Decameron/Nota

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NOTA


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I

La celebritá tre volte secolare del codice nel quale Francesco Mannelli terminava di trascrivere addí 13 agosto 1384 il Decameron (oggi Laurenziano XLII, i = L) era assicurata il giorno in cui Vincenzo Borghini, filologo principe e dell’opera boccaccesca studioso autorevolissimo, esprimeva intorno ad esso questi giudizi: «fu scritto l’anno mccclxxxiiii e dopo la morte dell’autore il nono, e da uomo (come a molti segni si conosce) intendente, diligente e molto accorto, Francesco di Amaretto della nobilissima famiglia de’ Mannelli, e dallo originale istesso dell’autore, come egli in piú di un luogo fa fede»1. Nessun dubbio che il Borghini si riferisse specialmente alla postilla dal Mannelli apposta alla parola «costette» di II 204272 e che suona: «cosí dice il testo originale, e però non radere tu che leggi» (L, c. 142v); ed insieme, ad altre di questo tenore: «sic est testus», «sic erat testus», «cosí dice il testo», «dicit testus» (alle parole «paoneggiar» I 2308, «come vivi» I 23418, «sosta» II 2102, «tal cosa» II 2163). Ma l’opinione si fondava anche su altre prove numerose di diligenza e di scrupolo nella copiatura, che il Mannelli pareva offrire: non mancando, dopo che aveva introdotto di suo un supplemento, d’avvertire chi legge con un «deficiebat»; annotando «deficit» se aveva rilevato la mancanza ma non aveva creduto di supplire; dove gli fosse parsa non buona una lezione, [p. 332 modifica]limitandosi nel margine a proporne cautamente l’emendamento ovvero modificando senza trascurare di far conoscere la lezione originale o almeno appagandosi di mettere in guardia contro l’errore sia vero che presunto3. Aggiungasi che molte altre postille, tra le tante bizzarre o maliziose o svelte, facevan fede di una discreta coltura classica e volgare4 in chi le andava vergando (il Mannelli cita in esse Vergilio, Seneca, Giovenale, Isidoro, Dante, il «Fiammetto», tre volte la Teseide, cinque il Filostrato); che del trascrittore si doveva conservare il ricordo in Firenze come di persona ragguardevole5; che si favoleggiò, e per molto tempo si ebbe in conto di fondata veritá, che il Mannelli fosse stato intrinseco amico e, chi disse compare, chi [p. 333 modifica]addirittura «figlio di battesimo» ossia figlioccio di messer Giovanni6. Queste ragioni accrebbero immensamente agli occhi dei dotti il valore della copia, ed appena dieci anni dopo la prima presentazione di L il Salviati giungeva ad asserire «che egli solo vale il rimaso di tutti gli altri insieme, anzi piú senza fine: intanto, che poco avremmo per piú sicuro l’originale stesso»7: parole non aliene dal gusto ormai secentisticamente incline all’enfasi ed all’amplificazione8.

Ma, prescindendo dagli asseriti suoi rapporti con la copia mannelliana, è da constatare come di esso l’autografo noi non siamo in grado di dir nulla. Facile stabilire che «fino dagli antichi tempi perí»; ma era per lo meno arrischiato affermare che si trovasse tra i libri boccacceschi lasciati per testamento a frate Martino da Signa, insieme coi quali sarebbe arso nell’incendio della chiesa di Santo Spirito (21-22 marzo 1471) o nel bruciamento delle vanitá ordinato dal Savonarola nel 14979. A buon conto, tralasciando quest’ultima men seria asserzione, è provato che l’incendio non danneggiò la biblioteca del convento, che rimase in essere sino al principio del Cinquecento, quando dunque studiosi ed editori del Dec. avrebbero avuto ogni agio di vedere e di [p. 334 modifica]studiare il prezioso volume; ed anzi sappiamo che sin dal 1451 non era piú traccia in quella libreria di nessuna delle opere volgari del Nostro10. Un’altra ipotesi in proposito risale al Foscolo: che l’autore, dopo la visita del famigerato frate emissario del Petroni (1362), non che attender mai a correggere ed a ripulire il suo capolavoro, lo distruggesse11; e nessuno dubita infatti che cosí egli avrebbe fatto se il sacrificio fosse potuto giungere tempestivo, da che il Bocc. medesimo ci si rappresenta in una sua notissima lettera12 vergognoso e dolente delle novelle scritte in gioventú. Ma poteva la scomparsa dell’originale fermare la diffusione di un libro che giá, copiato e ricopiato subito dopo la sua uscita alla luce, correva il mondo? In ogni modo, l’ipotesi della distruzione volontaria scalzava radicalmente la fede nella discendenza di L, ch’è del 1384, dall’autografo: il Foscolo avvertí infatti il contrasto tra l’uno e l’altro concetto, ma non seppe schivare abilmente ogni insidia della deduzione13.

Che diremo invece dell’altro supposto, che il Bocc. non una, ma «avesse lasciato due copie di propria mano, ma varie»14, cosí che da esse fossero derivate le varianti sí numerose e gravi nei codici? A voler menare il supposto per buono, converrebbe però anche estenderlo, e pensare che tante copie di man dell’autore fossero state scritte, quante potrebbero contarsi famiglie o stipiti fondamentali, a cui i mss. del Dec. debbano, chi li voglia studiare a fondo, ridursi: il che è manifestamente assurdo. [p. 335 modifica]

Ma né questo studio né una semplice enumerazione di segnature sono, com’è chiaro, da attendersi qui. Basterá ricordare, piú che le scarse e mal determinate notizie raccolte in proposito dal Borghini e passate poi ad altri autori15, quei pochissimi testi a penna che di tempo in tempo furono additati particolarmente come osservabili. Tra essi il piú curioso è quel fascicoletto giá Strozziano (S) che V. Follini illustrò con una lezione tenuta nel 182316, e che in sostanza si riduce ad una specie di estratto della cornice del Dec., costituito dalla «chiusa» delle prime nove Giornate, inclusevi le ballate corrispondenti ed inclusa a suo luogo l’intera novella IX, x; il tutto introdotto da una specie di preambolo satirico-morale e letterario, dove il nome del Bocc. è presentato in maniera da far intendere ch’egli fosse vivo ancora quando il singolare documento fu scritto17. Indiscutibile pertanto [p. 336 modifica]l’antichitá di questo, quantunque non forse cosí remota come aveva creduto l’illustratore del «Frammento magliabechiano» (col qual nome fu impropriamente designato S nella tradizione critica); anche la bontá della lezione è certo ragguardevole, specialmente al paragone con la copia Mannelli, ma non mancano segni palesi d’inquinamento18. Pessimi senz’altro, e da non tenere in conto che di mere unitá bibliografiche, diremo invece altri due codici dei quali è stato fatto conoscere per le stampe qualche saggio in occasione di nozze19. Finalmente sarebbe qui da discorrere del [p. 337 modifica]ms. Hamilton, oggi Berlinese (B), e del cospicuo risveglio critico che il suo rinvenimento ha determinato: ma si troverá luogo a ciò piú opportuno nelle pagine seguenti20.

Passando adesso a dire delle edizioni21, l’unica su quante ne vide il primo secolo della stampa (una dozzina circa) che abbia un reale valore per la critica del testo è quella senza data e senza note tipografiche, anzi di non riconosciuta officina, che comunemente dicono del Deo Gratias dalle parole con cui termina: essa non cede in antichitá, e forse è anteriore, alla prima edizione con la data, ch’è quella veneziana di Cristoforo Valdarfer (1471). La Deo Gratias (D) va identificata con quel libro impresso che il Borghini chiamò «il Secondo» e sagacemente riconobbe tratto «da buon testo» e conforme ad L, «e pure alcuna volta è diverso, che ci mostra che e’ non viene da questo»22; la ebbe presente il Salviati, che ne accolse a studio le varianti. Di essa si occupò trent’anni fa con indagine diligentissima O. Hecker, venendo alla conchiusione che, secondo ogni probabilitá, le serví di esemplare il ms. B appena ricordato piú sopra: ossia proprio, come sin dal Cinquecento s’era veduto, un testo strettamente affine ad L23. La lezione è però non troppo corretta o addirittura scorretta, e va quindi adoperata con incessante cautela.

La piú importante delle antiche stampe fu dichiarata dal Tobler la fiorentina del 1527 «per li heredi di Philippo di Giunta» (G). Ne parlò il Borghini come del principal fondamento della fatica sua e degli altri Deputati, e sommamente celebrò quei «giovani [p. 338 modifica]nobili e virtuosi» i quali attesero a correggere il Dec. «con gran diligenza e non minor giudizio» purgandolo «da tanti e tanto gravi errori»; un po’ di freddo mise nel fervore di questi elogi il Salviati quando rilevò, quel testo «essere in molti luoghi stato corretto di fantasia, avvengaché bene le piú volte, e per acconcio modo, e con ingegno si vegga fatto»24. Secondo il Borghini i dotti giovani non conobbero L, o lo conobbero tardi ed a stampa inoltrata; essi si sarebbero valsi invece di un codice giá appartenuto a Giannozzo Manetti († 1459) e specialmente di un altro di casa Cavalcanti tenuto sempre «in grande stima e reverenzia», restati ambedue inaccessibili ai Deputati del 1573 e che nemmeno noi siamo in grado d’identificare25. Se non che un raffronto tra la lezione della Giuntina e quella di L (raffronto reso facile dal fatto che l’edizione lucchese del 1761 registra in calce con non interrotta diligenza le varianti di G) mostra che il ms. non restò affatto ignoto a chi curò la «ventisettana», e ciò sino dal bel principio della stampa; questo punto fu assodato giá dal Fanfani con argomentazione alquanto prolissa26 ma che un accurato accertamento mi dá per fondata. Oltre ad L, è agevole rilevare che quegli editori ebbero per le mani un ms. molto corretto ed autorevole, ch’era strettamente affine a B piú volte ricordato; l’affinitá è comprovata dal fatto che su circa novecento passi da [p. 339 modifica]me studiati in cui G presenta una lezione diversa da L, ben 370 coincidono con B. I risultati sin qui raggiunti per questa strada non mi consentono per altro di stabilire se si debba arrivare senz’altro all’identificazione con B, potendosi invece pensare ad un altro rappresentante della stessa famiglia; non bisogna poi dimenticare l’affermazione del Borghini, che di due fonti manoscritte, almeno, si valsero gli editori di G: affermazione che dovrá essere controllata, ma che non può a priori respingersi. Complica l’indagine il fatto delle correzioni «di fantasia» segnalate con piú aperte parole dal Salviati: questi mutamenti arbitrari (che non mancano qualche volta di rivelarsi plausibili o indubitabili emendamenti) credo si possano riconoscere approssimativamente sommanti a due centinaia e mezzo. Ora, detratti questi, resta un numero assai considerevole di lezioni che debbono risalire ad un antigrafo, e tale sará caso per caso o l’uno o l’altro o tutti insieme i mss. di cui s’è parlato, senza poter nemmeno escludere che concorra ancor qualche riflesso di alcuna delle stampe anteriori. Infatti, il testo sul quale condussero il loro lavoro i promotori di G fu un esemplare dell’edizione Aldina del 1522, da loro postillato ed acconciato per la stampa27; quest’originale fu per le mani dei Deputati del 1573, i quali poterono osservare che in certi casi «nel libro loro fu racconcio bene e nello stampato sta male», o che la miglior lezione pervenisse a conoscenza dopo terminata la stampa o che con poca cura fosse eseguita la correzione della stampa medesima28. Se pertanto è presumibile che un certo numero di lezioni proprie dell’Aldina sia andato a confluire in G, è fuor di questione che l’immensa maggioranza delle altre varianti proceda dalle fonti a penna; delle quali, giudicando dal fatto che tra queste lezioni s’incontrano numerose integrazioni di lacune diversamente insanabili, bisognerá pur conchiudere che una almeno sia stata di capitale importanza. In rapporto a tale constatazione la mente corre subito a quel «testo di casa i Cavalcanti, tenuto sempre da quella famiglia in grande stima e reverenzia, e da’ vecchi loro, sotto stretto fidecommesso e gravi pregiudizi cavandolo di casa, lasciato a’ posteri loro»; cosí ne [p. 340 modifica]ragguagliò il Borghini, soggiungendo tuttavia che gli editori di G non poterono vedere «il libro proprio, che giá era perduto,.... ma un riscontro con quello da M. Francesco Berni»29. Tante precauzioni per la salvaguardia di un ms., si vera sunt exposita (s’intende), costituiscono una testimonianza lampante di pregio intrinseco attribuito ad un cimelio che appartenesse giá da qualche generazione alla famiglia: come avrebbe potuto essere, supponiamo, quel Dec. sul quale, con grande vergogna e dolore del Bocc. giá vecchio e pentito, le donne famigliari di messer Mainardo Cavalcanti solevano leggere, col permesso del loro capo, «quot ibi sint minus decentia et adversantia honestati, quot Veneris infauste aculei, quot in scelus impellentia etiam si sint ferrea pectora»30.

La «ventisettana», con tutti i quesiti di critica del testo che solleva e che giova sperare non tardino ad essere in acconcia sede affrontati e risolti, è la prima edizione condotta con serietá moderna di propositi dietro un esame abbastanza diligente di antigrafi bene scelti; e con ragione i Deputati la chiamarono «pianta di tutto l’edificio» e «fondamento» della loro «fabbrica», ch’è la nota edizione rassettata del 1573. Tra l’una e l’altra volsero anni ben poco propizi al libro boccaccesco: dentro le circa trentadue ristampe si contano le famigerate «correzioni» di Lodovico Dolce (1541-’46-’52) e di Girolamo Ruscelli (1552-’54-’57); esse appartengono alla storia delle fortune del capolavoro, non a quella del suo testo, al quale non apportarono che guasti31. Poi, nel, 1559, per sentenza del Concilio tridentino, il Dec. è compreso nell’Index librorum prohibitorum con provvisoria condanna, «donec expurgetur»32; e da allora ogni attivitá editoriale si sospende per forza, durante quasi tre lustri: né ripiglierá che per offrire, ai dotti ed ai curiosi, alle liete comari ed ai filologi, la prima delle tre «rassettature» o meglio sconciature cinquecentesche.

In che cosa questa consista è presto detto. Quando «quei di Roma» si avvidero che a spegnere del tutto il ricordo e il [p. 341 modifica]desiderio dell’opera perseguitata non era pur da pensare e che una dannazione definitiva non sarebbe stata veduta di buon occhio dal granduca Cosimo I, escogitarono il grottesco rimedio di metter fuori il Dec. corretto, ossia purgato in forma «che per niun modo si parli in male o scandalo de’ preti, frati, abati, abbadesse, monaci, monache, piovani, proposti, vescovi o altre cose sacre: ma si mutin li nomi e si faccia per altro modo che parrá meglio». Fu da Roma spedita allo stampatore Giunti in Firenze una copia nella quale era segnato minutamente, parola per parola, tutto ciò che doveva essere tolto via senza remissione; l’Accademia fiorentina propose una lista di nove nomi di persone idonee ad eseguire il lavoro secondo le istruzioni della Curia romana, ed il granduca ne trascelse quattro, che furono i «Deputati» (1571). Il piú operoso e dotto dei quattro, il Borghini, compí da solo, o quasi, in un anno giusto, l’ingente fatica di rimediare nei limiti del possibile alle barbare mutilazioni, adattando saldando rifacendo con la maggior circospezione i passi lesi, riconducendo gl’illesi a quel ch’egli si persuase essere stato il testo originario boccaccesco, curando la stampa ed allestendo le Annotazioni. Il Dec. «ricorretto in Roma et emendato secondo l’ordine del Sacro Conc. di Trento e riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera lezione ridotto da’ Deputati di Loro Alt. Ser.» (cosí si legge nel frontespizio) vide la luce in Firenze nel 1573; le Annotazioni «fatte dalli molto Magnifici Sig. Deputati da Loro Altezze Serenissime» furono stampate l’anno stesso, ma pubblicate con la data del 157433.

Queste ultime, pur senza essere quel «tesoro inesausto di critica filologica» che parvero al Fanfani, segnano invero un momento saliente nella storia del testo decameroniano. In esse per la prima volta si premette un accurato studio di mss. e di stampe allo scopo di costituire la norma e la giustificazione della lezione; si mette bene in vista il valore preminente di L, che tra i codici esistenti in Firenze nell’ottavo decennio del secolo era verisimilmente il migliore; si affrontano con sicuri e talvolta moderni [p. 342 modifica]criteri questioni spinose di ortografia, di pronunzia, di sintassi, di cronologia della lingua; si discute di numerosi passi controversi col sussidio di una preparazione, su scrittori fiorentini e in genere toscani, coevi e anteriori al Bocc., senza ombra di dubbio vastissima. Ma il testo delle novelle, come sembra a noi invereconda offesa all’arte ed al buon senso, cosí dispiacque a tutti subito che fu dato in pubblico: prima degli altri agli editori (cui non mancò la coscienza dell'enormitá voluta da Roma e della quale cercarono di non assumersi essi il carico), ai lettori, alla Chiesa medesima. Quest’ultima, movendo censure al riassetto dei Deputati, mirò subito a promuovere una nuova sconciatura, che l’autoritá personale del priore degl’Innocenti e l’appoggio dei Medici poterono per qualche anno stornare; ma finalmente, scomparso il Borghini, si dové porre mano al secondo scempio, demandato dal granduca Francesco I non piú ad una commissione ma ad un solo sapiente, e Lionardo Salviati fu colui che osò proclamarsi responsabile della novella rassettatura del Dec., «di nuovo ristampato e riscontrato in Firenze con testi antichi et alla sua vera lezione ridotto», come suona il titolo bugiardo (1582). Nonostante la maggior fortuna libraria della fatica salviatesca34, non potè il suo autore schivare il giudizio severo degl’intelligenti, che con la penna satirica del Boccalini lo dichiararono colpevole di «scelleraggine» biasimata da «tutti i virtuosi», e «pubblico e notorio assassino». I testi onde si giovò il Salviati furono i medesimi tenuti davanti dai Deputati, identico il giudizio datone e l’aggruppamento fattone dal nuovo editore (se si prescinde da insignificanti divergenze e dal proclamato riscontro di alcuni altri libri «da non farne molta stima»), sí che, per questo rispetto, non v’è progresso: L, ora chiamato non piú «l’Ottimo» ma «il Mannelli» in omaggio al nome di chi lo scrisse, séguita ad essere la piú fondata autoritá cui sappia appellarsi il Salviati. Solamente va segnalata con lode la prima comparsa di un apparato critico assai ampio, inteso a registrare le principali differenze dal testo del 1573 ed a giustificarle coi riferimenti delle lezioni tenute a fondamento.

Come non è mio ufficio segnalare le goffaggini, le brutture, le oscenitá, non piú ora scusate dall’intento satirico antifratesco [p. 343 modifica]né ripagate dalla bellezza artistica, dei due rassettamenti35, cosí nulla piú che passando rammenterò l’oltraggio addirittura bestiale commesso da Luigi Groto «Cieco d’Adria» con la postuma stampa veneziana del 1588, troppo fortunata ancor essa36; dacché qui nessun elemento nuovo venga introdotto che contribuisca o s’attenga alla critica del testo. Alla quale neppure conferirono le stampe integrali riprese a pubblicarsi, ma fuori d’Italia e della giurisdizione del Santo Uffizio, a partire dal 1665: per quasi trent’anni, dopo l’ultima rispolveratura del Dec. salviatesco, non s’erano avute nuove edizioni, e la prima che venne fuori dalla luterana Amsterdam non poté che riprodurre il testo ventisettano, corretto «nella parte non ritocca col testo del 73»37. Al primo dei due ritornò risolutamente Paolo Rolli ristampando (Londra, 1725) la lezione della piú celebre Giuntina «parola per parola, linea per linea», insieme con certe sue annotazioni grammaticali che provocarono la Lettera di Giuseppe Buonamici sopra il Dec. del Boccaccio, scritto pregevole per le notizie raccolte sulle principali stampe antecedenti38. Intorno agli stessi anni era eseguita in Venezia anche una vera e propria contraffazione della «ventisettana» con caratteri fusi nelle matrici originali di quelli che avevano servito ai Giunti39; a sí fatta sterilitá s’eran ridotte nel bel mezzo del Settecento, mentre il Manni veniva apprestando con l’Istoria del Decamerone (1742) il risveglio degli studi sul Bocc., le cure per il suo capolavoro. Né maggior genialitá o sapienza o acume critico mostraron d’avere quei valentuomini che nel 1761 misero fuori la riproduzione quasi diplomatica del ms. mannelliano, conservandone fedelmente la grafia, le interpunzioni, le cassature, [p. 344 modifica]le postille, le correzioni, in guisa che «chiunque leggerá il Decameron su questa Impressione, sará come se ei lo leggesse» su L40.

