Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro I/Capo III

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Capo III - Eloquenza

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Capo III.

Eloquenza.

I. L’eloquenza portata da Cicerone e da alcuni altri oratori che con lui vissero, alla sua maggior perfezione, fin da’ tempi d’Augusto, avea cominciato a decadere assai. Di questo decadimento abbiamo esaminata l’origine e le cagioni nel precedente volume (V. t. 1. p 3c)9, ec.), e abbiamo osservato che gran parte certo vi ebbe la diversa costituzione della repubblica, ma assai più il capriccio degli oratori, e il desiderio di andare innanzi in gloria a que’ che gli aveano preceduti. Questo nuovo e vizioso genere di eloquenza, il cui pregio era riposto singolarmente in un affettato raffinamento di pensieri, in uno smodato uso di sottigliezze che talvolta erano ingegnose, ma per lo più insipide e fredde, e in una cotaa’aria di maraviglioso, sotto cui travestivansi i più ordinarii sentimenti; questo nuovo genere, dico, di eloquenza usato e commendato da uomini che pel loro ingegno e sapere aveansi a ragione in gran pregio, e non combattuto dalla disapprovazione del popolo che appena avea allora occasione di mostrare col fatto qual conto facesse degli oratori, piacque per la sua medesima novità; e, come suoa’avvenire, tutti s’invaghirono di battere la nuova strada che vedeansi aperta innanzi; e tanto più eh1 ella aveva l’apparenza di più difficile assai, e perciò assai più gloriosa di quella che battuta avevano i i. Ragioni" principali del dei udiineuto delI’ eloquenza dopi„ la morie di Auu&lo. [p. 160 modifica]n. Dialogo antico su questo argomento: non ne è autore tic Tat ito ne Quiutiliauu. loro predecessori. Avvenne al medesimo tempo, come nella Dissertazion preliminare si è osservato, che il gran numero di stranieri che da ogni parte dell’impero accorrevano a Roma, cominciò ad alterare la purità del linguaggio, e un non so che di rozzo , di aspro e d’incolto s1 introdusse nel favellar de’ Romani, che crescendo ogni giorno più lo condusse finalmente a quella barbarie a cui lo vedrem giunto ne’ secoli susseguenti. Così tutte le circostanze concorsero a rendere sempre maggiore il decadimento dell’eloquenza. Noi dobbiamo ora vederne e esaminarne i progressi che appartengono all’epoca di cui trattiamo; in cui vedremo la romana eloquenza decadere bensì, ma di tanto in tanto far qualche sforzo per sollevarsi ancora, per modo che si potesse sperare di vederla un giorno risorgere, se più felici stati fossero i tempi che venner dopo. II. Innanzi ad ogni altra cosa vuolsi qui esaminare ciò che appartiene all’antico Dialogo intitolato De Caussis corruptae Eloquentiae, che or tra le opere di Quintiliano, or tra quelle di Tacito si vede stampato, da cui molto possiam raccogliere intorno a questo argomento. Chi siane l’autore, non è facile a stabilire. Da alcuni credesi Quintiliano, da altri Tacito; ma quasi tutti convengono che nulla si può affermare di certo. Io credo anzi che si possa affermar con certezza che nè all’uno, nè all’altro non si può attribuire. E quanto a Tacito, io confesso che non so indurmi ad abbracciare il parere di quelli che nel fanno autore. Al sol leggerne due, o tre periodi, a me pars di [p. 161 modifica]scorgervi uno stile diverso per tal maniera da quel di Tacito, che ancorchè io non reputi comunemente troppo forte l’argomento preso dalla diversità dello stile, in questo caso nondimeno , parmi, direi quasi, impossibile che lo scrittor del Dialogo sia lo stesso che lo scrittor della Storia e degli Annali. Inutilmente stancasi il Salinerio (Not. ad luuic Diai) nelf am lare ili cerca di alcune frasi delle Storie di Tacito, che incontransi ancora in questo Dialogo. Qual autore vi è mai in cui non trovinsi espressioni da altri usate? A questa maniera un’epistola di Seneca potrebbe dirsi scritta da Cicerone, Ma egli è certo che in questo Dialogo non trovasi punto della precisazione, della forza, dell’oscurità, dell’antitesi, del sentenziar concettoso di Tacito. Lo stile è dolce, facile, sciolto, e tale che se non vi fossero alcune espressioni che sanno di età più tarda, potrebbesi credere a ragione un componimento del secol di Cesare, o di Augusto (14). Questa difficoltà non è ugualmente (•)■) Il P. Rrotier, della cui bella edizione di Tacilo venutami tardi alle mani parlerò nel Capo seguente, crete e sostiene die Tacito sia l’autor del Dialogo, e alla difficolta principale che è la diversità dello siile , risponde die probabilmente egli lo scrisse in eia giovanile. Che Tacito fosse giovane, quando si tenne il Dialogo, cioè nel sesto anno di Vespasiano, non può negarsi; essendo egli nato verso l’anno (io, come vedremo , e cad ndo il sesto anno di questo impera ore nel 7 ». Ma che l’autor lo scrivesse in eli g.ovamle, non panni che si possa basi antemente provare. Certo ei parla in modo m Ila introduzione, cui recheremo TiRABOSCBI, Voi li. i t [p. 162 modifica]l62 LIBRO forte per riguardo a Quintiliano, il cui stile, benchè non sia sì colto come quello del Dialogo, non è però sì diverso che non possa egli ancora credersene autore. Ma altre ragioni ci vietan di farlo. Il Dodwello (Ann. Quint 11, 28) molte ne arreca, di cui due sole io accennerò brevemente. Quintiliano dice (l. 8, c. 6) di aver lungamente trattato dell’iperbole nel libro in cui ha esposte le ragioni del decadimento dell’eloquenza. Sed de hac satis , quia eumdem locum plenius in eo libro quo caussas cormptae eloquentiae reddebamus, tractavinius. E queste son le parole che hanno condotti alcuni a credere Quintiliano autor di questo Dialogo. A dir vero però, da queste parole medesime si prova la falsità di tale opinione. Perciocchè intorno all’iperbole nulla veggiam nel Dialogo di cui trattiamo, il quale anzi è di tutt’altro argomento, che delle figure usate dagli oratori. Ma a questo Dialogo, dicono alcuni, un altro doveva esser congiunto; poichè nel finir di esso si fa qualche cenno di voler tornare sulla frappoco , elie sembra indicare esser già trascorso non poco tempo. dacché egli era intervenuto al Dialogo, inoltre egli è vero che spesso 1111 autore medesimo in diverse età e in occasioni diverse usa di diverso stile; ma appena è mai che non vi si vegga una maniera di pensare e di scrivere assai somigliante, trattone allor quando si voglia studiosamente contraffare lo stile; il che io non veggo per qual ragione si volesse fare da Tacito. Confesso n‘>ndimeno che il vedere il I1. Tìrotier, uomo si lungamente versato nella lettura non sol di Tacito , ina di tutti gli antichi autori. essere ili parere contrario al mio, mi renile assai più incerto e dubbioso eh’ 10 dapprima non fossi su questo. [p. 163 modifica]stessa materia. Sì certo, ma sulla stessa materia appunto, cioè ad illustrare le cose che potessero sembrare oscure nel tenuto Dialogo, non a trattare di un argomento di cui nello stesso Dialogo non erasi fatto motto. Inoltre f autor del Dialogo narra eli’ egli assai giovane udì disputare tra loro i personaggi che in esso ragionano 5 e il Dialogo si suppone tenuto l’anno sesto dell’impero di Vespasiano. Or il Dodwello (loc. cit.) con buone ragioni ha mostrato che Quintiliano avea allora trentadue, o trentatre anni; nè poteva perciò dirsi giovane assai, admodum juvenis. III. Nè a Quintiliano dunque, nè a Tacito non si può fondatamente attribuire questo Dialogo. Una nuova opinione sull’autore di esso hanno proposta gli eruditi Maurini, autori della Storia Letteraria di Francia, i quali hanno pensato (t. 1, p. 218. ec.) che Marco Apro uno degl’interlocutori del Dialogo ne sia anche l’autore. Di quest’uomo altre notizie noi non abbiamo, se non quelle che in questo stesso Dialogo viene egli introdotto a dare di se medesimo. Da esso noi ricaviamo che egli era nativo delle Gallie, poichè le chiama col nome di nostre: de Gallis nostris (n. 10)5 che, benché fosse nato in città, come ei dice, poco favorita, era nondimeno giunto a ragguardevoli cariche nella repubblica; e ch’era stato questore, tribuno, pretore, e che assai di spesso e volentieri si esercitava in trattare le cause (n 7). Ei narra ancora (n. 17) ch’egli avea veduto nella Gran Bretagna un vecchio il quale avea ivi combattuto contro di Cesare, in. Nè Marco Apro. [p. 164 modifica]il che accadde l’anno di Roma 698, cioè 56 anni innanzi l’era cristiana, cominciandola dall1 anno di Roma E da quest epqpa argomentano i Mauri ni che Apro dovette andarsene in Brettagna verso l’anno 30 dell’era cristiana, essendo egli in età di circa 20 anni; da che ne viene che nel sesto anno di Vespasiano, in cui si tenne il Dialogo, che cade nell’anno 74 ei dovea avere circa 64 anni di età. Egli è assai difficile il conciliare insieme quest’epoche, quando non vogliasi dire che il soldato brettone, che avrà certo avuto almen 15 anni quando combattè contro Cesare, campasse oltre a cento anni; perciocchè