne’ libri del monastero di Bobbio, il cui Catalogo fatto, come sembra, nel x secolo, è stato pubblicato dal Muratori (Antiq. Ital. t.3.p. 817), 11011 reggiani [p. 237 modifica]secondo liq registrali altri libri filosofici, che alcune opere di Boezio, la Dialettica attribuita a S. Agostino, i libri di Marziano Capella, e alcuni anonimi; e questi dovean essere i soli che in tali studi servisser di norma e si leggessero nelle scuole. Ma il XIII secolo vide finalmente risorgere in qualche modo anche la filosofia e la matematica; e Aristotele, finallora dimenticato, si vide dominar nelle scuole ed occupare l’ingegno e le penne de’ più celebri professori italiani, mentre frattanto in Francia gli si facea la guerra, e come autor empio e irreligioso ei veniva gittato alle fiamme. L’esame delle vicende a cui la dottrina di questo filosofo fu soggetta, sarà, io spero, di piacevole trattenimento a chi legge, e recherà insieme non poco onore all’Italia, ove egli più che altrove ebbe coltivatori e seguaci. II. Se crediamo all’ab. Tritemio (De Script, eccl. c. 31> i; et Ill. Benedict l.2, c. 84), il primo che dopo le invasioni dei Barbari prendesse a tradurre in lingua latina e ad illustrare alcune opere di Aristotele, fu Ermanno Contratto monaco del monastero di Augia nel secolo xi, di cui egli dice che nella greca, nella latina e nell’arabica lingua era espertissimo. Ma il Muratori teme, e parmi non senza ragione (Antiq. Ital. t. 3, p. 932), che il Tritemio abbia qui esagerato alquanto. E veramente nell’elogio di Ermanno scritto da chi era con lui vissuto, e pubblicato dal medesimo Muratori (ib.pg33), si parla bensì degli altri studi di (questo monaco, ma di lingue straniere da lui apprese non si dice motto , e nulla pure ne ha l’Auonimo [p. 238 modifica]238 LIBRO Mellicese (De Script, eccl. c. 91). tanto più del Tritemio vicino ad Ermanno. A me pare perciò, che l’autorità del Tritemio non basti a persuadercelo , e che anzi il silenzio de’ più antichi scrittori, e la poca esattezza con cui egli ha parlato di Ermanno, come mostra il P. Mabillon (Ann. bened. t. 4, l. 53, n. 90) , ci persuada piuttosto che questo per altro dottissimo monaco non facesse intorno alle opere di Aristotele lavoro alcuno. Ben possiamo noi affermare con qualche maggior fondamento che un Italiano prima di tutti si accinse dopo i traduttori più antichi a recarne dal greco in latino alcune opere. Fu questi Jacopo cherico veneziano, quel medesimo, per quanto io penso, che trovossi in Costantinopoli insieme con Mosè da Bergamo e con Anselmo vescovo di Avelbergen, colà mandato da Lottario II imperadore, di che abbiamo altrove parlato (t. 3.). Or questi per testimonianza di Roberto del Monte, scrittore non molto posterior di tempo a Jacopo, verso l’anno 1128 recò dal! greco in latino ed illustrò con comenti alcune delle opere d’Aristotele. Jacobus clericus de Venetia transtulit de graeco in latinum quosdam libros Aristotelis, et commentatus est, scilicet Topica, Analyticos et priores et posteriores, et Elenchos, quamvis antiqua translatio (cioè quella probabilmente di Boezio) super eosdem libros haberetur (in App. ad Sigebcrt. ad ari. 1128). Questo traduttore e comentatore, sconosciuto al Fabricio, fu dunque il primo che dopo gli antichi cominciasse a recare in latino e ad interpretare Aristotele. E vuolsi avvertire che dove [p. 239 modifica]SECONDO 2J9 le altre traduzioni che se ne fecero poscia, furono per lo più lavorate non sul testo greco, ma sulle versioni arabiche, questa fu fatta sul testo greco medesimo. Ed è probabile che Jacopo a quest’opera si accingesse quando era in Costantinopoli, o che tornatone portasse seco alcune opere di Aristotele, e poscia le traducesse e le contentasse. ili. Convien dire però, che la traduzione di Jacopo o non molto si divolgasse, o venisse presto a smarrirsi, perciocchè di essa non si trova altra menzione. Nondimeno le opere di Aristotele recate in latino sembra che si leggessero in Francia verso la metà del XII secolo, perciocchè le veggiamo accennate nell’opera di Gualtero priore di S. Vittorio scritta contro di Pier Lombardo e di altri teologi, della quale si è ragionato altrove (t. 3). Più frequente ancora dovette rendersi cotale lettura in Francia verso l’anno 1209, come raccogliesi dalla Vita di Filippo Augusto scritta da Rigordo medico del re medesimo: Legebantur, dic’egli parlando del detto anno, Parisiis libelli quidam (de Aristotele, ut dicebatur, compositi, qui docebant Metaphysicam, delati de novo a Costantinopoli, et a graeco in latinum translati (Ap. Launojum de Aristot. fortuna c. 1). E quindi siegue a narrare che avendo alcuni presa occasione da questi libri di spargere sentenze eretiche, fu fatta legge nel sinodo tenuto quell’anno in Parigi, che l’opere di Aristotele fosser date alle fiamme, e che a niuno fosse lecito in avvenire di farle copiare, di ritenerle, o di leggerle. Poscia l’anno 1215 il cardinale Roberto di Courcon negli [p. 240 modifica]a4° unno Statuti formati per l’università di Parigi permise il legger f opere appartenenti a dialettica, ma confermò il divieto riguardo a’ libri di fisica e di metafisica; il qual divieto fu ancor mitigato da Gregorio IX l’anno 1231, ordinando che que’ libri si avessero per vietati, finchè non fosser corretti. Di questi divieti, e di queste ed altre somiglianti vicende a cui la dottrina d’Aristotele fu soggetta in Parigi, veggasi f accennato trattato del Launoio che ha eruditamente raccolto quanto a ciò appartiene. Questi divieti non furon mai stesi fino all’Italia; ma furon fatti soltanto all’università di Parigi a cagione degli errori che alcuni di que’ professori vollero sostenere coll’autorità di questo filosofo. Io ne ho dato qui un cenno, sol perchè giovi ad intender meglio ciò che dello stato in cui fu in Italia la filosofia d’Aristotele, dobbiamo or dire.

IV. Abbiamo altrove mostrato che in Bologna e in alcune altre città d’Italia non era del tutto negletto lo studio della filosofia; benchè esso per lo più non passasse oltre la dialettica. Delle opere però d’Aristotele non so’ se si possa trovar memoria tra noi prima de’ tempi di Federigo II. Questo imperadore, di cui vorrei elusi potessero ricordare solo i non piccioli pregi di cui fu adorno, intento a ravvivare in Italia gli studi d’ogni maniera, pensò tra gli altri a quello della filosofia; e rinvenute avendo nella suaFonte/commento: Pagina:Tiraboschi - Storia della letteratura italiana, Tomo IV, Classici italiani, 1823, IV.djvu/773 biblioteca alcune opere di Aristotele e di altri antichi filosofi, altre scritte in lingua arabica, altre in lingua greca, commise ad alcuni, che nell’una e nell’altra erano assai periti, di [p. 241 modifica]SECONDO 24l tradurle in latino; e poichè il lavoro fu compito, invionne copie a’ professori dell’università di Bologna, perchè per mezzo di essi si divolgassero a comune istruzione. Abbiam tuttora la lettera eli’ egli scrisse loro in questa occasione (De Vineis l. 3, c. 67), che è un bell’elogio così della sollecitudine di questo monarca nel fomentare gli studi, come del valore di que’ celebri professori. Di questi parlando, egli dice che a niuno meglio che ad essi doveasi offerire un tal dono, come a chiarissimi alunni della filosofia: Vobis potissime, velut. philosophiae praeclaris alumnis, de quorum pectoribus promptuaria plena fluunt Il Bruckero, troppo docilmente seguendo l’autorità di Giuseppe Scaligero e di Giovanni Saldeno, afferma (Hist. crit. Philos. t. 3, p. 700) che questa versione dell’opere di Aristotele si fece solo sulle versioni arabiche, e pretende che dalle parole stesse di Federigo si raccolga ciò chiaramente; perciocché, ci dice, il testo greco di Aristotele non videsi certamente in Italia prima della metà del secolo xv, quando Costantinopoli fu presa da’ Turchi; e perciò affermandosi da Federigo che le opere di Aristotele e di altri filosofi erano state tradotte parte dal greco, parte dall’arabo, in questa seconda lingua sola è a credere che fosser le copie dell’opera di Aristotele, che ei fece tradurre. Ma ciò che a lui pare certissimo, cioè che sì tardi si avesse tra noi l’original testo greco di questo filosofo, a me par certamente falso; e noi tra poco dovrem recare monumenti chiarissimi a dimostrare che altre versioni ne Tiraboschi, Voi. IV. 16 [p. 242 modifica]a4a libro furono in questo secolo fatte sul testo greco. Quindi, poichè alcuni de’ libri tradotti per ordine di Federigo furono tradotti dal greco, egli è anzi probabile che questi fossero appunto que’ d’Aristotele, che è il sol filosofo di cui nella sua lettera ei fa espressa menzione. Quai fossero precisamente questi libri tradotti, Federigo nol dice 5 ma solo accenna ch’essi trattavano de Sermocinalibus et mathematicis disciplinis; colle quali parole io crederei ch’ei voglia indicare e opere dialettiche di Aristotele, e le astrologiche di alcuni filosofi arabi. Non possi am parimenti accertare in qual anno fosse questa lettera scritta da Federigo; poichè tutte le lettere di Pier delle Vigne non hanno data. Io congetturo però, che ciò avvenisse prima dell’anno 1224, perciocchè avendo in quell’anno Federigo eretta l’università di Napoli, e avendo con essa tentato di opprimere quella di Bologna, non sembra probabile che dopo ciò ei volesse a questa, piuttosto che a quella ch’era la sua prediletta, dar questo non picciolo contrassegno di estimazione. V uolsi anche avvertire che questa lettera stessa è stata pubblicata di nuovo da’ PP. Martene e Durand (Collect. ampli ss. t. 2, p. 1220) come cosa inedita, e come indirizzata non da Federigo all’università di Bologna, ma da Manfredi redi Sicilia a quella di Parigi, poichè così vedeasi intitolata nel codice Colbertino, da cui essi la trassero: Sedentibus in quadrigis physicae disciplinae parisiensis studii doctoribus un ¡versis Manfredus Dei gratia, etc.; e su tal fondamento l’ab. Lebeuf ha asserito (Diss. sur l’Hist. de Paris, [p. 243 modifica]SECONDO 343 t. 3, p. do) che il re di Napoli avendo nella sua biblioteca trovate le opere dialettiche e matematiche d’Aristotelej le fe’ tradurre in latino, e inviolle all’università di Parigi. Ei dovea avvertire che la traduzione dell’opere di Aristotele era già stata fatta per ordine di Federigo, e inviata all’università di Bologna. È certo però, che qualche opera di Aristotele fu per ordine di Manfredi recata in latino, e non dall’arabico, ma dal greco. Ne abbiam la pruova in un codice a penna della libreria di Santa Croce in Firenze, citato dal ch. Mehus (Vita Ambros. camald, p. 155), in cui si contiene l’Etica di quel filosofo tradotta dal greco da Bartolommeo di Messina; Incipit liber magnorum Ethicorum Aristotelis translatus de graeco in latinum a magistro Bartholomaeo de Messana in Curia Illustrissimi Manfredi Serenissimi Regis Ciciliae scientiae amatoris de mandato suo, ec. (*). Forse altre opere ancora di Aristotele, che a’ tempi di Federigo non erano state tradotte, fece Manfredi recare in latino, e per render noto il valore e l’erudizione de’ suoi, mandolle in dono all’università di Parigi, usando perciò della lettera stessa di cui usato avea Federigo nell’inviar le altre a’ professor bolognesi. (*) Oltre la traduzione dell’litica d’Aristotele, un’altra ue abbiamo futta dallo stesso Bartolommeo du Messina , che si conserva in un codice ins. della libreria di S. Salvadore in Bologna , che ha per titolo: Incipit liber Eraelei ad Bassuni de curatione equorum in ordine per/erto... translatus de graeco ili latiriurn a mag. Bartiiolomeo de Messami in Curia ¿/lustrissimi Manfredi Serenissimi Rcgis Sicihac arnatoris , et mandato suo. [p. 244 modifica]244 LIBRO V. Ala le premure di Federigo li e di Alanfredi nel ravvivare i filosofici studi non ebbero effetto troppo felice, o fosse che le pubbliche calamità rendessero inutili i mezzi da lor usati, o fosse che pochi libri di Aristotele e di altri antichi filosofi essi ritrovassero, e se ne cogliesse perciò poco frutto. La gloria di aver fatta risorgere la filosofia in Italia deesi a più giusta ragione ad Urbano IV. Un bel monumento tratto dalla biblioteca Ambrosiana, e con quella gentilezza che è propria degli uomini dotti, comunicatomi dall’eruditissimo prefetto della medesima, il dottor Baldassarre Oltrocchi, ci rappresenta questo pontefice come amantissimo della filosofia, e splendido protettor de’ filosofi. Ella è la dedica a lui fatta di un suo libro dal matematico Campano novarese, di cui ragioneremo tra poco, la quale essendo inedita , parmi opportuno il recarne ciò che fa al mio intento, appiè di pagina, accennandone qui le più importanti notizie che da essa raccolgonsi (f). Rende egli grazie al (•]■) Cl< mentissimo Patri et piisimo Domino unico mundane pressure solatio Domino Urbano IV electione Divina Sancte Romane Ecclesie summo Pontifici Campani/s Novari en sis sue dignationis Servus inutilis beatorum pedum oscula cum qua. pótese revei entia. De pulvere , Pater, Philosophiam erigitis, que tu ge re soIrt in sue mendicitatis inopia, nostroruin Pl eniluni auxiliis destituta. Nunc autem ad vestrr sereni.atis aspecium /’arie ri velata consuegit, quam hactenus obduxerat verecundie pallio, rei familiaris angustia macerata. Latere malebat tenuis et pudica , quam aulirai um inipudice se largis dapihus iminiscere. Qttippe scioperisi in vere domestici! arbùraia ridi aduni , m in risiali [p. 245 modifica]pontefice, perchè degnavasi di sollevar dalla polvere l’infelice filosofia che in addietro appena osava mostrarsi, sì per la povertà a cui