Fu cosí fatta la riscossa decameroniana dei toscani, anzi dei fiorentini (tali erano il marchese P. A. Guadagni ed il canonico A. M. Bandini): candida impresa e di arcadicamente innocua filologia, che pure si dové circondare di mistero e non riuscí ad evitare difficoltá ed intoppi41; della quale, non dirò certo il merito, ma il risultato capitale fu d’avere prolungato ed ingigantito il feticismo per il Mannelli, copista e copia. Propizie volgevano invece le stagioni alle «castrature» per uso dei «modesti giovani» (incominciarono nel 1739 e vi si segnalarono il Seghezzi, il p. Corticelli ed il p. Bandiera) oppure, per un altro e peggior verso, alle ristampe londinesi, parigine, lipsiensi o amstelodamie, per erotica suggestione dei viziosi.

Dalla fine del secolo XVIII alla metá del XIX le poche edizioni serie e rispettabili si uniformano su per giú ai medesimi criteri: fedeltá al testo mannelliano del 1761 temperata con maggiore o minor discrezione da ricorsi e riscontri sulla «ventisettana», da ammodernamenti ortografici, da correzioni, quali ragionevoli quali arbitrarie o cervellotiche o erronee. Riproducono questi caratteri: l’edizione livornese di G. Poggiali (1789-’90), la parmense di M. Colombo (1812-’14), la veneziana del Vitarelli (1813), la parigina di A. Cerutti (1823), la londinese del Foscolo (1825), le fiorentine d’I. Moutier (1827-’28) e di P. Dal Rio (1841-’44). Di tanti nomi uno solo, quel del poeta di Zante, arresta naturalmente l’attenzione e vuole per sé piú che un fuggevole ricordo: e non per l’edizione42, la quale non si scosta dal modello di sopra ritratto, ma per il profondo ed ispirato Discorso storico sul testo che fu [p. 345 modifica]premesso al primo volume43. Il valore intrinseco di esso fu analiticamente posto in rilievo dal Cian, con cui si può convenire che il Discorso meriti d’essere «rammentato con ammirazione», non però dove afferma che vi si schiude «un’èra nuova» nella storia della critica boccaccesca44. Rispetto alla distribuzione della materia ed allo scopo preciso dello scritto, troppe parti appaiono superflue o fuor di posto, di che lo stesso Foscolo mostrò di rendersi conto quando le tolse di lí per rifonderle successivamente in altri saggi; quello che s’attiene propriamente al testo del Dec. non è nuovo (benché di ciò non si possa far colpa allo scrittore), non evita tutti i vecchi errori, e talvolta, come nella questione dell’ortografia, è piuttosto vago e superficiale.

Il tipo venutosi giá delineando nelle edizioni del primo cinquantennio dell’Ottocento trova la sua piú piena e corrente espressione nel Dec. «riscontrato co’ migliori testi e postillato» da P. Fanfani, del 185745, ma rimasto sino ad oggi il campione a cui si conforma ogni ristampa, o scolastica o mercantile o per uso delle cosí dette «persone cólte». Le caratteristiche di questo tipo mi piace di esprimere con alcune parole del Tobler che traduco dal tedesco: «tutte le piú recenti edizioni offrono nel migliore dei casi il testo mannelliano (e non giá nell’ortografia originale, ma in una che si accosta qua piú e lá meno all’uso odierno) e lo rendono leggibile sull’autoritá di questo o di quel codice»46. Per conto suo il Fanfani si attenne alla lezione del Colombo, ma la riscontrò «parola per parola» col testo del Mannelli; quando irrepugnabili ragioni» lo costrinsero a scostarsi dall’una o [p. 346 modifica]dall’altro, ricorse alle vecchie stampe Deo Gratias, «ventisettana», dei Deputati e del Salviati, ai riscontri dei codici fiorentini e a certi «pregevoli ed esatti» studi, o meglio zibaldoni di varianti, dell’abate V. Masini fiorentino, morto nel 1822 prima di ricavarne qualche frutto per i suoi propositi47. Non potrei dire se da questo inedito materiale ne traesse il convincimento, ma è un fatto che il Fanfani nel suo Ragionamento sopra il testo Mannelli preposto all’edizione accertò con buone e fondate ragioni un punto «rilevantissimo e capitale» per la critica: che il ms. L, pur seguitando ad essere per lui «migliore di ogni altro», sia tuttavia ed inferiore all’importanza attribuitagli e «non per niente copiato dall’autografo». Nell’atto pratico, bensí, l’ossequio ad L sopravvisse nel Fanfani forse immutato o certo piú saldo di quanto avrebbe dovuto dopo tali constatazioni: e la vulgata (quale può considerarsi sino ad oggi la stampa di cui sto parlando) fece perdurare per altri decenni parecchi la tradizione della supremazia e della «mirabil diligenza» della copia mannelliana48.

II

Un’èra veramente nuova si apre, per l’argomento qui studiato, con la dissertazione consacrata da A. Tobler al ms. B, dissertazione comparsa in luce nel 1887 e divulgata subito tra noi da una nota di L. Biadene49. Il Tobler diede una descrizione larga e metodica del codice, poi lo studiò nella sua lezione in rapporto ad L, rappresentatogli dalla stampa lucchese; riprodusse minuziosamente le varietá tra i due mss. per i tratti dei quali giá il Follini aveva fatto conoscere la lezione di S50, ed affrontò infine, mercé la comparazione testuale condotta limitatamente ad alcune novelle, [p. 347 modifica]lo studio dei rapporti intercorrenti tra loro, conchiudendo che B non può essere per certo una copia di L, mentre L può benissimo essere una copia di B. Tale conchiusione fu poco piú tardi avvalorata e determinata dallo Hecker dopo aver esteso a tutto il corpo di B l’esame iniziato dal Tobler: con sicura dimostrazione egli passò a stabilire che B fu l’antigrafo immediato di L, e venne a togliere per sempre a quest’ultimo il posto d’onore che tanta brava gente e per tanto tempo gli aveva ciecamente accordato e continuato a riconoscere51.

Le indagini nuove, auspicate e promosse dal Tobler, dopo avere condotto a questi eccellenti risultati, disgraziatamente si fermarono52: ma non v’è dubbio che di necessitá esse dovranno al piú presto essere riprese ed estese. Intanto, poiché giá solo con le compiute sin qui si poteva far fare un progresso sensibilissimo al testo del capolavoro della prosa d’arte italiana, fu creduto opportuno concretar la portata pratica di quelle, assumendo la lezione di B per fondamento di una nuova stampa che affrancasse definitivamente il lettore dalla vulgata, permettendogli d’attendere con minor danno il momento della desiderata edizione critica. Tale è appunto lo scopo che si prefigge la presente edizione; di cui dovendosi ora, ch’è tempo, venire a discorrere, par bene premettere alcune notizie descrittive e storiche sul codice adoperato per esemplare53.

Il ms. Hamilton 90 è un volume in pergamena, di gran formato, costituito attualmente di cc. 112, che furono per altro numerate (forse nel sec. XVII) dall’1 al 111, perché fu lasciata senza [p. 348 modifica]numero la carta successiva alla ventesima. Il testo è scritto su due colonne; il Dec. comincia a c. ir e termina a c. 110v; nel recto dell’ultima carta, rimasto bianco in origine, fu scritto di mano degli estremi anni del Trecento o dei primissimi del secolo seguente un «Sonnetus Peregrini de Zambecariis», noto per esserci stato conservato da altre fonti54. Il codice si compone attualmente di 14 fascicoli quaderni, ma è purtroppo mutilo per la perdita, accaduta anteriormente alla numerazione, di due interi fascicoli, uno dopo la c. 79 e un altro dopo la c. 103; mancano per conseguenza i tratti seguenti del nostro vol. II:

1) dalle parole «pare che l’uscio nostro sia tócco» 4423 alle parole «e ciascuno altro, se» 8720;

2) dalle parole «tu di’, ché non ti fai» 2308 alle parole i fatti suoi a Roma» 28215.

Una terza mancanza è determinata dalla perdita della prima carta originale, sostituita per cura di un nuovo possessore da un’altra, pure membranacea, la cui scrittura (che a me par senza dubbio di mano del secolo XV) si direbbe condotta espressamente sul modello di quella di B; son cosí andati distrutti, del testo primitivo, tutto il proemio ed il tratto iniziale dell’introduzione alla Giorn. I sino alle parole «adoperata pareva seco» di I 1113. Alla prima carta doveva precedere la tavola delle novelle, che andò egualmente distrutta e non fu piú sostituita55. Si può stabilire che intorno al 1470, ossia quando B serví di antigrafo all’edizione del Deo Gratias56, la surrogazione del foglio iniziale era giá avvenuta; invece i due fascicoli intermedi erano sempre al loro posto. In quel tempo il volume non doveva essere rilegato, e questa condizione, come fece svanire quasi completamente la scrittura del recto della prima carta, cosí fu senza dubbio cagione (forse durante il Cinquecento) della piú grave dispersione. [p. 349 modifica]

La scrittura, su due colonne, è nitida, regolarissima: e tutte le caratteristiche grafiche, con la loro esattezza e bellezza, son quali dovevano essere a voler fare del volume un oggetto, se non lussuoso (non vi sono miniature), certamente decoroso e signorile. Le lettere iniziali della Giorn. II e delle successive57 sono turchine con un contorno di fregi rossi, di altezza corrispondente al tratto compreso tra quattro righe di scrittura; altre iniziali, alternativamente rosse e turchine, dell’altezza di due righe, contrassegnano il cominciamento delle parti principali dell’introduzione alla Giorn. I, il principio delle singole novelle e della chiusa di ogni Giornata, ed il capoverso delle ballate; infine, altre piú piccole, sempre rosse e turchine alternate, stanno all’inizio del preambolo delle novelle, a quello della vera e propria narrazione e a quello delle singole stanze delle ballate. I versi di queste sono scritti a modo di prosa; si va a capo ad ogni principio di stanza.

La riconosciuta derivazione di L dal nostro ms. attesta in modo inconfutabile che quest’ultimo fu scritto prima del 1384, poiché di quest’anno è la copia58. Si può sospettare che B abbia appartenuto sullo scorcio del Trecento al cancelliere del Comune bolognese Pellegrino Zambeccari († 1400), che fu non tiepido umanista e corrispondente ed amico del Salutati59; sappiamo invece [p. 350 modifica]con certezza che appartenne ad un Giuliano de’ Medici60; nel Settecento diventò proprietá di Apostolo Zeno, il quale lo giudicò «pregevolissimo» e «da riporsi tra i piú stimabili»61. Le ultime vicende lo portarono nella collezione del duca di Hamilton e quindi nella sede definitiva attuale.

III

Questa edizione non pretende di segnare un termine d’arrivo, ma si contenta di costituire il punto di partenza della fase ultima della storia del testo: quello da cui si cominci a scorgere non remoto lo scopo a cui tendono le fatiche della critica industre e sagace, il ripristino del Dec. quale uscí dalle mani dello scrittore (x).

Per adesso il problema è meno arduo: atteso che gli studi sinora compiuti hanno posto in evidenza il singolar pregio del ms. B, basterá limitarsi a stampar questo, tenendo però conto di tre ordini di fatti: 1°) la lezione del codice non è immune da errori, anche di notevole gravitá, poiché esso, per quanto assai antico (nulla vieta di crederlo scritto in tempo che il Bocc. ancora viveva), non si può tuttavia ritener procedente senza intermediari da x, sí che rappresenta giá un grado della tradizione manoscritta in cui l’inevitabile inquinamento s’è reso sensibile; 2°) il testo di B non è nella sua integritá sotto gli occhi nostri, avendo sciagurate traversie fatto disperdere, come sappiamo62, una carta in principio del volume, otto nella Giorn. VII, otto ancora tra la Giorn. IX e la X63; 3°) la veste formale (ortografia e morfologia) [p. 351 modifica]di B non è tale da potersi senz’altro riprodurre fedelmente nella stampa: ed in questo tipo di stampa, destinato ad un pubblico ed a finalitá speciali, meno che in altri.

Incominciando senza piú lo studio del primo di tali punti, premetto che gli errori di B si riconducono alle tre solite categorie fondamentali: interpolazioni, lacune e mutamenti.

Interpolazioni. — Nel ricopiare era facilissimo che un amanuense incorporasse nel testo note marginali scambiandole per supplementi, senza badare all’assenza dei segni di richiamo che nell’ultimo caso non avrebber dovuto mancare; tanto piú facile fu ciò per il Dec., la cui festivitá e vena satirica peculiari potevano ispirare allo stesso trascrittore o ad un lettore sfoghi, frizzi ed osservazioni di vario genere fissate in forma di postille sugli spazi bianchi delle pagine. Un esempio cospicuo di tale costume ci lasciò appunto il Mannelli, postillatore arrabbiato, le cui note bizzarre o salaci o erudite o critiche (sommano a trecento circa) furono riprodotte con sufficiente esattezza dall’edizione lucchese; ebbene, due di quelle note furono assunte per supplementi integrativi dagli editori appunto del 1761, i quali pertanto le introdussero nella loro stampa, donde si travasarono nella vulgata64! Casi consimili d’interpolazione non poterono dunque mancare nell’ascendenza di B, dalla cui lezione non è però facile snicchiarle: ed anche men facile in genere è dimostrare la lor natura di elementi intrusi, estranei al testo originale. Io ritengo di averne rintracciate alcune e passo qui a farne parola, incominciando dalla piú rilevante di tutte: la famosa espressione «cognominato prencipe Galeotto» che segue al titolo vero e proprio in capo ed in fine del libro.

Se in B la prima carta originaria, dov’era l’incipit, è andata distrutta (della carta surrogatale non è il caso d’occuparci), nessun dubbio però che quelle tre parole vi figurassero, cosí come vi figurano dentro l’explicit (c. 110v); anche, si trovano in ambedue i luoghi presso tutti gli altri testi, con unica ma ben autorevole eccezione fatta da S, il quale nella sua parte introduttiva ricorda [p. 352 modifica]il libro «titolato Decameron», senz’altro65. Tutto ciò fu giá avvertito dall’Hauvette, il quale, in una breve memoria scartò giudiziosamente l’ipotesi preliminare che il Bocc. abbia escogitato quel sottotitolo all’atto della composizione dell’opera66: cosí, egli venne esplicitamente a riconoscerne il carattere interpolativo, il che, se anche a lui non parve poi di dover percorrere sino in fondo la strada67, basta a costituire un fondato consenso di massima al mio avviso, che quell’aggiunta non abbia il minimo diritto di figurare nel testo.

Gli altri luoghi nei quali ho creduto che si debbano riscontrare interpolazioni nella lezione di B sono i seguenti: [p. 353 modifica]

I 6414 «chi addosso o in dosso»: le ultime parole hanno tutta l’aria d’una variante segnata in margine e poi entrata abusivamente nel testo68;

I 15516 «al prod’uomo cioè al conte», ivi32 «il prod’uomo cioè il conte»: qui è evidentissimo che si tratti di glosse dichiarative; basta osservare che il termine «prod’uomo» ricorre anche altre volte poco prima e poco dopo, sempre da solo, e che nei due casi segnalati risulta con tutta chiarezza dal contesto come il prod’uomo sia appunto il conte;

I 27079 «una sua donna moglie»: altro glossema, che gli editori di G non ammisero ma la vulg. ristabilí;

I 2756 «alle cui leggi cioè della natura»: in questo e nei due passi seguenti è forse anche piú appariscente la glossa69; qui il termine natura non aveva bisogno d’essere espresso, essendo nominato in modo implicito nel «naturalmente» che precede70;

II 10536 «i denari cioè li dugento fiorin d’oro»: son parole di Gulfardo, il quale non aveva bisogno di chiarire a Guasparruolo quali e quanti fossero i denari presi in prestito qualche giorno prima;

II 2875 «Ella adunque cioè Sofronia»: era perfettamente inutile menzionare il nome della donna, non potendo cader equivoco circa la persona a cui riferire il pronome femminile71.


Lacune.B ne presenta una serie purtroppo assai ricca, che va da certune gravissime per la loro estensione ad altre piú brevi, limitate ad una o due parole, spesso congiunzioni o [p. 354 modifica]preposizioni o altre parti del discorso poco importanti. Quelle da me riscontrate sono quasi centocinquanta: e non va escluso che ve ne siano altre meno avvertibili, come sicuramente vi sono alcune avvertite mediante il confronto con vari testi (specie D e G), ma non colmate in attesa di accertamenti che converrá attendersi dall’edizione critica. Distribuisco le prime in tre gruppi secondo la loro ampiezza ed entitá nei rispetti del guasto che producono al testo.

Tre sono le piú estese:

II 16024 «e con grande istanza il pregò che gliel dicesse» dopo le parole «che cosa fosse l’andare in corso»: il completamento è indispensabile, perché senza esso non si saprebbe come il desiderio di maestro Simone era venuto a conoscenza di Bruno;

II 29036 «Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovenili braccia di Gisippo ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere dagli abbracciamenti della bella giovane, forse talvolta invitatrice, se non costei?»: la perdita di questo periodo distruggerebbe la simmetria ternaria cosí caratteristica della chiusa della presente novella72;

II 31724 «ed il suo fratello» dopo le parole «sposa credi»: integrazione indispensabile per cagione del «tuoi e miei figliuoli» che segue, il quale mostra che Gualtieri intende di parlare della figlia e del figlio. Tutti e tre i supplementi sono offerti da G, e di qui anche la vulg. li prese.

Vengon poi piú di cinquanta lacune meno ampie ma non meno rilevanti:

I 1117 «fededegna persona» (L mostra di aver avvertito la mancanza correggendo fededegno: ma cfr. I 1727 «persona degna di fede»73);

I 2813 «da falsa oppinione ingannati»: senza l’aggettivo qualificativo l’espressione restante è un nonsenso logico ed implica egualmente un difetto di articolazione; [p. 355 modifica]

I 12319 «che altressi»: il che essi rimasto nella vulg. diede l’aire alle piú strane spiegazioni74;

I 12630 «seco propose»: cfr. poche righe piú sotto «sé avere seco proposto» (e seco è in G);

I 12822 «dove Pericon con la donna dormiva n’andarono»: qui il Fanfani supplisce invece se n’andò, adducendo l’autoritá di alcuni mss. 75; ma la proposta non persuade, sia perché «se n’andò» è giá stato usato quattro righe prima, sia perché i due plurali seguenti «uccisono... presero» richiedono che di quel numero fosse anche la forma verbale coordinata che deve precedere;

I 13126 «fatte cadere», giá suppl. da L;

I 13626 «grandissima parte delle cose»: giá L supplí de’ beni, ed il Fanfani, sempre adducendo i mss.76, pose delle piú care cose, che trova un riscontro in I 12825 «delle piú preziose cose»;

I 14024 «che degli uomini.... si fosse»: il costrutto quasi identico che ricorre sei righe piú sotto mi ha suggerito l’integrazione, in luogo di avvenisse supplito da L e passato alla vulg.;

I 14330 «sopra i nemici ordinarono»: quanto al supplemento (L ha raunò, impossibile) seguo il Fanfani77, che però lo colloca prima delle parole «un grandissimo esercito», con minor sonoritá;

I 1458 «la quale fosse ricca» (L supplí sia, ma qui è necessario l’impf. del congiuntivo);

I 14630 «piú tosto potè»: cfr. la stessa dizione tre righe innanzi;

I 17117 «fatto migliore estimatore delle sue forze»: G supplí invece divenuto dopo «d. s. forze», ma resta a vedere se di fantasia o su l’autoritá di mss.;

I 1747 «quanto è a me»: per racconciare questo luogo, «disputatissimo» a torto78, bastava tener presente I 27217 «quanto è a me» (ed anche I 32011 «quanto è al nostro giudicio»), e supplire di conseguenza;

I 1789 «voglio»: senza questa parola il passo (come figura nella vulg.) è insostenibile; bisogna riflettere che l’asse centrale del periodo passa per la subordinata «che sopra un de’ molti fatti della fortuna si dica»79, alla quale mancherebbe il sostegno: di qui il riconoscimento [p. 356 modifica]della lacuna e l’integrazione (per la forma «voglio» cfr. cinque analoghi in I 33819, 4098, II 3325, 18427 e 23220);

I 1964 «che il re far dovesse», restituito da L;

I 20634 «il quale era» (anche in G fu supplito era, ma dopo le parole «bello della persona» che seguono);

I 23922 «lor fe’ chiaro»: l’integrazione è di L (che pose fe’ innanzi a lor) ed è indubitabile80;

I 24013 «Venuta era», mancanza non avvertita sin qui, perché L, sopprimendo «per che» tre righe sotto, ristabilí l’andamento del periodo;

I 24412 «non avrebbe mai detto alcuno»: restituzione necessaria e giá eseguita da G, che però prepone alcuno alle altre parole (e cosí la vulg.);

I 24734 «poca ismovitura a fare aveva»: il passo appar certamente guasto, e non sanabile senza intervento critico; m’è sembrato che vi si avesse a presupporre una lacuna81;

I 25311 «venir fatte dove che fosse»: senza ammettere la lacuna il passo non si può ricondurre ad un senso soddisfacente, ed i tentativi precedenti misero capo a rebus del genere di quello segnalato dal Fanfani82, il quale del resto non fu piú felice col suo stiracchiato venir fatt’e dove. Giletta non si poteva preoccupar di sapere dove potessero «venir fatte» le due condizioni imposte dal marito, ma soltanto se potessero esser adempiute, qualunque fosse il luogo;