dalla discesa di Cesare nella Brettagna, accaduta 56 anni innanzi all’era cristiana, fino all’anno 30 della stessa era, egli è evidente che passarono 86 anni. Ma non è questo punto di sì grande importanza , che ci convenga il disputarne più lungamente. Veggiamo anzi quali ragioni si adducano da’ dotti Maurini a provare che Apro sia l’autore del Dialogo. Questo, dicono essi, è indirizzato a stabilire il sentimento di Apro, cioè che l’eloquenza de’ tempi suoi sia più pregevole che l’antica di Cicerone e degli altri di quella età: c est, così essi medesimi, c’est par où déhute /’auieur da Dialogue avec une espece de triomphe. Questa opinione di Apro,.continuano essi, vi e’ sostenuta con più calore che la contraria; e se Apro non replica alle ragioni dagli altri contro di lui allegate, ciò deesi attribuire all’essere perita la seconda parte di questo Dialogo, che probabilmente sarà stata una risposta a ciò [p. 165 modifica]che nella prima parte erasi disputato. Gli altri ancora , benchè sostenitori di altro parere, fanno nondimeno gran plauso al discorso di Apro. Finalmente più circostanze si toccano della vita di Apro, che non degli altri che a questo Dialogo hanno parte. Tutte queste ragioni, ancorchè fossero vere, poco nondimeno gioverebbono, a mio credere, a stabilire una tale opinione. Ma l’esattezza e l’erudizione di questi rinnomati scrittori ci permetterebbe ella di nemmen sospettare che in questo Dialogo appena vi fosse alcuna di quelle cose ch’essi asseriscono? Eppure, o io nulla intendo di espressione latina, o certo vi trovo anzi in molte cose tutto il contrario. Donde raccolgono essi che lo scopo dell1 autor del Dialogo sia d’innalzare la moderna eloquenza sopra l’antica? E quale è mai questa introduzione in cui con una specie di trionfo si propone un tal sentimento? Eccola fedelmente tradotta: Spesse volte, o Giusto Fabio, mi chiedi, per qual ragione, mentre i passati secoli per F ingegno e pi r la gloria ih gli ora/or sono stati sì illustri, la nostra età priva in tutto e spogliata di cotal lode ritenga appena lo stesso nome di oratore p rciocche con qiu’ sto nome non chiami ani solo gli antichi: gli uomini eloquenti de’ nostri tempi chiamansi causidici, avvocati, patrocinatori, e con qualunque altro nome fuorchè con quel di oratori Appena ardirei io di soddisfare a cotesta tua dimanda, e di entrare in sì grande quistione in cui ci conviene giudi ar poco favorevolmente o dell ingegno degli uomini di questa età, se essi non possono [p. 166 modifica]uguagliare gli antichi, o del loro giudizio, se essi nol vogliono; appena, dico, ardirei di trattarne, se io dovessi esporre il parer mio, e non anzi ripetere il discorso su ciò tenuto da uomini per l’età nostra eloquentissimi; i quali udii già, essendo io ancora assai giovane di ciò disputare (15). Così egli, e prosiegue dicendo eli’ egli riferirà precisamente e sinceramente i lor sentimenti; perciocchè, dice, non mancò ancora chi fosse di contrario parere, e disprezzati e derisi i tempi antichi, cinti ponesse a quella et allora la moderna nostra (j-) “ Saepe ex me requiris. Jnste Fabi, cur cum « priora saccola tot eminentium oratorum ingeuiis ii gloriaque elfloruerint, nostia potissunum aetas lieti seria et lande orbala vix nomen ipsum oratori* reti tineat: ncque eumi ita appellamus Disi antiqnos: lto^ rum autem teinpornm diserti, caussidici, et advocati, ti et patroni, et quodvis potius qnarn oratores vocanii tur. Cui percunclationi luae ri spondere, et tam ma.1 gnae quaestionis pondus excipere, ut ani de ingeuiis ii nnslris male existuTiandum sit, si idem assequi mn ii posstimus, atit de judiciis, si nolumus, vjx liereule a auderera , si mea senientia prolerenda, ac non diti sertissimorum, ut nostri* temporibus, liominuin sermo <• repetendus esset, quos tandem liane quaestionem perii tractantes juvenis adniodum audivi. Ita non ingenio, n sed memoria ac recordatione opus est, ut quae a « prestantissimi* viris et excogitaia sobilli ter, et dieta « graviter accepi, cum singoli diversa*, vel easdem « sed probabdes caussas atterri ut, di un formam sui « quisque et animi et ingenii redderet, iisdem nuuc « numeri* iisdemque rationibus persequar servato orli dine < isputatioms, ncque enim defuit, qui diversam ■i quoque partem susciperet, ac multimi vexata et irti risa vrtustate, noslrorutn teuiporum eloquentiaiu anu tiquonun ingeuiis antei’ crret ». [p. 167 modifica]eloquenza. E egli questo il trionfo con cui i autor del Dialogo s’introduce a preferir la moderna all’antica eloquenza? E non mostrasi anzi egli del parer medesimo di cui era Giusto Fabio al quale scrive? Come dunque si prova che il Dialogo sia indirizzato a sostener l’opinione d’Apro, che l’eloquenza allora usata dovesse preferirsi a quella di Cicerone? Ma Apro sostiene il suo parere con più calore che gli altri. Così appunto avviene a chi intraprende a difendere cattiva causa; che col fuoco della contesa cerca di coprire la debolezza delle ragioni. In fatti leggasi la risposta che nello stesso Dialogo gli vien fatta, e giudichi ognuno a cui piace, qual parte sia meglio sostenuta. Anzi Materno, uno degl’interlocutori , dice che Apro non era già di quel sentimento che disputando avea sostenuto, ma che solo per seguire l’ordinario costume delle dispute avea preso il partito di contradire (n. 24)• Dove poi hanno trovato i dotti Maurini che Apro rispondesse alle ragioni contro di lui recate? Pare, è vero, che un secondo Dialogo si prometta; ma solo a meglio dichiarare le cose che Materno il più forte impugnatore di Apro avea dette. Apro non fa cenno di voler replicare, e solo scherzevolmente dicendo ch’egli avrebbe accusati i suoi avversarj a’ retori ed agli scolastici, di cui avean favellato con molto disprezzo, insieme cogli altri sen parte. È vero ancora che gli altri fan plauso al favellare di Apro. Tale è l’onesto costume delle erudite contese che si fanno tra’ amici; ma dopo l’applauso tutti e tre gli altri interlocutori, [p. 168 modifica]IV Alaterno. Messala, Materno e Giulio Secondo , combattono fortemente il parere da lui sostenuto. Finalmente se alcuna cosa vi si tocca della vita di Apro, più ancora vi si parla di ciò che appartiene a Materno, come potrà vedere chiunque prenda a leggere il mentovato Dialogo. Non vi ha dunque ragione alcuna che ci renda probabile l’opinione de’ sopraddetti scrittori. Anzi è evidente che dicendo l’autor del Dialogo , ch’egli era giovane assai, quando esso si tenne, questi non può certo essere Apro che, come si è detto, avea allora circa 6.4 anni di età. I Maurini escono da questa difficoltà con un felicissimo scioglimento. Apro, dicono, finse così per tenersi occulto. Ma a qual fine? Se egli, come pensano i Maurini, scrisse per antiporre i suoi tempi agli antichi, non dovea anzi sperarne lode? Innoltre Apro vuol tenersi occulto, e poi indirizza il suo libro a Giusto Fabio suo amico, uomo che certo vivea, poichè fu amico ancora di Plinio il Giovane Plin. l. 1, ep. 11; l. 7, ep. 2)? Chi mai, non volendo essere conosciuto autor di un libro, ne fe’ la dedica ad uno che gli fosse congiunto per amicizia? IV. Nulla migliore è il fondamento a cui si appoggia un’altra opinione proposta da M. Morabin nella prefazione premessa a questo Dialogo da lui recato in francese, e pubblicato l’anno 1722. Ei ne fa autore Materno, uno degl’interlocutori del Dialogo. Osservisi, dice egli, lo scopo principale di esso. Si vuole in somma mostrare che la cagione del decadimento deli’ eloquenza è veramente la condizione [p. 169 modifica]de’ tempi, come si raccoglie da varj tratti satirici e mordenti ne’ quali occultamente si prende di mira l’imperador Vespasiano. Or questo prurito di mordere e di satireggiare era proprio di Materno. In fatti nel principio del Dialogo si accenna che in qualche tragedia egli avea offeso gli animi de’ potenti; ed egli, non che mutare stile, si dichiara di aver composta un’altra tragedia in cui avea inseriti alcuni passi di tal natura, a cui nell’altra non avea potuto dar luogo. E questo suo prurito di mordere gli fu poscia fatale, poichè, secondo Dione, ei fu perciò da Domiziano dannato a morte. Benchè a me non sembri di trovare in questo Dialogo que’ tratti satirici contro di Vespasiano, che vi ha trovato M. Morabin, egli è vero nondimeno ciò che di Materno ei narra , ed è vero ancora che in esso il decadimento dell1 eloquenza si attribuisce singolarmente alla condizione de’ tempi. Ma è egli questo un argomento bastevole a conchiudere che Materno ne sia l’autore? Confessa M. Morabin che questi non dovea essere molto giovane nel sesto anno di Vespasiano. Ma risponde egli pure, come han poscia fatto i Maurini per riguardo di Apro, che il dirsi dall’autor del Dialogo ch’egli era allora assai giovane, è una finzione del medesimo autore per tenersi occulto. La riflessione che fatta abbiamo di sopra parlando di Apro, vale qui ancora; poichè non avrebbe Materno, volendo