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Poesie (Parini)/VIII. Sonetti/I. Sonetti datati

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I. Sonetti datati

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VIII. Sonetti VIII. Sonetti - II. Sonetti non datati

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SONETTI DATATI

I

LA CROCE E IL PENTIMENTO

[1752.]

     La penitenza del mio fallo grave
chino e tremante al Golgota mi mena.
— Mira, — e poi dice,—l’affannosa trave
che fu per le tue colpe a Cristo pena.
    Te questa a salutare aura serena
trasse per le procelle amica nave:
quindi sgorgò d’amor l’immensa piena
onde avvien ch’ogni sozza opra si lave. —
     Allor la stringo e bacio; e, nel cuor punto,
lagrime verso, che, nel sangue assorte
del divin agno, a me recan salute;
     e grido: — O scala che a salir virtute
sola mi doni, è ver, tardi son giunto;
ma da te non sciorrammi altri che morte. —

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II

IN MORTE DEL CANONICO GIAN FRANCESCO GUENZI

[I753-]

     È questo il freddo avel, questa è la lira?
Ahi! rivolgendo qui l’umido e basso
ciglio, quinci a la lira e quindi al sasso,
l’orba e dolente Poesia sospira.
    Udisti, o Morte, il dolce suon che dira
tigre molcer poteva, a’ fiumi il passo
fermar, mover gli scogli; e pure, ahi lasso!
ahi, tanto avesti il secol nostro in ira?
     Or che vale, o crudel, ch’uomo s’affidi
nel poter de’ suoi carmi, e ch’ei sia accolto
fra i sacri ingegni ed a Minerva fidi?
     Ecco tu, che con torvo ed egual volto
e l’erbe vili e i piú bei fior succidi,
ecco, infino il buon Guenzi oggi n’hai tolto.

III

PER UN NUOVO CARDINALE

[1753?]

     Plauso e contento in ogni via congiunto
sempre sui passi tuoi venne, o signore;
e dell’alta tua mente e del tuo core
godette i doni e celebrò in un punto.
    Or che tu vieni al degno grado assunto,
il giubilo comun fassi maggiore;
né crede del tuo merto e del tuo onore
lo stadio glorioso ancor consunto.
     Vanne; e ci nutrí di piú bella speme,
tra i sacri padri, del nuov’ostro cinto,
emulatore ed emulato insieme:
     e mentre il mondo è a coltivare accinto
giusto desir che ha tua virtú per seme,
vada oggi il nostro giubilo distinto.

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IV

PER LA PROMOZIONE AL CARDINALATO

DI MONS. FABRIZIO SERBELLONI

[1753-]

     E puote or la mia vista incerta ed egra
nel seno entrar de la futura etate?
Che, Serbellon, vegg’io? Chi di si grate,
benché remote pompe il cor m’allegra?
    Di quant’òr ti vegg’io dentro a la negra
ombra de gli anni alteramente ornate
le illustri chiome! E quante, oh Dio, prostrate
manda genti al tuo piè la terra integra?
     E a tal gloria ti scorge il raro e solo
pregio di tue virtú, che ’l secol nostro
fan sopra gli altri ornai gir alto a volo?
     Dunque del novo tuo si lucid’ostro
canti altri pur; ch’io consecrar vo’solo
a’ tuoi futuri onor carmi ed inchiostro.

V

PER L’ARCIVESCOVO POZZOBONELLI

[1754.]

     Com’ombra il sol ch’oltre al meriggio varca,
segue i tuoi passi la mia Musa, o dolce
signor, onde mia speme ornai si folce
degl’infortuni miei timida e carca.
    Giá dove il Lambro con sua chiara e parca
onda le rive mormorando addolce;
or qui t’ammira ove il bell’Adda molce
i cor con Tacque che dall’urna scarca.
     Ma ovunque il piè instancabile ti regge,
di cotanta virtú Torme tue stampi
ch’ai desio di lodarti in me son legge;
     e m’abbaglian, ahi troppo! i chiari lampi
della fiamma, onde tu per lo tuo gregge,
sollecito pastore, ognor piú avvampi.

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VI

A DON GIUSEPPE RIPAMONTI CARPANO

che gli avea inviati i suoi versi

[1754.]

     Dolce dopo un alpestro, erto cammino
giugnere in Pindo; e de la fronda córre
che in riva di Peneo giá venne a porre
sue radici, arbor novo e pellegrino;
    ma dopo superato il giogo alpino
scorger altri improviso il piè disciòrre,
e vedersi in un punto un premio tórre
a cui giá si sperava esser vicino,
     amaro, ahi troppo! Illustre giovinetto,
i’ t’invidio, egli è ver; ma a te pur giova
questo ch’a forza in cor mi sorge affetto:
     e a me non manco: a te piú chiara e nova
gloria cresce l’Invidia; e per lo stretto
arduo sentier fa che men tardo i’ muova.

VII

PER LA PRIMA MESSA DI JACOPO ANTONIO BAJONE

[1754]

     Tu tratterai con man colui ch’esangue
giá pendè sulla croce per salvarne,
colui medesmo vero, e potrai farne
come piú vuoi, d’amor cotanto ei langue?
    Tu beverai quel puro e vivo sangue
che sol poteo, giá sparso, in vita trarne,
e tuo cibo farai di quella carne
che fe’ tal danno al crudo infernal angue?
     Quel cui gl’interminabili, profondi
spazi non bastan, non che i monti e i piani,
fia che tu nel tuo sen copra e circondi,
     Bajon, si spesso, in modi alti e sovrani?
Oh Dio! com’esser denno intatti e mondi
quel seno, quelle labbra e quelle mani!

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VIII

PER NOZZE DEL CONTE ERCOLE ORSI

COLLA MARCHESA MARIA COSPI

[1755.]

     O santa Fede, al mondo oggi si rara,
scendi dal ciel col tuo giogo soave,
che a questa coppia si leggiadra e cara
benignissímamente il collo aggrave.
    Tienne lunge colei che i cor separa,
furtiva entrando con sua fredda chiave,
e la nata di lei Discordia amara,
che mesce al dir sue velenose bave.
     Cosí, felici sposi, amore appunto
vostr’alme unisca; unir tocca a voi stessi
quel che natura or vuol nodo congiunto.
     Vedete i lievi ancor figli, che spessi
volanvi intorno ad aspettar quel punto,
dolce per voi ma piú dolce per essi.

IX

PER LA MORTE DI FRANCESCO SAVERIO QUADRIO

[m. 21 novembre 1756.]

     Ove mori, ove visse ed ove nacque,
sparse tal lume di dottrina intorno,
che fia sempre piú chiaro assai del giorno
lo stile onde giovando ad altrui piacque.
    La bassa Invidia e ’l vulgo ignaro tacque,
che suol far onta a’ sacri vati e scorno;
poiché gli scritti suoi reser si adorno
di Pindo il lauro e le poetic’acque.
     Oh per calle onorato al tuo ben scorto,
Quadrio felice, il tuo volume fia
che te renda immortale ed altri accorto:
     e l’origin celeste ivi e sua via
gloriosa mirando, avrá conforto
l’afflitta e sconsolata Poesia.