I 25827 «non mossa», suppl. anche da G, che tuttavia inserí mossa dopo «fanciullesco appetito»: la vulg. lo rifiutò83, ma prima o dopo ci vuole;

I 2707 «aguti strali»: nessuno s’accorse di questa lacuna, eppure la simmetria ternaria che domina il passo la rendeva evidente84; quanto alla parola supplita, la suggerisce I 2639;

I 2772 «avesse a fare», giá suppl. da L (ma dopo le parole «il dí seguente»); [p. 357 modifica]

I 28227 «e lui e me»: è di G (ma quivi lui e me), e per necessitá fu accettato dalla vulg.;

I 28824 «tante bastonate mi die’»: che la parola rimessa occorra, mostra il confronto con I 10513; chi volle sostenere che non c’è bisogno di supplir nulla perché anche nell’uso vivo tante e quante si adoperano da sole85, dimenticò di rilevare che allora si aggiunge il ne, come si trova infatti nove righe piú oltre del passo in discorso, «darottene tante»86;

I 2935 «buono uomo», giá suppl. da L;

I 29919 «essere presta ad ogni suo comandamento»: lacuna non avvertita (cfr. I 25546 «presta a fare ogni suo piacere»);

I 30810 «d’una fante»: anche qui nessuno s’è avvisto che mancava il sostantivo, e «una» non poteva reggersi da solo perché non si sarebbe saputo di chi si parlasse (il termine «fante» vien fuori soltanto dopo);

I 3164 «cosí detto», lacuna non segnalata sin qui;

I 3188 «lei piú spesso»: cfr. qui oltre, p. 372:

I 3582 «se io ho bene posto mente»: il supplemento fu giá proposto da L (ma collocandolo, con eccessivo ritardo, dopo le parole «vostre battaglie») e passò alla vulg.;

I 37811 «riposto, nel quale» (G supplí dove, conservato nella vulg.);

I 3869 «mentre la madre di lei», suppl. da G, la cui integrazione il Fanfani trovò giusta e necessaria, com’è infatti, senza per altro osar di accoglierla nel testo87;

II 59 «portarla con una novella a cavallo»: le ultime due parole furon reintegrate giá da L;

II 822 «la qualitá del tempo»: la proposta del supplemento, perfettamente plausibile (cfr. II 13731), è di L;

II 1510 «dipignendo intendevano»: della lacuna mostrò d’aver sentore il Mannelli con una delle sue solite postille di L («non t’intendo»), ma la vulg. lasciò le cose com’erano, ed il Fanfani s’illuse di spiegare il passo con una norma grammaticale che qui non regge88;

II 2936 «disse sí forte», mancamento non avvertito da altri;

II 354 «dall’una delle parti della quale correva», suppl. giá da L (ma dopo la parola «fiumicello») e di qui passato alla vulg.; S conferma autorevolmente cosí il supplemento come il posto da me datogli;

II 1046 «con ciò sia cosa che la donna», suppl. da L; [p. 358 modifica]

II 1119 «entro la capanna»: è piacevole leggere tutte le amenitá che furono scritte su questo passo, del cui difetto nessuno s’accorse mai89, mentre il guasto era cosí palese! La «capanna» dove si era sollazzato la prima volta il sere da Varlungo (cfr. 1103) era naturalmente il luogo piú adatto a farvi consumare la sua riconciliazione con la Belcolore;

II 1198 «Venuta era», suppl. da G e passato alla vulg.;

II 13010 «di gengiovo», suppl. da G (cfr. 1273);

II 15713 «di lui pigliare vendetta», integrazione di L giustissima;

II 16713 «Chi avrebbe cosí tosto», suppl. da G;

II 22831 «un men savio è atto»: non rilevata la lacuna, si arzigogolò intorno a questo passo, che nella vulg. finí con l’assumere la lezione «un men savio è non solamente accrescere splendore»; il costrutto risultante fu secondo il Fanfani di quelli che agli esperti della lingua antica «non paiono nuovi»90, ma queste son parole e non ragioni91;

II 22927 «in riconoscimento dell’onor»: la deficienza è riparata con accordo tra S e G;

II 29418 «in altri trapassando», lacuna non avvertita;

II 30311 «gli fe’ ravvolgere»: anche questa non fu segnalata, e non si comprende che spiegazione sintattica potesse darsi del passo cosí malconcio;

II 30330 «impossibil cosa esser», lacuna parimente inosservata;

II 3114 «quegli vestimenti venire», giá suppl. da L;

II 31127 «l’onorasse di buon grado»: non parve sin qui lacunoso il passo, quasi che di grado cosí da solo potesse veramente valere, come fu detto92, di cuore, di buona voglia93.

[p. 359 modifica]

Assai piú numerose sono le piccole lacune, le quali dipendono dall’omissione di monosillabi sempre poco appariscenti alla vista, spesso poco importanti al senso, ma che l’andamento dell’espressione consiglia e talvolta impone di ristabilire. Le passerò in rassegna raggruppandole insieme:

non I 30527 «non si sforzasse»94, II 1324 «che tu non l’avessi trovata»95;

sua I 6812 «oltre alla sua speranza» (cfr. I 714), II 30127 «domandato alla sua donna» (suppl. giá da L);

chiII 20522 «chi con vanga e chi con marra», II 31822 «chi biasimando una cosa e chi» (qui manca in B anche la e): la correlazione chi.... e chi richiede l’integrazione96;

se I 27418 «se non che» (il Fanfani pensò alla correzione, ma lasciò nella vulg. non che, e non si comprende come l’intendesse);

ne, né I 497 e II 20020 «andatosene», I 29020 «salitosene» e II 20913 «venendosene»97; I 31232 « piú meno», II 1463 « l’amare lagrime», II 16235 «né ve ne priego», II 16725 «me ne partii»;

mi I 6623 «m’imponete», I 27247 «non m’è»98, II 30227 «conceduto non m’è»99; [p. 360 modifica]

si, síI 5910 «partito si fosse» (anche poco avanti leggiamo «partito si fosse» e «si fosse partito»), I 19132 « ordinarono» (senza il manca il sostegno del che seguente), I 38332 «s’era», II 3226 «s’eran»;

gliII 12836 «chiamatigli» ;

ioI 35234 «ed io con alquanti miei»100;

èI 1183 «lungo tempo è che», I 20328 «la quale è sopra», II 28635 «cioè» ciò);

un, unaI 5929 «ed un pallafreno» (cfr. 605), II 10718 «con un bel moccichino», II 2214 «con una sua cuffia», II 30825 «non una cosa magnifica»;

il, lo, laI 9518 «con la mano», I 16719 «il fece ricevere», I 21324 «il piú lieto» (suppl. in L), I 2321 «o l’ucciderlo», I 33012 «la teneva fornita», I 33632 «egli la lasciò»101, II 29128 «riconosciutolo»102, II 3131 l’allevasse»;

perI 7324 e I 13015 «il perché»103, I 10428 «Per la qual cosa»104, I 3127 «o per soperchio», I 37332 «per opera di Crivello»105, II 15317 «per aggiunta»106;

conI 36722 «con maravigliosa diligenza» (suppl. da L), II 22712 «con orgoglio» (id.);

a, adI 6720 «a dover»107, I 23418 «a Tedaldo», I 24713 «ad ammenduni»;

di, del, de’I 7323 «danno di sé solo»108, I 16526 e 3925 «guari di tempo» e I 31312 «guari di spazio»109, I 36518 «di Pietro tu non sai»110, I 3893 «alquanta di fede»111, I 4027 «di continuo», II 222 [p. 361 modifica]«di soperchio»112, II 1555 «Spinelloccio di Tavena»113, 18335 «Pietro del Canigiano» (cfr. II 1801 e II 18313, dove non trovo ragione per conservare la forma dello di B accanto alle regolari «il Canigiano, col Canigiano»), II 20828 «di lor detto»114, II 2288 «domandar Giosefo di quello», II 29330 «poco men di disagio», II 30615 «di rimpetto»115;

inI 6114 «in rapportar male»116, I 1126 e 3632 «infra» (cfr. I 1725 «infra mare»), I 15723 2603 e 28929 «in ginocchione» (cfr. I 16832 e 28813); I 26532 «in su l’erba ed in sui fiori»;

che, chéI 2522 «che niuna novella», I 19829 «che da lui si volea», I 20936 «che e di buona aria»117, I 23028 «essi conoscono che»118, I 2338 «questo, che», I 23431 «sí veramente... che io voglio», I 23515 «cosí ti dico.... che», I 25414 «disse alla donna che», I 31032 «e che essi» (suppl. giá da L), I 38813 «conoscendo che», I 40326 «tu puoi vedere che», II 728 «avvenne... che messer Geri»119, II 1519 «dico che»120, II 1219 «ho io alcuna volta detto che», II 14217 «fu sí lungo l’aspettare... che ella» (suppl. da L), II 1698 «ché non vi fummo»121; [p. 362 modifica]II 17235 «Disse il medico che», II 17327 «alcuno altro che beffato fosse», II 21825 «avvenne una notte... che», II 28616 «conoscendo che», II 30624 «nelle mie contrade s’usa... che», II 32322 «dico che», II 32418 «conoscere che»;

e, edI 4413 «e per ciò», I ivi16 «ed a narrarvi quella»122, I 831 «e dopo la cena», I 10115 «e cosí compostamente», I 25635 «e quegli», I 35331 «e di romore», I 39524 «ed era usato», II 3621 «ed in lá», II 2108 «e quivi», II 16916 «e quando», II 19321 «e tutti», II 2108 «e quando», II 29317 «e per ciò», II 30132 «e dopo molti»123.


Mutamenti. — I mutamenti introdottisi in B rispetto alla certa o probabile lezione originaria sono numerosissimi e dipendono un po’ da tutte quelle cause di alterazione e di perturbamento che sogliono notoriamente produrre nella tradizione manoscritta i passaggi da una copia ad un’altra. Vi hanno parte per conseguenza gli scambi tra due lettere, la caduta o la trascuranza di elementi grafici, l’errata interpretazione dei segni di richiamo o di compendio, la replica di suoni o di parole, i trascorsi provocati dall’occhio o dall’orecchio, l’arbitrio o la sbadataggine nei riguardi delle particelle (e, in genere, delle parole monosillabiche, con le quali si trattava piú confidenzialmente), l’intenzione piú o meno deliberata di modificare quel che non si capisce o non piace. Queste, le principali cause delle mutazioni; l’effetto può essere di due sorta, che il guasto s’avverta immediatamente, con la forza dell’evidenza, oppure che richieda attenzione, meditazione, riscontro per essere individuato: e la correzione sará, naturalmente, anch’essa certissima o certa o meno certa caso per caso. Ma degli errori piú crassi ed insieme meno maligni, come quelli dei quali l’emendamento è ovvio ed intuitivo, non accade intrattenerci qui124, dovendosi rivolgere l’attenzione a quegli altri, [p. 363 modifica]i quali per comoditá d’esposizione saranno raccolti in gruppi secondo la natura della causa che ha presieduto al loro formarsi: questo, ben inteso, senza escludere che piú d’una causa abbia concorso talvolta a produrre un medesimo mutamento o che piú errori dello stesso gruppo possano aver avuto origine da cause assai diverse. Ciò premesso, le alterazioni della lezione originaria, quale fu realmente o quale è presumibile che fosse, introdottesi per via di B son le seguenti:

da scambio tra lettere di forma simile: 1) di m con n, II 32030 «temo non mel» (nel, e cosí la vulg.), II 32718 «m’ha» (na ossia n’à, e cosí la vulg.: il Bocc. di sé parla sempre al sing.); 2) di n con u e vicev., I 2724 «al nostro» (uostro, la correzione è del Fanfani125), I 676 «di noi» (uoi, giá corr. in L), II 3001 «vel menò» (nel, corr. in L), II 3265 «ve ne son» (nône per uene, corr. ciene in L) 3); di l con b, II 4123 «vivaci allori» (albori, alla correzione si era giá pensato ma senza osare d’adottarla126); 4) di s con f, I 27328 «sanno» (fanno, corr. in L);

da errori relativi all’uso dei segni di compendio: 1) per omissione, I 1193 «l’abbian» (abbia), I 14722 «paltonier» (palloni, serbato religiosamente dalla vulg.), I 37828 «chiamavan» (chiamava, anche nella vulg.127), I 38026 «avean» (avea), I 3928 «pentendosene» (potendosene da un originario pêtendosene, la correzione è giá in L); 2) per intromissione, I 3523 «No» (non, cfr. I 2017, 2292, 40815 e II 6529 [p. 364 modifica]«Certo no»), II 3088 «Saluzzo» (sanluzo, e cosí le altre tre volte che il nome ricorre nella nov. X, x128; 3) nonn (ossia non ne con l’ultimo elemento ridotto per elisione a n innanzi a vocale) poté essere scritto originariamente o per disteso in quattro lettere ovvero col segno di compendio nôn: in ambedue i casi si ridusse per fraintendimento al semplice non, e cosí passò nove volte nella vulg.129: I 1278, 27132, 27210, 2878, 39626, 39835, II 821, 17310, 17830; 4) i come segno numerale (.i.) potè essere scambiato per il principio dell’art. il e corretto di conseguenza, ciò che si verificò, a mio credere, in II 925 «un botticello» e 1822 «un dí» (resp. il botticello e il dí, che risalirebbero a ibotticello e idí, indi a .i. botticello e .i. dí; naturalmente la lezione errata di B passò in L e di qui nella vulg.130); con un equivoco non simile ma analogo si può spiegare I 2810 in lui, dove in è intruso131;

da spostamento di parole: il caso piú semplice è la trasposizione, come nei tre passi I 29835 «che di veleno fosse morto» (di che, conservato nella vulg.132), I 31712 «niuna altra cosa» (cosa altra, che diventò cosa altro in L e poi nella vulg.), II 2128 «un poco piú di dimestichezza» (di piú, e cosí la vulg.); piú complessi sono i casi seguenti, che hanno certo per origine parole richiamate dai margini e non bene inserite ai loro posti: I 19227 «sí come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia, cittá di Lombardia, fermò» (in Pavia, c. di L., avevan fatto, con la conseguenza, non rilevata da altri editori, che «fermò il solio» verrebbe ad esser privo di ogni determinazione locale), I 35035 «Pasimunda.... ma la fortuna» (ma Pasimunda...: l’avversativa è fuor di posto innanzi alla prima proposizione e occorre invece davanti alla seconda); in quest’altro caso una trasposizione si complicò di un la quale richiamato fuori di posto: I 18429 «iv’entro, la quale.... per una figura che sopra una colonna nel mezzo» (per una figura la quale sopra una colonna che133); [p. 365 modifica]

da trascuranza o inesatta interpretazione dei segni di richiamo: II 119 «una donna la quale questa pestilenza presente ci ha tolta» (una giovane la quale q. p. p. ci a tolta donna, e cosí la vulg.; il passo fu ristabilito sostituendo «donna» al posto di «giovane» e sopprimendolo dopo «tolta», in base al seguente presupposto: in un ascendente di B prima fu scritto una giovane.... tolta, poi giovane, evidentemente improprio134, fu sostituito con donna, che fu registrato nel margine e richiamato al posto di giovane; chi copiò non tenne conto dei segni di chiamata, lasciò immutato giovane, ed inserí donna dopo tolta forse perché questa parola nell’antigrafo era l’ultima della riga e donna stava subito dopo nel margine alla stessa altezza), II 29615 «riguardiate che alla quantitá del dono» (riguardando che a. q. del don riguardiate; l’errore sará da spiegare cosí: il «considerando» che precede influí col suono perdurante nell’orecchio di un amanuense a tramutare riguardiate in riguardando, poi chi s’accorse dello sbaglio scrisse in margine la forma corretta e la richiamò al posto che le spettava, con la conseguenza che riguardando rimase e riguardiate entrò nel testo135), II 32414 «Adamo maschio ed Eva femina» (cristo maschio! quest’aberrazione non fu rilevata da nessuno: bastava avvistare la contiguitá del nome d’Eva e riflettere che Cristo è ricordato subito dopo mediante la perifrasi «Lui medesimo ecc.»; quel Cristo136 fu senza dubbio una chiosa esplicativa apposta proprio alla perifrasi e creduta poi correzione di «Adamo», al quale nome fu pertanto surrogato);

da duplicazione di parole o di sillabe: 1) immediatamente, I 3225 d’ogni cosa dogni cosa», I 6724 «intendo di dimostrare» (cfr. I 6233), I 796 «egli l’avergli» (egli gli avergli, che il Fanfani non ebbe il coraggio di escludere dalla vulg.137), I 14024 «che che degli uomini» (cfr, sei [p. 366 modifica]righe dopo lo stesso costrutto con un solo che), II 12617 «Mamatteuzzo» (la vulg. Ma Matteuzzo, benché l’avversativa non c’entri), II 15419 «avvenuti gli gli estimavano» (anche nella vulg., pur chiamandolo il Fanfani «brutto solecismo»), II 20628 «novella, la quale la quale», II 20885 «in prima in prima», II 2274 «alquanti di divenuti», II 30234 «dite di fare di fare», II 30531 «infino a tanto infino a tanto»; 2) a qualche distanza, I 191 «ciascuna di noi.... a quello di che ciascuna di voi» (diuoi, err. per dinoi, non è che una replica da intrusione), I 8726 «ad impetrare.... ad impetrare che», I 19528 «fosse potuto.... potuto riposare», I 23216 «quanto eravate voi sopra ogni altra donna quanto eravate voi», I 28320 «ora piú che giá mai.... debbo giá mai», I 31228 «con la mano subitamente con la mano», II 1131 «veggendo Maso dir maso», II 16130 «chenti e quali» (quanti, è stato ripetuto il suono finale di «chenti»; cfr. poi II 5527), II 1666 «che voi.... voi prendeste», II 17129 «ed ora in qua ed ora in lá» (qua, corr. in G), II 21530 «levatasi... cosí al buio come era levatasi», II 3033 «tutti.... tutti di velluti»;

da anticipazione intempestiva di elementi grafici simili: I 27233 «lasciamo stare all’aver conosciuti» (gli, dovuto a gli di «gli amorosi basciari» che segue138), I 28433 «i termini ne’ quali» (ne termini), II 15415 «fa con la sua moglie» (che, dovuto al «che» subito seguente), II 19244 «che tu stanotte» (stu, per colpa della parola successiva), II 28328 «condiscendere a’ consigli» (con non è che l’inizio di «consigli», ed il contesto esclude l’idea di condiscendere, «per discendere» cfr. I 4415), II 32421 né ancora nelle scuole... dette sono... ma ne’ giardini... dette sono»;

da sovrabbondanza: I 15135 «il che promesso avea», I 1814 «da lui disiderata» (tolgo da lui per analogia con I 17814), II 1815 «aveva la ragione» (cfr. II 211 «aver ragione» ecc.), II 3328 «o avveduti» (tolgo o per analogia con II 395), II 13934 «di mai... d'adoperarla», II 2244 «ad ciascuna»; frequenti sono i che sovrabbondanti139, e cosí gli e, ed140; [p. 367 modifica]

da scambio tra la preposizione semplice e l’articolata: I 3311, 1482, 3825, II 9523, 28626, 3111 «delresp. no» (di, ma cfr. I 546, 5832, 13835, 31512 ecc.141; I 9420 «del legnetto» e 2952 «del loro» (de), II 15235 «dal lavoratore» e II 17419 «dal libro» (da), I 35729 «agli orecchi» e II 20914 «al sole» (ad), II 2993 «esercito de’ cristian» (di, corr. in L, cfr. II 30028);

da scambio tra preposizioni diverse, semplici e articolate: 1) tra di e da, I 1143 «tempo da ciò» (di), I 20227 «novelle della donna» (dalla), I 27428 «dell’aiuto di Dio e del vostro» (dal... dal, ma dipende da «armato» ed è correlativo a «di buona pazienza»), I 27517 «della terra» (dalla, ma correlativo a «del cielo»), I 30830 «di niuna altra acqua» (da, vien poi in correlazione «o delle sue lagrime»), I 33019 «quel di casa» (da, che non dá senso), I 3605 «della Gostanza si partí» (dalla, che renderebbe ancor piú oscuro un passo giá poco perspicuo142), I 39510 «d’una novella» (da, ma dipende da «il farò» col valore di ragionerò), II 1917 «dallo statuto pratese» (dello, che non dá senso), II 11728 «dal dolore» (del, ma è correlativo a «faticato dal peso»), II 12421 «dalle scuole» (delle, precede «levati.... dall’aratro o tratti dalla calzoleria»), II 1382 «dalla donna ammaestrata» (della, che farebbe far nesso con «la fante» e toglierebbe il compl. d’agente ad «ammaestrata»), II 16214 «bossoli delle spezie» (dalle), II 1911 «da ambasciate» (damb., precede «stimolata» e segue il correlat. «e da’ prieghi»), II 21924 «uscito.... da una» [p. 368 modifica](duna, segue «uscí dall’altra»), II 29914 «dal Saladino» (del)143; 2) tra di e in, I 641 «de’ verdi prati» (ne, ma dipende da «ornamento», e poi «de’» si trova nella replica di quest’esordio in II 512), I 40115 «della natura» (nella, ma qui è da intendere peccato della natura ossia peccato naturale, contrapposto a «accidental vizio»), II 956 «nella camera» (della)144; 3) tra di e ad, I 5831 «di rimpetto» (arrimpetto, cfr. p. 361 e n. 4), II 17119 «contessa di Civillari» ad, ma cfr. II 16810); 4) tra da e ad, I 1596 «da fare a far sia» (affare affar145); rientra in questo gruppo la ricca serie dei casi in cui infino ad ora sta per la forma corretta infino da ora: I 20417, 21430, 2894, 33816, 40332, 4043, II 9322, 16411, 6921, 19218146;