occultarsi, indirizzato il Dialogo ad un suo amico, e conosciuto in Roma, qual era Giusto Fabio. In somma non abbiamo su questo punto lume [p. 170 modifica]bastante a conoscere dii sia l’autore di quest« per altro assai pregevole operetta. Unicamente possiamo assicurare eli’ essa fu scritta circa i tempi di Traiano; perciocchè vi si parla degli interlocutori, come d’uomini già trapassati. Or Materno ,come abbiam detto, fu ucciso sotto Domiziano; e Giulio Secondo, mentre Quintiliano scriveva le sue Istituzioni al tempo di Domiziano, era già morto, come egli stesso afferma (l. 10, c. 1). V. Ma se nulla possiamo determinare intorno all’autor del Dialogo, ben possiamo utilmente valerci di molte notizie che intorno allo stato dell’eloquenza di questi tempi esso ci somministra. A due capi si posson esse ridurre; a’ vizj introdotti nell1 eloquenza, e alle cagioni per cui questi vizj si erano introdotti. Di queste non giova qui favellare; poichè lungamente ne abbiam già trattato e nel precedente volume ove abbiam esposto il dicadimento dell’eloquenza seguito a’ tempi d’Augusto, e nella Dissertazione preliminare premessa al presente volume. Basterà dunque che osserviamo ciò che appartiene a’ vizj introdotti nell’eloquenza di questi tempi, aggiungendo ancora ciò che sull’argomento medesimo ha Quintiliano in più luoghi delle sue Istituzioni. VI. L’affettazion dello stile e ’l raffinamento de’ sentimenti era giunto a tal segno, che l’autor del Dialogo afferma (n. 26) che quando pur si dovesse necessariamente abbandonar la strada segnata da Cicerone, egli vorrebbe tornare all’antica severità di C. Gracco e di L. Grasso, che abbracciare l’affettata mollezza [p. 171 modifica]di Mecenate e di Gallione (fratello del filosofo Seneca (16); e che meglio sarebbe che l’oratore di una ispida toga si rivestisse, che non di abiti a onesta persona non convenienti. Neque enim, dic’egli con espressioni certo enfatiche, oratorius iste, immo hercule ne virilis quidem, cultus est, quo plerique temporum nostrorum oratores ita utuntur, ut lascivia verborum et h vitate sententiarum et licentia compositionis histrionales modos exprimant, quodque vix auditu fas esse debeat, laudis et gloriae et ingenii loco plerique jactant cantari saltarique commentarios suos. Unde oritur illa foeda et proepostera, sed tamen frequens quibusdam exclamatio, ut oratores nostri tenere dicere, histriones diserte saltare dicantur. Ma veggasi singolarmente il lungo passo che su questo argomento medesimo ha Quintiliano (proem l 8), il quale con gran forza inveisce contro f introdotto abuso di ripetere e travolgere in più guise e sempre più raffinare lo stesso pensiero, e di lasciare le maniere usate di favellare per valersi delle più strane, credendo, com’egli dice, di essere ingegnosi allor solamente quando ad interderci conviene usare l’ingegno; e dopo aver rammentato il saggio avviso di Cicerone, che gran difetto si è l’allontanarsi nel ragionare (*) 11 sig. ab. Lampillas m’interroga (l. i, p. 89) onde abbia io avuta la notizia che quel Gallarne, eli cui l’autor del Dialogo sul decadimento dell" eloquenza riprende lo stile, sia fratello del filosofo.-eneea. La risposta è pronta: legga egli il suo Nircolò Antonio {Bibl. Hisp, /. 1 , c.6) e vedrà onde io l’ubbia tratta. [p. 172 modifica]VII. Aliuso delle suasorie «delle ronlroversic. dalle ordinarie maniere di dire, e di andar contro al comun senso degli uomini; ma egli prosiegue con amara ironia, egli era uom rozzo ed incolto, e ben migliori.siam noi, a cui vengono a noia tutte le cose che dalla natura ci vengono insegnate. VII. Un altro abuso che dall1 autor del Dialogo si riprende, si è quello delle suasorie, delle controversie e delle declamazioni in cui allora si esercitavano i giovani. Non già che tali esercizj fosser dannosi; che anzi abbiamo veduto che la declamazione da Cicerone e da altri dottissimi uomini anche in età matura fu praticata; ma perchè erano il solo mezzo che a formarsi alla eloquenza si adoperava, e perchè questo mezzo ancora non usavasi in quella maniera che convenuto sarebbe a renderlo vantaggioso. Sembra che l’autore distingua l’una dall1 altra le tre suddette maniere d’esercitarsi; perciocché dice (n. 35) che le suasorie eran proprie dei fanciulli; le controversie de’ giovani più provetti, e a queste poi aggiugnevasi ancora la declamazione Checchessia di ciò, ei si duole che questa sola fosse la scuola in cui da’ giovani apprendevasi f eloquenza coll1 istruzione de1 relori, uomini che non aveano giammai avuto gran credito in Roma; e che inoltre tali argomenti si proponessero a esercitarsi, quali appena mai si offerivano a disputarne nel foro. E veramente basta leggere gli argomenti delle declamazioni e delle controversie attribuite a Quintiliano e di quelle di Seneca, per intendere quanto ragionevole sia il dolersi che fa di tale abuso l’autor del Dialogo. [p. 173 modifica]Quintiliano ancora di ciò si duole: e che giova, dice (l. 12, c. 11), lo starsi per tanti anni, come fanno moltissimi, declamando nelle pubbliche scuole, e affaticarsi tanto intorno a cose false, mentre ci può bastare l’apprendere in poco tempo le leggi di ben parlare? Se a questi tempi visse Petronio lo scrittor della Satira mentovata di sopra, una somigliante pittura ci ha fatta egli pure di cotali inutili esercizi allora usati, Io penso, ei dice (Satyr. c. 1), che nelle scuole i giovani divengano in tutto stolti; perciocchè nè veggono , nè ascoltan nulla di ciò che suole comunemente ari adì re; ma solo corsari che con catene stanno sul lido, e tiranniche comandano a’ figli di troncare il capo a’ lor genitori, e oracoli renduti in occasione di peste coll’ordine if immolare tre, o anche più vergini. Il più strano si è , che lo stesso Seneca il retore, da cui abbiam ricevute molte di cotali declamazioni, confessa ei stesso che il declamare non recava vantaggio alcuno; e che anzi avveniva il più delle volte che alcuni dopo essersi in ciò esercitati per lungo tempo, passando poscia a perorare innanzi a’ giudici, appena parevano saper parlare. Avvezzi a ragionare solamente tra le pareti domestiche e innanzi a’ giovani loro uguali, che volendo essere applauditi da tutti, applaudivano a tutti, e a trattare argomenti finti a capriccio, e nulla somiglianti a quelli che agitavansi ne’ tribunali, appena entravan nel foro, e vedevansi in un arringo tanto più pericoloso alla lor fama, impallidivano, si turbavano; e que’ che erano stati in addietro declamatori eloquenti, mostravansi freddi e languidi oratori (proana. I. 4 Contros>.). [p. 174 modifica]Vili. Tale era, a’ tempi di cui parliamo, lo) stato dell’eloquenza in Roma; e se ci fosser rimaste le orazioni di alcuni di quegli oratori noi potremmo ancora giudicare più facilmente del lor carattere. Ma nulla se n’è conservato; e i soli scritti appartenenti all’eloquenza che sieno fino a noi pervenuti , son que’ di Seneca il retore, di Quintiliano, di Calpurnio Flacco, e il celebre Panegirico di Plinio. Di questi adunque ci convien qui favellare, ed esaminare ciò che ad essi appartiene. Non fa d’uopo, io credo, che mi trattenga a provare la distinzione tra M. Anneo Seneca il retore e L. Anneo Seneca il filosofo di lui figliuolo. Non v’ha al presente tra gli eruditi chi ne muova alcun dubbio. Basti solo il riflettere che Seneca il retore visse a tal tempo, come or ora vedremo, che avrebbe potuto udir Cicerone, ucciso circa 40 anni innanzi all’era cristiana, e il filosofo fu ucciso sotto Nerone l’anno 65 della stessa era. Ei fu nativo di Cordova in I,spaglia per comun consenso degli scrittori, e per espressa testimonianza di Marziale (l. 1, epigr. 