histrionum more vocari soleat, que mores instruere debet, et vitam hominum mensurare. Ad vos autem, qui non solum intellecta vigetis, polletis ingenio, et scientia radiatis; ned cum affectu multiplici, soliusve vi demi ni pulcritudiuis amatorcs, tara secura venit, quam leta; cum non ad peregrina, ned ad propria videat se vocari. Surnptis narnque secundis dapibus placet, liti illud venerabile Capillorum (ita) Vestrorum Collegi urti, quos tibi vostra condesse dementili voluti, vos sequatur, quibus ad vestre sancii tati.* pedes sedentibus jucundum sapienlie cerianten indicitis; in quo militaribus armis aerinole militariler dirti icari l partes, aggrediens et aggressa; hec quidem instai valide jaculis ràtionum , illa vero responsionum clipeis strenue se defertdil. In hoc cestro Philosophia Camerali gimnasio jocundatur, ubi sicut et vos estis ipsi domestici, sic eiitem domestica probleniata disquirenda proponitis , eUque rationurr collatione pensatis. Postremo jubetis , quid in iis tenendurn Philosopliia censeal, diffiniri. ffalieni ita que Piiilosopliiam professi de vestre Mense bencdictione quo venirmi reficiant, et quo rnenlem. Ista vero sunt illa saturnalia festa , quorum solempniis Proiophilosophos legimus vacavisse. Iste vero sunt epule, quas reverendus Sorrales discipulis sttis ministrasse legitur, et quas sibi vice mutua mìnistrari postulai ab eisdern. Ad has lam sanclas tara venerandas epulas, Clementissime Domine, licei tantis indignimi rntinerìbus, piotate propria me vocastis , et hufus dupli cis sancte mense parhcipem me feristi? , uti me nobilitàretis titulis vestre dignitatit amicturn, qui tenuitale proprie scientie plebescebarn , propter quod possum vere dicere: Gratia Domini 11 lei Urbani suoi id, quod surn. Sed ne gratia tanti Palris in me vacua remaneret, a recepte beneficentie tempore fu iter niente discussi sollicita, si quid saltem vel minimum invenirein, quod vestre Majestatis bonari possali in sigiiuni pronissime deyotionis o/ferre. Cumque [p. 246 modifica]2^6 LIBRO era condotta, sì pel disprezzo con cui soleva essere ricevuta; ma ora vedevasi da lui amata e onorata. Quindi racconta che Urbano godeva di aver seco alla mensa molti valorosi filosofi, e che levate le tavole usava condurli seco, e fattili sedere a’ suoi piedi, li faceva venire a dispute erudite l’uno coll’altro} ch’egli stesso proponeva i problemi su cui doveasi disputare; che pesava ed esaminava le ragioni addotte dall’una parte e dall’altra, e facea per ultimo diffinire qual sentimento dovesse preferirsi agli altri. Aggiugne di sè il Campano, ch’egli era un de’ filosofi a cui Urbano avea conceduto sì grande onore; e conchiude, dicendo ch’egli perciò in testimonio di sincera riconoscenza gli offre il presente suo libro. Questo contrassegno di onore, con cui Urbano IV distingueva i filosofi, dovette certo contribuire non poco a rivolger molti allo studio di una scienza che vedeasi da si gran personaggio cotanto apprezzata. VI. Egli però non fu pago di fomentar questo studio con tali onori. Aristotele era allora l’oracolo della filosofia, e credeasi che a questo fonte soltanto si potesse attinger la scienza del vero. Ma poche eran le opere di questo filosofo che si leggesser tradotte in latino, ed ancora avean bisogno di chi diligentemente le illustrasse. Ei pose perciò gli occhi sul più mi hi sedute pergiurerai, nihil invenirem in mee panperiatis armario, quod auderem tante Celsitudini presentare , tandem Uicina largitas, que. datoriali nihil irnproperat, et dot omnibus habundatuer , mi Ili quiddam operilit, quod, ec. [p. 247 modifica]SECONDO ^47 dotto uomo che allor vivesse, cioè su S. Tom* maso d’Aquino, e gli comandò che scrivesse comenti su’ libri di Aristotele. Tolomeo da Lucca, scrittore contemporaneo e famigliare di S. Tommaso, racconta (Hist. eccl. l. 22, c. 24) voi. x 1 Script. rer. ital.p. 1 i53) che S. Tommaso tornato da Francia in Italia l’anno 12(11, tra le cose che per ordine del pontefice Urbano IV fece in Roma, una fu questa: Tuttefratcr Thomas red.it de Parisiis ex certis caussis, et ad petitionem Urbani multa fecit et scripsit... tenens studium Romae, quasi totam philosophiam sive moralem sive naturalem exposuit., et in scriptum seu commentum redegit, sed praecipue Ethicam et Mathematicam (forse dee leggersi Metaphysicam) quodam singulari et novo modo tradendi. E quindi in altri passi ragiona (ib. l. 23, c. 11, 15) delle altre opere di Aristotele, che in somigliante maniera comentate furono da S. Tommaso. Ma a ben comentarle necessario era dapprima l’averne una fedel! traduzione; e perciò egli adoperossi, probabilmente a esortazione dello stesso pontefice, perchè nuovamente esse fosser tradotte: quorum librorum, dice Guglielino da Tocco scrittore antico della sua Vita, procuravit quod fieret nova translatio (A età SS. ad d. 7 mart. c. 4> n. 18). In questo lavoro egli occupò Guglielmo di Morbecca natio del Brabante, religioso del suo Ordine, e poscia arcivescovo di Corinto; intorno al quale veggansi i PP. Quetif ed Echard (Script. Ord. Praed. t. 1. p. 388, ec.), e il P. de Rubeis (De Gestis, etc. S. Thomae diss. 23, c. 2), i quali colla testimonianza e di antichi autori [p. 248 modifica]248 LIBRO e di codici antichi provano chiaramente ch’egli in gran parte fu traduttore dell’opere di Aristotele, e ciò che è degno di osservazione, sì è che comunemente ei le tradusse non dall’arabo, ma dal greco; perciocchè in molti de’ monumenti da questi scrittori allegati dicesi espressamente che il tale e il tal libro furon tradotti dal greco, e si rammentano i greci esemplari su’ quali s’era formata la traduzione. Ma Guglielmo non era italiano, e perciò io non debbo esaminar le fatiche da lui intraprese, e mi basta accennarle per gloria di S. Tommaso, che ad esse animollo. Per ciò che appartiene a’ Comenti di S. Tommaso, io non dirò che essi contengano la più esatta dottrina, singolarmente in ciò che spetta alla fisica. Questa era ancora troppo lungi da quella luce a cui è giunta nei tempi a noi più vicini. Ma è degna d’esser qui riferita l’osservazione di Eusebio Renaudot (De barbarica Arist. Versione ap. Fabr. lì ibi. gr. t. 12, p. 259), cioè che non può abbastanza ammirarsi l’ingegno e la penetrazione di S. Tommaso, il quale avendo sotto gli occhi versioni e comenti non troppo opportuni a illustrare Aristotele, ciò non ostante nell’interpretarlo superò di gran lunga non sol gli Arabi, ma molti ancora de’ greci comentatori. Nè è maraviglia che anche le versioni fatte per opera di S. Tommaso non fossero troppo esatte. Il Bruckero lo attribuisce alle traduzioni arabiche infedeli e scorrette, di cui egli crede che i traduttori si valessero. Noi abbiam dimostrato che essi si valsero ancora, almen talvolta, del testo greco. Ma nondimeno non è [p. 249 modifica]SECONDO a4o a stupire che le versioni fosser poco felici. Già abbiam veduto nel primo tomo di questa Storia qual guasto soffrisser le opere d’Aristotele fin da’ tempi più antichi, e da quante mani esse venisser corrotte. Or quanto più dovette ciò avvenire nella barbarie de’ secoli susseguenti, quando i copiatori erano per lo più ignoranti, e scrivevan ciò che punto non intendevano? Qual maraviglia adunque che di un testo sì guasto si facesser sì misere traduzioni, e che le vere opinioni di questo ingegnoso filosofo si cambiassero spesso o in oscurissimi gerghi, o in grossolani errori? A ciò aggiungasi la sottigliezza e le speculazioni degli Arabi che nuove tenebre aggiunsero agli scritti di Aristotele; e non rimarrà luogo a stupire di ciò che molti affermano, e che parmi certissimo, cioè che non possiam esser sicuri che Aristotele sentisse veramente ciò che sembrano indicarci le opere che di lui abbiamo, e che anzi possiam credere con fondamento che in molte cose egli avesse opinioni del tutto contrarie a quelle che sembran da lui sostenersi. VU. Ciò che abbiam detto del comando fatto da Urbano a S. Tommaso d’interpretare le opere di Aristotele, basta a mostrarci che non avea ragione il Launoio di maravigliarsi (De Arist. Fortuna c. 7) che questo santo, benchè professore dell’università di Parigi, e benchè sì ubbidiente ai pontificj decreti, ardisse nondimeno di comentare un filosofo i cui libri da’ romani pontefici erano stati proscritti. Questa proibizione non avea luogo, come già abbiamo osservato, che nella università di Parigi; e ancorchè ella [p. 250 modifica]l5o LIBRO fosse stata distesa a tutte le scuole, l’espresso comando che S. Tommaso ne ricevette di Urbano IV, basta ad assolverlo da ogni taccia. Non è da ommetter per ultimo che S. Tommaso non prese ad illustrare solamente Aristotele , ma avea ancor cominciato un comento su un’opera di Simplicio, e un altro sul Timeo di Platone, che si rammentano nella lettera scritta dalla università di Parigi al Capitolo generale dell’Ordine de’ Predicatori l’anno 1274, poichè ne ebbe intesa la morte, in cui chiede che queste opere, benchè imperfette, le sian mandate. Accennasi ivi ancora un’altra opera di S. Tommaso, la quale se fosse a noi pervenuta , ci mostrerebbe quanto ei fosse versato anche nelle matematiche; cioè un trattato da lui cominciato sopra gli Acquedotti e sopra le macchine per sollevare e condurre le acque. Ma benchè queste ed altre opere di S. Tommaso sian perite, quelle però, che ci sono rimaste, bastano a persuaderci che non andò lungi dal vero l’ingegnoso M. Fontenelle, quando, come sopra abbiam riferito, scrisse che in altri tempi S. Tommaso sarebbe stato un Cartesio. Vili. Al favore di cui Urbano IV onorava i filosofici studi, dobbiam ancor le opere di Campano novarese filosofo e matematico di questo secolo. Il Tritemio, seguito da alcuni, ne assegna con troppo grave errore l’età all’anno 1030 (De Script, eccl. c. 334). Il Vossio la fissa all’an 1200 (De natura Art. l. 3, c. 36, parag 25), e forse egli vivea fin d’allora; ma ei fioriva ed era filosofo e matematico rinomato a’ tempi di Urbano IV che fu eletto papa l’anno 12G1, come [p. 251 modifica]SECONDO a5i è manifesto dalla dedica a lui fatta del suo libro , sopra la Sfera, da noi pubblicata poc’anzi. Della vita da lui condotta niuno ci ha data finora notizia alcuna. A me è avvenuto di scoprire felicemente ch’egli fu cappellano del papa , cioè probabilmente di Urbano IV, e clic ebbe ancora un canonicato in Parigi, ove però io credo ch’egli non mai abitasse. Ne abbiam la pruova in una lettera del medico Simone da Genova, di cui parleremo nel capo seguente, che così comincia: Domino suo praecipuo Domino Magistro Campano Domini Papae Capellano, Canonico Parisiensi, Simon, ec. (Saxii Hist. typogr. mediol. p. 453). E che ei sia il nostro Campano, si rende anche più certo al riflettere che Simone il prega, acciocchè Philosophiae culmen ad hujasmodi vilia non dedignetur descendere. I moderni comunemente l’appellano Giovanni Campano, ma in tutte le edizioni e in tutti i codici mss. ch’io ho consultati, trattone uno (Catal. Bibl. reg. Paris, mss. t. 4) p. 352 , cod. 74oi)i 01 11011 0 chiamato che col nome semplice di Campano. Checchè sia di ciò, le opere parte geometriche, parte astronomiche da lui scritte cel mostran uomo in queste scienze versato forse sopra ogni altro della sua età. La più nota che abbiamo alle stampe , sono i Comenti sopra Euclide. Il Fabricio (Bibl.gr. t. 2, p. 373) e tutti i moderni scrittori da me veduti affermano concordemente che il Campano tradusse ancora Euclide in latino , valendosi a ciò fare della versione arabica; anzi monsignor Huet gravemente il riprende (De claris Interpr. p. 227) perchè lo abbia colla [p. 252 modifica]a5a libro sua traduzione miseramente guasto e corrotto. Ma io credo che il Campano non si meritasse tal ripassata, e ch’egli non traducesse mai Euclide, ma solo il comentasse. Una osservazion diligente che io ho voluto fare su’ codici mss. che se ne veggono annoverati nel Catalogo della Biblioteca del re di Francia (t. 4, p. 327, cod. 7213, 7214, 7216), e in quello de’ Manoscritti dell’Inghilterra e dell’Irlanda (t. 1, p. 86, cod. 17925 p. 162, cod. 3359), me ne ha convinto; perciocchè in essi non mai si dice il Campano traduttore d’Euclide, ma solo comentatore; anzi in alcuni di essi chiaramente si afferma che il traduttore fu Adelardo goto monaco del monastero batoniese in Inghilterra nel secolo XII, di cui di fatto dice altrove il Fabricio (Bibl. med. et inf. Latin, t. 1, p. 11) che tradusse dalla lingua arabica nella latina Euclide. Così nel codice 7213 della Biblioteca del re di Francia: Euclidis Elementorum libri XV ex arabico in latinum ab didelfi ardo gotìio lìat/ioniensi conversi cum Commentario Campani Novariensis; e nel codice 3359 de’ Manoscritti dell1 Inghilterra e dell1 Irlanda: Euclidis Elementorum libri XV ex versione y1 dell/ardi de arabico cum Commentario magistri Campani Novariensis. Diasi dunque all’inglese Adelardo la colpa di aver fatta su una cattiva arabica una peggior versione latina di Euclide, e al nostro Campano rimanga la gloria di averlo illustrato, quanto era possibile in que’ tempi sì tenebrosi. Egli affaticossi inoltre intorno al famoso problema della quadratura del circolo 5 e il trattato che su ciò egli scrisse, vedesi stampato nell’Appendice alla Margharita Philosophica. [p. 253 modifica]4» SECONDO 253 IX. Ei rivolse inoltre i suoi studi all’astronomia, e più opere intorno ad essa compose, delle quali però una, ch’io sappia, è data alle stampe. Esse sono annoverate dal Fabricio (ib. t. 1, p. 326) e dal Cotta (Museo novarese p. 78), e se ne trovano codici mss. nell’Ambrosiana in Milano, nella Biblioteca di S. Marco in Firenze, e altrove; e molte ne veggiam registrate ne’ Catalogi della Biblioteca dei re di Francia (t. 4,p. 325, cod. 7196; p. 337, cod. 7298; p. 352, cod. 7401), della Riccardiana (pag. 95), e de’ Manoscritti dell’Inghilterra e dell’Irlanda (t. 1, p. 78, cod. 1629; p. 79, cod. 1658; p. 85, cod. 1769; p. 86, cod. 1779; p. 87, cod. 1816, ec.); e trattano comunemente de’ moti de’ diversi pianeti, degli stromenti necessarii! a conoscerli e a determinarli, del computo ecclesiastico, oltre un general trattato intitolato Teoria dei Pianeti. Era egli amico di F. Rainero da Todi dell’Ordine dei Predicatori, e nella sopraccennata Biblioteca di S. Marco in Firenze conservasi una lettera scritta dal Campano sul moto dell’ottava sfera, che così comincia: Magnae sanctitatis et scientiae religioso viro Fratri Rainero Tudertino de Ordine Pradicatorum Campanus Novariensis de numero peccatorum orationum suarum cum instantii reverenti deposcit suffragia., ec. (Script. Ord. Praed. l. 1, p. 474)- À questa epistola nel codice stesso si aggiungono due opuscoli sulla Sfera, i quali probabilmente sono o dello stesso Campano, o di F. Rainero, il quale dal solo commercio che avea col Campano possiam raccogliere che de’ medesimi studi si dilettasse. Ed essi non dovean esser di fatti IX. Opera astro* uomiehc «lei medesimo a di altri. [p. 254 modifica]X. 1.