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X

PER IL CONTE GIROLAMO LION

[1757.]

Certo non tu, signor, perder lasciasti
la vedova, che lassa a’ piedi tuoi
chiedea mercede, e i crudi affanni suoi
piagneva, e ’l nudo fianco e i duri pasti:
ma a lei la man porgendo, in piè l’alzasti;
e, — Donna, serenar le luci or puoi, —
dicesti, e ratto, qual solean gli eroi,
del vindice dei buon ferro Tarmasti.
Risero i geni, che degli umil tetti
son guardia, e in dubbio ancor dell’aurea etade
la Calunnia fuggi, che mille cangia
per sommo danno altrui forme ed aspetti;
e ’l Tradimento e la falsa Pietade
che, simulando amor, l’altrui pan mangia.

XI


PER LA MONACAZIONE DI DONNA MARIA SERPONTI


nel monastero di Sant’Agostino a Milano [1757.]


I.


Vanne, o vergin felice, entro romito
albergo: ivi Umiltade al fianco tieni,
che la rara Concordia unita meni
e il bel Silenzio, che sul labbro ha il dito.
Vedrai ne’ limitar sedersi ardito
Amor, superbo de’ feriti seni,
e Invidia tinta d’orridi veleni
e quel di risse eccitator Garrito.
Tu volgi ’l guardo in lor nubilo e parco,
qual vincitor che su i vinti rubelli
torvo sen passa e di lor spoglie carco;
ma guárdati da Amor: co’ suoi quadrelli
aspetteratti insidioso al varco
fra gli oziosi e striduli cancelli.

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XII

2.

     Mancavan forse a te, vergin prudente,
e libertá cui gioventute apprezza,
e larga e lusinghevole ricchezza,
ov’ha suo cor la pazza mortai gente?
    Chi ’l fervido desio t’accese in mente
ch’ai ciel sospira e i volgar lacci spezza?
Sol tu, d’insuperabile alterezza
armata, in sen le basse voglie hai spente.
     Vedesti ben che qui siede monarca
il gran nimico del genere umano,
sopra la turba che dell’oro è carca;
     e sprezzatrice del fango mondano,
pura colomba, ten volasti all’arca
cui l’avido dragon combatte invano.

XIII

PER LE VITTORIE AUSTRIACHE SUI PRUSSIANI

in Boemia nel 1757.

     I gravi carri e i bronzi che per cento
bocche mandaron giá morte e rovina,
or vanno in fuga, e su, con fronte china,
vi siedon la Vergogna e lo Spavento.
    Con le man sovra il ciglio l’Ardimento
sé chiama folle e innanzi a lor cammina;
e dietro, onde al cor abbia acuta spina,
i plausi vincitor gli porta il vento.
     Né Giustizia è ancor paga. Arditi cori
seguon l’unghero eroe: Vittoria il guida
e in alto sparge i lusinghieri allori.
     Intanto Eternitade, o a l’Austria fida
gente, alza un tempio, ove co’ tuoi onori
l’orgoglio e l’onta del nemico incida.

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XIV

PER LA ESALTAZIONE AL PONTIFICATO DI CLEMENTE XIII

[1758.]

I.

     Poiché il maggiore or sei servo de’ servi,
quante magnanim’opre, o gran Clemente,
vedremo uscir dall’inspirata mente
e dalla caritate onde in sen fervi!
    Oh come fía che tu cresca e conservi
tuo sparso ovile! Oh come rotte e spente
cadran le insidie del crudel serpente,
si che religion piú non si snervi!
     Zelo divin reggerá cauto il corso
del legno altero a cui Pier fu piloto,
ch’unqua del mar non fia ludibrio e scherzo:
     però che gli offriran forte soccorso
e cielo e terra; e chiaro al piú remoto
di fia Clemente sopra diece il terzo.

XV

2.

     La forte madre, che mirò il suo figlio
primo seder quaggiú d’ogni mortale,
piú non sperando aver letizia eguale,
sciolse lo spirto, e chiuse in pace il ciglio.
    E poi che a lei non lice in questo esiglio
guidar colui che sopra ogn’altro sale,
disse: — Qui femmo assai; or che piú vale?
In cielo andiamgli ad impetrar consiglio. —
     Ma di lá visto il gran figliuol che il manto
di Pietro onora, e di sé il mondo bea,
e tutte le Virtú ridergli accanto;
     per lo novo piacer che in lei si crea,
maravigliando grida: —Io veggio or quanto
crescer mia gioia in terra ancor potea. —

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XVI

3.

     O nell’uopo maggior di nostra etade
le veci eletto a sostener di Cristo,
ecco Religion che al piè ti cade,
lacera il manto e ’l ciglio umido e tristo.
    Ah! contro lei quai velenose spade
di saggi ingannator vibrarsi ho visto?
quanti suoi figli, per obblique strade
rapiti, fúr di Stige indegno acquisto?
     Tu l’affida e sostieni: al destro fianco
manna ti piova salutar, che un giorno
ristori de’ suoi figli il drappel stanco;
     e ’l ciel tonando orribilmente intorno,
la folgore ti strida al Iato manco,
pronta sugli empi a recar danno e scorno.

XVII

PER LA CANTANTE CATERINA GABRIELLI

[1753.]

I.

     Chi non sa come dietro a un bel concento
un’anima rapita in cielo ascende,
venga ad udir costei, la qual contende
ogni armonico pregio al firmamento.
    Fermo sull’ale sta librato il vento
qualor ella col canto i petti accende,
e ognun maravigliando da lei pende,
de le angeliche voci al suono intento.
     L’alta dolcezza in sulle labbra accolta
Amor la sugge quattro volte e sei,
poiché la lingua in dolci note ha sciolta.
     Calata giú dal regno degli dèi
cosa infin sembra, e qualunq’uom l’ascolta
dice: — Beato chi può udir costei! —

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XVIII

2.

     Terrestre angiolo mio, che dal bel labro
canti sciogliete ognor dolci e soavi
tanto da pòr tra l’amorose chiavi
qualunq’uom abbia ’l cor piú alpestro e scabro;
    qual fu, qual fu la man si dotta o ’l fabro
che i bei varchi v’apri, si ad arte cavi,
ond’han vita gli accenti, or alti, or gravi,
tra le candide perle e ’l bel cinabro?
     Fu il ciel pietoso che dei miser’anni
pieni d’ira e furor, nel canto vostro
volle farci obliar Tonte e gli affanni.
     Tal, giunto a Stige Orfeo, tacque ogni mostro;
e l’augel, che di Tizio intende ai danni,
terse nell’ale il sanguinoso rostro.

XIX

PER LA STESSA

[1759.]

     Allor che il cavo albergo è in sé ristretto,
onde in un tempo ha l’uom vita e parola,
l’aere soavemente esce del petto,
e al doppio career suo ratto s’invola.
    Per la tornita poi morbida gola
passa al liscio palato; e, vario aspetto
preso fra i denti e ’l labbro, alfin sen vola
dolce a recare altrui gioia e diletto.
     Ma pria costei con la mirabil arte
e l’armonico genio il guida e frena
sotto a le leggi de le industri carte:
     e quindi avvien che da la flebil scena
fa altrui beato; e tal piacer comparte
che seco avvinti i cor tragge in catena.

