Storia della decadenza dei costumi delle scienze e della lingua dei romani/Capitolo VI

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Capitolo VI

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Capitolo V Capitolo VII
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VI.

Della Magnificenza, e Profusione dei Romani,
e loro immediati funesti effetti.


Quando la voluttà, e la crapula si sono una volta impadronite di tutte le classi, e condizioni di persone fino a quel punto, a cui pervennero in Roma sotto gli Imperatori, allora coi più sfrenati sensuali piaceri, e desiderj scaturiscono infallibilmente altre straordinarie passioni, le quali in tutti coloro, che hanno i mezzi di soddisfarsi, non vengono tenute a freno che mediante la più perfetta semplicità, ed innocenza di costumi, o con un’accurata educazione della mente, e del cuore. I Ricchi, ed i Grandi, che non possono, o non vogliono più segnalarsi con veri meriti, e prerogative, procurano di distinguersi dal rimanente degli Uomini con lo splendore della propria nascita, e dignità, e colla pompa delle loro fortune, ma soprattutto con una sontuosa tavola, con ricchi abiti, ed ornamenti, con magnifiche abitazioni, e suppellettili, e con una numerosa, e abbagliante servitù, e come quelli, ai quali non son concedute le maggiori contentezze dello spirito, e della virtù [p. 215 modifica]si precipitano nelle più grossolane compiacenze dei sensi, ed in queste, quantunque indarno, cercano soddisfazione, e compenso. L’eccessivo, e rovinoso sfarzo dei Romani corrispondeva così perfettamente agli altri lor vizj, come le loro immense ricchezze andavan d’accordo con la vastità, e colle inesauste risorse del loro Impero; pure i più ricchi trai medesimi non superarono tanto colle proprie dovizie i maggiori favoriti della fortuna dei moderni tempi, quanto pel modo con cui da loro se ne facevano acquisto, ed abuso. I Romani, al maggior segno encomiati, o diffamati a cagione delle loro ricchezze, non pervennero quasi mai ad acquistarle col mezzo di trascendenti, e straordinarj meriti, e prerogative, o per una non comune esperienza, e indefessa attività negli affari di Commercio, o con altri traffichi, ed imprese universalmente utili, ma bensì a forza di sollecite violenze, e rapine lor commesse nelle Provincie, o della folle, e non meritata liberalità di alcuni Sovrani, o in fine mediante le inique arti di Accusatore, d’Usarajo, e d’Uccellatore di testamenti, e di legati. In conseguenza presso che tutti quelli, i quali sotto i governi degli Imperatori notati vennero per le loro esuberanti ricchezze, non furono già grandi Artefici, Letterati, e Mercanti, o illustri Capitani, Ministri, e Oratori, ma perlopiù indegni Schiavi, e Liberti, o per l’addietro Favoriti d’un Nerone, e d’un Claudio, ovvero abbominevoli Eredipeti, Delatori, e Usuraj. Comecchè adunque le maggiori dovizie non solo si acquistavano senza talenti, [p. 216 modifica]virtù, e meriti, ma piuttosto col mezzo di vizj, e di delitti, e cadevano quindi in potere di malvagi, e d’indegni soggetti, così non dee recar maraviglia se l’uso, che facevasi delle medesime, corrispondeva perfettamente all’iniquo modo, con cui se n’era ottenuto il possesso. Profondevasi in breve tempo ciò, che erosi in breve tempo accumulato, poichè al pari de’ grandi giuocatori si credeva che la fortuna continuato avrebbe ad assistere i suoi favoriti conforme fin allora avea fatto; e godevasi colla maggior sollecitudine, e più che si poteva di tutte le immaginabili specie di sollazzi, essendo incerto fino a quando avrebbesi ancora avuto campo di seguitare a godere. La rovina, che tutto giorno accadeva, di potenti famiglie, e persone, e il continuo timore di ricevere consimili colpi dal Destino, o dai Tiranni, acceleravano, e moltiplicavano parimente l’uso di ogni sorta di sensual compiacenza per la ragione stessa che nel tempo di universali distruggitrici epidemie i sovrastanti pericoli di dover in breve cessar di esistere danno motivo ad ogni Crapulone, e Libertino d’immergersi a un tratto in qualsivoglia delizia della vita ad oggetto di rapire alla quà e là serpeggiante morte tutte quelle voluttà, che da essi peranche afferrar si possono.