62) e di Sidonio Apollinare (Carm. 9). Ei dovette nascere verso il fine del settimo secol di Roma, perciocchè ei narra di se medesimo (procenk i. 1 Conlrov.) che uditi avea i più famosi oratori che a’ tempi di Cicerone eran vissuti; e che avrebbe ancor potuto udire il medesimo Cicerone,- se il furor delle guerre civili non l’avesse costretto a starsene lungi da esse nella sua patria. Convien dire però che dopo il fine delle stesse guerre ei venisse a Roma; poichè ei narra (proœm. in l. 4 Excerpta Controv.) [p. 175 modifica]che udito avea Asinio Pollione, e quando era nel fior dell’età, e quando era già vecchio. Or Asinio Pollione morì, secondo la Cronaca Eusebiana, nove anni prima d’Augusto in età di 70 anni, e perciò è probabile che Seneca venisse a Roma circa treni’ anni innanzi (*). (*) L’ah. Lamp’llas giustamente riflette (t. i,p. -8, ec.) che se Seneca il retore v enne a Roma trcn-lanove anni innanzi alla morte di Augusto, come io qm ho affermato, e se più non ne fece partenza, non si può facilmente spiégare come gli nascessero in Cordova i figli Lucio.Seneca il lìlosofo, Novato e Vela, che nacquero in Cordova molti anni dopo quell’epoca. Decsi dunque correggere questo passo dilla min Storia. « E a conciliare 1" epoche della vita di Seneca il retare si può supporre ch’egli nascesse circa do anni prima dell’era cristiana; che venutp a Roma dopo il triumvirato vi stesse più anni; che tornasse in Ispagna circa dieci anni prima dell’era cristiana, quando Pulitone, morto circa il sesto anno dell’era stessa, era giù vecchio, e quando Augusto contava circa trenlacinque anni d" impero , poiché la detta era comincia all’anno xlv di esso, e quando perciò poteva Seneca il retore avere uditi gli altri retori di quell’età. e che poscia venisse nuovamente a Roma insieme co’ figli natigli in Cordova poco prima della morte di Augusto, e vivesse roi fino a’ tempi del favor di Seiano , e morisse circa anno ventesimo dell’era cristiana e il settimo di Tiberio ». E certo dunque che Seneca il retore si dovrebbe a ragione annoverare tra gli scrittori del secolo d’Augusto; e ch’egli è stato gittalo tra que’ del secolo ih Ciborio , solo perchè seppe vivere fino all’estrema vecchiezza il che pur dei si dire di alcuni altri dei relnri qui da ine nominati. Ciò nulla monta al mio disegno; anzi conferma ciò che nel primo Torno io ho stawhlo, e prnva’o lungamente; cioè che l’eloquenza di-c uide fin da’ tempi d Xugusto, benché 1" ab. Lanipillas abbia immaginato eh’io abbia usato di ogni arte [p. 176 modifica]D’allora in poi Seneca visse fino alle sua morte in Roma; e questo lungo soggiorno ch’egli vi fece, può ben bastarci; perchè dobbiamo di lui ragionare; comunque non vogliasi togliere alla Spagna l’onore di avergli data la nascita. Fu egli uomo di singolare e prodigiosa memoria, fino a recitare di seguito duemila nomi coll’ordine stesso con cui gli aveva uditi, e a ripetere oltre a ducento versi detti da diverse persone, cominciando dall’ultimo, e risalendo fino al primo (procem. I. i Contras).). Questa per rimuover da quel felice secolo uni tal macchia. Anzi egli non ha ben provveduto a’ vantaggi della »ua nazione coll" osservare che Seneca c alcuni altri retori spaglinoli debbonsi riferire al secolo d’Augusto. Io avea afermato ohe allora il decadimento dell’eloquenza dovetesi singolarmente ad Asinio Politone; e avea salvalo l’onore della letteratura spagnuola , dicendo (l. r, }>. 417) •’ Molti ne incolpano Seneca; ma assai prima di lui avea l’eloquenza sofferto un rovinoso tracollo. Or Vflb. Lampillas pmova con ottime ragioni che Seneca jl retore e alcuni altri Spagnuoti fiorirono a’ tempi d’Augusto. Dunque secondo I’ab. Lampillas fin da que’ tempi alcuni scrittori spagnuoli contribuirono al decadimento dell" eloquenza. Se poi io abbia attribuita privativamente agli.’pagnuoli 1 origine di tal decadenza. ognuno che legge e intende la mia Stona, puh esaminarlo, lo ho sempre usala la espressione che a ciò essi concorsero; nè ho mai dello eh essi fossero i peggiori scrittori , ma che renderono peggior 1" eloquenza , e ad essa recarono maggior danno, perchè erano uomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevole il premei e le lor vestigia. Che se l’ab. Lampi llas pretende che siano ingiusie le accuse da me date allo stile de’ due Seneca e di alcuni allri scrittori spagnuoli di quell’età, io altro non posso fare che rimetterne il giudizio a’ più saggi conoscitori. [p. 177 modifica]memoria però gli venne meno, come suole, in vecchiezza; nella quale fino a qual anno ei giugnesse, nol possiamo con certezza affermare. Ei viene appellato col nome di retore per l1 opera che die alla luce, e per distinguerlo dal filosofo; ma eh1 ei tenesse pubblica scuola d’eloquenza, non abbiamo argomento alcuno ad asserirlo. IX. Di lui abbiamo un libro di Suasorie, ossia di orazioni in genere, come diciamo, deliberativo, nelle quali preso l’argomento da qualche passo storico, o favoloso, s’introduce alcuno a deliberare ciò che in esso gli convenga di fare; e i frammenti di dieci libri di Controversie, cinque soli de’ quali ci son giunti interi, in cui si trattano cause sul modello del foro e de’ tribunali, ossia si arrecano i sentimenti e i pensieri con cui potrebbonsi acconciamente trattare. Esse, trattine i proemii e alcune riflessioni che vi sono sparse per entro, non son veramente opera di Seneca. Altro ei non ha fatto, come egli medesimo si dichiara, che raccogliere ciò che da parecchi erasi o detto, o scritto su quell’argomento; e veggonsi sempre nominati gli autori dei passi ch’egli arreca. Ma questi passi son veramente degli autori a’ quali Seneca gli attribuisce (18)? (’) 11 sig. ab. Lampillas (t. 1, p. g41 51 è accinto a levar di mezzo lo scrupolo insorto alV ab. Tiraboschi, se i passi dei retori arrecati da M. Seneca siano veramente de-gli autori ai quali Seneca gli attribuisce. A ine non pare eh’ei sia stato troppo l’elice in toglierlo. Nondimeno io lascio che ognun confronti le sue colle mie ragioni, e ne decida come meglio gli sembra. Tiuaboschi, Voi. II. 12 IX. Sue suasorio c controversie , « loro carattere. [p. 178 modifica]Io non trovo chi abbia trattata questa quistione, su cui perciò non sarà forse inutile eli’ io mi trattenga brevemente. Seneca ci assicura (ih.) eli’ egli solo della memoria valevasi a raccogliere e ad ordinare queste Controversie. Ei si protesta che benchè ora difficilmente ricordisi di quelle cose che di fresco ha udite, quelle nondimeno che egli o fanciullo, o giovine avea impresse nella memoria, erangli così presenti, come se allora le avesse udite. Aggiugne ch’ei non può legarsi a un ordin determinato di cose; ma che gli conviene andare qua e là errando, e afferrare ciò che gli viene innanzi; che spesso, quando ei cerca di ricordarsi di alcuna cosa, il cerca invano, e ch’essa gli viene in mente, allorchè pensa a tutt’altro: che è necessario perciò ch’egli segua, per così dire, il capriccio della sua memoria, e che scriva le cose secondo ch’ella gliele ricorda. In somma, ove se ne tragga qualche passo delle Suasorie, in cui egli reca de’ tratti tolti da’ libri pubblicati da alcuni autori, tutto il rimanente non ha altro fondamento, per cui essere attribuito a coloro che da Seneca son nominati, se non la memoria dello stesso Seneca. Ora per quanto fosse ella strana e portentosa, è egli possibile che in età avanzata ei si ricordasse di tanti passi delle declamazioni di tanti diversi dicitori , quanti ei ne raccolse in dieci libri di Controversie? che potesse affermar con certezza che il tale e il tal altro avean così parlato precisamente? che non mai dovesse aggiugner del suo o sentimento, o parola alcuna? Io non penso che alcuno sia per crederlo così [p. 179 modifica]di leggieri. Ma più ancora. Tutti i passi arrecati da Seneca sono a un dipresso del medesimo gusto , del medesimo stile: in tutti si vede l’amor del nuovo, dell’ammirabile, dell’ingegnoso, qual fu proprio di tutta la famiglia de’ Seneca. È egli possibile che tanti oratori o declamatori, quanti da lui si rammentano, tutti avessero la maniera stessa di scrivere e di pensare? Parecchi di quelli che veggiam da Seneca nominati, si nominano ancora da Quintiliano, come poscia vedremo. E questi formando il carattere di ciascheduno, mostra quanto essi fossero tra lor diversi. Ma presso Seneca sotto diversi nomi sembra che un solo parli, o che tutti si adattino allo stile di un solo. Io confesso che non so indurmi a pensare che i passi, quali abbiamo in Seneca, sian veramente quai furon detti da quelli a’ quali egli gli attribuisce. Credo anzi ch’egli o volesse usar di finzione, come fanno gli storici che attribuiscono ai personaggi delle loro storie que’ ragionamenti di cui essi medesimi sono gli autori; o che troppo fidandosi al vigore della sua memoria intraprendesse quest’opera con isperanza di potervi riuscire; ma che poscia si trovasse comunemente costretto a parlare egli medesimo, e a prestare sentimenti e parole a coloro che da lui son nominati. Comunque sia di ciò, di che io non ardisco di diffinir cosa alcuna, noi abbiamo in quest’opera un vero esempio della guasta e corrotta eloquenza che allor regnava. Vi s’incontrano sparsi alcuni sentimenti pieni di maestà e di forza; ma restan, per così dire, oppressi [p. 180 modifica]in mezzo alle sottigliezze e a1 raffinamenti che ad ogni passo si trovano. Non vi è quasi un tratto di eloquenza sciolta e magnifica; non una descrizione e un racconto facile e naturale; non un passo valevole ad eccitare affetto di sorta alcuna. Sembran cose composte solo a mostrar l’ingegno di chi le ha composte; ma spesso ci fan bramare eli’ egli del suo ingegno avesse usato più saggiamente. X. Di somigliante natura sono le Declamazioni che abbiamo sotto il nome di Quintiliano. Ma prima di parlare di esse, ci fa d’uopo dir qualche cosa di questo illustre scrittore, e del1 opera che a lui certamente appartiene, delle Istituzioni oratorie. Enrico Dodwello ha scritto coll’usata sua diligenza gli Annali della Vita di Quintiliano, che il Burmanno ha aggiunti alla sua magnifica edizione di questo autore, pubblicata in Leyden l’anno 1720. Egli intento a fissar le diverse epoche della vita, non molto si è trattenuto sulla quistion della patria; ma si mostra più favorevole a coloro che il voglion romano, che non a quelli che lo dicon nativo di Calaorra in Ispagna (Ann. Quint. n. 9). Questi si appoggiano alla Cronaca Eusebiana in cui Quintiliano vien detto ex Hispania Calaguritanus (ad olymp. 