<-onar> «1» Fi bottacci )>«>rta in itala i numeri arabici254 UBRO infrequenti in quest’Ordine perciocchè Guglielmo Ventura astigiano nella Storia della sua patria racconta (Script. rer. ital. vol. 11, p. 156) che un cotal Lanfranco domenicano l’anno 1261 nel mese di gennaio predisse che in quell’anno nella vigilia dell’Ascensione verso l’ora di nona sarebbesi ecclissato il sole, come in fatti avvenne. E nel secolo stesso Leonardo da Pistoia del medesimo Ordine verso il 1280 oltre una Somma Teologica scrisse alcuni trattati di Geometria, di Aritmetica, e del computo lunare, che conservansi manoscritti nella suddetta Biblioteca di S. Marco (Script. Ord. Praed. t. 1, p.)473 Per ultimo vuolsi avvertire aver dubitato il Vossio (l. c.) che due Campani si dovesser distinguere vissuti in diverso tempo, uno francese, cioè l’interprete di Euclide, l’altro novarese, cioè l’astronomo. Ma le cose dette fin qui mostrano chiaramente che il Campano novarese fu l’autore di tutte queste opere, e che non vi ha alcuna ragione per dividerle tra due scrittori. Di lui veggasi ancora il Marchand, che riguardo all’opere dal Campano composte ha scritto con diligenza (Dict. Hist art. Campanus), benchè egli ancora il faccia traduttore di Euclide. X. Fra i matematici di questo secolo dee annoverarsi principalmente Leonardo Fibonacci ossia figliuol di Bonaccio, di patria pisanoj perciocchè a lui si attribuisce la lode di avere prima di ogni altro portati in Italia al principio del secolo stesso i numeri detti arabici, o, come egli gli dice, numeri degli Indiani (a). L’Aritmetica (a) Intorno all’introduzione delle cifre arabiche meritan di esser lette le diligenti e ingegnose riflessioni [p. 255 modifica]SECONDO 255 da lui composta conservasi in un codice ms. della Migliabecchiana, e il sig. ab. Zaccaria (Excursus liter. p. 229, ec.) e il sig. dottissimo Giovanni Targioni Tozzetti (Relazioni (d’alcuni Viaggi, ed. 2, t. 2, p. 58, ec.) ce ne hanno data una assai esatta descrizione. Il titolo è: Incipit Liber Abbaci compositus a Leonardo filio Bonacci Pisano in anno 1202. Narra nella prefazione Leonardo, che in età fanciullesca essendo stato condotto da suo padre a Buggia nella Barberia, nella cui dogana egli era cancelliere a nome de’ Pisani, apprese ivi a conoscere le nuove figure de’ numeri usati dagl1 Indiani, e si diè a cercare tutto ciò che su quella scienza sapevasi nell’Egitto, nella Siria, nella Grecia, nella Sicilia, ec., aggiugnendovi ancora parecchi lumi tratti dalla Geometria di Euclide. Alla prefazione segue la dedica dell’opera a quel Michele Scotto da noi mentovato in questo tomo medesimo. L’ab. Zaccaria ci ha dato l’indice de’ capitoli in cui l’opera è del eh. sig. ab. Andres (afferma Dell’origine progressi (Progr d’ogni Letter. t. i, p. 429, ec.) il quale senza negare n Leonardo Fibonacci la gloria ili averle dall’A lirica portate in Italia, si fa a provare ch’esse non iinon note a Gerberto, come alcuni hanno afieruaato, e molto meno a Boezio; e crede che F esempio più antico di tali cifre sia la traduzione di un’opera di Tolomeo dall’arabo in latino latta nel n3tì, e che conservasi nell’archivio di Toledo. Ma se il codice della Magliab celnana che contiene i simboli ile’ libri di S. Agostino, e tra essi le note arabiche a indicarne il trattato di Aritmetica , quali il Targioni le ha fatte incidere; se, dico, quel codice è veramente del secolo xf, coinè questo autore lo crede (Viaggi t. 2, p. 6cS), egli è evidente che ad esso convicq dare la preferenza sopra il codice di Toledo. [p. 256 modifica]300 LIBRO divisa, e il dottissimo Targioni ha scelte parecchie belle e interessanti notizie che si leggono intorno alle monete, al commercio, alle misure, agli usi mercantili di quell’età. Egli osserva fra le altre cose l’etimologia della voce zero, che viene, secondo Leonardo, dalla voce arabica zephirum; e mostra insieme che Leonardo fa uso non sol del nome, ma delle note e delle regole dell’algebra. Ei nondimeno rammenta qualche codice latino del secolo xi e del XII, in cui pure si veggono alcuni , benchè più rozzi, numeri arabici; ed egli anzi sospetta che cotai numeri siano lettere minuscule greche un poco storpiale, eolie forse gli Arabi abbian preso il modo di conteggiare da’ Greci de’ bassi secoli. Nella stessa Magliabecchiana conservasi un’altra opera di Leonardo seri Ita nell’anno 1220, intitolata Practica Geometriae, la quale però propriamente appartiene ali’ agrimensura , e di essa ancora qualche saggio ci offre il soprallodato dottissimo Targioni. XI. Vivea al medesimo tempo un altro astronomo e matematico di qualche fama, a cui io sono stato lungamente dubbioso se convenisse dar luogo in questa mia Storia. Ei fu Giordano Nemorario detto da altri del Bosco, del quale pare che niuno si sia preso pensiero di additarci la patria, perciocchè per lungo tempo è stata inutile ogni ricerca da me fatta per iscoprire onde egli fosse. Ei visse, come ho detto, al tempo medesimo col Campano, perciocchè questi due autori si citan l’un l’altro a vicenda (V. Voss. l. cit. parag 26). Il che, come prova comune la loro età, così potrebbe forse parere [p. 257 modifica]secondo 207 non iipi’egcvolc congettura a dirne comune la patria, o almeno il soggiorno, poichè a quei tempi non era così agevole che le opere, viventi ancora i loro autori , passassero da uno all’altro paese, se gli stessi autori seco non le portavano. Ma finalmente mi è avvenuto di osservare che in un codice della biblioteca di S. Marco in Venezia (Cod. lat Bibl S. Marci p. 141) egli è chiaramente detto tedesco: Jordani de Nemore de Alemania Arithmetica; e noi perciò non abbiamo più alcun diritto ad annoverarlo tra’ nostri. Xn. l)a ciò che abbiam detto finora, si rende evidente che fra tutte le parti della filosofia e della matematica l’astronomia fu quella che sopra le altre fu in questo secolo coltivata. Così gli studiosi di essa si fosser ristretti entro i confini della vera ed utile astronomia. Ma molti passaron tropp’oltre, e, abusando del loro studio , divenner pazzi e superstiziosi seguaci dell’astrologia giudiciaria. E io penso che la colpa se ne dovesse in gran parte a Federigo II. Il Montucla lo annovera tra i fomentatori dell’astronomia (Hist. des Mathém. t. 1, p. 4*8)? nè io gli contrasto tal lode, la quale anzi comprovasi dalle cose che di questo principe abbiam dette in addietro. Ma ciò che afferma il Montucla, cioè che a lui deesi la prima traduzione latina dell’Almagesto di Tolomeo fatta sulla versione arabica, è certamente falso; perciocchè nel tomo precedente si è dimostrato che tal traduzione fu fatta fin da’ tempi di Federigo I da Gherardo cremonese. Forse però una nuova versione ne fece fare Federigo II. e forse fu Tolomeo Tikaboscjìi, Voi. IV. 17 [p. 258 modifica]a58 LIBRO uno di quegli antichi filosofi, la cui traduzione egli mandò in dono alla università di Bologna. Aggiugne il Montucla che Federigo tanto godeva degli studi astronomici, che solea portar seco un globo, la cui superficie rappresentava le costellazioni, e al di dentro vedeasi raffigurata la disposizione delle orbite, e i movimenti de’ pianeti. Ma io credo certo che ciò movesse da una folle credenza per le astrologiche predizioni, anzi che dal desiderio d’istruirsi nell’astronomia. Veggiamo in fatti ch’egli avea sempre seco molti di cotali impostori. Così nella antica Cronaca di Vicenza scritta da Antonio Godi leggiamo (Script. Rer. ital. vol. 8, p. 83) che l’anno 1236 dovendo egli uscir da Vicenza, volle che un suo astrologo gli predicesse per qual porta dovea uscire; e che costui avendogli posto in mano un viglietto chiuso, Federigo , poichè fu uscito, apertolo riconobbe che colui avea colto nel vero. E Rolandino racconta (ib. p. 228) che volendo egli andare l’anno 1239 da Padova a Castelfranco nel Trevisano, comandò a mastro Teodoro suo astrologo, che per mezzo dell’astrolabio gli predicesse a qual ora dovea muover l’esercito, e che quando volle edificare la città detta Vittoria presso Parma, consultò pure gli astrologi (ib. p. 249) per cogliere il tempo a ciò opportuno. Nel che però convien dire che i suoi astrologi non fosser troppo felici; perciocchè la nuova città fu non molto dopo distrutta. E finalmente F. Francesco Pipino con molta serietà ci racconta (ib. vol. 9, p. 660) che dagli astrologi gli fu ancora predetto che sarebbe morto alle porte di ferro [p. 259 modifica]SECONDO j5o in un luogo che avesse il suo nome dal fiore; e che di fatto ei morì in Fiorentino terra delf Abruzzo in una torre che avea le porte di ferro; le quali cose, benchè in gran parte si debban credere finte a capriccio, ci mostran però che Federigo II erasi lasciato miseramente acciecare dalle astrologiche imposture. X1LI. Nè punto men pazzamente andava dietro esse perduto il celebre Ezzelin da Romano (a). Jacopo Malvezzi, scrittore di un’antica Cronaca bresciana, racconta (ib. vol. 143 p- 930, 931) ch’egli avea seco in Brescia una truppa di astrologi, cioè il famoso Guido Bonatti, di cui or or parleremo, Riprandi no veronese, Paolo bresciano, un Saracino che alla lunga barba e al fiero sembiante pareva un nuovo Balaamo, e, ciò che dee sembrar più strano, anche un canonico di Padova detto Salione; e che costoro non molto prima della battaglia presso Cassano, ove Ezzelino ricevette la ferita di cui morì, due volte gli predissero i più felici successi. Il che pur si racconta dall’anonimo autore dell’antica Cronaca Estense pubblicata dal Muratori (ib. vol. 15, p. 329), ove i medesimi astrologi si veggono nominati, se non che il Malvezzi distingue Paolo bresciano dal saracino, di cui non dice il nome, il cronista Estense nomina solo Paolo Saracino, nel che però deesi credere errore; perciocché un Saracino non (<i) La stona ili questo sì celebre uomo e degli altri personaggi dello sua famiglia è stala assai bene illustrata pochi anni addietro dal sig. Giambatista Verni nella sua Stona degli lincimi stampata in Tlassaim nel i "i) in ire tomi 111 8.° XIII E da Ki*r litio da Romano. [p. 260 modifica]iOo LIBRO avrebbe avuto il nome di Paolo. Di Salione astrologo di Ezzelino fa menzione ancora il suddetto Guido Bonatti (Astronom. pars 1 , p. 14-3) che era insieme con lui al seguito di Ezzelino. Guido fu il più celebre tra gli astrologi di questa età; ed è il primo dopo gli antichi che ci abbia lasciato un pieno ed intero trattato su questa pretesa scienza. Di esso abbiamo più edizioni che rammentansi dal Fabricio (Bibl. lat. med. et inf. act. t. 3, p. 130); e in esso alle imposture astrologiche Guido unisce tutta quella scienza astronomica che allor poteasi avere, e merita perciò che ne facciamo distinta menzione, anche per discernere ciò che possiam. di lui credere con fondamento , da ciò che la credulità de’ nostri maggiori ha troppo facilmente adottato. E tanto più che pochi di lui hanno parlato con esattezza; e quelli che più copiosamente degli altri ne hanno scritto, cioè Prospero Marchand (Dict. hist. art. Bonatus) e il co. Mazzucchelli (Scritt, ital. art. Bonatti), han bensì riferito le altrui opinioni, ma non han consultate le opere dello stesso Guido, il che a me sembra che prima d’ogni altra cosa si debba fare quando si prende ad esaminare la vita di qualche scrittore. XIV. Guido Bonatti credesi comunemente di patria forlivese. Così egli è nominato nel titolo della sua Astronomia; così afferma l’antico autore della Cronaca Estense (l. cit.), per tacere altri più moderni scrittori; così sembra provarsi da parecchie carte di questo e del precedente secolo, che conservansi negli archivi [p. 261 modifica]SECONDO __ aGl eli quell:» cittì» , e tiellc quali si fa uiciizione della famiglia Bonalli (V. Georgii Viviani Marchesii Vit ill Foroliviens. p. 218). Ma molti scrittori fiorentini, ed altri citati e seguiti dal P Negri (Scritt. Fiorent. p. 317), affermano che ei fu fiorentino, e che cacciato per le civili discordie dalla sua patria, e ritiratosi a Forlì, volle da questa città prendere il nome, Io non farei gran conto di tutti gli autori allegati dal p Negri, poichè son quasi tutti di due secoli posteriori a Guido. Ma parmi più forte assai l’argomento tratto dalle \ ite d’Uomini illustri fiorentini di Filippo Villani pubblicate dal conte Mazzucchelli} poichè questa conferma la suddetta opinione, e aggiugne (p. 80) che nacque in Cascia, luogo del territorio di Firenze, di famiglia secondo il luogo assai antica, di che altre congetture ancora si arrecano nelle Novelle letterarie di Firenze (an. 1248, p. 345). Quindi io confesso che non so arrendermi a preferire l1 una all’altra opinione. A me par nondimeno che se il Bonatti avesse avuto contro dei Fiorentini quell’odio che questi scrittori ci dicono, ei ne avrebbe forse dato qualche indicio nella sua opera, in cui non rare volte parla di se medesimo. Or di ciò non vi ha motto. Il qual argomento, benchè non abbia forza di prova , può rimirarsi però come congettura favorevole a’ Forlivesi, a cui parmi che un’altra si possa aggiungere di non minor forza, cioè una carta fiorentina del 1260, in cui tra i testimonii è notato ancor Guido con queste pai ole: Guido Bonactus Astrologus Communis Florentiae de T’orlivio (Mozzaceli. Praef. [p. 262 modifica]a(Ì3 LIBRO al Bilioni p. 21). In un codice della Cronaca di Giovanni Villani citato dal Muratori si dice (Script. Rer. ital. vol. 13, p. 291, nota 6) che egli era ricopritore di tetti. Ma in quest1 arte ei non dovea certamente impiegare gran tempo. Non si sa in qual anno ei nascesse; ma certo egli era già vivo, e in età di poter conoscere altri l’anno 1223, perciocchè egli narra che in quell’anno vide in Ravenna un certo Riccardo, il qual diceva di avere 400 anni, e di essere stato a’ tempi di Carlo Magno (Astronom. p. 209). Anzi ei doveva essere uomo di qualche autorità l’an 1233, poichè egli parlando del celebre Giovanni di Vicenza domenicano, di cui tratteremo altrove, dice ch’ei fu il solo che ricusasse di venerarlo come uom santo, e che perciò era dal popolo considerato come empio ed eretico (ib.). Questo passo medesimo ci mostra ch’egli era allora in Bologna, ove forse egli aveva fatti i suoi studi, e ove sembra che avesse conosciuto Pier delle Vigne, come altrove si è mostrato. Pare ancora ch’egli viaggiasse fin nell’Arabia; perciocchè Benvenuto da Imola citando un passo dell’opera astrologica dei Bonatti dice: Scribit enim Guido Bonatti foroliviensis magnus astrologus , se vidisse in Arabia unum astrolabium mirabilis magnitudinis, ec. (in Comm. ad Dant ed. Antiq. Ital. t.1,p. 1183). Ne’ libri di Guido io non ho veramente potuto trovare un tal passo; ma se Benvenuto in essi lo ha letto, pare che possa a ragione esiger fede. L’astrologia giudiciaria fu il suo studio più caro; e tanto se ne lasciò egli acciecare, che lungi dal sospettare in essa superstizione, [p. 263 modifica]Secondo a63 o colpa alcuna, invoca spesso nella sua opera il divino ajuto, affine di sciogliere le proposte quistioni, e giunge a dire che Gesù Cristo medesimo si valse dell’astrolgia giudiciaria (p. 18). Ei vivea in tempo in cui gl’impostori facilmente otteneano fede; ed egli perciò fu avuto in conto del più grande e del più dotto uomo che allor ci fosse} e molti de’ principali signori italiani voleano averlo seco. XV. Benchè non sappiamo s’ei fosse onorato da Federico II, ciò nondimeno è assai probabile, se è vero ciò che lo stesso Guido racconta (p. 182), che essendo Federigo in Grosseto, ed egli in Forlì, dalla combinazion de’ pianeti conobbe che tramavasi congiura contro l’imperadore, e che avendonelo egli avvertito, trovossi in fatti che Pandolfo da Fasanella, Teobaldo, Francesco, e più altri de’ suoi segretarii avevano contro di lui congiurato, senza che alcun degli astrologi che gli stavano in corte, ne avesse avuto presentimento. Forse ciò avvenne l’anno 1233, quando Arrigo ribellatosi contro l’imperador suo padre cercò di condurre molti al suo partito (V. Murat. Ann. (d’Ital, ad h. an.). Guido fu ancora con