Ogni volta che io considero gli spettacoli, e gli edifizj sorprendenti dati, e costruiti da Agrippa, e da altri privati; la vastità, e magnificenza dei palazzi, e delle ville dei Grandi; l’incredibile sontuosità, e moltitudiue dei loro mobili, [p. 217 modifica]e serviti da tavola; le cospicue somme di danaro, che spendevansi per le lor tavole, e nei lor vestiti, e ornamenti; ed in fine il numero prodigioso dei loro Schiavi domestici, e Clienti, e fo il confronto di tutto ciò colle sostanze dei più ricchi proprietarj, e usuraj, non mi reca già meraviglia la mostruosa ricchezza dei Romani, ma bensì come essi non avessero avuto bisogno di capitali dieci volte maggiori, onde eseguir tali imprese, e far fronte a tanto scialacquo e dissipamento. I più facoltosi, di cui descritte ci restano le ricchezze, non avevano una possidenza maggiore di otto millioni, e mezzo, o al più dieci dei nostri Talleri. Otto millioni e mezzo si stimavano all’incirca i capitali di Pallante, il quale a par degli altri Liberti, di Claudio, e di Nerone vien notato da tutti gli Scrittori come un prodigio di fortuna, e di ricchezza1. Altrettanto, e non di più erano le sostanze di Seneca, per rispetto alle quali dicevasi ch’esse oltrepassassero i limiti dei tesori di un Re2. [p. 218 modifica]Se si dee prestar fede a Seneca, l’avaro, ed inetto Augure Gneo Lentulo mercè de’ benefìzj di Augusto divenne ancor più ricco dei più famosi favoriti di Nerone, e di Claudio; ma io credo così poco che Lentulo arrivasse a possedere un capitale di dieci millioni di talleri, come approvar non posso l’esagerato giudizio, che ne vien fatto, ch’egli, cioè, sia stato il maggior esempio di fortuna, e di ricchezza fino a tanto che i moltopiù vasti tesori di alcuni Liberti lo ebbero reso povero, o fatto comparir come tale3</ref>. Quand’anche però si ammetta che Lentulo, ed altri abbiano avuto una ricchezza di dieci, e più millioni, tuttavolta niuno si aspetterà mai di udire che i più facoltosi dei Romani avessero una così incredibile moltitudine di Schiavi, e beni campestri così smisurati, come se ne trovavano realmente in possesso. C. Cecilio Claudio [p. 219 modifica]Isidoro, che morì sott’Augusto, si espresse nel suo testamento che a malgrarlo delle gravi perdite da lui sofferte nel corso delle guerre civili nulladimeno lasciava 4016 Schiavi, 3600 Bovi da giogo, 275000 capi d’altro Bestiame, oltre ad un millione e mezzo di danaro contante4. Al tempo di Caligola viveva un certo Pompeo, il quale aveva un sì vasto numero di poderi che secondo l’indubitatamente forte espressione di Seneca molti Fiumi nascevano, e scorrevano sempre fino al Mare nel suo territorio5. Sotto il governo di Nerone la metà dell’Africa  3, cioè di quella parte, che spettava ai Romani, trovavasi in potere di sei grandi proprietarj6. A tali esorbitanti possidenze hanno rapporto le seguenti lagnanze, ed esclamazioni di Seneca = Infelice colui7, il quale non rimane contento se non quando il registro de’ suoi Capitali, e di altri Beni noni riempie un ampio libro, finchè non fa lavorare dai proprj Schiavi estensioni larghissime di terreno, e pascere innumerevoli mandre di Bestiame in intere Provincie, e Regni, e in fine non ha eretti edifizj tali che colla loro circonferenza superino la grandezza di Città rispettabili =. Quand’anche [p. 220 modifica]noi8, dic’egli in un altro luogo, accumuliamo beni sopra beni, e uniamo campi a campi, tanto col comprarli dai nostri vicini, quanto col rendercene padroni colla forza, benché diamo alle nostre tenute l’estensione d’intere Provincie, e non crediamo di possedere un sol effetto che quando possiamo intraprendere lunghi, e nojosi viaggi sul nostro proprio fondo, e terreno, tuttavolta noi non arriveremo giammai a quella soddisfazione, e contentezza, da cui ci siam dilungati =. Fin dove, soggiunge per ultimo, estenderete voi alla fine i vostri campi se non vi contentate di far arare intere Provincie dai vostri Bovi, e non vi saziano nemmeno i confini di grandi Popoli, e il corso di celebri Fiumi, che nascono, e scorrono fino al Mare ne’ vostri beni? Ciò vi sembra certamente troppo poco allorché non avete circondato più Mari colle vostre Terre, se i vostri Castaldi non dominano al di là de’ Mari Adriatico, Jonio, ed Egizio, e se quegli edifizj, in cui un giorno abitavano i maggiori Capitani, non appartengono adesso ai vostri più insignificanti Poderi. Estendetevi pure quanto volete, e chiamate podere ciò, che prima formava il Territorio di un’intera Popolazione; nulladimeno sarà sempre maggiore quello, che non vi appartiene =9. Per quanto grandi, dopo le riferite notizie, congetturar si [p. 221 modifica]possano le possessioni, i tesori, e le rendite dei Romani, non si arriverà però giammai a concepire in qual modo alcuni semplici privati, quali furono M. Vipsanio Agrippa, ed Erode Attico, ebbero i mezzi di costruire, e perfezionar tante Opere maravigliose nello spazio di pochi anni. Agrippa, che in appresso divenne genero di Augusto, e che al dir di Plinio si accostava più ad una guerriera rozzezza che ad una molle eleganza10, ristabilì a sue spese, allorché fu Edile, tutti i pubblici Edifizj, e le pubbliche Strade della Città, e ripulì le Cloache, per cui venivano scaricate nel Tevere le immondezze della medesima. Inoltre egli dispensò al Popolo sale, ed olio, e per un anno intero rese liberi di qualunque spesa tanto agli nomini quanto alle donne i bagni di tutta Roma; gettò di frequente tra il raccolto Popolo certi contrassegni  4, per cui quelli, i quali arrivavano a prenderli, ottenevano ora vestiti, ora una somma di denaro, ed altre cose preziose; e con ugual frequenza raccoglier fece, e poscia distribuire al Popolo vettovaglie, ed altri generi necessarj alla vita11. Egli stesso riferì, allorché diede conto della sua Edilità  5, che aveva aperti al Popolo 170 bagni pubblici, e date in cinquantanove giorni tutte le sorte di spettacoli. In [p. 222 modifica]conseguenza delle sue proprie idee, ed elargizioni egli fece pure, per comodo, ed uso degli Acquidotti col mezzo dei quali introdusse in Roma due Fiumicelli da una gran lontananza, formare settecento Vasche, o Cisterne, centosette Fontane in tutte le varie parti della Città, e centotrenta Conserve d’acqua, molte delle quali riuscirouo della maggiore magnificenza, e bellezza, avendole adornate con quattrocento colonne di marmo, e trecento delle più insigni statue parimente di marmo, o di bronzo. Ciò, che peraltro recò quasi più meraviglia di queste Opere stesse, fu il breve tempo, che impiegossi per eseguirle, mentre vennero tutte condotte a fine in sei mesi12. Agrippa eresse in seguita con eguale magnificenza la Septa, luogo di adunanza del Popol Romano13, il Portico di Nettuno, il Laconico, ed il Panteon14; e in un dicorso degno del più gran Cittadino esortò tutti i Romani a consacrare, conforme egli avea fatto, nei pubblici edifizj, e sulle pubbliche piazze tutte le loro preziose pitture, e statue al desiderio, e al piacere del Popolo15. [p. 223 modifica]