217), e vi si narra ancora ch’egli da Galba fu condotto a Roma (ad olymp. 211); innoltre all’autorità di Ausonio che così dice: Adserat usque licet Fabium Calaguris nlumnum In Professar. Burdìg.; finalmente a quella di Cassiodoro che parimente [p. 181 modifica]jl (lice nativo di Spagna (Chron. ad Consul. Silvani et Prisci). Fuor di questi non v1 ha alcun altro tra gli antichi scrittori che affermi Quintiliano essere stato spagnuolo. Ma l’autorità loro ad alcuni non sembra bastevole a confronto dei contrarj argomenti che da essi si adducono (19). Non parlo della breve Vita di Quintiliano, che si vuol premettere alle sue opere, e in cui egli dicesi nato in Roma; perciocchè ella mi sembra di autor non antico. Ma in primo luogo Seneca il retore tra i declamatori da lui conosciuti in Roma nomina Quintiliano il giovane (praef. ad l. 5 Controv.), il quale pare che fosse avolo del nostro. In Roma pure fu il padre di Quintiliano, perciocchè questi ne fa menzione come di uomo che ivi si esercitava nel trattare le cause (l.9,c.3). Quintiliano medesimo era in Roma anche in età assai giovanile, poichè egli parlando di Domizio Afro orator celebre in Roma, dice: quem adolescentulus senem colui (l. 5, c. 7). (*) Fra Leo verisimile che l’ab. Lampillas uon fosse di me soddisfatto, perchè non ho stabilita come cosa certissima, che Quintiliano fosse nato in Ispagna. Egli poeticamente descrive (f. 2, p. 63, ec.) il mio imbarazzo nel dover confessare che un sì saggio scrittore fu di patria spagnuolo Io assicuro il sig. ab. Lampillas che nou fui allora nè sono ora punto imbarazzato. Mi parve allora la quislione alquanto dubbiosa, ed or non mi pare ancora ben rischiarata. benché confessi ch’egli ha risposto assai bene ad alcune delle difficoltà da me opposte. Se si giungerà a provare indubilatameule che Quintiliano fu veramente spagnuolo, io uè farò le mie sincere congratulazioni con quella illustre nazione. [p. 182 modifica]Questa, per così dire, continuata succession di dimora de’ Quintiliani in Roma ci rende certamente probabile assai che ivi nascesse il nostro. Innoltre Marziale fa bensì onorata menzione de’ due Seneca e di altri illustri Spagnuoli (l. 1, epigr. 62); ma tra questi non fa motto di Quintiliano. L ei-udito Niccolò Antonio cerca di sciogliersi da questo nodo (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 12), e vorrebbe persuaderci che Marziale ivi non parli che dei poeti; e perchè pur vi ritrova nominato ancor Tito Livio, si contorce e si dibatte per darci a credere che Livio non vi entra se non indirettamente. Ma meglio forse avrebb’egli risposto che non era già necessario che tutti gl’illustri Spagnuoli rammentati fossero da Marziale. Convien però confessare che non lascia di aver qualche forza la riflessione che facilmente si offre al pensiero leggendo Marziale, cioè che parlando egli pure altrove di Quintiliano (l. 2, epigr. 90), e più altre volte nominando gli uomini per saper rinnomati nativi di Spagna, non mai accenni che Quintiliano fosse spagnuolo. Due altri argomenti si arrecano all’ab. Gedoyn a provare che Quintiliano non fu nativo di Spagna (pref. à la traduct, de Quinti); cioè, che se ciò fosse stato, non avrebbe egli potuto acquistare cognizione sì grande, quanta in lui ne veggiamo, della lingua latina, delle leggi, de’ costumi e della storia romana; e che inoltre non sarebbe egli stato si poco esperto nella lingua spagnuola , che , parlando della parola gurdi, dovesse scrivere di avere udito (l.ifC.5) ch’ella traesse origine dalla Spagna. [p. 183 modifica]Ma j a dir vero, non sembrarmi! questi argomenti di grande forza; perciocchè se Quintiliano nato in Calahorra, in età ancor fanciullesca fosse venuto a Roma, non sarebbe punto a maravigliare eh1 egli e mollo versato fosse ne’ costumi romani, e poco assai nella favella spagnuola. Queste son le ragioni che a sostenere i lor diversi pareri da diverse parti si arrecano. Non potrebbonsi esse per avventura conciliare insieme, dicendo che la famiglia de’ Quintiliani era orionda di Spagna, ma che il padre, o forse anche l’avolo del nostro scrittore trasportolla a Roma? Ma o ei fosse italiano, o fosse spagnuolo, noi possiam bene a ragione dargli luogo tra’ nostri scrittori, poichè è certissimo ch’ei passò in Roma la più parte della sua vita. XI. Non giova ch’io mi trattenga ad esaminare ogni passo della vita di Quintiliano; impresa di troppo lunga fatica, e già diligentemente eseguita dal mentovato Dodwello che i suoi sentimenti appoggia quasi sempre alle opere stesse di questo autore. Ei dunque mostra che esso nacque l’anno 42 dell’era cristiana nell’impero di Claudio; e benchè gli argomenti da lui addotti non provino precisamente pel detto anno, certo è nondimeno che non può quest’epoca o avanzarsi, o ritardarsi di molto. Ebbe a suoi maestri singolarmente Domizio Afro, uno de’ più celebri oratori che allor fiorissero, e Servilio Noniano (Quint l. 10, c. 1; l. 5, c. 7). E perchè nella Cronaca Eusebiana si afferma, come abbian detto, che l’imperador Galba seco di Spagna condusse a Roma XI. E|>04‘bii del la sua vila r suo carat lere. [p. 184 modifica]Quintiliano, il Dodwello congettura che dallo stesso Galba ei fosse condotto in Ispagna, quando esso vi fu da Nerone inviato l’an 61, e che ivi cominciasse a tenere scuola d’eloquenza; e che quindi P anno 68 insieme col medesimo Galba dopo la morte di Nerone facesse ritorno a Roma. Ivi egli aprì scuola pubblica d’eloquenza, e in questo faticoso esercizio durò, come egli stesso ci assicura, per venti anni (in proœm. Instil.), cioè fino all’anno 88. Fu egli il primo, secondo la Cronaca Eusebiana, che per tal impiego dal fisco ricevesse stipendio 5 poiché in addietro i retori altra mercede non avevano fuorchè da’ loro scolari; e sembra che di questa ei fosse debitore all’imperador Vespasiano; perciocchè egli fu il primo, al dir di Svetonio (in Vesp. c. 18), che a’ pubblici professori assegnasse stipendio. All’esercizio d’insegnar nella scuola quello ancora ei congiunse di perorare nel foro; e rammenta egli stesso alcune cause da sè trattate (l. 7, c. 2; l. 4, C. 1). Quindi cessando dopo venti anni dall’uno e dall’altro esercizio, prese a spiegare scrivendo que’ precetti e quelle riflessioni medesime che nella pubblica scuola aveva esposto; e prima un libro egli scrisse intorno alle cagioni per cui l’eloquenza era allora sì guasta e corrotta; libro però, come sopra si è detto, che sembra diverso da quello che col medesimo titolo ci è rimasto; quindi intraprese la grande opera delle Istituzioni oratorie. Alla qual fatica quella ei dovette congiungere d’istruire i figliuoli de’ due celebri martiri. T, Flavio Clemente e Flavia Domililla. [p. 185 modifica]e nipoti di un’altra Flavia sorella di Domiziano (V. Eduardi Vitry Diss. de T. Flav. Clem. tumulo); de’ quali, se imitasser l’esempio de’ lor genitori, o se vivessero idolatri, è affatto incerto. Il dirsi da Ausonio (in Gratiar. Actione) che Quintiliano per mezzo di Clemente ricevette gli onori del consolato, fa credere comunemente che di questo Clemente medesimo egli intenda di ragionare; e che questi per mostrarsi grato a Quintiliano della cura adoperata in istruire i suoi figli, gli ottenesse quelle stesse onorevoli distinzioni che proprie eran de’ consoli. Ma il Dodwello assai lungamente combatte questa opinione, e sostiene che Ausonio parli di un altro Clemente a’ tempi di Adriano, e che allor solamente conceduto fosse a Quintiliano un tal onore. A me non sembra che le ragioni del Dodwello siano di gran peso; ma molto meno mi sembra che sia pregio dell’opera il trattenersi lungamente su tal quistione. In qual anno ei morisse, non è possibile accertarlo, poichè non ne abbiamo cenno alcuno negli antichi scrittori. Fu egli uomo di carattere onestissimo, e dotato di tutte quelle virtù che il buon uso della ragion naturale può insegnare. Egli stesso senza volerlo ci ha dipinto se medesimo ne’ suoi libri. Veggasi singolarmente con qual forza egli ragioni (l. 12, c. 1) a mostrare che non può esser valoroso oratore chi non è ben costumato; come prescrive che ogni cosa si esprima con dignità e con verecondia, dicendo che a troppo caro prezzo si ride, quando si ride con danno della onestà (l. 6, c. 2); come riprende Afranio, perchè d’immodesti amori [p. 186 modifica]avea bruttati i suoi versi (l. 10, c. 1); come nel consigliare a’ fanciulli la lettura delle commedie vi aggiunga la condizione, purchè i costumi ne siano in sicuro (l.1, c. 8). Giovenale cel rappresenta come uomo assai ricco e padrone di gran poderi (sat. 7, v. 188, ec.); Pii. nio il Giovane