da scambio tra congiunzioni: I 20631 «o le prediche» (e, ma subito dopo si hanno due «o»), I 38031 «e piansero» (o, ma precede e segue «e»), II 19620 «o egli» (e, ma segue «o»147);

da scambio tra pronomi o particelle pronominali: I 1238 «d’acquistarlo» (acquistarle, corr. in G148), I 22233 «ne la lasciasse» (nel), I 25028 «le mostrasse» (gli), I 32424 «a lei avvenuto» (lui), I 33029 «piacendole» (piacendogli), I 37617 «fatta l’avea» (gli), I 4049 «le disse» (gli), II 9426 «le mi» (la mi), II 1344 «le calesse» (gli), II 14935 «avvenirnele» (negli), II 22611 «lor convenne» (gli), II 30725 «gli piacesse» (le), II 3242 «poterle» (poterlo)149; [p. 369 modifica]

da scambio nei segnacasi: I 1422 «dinanzi alla casa» (la), I 4519 «al qual pareva» (il qual, non rilevato sin qui), I 10831 «convenirgli morire» (convenirlo), I 3375, II 1187 e 1478 «infino alla fine» (infin la150), II 4124 «e gli altri» (ed agli, ma il reggimento è «sotto i»), II 15922 «gli altri alli quali» (li quali, ma il costrutto prosegue «gli vennero gli occhi addosso posti»), II 16031 «la fidanza» (alla, ma in correlazione a «sí è grande l’amor»151);

da scambio tra genere masch. e femm.: I 3620 «una grandissima pezza», I 1833 «gran pezza», II 10819 «una pezza» (un grandissimo pezzo, gr. pezzo, un pezzo, che da L passarono alla vulg.: ma contro di essi sta la ricca serie dei casi in cui si ha il femm. pezza152); I 405 2857 e 40113 «alla sua fine», I 6532 6810 23727 II 21732 e 3269 «alla fine», I 32928 «fatta fine», I 40833 e II 3081 «la fine», II 2922 «nella fine» (al suo fine, al f., fatto f., il f., nel f., rimasti tutti quanti in L e poscia nella vulg., ad eccezione di I 68 che fu corr.: il significato mostra che va ristabilita dappertutto la forma femminile153); I 5517 «una» (uno), I 6736 «stati» (state, corr. dallo Hecker154), I 8228 «era detto» (decta), I 13716 «consolato» (consolata), I 15027 «fatto l’hai» (fatta, e cosí nella vulg.), I 17510 «pietoso» (pietosa), I 1765 «tenero» (tenera), I 19428 «la troppa stanza» (troppo), I 34031 «ciascuno» (ciascuna, e cosí la vulg., ma non è da pensare che solo delle donne si parli qui155), I 35729 e II 11215 «orecchi» (orecchie, ma cfr. il masch. I 733, 30128, 3027, 32533, 35832, 3593, 3819 ecc.), I 36631 «montata» (montati, corr. giá da L), I 38034 «apparecchiato» (apparecchiata, corr. nella vulg.), I 38826 «contento» (contenta), I 3933 «quella aprí nelle reni» (quello, giustamente respinto dal Fanfani156), I 39733 «venuta» (venuto), I 4049 «datole un pezzo» (datale), I 4113 «alquanta della notte» (alquanto, mutato per la regola di cui è detto a p. 360, n. 12; il «fu trapassata» che segue è conferma della correzione), II 721 «m’ha tornato» (tornata, ma il pred. ha per ogg. il quale ossia messer Geri Spina), II 149 [p. 370 modifica]«mandato» (mandata157), II 11215 «posto orecchi» (posta, corr. da L), II 1339 «innamorata» (innamorato), II 1439 «accostatasi» (accostatosi), II 22933 «alquanta di paglia» (alquanto: v. sopra per I 411), II 23230 «Il tema» (La, il femm. è dell’uso popolare), II 28627 «ingannata» (ingannato), II 29034 «fatti» (fatte, corr. nella vulg), II 31228 «benedettala» (benedettola);

da scambio tra numero sing. e plur.: I 152 «accompagnati; li quali» (acompagnato il quale, l’errore fu avvertito e in parte corr. da L158), I 2325 «piacevole» (piacevoli, corr. dallo Hecker159), I 3035 «medesimi» (medesimo), I 13710 «quello dell’une e dell’altra facci che credi che sia» (altre... sieno, giá in L fu corr. altra che troppo manifestamente si riferiva al sing. «ella»; sieno restò nella vulg. ma è insostenibile: esso sará stato portato dal doppio plur. une e altre, ovvero suggerito dal «sieno raccomandate» che precede), I 23122 «si stanno eglino» (egli), I 2812 «hanne dato» (anno ossia hanno, ma il plur. è escluso dal sogg. «l’aver giá conosciuto»), I 29526 «divenuto infelicissimo» (divenuti infelicissimi, corr. giá da L), I 30027 «colpevoli» (colpevole, corr. dallo Hecker160), I 33421 «casa de’ prestatori» (del prestatore, ma si tratta di due prestatori), I 33724 «ridirle» (ridirla, va riferito al plur. «queste cose»), I 3452 «usanze» (usanza, corr. da L), II 2321 «ingegnati» (ingegnato), II 13436 «la festa del Natale» (le feste, conservato nella vulg.: ma si tratta di una sera sola, e infatti poche righe dopo è detto «la seguente sera alla festa»161, e cfr. anche II 6133), II 1385 «tenute» (tenuta, e cosí la vulg.: ma bastava fare attenzione al ne che precede, il qual si riferisce alla padrona ed alla fante insieme), II 30026 «trasse» (trasser, ma il sogg. è «l’altezza»; fu conservato dalla vulg., e il Fanfani, per non ammettere l’errore di L, arrivò a supporre una svista del Bocc.162), II 32111 «accommiatatisi» (accommiatatosi, corr. da L), II 32324 «le qualitá» (la, il plur. è determinato dal seguente «l’hanno richesta»; si noti che in B precede a quel la un lei espunto, che forse cela in sé il «le» originario163), II 3243 «quelle» (quella); [p. 371 modifica]

da scambi tra modi e tempi dei verbi: I 12429 «si gittarono» (gittano164), I 1961 «farebbe» (facesse, impossibile, ma rimasto alla vulg.; fu suggerito dal precedente «avvedesse»), I 22912 «come che io creda» (credo), I 24023 «Dirò» (dico, ma in casi analoghi il Bocc. usa il futuro, cfr. I 2171, II 12414, 19832, 20633 e 26231 «dirò», 2298 «Dirovvi», 2382 «Dironne»), I 24220 «lasciaste» (lasciate), I 28620 «sforzansi» (sforzandosi, il Fanfani intuí l’emendamento ma non osò adottarlo165), I 3114 «confortino» (confortano, corr. in L), II 14818 «ricorditi» (ricordati, corr. giá in L perché la frase vuole il congiuntivo), II 17236 «non ricordate» (ricordavate, ma subito dopo è ancora «ve ne ricordate», che rende evidente l’errore: eppure la vulg. lo conservò), II 32016 «credendo» (credo, corr. in L).

Segue per ultimo un elenco di tutte quelle altre correzioni che sfuggono alle categorie sopra rassegnate:

I 3213 «mia usanza... di confessarmi» (confessarsi, ma cfr. I 24132 «il confessarmi»; contro il buon senso si volle difendere ingegnosamente ma senza costruito questo svarione, che passò alla vulg.166);

I 5327 «per ventura» (per adventura, che ha tutt’altro significato167: ciò nondimeno lo stesso scambio è frequentissimo in B, cfr. infatti ancora I 5815, 7527, 8030, 818, 11324, 12528, 14512, 16518, 25329, 27136, 3563, 38329, II 532, 1522, 1125, 11633168);

I 7322 «ingegnato» (ingegno, corr. giá in L);

I 10916 «andando alla ventura» (alladventura, corr. in L);

I 2245 «vendicata» (vendica), e piú avanti si trova I 3536 appresta e II 15022 vendico (ma poi I 35318 apprestata, II 14320 vendicato ecc.): io ho sostituito dappertutto le forme intere, la vulg. conservò vendica e vendico;

I 2247 «tempo è» (tempo ai, conservato dal Fanfani benché ritenuto lezione cattiva169; cfr. II 32716 «tempo è»);

I 23424 «sentendo la sua voce» (temendo, scorsa dell’orecchio e dell’occhio, i quali s’erano giá imbattuti alcune righe prima in un doppio [p. 372 modifica]«temendo»; la vulg. lo conservò, pur dubitandone il Fanfani170; in G si legge riconoscendo);

I 2391 «essere stato falso» (fallo, corr. da L);

I 2659 «quella mia sventura» (la, ch’è impossibile perché il verso risulterebbe troppo corto, onde G allungò sventura in isventura; ma cosí viene fuori uno iato spiacevole; d’altra parte la locuzione quella quando trova un calzante riscontro in I 18921 «a rispetto di quella quando la femina ecc.»);

I 27331 «E quando» (se quando; il Fanfani intuí l’emendamento ma non osò adottarlo171);

I 28622 «dichiarirei» (dichiarerei, ma cfr. I 421 «dichiarire»);

I 28718 «fedecommessario» (fedel commessario!);

I 2902 «poco-fina» (pocofila, che non dá senso);

I 30218 «rispostogli che ella» (rispostomi che egli, giá corr. da L);

I 3188 «lei piú spesso che l’altre sollecitava» (piú s. che l’altre era sollecitata, comincerò col rilevare che L trasformò l’altre in l’altra, sí che ai feticisti del testo mannelliano fu forza riferire l’altra a lana, sul quale presupposto rimase unica possibile la spiegazione riferita dal Fanfani172: ma l’errore del presupposto è reso evidente dalle parole che seguono «l’un sollecitando ed all’altra giovando d’esser sollecitata», dove l’altra non può intendersi che della Simona173);

I 32627 «s’amavano» (sarmavano, per influsso della parola «armi» che precede);

I 33916 «lo mio» (il, ritoccato per evitare lo iato; e pochi versi dopo, 34024, si ha per la stessa ragione «lo suo»);

I 39320 «Traversaro» (Traversari, ma cfr. 3904);

I 40833 «reggimento» (ragionamento, in giá sospettato che s’avesse a correggere reggimento174, e cosí infatti legge S);

II 3023 «baschi» (bachi, rimasto nella vulg., ma non persuade affatto: per i «baschi» cfr. II 11220-30 e II 1625);

II 3034 «Non-mi-blasmate-se-voi-piace» (blasmete);

II 395 «avveduti o no» (o sí, ma cfr. II 3328);

II 9331 «popolani» (popolari, corr. da L);

II 10816 «in palco» (balco, ma è la stessa parte della casa che è chiamata palco in II 5312, né regge la definizione data dal Fanfani175); [p. 373 modifica]

II 12516 «messer lo giudice» (giudicio, evidentemente per giudicie, che B ha infatti in 12624, ma la vulg. lo conservò accentandolo giúdicio ed il Fanfani postillò: «Detto per Giudice beffardamente«176, senza riflettere che la stessa dizione «messer lo giudice», non mai storpiata, ricorre nella nov. altre tre volte);

II 13829 «serbando» (servando);

II 15012 «rossa divenuta come robbia» (rabbia, conservata dalla vulg. benché il Fanfani si dichiari «quasi certo» che il Bocc. scrisse robbia177);

II 15716 «offesa» (nêdetta! che L interpretò uendecta, passato nella vulg., ma insostenibile qui; «vendetta» era stato giá incontrato poche righe sopra ed influí sullo scambio);

II 16112 «che essi fossero» (chi, ma la correzione è richiesta dal costrutto);

II 16525 «dirò» (darò, assurdo ma conservato dalla vulg.);

II 1727 «cosí come essi» (della prima parola è appena visibile in B l’ultima lettera, ch’è un’e; essa chiude una riga, e poiché la seconda incomincia per «come», è possibile che si sia avuto per anticipazione un altro come in luogo del cosí, che mi sembra opportuno ristabilire);

II 1801 «tesorier» (trasorier, forse per una ripercussione del suono finale di «Pietro» che precede; cfr. anche I 2511: ma la vulg. serbò quella forma infranciosata e non mancò chi la difese178);

II 2055 «que’ tre soldi» (qui), e similmente 2063 «a que’ tempi» (ad qui, corr. giá da L);

II 2208 «avere.... voluta» (volere, che un amanuense scrisse «avendo la mente al voluto che veniva appresso», come rilevò il Fanfani179, il quale non ardí però di correggere);

II 2296 «dimostrarmi» (dimostrarvi, che poteva anche emendarsi dimostrarmivi);

II 28317 «quanto» (quando, corr. in L);

II 29728 «v’accomando» (uicomando, evidente svista per uacomando; la lezione vi comando di L fu difesa e trasmessa alla vulg.), e similmente 30319 «v’accomandi» (uicomandi, che questa volta L corresse uacomandi180).

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IV

Ai tratti mancanti attualmente in B convien supplire servendosi di L e della stampa D, che, per quanto sappiamo ormai181, rappresenta un altro apografo di B; invero, la coincidenza tra la lezione del primo e quella del secondo (b) ci dá la sicurezza che abbiamo sotto gli occhi la lezione appunto non conservatasi nel comune originale. Ma dove tra i derivati è disaccordo, quale dei due seguiremo? In tal caso io ho creduto di dover uniformarmi in massima a L, la cui scarsa fedeltá è almeno nota e pesata esattissimamente182, mentre di D sappiamo solo che in alcuni luoghi riproduce sí con meccanica e cieca diligenza l’antigrafo183, ma non possiamo escludere che in altri sia intervenuta qualche causa ad offuscare con elementi estranei la lezione stessa184. In altre parole, prima di adoperare D come surrogato di B, e di seguitarlo in tutto e per tutto, ritengo si debba cercare in qualche ms. una conferma della bontá intrinseca di molte lezioni sue peculiari; il che è quanto dire che l’adozione di quel testo per fonte mi sembra doversi rinviare a dopo fatti piú esaurienti accertamenti. Tanto piú che D non potrebbe darci alcun aiuto per la prima delle tre grandi lacune di B185, poiché, quando quella stampa fu eseguita, questo codice aveva giá perduto il foglio i originale ed era stato reintegrato col foglio i attuale (B1), qua e lá brutto di grossolani spropositi, quantunque condotto senza dubbio sopra un testo assai buono186. Premesso ciò, le [p. 375 modifica]osservazioni critiche interessanti i tre tratti in questione, ripartite secondo lo schema osservato nel capo precedente, sono queste che seguono.

Interpolazioni. — Rifiuto assolutamente di considerare come facenti parte integrale ed originaria del testo boccaccesco i due passi «E viva Amore e muoia soldo e tutta la brigata» (alla fine della nov. VII, v) dopo le parole «fé’ patto» II 5917, e «Argomento di cattivo uomo e con poco sentimento era» (al principio della nov. seguente) dopo le parole «come a lui» II 6028. Quest’ultimo è senza dubbio una chiosa critico-morale; il primo è un novello saggio di quelle sortite bizzarre o facete con cui spesso, come abbiamo visto anche qui addietro, qualche lettore vivace si permetteva di fornire una specie d’epilogo ad una novella187.

Lacune. — Una è assai vasta e risale per certo a B, come prova la sua mancanza in b; la si sana con G, d’onde anche la vulg. tolse il tratto in questione, II 4834 «tu déi credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto». Un’altra ventina è di molto minor entitá:

I 423 «l’hanno provato e pruovano» (da B1, in L si legge provate e manca il séguito, e cosí ha la vulg.);

I 96 «e lagrimevole molto», da B1;

I 1021 «spazio di tempo», da B1;

II 482 «l’amore di Dio», dove l’ovvia aggiunta fu introdotta dal Mannelli con l’indicazione che mancava in B;

II 497 «la cagione del dolor mio», lacuna evidente ma non avvertita sin qui;

II 5217 «che non pareva prima», suppl. da G;

II 571 «mise prestamente a letto», da G le due parole finali;

II 6628 «è da lui visitata», guasto inosservato prima d’ora;

II 7528 «assai piú agio»188;

II 7727 «Per certo questo», da D (ed è anche in G); [p. 376 modifica]

II 861 «esser maggiore», lacuna non rilevata da alcun altro (senza quell’integrazione la domanda di Lusca diventa una scempiaggine);

II 23526 «i sospir miei» (necessario miei per ristabilire la misura dell’endecasillabo189, senza contare che l’espressione se n’avvantaggia);

II 24522 «un suo ricetto», suppl. da G;

II 25025 «se io potessi»: l’aggiunta (da G) mi sembra indispensabile, ed è certo opportuna;

II 2526 «era ricambiato», da D (la parola fu suppl. in L da mano seriore);

II 25310 «cosí la donna», da D (ed anche in G): «la donna» è il sogg. di «gittò», mentre «La quale» che precede si riferisce a «vita»;

II 25521 «tutti insieme dissero», da D (dissono): la parola fu suppl. in L di mano piú tarda;

II 2621 «ingegnossi a suo potere», suppl. da D (ed anche in G);

II 26222 «d’un valoroso re raccontando quello che.... operasse in nulla movendo per amore a far contra il suo onore»: tutto il passo è sicuramente guasto190 e l’errore risale certo a b (è anche in G); il primo supplemento sembra certo, poiché senza quella parola non si saprebbe come mettere in rapporto «dirò» con «quello che egli ecc.», il secondo è suggerito dal dato fondamentale della novella, in cui si narra precisamente come il re Carlo soffoca il suo amore per non contravvenire al suo onore: ma qui è chiaro che la mia restituzione non può essere che congetturale;

II 2682 «sí forte macerò», altra lacuna sin qui inavvertita: senza quell’aggiunta, «tanto» e «sí» farebbero un duplicato affatto ozioso.

Mancanze minime son poi:

dell’articolo — I 31 «l’avere», I 34 «li quali», I 1034 «la natura» 191, II 5021 «i vermini» (da G), II 7136 «i suoi costumi», II 7831 «i piedi», II 8621 «i prieghi», II 23129 «i miei», II 2572 «la tua mogliere» (da G), II 2601 «i frutti», II 27120 «il mio stato» (da G), II 28119 «i miei»192; I 55 «in uno altro» (cfr. qui oltre, p. 379), II 597 «da uno altro»;

del pronome e particelle pronominali — I 39 «narrandolo io», I 511 «io intendo»193, II 7412 «se tu vuogli» (da G) II 24628 «gli mi posso», [p. 377 modifica]lacuna non mai segnalata, II 24928 «si fosse Natan potuto» (da G, accolto dalla vulg.); II 589 «il vide», II 8233 «nol» (solamente non in L, ma nollo in D e non lo in G, nol la vulg.), II 2567 «ordine postole» (da D, ed anche G), II 25913 «tenuto l’ho»194; II 4423 «el pare» (cfr. due righe prima la stessa espressione);

della negazione — II 25828 « d’amarla», II 26910 «non si voleva», lacune non avvertite da altri (la seconda è tale, che, non supplita, volge la frase al senso contrario!);

della preposizione — II 2523 «de’ Carisendi» (cfr. II 25111); II 23836 «con costui» (mancanza non avvertita da altri, che sposta il sogg. di «disse» facendo apparire come tale non piú messer Ruggeri ma il famigliare del re, e ciò non può essere perché è il primo quel che parla mentre l’altro sta solo attento alle parole del compagno, cfr. 2394); I 107 «inverso», da B1, II 25617 «infino», II 2647 «ingiú» (da D, ed anche in G);

della congiunzione — I 51 «o pescare» e 103 «o per operazion», da B1; II 7527 «quello che per avventura» (corr. su G, e cfr. subito dopo «quello che loro era diletto»), II 7630 «avvenne.... che egli» (che indispensabile alla sintassi), II 8621 «abbi di certo che» (c. s.), II 2576 «priegoti che.... che» (da G il secondo che passò nella vulg.), II 2686 «se diremo che» (da G); I 1013 «ed in altre guise» e 1021 «ed altre» e 1031 «e cosí», da B1195, II 556 «e veggendo» (la sua assenza rende durissimo il costrutto), II 608 «ed alcuna quiete», II 7486 «e cosí» (anche qui il costrutto, non bene inteso nella vulg., come mostra l’interpunzione, esige la e), II 2704 «e cosí», II 27615 «e niun di loro»;

dell’interiezione — II 23128 «Deh! bestia» (da D, ed anche in G).