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XX

PER LA STESSA

     — Quando costei su la volubil scena
di celeste bellezza apre i portenti,
e il notturno spettacolo serena
co’ raggi del bel volto, Amor, che tenti? —
    — Entro per gli occhi a quel prodigio intenti,
scendo ne’ cori, e lá calmo ogni pena;
desto teneri sensi; empio a le genti
di foco soavissimo ogni vena. —
     — E quando, simulando i prischi lai,
dai due coralli de la bella bocca
scioglie il canto amoroso, Amor, che fai? —
     — Volo al bel labbro onde il piacer trabocca,
e grido: Oh in terra fortunato assai
chi si bel labbro ascolta o vede o tocca! —

XXI

A MARIA VERGINE

[I759-]

     Fior de le vergini, non pur che sono,
ma che mai furono e che saranno,
bambin chi diedeti si caro in dono
che alati spiriti servendo stanno?
    Posto ha l’etereo sublime scanno
per te l’Altissimo in abbandono;
e fra le grazie, che ornando il vanno,
del tuo sen formasi amabil trono.
     Oh come il tenero fanciullo mai
sugge avidissimo quindi l’umore
che ambrosia e nèttare vince d’assai!
     Non pure al piccolo divin Signore,
ma a tutti gli uomini vita darai,
fior de le vergini, col tuo licore.

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XXII

PER LA COMETA DEL 1759

I.

     Questa che or vedi, Elpin, crinita stella
splender repente nel sereno cielo,
questa garzon vid’io, cui ’l primo pelo
velava il mento nell’etá piú bella.
    Oh come allor vid’io la miserella
pastoral turba rimaner di gelo,
de l’astro irato paventando il telo
e lo sdegno, onde gli empi il ciel flagella!
     Ma i due saggi gridar Iella e Nisisca:
— Felici, o figli, che il bel lume avrete
quando di novo il suo cammin compisca!
     L’odio, il mentir, l’aviditá temete
e il folle amor che gli uman petti invisca,
e impavidi il novello astro vedrete.

XXIII

2.

     Impavidi il novello astro vedrete
tornar su l’orizzonte, o giovinetti,
che da l’ultime sue lontane mète
fia che al ciel vostro il bel cammino affretti.
    Come guidar per calli or torti or retti
suole il saggio nocchiere il curvo abete,
tale il sommo Motore avvien che detti
legge alle invano orribili comete.
     Or presso al sol tra i violenti ardori
le accoglie, or guida in mezzo al verno algente
a provare i non noti a noi rigori. —
     Ma la colpa odiar l’astro innocente
fece quasi feral segno ai pastori,
la colpa d’ogni mal segno e sorgente.

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XXIV

PER LA STESSA COMETA

     Face orribil, se è ver che in ciel ti accendi
ministra all’uom d’atri infortuni e duri,
tu se’ che il padre mio or mi contendi
e l’altra unica speme, empia! mi furi.
    Ah tu, che i giorni miei candidi e puri
vedi mutati in tristi, o cor, m’intendi:
che i neri spettri vedi e i tristi auguri
fra i nati dai mio duol pensieri orrendi.
     Péra chi ’l crudel astro unqua ha predetto,
péra chi l’aspettò; che al suo venire
sentii per doppia via squarciarmi il petto.
     Ma, folle! perché ad altri volger l’ire,
s’io stesso, io, dono ognor piú truce aspetto
al cupo immaginar, al mio martire?

XXV

PER LA NASCITA DEL PRIMOGENITO

di Alberico Barbiano di Beigioioso e Anna Ricciarda d’Este [1760].

Anacreontica

     Bambin cresci; e t’assomiglia
a la madre e al genitore,
che sul labbro e sulle ciglia
han le Grazie ed hanno Amore.
    Co’ grand’avi ti consiglia,
e le vie batti d’onore;
e a la dotta umil famiglia
sia sostegno il tuo favore.
     Pensa un di, che al tuo natale
il febeo coro cantò
pronto a renderti immortale;
     ch’io, allor giá spento, a’bei
prati elisi narrerò
i compiuti auguri miei.

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XXVI

IN LODE DEL PADRE ANTONIO MARIA NEGRI

quaresirealista a Santa Felicita di Firenze nel 1761.

     Oh crudi affetti che d’intorno al core
sempre mi siete, e fate orrido scempio,
la voce udite, che minaccia l’empio,
e lo richiama dal suo lungo errore.
    E, se ragion non vai, vaglia il terrore,
vaglia il fervido zel, vaglia l’esempio
di quel ch’ora, tonando, in mezzo al tempio
guerra vi move intrepid’oratore.
     Ahimè! quando fia mai, che l’alma, accesa
d’amor celeste, alfin cangi sue tempre,
e cerchi incontro a voi schermo e difesa?
     Quando fia che il cuor duro alfin si stempre
in pianto, e s’alzi a piú lodata impresa?
S’oggi noi fa, pianger dovrá per sempre.

XXVII

PER LA CANTANTE ANNA ANGIOLI NI (?)

[Non anteriore al 1764.]

     Quell’io che giá con lungo amaro carme
Amor derisi e il suo regno potente,
e tutta osai chiamar l’itala gente
col mio ríso maligno ad ascoltarme,
    or sento anch’io sotto a le indomit’arme,
tra la folla del popolo imminente,
dietro a le rote del gran carro lente
dall’offeso tiranno strascinarme.
     Ognun, per osservar l’infame multa,
preme, urta e grida al suo propinquo: — È quei! —
e il beffator comun beffa ed insulta.
     Io, scornato, abbassando gli occhi rei,
seguo il mio fato; e il fier nemico esulta.
Imparate a deridere gli dèi!

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XXVIII

AL CARDINALE GIUSEPPE POZZOBONELLI

arcivescovo di Milano, in occasione della presentazione alla chiesa metropolitana
di alcuni schiavi insubri riscattati dai MM. RR. Padri Trinitari Scalzi [1764].

I.

     Finor di Babilonia in riva ai fiumi
lungi da te sedemmo, almo pastore;
ma tra ’l pianto che a noi scendea dai lumi
tornavano a Sion la mente e il core.
    Le sagre cetre, in pria dolci e canore,
pendean tacite intorno ai salci e ai dumi;
ché, devote al Dio vero, avean orrore
di risonar davanti ai falsi numi.
     Ma di redenzione il tempo in vano
non attendemmo: a noi giá si prepara
la pasqua desiata appo il Giordano.
     Rotta è, Israel, tua servitude amara;
t’inchina e stendi la disciolta mano
al sommo sacerdote, al tempio, all’ara.

XXIX

2.

     Queste incallite man, queste carni arse
d’Affrica al sol, questi piè rosi e stanchi
da servii ferro, questi ignudi fianchi
donde sangue e sudor lungo si sparse,
    toccano al fin la patria terra; apparse
sovr’essi un raggio di pietade, e franchi
mostransi ai figli, a le consorti, ai bianchi
padri ch’oggi lor duol senton calmarse.
     O dolce patria! o sante leggi! o sacri
riti! Noi vi piagnemmo a le meschite
empie d’intorno e ai barbari lavacri.
     Salvate or voi queste cadenti vite;
voi questi spirti estenuati e macri
col sangue del divin agno nodrite.

