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Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo I/Capitolo secondo

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Capitolo secondo

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Allegorie del capitolo primo della prima cantica della Commedia di Dante Alighieri Allegorie del secondo capitolo
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CAPITOLO SECONDO.


Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno, ec.

Comincia qui la parte seconda di questa prima Cantica chiamata Inferno, nella qual dissi l’autore cominciare suo trattato. E comechè questa si potesse in diverse maniere dividere, questa sola [p. 119 modifica]intendo che basti per universale, cioè dividersi in tante parti, quanti Canti seguiranno; perciocchè pare che ciascun Canto tratti di materia differente dagli altri. E questo Canto dividerò in sei parti. Nella prima si continua l’autore al precedente. Nella seconda, secondo il costume poetico, fa la sua invocazione. Nella terza muove l’autore a Virgilio un dubbio. Nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli. Nella quinta l’autore rassicuratosi, dice di seguir Virgilio. Nella sesta ed ultima l’autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La seconda comincia quivi: O Muse, o alto ingegno. La terza quivi: Io cominciai: Poeta. La quarta quivi: Se io ho ben la tua parola. La quinta quivi: Quale i fioretti. Le sesta quivi: E poichè mosso fue. Dico adunque, che l’autore si continua alle cose precedenti; perciocchè avendo detto nella fine del precedente Canto sè esser mosso dietro a Virgilio, nel principio di questo discrive l’ora nella quale si mossero, dicendo: Lo giorno se n’andava: e questo per lo chinare del sole all’occidente: e l’aer bruno, cioè la notte sopravvegnente, la qual sempre all’occultar del sole seguita. Di che appare, null’altra cosa essere il dì, se non la stanza del sole sopra la terra; questo è quello che è così chiamato, cioè dì, dalla luce. E perciocchè al levarsi di quello sempre la notte fugge, Pronopide greco poeta, e maestro di Omero, racconta una cotal favola. E’ vogliono gli astrologi, questo chiamarsi dì artificiale, cioè quello spazio il quale si contiene tra il levare del sole e l’occultare: e la ragione è perchè essi usandolo nelle loro [p. 120 modifica]elevazioni, d’ogni tempo il dividono in dodici parti eguali, e così fanno la notte. Il dì naturale è di ventiquattro ore eguali, e in questo è la notte congiunta col dì; ma dinominasi tutto dì, dalla parte più degna, cioè dalla parte splendida: e chiamasi dì da Dios greco, il quale in latino viene a dire Iddio: perciocchè come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova e aiuta, così nelle nostre operazioni ne aiuta il dì con la sua luce. E potrebbesi dire che egli n’aiuta nelle buone, perciocchè chi fa male ha in odio la luce. E mostra per questa discrizione del farsi notte, che l’autore fosse stato dal farsi dì infìno al farsi notte di quel dì, in quella valle occupato da quelle tre bestie, ed a ragionar con Virgilio.

Toglieva gli animai che sono in terra,
     Dalle fatiche loro.

Dimostrane qui l’autore una delle operazioni della notte, la quale l’ordine della natura attribuisce al riposo, e alla quiete degli animali, degli affanni avuti il dì passato; perciocchè se alcun tempo al riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sue operazioni potesse perseverare; e perciò dice l’autore, che l’aer bruno toglieva, cioè levava dalle fatiche loro: e seguita: ed io sol uno. Par che qui sia un vizio, il quale si chiama inculcatio, cioè porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come qui sono; perciocchè solo non può essere se non uno: e uno non può essere se non solo: ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del parlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, contro al vizio della inculcazione. [p. 121 modifica]O potrebbesi dire, che questo nome solo fosse nome adiettivo, e uno fosse nome proprio di quel numero, e così cesserebbe il vizio.

M’apparecchiava a sostener la guerra,

cioè la fatica, nemica e infesta al mio riposo: sì del cammino, che far doveva, in che mostra dovere il corpo essere gravato: e sì della pietate, cioè della compassione, la quale aspetta d’avere, vedendo l’afflizioni e le pene de’ dannati, e di quegli che nel fuoco si purgano. Ed in questo dimostra l’anima dovere esser faticata; perciocchè essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono, gravata e noiata essa e non il corpo, quantunque ella sia ancor gravata dalle passioni corporali: che tratterà, cioè racconterà, la mente, cioè la potenza memorativa, che non erra: e questo dice perciocchè si conosceva avere tenace memoria, per la qual cosa non temeva dovere errare, nè nella quantità, nè nella qualità. O Muse, o alto ingegno. In questa seconda parte l’autore fa la sua invocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versi dire la intenzione sommaria di ciò che poi intendono di trattare in tutto il processo del libro, e questo detto, fare la loro invocazione: e così fa Virgilio nel principio del suo Eneida:

— — — — — at nunc horrentia Martis,
Arma,virumque cano, Trojae qui pjimus ab oris, etc.

E questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:

Musa, mihi causas memora: quo numine laeso, etc.

[p. 122 modifica]E Ovidio nel principio del suo maggior volume dice.

In nova fert animus mutatas dicere formas Corpora.

Ed incontanente invoca, dicendo,

— — — — — dî coeptis, nam vos mutastis, et illas, Aspirate meis, etc.

E talvolta i poeti, insieme con l’invocazione, mescolano la sommaria intenzion loro: e così nel principio della sua Odissea fece Omero, li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo.

Dic mihi, Musa, virum captae post tempora Trojae,
Qui mores hominum multorum vidit, et urbes.

così similmente il venerabile mio precettore M. Francesco Petrarca fece nel principio della sua Africa, dicendo:

Et mihi conspicuum meritis, belloque tremendum
Musa, virum referas.

ma il nostro autore s’accostò più allo stilo di Virgilio, come in ciascuna cosa fa, che a quello d’alcun altro; perciocchè avendo sotto brevità del precedente Canto mostrato quello che intende in tutto il libro suo di dire, laddove dice:

E trarrotti di qui, per luogo eterno, ec.

qui fa la sua invocazione, dicendo:

O Muse, o alto ingegno, or m aiutate:
O mente, che scrivesti, ec.

Invoca adunque in questo suo principio, siccome appare, le Muse, siccome di sopra è mostrato far gli [p. 123 modifica]altri poeti; perchè pare di dover dichiarare che cosa sieno queste Muse, e quante, e qual sia il loro uficio, e questo, sì per più pienamente dar lo intelletto del presente testo, e sì ancora perchè in più parti del presente libro se ne farà menzione. E adunque da sapere, secondochè i poeti fingono, che le Muse sono nove, e furono figliuole di Giove e della Memoria: e la ragione perchè questo sia da’ poeti fingendo detto, è questa. Piace ad Isidero cristiano, e santissimo uomo e pontefice, nel libro delle Etimologie, che perciocchè il suono delle predette muse è cosa sensibile, e che nel preterito passa, e imprimesi nella memoria, però essere da’ poeti dette figliuole di Giove e della Memoria. Ma io a maggior dichiarazione di questo sentimento estimo, che sia cosi da dire: che conciosiacosachè da Dio sia ogni scienza, come nel principio del libro della Sapienza si legge, e non basti a ricevere quella solamente l’avere inteso, ma che a farla in noi essere scienza sia di necessità le cose intese commendare alla memoria, e così divenire in noi scienza. Il che l’autore appresso assai bene ne dimostra, laddove dice:

Apri la mente a quel ch’io ti paleso,
E fermal dentro, che non fa scïenza,
Senza lo ritenere, avere inteso.