al contrario a lui stesso scrivendo (l. 6, ep. 32) lo chiama animo beatissimum, modicum facultatibus; dal che egli prese occasione del generoso atto che fece, di donare alla figlia di Quintiliano , stato già suo maestro, destinata in nozze a Nonio Celere, cinquanta mila sesterzi, che corrispondono a un dipresso a mille ducento cinquanta scudi romani. Il Dodwello del passo di Giovenale si vale a provare che sotto Adriano. Quintiliano ebbe onori e ricchezze; ma potrebbesi forse più verisimilmente rispondere che Giovenale è poeta, e innoltre poeta satirico che segue spesso e descrive le incerte voci del volgo; Plinio al contrario è un sincero amico che’ è ben informato della mediocrità di ricchezze del suo antico maestro. L’unica traccia da cui non può in alcun modo difendersi Quintiliano, si è quella di avere troppo sfacciatamente adulato Domiziano, chiamandolo il massimo tra’ poeti, e delle cui opere nulla vi avea di più sublime, di più dotto, di più perfetto, con altre infinite lodi ch’egli dà a quell’imperadore che era frattanto in esecrazione e in orrore a tutto l’impero (l. 10, c. 1). Ma fu questo un difetto da cui, come abbiamo veduto, appena vi fu scrittore a questi tempi che andasse esente. Oltre gli Annali del Dodwello si può vedere [p. 187 modifica]ancora il Dizionario del Bayle (art. « Quinl. «) che varii articoli della vita di Quintiliano ha diligentemente esaminati. XII. Le Istituzioni oratorie che di lui ci sono rimaste, sono una delle più pregevoli opere di tutta l’antichità. Egli prende l’oratore fin dalla sua fanciullezza, e il viene passo passo formando ed istruendo in tutto ciò che al suo carattere appartiene. Una certa equità naturale, un giusto senso comune, una matura riflessione, un attento studio su’ migliori autori sono la norma su cui egli stabilisce e svolge i suoi precetti. Si può dire che niuna parte ei lasci intatta. Troppo diffuso, e spesso ancora troppo sottile per esser posto tra mano a’ giovinetti inesperti, egli è anzi opportuno ad istruire i loro istruttori, e a suggerir loro quelle riflessioni di cui si possan giovare ammaestrando altrui. So che alcuni dei precetti di Quintiliano sono stati da altri, e forse a ragion, rigettati. Ma ciò non ostante non vi ha uom saggio e colto che non ne parli con sentimenti di altissima stima. Veggansi i giudizj che da molti illustri scrittori ne sono stati portati, raccolti e illustrati da M. Gibert (Jug. des Auteurs qui ont trai té, de la Rhetor. p. 124, éd. d Arnsterd. 1725). Lo stile di Quintiliano si risente de’ difetti del tempo a cui scrisse; perciocchè, comunque egli fosse ammirator grandissimo di Cicerone, non potè nondimeno uguagliarne la purezza del favellare, per le ragioni che nella Dissertazion preliminare abbiam toccate. Ma in ciò che è buon gusto, egli non si lasciò certo travolgere dal torrente; anzi usò ogni sforzo XII. Sui* Ìitìtummi «ratini« «inalilo pregevoli. [p. 188 modifica]pei- fargli argine, e per richiamare i Romani al buon sentiero onde si eran distolti. E perchè Seneca il filosofo era allora il principal condottiere di quelli che si eran gittati per questa nuova via, e coll’apparente luce del concettoso suo stile traeva molti in rovina, contro di lui singolarmente si volse Quintiliano. Piacemi di riferire qui il bellissimo passo in cui ei ne ragiona, che varrà non poco a farci conoscere e l’onesta del carattere, e la finezza del buon gusto di Quintiliano. Io ho fin qui differito, die’ egli (l. 10, c. 1) a far menzione di Seneca nel favellare che ho fatto degli scrittori il ogni maniera, per l’opinione che di me falsamente si è sparsa, per cui si crede ch’io il condanni, e che anzi gli sianemico. Il che mi è avvenuto, perchè io procurava di chiamare a severo esame un genere di eloquenza nuovamente introdotto, guasto e infettato di tutti i vizj Seneca era allora il solo autore che fosse in mano de’ giovani. Nè voleva io già toglierlo interamente dalle lor mani. Ma io non poteva soffrire ch’ei fosse antiposto a’ migliori, cui egli non avea mai cessato di biasimare; perciocchè consapevole a se medesimo del nuovo genere d’eloquenza da se abbracciato, disperava di poter piacere a coloro a cui quelli piacessero. Or i giovani lo airmva.no più che non l’imitassero; e tanto eran essi da lui lontani, quanto egli allontanato erasi dagli antichi; poichè sarebbe anche a bramarsi l’essere a lui uguale, o almeno vicino. Ma egli piaceva lor solamente pe’ suoi difetti, e ognuno prendeva a ritrarne in se medesimo quelli che gli [p. 189 modifica]era possibile; e quindi vantandosi di parlar come Seneca, veniva con ciò ad infamarlo. Egli per altro fu uomo di molte e grandi virtù, di ingegno facile e copioso, di continuo studio e di gran cognizion delle cose, benchè in alcuna talvolta sia stato ingannato da quelli a cui commettevane la ricerca. Quasi ogni genere di scienza fu da lui coltivato, e ci restano orazioni e poemi e lettere e dialogi da lui composti. Poco diligente nel trattare argomenti filosofici, egli fu nondimeno egregio ripreditore de’ vizj. Molti ed ottimi sentimenti in lui si trovano, e molte cose degne d’esser lette per regola de’ costumi. Ma lo stde n è comunemente guasto, e tanto più pericoloso, perchè i difetti ne son piacevoli e dolci. Sarebbe a bramare ch’egli scrivendo avesse usato del suo proprio ingegno, e del giudizio altrui. Perciocchè se di alcune cose ei non si fosse curato, se non fosse stato troppo desioso di gloria, se troppo non avesse amato tutte le cose sue, se non avesse co’ raffinati concetti snervati i più gravi e i più nobili sentimenti, egli avrebbe in suo favore l’universal consenso de’ dotti, anzichè l’amor de’ fanciulli. Qual egli è nondimeno, debbe ancora esser letto dagli uomni già maturi e formati a una sola eloquenza, anche perchè possan con ciò avvezzarsi a discernere il reo dal buono. Perciocchè, come ho detto, molte cose degne di lode in lui sono, molte ancor degne d’ammirazione, purchè si sappino scegliere. E così avesse fatto egli stesso! perciocchè un ingegno tale che poteva qualunque cosa volesse, degno era [p. 190 modifica]certo di voler sempre il meglio. Io penso che niun autore abbia più giustamente formato il carattere di Seneca, e rilevatene meglio le virtù insieme e i difetti. Di Seneca avremo poscia a parlare più lungamente, ove tratterem de’ filosofi, a’ quali propiamente egli appartiene. Qui basti il riflettere che tutti gli sforzi di Quintiliano per distogliere i Romani dalla viziosa imitazione di Seneca caddero a voto per la ragione medesima che Quintiliano accenna, cioè perchè i vizj di quello scrittore erano lusinghevoli e dolci, e perchè pareva glorioso f imitare uno stile che richiedeva sottigliezza d’ingegno. XIII. Rimane per ultimo a vedere se a Quintiliano attribuir si debbano le Declamazioni che col nome di lui abbiamo alle stampe. Di queste ve ne ha diciannove assai lunghe; quindi altre più brevi che erano in numero di 388, ma di cui solo 145 ci son rimaste; e finalmente alcuni estratti che da un codice ms. della Biblioteca di Leyden ha dati in luce nella sua bella edizione di Quintiliano il più volte nominato Pietro Burmanno. Appena vi ha al presente chi creda che tali Declamazioni siano opera dell’autore delle Istituzioni oratorie; nè io so intendere come ne possa restare ancora un leggerissimo dubbio. Lo stile , il gusto , il metodo, è totalmente diverso da quello di Quintiliano; e converrebbe dire, s’egli ne fosse autore, che seguite avesse nello scrivere queste declamazioni leggi interamente contrarie a quelle che nelle sue Istituzioni egli prescrive. Alcuni ne fanno autore il padre di Quintiliano, [p. 191 modifica]altri un altro Quintiliano avolo forse del nostro, rammentato qual declamatore da Seneca, come altrove si è detto. Ma non vi è argomento bastevole ad affermarlo; e l’opinion più verisimile, a mio parere, si è cbe esse sieno di diversi autori; e che per farle salire a più alta stima siano state attribuite a Quintiliano. Egli è certo però, che fin da’ tempi più antichi leggevansi declamazioni sotto il nome di Quintiiliano, chiunque egli fosse; perciocchè Trebellio Pollione, parlando di Postumo il Giovane, uno de’ trenta tiranni, dice (in ejus Vita) cbe e’ fu così eloquente nel declamare, che le Declamazioni da lui composte dicevansi inserite tra quelle di Quintiliano. E forse ciò che a quelle di Postumo, avvenne ancora alle declamazioni di altri che raccolte insieme tutte sotto il nome di Quintiliano si divolgassero. Alle Declamazioni di Quintiliano si sogliono aggiugnere quelle di un Calpurnio Flacco, scritte aneli’ esse in uno stil somigliante, cioè freddamente ingegnoso. Ma dell’autor di esse null’altro sappiamo, se non che sembra ch’ei vivesse sotto Adriano, come da un passo dell’antico Digesto conghiettura il Gronovio nelle sue note alla prima di queste Declamazioni. XIV. L’ultimo monumento che ci rimane dell’eloquenza di questi tempi, è il celebre Panegirico di Traiano fatto da Plinio il Giovane,! di cui perciò ci conviene ora parlare. C. Plinio j Cecilio Secondo ebbe per padre Lucio Cecilio, per madre una sorella di Plinio il Vecchio, per patria Como, come egli stesso in piò luoghi afferma (l. 2, ep. 8; /. 