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XXX

PER DON MAURIZIO SALABUE

quaresimalista in Lugano [1767],

     Fama della virtú, del duro e acerbo
viver, va innanzi al precursor di Cristo;
e sul Giordan prepara il popol misto
mentr’egli affretta ad annunciare il Verbo.
    Ei giugne alfine; e pien di foco e nerbo,
studia, parlando, far deH’alme acquisto:
commuovonsi al suo dire il buono e il tristo,
il molle grande e il fariseo superbo.
     Ma il popol duro, sol di plauso inane
empie le valli, — Elia — gridando; e il vento
seco della missione il frutto porta.
     Non imitar, Lugan, le turbe insane;
ma i raccolti nel cor semi trasporta
nella tua casa; e cova il pentimento.

XXXI

PER SAN GIROLAMO MIANI

[1767.]

I.

     O Povertá, che dal natio soggiorno
fai le turbe dolenti errar lontane,
e per somma deH’uomo ingiuria e scorno
le costringi affamate a cercar pane;
    quante volte al Mian farai ritorno
non udrai chiuder porta o latrar cane,
sien pur le vesti che tu hai d’intorno
e le parole tue diverse e strane:
     ma con pronto soccorso a le tue brame
egli offrirá la sua povera mensa,
e vorrá parte aver ne la tua fame;
     perocché tutti con affetto eguale
sa gli uomini abbracciar quell’alma immensa,
e fa suo cittadino ogni mortale.

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XXXII

2.

     Milan rammenta ancor quel lieto giorno
che pria ti vide, e le felici squadre
di teneri garzon, che a te d’intorno
benedicendo, ti chiamavan «padre»:
    e riverisce il loco ove soggiorno
prima lor desti; e quei togliendo a l’adre
perigliose miserie ed a lo scorno,
tu li volgevi ad alte opre leggiadre.
     E del pio duce ancor loda la mano,
ch’oro ti offri; ma ripensando al zelo
onde tu il rifiutasti, ammira e tace.
     E per te apprende, che dal mondo vano
nulla desia colui che serve al cielo,
e che, giovando a l’uomo, a Dio si piace.

XXXIII

LA PIETÀ DIVINA

[1767?]

     L’arbor son io, Signor, che tu ponesti
ne la tua vigna; e a coltivar lo prese
Misericordia, i cui pensier fur desti
sempre a guardarlo da nemiche offese.
    Ma il tronco ingrato, che si caro avesti,
frutto finora al suo cultor non rese;
e dell’ampie superbo ombrose vesti
sol con sterili braccia in alto ascese.
     Però, tosto che il vide, arse di sdegno
tua Giustizia: — E perché, — disse, — il terreno
occupa indarno? Ornai si tagli ed arda.—
     Ma Pietá pose al tuo furor ritegno
gridando: — Un anno attendi, un anno almeno. —
Arbor, che fia, se il tuo fruttar piú tarda?

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XXXIV

PER LA CANTANTE CLEMENTINA PICCINELLI

[1767-68.]

1.

     Mirate come scioglie e come affrena
il passo altier, quasi ondeggiante mare,
e come grande e maestosa appare,
e sola di sé sola empie la scena.
    Mirate, l’alma d’armonia ripiena,
le volubili braccia alto spiegare;
ed esser fiera e volgere e chinare
molle il bel corpo, or torbida or serena.
     E il petto piegar morbido vedete;
e di sé far con variato accordo
quadro che tal non pingerebbe Apelle.
     Mirate, non giá tu, volgo aspro e sordo,
ma voi gentili, che la forza siete
a sentir nati de le cose belle.

XXXV

2.

     Se i lacci poi del tuo bel genio indegni
al fin tu spezzi, e torni Ifigenia;
e nel volto, ch’or teme ora desia,
fingi affanno, pietá, sospetti o sdegni,
    quei che del duol scolpisci arditi segni
ne turban la ingannata fantasia;
e i mossi spirti dall’aperta via
piomban suH’alme ove trionfi e regni:
     e non occupa giá con lungo errore
l’anime fredde in sterili diletti
il canto che accompagna il tuo dolore;
     ma, dolce secondando i moti e i detti,
in noi discende, e ne spalanca il core
al placido inondar de’ vari affetti.

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XXXVI

CONTRO L’ABATE CASTI

[1768.]

     Un prete brutto, vecchio e puzzolente,
dal mal francese tutto quanto guasto,
e che, per bizzarria dell’accidente,
dal nome del casato è detto casto;
    che scrive de’ racconti in cui si sente
dell’infame Aretin tutto l’impasto,
ed un poema sporco e impertinente
contro al monarca d’un impero vasto;
     che dappoi che senz’ugola è rimaso,
a tutto il mondo legge quel suo testo,
oscenamente parlando col naso;
     e che, leggendo, e negli occhi e nel gesto
mostra e nel volto di lussuria invaso,
un satiro maligno e disonesto;
si, questo mostro, questo,
è la delizia de’ terrestri numi.
O che razza di tempi e di costumi!

XXXVII

PER DONNA GIOSEFFA LUCINI PASSALACQUA
che si fa monaca nel monastero di Santa Margherita in Como

[1768.]

I.

     Nave che sciogli cosí ardita e franca
in questa che ti par si facil’onda,
pensa che il mar, che sotto a te s’imbianca,
delle sue sirti e de’ suoi scogli abonda.

[p. 260 modifica]

     Pensa che all’acqua tacita e profonda
il vento impetuoso ancor non manca;
che, quanto è stretto piú tra sponda e sponda,
piú violento il pin flagella e stanca.
     Dunque non creder tanto alla tua forza,
né alle lusinghe del tranquillo piano;
ma guardati mai sempre a poggia e ad orza.
     Sta nel tuo sen quella possente mano
che ti move, ti guida e ti rinforza:
quella ubbidisci, e ogni timor fia vano.

XXXVIII

2.

     Pien di contrasto e di pena e di stento
è il calle ove tu vai, vergine ardita;
l’entrata è aperta, e n’è chiusa l’uscita;
e tardi vien, se viene, il pentimento.
    Dolce speranza e salutar spavento
tengono in dubbio l’anima smarrita:
tal quindi vola alla beata vita;
e tal ne scende all’eterno tormento.
     Pensaci, e non sperar ch’altri che Dio
ascolti per la strada il tuo ricorso,
e sostenga l’intrepido desio.
     Sempre domanda a Lui, sempre soccorso.
Quante precipitar giú dal pendio,
ch’eran vicine a terminare il corso!

[p. 261 modifica]

XXXIX

IN MORTE DEL CONTE GIUSEPPE MARIA IMBONATI

[1768?]