Dobbiamo, e possiam dire, queste Muse, cioè scienza, in noi già abituata per lo intelletto e per la memoria, potersi dire figliuole di Giove, cioè di Dio padre e della Memoria. E dico di Giove doversi intendere qui Iddio padre, perciocchè alcuno altro nome non so più conveniente a Dio padre che [p. 124 modifica]questo. E la ragione è, che Giove si chiama in latino Juppiter, il quale noi intendiamo Juvans Pater, Il qual nome, se ben vorrem riguardare, ad alcun altro che a Dio padre dirittamente non s’appartiene; perciocchè esso solo dirittamente si può dir padre; perciocchè essendo senza avere avuto padre, e delle cose eterne ed eziandio dell’altre unico e vero creatore e padre, e oltre a ciò ad ogni onesta operazione è veramente aiutatore, nè si può senza il suo aiuto alcuna cosa perfettamente ad effetto recare; e così quante volte in alcuno onesto atto Giove si nomina, possiamo e dobbiamo di Dio onnipotente intendere. Così adunque, ritornando al proposito, meritamente di Giove e della Memoria possiam dire le Muse essere state figliuole, in quanto egli è vero dimostratore della ragione di qualunque cosa. Le quali sue dimostrazioni servate nella memoria, fanno scienza ne’ mortali, per la quale qui, largamente prendendo, s’intendono le Muse: e così sarà la memoria ricevitrice e ritenitrice di questo santo seme, e poi riducente, quivi partoritrice madre delle muse. Le quali, dice il predetto Isidero nel libro preallegato, essere nominate a quœrendo, cioè da cercare; perciocchè per esse, siccome gli antichi vogliono, si cerca la ragione de’ versi, e la modulazione della voce. E per questo, per derivazione, viene dal nome loro questo nome di musica, la quale è scienza di sapere moderare le voci. E da questa ragione si può prendere la cagione perchè più se l’hanno i poeti fatte familiari che alcun’altra maniera di scientifici. Sono queste muse in numero nove: e perchè elle [p. 125 modifica]sieno nove, si sforza di mostrare Macrobio nel secondo libro super somnio Scipionis, equiparando quelle a’ canti delle otto spere del cielo, vogliendo poi la nona essere il concento che nasce della modulazione di tutti e otto’ cieli; aggiugnendo poi le muse essere il canto del mondo, e questo, non che dall’altre genti, ma eziandio dagli uomini di villa sapersi, perciocchè da loro sono le muse chiamate camene, quasi canene, dal cantare così nominate. Ed acciocchè voi intendiate che vuol dire questo canto del mondo, dovete sapere, che fu opinione di Pitagora, e di altri filosofi, che ciascun cielo di questi otto, cioè l’ottava spera e i sette de’ sette pianeti, volgendosi in su li loro cardini, facessero alcuno ruggire, qual più aguto e qual più grave, sì per divino artificio di debiti tempi misurati, che insieme concordando facevano una soavissima melodia, la quale qui intende Macrobio per lo concento; della qual noi, per udirla continuo, non ci curiamo nè vi riguardiamo. Ma questa opinione di Pitagora con manifeste ragioni è riprovata da Aristotile. Ma di questo rende Fulgenzio nel libro delle sue mitologie altra ragione, dicendo, per queste nove muse doversi intendere la formazione perfetta della nostra voce: la qual voce, dice, si forma da quattro denti, li quali la lingua percuote quando l’uomo parla; de’ quali, se alcuno mancasse, parrebbe che piuttosto si mandasse fuori un sufolo che voce. Appresso questo dice formarsi la voce dalle due nostre labbra, le quali non altrimenti sono che due cembali modulanti la comodità delle nostre parole. E così la lingua, col suo [p. 126 modifica]piegamento e circunflessione essere a modo che un plettro, il quale formi lo spirito vocale: e quindi essere opportuno il palato, per la concavità del quale si proffera il suono. E ultimamente, acciocchè nove cose sieno, s’aggiugne la canna della gola, la quale presta il corso spirituale per la sua ritonda via. Ed oltre a questo, perciocchè da molti si dice Apollo cantare con queste nove muse, non altrimenti che servatore del concento al canto delle predette cose, è dal detto Fulgenzio aggiunto il polmone, il quale a guisa d’un mantaco, le cose concette manda fuori, e rivoca dentro. E non volendo, che in così riposto segreto della natura a lui solamente paia di dovere essere prestata fede di così esquisita ragione, induce per testimonii Anassimandro Lampsaceno, e Senofane Eracleopolita, li quali conferma queste cose avere scritte ne’ libri loro; aggiugnendo ancora, queste medesime cose da molti chiarissimi filosofi essere affermate, siccome da Pisandro Fisico, e da Anassimene in quel libro il quale egli chiama Telogumenon. Appresso, il detto Fulgenzio, ad altro intelletto e più divulgato, disegna gli effetti di queste muse, i loro nomi ponendo, e quello per ciascuno in particolarità si debbe intendere: e cosi la prima nomina Clio, e per questa vuole s’intenda il primo pensiero d’apparare; perciocchè Clios in greco viene a dire fama in latino: e nullo è che cerchi scienza se non quella nella quale crede potere prolungare la dignità della fama sua: e per questa cagione è chiamata la prima Clio, cioè pensiero di cercare scienza. La seconda è in greco chiamata [p. 127 modifica]Euterpe, la quale in latino vuol dire bene dilettante, acciocchè primieramente sia il cercare scienza, e appresso sia il dilettarsi in quello che tu cerchi. La terza è appellata Melpomene, quasi Melempio comene, cioè facente stare la meditazione; acciocchè primieramente sia il volere, e appresso che quello diletti che tu vuogli, e oltre a ciò perseverare, meditando quello che tu desideri. La quarta ha nome Talia, cioè capacità, quasi come l’uom dicesse Tithonlia cioè pognente cosa che germini. Ln quinta si chiama Polimnia quasi Polium neemen cioè cosa che faccia molta memoria; perciocchè noi diciamo che dopo la capacità è necessaria la memoria. La sesta è chiamata Erato, cioè Euruncomenon il qual noi in latino diciamo trovatore del simile; perciocchè dopo la scienza, e dopo la memoria, è giusta cosa che l’uomo di suo trovi alcuna cosa simile. La settima si chiama Tersicore, cioè dilettante ammaestramento: adunque appresso la invenzione, bisogna che l’uomo discerna e giudichi quello che esso trovi. L’ottava si chiama Urania, cioè Celestiale; perciocchè dopo l’aver giudicato, elegga 1’uomo quello che egli debba dire, e quello che egli debba rifiutare; perciocchè lo eleggere quello che sia utile, e rifiutare quello che sia caduco e disutile, è atto di celestiale ingegno. La nona è chiamata Caliope, cioè ottima voce. Sarà adunque l’ordine questo. Primieramente volere la dottrina: appresso dilettarsi in quello che l’uom vuole: poi perseverare in quello che diletta: e oltre a ciò prendere quello in che si dee perseverare: e quinci [p. 128 modifica]ricordarsi di quello che l’uom prende: appresso trovare del suo cosa simigliante a quello di che l’uom si ricorda; dopo questo, giudicare