Ezzelino, come sopra abbiam detto, l’anno 1 a5<) in cui questi morì, dopo aver avuto da Guido stesso e da altri astrologi le più favorevoli predizioni. Di questo però non fa alcun motto Guido nella sua opera} perciocchè non era egli sì semplice a narrarci cosa che non era troppo onorevole a lui e alla sua arte} ma solo racconta (p. 210) la morte infelice di quel tiranno, anzi parla di lui (p. 152) come de| xv. Predizioni delle quali eRfi ai vanta. [p. 264 modifica]2(>4 LIBRO più crudele uomo-del mondo, dicendo ch’egli a niun ordine, a niuna religione, a niun grado, a niuna età, a niun sesso, a niuna famiglia ebbe riguardo, uccidendo persino colle sue mani un suo fratello e un suo nipote; le quali cose tutte, conchiude, io stesso ho vedute. Ma ei fu caro» singolarmente al conte Guido Novello, che da Giovanni Villani dicesi (l. 6. c. 80) Guido Novello de’ conti Guidi. Questi fu fatto podestà di Firenze a nome del re Manfredi l’anno 1260; e il Bonatti racconta (p. 311) che avendo il conte mossa guerra a’ Lucchesi, il che secondo il Villani (ib. c. 83) avvenne l’anno 12(11, ed essendo i due eserciti l’un dall’altro non molto discosti, lo stesso conte lo interrogò se sarebbe allora seguita battaglia, e ch’egli, consultati i pianeti, rispose che no, e che così in fatti avvenne} e aggiugne (p. 313) che mentre il conte stringeva d’assedio un castello, egli interrogato se esso sarebbe stato espugnato, rispose pure che no, per codardia degli assedianti. Il che deesi intendere del castello di Fucecchio che per trenta giorni fu inutilmente assediato dal conte Guido, come narra il Villani (ib.), il quale però non attribuisce l’infelice esito dell’assedio alla viltà degli assediatori , ma alla forza del castello e al coraggio de’ difensori. E Bonatti rammenta ancora, come da sè predetta, la sconfitta ch’ebbero i Fiorentini guelfi da’ gibellini presso il castello di Montaperti l’anno 1260, e dice (p. 31)3) che Guido Novello era il condottiero de’ Gibellini, e che ciò avvenne, dappoichè egli cacciato fu da Firenze, e i Fiorentini [p. 265 modifica]SECONDO aG5 ebbe»’ distrutti i castelli che aveano in Toscana. (’,li storici antichi non ci raccontano che Guido Novello avesse parte nella battaglia di Montaperti, e secondo essi ei non fu cacciato da Firenze clic l’anno 12G6 (Fili. I. i4). Ma forse egli fu da Firenze cacciato due volte, o forse due battaglie avvennero presso di Montaperti. Certo non deesi credere che il Bonatti o abbia errato, o abbia voluto ingannare, fingendo una battaglia a’ suoi tempi che non fosse accaduta. L’ultima sua predizione, di cui Guido si vanta, è quella di una battaglia che da lui solo si accenna, dicendo: sicut accidit nobis, quando equitavimus Valbonam... vicimus enim omnes volentes nobis resistere (p. 299); la qual forse fu la battaglia di cui parlasi negli Annali di Forlì all’anno 1276, seguita tra’ Gibellini forlivesi e i Guelfi loro nimici, i quali aveano appunto posto il campo a Valbona (Script. Rer. ital. vol. 22, p. i\o). XVI. Queste sole sono le predizioni del cui avveramento si vanta Guido nella sua opera, e le sole imprese di guerra a cui narra di essere intervenuto. Io penso che non gli si debba gran fede, quando racconta di aver predetto sì felicemente il loro successo; o che si debba credere ch’egli colpisse fortunatamente nel vero, come avviene talvolta anche a chi non si pregia di essere astrologo. Io penso ancora che Guido si sarà molte volte ingannato nelle sue predizioni, come gli accadde riguardo ad Ezzelino. Ma penso altresì che se in altre occasioni egli avesse potuto vantarsi di aver letto nelle costellazioni il futuro, ei non l’avrebbe [p. 266 modifica]a66 libro nella sua opera dissimulato; poiché lropj>o eray T onore che ne sarebbe venuto a lui e alla su;B •arie. Quindi a me sembra che tutti gli altri maravigliosi avvenimenti che di lui ci raqcon-1 tano altri scrittori vissuti dopo di lui, non si debbano ammettere sì facilmente, non solo perchè vi ha sempre ragione di dubitare delle astrologiche imposture, ma anche perchè non sembra probabile che Guido gli avesse taciuti, se in essi vi fosse almeno qualche apparenza di vero, Io non mi tratterrò a rammentare le grandi cose che di lui hanno scritto, o, a dir meglio, sognato alcuni. Leggasi la Vita scrittane da Filippo Villani, e da noi rammentata poc’anzi, e vi si troverà menzione e di una statua di bronzo fatta fonder da Guido, la qual rendea risposte profetiche, e del campanile di S. Mercuriale in Forlì, su cui salito il Bonatti, quando il conte Guido di Montefeltro signore di quella città ne uscia per combattere, dava col primo tocco della campana l’avviso di rimettersi l’armatura, col secondo di salire a cavallo, col terzo di muovere velocemente. Leggansi i Comenti di Benvenuto da Imola sulla Commedia di Dante pubblicati dal Muratori, e vi si troveranno accennate (Antiq. Ital. 1. x, p. 1083) le molte vittorie dallo stesso conte Guido ottenute contro dei Bolognesi per le profezie del Bonatti, il predire che questi fece una ferita‘eli’egli stesso avrebbe ricevuta in una battaglia, come avvenne, e la confusione ch’ei dovette un giorno soffrire, quando avendo egli dall’osservar le stelle predetto che non sarebbe caduta pioggia, e un contadino al contrario da’ [p. 267 modifica]SECONDO 267 movimenti del suo asino avendo pronosticato e affermato ch’ella sarebbe caduta assai copiosa, si vide in effetto che l’asino avea maggior virtù che le stelle nell’indicare il futuro. Leggansi gli Annali di Forlì da noi mentovati poc’anzi, i quali però sono scritti, come osserva il Muratori, da assai recente autore, e vi si vedrà narrata distesamente (l. cit. p. 149) la segnalata vittoria che colla scorta delle predizioni di Guido riportò il conte di Montefeltro l’anno 1282 contro l’esercito francese mandato al espugnare Forlì dal pontefice Martino IV; e cose ancora maggiori assai si troveranno al fine de’ medesimi Annali (ib.p. 233), ove molte predizioni raccontansi da lui fatte, altre avverate, altre no, e ove Guido ci si dipinge non sol come astrologo, ma ancor come mago. Leggansi finalmente i due sopraccennati articoli del Marchand e del conte Mazzucchelli, e si vedrà quante altre cose da’ più moderni autori si sono scritte intorno a Guido, che altro fondamento non hanno che la tradizione e la credulità popolare, e cui perciò non giova nè il riferire, nè il confutare. XVII. Lasciate dunque in disparte tutte cotali cose maravigliose non meno che favolose, veggiamo alcune altre notizie intorno alla vita di Guido, ch’egli stesso nella sua opera ci ha tramandate. Egli racconta (p. 209) che un cotal Simon Mestaguerra, uomo di vil condizione, e di cui non si ritrova, ch’io sappia , alcuna menzion nelle Storie, guadagnatosi l’amor del popolo in Forlì, venne in sì alto stato, che niuno ardiva di opporglisi, benchè facesse quanto XVII. Noliiic«!!« si rirav» no dall«’opere d«l Bonatti. [p. 268 modifica]268 libro sapeva fare di male; e dica di se medesimo che fu il solo che ardisse di fargli fronte e resistergli, e che finalmente dopo tre anni di tirannia colui fu sbandito e cacciato dalla città. Egli si duole spesso de’ Regolari, a cui dà il nome di tunicati, perchè si opponevano alle sue predizioni, e dicevano la sua arte non essere che impostura ed inganno. Convien dire che sopra tutti parlasse contro di lui il celebre F. Giovanni da Vicenza domenicano, poichè egli il chiama in un luogo ipocrita (p. 18), e altrove ne forma un assai svantaggioso carattere (p. 210), di che parleremo più lungamente quando dovremo nel capo quarto di questo libro trattare di quest’uom sì famoso. Confessa Guido però, che anche tra’" Regolari aveva trovati alcuni, benchè assai pochi, che non mostravansi cotanto alieni dalla sua scienza, e fra essi dice che dee render giustizia a F. Corrado bresciano dell’Ordine de’ Predicatori, cui, dice, ho conosciuto uomo molto discreto, e che intendeva bene il vero: e bene ne usava, il quale pel suo profondo sapere fu fatto vescovo di Cesena (p. 190). Tra’ vescovi di Cesena del secolo xi; 1 io non trovo alcun Corrado domenicano. Di quest’Ordine vi fu un Francesco , che dicesi da alcuni eletto nel 1263, ma di cui dubita l’Ughelli (Ital. sacra, t. 2) se debba annoverarsi tra’ vescovi di Cesena, poichè non se ne trova negli antichi monumenti notizia alcuna. Dopo Francesco vien nominato Onerardo di Sassonia, cui dice eletto l’anno 1270, e questi io credo appunto che fosse il Corrado di Guido. La diversità del nome non è sì grande, [p. 269 modifica]SECONDO iCMJ che non possa esser facilmente il personaggio medesimo, benchè con nome alquanto diverso. Egli è vero che 1 Ughelli il dice di Sassonia, e Guido il dice da Brescia. Ma possiam noi accertarci che l’Ughelli non abbia qui, come in tanti altri luoghi, preso qualche abbaglio? E molto più che, come osservano i PP. Quetif ed Echard (Script. Ord. Praed. t. 1, p. 359), Bernardo di Guidone, che scrisse verso il 1330, nomina tra i vescovi domenicani Everardo da Brescia vescovo di Cesena. Or chi non vede quanto facilmente il nome di Everardo siasi potuto cangiar in quello di Onerardo, e in quello ancor di Corrado? Che più? Lo stesso Ughelli all’anno 1383 nomina tra’ vescovi di Cesena un Everardo da Brescia domenicano, benchè si mostri dubbioso se debba veramente entrar nella serie, perchè non ne trova autentici documenti. Or chi non vede che l’Ughelli ha a questo luogo malamente sconvolto l’ordin de’ vescovi di Cesena? poichè Everardo di Brescia, facendo di lui menzione il suddetto Bernardo, debbe essere certamente vissuto assai prima dell’anno 1383. A me par dunque certissimo che, ove l’Ughelli nomina Onerardo di Sassonia, si debba legger Corrado, o Everardo da Brescia, e che questi sia appunto colui di cui parla il Bonatti. Ma crederem noi a questo scrittore, quando ci narra ch’egli ancor favoriva l’astrologia giudiciaria? Io confesso che libererei volentieri da una tal taccia questo religioso e vescovo. Ma un passo dell’antica Cronaca di Niccolò Smerego pubblicata dal Muratori non mel permette. Egli all’anno i2.r>8, [p. 270 modifica]270 LIBRO parlando di una vittoria ch’ebbe Ezzelino, in cui fece prigione Filippo arcivescovo di Ravenna legato del papa, aggiugne che fu fatto allora prigione anche F. Gaverardo domenicano, che era astrologo dello stesso legato. Isto medio D. Eccelinus habuit Brixiam, et fecit unam maximam cavalcatam, in qua ipse habuit victoriam, et cepit Legatum, qui ceperat ei Paduam, et Fratrem Gaverardum de Ordine praedicatorum, qui erat suus Astrologus (Script. rer. ital. vol. 7, p. 101). Il Muratori avverte che un codice ms. in vece di Gaverardum legge Everardum; e quindi parmi egualmente sicuro che sia questi appunto e l’Everardo da Brescia di Bernardo da Guidone, e il Corrado da Brescia di Guido Bonatti, e l’Onerardo di Sassonia dell’Ughelli. E forse ancora egli era natio della Sassonia, ma veniva appellato da Brescia pel lungo soggiorno fatto in quella città. Un religioso, e, ciò che è più, un legato coltivatore dell’astrologia giudiciaria è certamente un oggetto da farne gran maraviglia. Ma tal era l’ignoranza di que’ tempi, che si credeva da molti sublime dottrina ciò che non era che puerile superstizione. Lo stesso Bonatti nomina molti altri famosi astrologi ch’egli dice vissuti a’ suoi tempi, tra i quali sono, lasciando da parte gli Arabi, Giovanni da Pavia, Domenico spagnuolo, Michele Scotto, così detto forse dalla Scozia sua patria, Stefano francese, Gherardo da Sabbioneta cremonese, di cui parleremo tra poco, e Bellone pisano (p. 355); il che conferma grande essere stato di questi tempi l’acciecamento degli uomini nel correr perduti dietro a cotali sciocchezze. [p. 271 modifica]SECONDO 27I XVIII. Chi avrebbe creduto che un sì superstizioso astrologo, qual era Guido, dovesse finir la sua vita nell’Ordine de’ Minori, e divenire egli pure un di que’ tunicati che eran tanto nimici della sua astrologia? E nondimeno, se crediamo al Wa dingo (Ann. Minor, t. 5, p. 51) e agli altri scrittor francescani, e a molti altri ancora citati dal ch. Mazzucchelli, così fu veramente; e Guido in vecchiezza entrò tra’ Minori, e vi passò in umiltà e in penitenza i suoi ultimi anni. E in ciò egli ebbe o ad esemplare, come vogliono alcuni, o a compagno, come pensano altri, o a seguace, come altri scrivono, quello stesso Guido conte di Montefeltro, a cui avea predette tante vittorie. E che questi vestisse l’abito di S. Francesco, non può negarsi. Il Wadingo ha pubblicato il Breve (ib. p. 349) che Bonifacio VIII scrisse perciò al provincial della Marca l’anno 1296. Dante ne parla assai lungamente (Inferno c. 27); ma non ostante la conversione del conte, il severo poeta lo ripon nell’inferno per quella ragione che nel passo allegato si può vedere. Ma che il Bonatti ancora si facesse frate, Dante nol dice; ma solamente accennandone il nome lo pone nell’inferno insiem con Michele Scotto e con Asdente prima ciabattino in Parma, poscia astrologo: Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu , che veramente Delle magiche frodi seppe il giuoco. Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente Che avere inteso al cuoio ed allo spago Ora vorrebbe , ma tardi si pente. ib) c. 20. [p. 272 modifica]a qa unno Della conversimi di Guido nulla han parimenti nè le antiche Cronache sopraccitate, nè gli Annali di Forlì} nulla ne dice nè Benvenuto da Imola, nè Filippo Villani, scrittori di tempo vicini a Guido, che non avrebbon ignorata tal cosa, nè l’avrebbon taciuta. Solo due secoli dopo la morte di Guido si cominciò ad affermarla e, come suole avvenire, gli scrittori seguenti, copiandosi felicemente l’un 1 altro, moltiplicarono il numero de’ seguaci di questa opinione, ma non perciò la renderon probabile. Io credo che ella abbia avuto origine da un passo della Vita di Guido scritta dal suddetto Villani, che così dice, secondo la traduzion pubblicata dal conte Mazzucchelli: Morì (Guido) già vecchio , vivendo ancora il conte Guido, il quale con gran concorso de’ Forlivesi seppellì l’ossa sue in santo Mercuriale molto onorevolmente. Perduto Guido Bonatti, perdè la speranza di poter tenere la tirannia; ma quella al tutto lasciò, e preso umile abito entrò nella Religione di S. Francesco, nella quale tra’ Frati Minori Frate Minore passò di questa vita. Molti furono quelli che lo videro, lasciata tutta la pompa della prima vita, mendicare il pane per limosina. Benchè queste parole sian troppo chiare, perchè non si possa intendere del Bonatti ciò che il Villani narra del conte di Montefeltro, non è però improbabile che alcuno leggendole in fretta prendesse l’un Guido per l’altro, e narrasse dell’astrologo ciò che il Villani narra del conte} e mi conferma in questo sospetto il riflettere che gli autori dal Marchand allegati a difesa di questa opinione toccano espressamente [p. 273 modifica]SECONDO a-1.! la circostanza.dell’andare accattando il pane per Dio, che dal Villani si dice del conte Guido. \IX. I moderni scrittori affermano comunemente che il Bonatti morì verso, il 1300, ma < non recano alcun monumento onde ciò si confermi. De’ fatti storici che da lui si raccontano nella sua opera, l’ultimo è la battaglia presso Valbona, avvenuta, come si è detto, l’anno 127(1. Dopo quell’anno adunque scrisse Guido la sua opera; e se è vero ch’ei si trovasse presente alla rotta che il conte Guido diè l’anno 1282 alle truppe pontificie, abbiamo un’altra epoca a cui stenderne con certezza la vita. Anzi, secondo la narrazion del Villani, dovette vivere il Bonatli fin verso il 1296; perciocchè il conte Guido non entrò tra’ Minori che l’anno 1296, come si è detto, e non vi entrò che dopo la morte del Bonatti. Oltre la sua opera astrologica, di cui abbiam ragionato, alcuni altri libri - li somigliante argomento, che a lui si attribuiscono, sembrano essere particelle staccate dalla stessa sua opera. Nel Compendio della Biblioteca del Gesnero si dice ancora eli1 egli scrisse un libro contro de’ Francescani (E pii. Bibl. Gesn, p. 297). Niuno, ch’io sappia, ha mai veduto un tal libro; e io penso che qui ancora siasi preso qualche equi voco. Guido nella sua opera sembra talvolta prender di mira i Francescani, come nemici della sua arte, e pare che di essi intenda singolarmente parlare, quando parla de’ tunicati. Anzi in un luogo egli ha voluto fare il profeta contro di essi, e predir la rovina del loro Ordine. Rechiamone questo passo, che da niuno, ch’io sappia, è stalo avvertilo: Sivut Jitil, ÌUlABOSClIl, Voi. IV. 18 [p. 274 modifica]274 LIBRO quando incepit Secta sive Religio Angus tini, et Secta Benedicti, et Secta Fratrum Minorum, quae incepit aera Arabum 609 anno mense Rabae ultimi, aera Chris ti 1211 anni, cujus principium fuit tale ascendens, quod ipse subradicabit omnes alias Sectas, et alios Ordines sub Romana Ecclesia degentes; sed ejus finem dicere non audeo, timore ne incidam in rumores vulgi. Erit tamen publicus valde cum advenerit, ac de ipso rumor immensus (p. 820). Questo suo odio contra l’Ordine de’ Minori, e questa sua profezia contro di esso, di cui non veggiamo già da quattro secoli il compimento., e che forse non compirà,ssi se non alla fine del mondo, ha dato per avventura occasione ad alcuni di errare, e di scrivere ch’egli avesse composto un libro contro de’ Francescani, Io mi son trattenuto forse più lungamente che non conveniva su questo astrologo. Ma egli è uom nelle Storie troppo famoso, perchè non se ne dovesse parlare, e mi è sembrato opportuno il procurar di discernere, in ciò che di lui si racconta, il vero dal falso. In questi e ne’ seguenti due secoli, ed anche più oltre , furon talvolta uomini di grande ingegno sedotti dalle fallacie di quest’arte; e ci farà d’uopo il trattar di essa più che ella non meriterebbe per se medesima. Per ora ci rimane a dire di qualche altro, di cui però ci spediremo assai più brevemente. XX. Tra questi è quel Gherardo da Sabbioneta cremonese, che abbiam veduto poc’anzi nominarsi da Guido Bonatti tra gli astrologi vissuti a’ suoi tempi. Nel terzo tomo si è già [p. 275 modifica]SECONDO 27.*» ragionato (/.!\. c. 5, n. 7, ec.) di un altro Gherardo cremonese, vissuto lungo tempo in Toledo , e celebre per molte traduzioni di libri arabici da lui fatte; e abbiam allora mostrato eh1 ci fu veramente cremonese, come alcuni hanno affermato, e ch’ei morì l’anno 1187. Ei non potè dunque essere quel Gherardo di cui parla il Bonatti, perciocchè questi ragionando di un uomo morto nel 1187 non l’avrebbe detto suo coetaneo. Aggiungasi che il secondo Gherardo visse certamente circa la metà del secolo XIII, come si mostra da’ monumenti che allegheremo fra poco; e non può quindi rimanere alcun dubbio che l’uno non sia diverso dall’altro. Direm noi forse che il Pipino abbia errato nel fissare il tempo in cui Gherardo morì? Ma si rifletta: se il Pipino avesse voluto parlare di quel Gherardo che fiorì circa la metà del XIII secolo, egli avrebbe parlato di un uomo quasi suo coetaneo, perciocchè ei fiorì al principio del secol seguente, e non è probabile ch’egli prendesse sì grave errore, e di un uomo morto forse mentre ei vivea, o certi pochi anni prima , dicesse eli’ era morto l’anno 1187. Nè si può sospettare di error ne’ copisti, poichè ei parla del suo Gherardo ove parla di un Federigo I, a’ cui tempi vivea. Inoltre il Gherardo di cui parla il Pipino, era uomo d’insigne pietà, come si è veduto nell’elogio ch’egli cene ha lasciato; quegli di cui parla il Bonatti, era un astrologo impostore, come ora vedremo; il primo visse quasi sempre in Toledo, il secondo visse almen lungo tempo in Italia. Tutte le quali cose parmi che rendano poco meno che certa u.UIC >1tru liberar« lo crenuMir.sc più antico. [p. 276 modifica]276 LIBRO la distinzione do’ due Gherardi, Forse a confermarla ancor maggiormente gioverà il riflettere che il primo dal Pipino dicesi cremonese, il secondo dal Bonatti si dice cremonese di Sabbioneta, il qual luogo, benchè ora appartenga al territorio mantovano, forse entrava allora nel cremonese. Potrebb’essere nondimeno che amendue fosser natii di Sabbioneta; e potrebbe essere ancora che il secondo fosse figliuolo, o nipote del primo. Intorno a ciò creda ognuno come gli sembra meglio. A me basta di aver mostrato che due Gherardi cremonesi si debbon ammettere, uno vissuto nel secolo XII, l’altro nel secolo XIII. Così pure hanno pensato gli autori della Storia dell’Università di Bologna (De Prof. Bonon. t. 1, pars 1, p. 511), benchè essi non abbian preso a sostenerlo direttamente. Il non essersi posta mente in addietro a una tal distinzione, ha fatto che siasi da molti attribuito ad un solo ciò che dovea esser diviso in due; e ci conviene perciò separare con diligenza ciò che spetta al primo, e ciò che spetta al secondo. XXI. Del più antico Gherardo altro non ci dice il Pipino, se non che tradusse dall’arabica lingua nella latina moltissimi libri. Di opere da lui composte non elice i. otto. Farmi dunque probabile che tra le opere che dal Fabricio si attribuiscono (Bibl. med. et inf. Latin, c. 3, p. 39) a un sol Gherardo, quelle che son traduzioni, si debban attribuire al primo; quelle che son opere veramente composte, e quelle singolarmente che appartengono all1 astrologia, si deb-1 bau credere del secondo, e solo sembra meno [p. 277 modifica]SECONDO 2 ’J’I improbabile che il primo fosse autore di qualche operetta medica che va sotto il nome di Gherardo cremonese. Fra quelle del secondo, l’unica che abbiasi alle stampe, è la Teorica de’ Pianeti, libro che fu per lungo tempo avuto in conto poco men che di classico riguardo all’astronomia. In fatti Giovanni Regiomontano. ossia di Konigsbergh in Franconia, che nel secolo xv fu acerrimo impugnatore delle opinioni di Gherardo, contro cui scrisse un libro con questo ingiurioso titolo: Disputatio contra. Cremonensia in Planetarum Theoricas deliramenta; Giovanni stesso, io dico, afferma che la Teorica di Gherardo solevasi leggere e spiegare nelle università, e che da molti e grandi ingegni era approvata (praef. Disp. contra Crem. ec.). Delle altre opere di Gherardo che non son venute alla luce, e che probabilmente debbonsi attribuire al secondo , veggasi il sopraccitato Fabricio, e più ancora il Marchand, che benchè abbia confusi insieme i due Gherardi, e col troppo valersi de’ passi de’ moderni scrittori abbia anzi avviluppate che disciferate le cose , delle opere però date alla luce col nome di Gherardo ha parlato assai esattamente. Ma il nostro Gherardo troppo male abusava del suo sapere astronomico rivolgendolo alle superstizioni dell’astrologia giudiciaria. Conservasi nella Vaticana un codice mss., come hanno osservato i dottissimi autori della Storia dell’Università di Bologna (l. c.), dal quale ciò raccogliesi ad evidenza. Esso è intitolato: Judicia Magistri Gerardi de Sabloncta Creinoti ensis super multis questionibus naturalibus, ac annorum [p. 278 modifica]278 LIBRO Mundi revolutionibus; e contien le risposte che Gherardo rendeva ad alcuni de’ principali signori italiani di quella età , e singolarmente ad Ezzelino da Romano, a Uberto Pelavicino, a Buoso da Doara, i quali consultavano su ciò che far dovessero nelle loro imprese. Una, a cagion d’esempio, delle interrogazioni così comincia: Quaesivit illustris Marchio Pelivicinus super facere amicitiam cum Martino de Turre. Il che ci mostra che Gherardo era tenuto in concetto di uno de’ più valorosi astrologi che fossero al mondo. xxn. Fu in Bologna un cotale Bartolommeo, di cui non si hanno più certe notizie. Solo di lui ci è rimasto un trattato della Sfera scritto l’anno 1292, di cui conservasi qualche codice mss., e in cui egli ancora si mostra seguace superstizioso dell’astrologia giudiciaria , di cui tratta assai lungamente. Di esso e di un certo Guizzardo, di cui pur si ha qualche libro di geometria, veggasi l’erudita Storia de’ Professori dell’Università di Bologna (t. 1, pars 1, p. 494)• hi questa città sembra che le astrologiche imposture ottenesser gran fede, poichè nella Storia medesima si reca un decreto di quella comunità, con cui a un cotal Giovanni di Luna astrologo e professore di fisica, o sia di medicina, si assegna un’annual donazione di grano in ricompensa dei servigi prestati al pubblico. Anno MCCCIII. Item providerunt, quod Ponterii Pontis Idicis Reni teneantur omni anno in festo S. Marie Augusti mittere Mag. Joanni de Luna Astrologo et artis Fisice professori VI corbas frumenti...et hoc cum dictus Mag. [p. 279 modifica]secondo 271) Joannes in factis Comun. Bonon. semper vigil fuerit, ec. (ib.). E quando nel quinto tomo di questa Storia dovrem ragionare del celebre Cecco d"Ascoli, vedremo ch’egli fu scelto ancor giovane a professore d’astrologia in Bologna. Nè minore era in ciò la superstizione de’ Padovani, perciocchè, come afferma il ch. Facciolati De Gymn. petav. syntag. 5, p. l57), negli Statuti di quella università, parlandosi dell’astrologo, si dice: quem tamquam necessarissimum haberi omnino volumus. Ma degli astrologi sia omai detto abbastanza; e torniamo a coloro che in più utili cose occuparono il tempo e l’ingegno. XXllI. Ebbe il secolo XIII uno scrittore di Ottica, che parve allora uomo in questo genere prodigioso, cioè Vitellione, della cui opera stampata in Norimberga nel 1551 veggasi il giudizio del Montucla (Hist. des Mathem. t.1,p. 4?. 1). Egli non fu di patria italiano, perciocchè ei si chiama nella dedica dell’opera stessa a F. Guglielmo da Morbecha filius Thuringorum et Polonorum. Ma io sospetto ch’ei facesse i suoi studi in Italia. Certo egli accenna più volte di avervi fatto soggiorno: quales aquas , dic’egli (Optica. l. 10, n. 42), in loco subterraneo in concavitate montis, qui est inter civitates Paduam et Vicentiam, qui locus dicitur Cubalus, nos vidimus, ec.; e altrove (ib. n. 57): Invenimus et nos diebus aestivis circa horam vespertinam vel modicum ante circa Viterbium in quodam praecipitio apud balneum, quod dicitur Scopuli, ec. (a). (a) 11 vig. ah. Anrlres afferma (Dell’Origine e Progr. [p. 280 modifica]280 Lumo XXIV. L1 iuvcnzion delle cose die giovino a conoscer meglio, o a perfezionar la natura, ha sempre ottenuta l’immortalità del nome a chi ha potuto giugnen i felicemente. Una ne ebbe in questo secolo l’Italia, la quale, benchè dapprima non sembrasse opportuna che a recare all’uomo un passeggero vantaggio, è stata però col volger degli anni l’origine delle più belle scoperte che nella fisica si sian fatte, e si vadan facendo tuttora. Parlo dell’invenzion degli occhiali. Ella è cosa strana a riflettere che siasi tardato sì lungo tempo a immaginarla. Gli antichi conoscevano ed usavano il vetro, e il lavoravano in diverse maniere, come abbiamo in Plinio il vecchio (Hist. nat. l. 5, c. 19; L 26, c. 26; l. 37, c. 7, ec. ec.). Essi avean trovato che una sfera di vetro, ovver di cristallo, ripiena d’acqua e posta rimpetto al sole raccoglieva e trasmetteva i raggi per modo, che con ciò solo si ardevano e le vesti e gli stessi cadaveri (ib. l. 36, c. 26; l. 37, c. 2). Essi aveano specchi che ingrandivano, sformavano, capovolgevano stranamente gli oggetti (Seneca Quaest. nat. l. 1, c. 5, 6), e delle suddette sfere di ve-, tro ripiene d’acqua usavano ad ingrossare e a render leggibili le lettere più minute (ib.). Or è egli possibile che avendo tai cognizioni, non andasser più oltre? E nondimeno è certissimo che nelle loro opere non abbiamo alcun indicio di occhiali, di telescopii, o di altri somiglianti il’ogni Lelter. l. 1 , p. io3) che Vitellione altro non fece che ridurre a maggior brevità e a miglior ordine il trattato dell’arabo Alhezen , il che pure era già stato osservutu dal Montitela (Ilist. des Maltiéra. I. 1 , p. \ ). [p. 281 modifica]SECONDO 28l strumenti atti ad accrescere e a stender la vista. Alcuni hanno preteso di aver trovato un passo di Plauto, che parli degli occhiali; ma essi non hanno mai potuto mostrare in qual codice, o in qual edizione fosse il verso da essi allegato. Alcuni altri passi di autori antichi, che son sembrati a taluno doversi intendere degli occhiali, quando si esaminan meglio, si conosce ad evidenza che hanno tutt1 altro senso. Io non voglio fermarmi a disputare di ciò, di che moltissimi autori hanno già scritto diffusamente. Due soli ne accenno che si potran consultare da chi brami esaminar meglio questa questione; il Montucla (Hist. des Mathém. t. 1, p. 429> ec.), e il ch. sig. Domenico Maria Manni (Tratt. degli occhiali da naso, Fior. 1738); i quali più altri autori allegano che di ciò hanno trattalo. XXV. Non furon dunque agli antichi noti gli occhiali, e non se ne trova menzione innanzi al XIII secolo. Da alcuni n’ è stato creduto inventore Ruggiero Bacone inglese dell1 Ordine de’ Minori, uomo di sì acuto e penetrante ingegno, che in altri tempi avrebbe gareggiato co’ più profondi filosofi e co’ più celebri matematici. Ma oltre il Montucla (l. cit.), anche f inglese Smith (Traile d Opl. trad. par le P. Pezenas t. 1, p. 57) nega a Bacone la gloria di questa scoperta: e il prova chiaramente col solo arrecare un passo dello stesso Bacone, in cui volendo insegnare in qual modo si possano ingrandire le lettere per leggerle più facilmente, propone un segmento di sfera di vetro, o di cristallo, posto sulle lettere stesse, che è in somma a un di presso ciò che abbiam veduto XXV. Essa tippartiefte »•gli uII imi anni di I secolo XIM. [p. 282 modifica]282 unno essersi usato ancor dagli antichi. Quindi il Montucla confessa che la prima menzione di occhiali trovasi in Italia verso la fine del secolo XIII. Francesco Redi fu il primo che ne scoprisse l’antichità in due sue lettere, scritte la prima a Carlo Dati, la seconda a Paolo Falconieri, le quali di nuovo sono state date alla luce dal Manni (l. cit p. 53). In una Cronaca del convento di S. Caterina in Pisa dell’Ordine de’ Predicatori, scritta successivamente da’ varii autori contemporanei, ei lesse l’elogio di F. Alessandro Spina morto l’anno 1313 secondo lo stil pisano, che corrisponde all’anno 1312 di stil romano; e in quest’elogio, a mostrare quanto ingegnoso egli fosse, si dice che avendo udito che un tale avea inventati gli occhiali, e non potendo da lui ottenere che gliene scoprisse il modo, da se medesimo il ritrovò, e il rendè pubblico: Frater Alexander de Spina vir modestus et bonus, quecumque vidit aut audivit facta, scivit et facere. Ocularia ab aliquo primo facta, et comunicare nolente, ipse fecit et comunicavit, corde ylari et volente. Qui abbiam dunque non il primo inventor degli occhiali, come da alcuni meno esattamente si è detto, ma un fabbricato!’ di essi senza maestro e modello; e abbiam insiem la notizia del tempo a cui cominciarono a lavorarsi, perciocchè F. Alessandro li lavorò poichè ebbe udito che un cotale avea trovato il modo di lavorarli. Ciò dunque dovette accadere o al fine del XIII secolo , o al cominciare del seguente. In fatti il Redi medesimo arreca un passo di un trattato del Governo della Famiglia scritto l’anno 1299 da [p. 283 modifica]SECONDO a83 Sandro di Pippozzo di Sandro fiorentino, in cui nel proemio così dice: Mi trovo cosie gravoso di anni, che non arei vallenza di leggiere e scrivere senza vetri appellati okiali truovati novellamente per comeditae delli poveri veki, quando afflebolano del vedere. Queste parole più determinatamente ci mostrano che innanzi al fine del XIII secolo erano stati gli occhiali trovati novellamente. Meglio ancor si determina il tempo di questa invenzione da un passo di una predica del B. Giordano da Rivalta domenicano da lui detta in Firenze a’ 23 di febbraio l’anno 1305, allegato dallo stesso Redi; perciocchè in esso v’ha queste parole: Non è ancora venti anni, che si trovò l’arte di fare gli occhiali che fanno veder bene, che è una delle migliori arti e delle più necessarie che il mondo abbia. Anzi in un codice di questa predica, citato dal Manni (ib. p. 7 3), si aggiunge la seguente no• tizia: E disse il lettore: io vidi colui che prima la trovò e fece, e favellai gli. Ed ecco fissato ad un di presso il tempo della invenzione degli occhiali, cioè circa 15 anni innanzi al compimento del secolo xm. XXVI. Ma tutti i passi allegati ci scuoprono quando si cominciassero ad usare gli occhiali, non ci scuoprono chi ne fosse il primo ritrovatore. La gloria di averlo prima di ogni altro osservato si dee a Leopoldo del Migliore antiquario fiorentino, il quale attesta di avere in un antico sepoltuario letta la seguente iscrizione che prima era nella chiesa di S. Maria Maggiore di Firenze: Quì diace Salvino (d’Armato degli Armati di Fir. Inventor degli Occhiali. Dio gli [p. 284 modifica]284 LIDRO perdoni la peccata. Anno Domini MCCCXVII. Intorno alla qual iscrizione veggasi il soprallodato Manni (ib. p. 64). Testimonio miglior di questo sembra che non possa recarsi a render certissimo che Salvino degli Armati fu l’inventor degli occhiali. L’iscrizione non può essere più conforme alle parole del b. Giordano. Un uomo morto nel 1317 potea facilmente aver trovati gli occhiali verso l’anno 1285. Poteva perciò il b. Giordano dir giustamente che questa invenzione era moderna, di soli venti anni incirca; chi raccolse dalla bocca dello stesso Beato la predica, e la distinse in iscritto, poteva facilmente aver conosciuto l’inventore, e aver con lui favellato. E pare perciò, che sia bastevolmente assicurato all’Italia il vanto di un sì utile ritrovamento. XXVTI. Più incerta, e quanto al tempo e quanto all’autore, è un’altra invenzione di non minore vantaggio in riguardo alla navigazione, cioè della bussola nautica ossia dell’ago calamitato. Io ne parlerò a questo luogo, perchè a questo secolo se ne fissa da molti il ritrovamento; ed è certo che a questo secolo ella era già in uso. Ma è cosa strana a vedere quanto su questo punto sien tra lor discordanti gli autori. Accenniamo con quella maggior brevità, che in una sì intralciata quistione è possibile, le diverse loro opinioni, e ricerchiamo se alcuna ve n’abbia che si possa dire probabile sopra l’altra. Non mancano alcuni che affermano essersi conosciuta ancor dagli antichi quella proprietà della calamita, per cui ella volgesi al polo settentrionale. La qual opinione, [p. 285 modifica]SECONDÒ 205 che pareva ornai del tutto dimenticala, è stata non ha molti anni proposta di nuovo e difesa con un eludila dissertazione dal P. D. Abondio Collina camaldolese (Comm. Acad. Bon. t. 2, pars 3, p. 373), con cui combatte la contraria opinione del dottissimo P. abate Trombelli da lui con altra dissertazione sostenuta (ib.p. 333). A me sembra però che non faccia bisogno di lungo esame a conoscere quale fra queste due opinioni sia la più verisimile. Le navigazioni degli antichi non che provarci ch’essi conoscessero la direzion polare della calamita, ci provano anzi il contrario; perciocchè noi veggiamo che quando loro mancavano il sole e le stelle, non sapevan più ove volger la prora: Ipse ilìein uoctemque neg.it discernere coelo , Nec meminisse viae media Palinurus in unda. Tres adeo incertos coeca caligine soles Erramus pelago, totidem sine sidere noctes. Virg. Æn. l. 3, v. 201, Quelle parole: cape vorsoriam, di Plauto (Mercat. act. 5, sc. 2 , e. 3|; Trini lima. act. 4, sc. 3, v. 20), che si allegano a provar noto agli antichi l’ago calamitato, è così chiaro da tutto il contesto doversi intendere della fune la qual regge le vele, che io non credo che da alcuno si possano più arrecare in difesa della controversa opinione. Ma a che recare argomenti? il silenzio solo di Plinio su questo punto parmi che equivalga quasi ad una dimostrazione. Un uomo che avea letto quanto potea leggersi di autori antichi e moderni, un uomo che avea da essi raccolto quanto aveano essi osservato, un uomo a cui nulla sfugge, e nulla singolarmente di [p. 286 modifica]XXV1IL L? invenzione di em.i n*»n si dee a’ Cinesi. ¿86 nono ciò che vi ha di più maraviglioso nella natura, un uomo, per ultimo, che ci parla della calamita più volte, e descrive leggiadramente (l. 36, c. 16) l’attrarre che essa fa il ferro, ce ri*avrebb’cgli taciuta quest’altra sì ammirabile proprietà, se ne avesse avuta notizia, se ne avesse trovato indicio presso qualche autore? Aggiungasi il silenzio di tutti gli storici e di tutti i poeti mentre ci parlano della navigazione, de’ filosofi tutti e di tutti i naturalisti antichi mentre ci parlano della calamita (giacchè non v’ha chi non sappia che il passo d’Aristotele, ove se ne fa menzione, è tratto da un’opera che certamente gli è supposta, di che diremo tra poco); e poscia si giudichi se sia probabile che di cosa cotanto maravigliosa avesser taciuto gli antichi, se l’avessero conosciuta. Quindi a ragione l’erudito M. Dutens, che per altro si mostra sempre inclinato a favor degli antichi, per ciò che a questo punto appartiene, confessa (Recherches sur l’Origine (des Découvertes, ec. t. 2, p. 34) che non vi è ne’ loro libri alcun passo su cui si possa stabilir chiaramente questa opinione. XXV111. ¡Sulla più probabile è, a mio parere, l’opinione di altri, i quali pensano che l’invenzione della bussola nautica si debba a’ Cinesi, e che da essi sia venuta all’Italia per opera di Marco Polo; opinione a cui più che alle altre mostrasi favorevole il P. abate Trombelli nella citata sua eruditissima dissertazione; benchè egli non al Polo, ma a qualche altro veneto mercatante più antico attribuisca il trasporto della bussola dalla Cina in Italia. E certo, quanto al [p. 287 modifica]SECONDO 287 Polo, non può in modo alcun sostenersi eli’ ci fosse il primo a recarla a’ nostri paesi. Egli tornò da’ suoi viaggi non già l’anno 1260, come concordemente asseriscono col copiarsi l’un l’altro i sostenitori ed anche gl’impugnatori di questa opinione, ma l’anno 1295, come abbiam chiaramente mostrato poc’anzi (l. 1, c. 5, n. 7), Or da ciò che dovrem dire fra poco, si renderà manifesto che la bussola nautica era assai prima nota in Europa. Che poi i Cinesi abbiano usato fin da’ tempi più antichi, ed usino ancora al presente dell’ago calamitato, non si rivoca in dubbio da alcuno di que’ che trattano di tal quistione. E nondimeno ella è cosa non solo da dubitarne, ma che si può ancora negare con sicurezza. Gli autori della Storia universale osservano (Hist. univ. t. 20, p. 141)7 e ne recano in testimonio una lettera del P. d’Entrecolles missionario alla Cina e testimonio di veduta, che i Cinesi hanno bensì la bussola, ma che il lor ago non è altrimenti calamitato, ma tinto invece con un cotal loro empi astro, di cui si annoverano gl’ingredienti, il quale pure comunica al ferro la virtù di volgersi a Settentrione. Or se i Cinesi non usano della calamita, come poterono da essi apprender quest’uso gli Europei? Questa opinione adunque deesi rigettare ugualmente, nè ha fondamento alcuno su cui appoggiarsi. XXJX. Or poichè nè agli antichi fu nota questa proprietà della calamita, nè l’uso della bussola nautica ci è venuto dai Cinesi, rimane a dire che sia questa invenzione de’ bassi secoli, e de’ tempi a noi più vicini. Ma quando [p. 288 modifica]288 libro e come? Esaminiamo dapprima in qual tempo siasi cominciato a farne menzione. I Francesi ci mettono innanzi alcuni versi di certi loro antichi poeti, ne’ quali essa vien nominata. Ma io li prego ad accordarsi prima tra loro intorno alla età in cui questi poeti vivessero, e intorno a’ loro nomi 5 perciocché veggo gli uni dagli altri discordi assai nel ragionare di essi. Il Montucla arreca (Hist des Mathém. t 1, p. 436) alcuni versi francesi di Guyot di Provins, il quale, dic’egli, visse nel xii secolo; perciocchè l’anno 1181 era in Magonza alla corte di Federigo I. In questi versi si appella la calamita col nome ili mari netta) e chiaramente vi si esprime la proprietà di rivolgersi al polo. Poscia soggiugne che questi versi medesimi da altri si attribuiscono ad Ugo di Bercy monaco al tempo del re S. Luigi, cioè circa la metà del XIII secolo. Gli autori dell’Enciclopedia citano gli stessi versi, gli attribuiscono a Guyot di Provins, autore, secondo essi, del romanzo della Rosa, e affermano essi pure (art. Boussole) eli’ ci visse a’ tempi di Federigo I. Quasi le stesse parole sono state ripetute dal Sabbatier (Dict, des Aut. class. t 7, p. 314). Il Formey ha pubblicata una lettera di un anonimo di Ginevra (Nouv. Bibl. german. t. 1 \ , j). 435), in cui riprende d’errore gli Enciclopedisti, perchè abbian detto que’ versi leggersi nel romanzo della Rosa; ed afferma che essi si trovano in un altro più antico romanzo attribuito per errore allo stesso Guyot; e che nel romanzo della Rosa si accenna bensì l’ago calamitato, ma non col nome di marmetta) e che [p. 289 modifica]SECONDO 28() questo nome è usato da Ugo di Bercy, che vivea al tempo di S. Luigi. Il le Gendre citando la Storia della Poesia francese dell’ab. Massieu, ch’io non ho veduta, attribuisce i suddetti versi a Ugo di Bercy (Traitè de l’Opinion, t. 7, p. 406, ed. de Paris 1 "58)) ma aggiugne lui essere lo stesso che Guyot di Provins, e lui esser vissuto al principio del XII secolo sotto Filippo Augusto, ed avere composta un’opera in versi intitolata la Bible Guyot. « Qui non finiscono i diversi pareri su questi versi. M. le Grand nella sua raccolta di Fabliaux et Contes du XII et du XIII Siecle riporta, dic’egli, assai più esattamente questi versi medesimi, e ci assicura (l 2, p. 26, ec.) ch’essi sono non già nel romanzo della Rosa, ma in una satira intitolata Bible del già nominato Guyot de Provins, che visse, secondo lui, verso la fine del XII secolo. In essi, secondo la lezione di M. le Grand, la calamita dicesi non marinette, ma mariniere; e ci si descrive il modo con cui allora si usava, cioè che l’ago calamitato ponevasi sopra una paglia, e questa mettevasi a galleggiare sull’acqua, sicchè l’ago potesse facilmente volgersi al polo ». In tanta discordanza di sentimenti, che possiamo far noi, se non aspettare che gli eruditi Francesi stabiliscano finalmente di chi sian que’ versi, e a qual tempo siano stati composti? Allora potrem giudicare qual argomento se ne possa dedurre per l’uso della bussola nautica. XXX. Io lascio alcuni altri scrittori che da alcuni si accennano senza recarne le precise parole, come Apollinare Sidonio, e la Geografia Tiraboschi, Voi. IV. 19 [p. 290 modifica]390 LIBRO della Nubia, citati dal P. Fournier (Hydrogr. L 11, c. 9), e un cotal Pietro Pellegrino citato dal P. Cabeo (Philos. magnetica, l. 1, c. 6), di cui però dice che il credea vissuto sol due o tre secoli innanzi, cioè nel xv, o xvi secolo, e altri cotali autori o più incerti di età, o più oscuri di nome, o di cui non abbastanza si prova che abbian parlato dell’ago calamitato. Le più antiche certe testimonianze che noi ne abbiamo, sono del secolo XIII. E il più antico di tutti, ch’io sappia, è il cardinale Jacopo di Vitry, che finì di vivere l’anno 1^44 Dudia de Script. eccL t. 3, p. 46)- Ecco com’ei ne ragiona: A da mas in India reperitur.... Ferrum occulta quadam natura ad se trahit. Acus ferrea postquam adamantem contigerit, ad stellam septentrionalem.... semper convertitur, unde valde necessarius est navigantibus in mari (De Hist. Hierosol. c. 89). Si direbbe che il cardinale di Vitry non fosse troppo bene versato nella storia naturale, poichè attribuisce al diamante ciò che è proprio della calamita. Ma noi vedremo fra poco in un passo di’ Brunetto Latini, che a questi tempi davasi alla calamita il nome ancora di diamante; anzi da questo passo e da un altro che or ora riferiremo, di Vincenzo di Beauvais , raccogliamo che credevasi che la calamita fosse una specie di diamante, perciocchè amendue parlano prima di quel genere di diamante che noi ancora chiamiam con tal nome, e poscia dell’altro che noi diciam calamita. Ma ancorchè il cardinale di Vitry avesse errato, questo errore non toglie che il passo soprallegato non ci faccia [p. 291 modifica]SECONDO Ui)l veder chiaramente che l’ago calamitalo era a’ suoi tempi notissimo, e che di esso già usavano i nocchieri. Ed è ad osservare ch’ei non parla di ciò come di recente scoperta, ma come di cosa cui niuno ignorava, e che era stata perciò già da molto tempo addietro avvertita. A questo cardinale succedono due celebri Domenicani, vissuti circa la metà di questo secolo stesso, uno tedesco, cioè Alberto Magno, l’altro francese, cioè Vincenzo di Beauvais. Il primo in più luoghi del suo trattato de’ Minerali, che si posson vedere citati dal P. ab. Trombelli (l. dtp. 334, 352), parla della calamita, e in