     Vedete, oh Dio! vedete. Ecco la Morte.
Ha il digiun su le zanne. — Olá, mostro empio,
ferma. Com’osi tu di questo tempio
sacro a l’Eternitá tentar le porte? —
    Folle! che dico? Ahi, la crudel sua sorte
getta tra il padre e il figlio. Ahi, che lo scempio
cade sul padre, e noi perdiam l’esempio
d’ogni bell’arte e il protettor piú forte.
     Ecco, ahimè! seco il fulmine fischiando
balza il platano a terra. Arde il gran dorso.
Vedete i cigni che ne vanno in bando.
     Povere Muse, ove drizzate il corso,
per la campagna raminghe ululando?
Ahi disperate! ove trovar soccorso?

XL

IN MORTE DELLO STESSO

[1769.]

     No non si pianga un uom d’ingegno eletto
che, per costumi e nobil’arti chiaro,
visse a le dame e ai cavaiier si caro,
in ciel rimoto e sotto al patrio tetto;
    un uom cui la pietá, l’amor del retto,
la caritá, mille altre doti ornáro,
e visse ne la patria esempio raro
di sposo e padre e cittadin perfetto;
     un uom che, pieno alfin di inerti e d’anni,
placidamente a piú beata sede
passò, fuggendo dai terreni affanni;
     un uom che, mentre al comun fato cede,
lasciò, per compensare i nostri danni,
di sue virtú tanta famiglia erede.

[p. 262 modifica]

XLI

PER L’ENTRATA A ROMA DELL’IMPERATORE GIUSEPPE II

[1769.]

     Quando il nume improvviso al suol latino,
benché celando i rai, sentir si féo,
scosse Roma i gran fianchi e il cor s’empieo
di speme, e volse in mente altro destino.
    Mugghiò l’urna del Tebro e al mar vicino
piú minaccioso il suo fragor cadeo;
balzáro i sette colli; e dal Tarpeo.
vibraron l’aste lor Marte e Quirino.
     Ma la Superstizion col cieco morso
frenò gl’impeti arditi a Roma in petto;
e grave le pesò sul senil dorso.
     Quella infelice ripiombò nel letto
di sue vergogne, e disperò soccorso:
e il momento miglior sparve negletto.

XLII

PER UN PUBBLICO SPETTACOLO DI CACCIA

dato a Milano il 23 settembre 1770.

     E volpi furibonde, e gatti ardenti,
e lepri dispietate, orrida scena!
facean tremar la perigliosa arena,
e palpitar le coglionate genti;
    quando l’asino entrò, di tuono e venti
e fulmini versando orribil piena
dal culo, intorbidò l’aria serena;
cosí raghiando in minacciosi accenti:
     — Cedete al mio valor, barbari mostri;
cani, tremate; e sotto al mio funesto
vittorioso calcio ognun si prostri.
     Grazie agli edili, io questo suol calpesto,
e son degno di loro: i pari nostri
trionfan oggi, e il secol nostro è questo. —

[p. 263 modifica]

XLIII

PER LA FESTA DI SAN GIOVANNI BATTISTA

celebrata in Busto Arsizio il 29 agosto 1770.

     Chiese l’empia donzella; e giá scorrea
del giusto il sangue; e d’ira e di pietate
. la terra fra le viscere fremea
e rimembrava ancor l’antico frate.
    Misera terra! Ahi l’esecranda etate
qual nel suo seno ordiva opra piú rea!
ahi di qual sangue fra le genti ingrate
cotesto sangue annunziator scendea!
     Lá pel deserto, u’ giá s’udia la voce,
alto ululavan gli angioli che furo
presenti all’acque onde fu sparso il Verbo.
     Né piagnean l’empia donna o il re superbo;
ma te, Giudea, vicina al fato atroce
per cui tremáro i poli e il sol fu oscuro.

XLIV

PER LA SOPPRESSIONE DEI GESUITI

[1773.]

     L’arbor fatale che di rami annosi
tanta parte del ciel coperta avea;
l’arbor che, impuro asii d’augei schifosi,
atra e mortai d’intorno ombra spandea;
    l’arbor che pregne di veleni ascosi
ma lusinghiere poma altrui porgea;
l’arbor sotto del qual lieti riposi
prender sicura l’Empietá solea;
     pur cadde alfin! Dell’aspra doglia insano
il re d’Averno con immonde trame
tentò impedir la sua rovina invano.
     Bello il veder con pronte accese brame
l’aline Virtudi e il gran pastor romano
i lor colpi alternar sul tronco infame!

[p. 264 modifica]

XLV

PER I SONETTI DI CATERINA DOLFIN TIEPOLO

IN MORTE DEL PADRE

[1777]

     Che pietoso spettacolo a vedersi
la virtuosa figlia in nero manto
sopra l’urna del padre amato tanto
spargendola di lagrime e di versi!
    e co’ teneri sguardi a lei conversi
la Caritá dettarle il dolce canto:
e de la pia compagna a sé dar vanto
le Muse, e piú beate oggi tenersi!
     T’allegra, o Poesia, che la tua lira
dai giochi de la mente alfin ritorna
del core ai moti, e la virtude inspira;
     e di lauro e cipresso il monumento
grata rivesti, e ’l cener freddo adorna
che desta un cosí nobile lamento.

XLVI

PER LA FESTA DI SAN LUIGI GONZAGA

celebrata dalla Pia associazione della caritá cristiana

nella chiesa parrocchiale di San Bartolomeo in Milano il 31 agosto 1777.

     Grida per ogni via squallido e abbietto,
grida il Bisogno in voce fioca e bassa.
Che fa l’avaro al miserando obbietto?
Indura il cor, torce lo sguardo, e passa.
    Che fa il fastoso, se dall’aureo tetto
sovra di lui l’altero ciglio abbassa?
Dona talor, ma in si sprezzante aspetto,
che il dono suo piú sconsolato il lassa.
     In te, devoto stuol, in te discese
quella d’amor verace fiamma istessa
che prima il cor del gran Luigi accese;
     per lei, che il zelo tuo dirigge e scorge,
soccorsa sol, non avvilita e oppressa,
da’ mali suoi la povertá risorge.

[p. 265 modifica]

XLVII

IN MORTE DI DOMENICO BALESTRIERI

[1780.]

     Sta flutta milanesa on gran pezz fa
l’era del Mag, e peu la capité
a duu o trii d’olter, ma de quij che sa
sonná ona flutta cont el so perché.
    Lor peu morinn, e questa la resté
a Meneghin, ch’el la savuda fá
rid e fá piansg con tanta grazia che
l’è ben diffizel de podell riva.
     Anca lu pien de merit e de lod
adess l’è mort; e quel bravo istrument
l’è restaa lá in ca’ soa taccaa su a on ciod.
     Ragazz del temp d’adess trop insolent,
lasseel stá dove l’è; no ve fée god,
ché per sonali no basta a boffagh dent.

XLVIII

A GIUSEPPE CARPANI

che in sei sonetti menighini aveva pianta V Imperatrice Maria Teresa

[m. 29 novembre 1780.]

     Bravo Carpan: ho vist quij ses sonett
ch’avii faa per la mort della regina;
hin pien de bei penser, hin pien d’afett,
fan onor a la lengua meneghina.
    Alto, andee inanz, studiee sira e matina.
La natura l’è lee che fa el prim lett;
ma l’art l’è quella che tutt coss rafína:
tra Luna e l’altra ve faran perfett.
     Chi toeu consej de tugg no fa nagott;
chi no ’l toeu de nessun de rar fa ben:
toeujl de quaighedun, ma che ’l sia dott.
     In sta manera rivarij a fav ciar
tra i bon poetta; e pront a fav del ben
trovarij i protettor, benché sien rar.