di quello di che l’uom si ricorda, e così eleggere quello di che si giudichi: e ultimamente profferere bene quello che l’uomo ha eletto. Dalle quali dimostrazioni, e spezialmente per le prime, si può comprendere che cagione muova i poeti ad invocare il loro aiuto. Nondimeno pare ad alcuno che le muse si debbano dinominare da Moys, che in latino viene a dire acqua. E questo voglion perciocchè il comporre, e ancora il meditare alcuna invenzione, e la composta esaminare, si sogliano con meno difficultà fare su per la riva di un bel fiume, o d’alcun chiaro fonte, che in altra parte; quasi il riguardar dell’acqua abbia alle predette cose muovere e incitare gl’ingegni. E questo par che vogliano prendere da ciò, che Cadmo re di Tebe sedendo sopra il fonte chiamato Ipocrene, trovò le figure delle lettere greche, le quali essi ancora usano; comechè da Palamede poi, e ancora da Pittagora, ve ne fossero alcune1 aggiunte. E quivi similmente meditò la loro composizione insieme; acciocchè, secondo quello che era opportuno al greco idioma, per quelle si profferesse; affermando ancora molti fonti, secondo l’antico errore, essere stati alle muse consecrati, siccome il fonte Castalio, il fonte Aganippe ed altri: questo rispetto avendo, che sopra quegli fossero [p. 129 modifica]gl’ingegni umani più pronti alle meditazioni, che in alcuna altra parte. O alto ingegno. È l’ingegno dell’uomo una forza intrinseca dell’animo, per la quale noi spesse volte troviamo di nuovo quello che mal da alcuno non abbiamo apparato. Il che avere sovente fatto l’autore in questo libro si trova: perciocchè quantunque gl’inOmero, e appresso lui Virgilio, dello scendere in inferno scrivessero, ancorachè in alcuna parte gli abbia l’autore imitati nell’inferno, nelle più delle cose tiene da loro cammino molto diverso: del quale, perocchè alcuno altro scrittore non si trova che in quella forna trattato n’abbia, assai manifestamente possiam vedere della forza del suo ingegno questa invenzione, e il modo del procedere essere provenuto, Or m’aiutate: perciocchè mi bisogna a questo punto la inventiva, e il modo del procedere, e la sonorità dello stilo. O mente. Non bastando solo l’ingegno, per la cui forza le pellegrine inventive si trovano, invoca ancora la mente sua, acciocchè per l’apera di lei, quello possa servare e poi raccontare che avrà trovato. Ed è questa mente, secondochè Papia scrive, la più nobile parte della nostra anima, dalla quale procede l’intelligenza, e per la quale l’uomo è detto fatto alla immagine di Dio, o è l’anima stessa, la quale per li molti suoi effetti ha diversi nomi meritati. Ella è allora chiamata anima, quando ella vivifica il corpo: ella è chiamata animo, quando ella alcuna cosa vuole: ella è chiamata ragione, quando ella alcuna cosa dirittamente giudica: ella è chiamata spirito, quando ella spira: ella è chiamata senso, quando ella alcuna cosa [p. 130 modifica]sente: ella è chiamata mente, quando ella sa ed intende. Questa sta nella più eccelsa parte dell’anima, e perciò è chiamata mente, perchè ella si ricorda. Per lo quale effetto qui il suo aiuto invoca l’autore; perciocchè se in questo la mente non l’aiutasse, invano sarebbe disceso e discenderebbe a vedere tante cose e così diverse, quante per opera della mente ne scrive: che scrivesti, cioè in te raccogliesti: ciò ch’ i’ vidi, nel cammino da me fatto: Qui, cioè nella presente opera, si parrà la tua nobilitate, cioè la tua sufficienza in conservare; perciocchè la nobiltà della cosa consiste molto nello esercitar bene e compiutamente quello che al suo ufìcio appartiene. Io cominciai: Poeta. In questa terza parte del presente canto dissi, che 1’autore moveva un dubbio a Virgilio, il quale mosso da pusillanimità mostra di temere di mettersi nel cammino, il quale Virgilio nella fine del primo canto disse di dovergli mostrare, e dice: Io cominciai, a dire: Poeta, Virgilio: che mi guidi, Guarda, cioè esamina la mia virtù, cioè la mia forza: s’ella è possente a sostener tanto affanno, quanto nel lungo cammino e malagevole, lo quale tu di’ di volermi menare, fia di necessità d sofferire: e fa’ questo, Prima ch’ all’alto passo cioè d’entrare in inferno, tu mi fidi, tu mi commetta; quasi voglia dire: io vorrei per avventura ad ora tornare indietro che io non potrei. Tu dici: qui vuol l’autore levar via una risposta, la quale Virgilio, siccome egli avvisava, gli arebbe potuta fare, cioè di dire: non può’ tu venire, o non credi potere laddove andò Enea, e ancora laddove andò san Paolo? e [p. 131 modifica]comincia: Tu dici, nel sesto libro del tuo Eneida: che di Silvio lo parente, cioè padre. Ebbe Enea due figliuoli, de’ quali fu l’uno chiamalo Julio Ascanio, e questo ebbe di Creusa figliuola di Priamo re di Troia, e l’altro ebbe nome Julio Silvio Postumo, il quale Lavina figliuola del re Latino, essendo rimasa gravida d’Enea, partorì dopo la morte d’Enea in una selva; per la qual cosa ella il cognominò Silvio: e Postumo fu chiamato, perciocchè dopo la umazione del padre era nato: e così si chiamano tutti quelli che dopo la morte de’ padri loro nascono; Corruttibile ancora, cioè ancora vivo; perciocchè chiunque nella presente vita vive è corruttibile, cioè atto a corruzione: ad immortale, cioè eterno, secolo, cioè mondo. Secolo, secondo il suo proprio significato, è uno spazio di tempo di cento anni secondo il romano uso: ma in questa parte non lo intende l’autore per ispazio di tempo, ma seguendo l’uso del parlare fiorentino 2, nel quale volendo dire in questo mondo, spesso si dice in questo secolo; rivolgendo il nome del tempo in nome del luogo dove il tempo s’usa, cioè nel mondo. Chiama secolo l’altro mondo, cioè 1’inferno, il quale noi similemente assai spesso chiamiamo l’altro mondo: il che la sacra Scrittura similemente fa alcuna volta: il quale del presente mondo dicendo, dice san Paolo: pie, et juste viventes in hoc saeculo: e dell’altra vita parlando: Nescimus in quos fines saeculi [p. 132 modifica]devenerunt: andò, e fu sensibilmente; volendo per questo s’intenda Enea, non per visione o per contemplazione essere andato in inferno, ma col vero corpo e sensibilmente. E questo prende l’autore da ciò che Virgilio scrive nel sesto dell’Eneida, nel quale dice, che essendo Enea, poichè di Sicilia si partì, pervenuto nel seno di Baia, e quivi in assai tranquillo mare, dando per avventura riposo a’ suoi compagni, e desideroso di sapere quello che di questa sua peregrinazione gli dovesse avvenire; essendo andato al lago d’Averno, dove aveva udito essere 1’oracolo della Sibilla Cumana, ed esso altresì la pregò che in inferno il menasse al padre, e dietro alla sua guida, vivo e con l’arme discese: e per quello passando, pervenne ne’ campi Elisii, laddove quelli che in istato di beatitudine erano, secondo l’antico errore. E perciò dice l’autore che egli andò sensibilmente.