Se nei primi Secoli dopo la nascita di Cristo potè alcun privato emulare Agrippa in Opere di pubblica magnificenza, e in imprese universalmente utili, fu solo Erode di Atene, il cui Padre trovato aveva un immenso tesoro sotto la propria casa. Il primo monumento della sua ricchezza, e beneficenza fu un Acquidotto presso Troade, che costò più di un millione di talleri. Dipoi in Atene egli edificò di marmo bianco lo Stadio lungo seicento piedi, e capace di contener tutto il Popolo, e quindi un Teatro, per cui non fu messo in opera altro legno se non che di cedro lavorato, e disposto dalle mani dei migliori Artisti. Esso restituì similmente alla sua primiera magnificenza l’Odèo eretto da Pericle, e già decaduto, e restaurato più volte. Inoltre abbellì, ovvero costrusse il Tempio di Nettuno sull’Istmo, un Teatro in Corinto, uno Stadio in Delfo, un Bagno alle Termopile, ed un Acquidotto a Canosa in Italia. Non ostante tutti questi Reali monumenti le ricchezze, e la generosità di Erode non s’esaurirono in modo ch’ei non potesse colle più segnalate munificenze rendersi benemerito ancora agli abitanti dell’Epiro, della Tessaglia, dell’Eubea, della Beozia, e del Peloponneso16.