Mutamenti. — Li raggruppo secondo l’ordine seguito per quelli del testo B, ma qui, dato il loro minor numero, con maggior costipamento nelle diverse categorie principali:

da scambio di lettere simili o errata risoluzione di segni di compendio: I 418 «fia» (sia, corr. in G, d’onde nella vulg.), II 4724 «Scrignario» (Strignario in D e G, Sirignario in L e nella vulg.: la somiglianza tra i e t, e t e c resp., generò l’errore196); II 6616 «el mi darebbe» (in luogo [p. 378 modifica]di el è la nota tironiana della cop., che sará stata originariamente e, per e’, inteso male197); II 5334 «bescio santoccio» (sanctio, che può risalire a sanctocio attraverso un sanccio originato dalla caduta di una sill. intermedia ovvero un compendio di sancto male amalgamato con la terminazione -cio e però male interpretato198); son da ricordare anche due casi di non per non n’199, II 4823 «che non n’abbia» e 5510 «non n’aveva dette», che la vulg. stampò al solito no n’;

da trasposizione di parole: I 37 «stato acceso» (acceso stato), 429 «mossa da focoso disio, alcuna malinconia» (alcuna mal. mossa da foc. disio), 56 «per me in parte» (in parte per me), 92 «pietose siate» (siete pietose, ma il congiunt. è piú opportuno), 918 «da cosí fatto inizio non sarebbe» (non sar. da cosí f. inizio), 1023 «predette del corpo» (del corpo predette), 1026 «appresso questo» (da questo appresso, con erronea intrusione di quel da)200;

da sovrabbondanza: I 520 «e conoscere» (cosí B1, ma L e la vulg. in quanto potranno conoscere, dove potranno è oziosa ripetizione essendo stata usata questa parola subito prima, e quell’in quanto non ha punto sapor boccaccesco), I 1017 «usciva sangue» (da B1, il sangue in L e vulg.), II 734 «mai mi poté muovere l’animo mio» (non in D né in G, ma la vulg. lo conservò201), II 8027 «come per smemorato», II 25635 «Niccoluccio e degli altri» (degli rimase nella vulg.);

da anticipazione di elementi grafici seguenti: II 6326 «si vi gioveranno; e sí» (si manca in G ma lo conservò la vulg.), II 8411 «né notte che in altra parte che» (che non è in D né in G), II 2608 «non potendol» (nol, con anticipazione della particella pronom., D e G hanno non);

da duplicazione di elementi grafici: 1) in immediata vicinanza: II 598 tututti» (il Bocc. adoperò tututti in poesia202 per allungare d’una sill. il verso, ma qui non ce n’è bisogno, ed infatti G non lo accolse), II 2638 «Castello a mare di di Stabia» (la vulg. Castello da mare di Distabia! ma D reca la forma corretta203); 2) a qualche distanza: II 6929 «che egli non sia.... o che egli m’abbia», II 7832 «tanti calci le diede, tanto che» (è nella vulg., ma il Fanfani lo trovò di piú204), II 27014 «potergli [p. 379 modifica]questa mia disposizion fargli sentire» (la vulg. conservò questa bella dizione), II 27524 «la cagion de’ suoi pensieri e pensieri e la battaglia» (e pensieri manca in D ed anche in G, ma lo conservò la vulg. benché non si possa assolutamente difendere205);

da scambio tra congiunzioni: I 52 «e mercatare» (o merc. in L e vulg.), 55 «o in un modo o in uno altro» (L e la vulg. con un modo o con altro, di cui nessuno par ch’abbia rilevato la scorrettezza), I 1112 «e qualunque» (e par meglio che o di L e della vulg.)206, II 4824 «e chi» (o in L e vulg., la correzione da D e G), II 24931 « della mia» (e, corr. in G ma rimasto nella vulg.), II 25726 «ed un vecchio» (o in L e vulg., e in G);

da scambio tra preposizione sempl. ed articolata o tra preposizioni diverse: II 2602 «dal legame» (da), II 27825 «di quali» (de), II 2828 «del sí» (di, per la correzione cfr. p. 367 e n. 1); II 562 «da una» (duna in L, corr. da D e G), II 2638 «Castello a mare» (da, cfr. qui sopra), II 2662 «al re» (dal, ch’è anche nella vulg., ma non soddisfa in rapporto al vb. domandare);

da scambio nei segnacasi: I 322 «il quale» (al, ma la correzione, di B1, è ovvia e fu introdotta dal Fanfani nella vulg.207), I 524 «m’ha conceduto di potere» (da B1, L e la vulg. il);

da scambio tra masch. e femminile: II 4624 «alla sua fine» (al, cfr. p. 369), II 5123 «altre cose a queste simili» (questi), II 5210 «fatte» (fatti, ma va riferito a «cappe» ed è strano che nessuno mai se ne sia accorto), II 5624 «tanta di fidanza» e 28014 «tanta di licenza» (tanto, conservato in ambedue i luoghi dalla vulg., corr. nel primo da D; per la ragione dell’emendamento cfr. p. 360, n. 12), II 6228 «medesima» (medesimo, corr. da D ma conservato a gran torto nella vulg.), II 718 «fece veduto» (veduta, ma la locuzione è proprio far veduto, cfr. II 30810 31410 e 31516208), II 7422 «avuto avea» (avuta, corr. anche dalla vulg. su G), II 8718 «ornata» (ornato, corr. da D e G), II 25828 «ogni cosa... domandatale» (domandatole, rimasto nella vulg.), II 26710 «è questo» (questa, ma la locuzione richiede il masch., cfr. I 8036 «questo non essere»209), II 27124 «lassa» (lasso, corr. da D, ma l’errore passò alla vulg. senza badarsi che la poesia è posta in bocca di donna), II 27317 «tanto.... quanto» (tanta.... quanta, rimasto nella vulg.; D corregge il solo quanto), II 27730 «sottoposta» (sottoposto); [p. 380 modifica]

da scambio tra sing. e plurale: I 318 «per quello» (da B1; quelle, ch’è la lezione di L e della vulg., si riferirebbe al solo termine «laudevoli consolazioni» mentre quello comprende anche l’altro precedente «piacevoli ragionamenti»), I 1022 «alcuna piú ed alcuna meno» (da B1</syp>, invece L e vulg. alcune piú et alcun’altre meno), II 5315 «era» (I, ma va riferito a «lettuccio» e fu corr. anche nella vulg. di su G, era in D), II 5610 «cotal generali» (cotali, ma qui si richiede l’avverbio cotale, cfr. I 8423, II 1285 e 20124), II 24216 «studiò in medicine» (medicina, per il plur. cfr. II 15914 «dottor di medicine», 16727 «leggessi... le medicine»), II 26711 e 27528 «de’ re» (del re, corr. giá nella vulg. per il senso, e nel secondo passo anche in G);

da scambio tra forme verbali: I 917 «seguirá» (da B1, in L e vulg. seguita, ma è evidentemente da preferire il fut.), II 5314 «se n’entrarono» (se n’entrano, corr. da D, ed anche in G e nella vulg.), II 5624 «prese» (presa, corr. come nel caso precedente), II 629 «confessassesi» (confessasi, c. s.), II 26418 «prese» (preso, corr. da D ma rimasto nella vulg.).

Altre variazioni:

I 319 «addivenuto» (avvenuto), 414 «sostenimento» (sostentamento), 516 «fortunosi» (fortunati), 518 «quelle» (queste), 911 «appresso la» (presso alla), 913 «scendere» (smontare), 102 «nobilissima» (bellissima), 1036 «mai» (giamai), 119 «vi sono» (gli)210;

II 4513 «io vo’» (uoj in L, ma voglio in D e G);

II 464 «vatti con Dio» (fatti, mutato, con D e G, anche nella vulg.211);

II 4929 «impiastricciato» (impastricciato, che non ha altri esempi);

II 5115 «che che si fosse la cagione» (ragione, corr. secondo G, ché la parola è piú appropriata);

II 536 «pure una volta» (per, che è nella vulg., ma non soddisfa);

II 5335 «tutto misvenne» (svenne, ma il vb. svenire non ha che far qui; cfr. I 25717 «tutto misvenne»);

II 602 «costituita» (costituta);

II 6116 «per ventura» (per adventura, ma la locuzione che il contesto richiede è quell’altra212);

II 6628 «tornato» (torna, corr. anche nella vulg. su G);

II 6812 «essovoi» (essolei, corr. giá di sua iniziativa dal Mannelli); [p. 381 modifica]

II 7219 «quando» (quanto, mutato anche nella vulg. per il senso);

II 8416 «nominata» (nomata, ma in altri passi è usato sempre nominata, che G reca anche qui);

II 23223 «Questo cosí» (queste cose, accettato da tutti: ma per aderire bisognerebbe considerar queste cose come ogg. di «dicendo e faccendo», e queste due forme verbali come un doppio sogg. di «accenderá», il che non mi sembra punto probabile213);

II 23330 «amor» (amar, la correzione è ovvia: la dánno D e G, e l’accoglie la vulg.);

II 2414 «remission» (rimession, corr. su G);

II 25031 «me n’andrò» (menando, corr. c. s);

II 2561 «colei che ella era» (chi, passato nella vulg.);

II 25832 «un dí» (indi, corr. da D e G);

II 2624 «l’accomandò a Dio» (il comandò, cfr. qui, p. 373);

II 26831 «d’Araona» (di Raona da L nella vulg., ma cfr. I 11536);

II 27117 «dispiacenza» (spiacenza, corr. per dare al verso una sill.);

II 2819 «me da te ricever» (ma, errore e correzione evidenti);

II 28211 «altri che» (altro, corr. da D e G).

V

Soltanto l’edizione critica potrá addossarsi l’onere e la cura di presentare il Dec. sotto l’aspetto formale corrispondente a quelle che noi sappiamo essere state le consuetudini e puramente grafiche e piú propriamente ortografiche del Bocc. press’a poco nel tempo in cui l’opera fu composta214. Caratteristica di tali consuetudini è una maggiore coerenza e costanza in confronto alla varietá ed irregolaritá delle prime scritture, e specialmente una tendenza assai accentuata a dar veste latineggiante o in genere etimologica alle parole che ciò potessero comportare. Sotto quest’aspetto il ms. B dá l’impressione di attenersi, nell’insieme, con soddisfacente accostamento al tipo che sarebbe offerto da x, se per ventura nostra sopravvivesse; tuttavia, è da ammettere che elementi [p. 382 modifica]deformanti si siano annidati anche in B, non foss’altro che in grazia della sua non piccola distanza genealogica (non cronologica) da x, e conseguentemente, della presenza di grafie peculiari di singoli amanuensi giá intervenute a perturbare la grafia originale215. Ma, anche nell’ipotesi piú favorevole, ossia che B fosse la replica piú scrupolosa di x, noi non avremmo potuto qui contentarci di riprodurlo poco meno che diplomaticamente: ché la presente stampa non può, per correre tra piú largo stuolo di lettori, farsi oscura di grafie antiquate disformi dall’uso odierno, ed anche per quelle che tale uso pur consentirebbe, deve fare i conti con le norme speciali adottate per i volumi della nostra collezione. Perciò mi limiterò a dire in breve che, per quanto si attiene alla rappresentazione dei suoni, alla riunione e divisione delle parole, ai raddoppiamenti consonantici, ai troncamenti ed elisioni è stato seguito in tutto e per tutto, riservate pochissime eccezioni, l’uso corretto contemporaneo216. Dove poi l’incostanza di B gli fa alternare forme diverse che siano però tutte egualmente compatibili con l’uso stesso, mi sono indotto, dietro il prudente esame di ogni singolo caso, a ricondurre ad una sola tutte le altre, ristabilendo una regolare ma non pedantesca uniformitá217. [p. 383 modifica]

Un problema particolarmente spinoso, a proposito di siffatte oscillazioni di forme, è costituito dall’esistenza in B (e, del resto, negli autografi boccacceschi) di numerosi doppioni morfologici, lessicali e sintattici: desinenze come dissono e dissero, forme nominali e verbali come pestilenza e pistolenza, vedendo e veggendo, aggruppamenti di particelle come fattolsi e fattoselo, farnele e fartene ecc., come andavano trattati? Anche qui s’è proceduto caso per caso, maggior varietá consentendo in qualche punto e maggiore uniformitá perseguendo in altri. Render conto di tutto il cumulo di osservazioni, di raffronti, d’indagini che questo studio ha richiesto, sarebbe qui fuor di posto; basti accennare al criterio seguito, che fu in primo luogo, dove ciò fu possibile, l’adesione all’uso boccaccesco accertabile, di poi l’adozione delle forme ripetute in B piú costantemente o almeno le piú volte.

La revisione accurata dell’interpunzione portò in molti casi a ravvivare di nuova forza costrutti fiacchi o scoloriti, a far dileguare incomprensioni, a ricreare effetti artistici perduti. Anche la disposizione esteriore dell’opera ha molto guadagnato dal conformarsi all’esempio di B, dove l’impiego di lettere capitali piú e meno grandi ricordato qui addietro (p. 349) ha mostrato che in ogni Giorn. l’introduzione e la chiusa debbono andare nettamente separate dalle dieci novelle218 e che in ogni novella vanno distinte, quasi senza eccezione, tre parti: l’esordio narrativo che si addentella alla «cornice», il preambolo morale o ragionativo del novellatore ed il racconto vero e proprio219.

L’armonia della prosa boccaccesca riacquista non poco della sua perduta essenza da questa nuova recensione, per merito quasi esclusivo di B, che o lascia intere certe parole passate con [p. 384 modifica]troncamento nella vulg. o, viceversa, tronca quelle che lá erano intere, ovvero ne porge acconce modificazioni, cosí che molte volte viene a ricostituirsi quell’esito del periodo o delle sue clausole piú importanti conforme ai dettami del cursus medievale, che il Parodi intuí felicemente dovesse essere seguito dal Bocc. anche nella prosa volgare come fu nei suoi scritti latini preumanistici220. Su questo argomento per altro la prudenza ha consigliato di attendere che studi e ricerche nella direzione indicata permettano di procedere a ritocchi testuali per la ricostituzione del cursus con la necessaria sicurezza221.

Non è lecito sperare che in un testo cosí ampio una certa quantitá di errori di varia natura non siano ancora insidiosamente celati nella lezione, sí da sfuggire alle cure piú sagaci e alla pazienza piú metodica impiegate a snidarneli: mancamenti inavvertiti, infiltrazioni indebite, parole non proprie, pause non giuste creanti interpretazioni inesatte, equivoci d’altra qualitá, se sussistono nella presente stampa, potranno essere di mano in mano additati e corretti, da me stesso e da altri. Mi si lasci per altro esprimere l’opinione che con questa un serio sforzo sia stato fatto per avvicinare la meta a cui tesero tanti secoli di lavorio critico: restituire, come fu giá detto, un autentico capolavoro qual è il Dec. alle sue forme originarie nei rispetti dell’arte e della lingua222. [p. 385 modifica]