Perchè se l’avversario d’ogni male,

cioè Iddio, Cortese fu, di lasciarlo andare senza alcuna offensione, non è maraviglia: pensando l’alto effetto, Che uscir dovea di lui, cioè d’Enea, e ’l chi, e l’ quale, cioè Cesare dettatore, o Ottaviano imperadore, de’ quali ciascun fu da molto; e ciascun si potrebbe dire essere stato fondatore della imperial dignità; perciocchè quantunque Cesare non fosse imperadore, egli fu dettatore perpetuo, e fu il primo dopo i re cacciati di Roma, il quale recò nelle sue mani violentemente tutto il governo della repubblica: del quale occupamento seguì il triumvirato di Ottaviano e de’compagni: e da quello essendo da Ottaviano per loro bestialità posti giù dell’uficio del [p. 133 modifica]triumvirato Marco Antonio e Marco Lepido, e rimaso egli solò triumviro ne seguì, o per tacita forza, o pure per ispontaneo piacere del senato e del popolo di Roma, l’essergli il governo della repubblica commesso, quando cognominato fu Augusto: dopo il quale sempre fu servato poi uno dopo altro, essere in quella dignità sustituiti e chiamati imperadori. E risponde qui l’autore ad una tacita quistione. Potrebbe alcun dire: come dei tu, che se’ cristiano, credere che Iddio fosse più liberale ad un pagano di lasciarlo andare vivo in inferno, che a te? A che egli e nelle parole predette risponde, e in quelle che seguono dicendo: Non pare indegno, l’avere Iddio sostenuto l’andata d’Enea, ad uomo d’intelletto, il cui giudicio è ragionevole e giusto, e massimamente avendo riguardo, Ch’ei, Enea, fu dell’alma, cioè eccelsa, Roma, la quale tutto il mondo si sottomise, e dell’impero, cioè della signoria di Roma; o vogliam dire della dignità spettante a quelli che noi chiamiamo imperadori: de’ quali fu il primo Ottaviano, disceso per molti mezzi della schiatta d’Enea; Nell’impireo ciel, cioè nel cielo della luce, dove si crede essere il solio della divina maestà. E chiamasi impireo cioè igneo; perciocchè pir in greco, viene a dire fuoco in latino: e vogliono i nostri santi quello dirsi impireo, perciocchè egli arde tutto di perfetta carità: per padre eletto. Vuol per questo sentir l’autore, per divina disposizione esser d’Enea seguito quello che leggiamo essere stato operato per li suoi successori. E dice quivi Enea essere padre di Roma e dello imperio, perciocchè quegli che di lui [p. 134 modifica]nacquero per sedici re, infino a Numitore, che fu l’ultimo della schiatta d’Enea, regnarono in Alba per ispazio di quattrocentoventiquattro anni: poi essendo di Numitore re nata Ilia, e Amulio fratello di Numitore, più giovane d’età, tolto a Numitore il regno, fece uccidere un figliuolo di Numitore chiamato Lauso: e per torre ad Ilia speranza di figliuoli, la fece vergine Vestale, alle quali era pena d’essere sotterrate vive, se in adulterio fossero state trovate. Nondimeno questa Ilia, comecchè ella si facesse, o con cui ch’ella si giacesse, ella ingravidò, e partorì due figliuoli ad un parto, de’ quali l’uno fu chiamato Romolo e l’altro Remulo: li quali, essendo già per comandamento di Amulio Ilia stata sotterrata viva, furono gittati da persone mandate dal re a ciò, non nel corso del Tevero, al quale perchè cresciuto era non si poteva andare, ma alla riva: e ’l fiume scemato, e essi trovati vivi da una chiamata Acca Laurenzia, moglie d’un pastore del re chiamato Faustulo, furono raccolti e nutricati, niente sapendone il re, e così nominati da Faustulo: li quali cresciuti, ed avendo reale animo, ed essendo pastori, e capitani e maggiori di ladroni e d’uomini violenti, ed avendo da Faustulo sentito cui figliuoli erano; composto il modo tra loro fu l’un di loro preso, e menato davanti dal re, e accusato: e l’altro, attendendo il re ad udire la querela, feritolo di dietro, l’uccise, e a Numitore loro avolo, che in villa si stava, restituirono il reame; ed essi tornatisene laddove allevati erano stati fecero quella città, la qual da Romolo dinominata Roma, divenne donna del mondo; per la qual cosa appare Enea [p. 135 modifica]padre di Roma. Appresso partitosi Julio Proculo, il quale fu bisnepote di Julio Silvio, da Romolo re d’Alba, e discendente come detto è d’Enea; e venutosene con Romolo ad abitare a Roma, quivi fondò la famiglia de’ Giulii, secondo che Eusebio, in libro temporum, dice: li quali poi in Roma, per continue successioni, perseverando infino a Gaio Julio Cesare pervennero: il quale non avendo alcun figliuolo, s’adottò in figliuolo Ottaviano Ottavio (li cui antichi, secondo che dice Svetonio, de xii. Caesaribus, furono di Velletri) figliuolo d’una sua sirocchia carnale chiamata Julia: ed in costui poi fu di pari consentimento del senato e del popolo di Roma, come davanti è detto, commesso il governo della repubblica, e fu cognominato Augusto: e fu il primo imperadore, e de’ discendenti di Enea: e così Enea fu similmente padre dell’imperio, cioè della dignità imperiale. La quale, cioè Roma, e ’l quale, imperio, a voler dir lo vero, Fur stabiliti, ordinati, per evidenza da Dio, per lo loco santo, cioè per la fede apostolica, U’ siede il successor, cioè il papa, del maggior Piero, cioè di san Piero apostolo, il quale chiama maggiore per la dignità papale, e a differenza di più altri santi uomini nominati Piero. E che questo fosse preveduto, e ordinato da Dio, appare nelle cose seguite poi, tra le quali sappiamo, Constantino imperadore, mondato della lebbra da san Silvestro papa, lasciò Roma e la imperial sede 3 al papa, e andossene in Constantinopoli: e oltre a [p. 136 modifica]questo, ordinò e fe’i suol successori sempre con la loro potenza esser presti contra a ciascheduno, il quale infestasse o turbasse la quiete della chiesa di Dio e dei pastori di quella. Perchè meritamente dice l’autore, essere stabiliti e Roma e l’imperio per lo santo luogo della apostolica fede. E poi conoscendo Iddio, al quale nulla cosa è nascosa, questo, non è da maravigliare se esso fu cortese ad Enea di lasciarlo andare in inferno: e massimamente sapendo, che esso dovea laggiù udir cose, le quali l’animerebbono a dover dare opera a quello di che dovea questo seguire. E poi soggiugne l’autore. Per questa andata, di Enea in inferno, onde, cioè della quale, tu mi dai vanto, cioè promessione dicendo di menarmi laggiù benchè in alcuni libri si legge:

Per questa andata, onde tu gli dai vanto,

ad Enea commendandolo, ed estollendolo per quella, la ove tu di’ nel sesto dell’Eneida,

Noctes, atque dies patet atri janua Ditis:
Sed revocare gradum, superasque evadere ad auras,
Hoc opus, hic labor est: pauci, quos aequus amavit
Juppiter, aut ardens evexit ad aethera virtus,
Dîs geniti potuêre.

Per le quali parole, estimo migliore questa seconda lettera che la prima: intese cose, Enea, che furon cagione Di sua vittoria, in quanto riempiendolo di buona speranza, il fecero animoso all’impresa contro a Turno re de’ Rutuli, del quale avuto vittoria, e già in Italia divenuto potente, ne segui l’effetto che poco avanti si legge cioè, del papale ammanto. Vuol qui l’autore per parte s’intenda il [p. 137 modifica]tutto, cioè per lo papale ammanto tutta l’autorità papale: ed è da intender qui, che egli in quelle cose che da Anchise intese, come Virgilio nel sesto dell’Eneida mostra cominciando quivi:

Nunc age, Dardaniam prolem, quae deinde sequatur Gloria, etc.

non udì cosa alcuna del papale ammanto, ma udì cose le quali poi in processo di tempo, come detto è, furon cagione che Roma divenisse sedia del papa, come lungamente già fu. Andovvi poi, cioè lungo tempo dopo Enea, lo vas d’elezïone, cioè san Paolo, il quale non andò in inferno come Enea, ma fu rapito in paradiso laddove tu di’ che io andrò se io vorrò. La qual cosa è vera, siccome egli medesimo testimonia, affermando sè aver vedute tutte cose delle quali non è lecito agli uomini di favellare: e perciocchè Iddio l’aveva eletto per vaso dello Spirito Salito, conoscendo il frutto che delle sue predicazioni doveva uscire, non è mirabile se Iddio di così fatta andata gli fu cortese; e massimamente considerando che egli v’andò, Per recarne, quaggiù tra noi, conforto a quella fede, cristiana,

Ch’è principio alla via di salvazione:

E questo è certissimo, perocchè non possendosi gli alti segreti della divinità per alcuna nostra ragion cognoscere, è di necessità innanzi ad ogni altra cosa che per fede si credano. Sì che ben dice l’autore, la fede cattolica esser principio alla via di salvazione: alla quale ancora debole e fredda nelle menti di molti già cristiani divenuti, san Paolo, con la dottrina appresa nel celeste regno, recò alla nostra fede molto [p. 138 modifica]conforto; riscaldando colle sue predicazioni e con l’epistole le menti fredde e quasi ancora dubitanti. Ma io perchè venirvi? ne’ luoghi ne’quali tu mi prometti di menarmi: quasi dica per qual mio merito? o chi ’l concede? cioè che io in questi luoghi debba venire; volendo per questo intendere, come appresso dimostra, esser temeraria cosa l’andare in alcun segreto luogo senza alcun merito o senza licenza. Io non Enea, al quale Iddio fu cortese per le ragioni già mostrate. Chi Enea fosse, ancora che a molti sia noto, nondimeno più distesamente si dirà appresso nel quarto canto di questo libro, e però quanto è al presente basti quello che detto n’è; io non Paolo sono. San Paolo fu della tribù di Beniammì, e fu per patria di Tarso città di Cilicia: e avanti che divenisse cristiano, fu nelle scienze mondane assai ammaestrato, e fu ferventissimo persecutore de’ cristiani. Poi chiamato da Dio al suo servigio, fu mirabilissimo dottore, e con le sue predicazioni molte nazioni convertì al cristianesimo, molti pericoli e molte avversità di mare e di terra e d’uomini sostenne per lo nome di Cristo, e ultimamente, imperante Nerone Cesare, per lo nome di Cristo ricevette il martirio: e perciocchè era cittadino di Roma, gli fu tagliata la testa, e non fu come san Piero crocefisso. Di costui predisse Jacob, molte centinaia d’anni avanti, in persona di Beniamin suo figliuolo, e del quale egli doveva discendere: Beniamin lupus rapax, mane devorat praedam, et vespere dividit spolia. II quale vaticinio appartenere a san Paolo assai chiaramente si vede, perciocchè esso fu lupo rapace; alla [p. 139 modifica]mattina, cioè nella sua giovanezza, divorò la preda, cioè uccise i cristiani, e al vespro, cioè nella sua età più matura, divenuto servidore a Cristo divise le spoglie: il quale da Dio fa eletto a conforto della nostra fede. Me degno a ciò: quasi voglia dire, perchè io non sia Enea nè san Paolo io potrei per alcun altro gran merito credere d’esser degno di venirvi, ma io non so: e questo d’esser di venir degno, nè io, nè altri il crede. Appresso questo conchiude al dubbio suo, dicendo: Perchè, cioè per non esserne degno, se del venire, laddove tu mi vuoi menare, io m’abbandono, cioè mi metto in avventura. Temo che la venuta, mia, non sia folle, cioè stolta, in quanto male e vergogna me ne potrebbe seguire. E quinci rende Virgilio, al quale egli parla, attento a dover guardare al dubbio il quale egli muove, in quanto dice: Se’ savio, e per questo, e intendi me’, ch’i’ non ragiono, cioè che io non ti so dire. E appresso questo per una comparazione, liberamente apre l’animo suo dicendo: E quale è quei, che disvuol, cioè non vuole, ciò ch’ e’ volle, poco avanti: E per nuovi pensier, sopravvenuti, cangia proposta, di fare:

Sì che dal cominciar tutto si tolle;
Tal mi fec’io in quella oscura costa:

Perciocchè mostra non fossero ancor tanto andati, che usciti fossero del luogo oscuro nel quale destandosi s’ era trovato: Perchè, pensando: mostra la cagione perchè divenuto era tale, quale è colui il quale disvuole ciò ch’l’volle: e dice che pensando non fosse il suo andare pericoloso: consumai, cioè fini’ la ’mpresa, che seco fatta avea di seguir Virgilio. [p. 140 modifica]

Che fu, nel cominciar, cotanto tosta,

cioè subita, in quanto senza troppo pensare aveva risposto a Virgilio, come nel canto precedente appare, pregandolo che il menasse.

Se io ho ben la tua parola intesa.

In. questa terza parte del presente canto, dimostra l’autore, qual fosse la risposta fattagli da Virgilio: nella qual descrive, come e da cui, e perchè e donde Virgilio fosse mosso a dover venire allo scampo suo. Dice adunque, Rispose; a me, del magnanimo quell’ombra, cioè quell’anima di Virgilio, il quale cognomina magnanimo, e meritamente, perciocchè siccome Aristotile nel quarto della sua Etica dimostra, colui è da dire magnanimo, il quale si fa degnò di prendere e d’adoperare le gran cose. La qual cosa maravigliosamente bene fece Virgilio in quello esercizio, il quale alla sua facultà s’aspettava: perciocchè primieramente, con lungo studio e con vigilanza si fece degno di dover potere sicuramente ogni alla materia imprendere, per dovere d’essa in sublime stilo trattare: e fattosene col bene adoperare degno, non dubitò d’imprenderla e di proseguirla in recarla a perfezione. E ciò fu di cantar d’Enea, e delle sue magnifiche opere in onore di Ottaviano Cesare: le quali in sì fatto e sì eccelso stilo ne descrisse, che nè prima era stato, nè fu poi alcun latino poeta che v’aggiugnesse.

Se io ho ben la tua pargola intesa,

cioè il tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso:

L’ anima tua è da viltate offesa:

[p. 141 modifica]cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimità, la quale non che le maggior cose, ma eziandio quelle, che a colui nel quale ella si pon si convengono, non ardisce d’imprendere. La qual, viltà, molte fiate l’uomo ingombra, cioè impedisce, Sì che d’onrata impresa, poi fatta, lo rivolve, della sua misera e tiepida opinione: Come, ingombra, falso veder, parendo una cosa per un’altra vedere: il che avviene per ricevere troppo tosto nella virtù fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta: bestia quand’ombra, cioè adombra, e temendo non vuole più avanti andare. E vuolsi questa lettera così ordinare, la quale molte fiate ingombra l’uomo, come falso vedere fa bestia, quand’ombra, e d’onorata impresa lo rivolve. Poi seguita. Da questa tema, la qual tu hai di venire laddove detto l’ho, acciocchè tu ti solve, cioè sciolghi, sì che ella non ti tenga più impedito; Dirotti, per ch’i’ venni, e, dirotti quel ch’io intesi,

Nel primo punto, che di te mi dolve.

cioè, che io ebbi compassione di te.

Io era tra color, che son sospesi:

In quanto non sono demersi nella profondità dell’inferno, nè nella profonda miseria de’ supplicii più gravi, come sono molti altri dannati: nè sono non che in gloria, ma in alcuna speranza di minor pena, che quella la quale sostengono. Poi segue Virgilio: ed essendo quivi:

E donna mi chiamò beata, e bella:

dove per mostrare più degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti: prima dice he era donna, i1 qual [p. 142 modifica]titolo, come molte anzi quasi tutte oggi usino le femmine, a molte poche si confà degnamente: e dimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice oltre a questo, che ella era bella: e l’esser bella è singular dono della natura, il quale quantunque nelle mondane donne sia fragile e poco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente desiderato; senzachè egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nella concezione di quella cotale che questo dono riceve e quasi non mai sogliono i superiori corpi questo concedere, che egli non sia d’alcuna altra grazia accompagnato, per la qual cosa paiono più venerabili quelle persone che hanno bello aspetto che gli altri, Appresso dice che era beata:

nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali debbano potere muovere a’ suoi comandamenti qualunque persona richiesta; perocchè chi è beato, non è verisimile dovere d’alcuna cosa, se non onestissima, richiedere alcuno: e può chi è beato remunerare: e deesi credere, lui essere grato verso chi a suo piacer si dispone. Le quali cose Virgilio, siccome avvedutissimo uomo, conoscendo, dice ella era,

Tal che di comandare i’ la richiesi;

cioè offersimi, come ella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa donna esser degna di reverenza quando tanto uomo, quanto Virgilio fu, si proffera a lei. Poi segue continuando il suo dire, e ancora più degna la dimostra dicendo,

Lucevan gli occhi suoi più che la stella.

Deesi qui intendere, l’autore volere preporre la luce degli occhi di questa donna alla luce di quella [p. 143 modifica]stella ch’è più lucente. E cominciommi a dir, questa donna, soave, e piana: nel qual modo di parlare si comprende la qualità dell’animo di colui che favella dovere essere riposata, non mossa da alcuna passione. E oltre a ciò, in questo disegna l’atto donnesco, il quale in ogni suo movimento dee essere soave e riposato: con angelica voce. Aggiugne un’altra cosa, mirabilmente opportuna nelle donne d’aver la voce piacevole, nè più sonora nè meno che alla gravità donnesca si richiede: e queste così fatte voci fra noi sono chiamate angeliche. E oltre a questo, l’attribuisce Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei: perciocchè estimar dobbiamo, alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato: in sua favella, cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio fosse Mantovano: ed in ciò n’ammaestra, alcuno non dovere la sua original favella lasciare per alcuna altra, dove necessita a ciò nol costrignesse. La qual cosa fu tanto all’animo de’ Romani, che essi dovechè s’andassero, o ambasciadori, o in altri oficii, mai in altro idioma che romano non parlavano; e già ordinarono, che alcuno, di che nazione si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la romana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron già de’ lor giovani ad imprendere quello linguaggio, acciocchè intendesser quello, e in quello sapessero e preporre e rispondere. Ma potrebbe qui muoversi un dubbio, e dirsi, come sai tu che questa donna parlasse fiorentino? A che si può rispondere, apparire in più luoghi in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonna [p. 144 modifica]Fiorentina, la quale l’autore onestamente amò molto tempo; e per questo comprendere e dire, lei in fiorentino volgare aver parlato. E perciocchè questa è la primiera volta che di questa donna nel presente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquanto manifestare, di cui l’autore in alcune parti della presente opera intenda, nominando lei; conciosiacosachè non sempre di lei allegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazione di fede degna di persona la quale la conobbe, e fu per consanguinità strettissima a lei) figliuola di un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze: e comechè 1’autore sempre la nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice: ed egli acconciamente il testimonia nel Paradiso, laddove dice:

Ma quella reverenza, che s’indonna
Di tutto me, pur per B, e per ICE,

E fu di costumi e di onestà, laudevole, quanto donna esser debba, e possa: e di bellezza e di leggiadria assai ornata: e fu moglie d’un cavaliere de’ Bardi, chiamato messer Simone, e nel ventiquattresimo anno della sua età passò di questa vita, negli anni di Cristo MCCXC. Fu questa donna maravigliosamente amata dall’autore: nè cominciò questo amore nella loro provetta età, ma nella loro fanciullezza; perocchè essendo ella d’età d’otto anni, e l’autore di nove, siccome egli medesimo testimonia nel principio della sua Vita nuova, prima piacque agli occhi suoi: ed in questo amore, con maravigliosa onestà perseverò menare ella visse: e molte cose in rima, per amore ed [p. 145 modifica]in onor di lei già compose: e secondochè egli nella fine della sua Vita nuova scrive, esso in onor di lei a comporre la presente opera si dispose: e come appare e qui e in altre parli, assai maravigliosamente 1’onora. O anima. Qui cominciano le parole le quali Virgilio dice essergli state dette da questa donna: nelle quali la donna, con tre commendazioni di Virgilio si sforza di farlosi benivolo ed ubbidiente, dicendo primieramente: cortese, il che in qualunque, quantunque eccellente uomo, è onorevole titolo, e da desiderare; perciocchè in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l’esser cortese; quantunque molti vogliano, che ad altro non si riferisca l’esser cortese, se non al donare il suo ad altrui; mantovana: il che la donna dice, per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire, e dica, e non ad un altro:

La cui fama nel mondo ancora dura,

cioè persevera: e questa è la seconda cosa, per la quale la donna si vuol fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso. È4 la Fama un romore generale d’alcuna cosa, la quale sia stata operata, o si creda essere stata, da alcuno: siccome noi sentiamo e ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della laudevole povertà di Fabrizio, e della fornicazione di Didone e di simiglianti; la quale finge Virgilio nel quarto del suo Eneida essere stata [p. 146 modifica]figliuola della Terra, e sorella di . . . . . . ., e d’Anchelado, e lei la Terra commossa dall’ira degl’iddii aver partorita. Della qual si racconta una cotal favola: che conciofossecosachè per desiderio d’ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uomini giganti figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che lutti i figliuoli della Terra li quali inimicavan Giove, furon dal detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore, la Terra commossa e desiderosa di vendetta, conciofossecosachè a lei non fossero arme contro a così possenti nemici, acciocchè con quelle forze, le quali essa potesse, alcun male contro agl’iddii facesse, costretto il ventre suo ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate operazioni degl’iddii: la forma della quale Virgilio nel preallegato libro discrive, e dice:

Fama malum, quo non aliud velocius ullum etc.

seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e nella prima tema è piccola, ma poi sè medesima lieva in alto, e quindi va su per lo suolo della terra, e il suo capo nasconde tra’ nuvoli: e che ella è in su i piè velocissima, e alie molto ratte, ed è un mostro orribile e grande: e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi n’ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche le quali continuamente parlano: e tanti occhi li quali sempre tiene levati: e vola la notte per lo mezzo del cielo, e per l’ombra della terra stridendo senza dormire mai: e ’l dì siede ragguardatrice sopra le sommità delle case, e spaventa le città grandi: tenace così de’ composti mali, come rapportatrice del vero. Ma se io [p. 147 modifica]avendo la sua origine, e la forma e gli effetti secondo le fizioni poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questa crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso: dico adunque che gl’iddii, per l’ira de’ quali la Terra si commosse e turbò, è da intendere d’intorno d’alcuna cosa l’operazioni delle stelle, le quali gli antichi erronei chiamavano gl’iddii, avendo riguardo alla loro eternità e alla loro integrità, che alcuna corruzione non riceva: le quali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro attribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo le disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni: e da questo avviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è aumentato, conciosiacosachè colui che invecchia sia diminuito, e conciosiacosachè mai si scostino dalla ragione dell’ottimo e perfetto governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso giudicio de’ mortali pare che abbino siccome adirati fatte, come quando per loro muore un giusto re, un felice imperadore, un caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed egregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni uomini, pare che come adirati contro a loro faccino. Dissono li poeti gl’iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li quali si doveano perpetuare: ma che di questo seguita che la Terra se ne commuove, cioè l’animoso uomo, perciocchè tutti siamo di terra, e in terra torniamo, e sforzasi d’adoperare quello di che nasca nome e fama di lui, la quale cosa sia vendicatrice della sua futura morte; [p. 148 modifica]acciocchè quando quello avverrà, che i corpi superiori facciano venire al suo fine il suo mortal corpo, viva di lui per li suoi meriti, eziandio non volendo i corpi superiori, il nome suo e la fama delle sue operazioni, non altrimenti che se esso vivo fosse, E in quanto dice, questa nella prima tema essere piccola, non ce ne inganniamo; perciocchè quantunque grandi sieno le opere delle quali ella nasce, nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi. Poi in quanto dice Virgilio, essa elevarsi nei venti, niuna altra cosa vuol dire se non essa divenire in più ampio favellio delle genti: o vogliam per quel sentire essa mescolarsi ne’ ragionamenti della gente mezzana. E in quanto poi discende nel suolo della terra, intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo: e cosi quando mette il capo ne’ nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne’ragionamenti de’prencipi e degli uomini sublimi: e l’avere l’alie e’ pie veloci assai, manifestamente dimostra il presto trascorso d’una parte in un’altra: e per gli occhi, li quali le descrive molti, sente agli occhi della fama ogni cosa pervenire, e così agli orecchi: e lei non tacer mai, dovechè ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o un luogo o un altro, lei non dormir mai: e volar la notte per lo mezzo del cielo e per 1’ombra della terra, non credo altro intendere si debba, se non il suo continuo andamento di questo in quello: e per li suoi rapporta menti varii e molti, metter temore ne’ popoli, e per conseguente fare guardar le terre, e alle porti e sopra le torri fare stare le guardie e gli speculatori. E perciocchè essa non cura di [p. 149 modifica]distinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ella ode. Ma in quanto dicono costei dalla Terra essere generata, per dovere i peccati e le disoneste cose degl’iddii raccontare, per alcun’altra cosa non credo essere stato ficto, se non per dimostrare le vendette degli uomini men possenti, li quali non potendo altro fare a’ grandi uomini, s’ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire in infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuola della Terra è detta, perciocchè dell’opere sole che sopra la terra si fanno s’ingenera la fama. E che essa non abbia padre, credo avvenire da questo, per lo non sapersi donde il più delle volte nasca il principio del ragionare di quello che poi fama diventa. Il che se si sapesse, direbbe l’uomo quel cotale essere il padre della fama. La qual cosa quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto piaccia, sopra a tutti gli altri piacque a’ gentili, li quali non avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddio concede a coloro li quali adoperano bene, quegli cotanti li quali virtuosamente adoperavano, a fine d’acquistar fama il facevano, e quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano. Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva far benivolo Virgilio ; e poi soggiugne la terza dicendo: E durerà, questa tua fama, mentre il mondo lontana, ponendo qui il presente tempo per lo futuro, in quanto dice lontana per lontanerà, cioè si prolungherà. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è questa terza cosa quella che più piace a coloro li quali fama acquistano, che essa [p. 150 modifica]dopo la lor morte duri lunghissimo tempo; estimando che quanto più dura, più certo testimonio renda della virtù di colui che guadagnata l’ha. Ed in questo la donna gli compiace, in quanto gli dice quello che gli è grato ad udire: e oltre a ciò, dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere stato per sua grandissima virtù degno d’eterna fama. Ma perciocchè qui di questa fama si fa menzione, e ancora in più parti nel processo se ne farà, e di sopra abbiamo scritta la sua origine, estimo che sia commendabile il mostrare, anzi che più procediamo, che differenza sia tra onore e laude, e fama e gloria, acciocchè dove nelle cose seguenti menzion se ne farà s’intenda in che differenti sieno: e questo dico, perocchè già alcuni indifferentemente posero l’un nome per l’altro, de’ quali forse furo di quelli che non sapevano la differenza. Dico adunque che onore è quello, il quale ad alcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l’abbia, comechè il meritato sia vero onore, e l’altro non così: siccome a Scipione Africano, il quale avendo magnificamente per la repubblica contro a Cartagine aoperato, tornando a Roma gli fu preparato il carro triunfale, e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano, che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtù di colui che il riceveva s’acquistava. A dimostrazione della qual cosa è da sapere, che Marco Marcello nel quinto suo consolato, secondochè dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Serngusa in Sicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtù e all’Onore, fu per lo collegio [p. 151 modifica]de’ pontefici giudicato, a due deità non potersi un tempio solo farsi; perciocchè se alcuna cosa miracolosa in quello avvenisse, non si saprebbe a quale delle due deità ordinare i sacrificii debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato, che a ciascuna delle due deità si facesse un tempio: li quali furono fatti congiunti insieme in questa guisa, che nel tempio fatto in reverenza dell’Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtù non s’andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere, che onore non si poteva acquistare se non per operazione di virù. È oltre a questo fatto onore ad alcuni, li quali per loro merito non ricevono, ma per alcuna dignità loro conceduta, o per la memoria de’ lor passati, o forse per la loro età, questi sono andando messi innanzi, posti nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le laude, come l’onore si fa in presenza a colui che meritato l’ha, così si dicono lui essendo assente, perciocchè se lui presente si dicessero, non laude ma lusinghe parrebbono. La gloria è quella che delle ben fatte cose da’ grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si dicono, e l’essere con ammirazione dalla moltitudine riguardati, e mostrati e reveriti, come fu già Giunio Bruto, avendo cacciato Tarquino re, e liberata Roma dalla sua superbia; e Gajo Mario avendo vinto Giugurta, e sconfitti i Cimbri e’ Teutoni. Fama è quello ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d’alcun valente uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro i quali in nota messe l’hanno, spandendosi per lo mondo, e molti secoli continuando, come ancora e udiamo e [p. 152 modifica]leggiamo tutto il dì di Pompeo Magno, di Giulio Cesare dettatore, d’Alessandro re di Macedonia e di simiglianti.