Tali Opere, quali furono quelle d’Agrippa, e di Attico, coi ora niun Monarca avrebbe il coraggio d’intraprendere non potevano [p. 224 modifica]certamente essere effettuate che dai più Ricchi fra i Ricchi; ma non meno meraviglioso dei suddetti Monumenti era il gran numero dei Palazzi, e delle Ville, che nei primi Secoli dopo la nascita di Cristo trovavansi in Roma, e in Italia. I Palazzi dei Grandi, che in Roma ascendevano a 1780, conforme 47000 all’incirca n’eran le case ordinarie, avevano una così ampia circonferenza che Seneca in più luoghi gli paragona a Città, e perfino a grandi Città17. Presentemente, dice Valerio Massimo  6, credono di avere un’angusta abitazione coloro, le cui case non contengono maggiore spazio di quello, che n’occupavano un giorno ì campi del Dittator Cincinnato18. Che Seneca, e Valerio non esagerino la grandezza dei Palazzi de’ Romani ricavasi soprattutto da molte tèstimonianze di Plinio per rispetto all’ampiezza dei Bagni, e delle Cucine delle Case dei Grandi. Nei tempi antichi, dic’egli in un luogo, due jugeri  7 di terreno eran bastevoli per un Cittadino Romano, e per la sua numerosa Famiglia; all’età nostra per lo contrario neppure gli Schiavi di Nerone contenterebbonsi d’aver dei Bagni, che occupasser soltanto un eguale spazio, ed è un prodigio se l’uno, o l’altro non dà una pari [p. 225 modifica]estensione anche alle sue Cucine19. Gli Antenati, dice Plinio in un altro luogo, i quali abbandonavano i proprj campi, ed aratri per vincere i Popoli, non abitavano certamente come Caligola, e Nerone, e le lor possessioni erano meno grandi dei magazzini di questi illustri dissipatori20. I Palazzi dei Romani, oltre alle stanze di lusso, ed a quelle abitate dai proprj Padroni, e loro Schiavi contenevano grandi, e pubblici cortili, e viali coperti destinati al passeggio, e alle adunanze dei Domestici, e dei Clienti, Ginnasj, Bagni, Templi, Ippodromi, e Giardini per lo più situati sui tetti delle Case21. Alla grandezza dei Palazzi corrispondevano la ricchezza dei materiali impiegati a costruirli, e l’arte, con coi questi erano stati lavorati, e disposti. Le molte centinaja di colonne, che sostenevano i portici, e le sale22, erano del più eccellente porfido, o marmo Greco, Egizio, e Numido23. Indorati o guarniti con lastre d’oro furono i tetti delle case; e le stesse [p. 226 modifica]pareti, soffitte e pavimenta delle stanze ove si mangiava, e abitava, e specialmente quelle dei Bagni vennero intarsiate di marmo, o dipinte a mosaico colle più differenti specie di marmi, e d’altre insigni pietre colorite24. Non meno ampie, e magnifiche dei Palazzi della Città erano le Case di campagna, che sempre in maggior numero appartennero ai primarj Romani nelle diverse parti d’Italia25. Non rimarrà dunque alcun Mare, esclama Seneca, cui voi non racchiudiate coi vostri alti, e superbi Palazzi da estate? Niun Fiume, sulla cui spiaggia non pompeggino i vostri Edifizj? Niuna calda sorgente, presso la quale voi non ergiate subito nuove abitazioni alla crapula, ed alla mollezza? Niun seno di Mare, cbe da voi [p. 227 modifica]non sia tosto fatto ampliare, e circondar di Fabbriche? Ma quand’anche lo vostre Ville risplendano su tutte le alture, e da tutte le valli si sollevino al Cielo come montagne, tuttavia resterete sempre quai semplici, e piccoli esseri, che non possono moltiplicarsi nè tampoco ingrandirsi26. Nelle Ville ancora impiegavansi la maggiore magnificenza, ed arte rispetto ai bagni27. Non solo venivano questi fabbricati colle più eccellenti pietre, ed abbelliti colle più signorili colonne, e statue, ma si procurava eziandio di situarli in tal guisa vicino al Mare che udir se ne potesse lo strepito dell’onde, e stando a seder nel Bagno godere d’un’estesa, e varia veduta tanto sul Mare, quanto sulla Terra28. A tempo di Tiberio la maggior parte dell’Italia trovavasi di già coperta dalle Ville Romane. Queste Ville inghiottivano i tesori, e i Monumenti d’Arti di tutti i Paesi, e Popoli, che derubati ne venivano per le medesime. Gli immensi giardini distruggevano l’Agricoltura; imperocché là dove una volta abitata avevano, e coltivata la Terra centinaja d’industriosi lavoratori formavansi bagni, vasche, scherzi di acqua, boschi, e parchi per diporto di alcuni Ricchi. Lo stesso Tiberio attribuì quindi alle Ville, e ai Giardini dei Grandi la causa [p. 228 modifica]principale dello spopolamento, e dell’abbandono dell’Italia, la quale per esser costretta di farsi venire da lontane Provincie la maggior parte delle biade, che le abbisognavano, trovavasi qualche volta tormentata dalla carestìa allorchè le Navi cariche dei prodotti dell’Egitto, o dell’Africa erano trattenute da venti contrarj29.