mezzo a molte favole che ne racconta, mentova ancora la proprietà di volgersi al polo; e, ciò che è più, reca un passo del libro che dice scritto da Aristotele intorno alle pietre, che ha così: Angulus magnetis cujusdam est, cujus vittus convertendi ferrum ad Zorum (hoc est Septentrionem); et hoc utuntur nautae. Angulus vero alius magnetis illi oppositus trahit ad Aphron (idest polum meridionalem); et si approximes ferrum ad Zorum, et si ad opposi turn angulurn ap/>roxirnes, convertìt se directe ad Aphron. Parole, le quali benchè non intendasene chiaramente il senso, pur abbastanza chiaramente ci mostrano che conoscevasi allora da tutti (questa proprietà della calamita. Io so bene che l’opera di questo filosofo citata da Alberto Magno non trovasi nè manoscritta in alcun codice, nè in alcuna edizione stampata. Anzi il P. abate Trombelli crede anche (ib. p. 351) che il libro de’ Minerali sia supposto ad Alberto Magno, e ne reca per fondamento le cose ridicolose [p. 292 modifica]292 LIBRO d’astrologia e di magia che vi sono sparse per entro. I PP. Quetif ed Echard parlando di quest’opera (Script. Ord. Praed. t. 1, p. 172) non fanno alcun cenno di dubitare eli1 ella non sia legittima; ma non isciolgon nemmeno i dubbii che contro di essa si posson muovere, e solo dicono che Alberto in essa afferma di aver colla sua sperienza provata l’utilità dell’alchimia. Ma o ella sia questa, o nol sia, opera d’Alberto Magno, è certamente opera di antico scrittore, perciocchè i suddetti autori ne allegano un codice ms. dell’anno 1303. Dunque ad Alberto Magno, o a chi ne usurpò il nome, fin dal secolo XIII era nota questa virtù della calamita; anzi credevasi allora che da Aristotele ancora fusse stata avvertita; tanto eran lungi dal crederla scoperta ed invenzione moderna. Vincenzo di Beauvais in più luoghi parla della calamita, che anche egli dice essere una specie di diamante. Io ne recherò un passo che veggo comunemente non osservato da chi ha scritto su questo argomento, e che pure è il più pregevole, perchè ci descrive in qual maniera apparecchiavasi e usavasi l’ago calamitato: Aliud (adamantis genus) , dic’egli (Specul. doctrin. l. 17, c. 134), in Arabia reperitur... stellam maris indicem itineris inter obscuras nebulas per diem vel noctem nautis prodit. Cum enim vias suas ad portum dirigere nesciunt, cacumen acus ad adamantem lapidem fricatum per transversum in festuca parva infingunt, et vasi pleno aquae immittunt; tunc adamantem vasi circumducunt, et mox secundum motum ejus sequitur in circuito cacumen acus. Rotatimi [p. 293 modifica]SECONDO 293 ergo perirtele ci tins per circuitum lapidem subito retrahunt, moxque cacumen acus avulso ductore contra stellam aciem dirigit!, statimque subsistit, nec per punctum movetur, et nautae secundum demonstrationem factam ad portum vias dirigunt. Così egli. XXXI. Finalmente Brunetto Latini, il quale, come altrove vedremo, morì l’anno 1294, parla egli pure della bussola nautica come di cosa da niuno ignorata. Ognun può vederne il passo, qual l’abbiamo alle stampe nella traduzione italiana del suo Tesoro (l. 2, c. 49)- h> per più certa pruova ne recherò le parole dell’inedito originale francese antico, in cui quell’opera da Brunetto fu scritta, che sono state pubblicate da M. Falconnet (Hist. de l’Acad. des Inscr. t. 7, p. 299): Les gens, qui sont en Europe , najent ils à tramontaine devers Septentrion, et. les autres, najent à celle de Midy; et que ce soit la verité, prenés une pierre d’jamant, ce est calamite, vous trouverés, qu’elle a deux faces , l’une gist vers une tramontaine, et l’autre, vers l’autre; et chacune des faces allie l’aiguille vers celle tramontaine, vers qui cette face gisoit; et pour ce seroient les mariniers deceus, se ils ne preissent garde. Brunetto non parla qui in linguaggio troppo filosofico. Ma pur qui ancora veggiamo un’espressa menzione dell’ago calamitato, che non ci può lasciare alcun dubbio che fin d’allora non fosse esso a tutto il mondo notissimo, e da’ marinari usato generalmente. E questo insieme con gli altri passi poc" anzi recati ci convincono ad evidenza che nel XIII secolo non era più cosa nuova che la calamita si volgesse a settentrione. [p. 294 modifica]XXXIL Non si |>i »»«*• va elio essa fosse inventione di Flavio Gioia di Amalfi. I 294 muro XXXII. Da tutto il detto fin qui si rende manifesto abbastanza che se quel Flavio Gioia di Amalfi, a cui da molti si attribuisce l’invenzion della bussola, visse, come comunemente si scrive, verso il 1300, a lui non si può certamente conceder tal gloria. L’avvocato Gregorio Grimaldi napoletano ha pubblicata una assai erudita dissertazione (Saggidella dell’Accad. di Cortona t. 3, p. 195) in cui si è sforzato di comprovare questa opinione. Ma collo stabilire che fa egli stesso la età del Gioia al principio del xiv secolo, sembra distruggerla interamente; e parmi strano eh1 ni non abbia avvertito alle tante pruove che abbiamo della notizia che vi era dell’ago calamitalo fin dal principio del secolo XIII, e che solo alcune pochissime, e quelle appunto che sono men certe, ne abbia toccato sfuggitamente. A me sembra che al suo intento sarebbe tornato meglio il provare che il Gioia visse assai prima del 1300. Nel che però sarebbe stato difficile il trovar pruove e monumenti valevoli a confermarlo; perciocchè, a parlare sinceramente, tutto ciò che ci vien raccontato di Flavio Gioia, è così incerto ed appoggiato a sì deboli fondamenti, che mi sembra impossibile lo stabilir cosa alcuna con qualche probabilità. L’avvocato Grimaldi cita non pochi autori che gli danno la lode di questa scoperta (l. cit. p. 215, ec.): molti altri ne cita il P. abate Trombelli (l. cit. p. 367), molti il Gimma (Idea della Storia lelter. cf Ital. t. 2, c. 41), e molti potrei io pure arrecarne. Ma essi son tutti scrittori del secolo xv, e di esso ancora innoltrato. Or come ci posson essi [p. 295 modifica]secondo agS assicurare abbastanza chi fosse l’inventor della bussola eli1 era già in uso più di due secoli innanzi? Gli scrittori del XIII secolo da noi allegati sembra che non sapessero a*clii si dovesse un tale ritrovamento. Certo niun di essi cel nomina. L’avran dunque saputo gli scrittori del secolo xv? Ma almeno qual pruova ci adducon essi della loro opinione? Nuli1 altra fuorché la loro autorità. Io la rispetto; ma essa non basta a persuadermi una cosa di tempo tanto anteriore. Essi sono in gran numero. Ma chi non sa che grandissimo è sempre stato il numero de’ copiatori? e che spesso cento scrittori equivalgono a un solo, perchè da un solo tutti han tratto lo stesso racconto senza chiamarlo ad esame? Qualche incerta tradizion popolare potè essere il fondamento di questa opinione; e a que’ tempi ciò poteva sembrar bastante a spacciarla per certa. Ma l’esperienza Ci ha convinti che cotali tradizioni popolari molte volte son false, e fondate su qualche equivoco. Convien dunque vedere se questa abbia valide pruove su cui sostenersi. XXXIII. Due sole io ne trovo che potrebbon parere a lei favorevoli. Una è un bel passo di Guglielmo da Puglia scrittor del secolo XII, il quale parlando di Amalfi ne fa questo magnifico elogio; Urbs haec dives opum , populoque referti videlui- i Nulla magis locuples, argento, vest bus , auro * T’nrtihus itieumeris, ac plurimas orbe moratur inoratiliNauta maris coelique vias numerare peritus; Huc et Alexandri diversa feruntur ab Urbe Regi et Antiochi: haec freta plurima transit. Hic Arabes , Indi, Siculi Doscunlur ut Afri, [p. 296 modifica]29G libro Haec gens est totum prope nobilitata per orbem, Et mercanda ferens, et amans mereata referre. Script. rer. ital. vol. 5, p 267. Questo sì vasto e sì universale commercio degli Amalfitani, queste loro sì lunghe e sì ardite navigazioni, e singolarmente questa perizia de’ lor nocchieri nel misurare le vie del mare e del cielo, sembrano indicarci che fosse ad essi nota la bussola, senza cui non pare possibile ch’essi osassero tanto. Ciò non ostante, io credo che non sia questa una troppo sicura prova. Anche di alcuni popoli antichi, come de’ Tirii, de’ Sidonii, de’ Fenicii e di altri, sappiamo che intrapresero lunghe navigazioni, e di essi ancora si sarebbon potute usare l’espressioni medesime che veggiamo usarsi riguardo agli Amalfitani. E nondimeno di essi sappiamo che non conobber la bussola. Se dunque le navigazioni di quei popoli antichi non bastano a provarci ch’essi facesser uso di questo strumento, perchè ci basteranno quelle de’ cittadini di Amalfi a provare che ne usassero essi? L’altro argomento è quello che arrecasi dal Brenemanno (Diss. de Rep. Amalph. n. 22 ad calcem Hist Pandect.), e da altri, cioè che la città e forse tutto il ducato di Amalfi ha per suo stemma la bussola. E certo se si potesse provare che gli Amalfitani avessero questo stemma fin da’ tempi più antichi, sarebbe questo un non leggero argomento a favor della lor tradizione. Ma come si prova ciò? Chi sa dirci quando abbiano essi cominciato ad averlo? E se esso fosse posteriore a’ primi scrittori del secolo xv, che concederono loro il vanto di una tale scoperta, [p. 297 modifica]SECONDO 297 non perderebbe questo argomento ogni sua forza? Io dunque non rigetto per falsa la tradizione di que’ di Amalfi; anzi dico ch’ella ha in suo favore qualche non improbabile congettura. Ma credo che troppo ancora siam lungi dal poterla abbracciare qual certa. XXXIV. Ma se non è abbastanza fondata l’opinione degli Amalfitani, quella delle tre nazioni che si arrogano un tal vanto, è molto più rovinosa. A’ Francesi sembra in lor favore assai forte l’argomento tratto dal giglio, di cui comunemente si suole ornare la bussola (Hist littér. ile la France t. 9, p. 99; Encyclop. art. Boussole). Ma dopo aver dimostrata non troppo valida la congettura tratta dallo stemma di que’ d’Amalfi, panni di poter con ragione affermar lo stesso di quella tratta dal giglio. Possono forse i Francesi mostrarci quando siasi cominciato ad aggiugnere alla bussola un tale ornamento? E se nol possono, come certamente niun finora lo ha potuto, come possono essi provare che esso abbia preso l’origine dal primo ritrovamento dell’ago calamitato? Non potè forse aver origine da qualche nuova forma di bussola da’ Francesi ideata, e ricevuta poscia dagli altri? I Tedeschi poi e gl’inglesi che per provare nata tra essi questa invenzione, ricorrono alle etimologie (V. Encyclop. et Montucla l. cit.), si appoggiano a una troppo fragile canna, perchè dobbiam trattenerci a combattere con essi. E perciò dal disputato finora non altro possiam raccogliere, se non che, quanto più pregevole e quanto più vantaggiosa è stata questa scoperta, tanto più è incerto a chi dobbiamo esserne debitori. [p. 298 modifica]398 UBUO XXXV. Mi sia lecito finalmente il proporre ciò che a me sembra meno improbabile su questo argomento. Abbiam veduto citarsi da Alberto Magno un libro scritto da Aristotele intorno le pietre, in cui parla del volgersi che fa al polo la calamita. Che questo filosofo scrivesse un libro intitolato in greco nspì rr,; h’Go’ j, ossia de Lapide, affermasi da Diogene Laerzio (Vit. Philosophor. l. 5, n. 26), e dall1 anonimo antico autor greco di una Vita d’Aristotele pubblicata dal Menagio (in not. ad Diog. Laert, t. 2, p. 202, ed. Amstel. 1692). Quest’opera di Aristotele nè in greco nè in latino noi or non l’abbiamo; ma il P. Labbe cita un codice ms. di un’opera di Aristotele de Gemmis tradotta in arabico (Bibl. MSS. p. 255). Essa forse è la stessa che l’opera de Lapide mentovata poc’anzi. Ma ancorchè fossero esse opere diverse, è assai probabile che quella che Aristotele scrisse in greco intorno alle pietre, fosse recata dagli Arabi nella lor lingua, come essi fecero delle altre opere di questo illustre filosofo. E perchè nel secolo XIII erano assai frequenti le traduzioni che di esse facevansi dall’arabico nel latino, è assai probabile ancora che l’opera di Aristotele citata da Alberto Magno fosse venuta dagli Arabi. Io credo certo che Aristotele non parlasse punto di questa proprietà della calamita, poichè abbiam dimostrato che agli antichi essa fu sconosciuta. Ma è assai verisimile che gli Arabi ve l’aggiugnessero. Or non potremo noi credere eli’essi fossero stati i primi a scoprirla? I codici mss. delle lor opere che si conservano in molle biblioteche, e singolarmente [p. 299 modifica]SECONDO 2()9 in quella dell* Escurial, de’ quali abbiamo avuto di fresco un ampio Catalogo scritto con esattezza e con erudizione non ordinaria, e stampato con regia magnificenza; questi codici, dico, ci fan conoscere con quanto ardore si coltivassero da quella nazione ne’ bassi secoli gli studi d’ogni maniera; e benchè molte cose in essi s’incontrino superstiziose e puerili, vi si veggono ancor nondimeno cognizioni e scoperte pregevoli assai. Quindi mi sembra che possiamo non senza ragione sospettare ch’essi giungessero prima d’ogni altra nazione a scoprire la proprietà dell’ago calamitato. Le lunghe navigazioni ch’essi intraprendevano spesso, e a cui davano occasione gli ampj dominii che aveano in ogni parte, poterono facilmente condurli a questa scoperta. Le voci Zoron e Aphron, che si adducono da Alberto Magno, come usate da Aristotele, non son certamente nè latine nè greche } dunque nè latino nè greco era il libro da cui erano tratte (*). In qual altra lingua poteva dunque essere scritto, se non nell’arabica? poichè queste tre sole erano allora le lingue in cui i libri filosofici si potean leggere. Or se esse son voci arabiche, o almen dagli Arabi usate, non è egli questo indicio che dagli Arabi appunto fossero state fatte le osservazioni che a quelle voci dieder l’origine? Queste non sono che (*) Ilo detto che la voce Àphroti non è parola greca, e ho voluto dire in quel senso «li cui qui si ragiona, cioè polo meridionale. Perciò io non credo che alcuno possa qui oppormi la parola Atpoìt che significa spuma, e che nulla ha di comune con ciò di die nel detto luogo si tratta. [p. 300 modifica]300 LIBRO semplici congetture; ma nondimeno il riflettere che niuno fra gli scrittori delle altre nazioni d’Europa ci lasciò memoria di questa sì bella scoperta che a’ suoi tempi si fosse fatta; e che essa, poiché già era notissima nel secolo XIII, dovette farsi probabilmente nel x, o nell’xi secolo, quando la filosofia fra noi appena si conosceva di nome, e fra gli Arabi al contrario era assai coltivata (u); queste riflessioni, iodico , aggiunte alle altre che abbiam recate finora, se non rendono certa questa opinione, la rendono almeno, s*io non m’inganno, più delle altre probabile. E forse ancora potè avvenire cbe questa scoperta si facesse dagli Arabi nel regno di Napoli, di cui essi in que’ tempi furono in gran parte signori, che i primi ad usarne nella (a) Degli studi e delle scoperte degli Arabi, e della parte ch’essi ebbero nel risorgimento degli studi in Europa , ha scritto lungamente non meno che eruditamente il ch. sig. ab. Andres , il quale prima di ogni altro ha trattato a fondo di questo argomento , e lo ha esposto nella più chiara luce a cui era possibile il condurlo (DeW Orig. e Progr. d’ogni Letter. t. 1,p. 116, 331). Nè può negarsi, e io stesso l’ho affermato, che quella nazione fosse coltivatrice instancabile di (quasi ogni sorta di letteratura. A me par nondimeno che il valoroso autore siasi talvolta lasciato guidar troppo oltre dal suo amore per gli Arabi. Ma non è di quest’opera il disputarne. Di qualche particolare invenzione ch’ei loro attribuisce , sarà altrove luogo di ragionare. E se io dovrò combatterne l’opinione, il farò con quel rispetto che a un uom sì dotto è dovuto, e non imiterò i trasporti di un troppo focoso scrittore che su questo argomento medesimo lo ha con tale asprezza impugnato, che, lungi dal nuocere, è anzi favorevole alla causa del suo avversario. [p. 301 modifica]SECONDO 301 navigazione fossero gli Amalfitani, e che perciò ne fossero essi creduti i primi rilrovatori (a). 