4j cp. 3o: l. 6, cp. a5, ec.); [p. 192 modifica]e il lago a questa città vicino conserva ancora un illustre monumento di questo suo celebre cittadino, cioè la villa che tuttor dicesi Pliniana, alle sponde di detto lago, che ora appartiene alla nobil famiglia de’ marchesi Canarisi; e il maraviglioso fonte che ancor si vede, il cui flusso e riflusso da lui medesimo ci è. stato descritto (l. 4j ep. 30). Io non farò che accennare brevemente ciò che appartiene alla vita di questo scrittore, poichè essa si può vedere distesamente scritta dal P. Jacopo de la Baune della Compagnia di Gesù innanzi all’edizione da lui fatta del Panegirico, e quella più ampia ancora e più esatta scritta da Giovanni Masson, e premessa alla magnifica edizione delle Epistole dello stesso autore, fatta in Amsterdam l’anno 1734, e a quella nulla meno magnifica del Panegirico fatta ivi pure l’anno 17^8, e un1 altra finalmente, che io non ho potuto vedere, scritta da milord Orrery, e tradotta ancora in italiano, e dal can. Tedeschi premessa alla traduzione italiana da lui fatta delle Lettere di Plinio. Nato l’an 62 dell’era cristiana, venne assai giovane a Roma, e vi ebbe a maestro il celebre Quintiliano. Adottato dal vecchio Plinio suo zio materno, di cui perciò prese il nome , fu testimonio della fatale eruzion del Vesuvio, da cui quegli fu oppresso l’an 79. In età di ventun anni cominciò a trattar le cause nel foro, a che egli con lungo e attentissimo studio erasi apparecchiato. Nè Lasciò insieme secondo il costume di esercitarsi nella milizia, e ancor giovinetto fu tribuno militare nella Siria. Quindi tornato a Roma vi [p. 193 modifica]ritienile tutti i più ragguardevoli onori, fatto questore, tribuno della plebe, pretore, console , soprastante all’erario di Saturno e al militare, e finalmente governatore del Ponte e della Bitinia. Di questi onori ei fu debitore singolarmente alla liberalità di Traiano, il quale fu verso di lui sì umano e cortese, che perorando Plinio un giorno innanzi a lui, e parlando con impeto non ordinario, l’imperadore il fe’ più volte amorevolmente avvertire da un suo liberto, che avesse maggior riguardo alla debolezza del suo fianco e della sua voce (Plin. l. 2, ep. 11). Dalla sua provincia scrisse egli la celebre lettera a Traiano intorno a’ Cristiani, esponendo la loro innocenza e la costanza lor nei tormenti, e chiedendo all1 imperadore di qual tenore con essi dovesse usare. Ella è uno de’ più gloriosi elogi che alla religion cristiana si sian mai falli 3 ma non è del mio argomento il trattarne più lungamente. Quindi ritiratosi a una sua villa detta Laurentino, vi passò tranquillamente il resto de’ suoi giorni. In qual anno morisse, non può di certo affermarsi3 ma credesi che ciò seguisse l’anno duodecimo di Traiano, essendo egli in età di cinquantadue anni. Egli visse amico de’ più celebri e de’ più dot!i uomini che allor fossero in Roma, come dalle sue lettere si raccoglie; e queste insieme fanno chiaramente conoscere l’onesto e virtuoso uomo ch’egli era. Non si può a meno leggendole, dice M. de Sacy préf. à la traduct. des Lettres de Piine), di non con< epin affetto e stima per chi le scrisse. Si prova un cotal desiderio segreto di rassomigliare al loro autore, Tikaboscui, Voi. 11. i3 [p. 194 modifica]Voi non vedete in lui che sincerità, disinteresse, riconoscenza, frugalità, modestia, fedeltà pe’ suoi amici anche a pericolo delle disgrazie e perfin della morte; e orrore al vizio finalmente, e passione per la virtù. In fatti vi s’incontrano ad ogni tratto esempj non ordinarj delle morali virtù di cui Plinio era adorno. Oltre il denaro dato, come s’è già detto, alla figlia di Quintiliano ed a Marziale, egli volle addossarsi tutti i debiti di un suo amico, e lui morto, non volle che l’unica figlia rimastagli , e a cui egli avea già data un’ampia dote, gli fosse debitrice di cosa alcuna (l.2, ep. 4)5 e in più occasioni essendo dichiarato erede da’ suoi amici, diede sincere prove del suo disinteresse, or rinunciandone parte in altrui vantaggio, or non facendo valere i suoi giusti diritti (l. 4> ep. 10; l. 5, ep. 1 e 7); e praticando sempre egli stesso ciò che insegnava ad altrui. Vuolsi qui avvertire un errore degli Enciclopedisti (20) che tra gli antichi atei hanno annoverato ancora Plinio il Giovane (t. 1, art. « Athée «). INiuno , eh’io sappia , gli ha mai data una tale accusa, ed essi certamente hanno per error nominalo il giovaue in vece del (a) OnanJo io qui e altrove nel decorso di quest’opera parlo della Enciclopedia e degli Enciclopedisti, intendo ili favellare dell.» prima edizion di quel!’opera che sola aveasi allor quando io t ubblicai questa Storia. Giova sperare che gli errori nè leggieri nè pochi che in essa trovavansi saranno emendali nella nuova edizione divisa per materie, che già da alcuni anni se n’è cominciata a Parigi. e di cui una ristampa ancor piti corretta e accresciuta si è intrapresa in Padova. [p. 195 modifica]vecchio, che da alcuni vien posto tra gli atei, come a suo luogo vedremo. XV. Ei fu coltivatore indefesso ad un tempo e generoso fomentatore de’ buoni studj. Le sue Lettere ce ne danno continue prove. I giorni di solennissimi giuochi, a cui tutta Roma accorreva in folla, eran giorni per lui di erudito ritiro, in cui tutto abbandonavasi allo studio (l. 9, ep. 6). Egli stesso ci narra il piacere di cui godeva allor quando in qualche solitaria villa poteva senza disturbo alcuno coltivare le lettere (l. 1 , ep. 9). Si duole, quando per dover di amicizia è costretto a porre da parte i libri, e volgersi agli affari; ma confessa insieme che l’amicizia e agli studj e ad ogni altra cosa debb’essere antiposta (l. 8,ep. 9). La diligenza di cui egli usava scrivendo, era qual suol essere de’ migliori scrittori. Io, die1 egli (l. 7, ep. 17), non cerco già di esser lodato da chi mi ascolta, ma di chi mi legge. Perciò non vi ha maniera di correggere e di emendare, di’ io non usi. E primieramente rivedo da me stesso le cose che ho scritte; quindi le leggo a due, o a tre; poscia le comunico ad altri, perchè vi facciano le lor riflessioni: e se in queste trovo cose di cui mi rimanga dubbioso, ne tratto con uno, o più altri; finalmente le recito a molti, e credimi che allora singolarmente le correggo con ogni attenzione. Nelle sue Lettere egli poi continuamente esorta e stimola altri allo studio , insegna il metodo con cui coltivare le lettere, ne propone gli onori e i vantaggi , usa in somma di ogni più efficace maniera per risvegliare in tutti xv. Suo impegno nel coltivar«* r nel ptUIIlUOV ere gli studf [p. 196 modifica]quell’amor di sapere ch’egli vedeva illanguidir tra’ 15 0111 a ili (a). Ma alla sua patria singolarmente si mostrò egli in ciò benefico e-liberale. Udiamo da lui medesimo in qual maniera inducesse i suoi concittadini a condurre qualche dotto maestro che aprisse in Como pubblica scuola. Essendo io stato, scrive a Tacito (l. 4, ep. 13), di fresco in patria, venne a trovarmi un giovinetto figliuolo di un mio concittadino; a cui io, Stildi 1 tu? dissi Ed egli’ . Sì certo. E dove? In Milano. Perchè non anzi qui in patria? Allora il padre che era pescate, c che ave ami condotto il giovane , Pi n he qui, disse , non alitiamo ma stri. E perchè ciò? soggiunsi io: voi che siete padri (e opportunamente ve n’avea molti ad udirmi) dovreste certo bramare che qui anzi che altrove studiassero i vostri figli, perciocchè dove staranno essi più voli ntien che nella lor patria? dove saranno allevati più onestamente 1 he sotto gli occhi de’ lor genitori? dove mantenuti con minor dispendio che nella propria casa? Così continua Plinio a narrare com’egli indusse i suoi Comaschi a fissare un annuo stipendio, di cui egli promise di pagare la terza parie , pel mantenimento di un pubblico professore, il quale dovesse da’ cittadini medesimi esser prescelto; e prega perciò (a) Un bell’ Flogio di Plinio il Giovane ci ha dato di fresco il eli. sig. cav. < lementino \ annetti (Contin. tfrl tV. G""n. «/<•’ L’iter, d’hai. 1. xxrn, /> 178, cc.), il qual poscia ha ancor pubblicato una elegante sua traduzione italiana di dodici lettere del medesimo autore (ivi, t. x\.