Gli istessi Palazzi però, e le Ville più vaste, e deliziose potevano appena costar tanto quanto importavano le suppellettili, e i serviti da tavola, che corredar dovevano l’une, e gli altri. Oltre alle inestimabili pitture, e statue. [p. 229 modifica]che trovavansi nei Palazzi, e nelle Ville dei Grandi tutti i loro serviti da tavola erano d’oro puro, e i loro istrumenti da cucina di argento30. I piatti, e i vasi d’oro erano però anche meno preziosi di quelli di metallo Corinzio  8, i quali valevano un prezzo esorbitante per essersi perduta l’arte di lavorarlo31. La bottiglieria consisteva in vasi d’oro, e d’argento ovvero di porcellana, e di cristallo. I boccali d’argento al pari dei piatti dello stesso metallo venivano unicamente sofferti allorquando erano essi stati lavorati da celebri ed antichi Artefici. Sì gli uni che gli altri però non godevano già maggiore stima a causa della lor durevole bellezza ma secondo la propria antichità, e la fama degli antecedenti lor possessori; giacchè nei più insigni piatti, e vasi antichi il lavoro dell’arte erasi in tal modo consunto che non potevansi più distinguerne le figure; segno evidente, dice Plinio, che anche quest’Arte aveva cessato affatto di esistere32. Gli istessi bicchieri d’oro sarebbero stati considerati troppo dozzinali qualora non si fosse preso l’espediente di guarnirli con le più rare pietre, e gemme. Più di questi ancora venivano [p. 230 modifica]apprezzati quelli di porcellana, e di cristallo. Alcuni vasi murrini  9 furono inclusive comprati per novemila talleri l’uno, e siffatti giojelli erano quindi così cari ai loro padroni che questi trasportati come da un fervido amore per i medesimi ne rodevano alquanto l’orlo, onde in tal guisa aumentare il lor pregio33. Quando si spezzava qualche celebre vaso murrino allora fabbricar facevasi un magnifico Mausoleo per riporvi i cocci, e tali Mausolei erano poi, al dir di Plinio, fatti vedere come se essi contenuto avessero la spoglia di Alessandro il Grande34. Quasi al pari de’ vasi murrini si stimavano i bicchieri, i piatti, e i vassoi di cristallo, e dopo di questi i lavori di ambra gialla, che dalle Donne Romane venivano ricercati colla maggiore ansietà, benchè esse non ben sapessero in che consista il vero pregio della medesima35. Vi furono persino certi vasi bianchi di terra, che vennero pagati anche più dei murrini36.

Questa mostruosa magnificenza di bottiglieria, e piatteria corrispondeva alla sontuosità dell’altre suppellettili. I piedi, e le incassature dei letti erano d’avorio, o d’argento, e con questo stesso metallo furono pure guarnite, e coperte le Romane carrozze37. Poppea di [p. 231 modifica]Nerone fece eziandio bardar d’oro le proprio mule38, e i cocchj del medesimo Imperatore, egualmente che quelli degli altri primarj Romani, non erano solamente intarsiati d’avorio, ma altresì contornati, e guarniti di rare, e nobili pietre39. Gli specchj delle Romane, che eguagliavano in altezza la statura di un uomo, erano con grand’arte fatti d’oro, e d’argento, e così riccamente contornati di pietre preziose che uno di essi importava più di quello che una volta lo Stato dava in dote alle figlie di celebri Capitani40. Le tavolo di cedro coi piedi di avorio costavano anche più degli stessi specchj41; imperocchè quando le medesime erano d’un bel disegno, e state già possedute da molti illustri Personaggi, allora non venivano pagate meno di 25000 talleri l’una. In vista di tal prezzo dovrebbesi credere che anche nelle case più cospicue una sola di queste tavole fosse stata tenuta, e fatta vedere come una rarità, o un oggetto di gran lusso. Se però dall’esempio di Seneca è permesso di giudioare degli altri primarj Romani, i più rispettabili Signori trovavansi padroni di varie centinaja delle predette tavole, mentre egli, conforme almen dice Dione Cassio, ne aveva un numero di 500 nella [p. 232 modifica]propria casa e nelle sue ville. Finalmente tutti gli armadi, e fra essi anche quelli, in cui conservavansi le Biblioteche, erano composti di preziosi, e rari legni, e maestrevolmente intarsiati d’avorio, o di metalliche gentilizie insegne42.