[p. 266 modifica]

XLIX

PER LA MORTE DI MARIA TERESA

[1780.]

     Poiché la gran Teresa i serti frali
sciolse, al vero affrettando eterno alloro,
aro duolo improvviso estese l’ali
sopra la terra e sopra il mar sonoro.
    Le genti, che da’ suoi geni reali
ebber fida difesa, alto ristoro,
piagnean, mille additando opre immortali,
la protettrice, anzi la madre loro.
     Piagnea l’Europa l’auspice bontade
che i nodi della pace e dell’amore
al discorde compose ampio emisfero.
     Piagnea l’orbo universo il suo splendore,
e il raro sopra il trono esempio altero
di fede, di giustizia e di pietade.

L

PER IL VIAGGIO DI PAPA PIO VII A VIENNA

[1782.]

     Giunto a Cesare innanzi, umil deponi
de’ sovrani del Tebro il fasto altero,
né ti scordar giammai, se a lui ragioni,
che tu non sei che il successor di Piero.
    Recagli in dono Roma: a lui non doni
che un retaggio dovuto al sagro impero;
e cedi a lui di questa terra i troni
che gli eterni decreti a te non dièro.
     Digli come finor nocque a la Fede
di tua corte l’antico e vasto orgoglio,
con triregni, oro e bissi e baci al piede.
     Tu vedrai, mentre parli, appiè del soglio
la Virtú che ti ammira, e forse crede
che tu la riconduci in Campidoglio.

[p. 267 modifica]

LI

PER LA STESSA OCCASIONE

[17S2.]

     Varca il pastore delle umane genti
l’erto sentier delle montagne alpine;
spirano in van per lui contrari venti
daH’agghiacciato aquilonar confine.
    Spirto del cielo, che aH’umane menti
dá lume, e vibra al cuor fiamme divine,
salvo il conduce, e seco pur presenti
son della chiesa il dritto e le dottrine.
     Ad Augusto egli corre; a ciglio a ciglio
seco di favellar mostra desio,
per dar calma di Piero al buon naviglio.
     Deh non opporti, o grande Augusto, a Pio;
ché opporsi mai non deve al padre il figlio,
né l’impero del mondo a quel di Dio.

LII

A VITTORIO ALFIERI

[1783.]

     Tanta giá di coturni, altero ingegno,
sopra l’italo Pindo orma tu stampi,
ch’andrai, se non ti vince o lode o sdegno,
lungi dell’arte a spaziar fra i campi.
    Come dal cupo, ove gli affetti han regno,
trái del vero e del grande accesi lampi,
e le póste a’ tuoi colpi anime segno
pien d’inusato ardir scuoti ed avvampi!
     Perché del genio tuo sublime ai passi
ostano i carmi? e dove il pensier tuona
non risponde la voce amica e franca?
     Osa, contendi! e di tua man vedrassi
cinger l’Italia ornai quella corona
che al suo crin glorioso unica manca.

[p. 268 modifica]

LIII

PER UN PALLONE AEREOSTATICO

[1784.]

     Ecco del mondo e meraviglia e gioco
farmi grande in un punto e lieve io sento;
e col fumo nel grembo e al piede il foco
salgo per l’aria e mi confido al vento;
    e mentre aprir novo cammino io tento
all’uom, cui l’onda e cui la terra è poco,
fra i ciechi moti e l’ancor dubbio evento,
alto gridando, la Natura invoco:
     — O madre delle cose! Arbitrio prenda
l’uomo per me di quest’aereo regno,
se ciò fia mai che piú felice il renda:
     ma, se nocer poi dee, l’audace ingegno
perda l’opre e i consigli; e fa’ ch’io splenda
sol di stolta impotenza eterno segno. —

LIV

PER LA VENUTA DI GIUSEPPE II A MILANO

[1784.]

I.

     Scorre Cesare il mondo, e tutto ei splende
sol d’egregia virtude, e il fasto sdegna;
e fra i popoli avvolto il vero apprende,
e dall’alto dei troni il giusto insegna.
    Indi a stranio poter limiti segna;
qui delle genti la ragion difende;
e all’oppresso mortai da forza indegna
or la mente ora il piè liberi rende.
     Toglie a la frode e all’ignoranza il velo;
fonda l’util comune; e ovunque ei giri
veglia, suda, contende, arde di zelo;
     e fa che il mondo in lui rinati ammiri
quei che la prisca etá pose nel cielo:
Teseo, Alcide, Giason, Bacco ed Osiri.

[p. 269 modifica]

LV

2.

     Teseo, Osiri, Giason, Bacco ed Alcide
scorrer la terra e il mare, anime ardenti,
e portar guerra agli uomini nocenti
e al debole apprestar le braccia fide,
    e poner leggi, e condur l’arti, e guide
far de la copia il suolo e l’onda e i venti,
e offrir se stessi a stabilir le genti,
la prisca etá meravigliando vide.
     Ben de’ lor fatti la beltá decora
contaminò finger profano e stolto,
onde il vulgo s’inganna e il vero ignora:
     ma chi dotto all’etá scoprir sa il volto,
in quelli eroi mille virtudi onora,
che poi Cesare solo ha in sé raccolto.

LVI

IN OCCASIONE DELLA SPERATA PRESENZA DELL’IMPERATORE

GIUSEPPE II ALLA MASCHERATA DEI FACCHINI

[1784.]

     Al lor che in terra ebbe soggiorno Astrea
e un nome sol fu re, padre e pastore,
spesso dinanzi al placido signore
l’innocente scherzar popol solea;
    e fra i liberi giochi alto esprimea
l’anima paga e l’esultante core;
e nel gaudio cornuti sparso al di fuore
la propria lode il reggitor vedea.
     O tu che, intento a rinnovar nel mondo
d’ogni prisca virtú l’esempio altero,
degni lo sguardo a noi volger secondo;
     se da gli scherzi nostri entri al pensiero,
vedrai come ogni cor lieto e giocondo
senta il favor del tuo paterno impero.

[p. 270 modifica]

LVII

IN OCCASIONE D’UNA MASCHERATA DI FACCHINI

PER I REALI DI NAPOLI

[1785.]

I.

     Alto germe d’eroi, cui diè natura,
il popolo ad amar, cor grande e schietto,
si che, dovunque hai d’abitar diletto,
sei del popol tu pur delizia e cura;
    or che concesso è all’insubre ventura
mirar vicino il tuo sublime aspetto,
queste non isdegnar, che il nostro affetto
nuove per gli occhi tuoi pompe figura.
     Ché, se destra incitò tue voglie, pronte
ai forti studi e all’utile fatica,
gente feroce in sul toscano ponte,
     noi mostrerem, ne la sembianza antica,
con mite scherzo a te scesi dal monte,
quant’hai la mente ai dolci sensi amica.

LVIII

2.