Ma da tornare è alla intralasciata materia: e dico, che avendo questa donna cattata la benivolenza di Virgilio, gli comincia a dichiarare il suo desiderio dicendo: L’amico mio, cioè Dante, il quale lei mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente avea amata; e però siccome l’autore nel Purgatorio dice: amore

Acceso da virtù, sempre altro accese
Sol che la fiamma sua paresse fuore:

mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei: dal quale onesto amore, è di necessita essere stata generata onesta e laudevole amistà, la quale esser vera non può nè è durabile se da virtù causata non è. E così mostra che fosse questa, in quanto la donna, di lui parlando, il chiama suo amico. E qui non senza cagione, lasciato stare il proprio nome, il chiama la donna amico: la quale è per dimostrare, per la virtù di così fatto nome, l’autore le sia molto all’animo: e per mostrare in ciò che ella non vegna a porgere i preghi suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne: e non della ventura, cioè della fortuna perciocchè infortunato uomo fu l’autore: e questo aggiugne ella per mettere compassione di lui in Virgilio, il quale intende di richiedere che l’aiuti, perciocchè degl’infelici si suole avere compassione. Nella diserta piaggia, della quale di sopra è più volte fatta menzione, è impedito, dalle tre bestie, delle quali di sopra dicemmo: , cioè tanto, nel [p. 153 modifica]cammin, che volto è, a ritornarsi nella oscurità della valle, per paura, di quelle bestie:

E temo, che non sia già sì smarrito,
Ch’io mi sia tardi al soccorso, di lui, levata,
Per quel ch’io ho di lui nel cielo udito,

da Lucia: e pone la donna queste parole per avacciare l’andata di Virgilio: e appresso ancora il sollecita, dicendo:

Or muovi, e con la tua parola ornata;

Commendalo qui d’eloquenza, la quale ha grandissime forze nel persuadere quello che il parlatore crede opportuno:

E con ciò, che è mestiere al suo campare,

L’aiuta, da quelle bestie che l’impediscono, , cioè in tal maniera, ch’io ne sia consolata. E dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo:

Io son Beatrice, che ti faccio andare:

E detto il suo nome, gli dice onde ella viene, per mandarlo in questo servigio, acciocchè Virgilio conosca molto calernele; perciocchè senza gran cagione non è, il partirsi alcuno de’ luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne’ quali non è altra cosa chie dolore e miseria. E dice: Vegno del luogo, cioè di paradiso, ove tornar disio: e quinci gli apre la cagione che di paradiso l’ha fatta discendere in inferno dicendo: Amor. Grandi sono le forze dell’amore. Aequae multae non potuerunt extinguere charitatem: mi mosse, là onde io era: ed egli è quegli, che mi fa parlare, e pregarti. Appresso a questo, acciocchè Virgilio non sia tardo all’andare, come persona che guiderdone non aspetta della fatica, [p. 154 modifica]si dimostra verso lui dovere essere grata, dicendo:

Quando sarò dinanzi al Signor mio (cioè a Dio)
Di te mi loderò sovente a lui:

E così non una volta, ma molte, nella multiplicazione delle quali si dimostrerà esserle stato gratissimo il servigio da lui ricevuto: e quantunque questo guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute di Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, perciocchè s’egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quanto maggiormente si dee credere essergli caro, che una così fatta donna nel cospetto di Dio il commendi e si lodi di lui? Tacquesi allora, detto questo, e poi comincia’ io, a dire, e dissi supple,

O donna di virtù, sola per cui,

cioè per cui sola, L’umana spezie. È l’umana generazione spezie di questo genere che noi diciamo animali: eccede, cioè trapassa di virtù: ed oltre a ciò in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognoscono Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce, ogni contento i cioè ogni cosa contenuta,

Dal cielo, c’ ha minor li cerchi sui,

il quale è quel della luna, che perciocchè più che alcuno altro è vicino alla terra, è di necessità minore che alcun degli altri, e perciò ha i suoi cerchi, cioè le sue circunvoluzioni minori, infra’ quali gli elementi ed ogni cosa elementata si contiene; e ancora i demoni e le anime de’ dannati. Le quali cose tutte per l’anima razionale e libera, trapassa l’uomo d’eccellenza.

Tanto m’aggrada ’l tuo comandamento.

[p. 155 modifica]Qui si dimostra Virgilio assai graziosamente disposto al comandamento della donna; mostrando che egli non solamente desidera d’ubbidirla prestamente, ma dice: Che l’ubbidir, al comandamento, se già fosse, in atto m’è tardi; e però segue,

Più non t’è uopo aprirmi il tuo talento:

quasi dica, assai hai detto, ed io son presto; ma nondimeno le muove un dubbio dicendo:

Ma dimmi la cagion, che non ti guardi
Dello scender quaggiù in questo centro,

pieno di scurità e di pene eterne: e chiamasi centro quel punto, il quale fa quella parte del sesto il quale noi fermiamo, quando alcun cerchio facciamo: e però chiama centro il corpo della terra; perciocchè avendo riguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo, e alla piccola quantità del corpo della terra posta nel mezzo de’ cieli, qui si può dire centro del cielo: Dall’ampio loco, cioè dal cielo, ove tornar tu ardi, cioè ardentemente desideri. Al quale Beatrice dice così:

Da poi che vuoi saper cotanto addentro,

cioè sì profonda ed occulta cosa,

Dirolti brevemente, mi rispose,
Perch’ i’ non temo di venir qua entro,

in questo carcere cieco:

Temer si dee sol di quelle cose,
C’hanno potenza di fare altrui male,

siccome Aristotile nel terzo dell’Etica vuole, il non temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl’incendii, e’ diluvii dell’acque, la mine degli edifìcii, e simili a queste, è atto di bestiale e di [p. 156 modifica]temerario uomo; e così temere quelle che nuocere non possono, come sarebbe che l’uomo temesse una lepre, o il volato d’una quaglia, o le corna d’una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e rimesso: le quali due estremità questa donna tocca discretamente, dicendo esser da temere le cose che possono nuocere: Dell’altre no, cioè quelle, che non son poderose, a nuocere, e che non debbon metter paura nell’uomo, il quale debitamente si può dir forte. E quinci dimostra sè esser di quei cotali forti, dicendo; Io son da Dio, sua mercè, quasi dica, non per mio merito, fatta tale, cioè beata: alla qual cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puote offendere: Che la vostra miseria, cioè di voi dannati, non mi tange, cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro. Nè fiamma d’esto incendio, il quale è qui. E per questa parola nota quegli del limbo essere in fuoco, quantunque nel quarto Canto 1’autore dica, quegli che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri; non m’assale, cioè non mi s’appressa. Donna è nel cielo. Vuole qui mostrare Beatrice, non di suo proprio movimento mandare Virgilio al soccorso dell’autore, ma con divina disposizione; perciocchè in cielo alcuna cosa non si fa, che dall’ordine della divina mente non muova: e perciò vuol mostrare che,

Donna è nel cielo, che si compiange,

cioè si rammarica: nè è questo da credere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichio, ma conviene a noi da’ nostri atti prendere il modo del parlare dimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali: e [p. 157 modifica]perciocchè l’effetto il quale seguì del venire Beatrice a Virgilio, venne da una clemenza divina, quasi mossa, come le nostre si muovono per alcuno rammarichio, e però dice Beatrice quella donna compiangersi, cioè mostrare una affezione dell’impedimento dell’autore, come qui tra noi mostra chi ha compassione d’alcuno.