\r, p. i52, cc.). [p. 197 modifica]Tacilo, che, se alcuno ci ne conosce a ciò opportuno, il mandi a Como, perchè veggano que’ cittadini se sia qual essi il bramano. Nè qui fermossi la liberalità di Plinio verso la sua patria: perciocchè egli assegnò del suo un’annual! rendita di trenta mila sesterzi! ossia di circa 750 scudi al mantenimento di fanciulle e fanciulli ingenui , cioè nati di padre libero , ma ridotti a povertà (l 7, ep. 18). Finalmente una pubblica biblioteca a comun vantaggio aprì egli in Como, e in questa occasione fece un ragionamento a’ decurioni della città, di cui egli stesso più volte ragiona (l. 1, ep. 8; l.2, ep 5). Ma delle scuole e della biblioteca di Como avremo luogo a trattare più lungamente, ove degli studj che fiorivano nel rimanente dell’Italia fuori di Roma, dovrem favellare; ed ivi pure esamineremo con qual fondamento si dica che una somigliante biblioteca fosse da Plinio aperta in Milano. XVI. Molte poesie avea Plinio scritte e in latina e in greca favella, e in questa anche una tragedia (l. 7, ep. 3). Molte orazioni ancora avea recitate nel trattar delle cause che da lui stesso vengono annoverate (l. 6, ep. 29); e la fama di cui egli godeva, fu cagione che alcuni suoi libri giugessero fino a Lione in Francia, e pubblicamente ivi si vendessero (l. 9, ep. 11). Ma di lui nuli’ altro ci è rimasto fuorchè dieci libri di Lettere, e il celebre Panegirico detto a Traiano. Nelle prime egli usa di uno stile colto ed elegante , ma che troppo è lungi dalla graziosa e piacevole naturalezza di quelle di Cicerone. Plinio è conciso e vibrato, ma spesso XVI. Su** Lettere e suo Panegirici»)* loru carati e[p. 198 modifica]più del bisogno, talchè ei ne diviene oscuro e digiuno; difetto usato di questo secolo, in cui, come tante volte si è già detto., volevasi dare alle cose una perfezione maggior di quella che lor convenga. Il Panegirico è stato lodato da alcuni come il più perfetto modello di eloquenza a cui sia mai giunto uomo di questa terra. Nello scorso secolo Plinio e Seneca erano i due autori su’ quali credevasi comunemente di dover formare lo stile e il discorso; e io credo che tal paese vi abbia ancora al presente fuori d’Italia, in cui diasi una almen tacita preferenza a Plinio in confronto di Cicerone, ove si tratta di scrivere latinamente. Nè si può negare che il Panegirico di Plinio non abbia sentimenti e pensieri di una forza e di una sublimità ammirabile; ma il voler dare ad ogni cosa un’aria nuova o maravigliosa; il voler far pompa ad ogni passo di acutezza d’ingegno; il voler trovare in ogni oggetto confronti , antitesi, contrapposti, non solo crea oscurità, ma noia ancora a chi legge. Quindi di Plinio si può dire ciò che, come abbiam veduto, di Seneca dicesi da Quintiliano, ch’ei può esser letto con frutto da chi, essendosi già formato sugli eccellenti autori, può sceglierne saggiamente ciò che vi ha di pregevole e degno d1 imitazione, e lasciare in disparte ciò che vi ha di vizioso, Io penso nondimeno che Plinio debba essere antiposto a Seneca; perchè ne’ sentimenti di Plinio si vede comunemente il grande e il vero, benchè guasto spesso da una soverchia affettazion del sublime; ne’ sentimenti di Seneca altro non s’incontra [p. 199 modifica]sovente die una vota ombra e una ingannevole apparenza di maestà e di grandezza che volendosi penetrar più addentro si dirada tosto e svanisce. Non parlo qui delle Vite degli uomini illustri, che da alcuni sono state attribuite a Plinio, poichè non v’ha or chi non sappia che esse più probabilmente sono di Aurelio Vittore. XVII. Questi, come abbiamo detto, sono gli unici saggi che dell’eloquenza di questi tempii ci son rimasti. Furonvi nondimeno parecchi’ oratori che per essa ottennero grande stima. Sopra tutti si lodano da Quintiliano (l. 10,c. 1) Domizio Afro e Giulio Africano. Di que’ , dic’egli, ch’io ho veduti, Domizio Afro e Giulio Afiricano hanno sorpassato di molto gli altri tutti. Domizio Afro, secondo la Cronaca Eusebiana, fu nativo di Nimes nella Gallia, e di lui perciò hanno lungamente favellato gli autori della Storia Letteraria di Francia (t. 1 , p. 181)7 presso i quali si potranno vedere intorno a lui più copiose notizie. E certo doveva esser uomo di non ordinaria eloquenza, perciocchè Quintiliano stesso soggiugne che nella scelta delle parole e in tutta la maniera di ragionare egli era superiore a chiunque, e degno di esser posto nel numero degli antichi. Celebre è il fatto che di lui narra Dione (l. 59), cioè che Caligola capricciosamente sdegnato contro Domizio per motivi da nulla, accusollo al senato; e sapendo quanto celebre oratore egli fosse, pretese di gareggiare con lui in eloquenza. Domizio avvedutosi della vanità di Caligola, appena questi ebbe finito di ragionare, [p. 200 modifica]invece di difendersi, cominciò a mostrarsi attonito e sorpreso da sì grande eloquenza; quindi a lodare l’orazion di Caligola, ripeterne le diverse parti, esaltarne la bellezza e la forza; e finalmente quasi incapace a rispondere , gittatosi a piè dell’imperadore, confessare di non avere altra difesa che quella delle preghiere e del pianto. Di che pago Caligola rimandollo assoluto, e non molto dopo l’elesse a console. Ma Domizio non ebbe ugual lode pe’ suoi costumi che per la sua eloquenza (Tac. Ann. l. 4? c. 52); e questa ancora col crescere degli anni venne meno per modo che quando saliva su’ rostri , spesso egli era o compatito, o deriso (Quint l 12, c. 11). E la morte ancora non ne fu molto gloriosa, perchè cagionatagli, secondo la Cronaca eusebiana, dal soverchio cibo. Essa accadde, secondo Tacito (Ann l. 14 » c• *9); nel quinto anno dell’impero di Nerone. Giulio Africano ancora fu delle Gallie, e nativo della città di Saintes, come chiaramente afferma Tacito: Julius Africanus e Santonis Gallica ci vi tate (Ann. l 6, c. 7); ed è perciò a stupire che gli autori della Storia Letteraria di Francia non gli abbiano dato luogo tra’ lor più celebri oratori. Quintiliano dopo aver detto, come già abbiamo veduto, ch’egli e Domizio erano i migliori tra gli oratori da lui conosciuti, così forma il carattere di G olio Africano: Questi era*pin impetuoso, ma nella scelta delle parole troppo affrettato e troppo lungo talvolta nella tessitura del ragionare, e nelle trasposizioni non abbastanza ritenuto. [p. 201 modifica]XVIII. 11 medesimo Quintiliano di tre altri oratori ragiona distintamente, e i loro pregi descrive e insieme i loro difetti, Eranvi, dic’egli (l. 10, c. i; V. etiam l. 10, c. 3; l 12, c. 3, ec.), anche di fresco oratori di eccellente ingegno. Perciochè Tracalo era comunemente sublime e chiaro abbastanza: e conoscevasi ch’ei sempre sceglieva il meglio. Ma udendolo piaceva assai più; poichè così bella voce egli ave a , c/i io in niun altro ne ho conosciuto la somigliante, e un recitare, quale sarebbe convenuto anche in teatro, e gran decoro, e tutti in somma i pregi estriseci di oratore. Vibio Crispo ancora era elegante nel ragionare, e piacevole e nato a dilettare: migliore però nelle private che nelle pubbliche cause (22). Giulio Secondo; se avesse avuta più lunga vita, ottenuto avrebbe presso i posteri il nome di grandissimo oratore. Perciocchè egli avrebbe aggiunto. come già andava aggiugru mio, agli altri suoi pregi quanto in un oratore si può bramare, cioè di essere assai più contenzioso, e di badar talvolta alle cose più che alle parole. Nondimeno, benchè rapito in età immatura, ei merita molta lode; sì grande ne è l’eloquenza e la grazia nello spiegare checchè gli piace, e una maniera di favellare sì tersa e soave e ornata, e sì grande proprietà di parole persin nelle metafore. Coloro che dopo noi scriveranno gli elogi degli oratori, avranno ampia (ri) Di \ ihio Crispo vercellese ci lia dato un elevane elogio il ^valoroso sig. co. f elice Il arcuilo di \ dia (Piemontesi IU. t. ni, p. a/[3). [p. 202 modifica]materia di lodare veracemente (què che ora fioriscono Perciocchè uomini di grande ingegno son quelli che ora illustrano il foro; e gli avvocati già consumati gareggiano cogli antichi, e i giovani coraggiosamente si addestrano a seguirne i più luminosi esempj. Così Quintiliano sfugge saggiamente il pericolo di nominare gli oratori ancor vivi, e con una general lode comprende tutti, egli che pure altre volte, come abbiamo veduto, mostra di ben conoscere quanto f eloquenza a’ suoi tempi fosse dall’antica sua forza e maestà decaduta. Altri ancora poi troviamo in diverse occasioni nominati dagli scrittori di questa età, e detti oratori colti, eloquenti e forti: ma poco giova il tessere una lunga serie di nomi e di titoli, non avendo cosa alcuna fra le mani da cui poter giudicare del! vero carattere della loro eloquenza. Bastimi dunque accennare i nomi di Mamerco Scauro, cui Tacito chiama il più eloquente oratore a’ tempi di Tiberio (Ann. l. 3, c. 31, 66; l. 6, c. 39), ma insieme infamia e obbrobrio dei suoi illustri antenati, e che poscia accusato di gravi delitti da se medesimo si die’ la morte; rii Giulio Grecino (Tac. in Vita Agric.; Sen. de Benef. l. 2) ucciso da Caligola, perchè ricusò fermamente di accusare Silano; di Vozieno Montano rilegato da Tiberio nell1 Isole Baleari (Tacit Ann. I c. 42 >’ Euseb. Chron.); di Pompeo Saturnino, quel medesimo che tra’ poeti abbiam nominato (Plin. l. 1, ep. 16), de’ quali gli allegati scrittori parlano come di famosi oratori. Altri se ne posson vedere nominati da Seneca nelle sue Controversie.