     Bella gloria d’Italia, alma sirena,
che non con arte o con fallaci detti,
ma con mille virtú l’anime alletti,
e lieta fai di te l’onda tirrena;
    poi che vento propizio a noi ti mena,
ecco, giá sorti da gli angusti letti,
l’Adda e il Tesin tributo offron d’affetti
a te dell’ampio mar luce serena:
     e noi genti montane in riva scese,
se non perle e coralli, almen natia
preda portiamo al nume tuo cortese.
     Perché Giove due cori a noi non diede?
Ché l’un sarebbe tuo, l’altro saria
intatto all’altra dea, che giá il possiede.

[p. 271 modifica]

LIX

PER CECILIA RENIER TRON

veneziana [1787].

     Grato scarpel, su questo marmo incidi
il fausto di, quando a’ miei lari apparse
colei che, diva de gli adriaci lidi,
chiara fama di sé nel mondo sparse.
    Scrivi qual di virtú, di grazie io vidi,
d’ingegno, di saper luce spiegarse,
e quanta in me di puri sensi e fidi
súbita fiamma inestinguibil arse.
     Scrivi che, se da gli occhi miei fu pronta
gli alti pregi a rapir, pur mi consola
dolce speranza che al partir mi diede.
     Ma se poi le promesse il vento invola
d’Adria pel mar, taci i miei danni; e l’onta
non eternar de la mancata fede.

LX

PER LA VESTIZIONE DI ROSA OLDANI

nel monastero della Beata Vergine Assunta di Vigevano [1787].

I.

     Dove, o pura colomba, affretti il volo
sopra la terra desolata? Vedi
qual diluvio quaggiú sceso dal polo
ogni spiaggia, ogni monte occupi e predi.
    Atro fango e rovina e squallor solo
tutti assorbe i refugi. Ahi! dove credi
sul d’ogni parte maculato suolo
ornai salva posar tuoi casti piedi?
     Ecco l’arca, ecco l’arca! Ella il rapace
flutto non teme e la procella oscura;
e il segno intorno a sé spiega di pace.
     Volgi al grembo di lei, volgi secura
l’ali, o pura colomba. Ivi al ciel piace
a piú lieta serbarti alta ventura.

[p. 272 modifica]

LXI

2.

     — Stolta è costei che in solitarie mura
affrettasi a seguir la steril croce,
e, di patria e d’amor sorda a la voce,
simili a sé di propagar non cura. —
    Tal odo bestemmiar la setta impura,
cui l’appetito a lo intelletto nuoce,
e lungi da le nozze erra feroce
la virtú deturpando e la natura.
     Vergin chiamata a le piú nobil sorte,
sdegna il parlar degli empi, e in atto pio
chiudi al cospetto lor le sacre porte.
     Quei co’ detti e con l’opre a Satán rio
servon costretti; e tu libera e forte
doni te stessa, ostia innocente, a Dio.

LXII

PER LA MONACAZIONE DELLA STESSA

nel monastero della Beata Vergine Assunta in Vigevano [1788?].

I.

     — Non a voi, sorde mura, esposte al danno
e del tempo e de’ casi, ov’io giá il piede
libera posi, or, dopo vólto un anno,
i giuramenti miei sacro e la fede;
    a Dio bensí, che mai non paté inganno,
che nel profondo cor penetra e vede,
e ovunque sièno, in vario albergo e in panno
le giá devote a lui anime chiede. —
     Cosí la vergin saggia. E dal bel velo
le luci alzando a la sacr’ara fisse,
tutta nel volto fiammeggiò di zelo.
     E allor l’Eterno in adamante scrisse
il nobil detto, che sembrò nel cielo
novo d’astri fulgore a i guardi aprisse.

[p. 273 modifica]

LXIII

2.

     Quanti celibi e quanti al mar consegna
la cupidigia de’ mortali! Quanti
ne spinge in guerra all’altrui danno e ai pianti
crudele ambizion, quando si sdegna!
    Quanti ne le cittá la turpe insegna
seguon d’ozio inimico a i nodi santi!
E tu, perversa etá, quei lodi e vanti,
e noi sol gravi di calunnia indegna?
     noi poche verginelle, a cui la face
di caritade accende il divin lume,
e penitenza e solitudin piace?
     noi che, súpplici ognor davanti al nume,
sul popolo invochiam dovizia e pace
e custode a le leggi aureo costume?

LXIV

A SILVIA CURTONI VERRÀ

[marzo 1789.]

<poem>

Silvia immortai, benché da i lidi miei lontana il patrio fiume illustri e coli; e benché dentro a i gorghi atri letei ogni dolce memoria il tempo involi; pur con lo ingegno, onde tant’alto voli, e con le vaghe forme e i lumi bei, dopo si lungo variar di soli, viva e presente nel mio cor tu sei. E spesso in me la fantasia si desta, tal che al di chiaro e ne la notte bruna te veggio, e il guardo a contemplar si arresta. Né ben credendo ancor tanta fortuna, palpito e grido: — O l’alma Silvia è questa, o de le Grazie o de le Muse alcuna. — [p. 274 modifica]

LXV

PEL RITRATTO DI MARIA BEATRICE D’ESTE

scolpito da Giuseppe Franchi [1789].

1. — Parla la figlia Teresa duchessa d’Aosta.

     Ben ti conosco al venerando aspetto
ai tratti egregi onde sorprendi e bei,
augusta madre mia, che fosti e sei
somma del mio pensier gloria e diletto.
    Ma dove i baci, ove il soave al petto
stringermi e il suon dell’alma voce e i bei
detti e i consigli, che guidáro i miei
primi sensi e desiri al vero e al retto?
     ove il continuo folgorar potente
de’ grandi esempi, che rendean si presto
l’animo a gir sull’orma tua lucente?
     Ah vaneggiai! Subitamente desto
dall’arte, il cor fe’ lusingar la mente.
Madre, sei lungi: e un falso marmo è questo.

LXVI

2. — Risposta della madre.

     Questa, che le mie forme eterne rende
e a cui con grato error volgi le ciglia,
opra gentil, sia pegno eterno, o figlia,
dell’amor che per te saldo m’accende.
    E se il tuo cor, che si felice apprende,
non piú la voce mia regge o consiglia,
non ti doler; poiché ardimento ei piglia
dal tuo senno maturo, e in alto ascende.
     Che se al colmo di gloria andar tu vuoi,
lungi da me che breve corso adempio,
avrai nobil cimento ai voli tuoi;
     tale il ciel ti donò splendido esempio,
in questa ove tu sei reggia d’eroi,
d’ogni eccelsa virtude asilo e tempio.

[p. 275 modifica]

LXVII

PER MARIA BEATRICE D’ESTE (?)

[1789.]

     Ardono, il credi, al tuo divino aspetto,
alma sposa di Giove, anco i mortali:
tai da le bianche braccia e dal bel petto
e da i grandi occhi tuoi partono strali;
    e ben farsi oserien ai numi eguali
fuor dimostrando il lor celato affetto,
se al fervido desire il volo e Tali
non troncasser la tema ed il rispetto.
     Ission, che nel cor la violenta
fiamma non seppe contenere, or giace
sopra la rota, e i voti altrui spaventa:
     ma, se il caso di lui frena ogni audace,
non è però che i pregi tuoi non senta
piú d’un’alma gentil, che adora e tace.