Di questo impedimento, ov’i’ ti mando,

cioè alla salute dell’autore; Sì che duro, cioè stabile e fermo, giudicio, da Dio, cioè dispositivo, lassù, cioè in cielo, frange, cioè s’apre, e dimostra come le marine onde, cacciate talvolta dall’impeto d’alcun vento, che vengono insino alla terra chiuse, e quivi frangendo s’aprono: e così sta chiusa ed occulta la divina disposizione, inflno a tanto che di manifestarla bisogni. Lucia chiese costei, cioè questa donna chiese Lucia, in suo dimando, cioè nel suo prego. Il senso di questa lettera, quantunque alquanto di sopra aperto n’abbia, non si può qui mostrare essere litterale, e però è da riserbare quando si tratterà l’allegorico. E disse, questa donna, ora ha bisogno il tuo fedele, Di te; perciocchè è in grandissima tribulazione, per la paura la quale ha delle tre bestie che il suo cammino impediscono: ed io a te lo raccomando; volendo dire, poichè suo fedele era, che ella nel suo scampo s’adoperasse,

Lucia nimica di ciascun crudele,
Si mosse, udito questo, e venne al loco, dov’io era,
Ch’ io mi sedea con l’antica Rachele.

Rachele fu figliuola di Labam, fratellpo di Rebecca moglie di Isac, e fu moglie di Giacob: la quale [p. 158 modifica]storia alquanto più distesamente si racconterà appresso nel quarto Canto di questo libro. Disse: Beatrice, loda, cioè laudatrice, di Dio vera; quasi voglia per questo intendere, essere vere, e non lusinghevoli nè fittizie, con le quali Beatrice loda Iddio.

Che non soccorri quei, che t’amò tanto,

Avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,

Ch’uscì per te della volgare schiera?

Cioè, che per piacerti, lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni laudevoli. Non odi tu la pietà, cioè l’afflizione, del suo pianto, il quale egli fa nella diserta piaggia:

Non vedi tu la morte, che ’l combatte?

cioè la crudeltà di quelle bestie, le quali con la paura di sè il combattono e conduconlo alla morte: Su la fiumana. Qui chiama fiumana quello orribile luogo, nel quale l’autore era da quelle bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure induca la fiumana, cioè l’impeto del fiume crescente, il quale è di tanta forza, che dir si può, ove, sopra la quale, ’l mar non ha vanto? cioè non si può il mare vantare d’essere più impetuoso, o più pericoloso di quella.

Al mondo non fur mai persone ratte,

cioè sollecite: A far lor prò, loro utilità, ed a fuggir lor danno, Com’io, sollecitamente, dopo cotai parole fatte, Venni quaggiù, in inferno, del mio beato scanno, cioè del luogo mio laddove io in paradiso sedea:

Fidandomi del tuo parlare onesto.

Qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo il suo [p. 159 modifica]parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può dire: Che onora te, Virgilio; e non solamente te, ma ancora, e quei, che udito l’hanno, e servato nella mente; perciocchè l’avere udito senza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto mandato, non può avere onorato l’uditore. E mostra ancora in queste poche parole precedenti l’ardente sua affezione verso l’autore, acciò per quello faccia ancora più pronto Virgilio al soccorso dell’autore. Poscia che m ebbe, cioè Beatrice, ragionato questo, che detto t’ho,

Gli occhi lucenti lagrimosi volse,

per avventura verso il cielo; dove è qui da intendere, che detta la sua intenzione a Virgilio, si tornò: e questo lagrimare ancora più d’affezione si dimostra, dimostrandosi ancora un atto d’amante, e massimamente di donna, le quali come hanno pregato d’alcuna cosa la quale desiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il desiderio loro essere ardentissimo: per la qual cosa dice Virgilio:

Perche mi fece del venir più presto:

E venni a te, nella piaggia diserta, dove tu rimiravi, laddove il sol tace, così come ella volse; quasi voglia dire che altrimenti non sarei venuto: Dinanzi a quella fiera, cioè a quella lupa ferocissima, ti levai, Che del bel monte, sopra il quale tu vedesti i raggi del sole, il corto andar ti tolse; perciocchè se davanti parata non ti si fosse, in breve spazio saresti potuto sopra il monte essere andato, dove per lo suo impedimento, a volervi su pervenire, ti convien fare molto più lungo cammino. Dunque, che è? cioè qual [p. 160 modifica]cagione, perchè, perchè ristai? di seguirmi: e reitera la interrogativa, per pugnere più l’animo dell’uditore: Perchè, cioè per qual cagione, tanta viltà, quanta tu medesimo nelle tue parole dimostri, nel cuor t’allette? cioè chiami con la falsa esaminazione, la qual fu delle cose esteriori:

Perchè ardire, e franchezza non hai?

e massimamente:

Poichè tali tre donne benedette,

quali sopra detto t’ho, cioè quella donna gentile, e Lucia e Beatrice, Oran5 di te, cioè hanno sollecitudine di te, e procuran la tua salute, nella corte del cielo, nella quale sussidio non è mai negato ad alcuno che umilmente lo domandi: e oltre a ciò, E ’l mio parlar, al quale tu dovresti dare piena fede, se tanto amore hai portato e porti alle mie opere, come davanti dicesti,

Vagliami ’l lungo studio, e ’l grande amore, ec.

tanto ben ti promette? cioè di conducerti salvamente in parte, della qual tu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna. Quali i fioretti: qui dissi cominciava la quinta parte di questo canto, nella quale l’autore per una comparazione dimostra il perduto ardire essergli ritornato, e il primo proponimento. Dice adunque così: Quali i fioretti, li quali nascono per li prati, dal notturno gelo, Chinati, e chiusi; perciocchè partendosi il sole, ogni pianta naturalmente [p. 161 modifica]ristringe il vigor suo; ma parsi questo più in una che in un’altra; e massimamente ne’ fiori, li quali per tema del freddo, tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: poi che ’l sol gl’imbianca, con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice imbianca, per questo vocabolo volendo essi diventare parventi, come paiono le cose bianche e chiare, dove l’oscurità della notte gli teneva, quasi non fossero, occulti. Si drizzan tutti; perciocchè avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno chinare, ma come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano, aperti in loro stelo, cioè sopra il gambo loro; Tal mi fec’io, quali i fioretti, di mia virtute stanca, per la viltà che m’era nel cuor venuta.

E tanto buono ardire al cuor mi corse,

per li conforti di Virgilio, Ch’io cominciai, a dire, come persona franca, forte e disposta ad ogni affanno. O pietosa colei, cioè Beatrice, che mi soccorse, col sollecitarti, e mandarti a me. E tu, fosti, cortese, che ubbidisti tosto

Alle vere parole, che ti porse!

Perciocchè dove venuto non fossi, io era veramente per perire:

Tu m’hai con desiderio il cuor disposto
Sì al venir con le parole tue,

cioè con i tuoi utili conforti, e vere dimostrazioni,

Ch’io son tornato nel primo proposto.

cioè di seguirti.

Or va’, ch’un sol volere è d’amendue.

Non si potrebbe in altra guisa bene andlare, se non fosse la guida e ’l guidato in un volere, Tu duca, [p. 162 modifica]quanto è nell’andare,

tu signore, quanto è alla preeminenza e al comandare, e tu maestro, quanto è al dimostrare; perciocchè uficio del maestro è il dimostrare la dottrina, e il solvere i dubbii;

Così li dissi: e poichè mosso fue,

Qui comincia la sesta ed ultima parte di questo Canto, nella quale l’autore mostra, come di capo riprese il cammino con Virgilio: entrai con Virgilio, per lo cammino alto, cioè profondo, e silvestro, perciocchè in quello nè albergo nè abitazione si trovava.

  1. Alcuna;
  2. Il codice leggeva originalmente fiorentino; fu cancellato con tre freghi, e scritto sopra commune, da mano moderna; gli editori di Napoli stamparono erroneamente frequentato.
  3. Sedie.
  4. Nel manoscritto essendo corso errore per aver posto il copista in ordine inverso la materia che segue, si legge nel margine questa nota. Qui ove tratta della Fama, si vuole aggiugnere quello che ne dice in quella Rubrica che comincia La cui fama nel mondo ec. E questo errore seguì perchè così stava nell’originale dal quale questo è copiato.
  5. Benchè dai più accurati editori della divina Commedia sia stata preferita la lezione di questo passo, Curan di te, non ho voluto dipartirmi dalla lezione del Codice, che legge Oran di te. Noto questa variante perchè non mi par dispregevole.