Note

  1. Annotazioni e discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron, pp. 11-2 della quarta edizione fiorentina (1857), che sará citata qui avanti. Sulle Annotazioni e la parte che vi ebbe il Borghini cfr. piú oltre, p. 341. Un altro passo osservabile è il seguente: «si comprende che cosí avea l’originale (ché per altri luoghi si vede che e’ [il Mannelli] l’ebbe innanzi)» (p. 71).
  2. I rinvii sono al volume, alla pagina ed alla linea della presente edizione.
  3. La postilla «deficiebat» s’incontra ventun volte, «deficit» quattro; alcuni emendamenti marginali son accompagnati dalle parole «credo che uogla resp. uoglia dire....» (cinque volte) o «direbbe meglo....» (una volta); in corrispondenza di un emendamento introdotto nel testo la lezione primitiva è segnata nel margine con la formula «diceva....» (quattro volte) o «dicebat prius....» (una volta); altre avvertenze suonano: «superfluum est» (due volte), «ècci troppo quel....», «troppo ci è quel....», «o quel.... u’è troppo» (due volte), «....ci è troppo, chi ben guarda», «dicit testus male, ut credo».
  4. Mi riferisco anche a quelle che furono apposte al Corbaccio, la cui copia, della stessa mano a cui si deve il Dec., viene appresso (L, cc. 174-191).
  5. In una sua lettera (VII, x) il Salutati lo ebbe a dire legato a sé «singularis dilectionis vinculo», e lo raccomandò per fargli avere in Padova un beneficio ecclesiastico. Il Novati opportunamente rilevò da questo che il Mannelli appartenesse al clero e dovesse almeno aver conseguito gli ordini minori (Giorn. stor. della lett. it., XXI, p. 453): e giá dal Passerini (Arch. stor. ital., Append., I [1842-’44], p. 139, n. 1) s’era avvertito: «Ho ragione di supporre che fosse uomo di chiesa». Per altre notizie sul Mannelli (n. intorno al 1357, † tra il 1427 ed il ’33) cfr. Novati, loc. cit., pp. 451-3, ed Epistol. di Col. Salutati, II, p. 288, n. 2. La lettera del cancelliere fiorentino (1392?) è certamente posteriore di qualche anno al tempo della copiatura del Dec., che risulta dalla nota apposta dopo l’explicit: «scripto per me francesco damaretto mannelli di xiij dagosto 1384. deo sit laus et gloria in ecternum ad honorem egregie simacuspinj et beneplacitum et mandatum» (L, c. 172 r). Nessun dubbio che debba leggersi «egregie» anzi che «egregii» (cosí lesse, p. es., il Bandini, Cat. codd. italic. Bibl. Med. Laur., col. 171; il Novati restò incerto, ma a torto: Giorn. stor., XXI, p. 454, n. 1); quanto alla parola seguente, tutti indistintamente la fecero terminare con una s, scambiando con questa lettera quello svolazzo (ben diverso dalla s finale consueta del Mannelli) che segue alla j, la quale non sarebbe stata certo introdotta in sede interna: si può solo dubitare se l’ultima sillaba sia -nj o -uj, ma è preferibile la prima lettura. Che poi il nome «simacuspinj», lungi dal risolversi in quello di un Simmaco Spini non mai esistito, sia una scrittura anagrammata del nome vero (e cioè del nome della donna ad onor della quale fu trascritto il Dec.), affermò giá ragionevolmente il Novati: ma né a lui né a me è riuscito di trovare il nome in questione.
  6. L’errore cominciò col Cinelli, l’accreditò il Manni (Cronichette antiche di varj scrittori, Firenze, 1733, p. 9), lo fissò l’autore della prefazione alla stampa lucchese del 1761. Il Fanfani ebbe a far giustizia di queste fantasie nel Ragionamento premesso all’edizione del 1857 (p. xvi sgg.), dove produsse come inedito un doc. del 1427 fatto giá conoscere dal Passerini alcuni anni prima.
  7. Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, Firenze, 1584, p. 7. Le Annotazioni dei cosí detti Deputati, ossia quasi esclusivamente del Borghini, avevan detto con piú prudenza qualche cosa di simile: «da lui solo si è ricevuto piú di lume e di utilitá, che da tutto il resto degli altri insieme» (p. 11).
  8. Delle quali è buon saggio in queste parole di G. Cinelli nella sua Toscana letterata: «parmi nondimeno, che quel del Mannelli sia come il Regolo di Policleto» (il passo fu riferito nella prefaz. alla stampa lucchese, p. x, n. 1); l’espressione piacque al Manni, che la fece propria (Cron. ant., p. 10). Il medesimo Manni tornò a parlare di L qualche anno dopo, mettendo in evidenza che il Mannelli fu «non giá il primo» a copiare il Dec. ma quegli a cui toccò la sorte «di perpetuare per la lunghezza di quattro secoli fin qui la sua Copia» (Istoria del Dec., Firenze, 1742, p. 629). Ch’egli la considerasse fedelissima, e che tale la proclamassero gli editori del 1761 (p. 1), e scrupolosa il Baldelli (Vita di G. Bocc., Firenze, 1806, p. 294), non dovrá sorprendere: visto che ai giorni nostri l’Hauvette poteva parlare a sua volta di «scrupolo quasi religioso» (Giorn. stor., XXI, p. 408, n. 1).
  9. Prefaz. alla stampa lucchese, pp. i, xi-xii. Mera fantasia è ciò che scrisse il Cinelli: «Un altro Codice di mano dell’Autore, per quanto si dice, è nella Libreria del Granduca».
  10. Cfr. O. Hecker, Boccaccio-Funde, Hannover, 1902, pp. 7-11.
  11. Discorso storico sul testo del Decamerone, p. 9 dell’ediz. delle Opere edite e postume, III (Firenze, 1850): «certo quand’ei moriva aveva giá da dieci o dodici anni distrutto il testo autografo del libro»; cfr. anche p. 13: «l’autore aveva piú tempo innanzi [di morire] aboliti gli autografi del Decamerone».
  12. Quella che comincia Idibus septembris, a Mainardo Cavalcanti.
  13. Discorso cit., p. 14: «Il Mannelli ebbe di certo sott’occhio un testo ch’ei teneva per autentico insieme e inesatto; ma non che descriverlo, non ne palesa l’origine, e appena lo accenna qua e lá con la postilla sic textus. E s’ei pur l’ebbe mai dal Boccaccio, ei non domandò, o non ottenne la correzione di molti sbagli». Ammettendosi che l’originale di L provenisse dal Bocc., dove andava a finire l’asserito bruciamento del Dec.?
  14. Son parole foscoliane del Discorso cit. (p. 13) e si riferiscono al passo seguente delle Annotazioni: «siamo stati alcuna volta dubbj, se nel principio fussero per avventura usciti fuori, e dal medesimo Autore, duoi testi, l’un prima e l’altro poi, e l’ultimo in qualche cosellina... diverso dal primo» (ediz. cit., p. 221). Il Salviati riferí questo pensiero ed affermò di non discordare da esso, adducendo certi luoghi i quali alcuno indizio ne dánno per avventura» (Degli Avvertimenti cit., p. 6).
  15. Annotazioni cit., p. 13; cfr. anche Manni, Ist. del Dec. cit., pp. 628-32. Per altre indicazioni si veda (oltre la prefaz. alla stampa lucchese del 1761, p. I, n. 1) E. Narducci, Di un Catalogo generale dei mss. e dei libri a stampa delle Biblioteche governative d’Italia, Roma, 1877, pp. 11-2: è una «Proposta al signor Ministro della P. I. nella quale si dá per saggio l’articolo Boccaccio». Un «testo antichissimo e perfetto» possedeva Pietro Bembo, ed è forse quel medesimo che nel 1582, quando Fulvio Orsini lo cercava per arricchirne la sua libreria, risultò scomparso (De Nolhac, La bibliothèque de F. Orsini, pp. 106, 278-9, 309).
  16. Sopra il piú antico cod. del Dec. del Bocc. contenente solo una parte di quest’opera e scritto vivente il Bocc. medesimo circa il 1354 o 1355, Firenze, 1828. È il secondo dei codicetti legati insieme nell’odierno ms. II. II. 8 della Nazionale Centrale fiorentina, di cui costituisce le cc. 20-37, numerate originariamente xxiiij-xlj. In calce alla prima facciata si legge: «Del Sen.re Carlo di Tommaso Strozzi 1670».
  17. Il preambolo fu stampato da G. Biagi, Il Dec. giudicato da un contemporaneo, negli Aneddoti letterari (Milano, 1887), p. 327 sgg.; il passo relativo al Bocc. è questo: «torniamo a commendare la fama di coloro i quali hanno a vostra reverenzia ad alcune belle e dilettevoli inventive dato composizione; de’ quali, infra gli altri di cui io al presente mi ricordo, si è il valoroso messer Giovanni di Boccaccio, a cui Iddio presti lunga e prosperevole vita come a lui medesimo è piacere. Questi da picciol tempo in qua ha fatti molti belli e dilettevoli libri, ed in prosa ed in versi, a onore di quelle graziose donne la cui magnanimitade nelle cose dilettevoli e vertudiose aoperare si contenta, e de’ libri e delle belle istorie, leggendole o udendole leggere, sommo piacere e diletto ne prendono, di che a lui n’accresce fama ed a voi diletto; de’ quali, infra gli altri, uno molto bello e dilettevole ne compuose titolato Decameron. Il quale tratta, siccome voi se l’avete udito leggere dovete sapere, d’una lieta compagnia di sette giovani donne e di tre giovani, i quali si partirono della cittá di Firenze ne’ tempi della mortalitá ed andaronsene ivi presso a dilettevoli luoghi diportando; i nomi de’ quali figuratamente furono questi: delle sette donne, la prima fu nominata Pampinea, la seconda Fiammetta, Filomena la terza, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile, l’ultima Elissa; i giovani, il primo fue chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, l’ultimo Dioneo. L’ordine dato tra loro fue che ciascheduno per uno giorno avesse la signoria della brigata e fosse chiamato re o reina, e quello che comandasse fosse ubidito di presente; di che a boce per tutti di concordia Pampinea fu chiamata reina per la prima giornata e fue coronata d’alloro: ed essa fue quella che diede l’ordine del novellare, e volle che, quando il sole fosse per tramontare, la nuova reina s’eleggesse, la 'lezione della quale istesse nell’albitrio di quella o di quegli che il dí avesse avuta la signoria, e la corona dello alloro si levasse di capo e coronasse cui le piacesse d’eleggere. Cosí ogni giornata, eletta la nuova reina la sera dinanzi, ella in prima dava ordine....». Il Biagi (p. 332) stampò, e non senza errori, sino a «l’ultimo Dioneo»; in S, c. xxv r, il proemio rimane in tronco senza segno d’interruzione alle parole «dava ordine», poi (c. xxvj r) comincia il vero testo con la rubrica Come alla prima Giornata si diede compimento sotto la signoria di Pampinea ed essa la nuova reina elesse; la fine si ha, egualmente in tronco, alla quarta riga della c. xij v, di cui il resto è bianco.
  18. Un raffronto di S con L fece giá il Follini (pp. 11-29) ricavandone piú di mezzo migliaio di varianti, per la maggior parte ortografiche; frequenti sono le trasposizioni e v’è anche qualche omissione. Letture caratteristiche: «cosa» in luogo di «tosa» I 26530, «rettore» al posto di «stradicò» I 33735, «laurea ghirlanda» per «la laurea» I 3387. Circa l’etá trovo che il Tobler giustamente ricusò di assegnare il «Frammento» al 1354 (n. 3 a p. 376 dello scritto che sará citato qui oltre). Naturalmente, anche il Foliini ammetteva che «questi pezzi» del Dec. «fossero tratti pure dall’originale», il quale, nel tempo che fu scritto S, sarebbe stato in condizioni migliori di quelle in cui fu trovato dal Mannelli, allorché era giá passato «per molte mani di curiosi lettori»; il Mannelli «forse lo ebbe dall’autore né lo restituí giammai», e dopo trattane la copia L, non è «inverisimile» che il prezioso cimelio «piú non si curasse, essendo in pessimo stato, o venisse come inutile lacerato» (pp. 9-10). Queste ipotesi son da mettersi in ischiera con le altre ricordate sú nel testo.
  19. Mi riferisco agli opuscoli Per le nozze Caimo Dragoni-Mattioli, Udine, 1829, e Nozze Tommasini-Broun XXI Giugno M.DCCCC.IJ Roma, [Perugia, 1902]; il primo è intitolato «Novella ed epistola tratte da un codice del secolo XIV», e la novella a sua volta reca il titolo «Madonna Dianora udinese, Novella di Giovanni Boccaccio giusta la lezione di un codice del secolo XIV» (l’editore, Q. Viviani, non ci dice nulla di preciso intorno ad esso, ma sembra di poter intendere che la novella X, v vi stesse a sé e che il ms. fosse di proprietá privata); il secondo, curato da E. Monaci, s’intitola «La novella di Griselda secondo la lezione di un ms. non ancora illustrato del Decameron», ossia del Chig. M. VII. 46, probabilmente quattrocentesco.
  20. Cfr. pp. 346-50.
  21. Su queste si veda: [G. Buonamici], Lettera sopra il Decameron del Bocc., nella Racc. d’opusc. scientifici e filologici del Calogerá, I [1728], p. 321 sgg.; Manni, Ist. del Dec. cit., p. 637 sgg.; A. Bacchi della Lega, Le edizioni delle opere di G. Bocc., nel Propugnatore, VIII [1875], 1, p. 395 sgg. (e a parte, col titolo Serie delle edizioni delle opere di G. Bocc. latine, volgari, tradotte e trasformate, Bologna, 1875); E. Narducci, Di un Catalogo cit., pp. 15-16 (alcune sue aggiunte alla bibliografia del Bacchi della Lega apparvero nel periodico Il Buonarroti, X [1875], p. 377 sgg); F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna, 1S84, col. 80 sgg.
  22. Cfr. Annotazioni cit., p. 12. A torto il Bacchi della Lega e lo Zambrini la dissero invece fatta su L.
  23. Hecker, Der Deo Gratias-Druck des Decam., nelle Abhandlungen H. Prof, Dr. A. Tobler.. in Ehrerbietung dargebracht, Halle, 1895, p. 210 sgg. Lo H. parla prima di dipendenza diretta di D da B, poi sembra per un certo apprezzabile scrupolo ammettere eventualmente anche un intermediario tra i due testi (p. 223); a me pare che tale riserva non abbia ragion d’essere.
  24. Cfr. Annotazioni cit., p. 15; Salviati, Avvertenza premessa alla sua edizione. I nomi degli editori indicò il Manni, op. cit., pp. 642-3, sul fondamento di una nota che fu piú tardi stampata dal Baldelli (cfr. qui oltre, p. 341, n.); il Buonamici (Lettera cit., p. 327) errò restringendoli a tre, e forse trasse in errore il Foscolo, che (Discorso cit., p. 22) parla di «parecchi gentiluomini» ma effettivamente ne ricorda tre soli, e tra essi il Berni, la cui opera si limitò appena ad eseguire il riscontro col testo Cavalcanti, com’è chiaramente detto dai Deputati. Di Stiatta Bagnesi, uno dei correttori, «fu ufizio particulare scrivere quel che era fermo da tutti» (Annotazioni, p. 182).
  25. Cfr. Annotazioni, pp. 15-6. Sui rapporti con L ecco le precise parole del Borghini: «Perché noi crediamo, et a molti segni ce lo pare quasi potere affermare (ché per testimonio di alcuno non ce ne siamo ancora potuti interamente chiarire) che e’ non ebber questo nostro buono anzi ottimo libro, o lo vider molto tardi, et in tempo che l’opera era poco meno che stampata» (si badi che l’ediz. principe legge erroneamente «non crediamo», lezione che passò nelle successive). Il medesimo asserto fu ripetuto dal Buonamici (p. 327), dal Manni (p. 643) e nella prefaz. alla stampa lucchese del 1761 (p. iv), dove si aggiunge che nel tempo in cui fu fatta l’edizione Giuntina L era smarrito: il che non è vero, visto che lo smarrimento avvenne solo alcuni anni piú tardi (Hecker, Der Deo Gratias-Druck cit., p. 218, n. 1).
  26. Ragionamento premesso all’edizione del 1857, pp. xxiii-vi.
  27. Annotazioni cit., pp. 70, 112 n. 1, 183 n. 1, 255; cfr. anche Manni, op. cit., p. 643.
  28. Annotazioni, p. 16; casi del genere sono quelli segnalati ivi, pp. 68, 70, 94 n., 120, 122, 126-7, 176 n. 1, 181, 182, 230.
  29. Annotazioni, p. 16. Al lavoro dei «giovani nobili e virtuosi» partecipò appunto «qualche volta» Baccio o Bartolomeo Cavalcanti «uomo di assai buon giudicio, di cui varie erudite fatiche abbiamo alla luce» (Manni, p. 643).
  30. Epist. cit. Idibus septembris.
  31. Manni, pp. 646-51.
  32. Vi si trova ancora nell’Index del 1881 e non piú in quello del 1900 (Hutton, G. Bocc. A biographical study, p. 310 n.).
  33. Si veda in proposito: Baldelli, Vita di G. Bocc. cit., pp. 291-4 (in nota è pubblicato un lungo ragguaglio, dovuto forse al Borghini, sulla storia della stampa); Biagi, La rassettatura del Dec., negli Anedd. letterari cit., pp. 282-326; A. Legrenzi, Vincenzio Borghini, Udine, 1910, II, pp. 26-45; G. Lesca, V. Borghini e il Dec., nel vol. Studii su G. Bocc., Castelfiorentino, 1913, pp. 246-63.
  34. Di quella dei Deputati non si ebbe che una ristampa nel 1575; dell’altra, quattro consecutive edizioni Giuntine tra il 1582 e l’87, ed in complesso una dozzina di ristampe sino al 1638.
  35. Meglio e piú diffusamente di ogni altro ne parlò il Biagi, loc. cit., pp. 310-26.
  36. Fu riprodotta quattro volte sino al 1612. La «correzione» era stata principiata nel 1579, prima ancora della rassettatura del Salviati (Manni, pp. 658-9).
  37. Cosí il Baldelli (op. cit., p. 309), che per nitidezza e per correzione ebbe la stampa in conto d’una delle migliori. Di questo testo composito furono fatte varie repliche, per lo piú a Napoli, con la falsa data d’Amsterdam; ebbe fortuna quella del 1718, perché prescelta dagli Accademici della Crusca insieme con la salviatesca del 1587.
  38. La Lettera, giá citata qui addietro, comparve anonima nel 1726 e fu ristampata nel tomo I della Raccolta calogeriana, ch’è l’edizione piú alla mano. Fu poi ridata in luce nel 1728 a Parigi insieme con una Lettera rispondente del Rolli; una successiva Replica del Buonamici uscí pure a Parigi nel 1729.
  39. Prefaz. alla stampa lucchese del 1761, pp. vii-viii; Baldelli, op. cit., p. 311; Zambrini, op. cit., coll. 87-88.
  40. Il Dec. di M. Gio. Boccaccio tratto dall’Ottimo Testo scritto da Fran.co d’Amaretto Mannelli sull’Originale dell’Autore, s. n. t., 1761; le parole riferite sono a p. v. La vantata esattezza della trascrizione non è da credere tuttavia assoluta; l’Hauvette (Giorn. stor., XXI, p. 407) affermò di aver rilevato «un numero ragguardevole di discrepanze» tra L e la stampa, di cui invece lo Hecker tentò una benevola difesa (ivi, XXVI, pp. 162-3).
  41. Cfr. E. Lazzareschi, L’ediz. lucchese del Dec., nel cit. vol. Studii su G. Bocc., pp. 269-78.
  42. Cfr. E. Levi, Una ediz. del Dec. curata da U. Foscolo, nella Bibliofilia, XV [1913-’14], pp. 220-4. Il Foscolo riprodusse con acconce migliorie ortografiche il testo del Vitarelli.
  43. Fu poi ristampato a parte a Lugano nel 1828 ed infine nel cit. vol. III delle Opere edite e postume di U. Foscolo. Parti staccate del Discorso furono rielaborate ripetutamente dall’autore, che da ultimo ne compose lo scritto pubblicato in inglese col titolo Boccaccio nel London Magazine del giugno 1826 ed il cui originale italiano fu rintracciato e stampato di recente (E. Levi, Il testo ital. dell’ultimo scritto di U. F. sul Bocc., nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1913).
  44. U. Fosc. erudito, nel Giorn. stor., XLIX [1907], pp. 30-33. Senza importanza sono certi magri appunti di C. Antona-Traversi sul Discorso (Note foscoliane, nel Fanfulla della Domenica del 25 giugno 1916).
  45. Firenze, Le Monnier; in due volumi, a cui fu aggiunto per terzo quello che riproduce le Annotazioni dei Deputati. L’edizione fu ripetuta parecchie volte; l’ultima (12a impressione) è del 1926 e porta in appendice le osservazioni critiche di A. Mussafia sul testo Fanfani e sulla sintassi boccaccesca, edite nella Rivista ginnasiale (IV) del 1857.
  46. A p. 376 dell’art. che sará citato prossimamente.
  47. Dá queste indicazioni lo stesso Fanfani, p. xxxi; per gli studi del Masini cfr. p. xv n., ed anche Follini, Sopra il piú antico cod. cit., pp. 31-2.
  48. Bene spesso l’editore dissentí nelle note dalla lezione di L, con ragioni talvolta fondate o inoppugnabili: eppure conservò quella lezione nel testo. La designazione di vulgata è anche dell'Hauvette, Boccace, p. 481. Tra le repliche piú autorevoli di essa negli ultimi anni va segnalata quella della Bibliotheca romanica di Strasburgo, curata dal Gröber.
  49. Tobler, Die Berliner Handschrift des Decameron, nei Sitzungsberichte d. kön. preuss. Akad. d. Wissensch. zu Berlin, 1887, pp. 375-405; Biadene, Il cod. Berlin, del Dec., nel Giorn. stor., X, pp. 296-8.
  50. Cfr. qui, p. 336.
  51. Hecker, Die Berliner Decameron-Handschrift u. ihr Verhältnis zum Cod. Mannelli, Inaugural-Dissertation, Berlino, 1892. In una breve recensione di quest’opuscolo (Giorn. stor., XXI [1893], pp. 407-11) l’Hauvette manifestò dei dubbi circa l’affermata dipendenza di L da B, mostrandosi propenso invece ad ammettere che i due mss. derivassero entrambe da un terzo. Lo Hecker ebbe poco dopo un facile giuoco a sfatare tali sospetti ed a confermare, mediante l’esame diretto di L in luogo della sua riproduzione a stampa, il proprio asserto con nuovi validi argomenti (Della parentela esistente fra il ms. Berlinese del Dec. ed il cod. Mannelli, nel Giorn. stor., XXVI [1895], p. 162 sgg.
  52. Era stato promesso (Hecker, Die Berl. Decameron-Hs. cit., p. 68 n.) un lavoro di simile indagine su sette mss., tra cui segnatamente il Parig. 7260, che non vide la luce.
  53. Potei averlo in istudio presso la R. Biblioteca Universitaria di Bologna nell’ottobre 1921, prestato dalla National Bibliothek di Berlino mercé l’interessamento del senatore Benedetto Croce, allora Ministro della Pubblica Istruzione.