LXVII I

ALLA PRINCIPESSA GIUSEPPA TERESA MARIA DI CARIGNANO

in nome del marchese Molinari che giá l’aveva ospitata in una sua villa [1790].

     Se a me il destin di celebrar contende
nel tuo cospetto, inclita donna, il giorno
che a te diè vita, e fece il mondo adorno
d’ogni pregio e virtú che in ciel risplende;
    gradisci almen quel che da lungi ascende
puro mio culto al tuo regai soggiorno,
e gl’inni accogli onde sonar fo intorno
l’eco silvestre che il tuo nome rende.
     Sai che indegni di te piú non son questi
lari e le tazze che di vini or empio
te festeggiando in fra gli amici onesti;
     poi che del prisco Filemon l’esempio
ospite nume ritornar qui festi,
e la capanna mia cangiasti in tempio.

[p. 276 modifica]

LXIX

PER NOZZE G. B. LITTA-BEATRICE CUSANI

[carnevale 1793.]

     Fingi un’ara, o pittor. Viva e festosa
fiamma sopra di lei s’innalzi e strida:
e l’un dell’altro degni, e sposo e sposa,
qui congiungan le palme; e il genio arrida.
    Sorga Imeneo tra loro; e giglio e rosa
cinga loro a le chiome. Amor si assida
sulla faretra; e mentre l’arco ei posa
i bei nomi col dardo all’ara incida.
     Due belle madri al fin, colme di pura
gioia, stringansi a gara il petto anelo,
benedicendo lor passata cura:
     e non venal cantor sciolga suo zelo
a lieti annunci per l’etá ventura:
e tuoni a manca in testimonio il cielo.

LXX

IN OCCASIONE DI UN «TE DEUM»

per le vittorie sui francesi del 1793.

     Viva, o Signor, viva in eterno, viva
l’alta stirpe reai, ch’ami e proteggi.
Per lei nel popol tuo stan le tue leggi
e il sacro foco sul tuo aitar si avviva.
    Pari al cedro, o Signor, pari all’oliva,
lo scettro salutare onde ne reggi
e fiorisca e si spanda, e in novi seggi
germini altero ovunque il sole arriva.
     Odi propizio. A te preghiam, Signore;
non per superbia no, ché al sol tuo fiato
va qual polvere vii dispersa a i venti;
     ma perché il mondo, al par di noi beato,
de’ benefici tuoi provi il maggiore,
e il santo nome tuo cantin le genti.

[p. 277 modifica]

LXXI

MANDANDO UN ESEMPLARE DELLE SUE ODI

ALLA CONTESSA MARIA CASTELBARCO nata LITTA

[1793?]

     Rapi de’ versi miei picciol libretto
Amor, non sazio mai di furti e prede;
e me schernendo a seguitarlo inetto
fuggissi a volo; e a Citerea lo diede.
    E disse:—O madre, a te sia il dono accetto,
benché non molta in questi carmi ho fede:
se non mentisce del cantor l’aspetto
e l’usurpata chioma e il debil piede.
     E tu ben sai che la tua bella face
tardo inspirò di poesia furore
di Teo soltanto al vecchiarei vivace. —
     Rise la dea: di vago almo colore
si tinse; e replicò: —Tutto a me piace
quel che mi vien da le tue mani, Amore.—

LXXII

PER LA NASCITA DI FERDINANDO

primogenito dell’imperatore Francesco 1 d’Austria [1793].

     Pari a fumo d’incenso i nostri voti
giunsero al cielo: e Dio ne fe’ sua cura.
— Ecco, — dice il Signore, — andrá secura
la stirpe ch’io proteggo, a i di remoti.
    Or son del regno i fondamenti immoti;
forte il mio braccio ne sostien le mura;
mia veritá, che nebbia non oscura,
e la giustizia mia saran sue doti.
     Sdegno non fia ne la cittá; l’orgoglio
tornerá infranto del nemico esterno,
come flutto del mare incontro a scoglio.
     Pace e felicitá dal ciel superno,
quasi nembo di manna, e sopra il soglio
e sopra il popol mio, cadrá in eterno. —

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LXXIII

LE AVVENTURE DI SAFFO

Tema dato alla improvvisatrice Teresa Bandettini l’1 aprile 1793.

     — Poi che tu riedi a vagheggiar dell’etra,
inclita Saffo, ancor gli almi splendori,
e cosí dolce ancor fiedi la cetra,
ove gli antiqui tuoi spiran calori,
    se la immagin crudel te non arretra,
dinne tu stessa i disperati amori,
onde nel mar da la leucadia pietra
cadesti, odiando i giá si grati allori.
     Ché se i duri tuoi casi uditi altronde
fan che tu sei tanto lodata e pianta,
che fia l’udirli dal tuo sacro ingegno? —
     Ma giá l’estro la invade. Ampia diffonde
fiamma da gli occhi; e di tacer dá segno.
Ecco: l’inclita Saffo ecco giá canta.

LXXIV

EL MAGON DII DAMM DE MILAN

per i baronad de Franza [1793].

     Madamm, gh’ala quaj noeuva de Lion?
Massacren anch’adess i pret e i fraa
quij soeu birboni de franzes, che han traa
la legg, la fed e tutt coss a monton?
    Cossa n’è de colú, de quel Petton,
che ’l pretend con sta bella libertaa
de mett insemina de nun nobiltaa
e de nun damili tutt quant i mascalzon?
     A proposit; che la lassa vedè
quel capell lá che g’ha dintorna on veli:
eel staa inventaa dopo che han mazzaa el re?
     Eel el primm, ch’è rivaa? Oh bell! oh bell
Oh i gran franzes! Besogna dill, no gli’è
popol, che sappia fa i mej coss de quell.

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LXXV

PER NICOLA ZINGARELLI

[1793.]

     Al maestro Nicola Zingarelli
compositor di musica eccellente,
che pregi singolari ha nella mente
e nobili costumi unisce a quelli;
    perché questi di culto atti novelli
consecrati a la Vergine dolente,
per sola cortesia, liberalmente,
degnò con l’opra sua render piú belli;
     e, col mirabil estro che lo investe,
scrisse di nuovo, e ai nostri monti ascese,
ed esegui una musica celeste;
     fa in questi versi, perché sia palese,
d’eterna gratitudine proteste
il popolo e la chiesa di Varese.

LXXVI

PER UN TE DEUM

da cantarsi in ringraziamento delle vittorie degli Austro-Russi sui Francesi

[15 agosto 1799.]

     Predáro i Filistei l’arca di Dio;
tacquero i canti e l’arpe de’ leviti,
e il sacerdote innanzi a Dagon rio
fu costretto a celar gli antiqui riti.
    Al fin di Terebinto in sul pendio
Davidde vinse; e stimolò gli arditi;
e il popol sorse; e gli empi al suol natio
fe’ dell’orgoglio loro andar pentiti.
     Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo
e l’arca è salva; e si dispone il tempio
che di Gerusalem fia gloria e vanto.
     Ma splendan la giustizia e il retto esempio;
tal che Israel non torni a novo pianto,
a novella rapina, a novo scempio.