10 so che questa opinione è stata rigettata come improbabile nella prefazione premessa al primo tomo della Storia generale de’ Viaggi. Ho lette le difficoltà che ad essa si oppongono, e che a me non sembrano di molta forza. Ma come io non iscrivo la storia letteraria degli Arabi, non giova che mi trattenga a farne un diligente esame. Ognun ne senta come meglio gli piace. A me basta aver dimostrato che, se vogliamo esser sinceri, non possiamo vantarci con sicurezza di essere stati i primi autori di tale scoperta (b). (a) Mi sembra non impropabile la maniera con cui 11 sig. Laudi nel Compendio francese della mia Storia si studia ili conciliare la comune opinione, per cui si da al Gioia I’ onore di questa scoperta , co’ monumenti certissimi che ci dimostrano eh’essa era assai più antica (t. i, p. 335). Crede egli dunque che fino a’ tempi del Gioia si usasse dell’ago calamitato nel modo che si descrive dal Bellovacense e da altri , cioè col porre l’ago calamitato sopra una festuca. adagiando poi questa in un vaso d’acqua; e che poscia il Gioia trovasse il modo di formare la bussola, come ora si usa, e che essendo allora il regno di Napoli , di cui era natio, sotto il dominio della casa d’Angiò, egli vi aggiugnesse 1’ornamento del giglio , che tuttor si segue nelle bussole nautiche. (è) L’erudito sig. D. Pietro Napoli Signorelli ha trattato egli pure a lungo di questo argomento (Vicende: della Coltura nelle Due Sicilie, t. 2. p. 287, ec.) , e dopo aver mostrata l’insussistenza delle altre opinioni, e riconosciuta ancora troppo incerta quella che fa lo scopritor della bussola I amalfitano Flavio Gioia , propone alcune difficoltà conti o la mia opinione , le quali però pruovano solamente ciò che ar.cb’io bo confessalo, [p. 302 modifica]303 LIBRO

XXXVL Mentre in tal maniera si richiamavano a luce gli studj fisici e matematici, la

filosofia morale cominciò ella ancora ad avere chi ad essa si rivolgesse, e la illustrasse scrivendo; e ne abbiamo le pruove in più opere di questi tempi, che sono alle stampe, o che conservansi manoscritte. Brunetto Latini, di cui parleremo nel terzo libro, credesi che formasse il compendio dell’Etica d’Aristotele, stampato prima in Lione l’anno 1568, poscia assai più correttamente in Firenze l’anno 1734. Ma il conte Giammaria Mazzucchelli nelle sue note a Filippo Villani (pag. 58, nota 6) e l’abate Mehus (Vita Ambr. camald, p. 157) osservano giustamente che questo compendio non è altro che il sesto libro del Tesoro dallo stesso Latini scritto in francese. In fatti niuno degli antichi scrittori che ragionano del Latini, i passi dei quali sono stati diligentemente raccolti dallo stesso ch. Mehus, fa espressa menzione di tal lavoro. Anche il Tesoro del Latini appartiene in parte alla filosofia morale; ma di esso ragioneremo a luogo più opportuno. Abbiam di .sopra fatta menzione del trattato del Governo della Famiglia scritto l’anno 1299 da Sandro di Pipozzo di Sandro fiorentino, e rammentato dal Redi. I Comenti fatti da S. Tommaso sull’Etica d’Aristotele, le opere da lui e da Egidio Colonna composte sul Reggimento de’ Principi, rlie solo per congettura si può attribuire agli Arabi questa scoperta , e conchiude, come io pui e ho conchiuso, che polo ancora mieli’invenzione esser propria degli Arabi stabiliti nella Puglia. [p. 303 modifica]SECONDO 3o3 la seconda delle quali trovasi recata in lingua italiana fin dall’anno 1288 (ib. p. 159), appartengono a questa medesima classe. Ed altre somiglianti opere potrei qui rammentare, se non temessi di recar noia a chi legge con un’ignuda serie di nomi, e con troppo minute e sterili discussioni. Ristringerommi perciò a un solo che è degno di particolar rimembranza, dico ad Albertano giudice di Brescia. XXXVII. Assai scarse son le notizie che di lui ci hanno lasciate gli antichi scrittori; e l’unico tra essi, presso cui io ne abbia trovata menzione, è Jacopo Malvezzi bresciano scrittore del secolo xv, il quale parlando de’ tempi di Federigo II così ne dice: Per haec tempora Albertanus de Albertanis jurisperitus civis egre gius in hac civitate habebatur, vir praecipuus, sapientia plenus. Hic multa Moralium dogmata ad utilitatem suorum civium ceterorumque legentium quosdam libros componens mirabiliter scripsit (Script. rer. ital. vol. 14, p. 907). Qualche più distinta notizia ne abbiamo al fine del primo de’ tre trattati da lui composti, ove così si legge: Qui è compiuto il libro della forma dell’onesta vita, il quale compilò Albertano Giudice di Brescia della contrada di S. Agata, quando era nella prigione di Messer lo’ imperadore Federigo, nella quale fu messo, quando egli era Capitano di Gavardo, per difendere quel luogo ad utilità dei Comuni di Brescia negli anni di Cristo milledugentotrentotto del mese d’Agosto nella undecima indizione. La stessa cosa si legge narrata in lingua latina in due codici mss, dello stesso [p. 304 modifica]3o4 LIBRO trattato, die si conservano l’uno nella reai biblioteca di Torino (Cat. Bibl. Taurin. t.2,p. 42), l’altro in quella di S. Marco in Venezia (Cod. Bibl. S. Marci, t. 2, p. 80) 3 se non che in questo il castello da Albertano difeso dicesi Gavarallo, e in amendue si aggiugne eli’ egli era tenuto prigione in Cremona. Il fatto però, che qui ci vien raccontato, soffre non piccola difficoltà, poichè non sembra possibile cbe ei potesse difendere il castel di Gavardo contro di Federigo l’anno 1138, che fu l’anno medesimo in cui Brescia sostenne con sì raro valore l’assedio inutilmente postole dal medesimo Federigo. Il castel di Gavardo fin dall’anno innanzi, come narra il sopraccitato Malvezzi (l. cit. p. 909, 914)» crasi ribellato contro i Bresciani, ed avea abbracciato il partito di Federigo; nè i Bresciani il poterono soggettare prima dell’anno 1240. Come potea dunque Albertano difenderlo contro di Federigo l’anno 1238? L’unica spiegazione che mi sembrano ammettere queste parole, quando si creda di dover conciliare insieme i codici antichi collo storico Malvezzi, si è che allor quando il castel di Gavardo ribellossi a’ Bresciani, Albertano che vi presiedeva, si tenesse fermo per essi, e che perciò fosse chiuso in prigione da Federigo, e in essa l’anno seguente componesse il detto trattato. Seppure non dobbiamo anzi in parte attenerci a ciò che leggesi in un codice ms. dello stesso trattato, cbe è citato dall’Oudin (De script, eccl. t. 3 , p. 189), ove dicesi ch’ei fu fatto prigione da Federigo allor quando fu espugnata Brescia, cui egli difendeva. Brescia non fu [p. 305 modifica]SECONDO 3o5 espugnata ma nondimeno poteva Albertano in qualche sortita rimaner prigione. Par nondimeno che maggior fede si debba a tre codici da noi rammentati, che non a un solo veduto dall’Oudin, e di cui inoltre ei non reca le espresse parole. Comunque sia, egli standosi in prigione compose il trattato Dell amor e della dilezione di Dio e del prossimo e deW altre cose, e della forma dell’onesta vita, cui indirizzò a Vincenzo suo figliuolo. Poscia un altro ne scrisse Della consolazione e del consiglio, e indirizzollo a Giovanni altro suo figlio, di cui dice nel proemio: A te, figliuol mio Giovanni, lo qual t’aoperi nell’arte di cirurgia. L’Oudin afferma che questo libro ancora fu da lui scritto in prigione; ma nel codice di cui si valse Bastian de’ Tossi per farne la prima edizione italiana in Firenze l’anno 1610, al fin di questo trattato si legge ciò solamente; Finisce il libro d’Albertano Giudice da Brescia della Contrada di S. Agata della Consolazione e del consiglio composto sotto anni Domini 1 a.jtì delli mesi d’Aprile e di Maggio. Per ultimo un altro assai più breve ne abbiamo scritto innanzi al secondo, e indirizzato a Stefano pur suo figliuolo , intitolato Delle sei maniere del parlare, o altrimenti ammaestramento di dire e di tacere, che da lui fu composto, come si legge al fine dello stesso codice, nel dicembre dell’anno 1245. Questi trattati, da cui non sembran diversi que’ che il Muratori afferma esistere manoscritti nella Biblioteca Ambrosiana (Antiq. Ital. t 3,p.916, 917), furono da Albertano scritti in latino. Ma nello stesso secolo xiii, e non molti anni dopo la loro pubblicazione, Tuuboschi, Voi. IV. 20 [p. 306 modifica]XXXVIII. Scarso numero de’ professori di fi’osoGa iu Bq-. lugpa. 3oG LIBRO furon tradotti in lingua italiana, come si scuopre da parecchi codici che si citano dal conte Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par 1, art Albertano), in alcuni de’ quali vi ha qualche diversità nell’assegnar l’anno in cui il secondo e il terzo trattato scritti furono da Albertano. Da questo Scrittore non convien certo aspettarci nè metodo di discorso, nè forza di raziocinio , nè precisione d’idee. Ei non fa quasi altro che accozzare insieme i delti della sacra Scrittura e di molti autori sacri e profani sull’argomento di cui ragiona; e a’ tempi in cui egli vivea , non è piccola lode che potesse far tanto. Di qualche altra sua operetta e di alcuni sermoni inediti da lui scritti veggansi i due sopraccitati scrittori, l’Oudin e il eonteMazzucchelli.il quale avverte, recando l’autorità del Cardinal Querini, che il Crescimbeni e il Quario hanno affermato trovarsi ancora di lui alcune poesie italiane nella Biblioteca Strozzi alia; ma che ogni possibile diligenza fatta per rinvenirle era stata inutile. XXXVII1. Questi furon coloro che del lor sapere in filosofia ci lasciaron monumenti nelle loro opere. Alcuni altri ve n’ebbe de’ quali è a credere che fossero ne’ medesimi studi ben istruiti, perchè furon trascelti a tenerne pubblica scuola; ma che non ci han tramandato alcun testimonio della loro erudizione. I professori dell’università di Bologna dovrebbon qui aver luogo. Essi dovean certo goder di gran nome, poichè Federigo li li trascelsc fra tutti per inviar loro le opere d’Aristotele, come sopra si è detto. E pare perciò che belle e [p. 307 modifica]SECONDO 307 copiose notizie avremmo dovuto intorno ad essi aspettarci nella recente eruditissima Storia di quella Università. Ma noi veggiamo con maraviglia che la serie dei professori filosofi si ristringe a pochissimi, e inoltre non ci presenta comunemente di essi che i nudi nomi. In questo secolo veggiam nominato il Moneta cremonese dell’Ordine de’ Predicatori, di cui abbiamo altrove parlato, e abbiam veduto che prima di entrare in quest’ordine era stato in Bologna pubblico professore di filosofia. A lui siegue maestro Lapo fiorentino, di cui provano i Registri della comunità di Bologna, che fu scelto da’ Frati detti del Sacco l’anno 1270 a leggere logica e fisica nel lor convento collo stipendio di trenta lire bolognesi oltre il vitto (De Prof. Bonon. t. 1, p. 499)- Sei altri se ne aggiungono, de’ quali altro non ci vien detto, se non che furono in questo secolo professori di filosofia (p. 500, ec.), e sono maestro Gentile da Cingoli, maestro Guglielmo da Dessara, maestro Teodolico da Cremona, maestro Reginaldo da Melanto, maestro Martino spagnuolo, e maestro Pellegrino da Piumazzo. Vi sarà forse chi pensi che con un esame più diligente de’ monumenti di questo secolo altre più copiose notizie si potesser raccogliere su questo argomento. Ma il ch. P. abate Fattorini, continuator della Storia della detta Università, ci assicura che niun’altra memoria se ne ritrova j e di questa sì scarsa serie di professori filosofi egli ne incolpa (ib. p. 500) la troppo maggiore stima in cui erano gli altri studi, per cui avveniva che assai più erano i professori delle [p. 308 modifica]XXXIX. Amlur in P.’«lova se ne trovano assai (uhIiì, 3o8 LIBRO altre scienze, e che alcuni ancora di quelli ch’erano destinati alle filosofiche cattedre, trascorsi alcuni anni, passavano ad altre scuole più onorevoli insieme e più vantaggiose. XXXIX. Lo stesso dee dirsi dell’università di Padova, dei cui professori filosofi abbiam finora assai scarse notizie. Parlando dell’origine e della vicende di essa, abbiam recato il passo dello storico Rolandino, in cui ci ha conservati i nomi di quattro tra essi che l’anno 1161 leggevano uno la logica, gli altri la fisica. Questo basta a mostrarci che non pochi dovettero ivi essere in questo secolo i professori di tale scienza. Abbiam pure ivi parlato di quel Guglielmo da Brescia, che ivi teneva scuola di filosofia l’anno 1274. Oltre questi, altri non ci nomina il ch. Facciolati (Fasti Gymn. patav. pars 1, p. 13), fuorchè un certo Pace del Friuli, di cui rammenta alcuni componimenti poetici che rimangono manoscritti, uno de’ quali sulla festa detta delle Marie è stato dato alla luce dal ch. ed eruditissimo senatore Flaminio Cornaro (Eccles. ven. dec. 5, p. 303); e mostra insieme ch’ei non era nè ferrarese, nè forlivese, come da alcuni è stato scritto, ma sì del Friuli. Ei nomina ancora Matteo Roncalitrio professore di medicina insieme e di filosofia. Il Papadopoli (Hist. Gymn.patav. l. 3, sect. 2, c. 2) pone al fine di questo secolo stesso Jacopo di Forlì medico esso pure e insieme filosofo, e detto nell’iscrizion sepolcrale nuovo Aristotele e nuovo Ippocrate. Il Facciolati il fa vissuto un secol più tardi (l. cit. pars 2, p. 101). Se questi scrittori, che potean consultare gli: autentici [p. 309 modifica]monumenti (li quella università, non si accordano insieme su questo punto, come potremo noi conciliarli, o accertare chi di essi abbia colpito nel vero? De’ professori di altre università non abbiam alcuna particolare contezza. Sarebbe qui finalmente luogo opportuno a parlare di Pier de’ Crescenzi, che visse in gran parte a questo secolo, e di cui abbiamo un’opera di agricoltura. Ma questa non fu scritta che al principio del secolo seguente, come a suo luogo proveremo, e ad altro tempo perciò ci riserbiamo a trattarne.