  54. Com. Qual Phidia nelo scudo de Minerva e fu riprodotto dal Tobler, loc. cit.. pp. 378-9. Lo stampò di recente, senza conoscere la lezione di B, ch’è autorevolissima, L. Frati nei suoi Rimatori bolognesi del Trecento, Bologna, 1915, p. 65.
  55. Il Tobler era rimasto incerto circa la presenza della tavola (p. 380); l’ammise invece lo Hecker (Das Deo Gratias-Druck cit., p. 222 n.), e mi sembra che avesse ragione. Quanto alla causa della scomparsa della prima carta, credo di non andar errato supponendo che questa fosse strappata per eliminare indicazioni di proprietá (notamenti in calce o stemma miniato o ambedue le cose insieme) che riescissero imbarazzanti ad un nuovo possessore.
  56. Cfr. qui, p. 337.
  57. L’iniziale del proemio e quella della Giorn. I andarono perdute con la prima carta originale.
  58. Cfr. qui, p. 331.
  59. Arguisco ciò dal fatto che, con ogni probabilitá, il «Sonnetus» dello Zambeccari esistente a c. 110 r (cfr. p. prec.) fu scritto dalla mano stessa dell’autore. Prove interne di quanto asserisco son le seguenti: la dicitura dell’intestazione, dove il nome di Pellegrino non è preceduto da nessuno dei titoli o delle qualifiche che ogni contemporaneo, data la notorietá del personaggio, non avrebbe omesso e che invece è naturalmente astretto a trascurare chi scrive di sé; la correttezza assoluta della lezione, ed in sé e quanto alla lingua, che risponde esattamente al tipo idiomatico ibrido invalso alla fine del sec. XIV presso gli scrittori emiliani (un amanuense diverso dall’autore era necessariamente inclinato a modificare il tipo predetto, come si può riscontrare infatti nel testo a stampa cit. sopra, p. 348 n. 1). Vi è poi la prova paleografica, che ho potuto fare tenendo presenti alcuni atti di mano dello Zambeccari trascritti in fine al vol. Provvisioni 1381-’85 del R. Archivio di Stato in Bologna. Tenendo conto del diverso tipo di scrittura nei due saggi (quella degli atti è la calligrafica notarile, quella del sonetto la corsiva), ho rilevato l’identitá di certe s e z capitali, con altre somiglianze meno caratteristiche, incompatibilitá nessuna. Se il risultato non è nettamente favorevole, non va però dimenticato che la scrittura del registro bolognese è forse di un ventennio anteriore al tempo a cui risalirebbe, col possesso del volume, la registrazione del sonetto nel foglio di chiusa.
  60. Dico cosí, perché dalla notizia che di questo precedente possessore lasciò A. Zeno (cfr. Giorn. stor., X, p. 297) non è possibile ricavare di quale dei due Giuliani si tratti, se del piú celebre († 1478) ovvero del duca di Nemours († 1516).
  61. Cfr. Giorn. stor., X, p. 297. Come di proprietá dello Zeno il ms. fu appena ricordato dal Manni (op. cit., p. 631). Al medesimo B credo che voglia riferirsi questa postilla di A. M. Salvini ad un luogo delle Annotazioni dei Deputati: «Vi era a’ nostri giorni un testo in cartapecora a Venezia: non si trovò in Firenze chi lo pigliasse» (ediz. cit., p. 93 n,).
  62. Cfr. p. 348.
  63. Complessivamente l’autoritá di B ci vien meno: per il proemio; per le prime due pagine all’incirca dell’introd. alla Giorn. I; per intere le novelle VII, ii-viii e X, i-vii; per parte delle novelle VII, i e ix, IX, x e X, viii; per la chiusa della Giorn. IX e l’introd. della X.
  64. La prima consiste nelle parole «e la buona notte» al séguito di quelle «la Ciutazza guadagnò la camiscia» II 12336, la seconda nelle parole «che ha per me’ ’l culo le corna» dopo «schinchimurra del Presto Giovanni» II 1628. Cfr. Hecker, Die Berl. Dec. - Handschr., p. 68. La seconda nota, cosí sguaiata, non è dovuta al Mannelli, ma si rivela di altra mano piú tarda, forse del sec. XV.
  65. Cfr. p. 355, n. 3.
  66. Principe Galeotto, nei Mélanges offerts à M. E. Picot, 1913, I, p. 505 sgg.; cfr. anche Boccace, p. 211.
  67. L’Hauvette ammise che l’aggiunta fosse scritta sull’esemplare autografo del Bocc., e per conseguenza da lui stesso, ma alcuni anni piú tardi: ossia dopo il 1360, quand’egli s’era fatto grave, moralista e devoto. La ragione addotta è questa: «l’exemplaire sur lequel fut faite l’addition doit être nécessairement considéré comme l’archetype d’où dérivent toutes les copies que nous possédons», e ciò equivale a dire che si fatto esemplare «doit avoir été l’exemplaire de Boccace» (p. 508). Ma perché? Che cosa vieta di credere (ed io per vari indizi lo credo) che l’archetipo comune di tutte le copie sin qui conosciute sia non giá lo stesso x cioè l’autografo, ma y cioè una sua copia immediata? In y possono essere state aggiunte primamente quelle parole, da un lettore che avesse famigliare il celebre verso di Dante (Inf., V, 137) conoscenza che non s’ha davvero motivo di supporre, nella seconda metá del Trecento, monopolio esclusivo del Nostro. Non mi fermo poi sulle ragioni intrinseche, di decoro e d’amor proprio, che a me sembra intuitivo non dovessero consentire al Bocc. quel basso screditamento dell’opera propria, qualunque fosse il giudizio morale ch’egli ne portava da vecchio e che solo in occasioni eccezionali (come nella lettera al Cavalcanti) poté essere confidato ad estranei. Non mi sfugge finalmente che pochi anni fa H. Morf in una memoria densa e notevole che s’intitola dal verso dantesco (può vedersene un lucido riassunto nel Giorn. stor., LXX [1917], pp. 196-8) patrocinò una riabilitazione di Galeotto, il cui tipo morale presso l’Alighieri, ed anche presso il Bocc. nell’Amorosa visione (XI, 28-30) e nel Comento, sarebbe non quello d’un turpe mezzano ma d’un cavalleresco messo d’amore. Ebbene, se pure si deve ammettere ciò, io nego che il nome di Galeotto possa essere stato dato dallo scrittore stesso all’opera sua, perché un Galeotto simbolo dell’amore cortese sarebbe in fondamentale contrasto col carattere d’un libro quale il Dec., dove si esalta ben altro amore; dal punto di vista strettamente e rigorosamente morale, all’autore stesso non parve di potersi considerare altro che «spurgidum lenonem»! Dove va a finire il gentil messo d’amore? Qualunque fosse pertanto l’opinione che nel Trecento si aveva del cavaliere Galahot, converrá pur sempre ravvisare nelle parole «cognominato prencipe Galeotto» un apprezzamento di sostanza non cavalleresca ma morale, ed attribuirle, per conseguenza, ad un lettore.
  68. La distinzione tra porre addosso e porre in dosso escogitata dai chiosatori per difendere la vulg. è un cavillo senza fondamento e porta ad una conseguenza assurda. Il Bocc. non può aver pensato che alcuno facesse indossare dei panni ad un asino (cfr. Fanf., I, p. 72, n. 3).
  69. Per il primo ciò fu giá sospettato (Fanf., I, p. 309, n. 1): ma la lezione della vulg. fu difesa dallo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., p. 52) senza buone ragioni.
  70. Altri esempi di sillessi che rimasero senza glossa: I 1317 «di ciascuna» (oppinione, sottinteso nel precedente «oppinanti»), I 2636 «nel quale» (giuoco, implicito nel precedente «giucando»), I 12822 «e quella aperta» (da intendere camera, indicata prima con la perifrasi «lá dove Pericon con la donna dormiva»), II 29922 «che quelle» (cioè lettere, implicito nel precedente «pensò di scrivere alla donna sua»); cfr. anche qui, pp. 361, n. 1, e 362, n. 1.
  71. Qualche sospetto mi dá anche il «cioè», con quel che segue, di I 30025, ma non sufficiente a farlo condannare; va da sé, invece, che in altri casi la clausola introdotta dal cioè appare nulla meno che indispensabile (cfr. I 1372, II 2612, 2416 ecc.). A proposito di sospetti, credo sia lecito almeno esternarli sulla genuinitá della frase finale «Iddio faccia noi goder del nostro» comune alle nov. III, vi e vii, e di quella «Iddio ce ne déa a noi» della nov. VII, ix, tutte cosí stentate e con tanto sentor di posticcio; si veda alla fine della nov. III, iii in un esempio di chiusa ben altrimenti naturale e spontanea. Anche, mi sembra giusto il rilievo dello Hecker (op. cit., p. 52) sulla stranezza della menzione di un personaggio della nov. VI, x alla fine della nov. IV, vii: che siano interpolate quelle parole I 32034 «e da Guccio Imbratta»?
  72. Vi si riscontrano due serie di periodi interrogativi, la prima introdotta mediante tre clausole: «Quale amore, qual ricchezza, qual parentado» — «Quali leggi, quali minacce, qual paura» — «Quali stati, quai ineriti, quali avanzi» (dove si rileva giá un altro raggruppamento ternario): la seconda, dopo il passaggio «E d’altra parte», retta dai tre successivi «Chi avrebbe Tito». Il tripliclsmo è osservato anche: nel primo periodo, con i tre complementi oggetti «il fervore, le lagrime ed i sospiri»; nel secondo, con i tre complementi di luogo «ne’ luoghi solitari, ne’ luoghi oscuri, nel letto proprio»; nel terzo, con i tre «non curar... non curar... non curar».
  73. La lacuna fu supposta anche dallo Hecker (op. cit., p. 55).
  74. Si veda la lepida nota del Fanf., il quale giustamente riconobbe ancora che «basta ripetere a suo luogo il s’avvidero a rendere semplice e chiaro il costrutto» (I, p. 140, n. 2): ma quell’essi non è davvero possibile accettarlo.
  75. I, p. 146, n. 4; la proposta sembra accolta dallo Hecker, Die Berl. Dec.-Hs., p. 62.
  76. I, p. 155. n. 3
  77. I, p. 164, n. 3.
  78. Cosí il Fanf., che per suo conto lesse quanto è io, non mi ricordo, come se quel mostruoso quanto è io fosse proprio conforme all’uso del Sacchetti, il quale disse invece quanto io (I, p. 200, n. 3).
  79. Va soppressa la copula che B premette al «che».
  80. Cfr. «far chiaro» I 7719, 18625, 21820; II 25627, 28220.
  81. Si poteva anche pensare che «ismovitura» fosse un lapsus per «levatura», determinato da persistenza del suono d’«ismossolo», che precede, nell’orecchio d’un trascrittore; si sarebbe cosí ristabilita l’espressione «poca levatura aveva», la quale ricorre anche altrove ma sempre in senso figurato (p. es. I 29120, II 532, 2227), mentre qui sarebbe usata nel proprio. Tutto ben considerato, sembra preferibile il restauro accolto nel testo. Il Fanf. lasciò poca ismovitura avea e spiegò «era facile a smuoversi», il che è pura fantasia.
  82. I, p. 287, n. 2.
  83. I, p. 293, n. 1.
  84. Si noti: «cosí fatti — cosí atroci — cosí aguti, (sono) sospinto — molestato — trafitto»: impossibile che accanto agli altri sostantivi «soffiamenti — denti» mancasse il terzo il quale rispondesse al «sono trafitto», in correlazione alle altre due rispondenze di «soffiamenti» con «sono sospinto» e di «denti» con «sono molestato».
  85. Fanf., I, p. 324, n. 3.
  86. E cosí II 759 e 22629; il ne manca in I 1084 «ti darem tante d’un di questi pali», ma qui, a sua volta, è facile sottintendere il termine percosse implicito nelle parole «d’un di questi pali». Si potrebbe forse anche pensare ad un supplemento busse (cfr. II 598, 814, 21117 ecc.).
  87. Cfr. II, p. 50, n. 4
  88. Il gerundio «dipignendo» starebbe per dipigneano (II, p. 95, n. 3)! Ma c’è il fatto che siamo in una proposizione relativa: e l’uso antico del ger. per il verbo di modo finito non regge piú.
  89. Cfr. Fanf., II, p. 200, n. 3; Hecker, op. cit., p. 53 (e la nota del Tobler ivi in calce),
  90. II, p. 331. n. 4.
  91. È vero che anche S legge come la vulg., aggiungendo uno dopo «non solamente», il che migliora alquanto il passo ma non lo sana del tutto; e piuttosto mi sembra che stia ad indicare essere qui stata avvertita vagamente la lacuna. Per il mio supplemento cfr. II 10714 «atta a meglio saper macinar» e 27910 «atta... a passion sostenere».
  92. Fanf., II, p. 419, n. 2.
  93. Secondo lo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., p. 67) B presenterebbe altre due lacune che sarebbero poi state integrate da L, e precisamente I 27725 «molti con suoi ingegni» e II 29519 «furono alle camere menati»; sta di fatto invece che fu aggiunto «dí» nell’interlinea dall’amanuense e «camere» nello spazio tra le due colonne della scrittura, di mano trecentesca che convien credere quella dell’amanuense medesimo (cfr. qui, p. 362, n. 3). Aggiungo che alcuni luoghi, una mezza dozzina in tutto, furon creduti lacunosi dal medesimo Hecker, ma io non li toccai, per non essermi parse convincenti le sue ragioni: né una discussione è opportuna in questo luogo.
  94. In G fu ristabilito opportunamente il non, ma la strenua difesa della lezione di L (che è quella di B) fatta dai Deputati del 1573 lo fece respingere dalla vulg.: a torto, come mostra il vb. sforzare qui usato; se il passo non doveva portare la negazione, invece di «sforzasse» avremmo dovuto trovare «osasse» o altra parola simile. Cfr. per altre argomentazioni Hecker, Die Berl. Dec.-Hs., p. 10.
  95. Stampando questo passo senza la negazione, con’è nella vulg, gli s’è fatto dire il contrario di quel che doveva essere evidentemente nell’animo di Bruno, il quale rimprovera Calandrino di avergli voluto far credere che non avesse trovato l’elitropia, non giá che l’avesse trovata (basterebbero a provar ciò, se ce ne fosse bisogno, i rimproveri di Bruno e di Buffalmacco sul finire della nov. VIII, iii: «perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il dovea palesare»).
  96. In II 31823 la lezione della vulg. «chi biasimando una cosa, un’altra intorno ad essa lodandone» travolge addirittura il senso, facendo apparire che sia la stessa persona a biasimare una cosa ed a lodare un’altra.
  97. Nei primi due luoghi e nell’ultimo fu giá corr. in L. Che le forme sú registrate siano da tenere per incompiute, mostra l’osservare come in I 638 l’amanuense di B, dopo avere scritto dandarse, aggiunse subito in alto il ne mancante.
  98. Per mancare al «non è ancora paruta», secondo la lezione di B e quindi di L, il suo legittimo complemento di termine, e per non osarsi pensar da nessuno ad una restituzione, la vulg. delegò l’ufficio di compl. ad «a me» che precede; per quel che accadesse poi per il conseguito spostamento della virgola («quanto è, a me no n’è ancora paruta») cfr. Fanf., I, p. 305, n. 3; il quanto è fu mandato in coppia con l’altro quanto è difettivo di I 1747 (cfr. qui, p. 355) e ne venne il caos.
  99. Senza questo «m’» non si sa dove la vulg. abbia cercato il compl. di «conceduto non è»; lo stesso dicasi per «imponete» di I 66.
  100. Cfr. Fanf., II, p. 12, n. 4.
  101. In questo caso e nel precedente non si vede come la vulg. non abbia sentito la necessitá del complemento.
  102. Cfr. Hecker, op. cit., p. 11.
  103. Cfr. I 25816. Nel secondo passo perché fu restituito giá da L nel primo, il che rimase in L e nella vulg., e si sforzò di difenderlo, dopo i Deputati, il Fanf. (I, p. 81, n. 2).
  104. Non regge la difesa di la qual cosa cosí da solo, nel significato di per la qual cosa, tentata dal Fanf. (I, p. 117, n. 3).
  105. Anche qui è vana la difesa della lezione di L fatta dal Fanf. (II, p. 36, n. 4).
  106. La vulg., senza trovar luogo a supplemento, si contentò di dividere «adgiunta» in a giunta: ma cfr. II 14932 «per aggiunta».
  107. Dipende da «disposta», che vuol sempre l’a (cfr. I 782 ecc.).
  108. Il passo è stato frainteso sin qui per non essersi veduta la lacuna.
  109. Cfr. I 15325, 21731, II 1628 «guari di tempo», I 3193 «guari di spazio», ed anche I 25919 «guari d’indugio».
  110. Si veda come il Fanf. spieghi la lezione senza di da lui accolta (II, p. 27, n. 1).
  111. Cfr. I 9616 «alquante delle perdute forze» e 14110 «alquanta... della loro lingua»; e in genere per l’uso seguito dal Bocc. nella costruzione partitiva: I 1156 «molta di via», I 17236 18811 e II 20333 «poca d’ora», I 22922 «tanta di piacevolezza», I 247 26 «di quella polvere tanta», I 31811 «molta della paura e della vergogna», II 1231 «tanta di grazia», II 14730 «quella poca di bella apparenza», II 15936 «poche di volte». Va rilevato che nella maggior parte di questi casi L sostituí il masch. alquanto, tanto, molto ecc., rammodernando senza accorgersi.
  112. Il passo contiene uno dei soliti esempi di sillessi: il sogg. di «sarebbe stata di soperchio» è infatti alterezza, implicito nelle parole «era altiera» che precedono; non che render possibile questa spiegazione, la vulg., per non aver ripristinato la locuzione avverbiale di soperchio, fu costretta a concordare stata con soperchio creduto sostantivo.
  113. Tavena è il nome del padre.
  114. Del guasto nel passo presente non s’accorse che lo Hecker (op. cit., pp. 53-4), ma per trarne tutt’altra conseguenza. Salta agli occhi che lasciando «aveva lor detto», ossia non presupponendo la caduta del di, si dovrebbe riferire «lor» al solo Bruno, ciò ch’è manifestamente assurdo (Calandrino sino a questo punto del racconto non s’è confidato che con Bruno).
  115. Cfr. I 5816, 2603, 30519, 33225, 33517 ecc.
  116. Cfr. Fanf., I, p. 69, n. 1.
  117. Il guasto apparve evidente anche allo scrittore di L, che correggendo lo aggravò con la sua restituzione spostata («e di buona aria e che valente donna»); in G fu tolta via la seconda e, e la vulg. accolse il passo cosí deformato.
  118. Cfr. Fanf., I, p. 262, n. 4.
  119. La caduta di questa che provocò impensate conseguenze ermeneutiche, perché la vulg. la sostituí col primo dei due che dell’inciso precedente «che che se ne fosse cagione», dando poi al che se ne fosse il valore di che che (cfr. Fanf., II, p. 86, n. 3): tutto per non avere osato metter le mani in L.
  120. Cfr. l’identica formula in I 14323, 27025, II 22023, 2257.
  121. Il Fanf. sembrerebbe aver inteso rettamente (II, p. 268, 11. 3) tutto questo passo, per veritá assai ingarbugliato, e piú ancora senza il ché suppl. da me; esso va riordinato cosí: «e sí ancora per ciò che la contessa intende (per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi) di farvi cavalier bagnato alle sue spese, per ciò che voi siete gentile uomo».
  122. Nel passo presente il testo parve difettivo al Fanf. (I, p. 49, n. 2), che intravvide il rimedio ma non osò adottarlo. Si avverta che «quella» va riferito al concetto novella implicito nel «narrarvi», ed è inoltre sorretto dal ricordo, persistente nell’orecchio, delle parole «novella da Neifile detta» che stanno quattro righe prima; un caso analogo di sillessi appoggiata ad un richiamo di vocabolo si riscontra in I 6014 «La precedente novella.... m’induce a voler dire come.... la quale ecc.».
  123. La mancanza di questo e non s’avverte nella vulg., per avere L mutato il precedente «venne da lui» in «venuto da lui».
  124. Basterá indicare i principali: I 1116 scrivirlo, 5032 rei («reina»), 8318 stasere, 898 se cortine («le c.»), 931 chi («che»), 1237 adomarono («addomandarono»), 13134 prenza, 1354 vacando («vogando»), 19213 tondalo, 20131 abbiasimo («abbia biasimo»), 20230 pargliandogli, 23833 labbia («t’abbia»), 2534 îpartiva («il partiva»), 28431 camere («camera»), 28827 mandonna, 3371 attarcar, 34817 rohodiani, 36626 vole («volere»), 36880 il sul («in sul»), 37718 stada («stata»), 37914 lascianta, 3846 amore («amorose»), 38532 usa («usato»), 3862 dissie, II 2227 ad ad certi, 986 Do («Io»), 10526 î facesse («il facesse»), 10633 a a preti, 10826 andante («andate»), 11119 avevanto («avevan»), 1222 sinagaglia, 12819 preta, 16127 beamo, 17426 soavemen, 20126 io ti fara, 21320 niccola («Niccolosa»), 22315 do («dopo»), 28323 date («data»), 30527 rimatata («rimaritata»), A molti errori riparò in un secondo tempo lo stesso amanuense di B, scrivendo in luogo opportuno la forma corretta e sostituendola alla sbagliata con qualche segno di richiamo; è notevole che lo Hecker abbia quasi sempre ingrossato le sue liste anche di tali sbagli senza tener conto della correzione (p. es. a p. 46 riportò l’err. comincio ad pregar di I 40619 senza rilevare che nel margine fu poi a pregar sostituito confortar). Posso aggiungere qui che ho riscontrato un certo numero d’inesattezze nello spoglio delle lezioni di B fatto da quello studioso.
  125. Cfr. I, p. 28, n. 1.
  126. Cfr. Fanf., II, p. 124, n. 1; straordinaria è la sua lezione: «sotto vivaci arbori, et agli altri belli arberi»! Che anche allori si trovassero nella Valle delle donne, risulta chiaramente da II 35.
  127. Lasciando il sing., il sogg. è «il re»; e non era egli il solo a chiamare il suo giardino «la Cuba», ma tutto il popolo.
  128. La prima volta fu corretta da L, le altre restarono.
  129. Il Fanf., non osando restituire non n’, usò la scrizione no n’, e peggio ancora, osò difenderla (cfr. I, pp. 145 n. 1, e 304 n. 4). Il primo dei passi segnalati qui sopra fu corr. giá in L, l’ultimo restò nella vulg. in forma di non.
  130. S’intende che la mia correzione è imposta dal senso, il quale in ambedue i casi non ammette l’art. dimostrativo.
  131. Talvolta, nei mss. piú curati, quando al termine della riga restava uno spazio vuoto insufficiente a ricevere la prima sillaba o lettera della parola successiva, si usava riempirlo, per la vista, con un’asticella facile a scambiarsi con la lettera i (qualche es. nello stesso B). Uno scambio del genere e quindi l’arbitraria correzione di i in î poterono produrre in.
  132. Il Fanf., I, p. 336, n. 3, propose la correzione, ma non s’attentò d’accoglierla; lo Hecker non la trovò accettabile (op. cit., p. 52), senza però rendersi ben conto della questione.
  133. «Questo luogo è uno de’ piú tartassati da’ chiosatori», notò il Fanf., per soggiungere lepidamente che esso invece «non ha bisogno di niuno de’ loro impiastri» (I, p. 210, n. 2). Come possa aver detto ciò in rapporto alla lezione accolta dalla vulg., è un mistero: tanto piú che a lui sfuggí come uno dei due legamenti relativi del tratto la quale sopra una colonna che rimanga senza dipendente; e non parliamo di quello straordinario iv’entro sostantivato, nel senso di il luogo di colá entro!
  134. Dico cosí, perché nel 1348, ossia al tempo della «pestilenza presente», la Nonna non poteva esser piú una giovane, se era «una fresca e bella giovane» (com’è detto due righe sotto) quando messer Diego della Ratta fu in Firenze come vicario del re di Napoli (1318), giusto trent’anni prima.
  135. In L fu soppresso del don ma senza vantaggio, anzi con ulteriore aggravamento; in G si legge riguardando che alla q. del dono il prendiate, accolto dalla vulg.: resta a sapere donde traessero questa lezione gli editori.
  136. La vulg. ha cosí: ma il Bembo, adducendo il passo nelle sue Prose della volgar lingua, aveva giá stampato «Adamo maschio» (c. lii v dell’ediz. principe del 1525), sia che ciò trovasse nel suo testo a penna (qui, p. 335, n. 1) sia che qui ricorresse all’emendamento.
  137. Cfr. I, p. 87, n. 2.
  138. Essendo l’errore evidente, la vulg. corresse l’aver (Fanf., I, p. 306, n. 2). Per la mia correzione giova tener presente che lasciamo stare è locuzione la quale ormai ha perduto il suo valore verbale per divenire semplice congiunzione: cfr. I 10026 «lasciamo stare all’amore»(«all’amore» con riferimento ad «avendo riguardo» che precede), I 16020 «lasciamo stare ad una» (precede «condiscenda», che spiega l’«ad una»).
  139. Eccoli: I 4715 «avendo udito che... Abraam aver», I 791 «diliberarono che... di rubarlo», I 14419 «che la donna del figliuolo del re» (precede a una certa distanza «avvenne che», poi, dopo alcune proposizioni dipendenti, è ripreso «che», ed infine, dopo altre due subordinate, viene il passo riportato, ch’è la prop. retta dalla principale), I 35117 «portava che... fermamente doverla avere», II 810 «avvisava che... dover passare», II 1251 «una che... ne gli vide». Nel penultimo caso L mutò «dover» in dovesser, nell’ultimo il Fanf. serbò che leggendo ch’è; i che di I 79, 144 e 351 furono conservati dalla vulg. e giustificati dal Fanfani.
  140. I 1733 «ventiedottesimo», rimasto nella vulg., benché paresse inaccettabile al suo editore (Fanf., I, p. 16, n. 3; cfr. invece I 15330 «dieceottesimo»), I 711 e 2671 «ed incomincia» (nell’incipit delle altre Giorn. la congiunzione è sempre omessa), I 17812 «e che sopra» (cfr. qui, p. 355, n. 6), I 23817 «e non l’avete», I 2391 «e senza che», I 2416 «ed in questa dimestichezza» (la sintassi lo esclude; il passo si guastò ancor piú in L. per la soppressione del sost. «dimestichezza», e fece perdere le staffe ai chiosatori: cfr. Fanf., I, p. 273, n. 2), I 3204 «e per l’aversi» (cfr. Fanf., I, p. 360, n. 3), I 33627 «va’ e procaccia» (è un es. del noto uso arcaico di va’ con l’imperativo, cfr. II 5712 «va’ tornati»), II 231 «me n’è pure e una», II 11518 «e come piú volenteroso», II 12616 «e tanto... il tennero», II 13335 «ed accortasi», II 16336 «a Bruno e che», II 3126 «e primieramente». In II 115, 126, 133, 163 la e rimase nella vulg., ancorché nei due ultimi casi il Fanf. la trovasse inopportuna (II, pp. 227 n. 2. e 261 n. 5) e in II 163 la sua conservazione sia un’evidente offesa al senso comune.
  141. In tutti questi casi il vb. reggente è sempre rispondere (solo una volta affermare, I 315): costantemente il Bocc, usa invece dir di sí, dir di no: cfr. I 776, 23224, 3331, 39025, II 12531, 29621 ecc.
  142. L’oscuritá dipende dall’anacoluto non facilmente riconoscibile (il sogg. di «si partí» sembra Martuccio, mentre è la gentil donna, la quale doveva naturalmente ritornare da Tunisi a Susa e provocare partendosi le «lagrime della Gostanza». Per il Fanf. invece «è senza dubbio Martuccio colui che partí» (II, p. 20, n. 2): ma da chi? Dalla Gostanza no, perché subito dopo è detto che i due amanti tornarono a Lipari insieme. Vero è che lo stesso Fanf. spiegò non senza lagrime dalla Gostanza per non senza lagrime da parte della Gostanza, e trovò che sta ottimamente (e non è vero): ma la difficoltá da me accennata non era rimossa.
  143. I passi I 202, II 124 e 191 furon corretti nella vulg.; I 308, II 162 e 299 erano stati giá corretti da L; in II 219 L conservò «d’una» e subito dopo corresse «dell’altra». Tutti gli altri luoghi rimasero in L, e quindi nella vulg., come li rese B.
  144. Il terzo passo fu corretto in L, gli altri due rimasero nella vulg. tali e quali.
  145. Questo modo di dire, ch’è ben chiarito dal contesto, importa senza dubbio ciò che noi diremmo: «se fa l’uno, faccia l’altro»; di qui la necessitá di ristabilire il rapporto da...... a. Il Fanf. intese rettamente (I, p. 182, n. 3), ma conservò la lezione errata.
  146. Tutti questi infino ad ora passarono nella vulg., meno l’ultimo, compreso in una clausola che il Mannelli copiando saltò a piè pari (ella infino adhora timpone). Il Fanf. con la consueta disinvoltura affermò che infino ad ora vale fin da questo momento e fu spesso usato dagli antichi (I, p. 244, n. 1): il che è mera affermazion sua. Correttamente B scrisse infino da ora piú d’una volta, p. es. I 6823 (e qui L ridusse infino ad hora), I 3047, II 13032 ecc.
  147. Poiché la e si trova proprio in fin di riga, potrebbe darsi che l’amanuense intendesse di scrivere non tanto la congiunzione (nel qual caso avrebbe usato come quasi dappertutto altrove la nota tironiana) quanto la prima sill. di egli, che poi diede per intero in principio della riga successiva; L a buon conto la tralasciò.
  148. Cfr. Hecker, Die Berl, Dec.-Hs. cit., p. 9.
  149. Il passo II 226 fu giá corr. da L, che però invertí convenne lor; i quattro precedenti e quello II 324 furono egualmente emendati in L: gli altri passarono nella vulg., ed il Fanf. non die’ segno di rilevare che il terzo, giustificandolo come solecismo (I, p. 284, n. 3). Imperdonabile non aver rilevato in I 324 quell’a lui, quando si parla di cosa che si riferisce alla Salvestra.
  150. Cfr. I 9720 ecc.
  151. Cfr. Hecker, op. cit., p. 11.
  152. Cfr. I 33315 e II 15731 «grandissima pezza», I 1021 22413 32422 33330 II 2121 3329 1106 «gran pezza», I 28915 «una pezza» (ed inoltre: I 8825 31733 II 15513 1643 «buona pezza», II 15618 «di questa pezza»).
  153. Bisogna distinguere nettamente la fine ed il fine, quest’ultimo nel senso di scopo ed anche risultato o riuscita (cfr. I 4820, 6812, 716, 9226, 10829, 1108, 23914, 28511, 29434, 3215, 36712, 40119, II 2926, 32718 ecc.); invece B reca correttamente: I 9720, 12414 22233 27016 28328 3375,24 «alla fine», I 24013 29427 e 31011 «la fine», I 29429 «nella fine», I 12233 e 34029 «posta fine» ecc.
  154. Op. cit., p. 9.
  155. Ivi, p. 10.
  156. Cfr. II, p. 58, n. 3.
  157. Cfr. Fanf., II, p. 94, n. 4. Non mi so risolvere a supporre che il femm. «l’altra coscia» abbia attratto il participio (e lo stesso dicasi nei riguardi di I 330 «apparecchiato», riferito qui sopra).
  158. Che sostituí a il quale un inesplicabile de’ quali, passato naturalmente nella vulg.; «li quali» è correzione di mano cinquecentesca segnata nel margine di B, e mi par giusta.
  159. Op. cit., p. 8.
  160. Ivi, p. 10.
  161. Secondo l’uso antico il Bocc. considerava il giorno finito al tramonto, e però questa locuzione determina la notte dal 25 al 26 dicembre.
  162. Cfr. II, p. 407, n. 1.
  163. Secondo lo Hecker (pp. 24, 60) la lezione di B è addirittura le, ma non è vero.
  164. È una semplice svista per gittarono: le prime due sillabe furono scritte in fin di riga, l’ultima a capo, e ciò determinò l’errore, la cui ovvia correzione è giá in L.
  165. Cfr. I, p. 307, n. 5.
  166. Cfr. Fanf., I, p. 34, n. 1.
  167. Rispettivamente per ventura e per avventura valgono per caso e forse.
  168. Il contesto aiuta sempre a correggere, ma la vulg. attraverso L ha conservato l’errore in tutti i casi (eccetto I 145, dove fu scritto per ventura). Esempi di per avventura in B nell’uso corretto: I 134, 1412, 2015 ecc.
  169. Cfr. I, p. 254, n. 3.
  170. Cfr. I, p. 266, n. 2.
  171. Cfr. I, p. 322, n. 1.
  172. Cfr. I, p. 358, n. 4.
  173. Il guasto si sará formato cosí: prima sará stato omesso «lei», poi nel passo divenuto incomprensibile il vb. «sollecitava» sará stato ridotto alla forma passiva.
  174. Cfr. Fanf., II, p. 77, n. 3.
  175. Cfr. II, p. 196, n. 7: «Balco è luogo alto e aperto dove i contadini tengono fieno, e vi si monta per una scala a piuoli». Invece si tratta del piano superiore della casa rurale, che ha per pavimento un palco di legname (il «palco de’ colombi» di II 53 è quel che noi diciamo piú propriamente soffitta, ma qui si parla di una casa cittadinesca e di gente agiata); il palco poi, nel suo significato proprio testé espresso, è nominato in I 20929 e II 7714.
  176. Cfr. II, p. 217, n. 2
  177. Cfr. II, p. 245, n. 2.
  178. Cfr. Fanf., II, p. 280, n. 5. Per la forma dello Canigiano cfr. qui, p. 361.
  179. Cfr. II, p. 322, n. 2.
  180. La locuzione è senza dubbio accomandare a Dio: cfr. I 5310, 12410, 21515, 25326, II 5516, 29632, 3157.
  181. Cfr. p. 337.
  182. La leggenda della scrupolosa aderenza di L al suo originale, sulla quale si è tanto detto per l’addietro (cfr. qui, p. 331 sgg.), è crollata da quando, riconosciuto in B l’originale medesimo, si è potuto procedere al raffronto diretto. Lo Hecker dá un elenco di circa 350 luoghi in cui L áltera la lezione di B (Die Berl. Dec.-Hs. cit., pp. 11-24); ma a quelli bisogna aggiungere altri 650 passi all’incirca (ivi, pp. 25-50), dove L, pur non offrendo una lezione assolutamente scorretta in sé, si scosta da B con un arbitrio ch’è appunto ciò che mi preme ora di assodare.
  183. Si veda la serie degli errori comuni a B e a D nello scritto dello Hecker, Der Deo Gralias-Druck cit., pp. 221-22.
  184. Per es. è certamente dono dell’editore quattrocentesco quel di Grecia in luogo di II 841 «d’Acaia». La negligenza e l’arbitrio intervenuti nella costituzione di D sono ammessi senza esitazione dallo Hecker (art. cit., p. 221).
  185. Cfr p. 348.
  186. Lo spoglio della sua lezione nei confronti di L è dato ancor dallo Hecker (Die Berl. Dec.-Hs., pp. 69-72). Che B1 fosse giá in posto quando B serví di esemplare a D, risulta luminosamente dai due primi tra i raffronti istituiti dal medesimo studioso nell’altro suo scritto (p. 221). Da B1 ho derivato circa una quarantina di emendamenti su un tratto di cinque pagine della presente stampa: indizio della sua bontá.
  187. I due passi sono in b, e quindi si trovavano in B. Nel secondo, G (che li porta entrambe, come pure la vulg.) omise era; di esso lo Hecker disse ch’è «una parentesi per lo meno strana» (Der Deo Gr.-Dr., p. 227).
  188. La mancanza di piú fu giá rilevata (cfr. Fanf., II, p. 163, n 1), ma la vulg. non provvide.
  189. Nella vulg. bisogna ammettere uno iato durissimo tra ma e i.
  190. Ciò fu giá avvertito da molti (p. es. Fanf., II, p. 365 n.; Hecker, Der Deo Gr.-Dr., p. 227). ma limitatamente alla prima delle due lacune.
  191. Le tre aggiunte da B1.
  192. La vulg. supplisce dove può alla mancanza dell’art. apostrofando in I 34 la prep. fra e negli altri casi la e copulativa precedente (partito a cui ho dovuto appigliarmi io per II 2338, dove et di L è stata mutata in «e’» per non allungare il verso); altrimenti lascia immutata la lezione di L.
  193. Ambedue le aggiunte da B1.
  194. Il Fanf. segnalò la mancanza (II, p. 361, n. 5), ma senza eseguire l’emendamento; non avvertí invece nemmeno il difetto di il in II 58.
  195. Nel primo caso la vulg. ristabilí la copula.
  196. Due donne di questa famiglia Scrignara di Napoli, elencata tra le feudali giá nel secolo XIII, son nominate nella Caccia di Diana boccaccesca; anche qui il casato si deformò nelle stampe (Strignan, Strignani) ma fu ristabilito nella mia edizione torinese del 1914 (p. 5, n. 2). Cfr. poi Torraca, G. Bocc. a Napoli, Napoli, 1915 (estr. dall’Arch. stor. per le prov. napol. del 1914), p. 157.
  197. La vulg. accolse e’, G omise la parola.
  198. Nessun dubbio che santoccio, usato cinque volte nel séguito della nov., valga lo stesso che santolo, ossia «colui al quale è stato tenuto un figliuolo al battesimo» (Fanf., II, p. 138, n. 5); quanto a quel suppositizio sanctio, lo si credè una storpiatura burlevole, ma non si seppe trovare di che voce e con che valore (ivi, n. 2).
  199. Cfr. p. 364.
  200. La lezione di B1. da me accolta, mi sembra per varie ragioni migliore di quella, passata nella vulg., di L.
  201. E il Fanf. lo trovò utile (II, p. 160, n. 1).
  202. Cfr. I 26431, II 23317.
  203. Cfr. Hecker, Der Deo Gr.-Dr. cit., p. 226.
  204. Cfr. II, p. 166, n. 6.
  205. Cfr. Hecker, art. cit., pp. 226-7.
  206. Le tre correzioni secondo B1.
  207. Cfr. I, p. 2, n. 1
  208. La vulg. conserva veduta e il Fanf. la difende (II, p. 158, n. 1).
  209. Nella vulg. questa, benché il Fanf. mostri di dubitar dell’errore (II, p. 370, n. 3).
  210. Tutte queste varietá sou desunte da B1; che siano migliori delle lezioni rimaste nella vulg., è per alcune evidente di per sé (cosí sostenimento, fortunosi, scendere, vi sono). Quanto alla bontá della lezione appresso la quale, cfr. Hecker, Die Berl. Dec.-Hs. cit., p 69.
  211. Cfr. Fanf., II, p. 129, n. 1.
  212. Cfr. p. 371.
  213. È vero che la lezione non accolta ha la conferma di S, dove in luogo di faccendo si legge udendo, che lo Hecker trovò doversi preferire (Der Deo Gr.-Dr., p. 227).
  214. Un primo abbozzo dello studio sull’ortografia boccaccesca secondo i diversi autografi volgari fu da me delineato nell’introduzione al testo critico delle Rime di G. Bocc., Bologna, 1914, p. ccxxi sgg., ma aspetta di essere svolto in modo organico ed integrale sull’esplorazione di tutti i mss. che ci rimangono.
  215. Degli usi grafici di L, molto piú lontani di quelli di B dai boccacceschi, non è il caso di preoccuparsi; alle parti del Dec. per cui il fondamento del testo è appunto in L. basta estendere le grafie adottate per il rimanente.
  216. Tra le eccezioni registrerò le forme oppinione oppinare e deriv., presummere, suppremo, faccendo, che sono costanti in B e nell’ortografia trecentesca, riflettendosi anche nelle scritture in latino. In rapporto al cosí detto raddoppiamento sintattico, che naturalmente ho eliminato dappertutto in coerenza alla norma generica indicata su nel testo, rilevo l’improprietá della vulg., che stampa al lor potere, al lor diletto, al lungo andare, (andare o tornare) al letto ecc., dove la l di al non è certo l’elemento articolare e la preposizione non può figurare che semplice. La doppia di bella nella locuzione di I 2475, che in B si legge bella cacheremo, è stata ritenuta prodotta da assimilazione di n inn. l, «ben la»; sembrò con ciò di rendere la bizzarra frase un po’ piú sensata di quanto sia la lezione accolta nella vulg. (cfr. Fanf., I, p. 280, n. 4). La medesima vulg. conservò in II 5022 il plur. partice di L, che andrá sicuramente ricondotto a partiche (sul modello di catholiche I 7821 di B); anche Anthiocia II 22510 e 2274 di B non persuade (L ha Anthioccia, la vulg. Antioccia).
  217. Ad es, la copula, che in B è rappresentata generalmente con la nota tironiana (salvo pochi casi, in cui, principiando un periodo, assume la forma Et, oppure, incorporandosi all’art., con o senza aferesi o raddoppiamento sintattico, dá luogo alle grafie ei = e i, elle = e le, e = e’= e i, el = e ’l = e il ecc.), è da me resa di regola con e e ed, e innanzi a parola che cominci per consonante, ed innanzi a parola che cominci per vocale: a meno che questa sia ad, nel qual caso l’eufonia consiglia di evitare il fastidioso ed ad. D’altra parte, nelle ballate è talvolta necessario, per la misura dei versi, conservare ed, ed una volta conviene restituire e’ (cfr. p. 376, n. 4).
  218. Nella Giorn. IV si ha anche uno speciale proemio, che non va confuso con l’introduzione.
  219. Si eccettua la prima novella di ogni Giorn., in cui l’esordio narrativo è innestato nell’introduzione che immediatamente precede (ma in I, i e IX, i il preambolo è doppio, cosí che esse vengono ad avere tre parti egualmente); inoltre si hanno due novelle, I, iii e IV, ii, in cui le parti son quattro, per essere doppio il preambolo ragionativo della prima e l’esordio narrativo della seconda; e due finalmente, II, v e V, vii, in cui le parti son due, in una per fusione dell’esordio e del preambolo, nell’altra per assenza del preambolo.
  220. Cfr. E. G. Parodi, Osservazioni sul ‘cursus’ nelle opere latine e volg. del Bocc., nel vol. Studii su G. Bocc. cit., p. 232 sgg.
  221. Che non si tratti di mera illusione, mostra la seguente analisi ritmica del primo periodo del Dec., dove segno tra le lettere da elidere nella pronunzia secondo i bisogni del ritmo: «Umana cosa è l’avere compassióne degli afflitti (velox), e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è mássimamènte (planus) richèsto (pl.) li quali giá hanno di confòrto avúto (pl.) mestière (pl.) ed hannol trovat[o] in alcuni (pl.); tra li quali, se alcuno mai n’èbbe (pi) bisógno (pl.) o gli fu caro o giá ne ricevètte piacére (pl.), io sòn[o] un di quègli (pl.)». Qui si nota l’assenza completa del cursus tardus, che infatti mi risulta rappresentato assai scarsamente nei pochi altri assaggi che ho fatto qua e lá della prosa delle novelle.
  222. Non sará fuor di posto segnalare qui i sensibili benefici che hanno tratto i nomi propri dei personaggi delle novelle sia dalla lezione di B (corrottasi in L e quindi nella vulg.) sia da altri sussidi. Ser Ciapperello (I, i) torna ad essere sempre e soltanto Cepparello; messer Tedaldo padre di un omonimo Tedaldo (II, iii) si rifá Tebaldo, per distinguersi dal figlio; il casato di Landolfo Ruffolo (III, iv) si riuniforma alla grafia reale dei documenti e perde una f, come quello del marito di Catella (III, vi) ritorna, di Fighinolfi, Sighinolfi, e quello dell’amico di Peronella (VII, ii), di Sirignario, Scrignario. Non Giusfredi ma Giuffredi si ribattezza il primogenito di madama Beritola (II, vi). Encararch (II, ix) lascia scomporre il suo nome barbarico in un onorevole En Cararh, secondo la buona creanza catalana, e si milmente Narnald Cluada (IV, iii) riacquista il prefisso provenzalesco ed il cognome, N’Arnald Civada. Talano di Molese (IX, vii) ritrova il nome del padre Imolese, come Ruggeri da Ieroli (IV, x) il suo paese d’origine in Aieroli, ch’è Agerola (cfr. Torraca, G. Bocc. a Napoli cit., p. 156 e n. 1; ivi osserva l’autore che il Bocc. chiamò stadico lo stratigoto ossia il magistrato che esercitava la giustizia criminale in Salerno: ebbene, anche quella strana parola stadico della vulg. torna ora al suo vero suono stradicò); nello stesso modo messer Torello d’Istria da Pavia (!) si fa riconoscere per di Strá (X, ix). Neri Mannini (VI, vi) era un Vannini, e il padre di Spinelloccio (VIII, viii), non Tanena, nome che a Siena non usò mai, ma Tavena; invece un nome proprio della vulg., la Trecca (VIII, v), ritorna alle piú modeste funzioni del nome comune «trecca», ossia venditrice di erbaggi e frutta, e quello sconosciuto del maestro Scipa (cfr. Fanf., II, p. 264, n. 2) si contenta di raddolcirsi in «maestro sapa». Salutiamo anche senza rimpianto una mezza dozzina di vocaboli che, nati da una sbadataggine di amanuense, erano entrati nel lessico per colpa di quella non mai abbastanza deplorata idolatria per le deformazioni dei testi a penna: pocofila, trasorier, giudicio, sanctio, balco, borrana (nel senso di borro o burrone), e, piú straordinario di tutti, l’impagabile verbo carapignare! Questo è introdotto da L e dalla vulg. nel passo di II 16624 «ed essi si carmignavano come que’ signori»: in B la quinta lettera della parola fu espunta (ed il punto di espunzione fu creduto dal Mannelli costituire la gamba di una p), mentre sulla quarta e su parte della quinta l’amanuense tracciò segni che sembrano voler trasformare le lettere stesse in una m, ma non cosí bene, che le due aste anteriori non tradiscano ad incerta lettura un’a; d’onde appunto carapignavano.