La più rovinosa di tutte le fin qui mentovate sorte di profusione era quella, che praticavasi rispetto agli Schiavi. Nelle principali Case di Roma, simili anche in ciò alle Corti Orientali, oltre al personal servizio, che ai padroni e alle padrone delle medesime come ai loro figli, congiunti, ed amici, prestar dovevano i rispettivi Schiavi si esiggeva altresì che da questi eseguito fosse qualunque altro mestiere o lavoro; lo che le rendeva in certo modo soddisfatte, e contente. I primarj Romani pertanto non solo facevano per lo più lavorare i loro giardini, e campi da Schiavi incatenati, e custodir da altri Schiavi le loro greggie, ma volevano eziandio che siffatti individui esercitassero tutte o quasi tutte le professioni, e le arti. Senza dubbio non ebbe mai un [p. 233 modifica]Romano, come racconta Ateneo  1043, l’incredibil numero di dieci, o ventimila Schiavi, almeno domestici, ma la moltitudine dei medesimi era tuttavia così grande nelle primarie Case che Tacito in due luoghi ne fa parola come se fossero stati altrettante Nazioni44, e Seneca c’informa di numerose schiere di cuochi, di persone che servivano a tavola, e d’altri servi domestici45. La copia degli Schiavi, che i Ricchi del popolo tenevano ne’ varj lor poderi, ascese non di rado al migliajo, e talvolta ai quattromila46. Il numero però degli Schiavi domestici, che s’impiegavano nelle giornaliere faccende della casa, o pel servizio dei padroni, appena giunse ad altrettante centinaja47. A causa di questa gran copia di Schiavi ebbero i primarj Romani bisogno di un Nomenclatore, ossia di un Servo particolarmente destinato a indicar loro i nomi degli [p. 234 modifica]altri Schiavi; ed i più facoltosi facevansi inclusive ogni mattina dir il numero de’ proprj Schiavi, conforme praticano i Generali coi lor Soldati48. Il più piccolo danno, che cagionavano queste masse di Schiavi, era la spesa, che importava il loro mantenimento, mentre divennero essi molto più pericolosi, e nocivi per le non naturali dissolutezze, alle quali istigavano i loro Padroni, e per la grande influenza, che ottenevano sui medesimi alimentando, e soddisfacendo le loro passioni. Fin dai tempi Claudio, e di Nerone le ricchezze, l’autorità, e la pompa dei Liberti Imperiali erano passate in proverbio, per esser esse di tal natura che rendevasi impossibile ai più nobili Romani l’agguagliarle49. [p. 235 modifica]Lo stesso crescere e convivere, fra miserabili Schiavi, che o venivano amati in un modo illecito, o potevansi unicamente tener a freno col continuo timore, o mediante i più duri, ed esemplari gastighi, e rispetto ai quali per conseguente era permesso di prendersi in ogni caso qualunque arbitrio, riuscir doveva estremamente dannoso alla Romana Gioventù50.

Prima di passare a far menzione dei funesti effetti del fasto dei Romani io voglio inserir qui alcuni esempj della stravagante profusione di molti Romani Imperatori, i quali cercavano di distinguersi dal comune delle persone coll’esorbitanza delle loro spese del pari che colla grandezza degli altri lor vizj, e difetti. Caligola, dice Svetonio, colla sua quasi incredibile prodigalità superò l’invenzione di tutti i dissipatori, che erano vissuti prima di lui. Egli scoperse nuove specie di bagni, di cibi, e di banchetti stomachevoli; bevve le più insigni perle disciolte nell’aceto; porse a suoi commensali pane, ed [p. 236 modifica]altri cibi ricoperti d’oro; essendo solito esprimersi che faceva d’uopo vivere come un Imperatore, oppure come un uomo regolato, ed ordinario. Inoltre sparse somme considerabili di danaro tra la plebe, e costruir fece alcune barche di legno di cedro con la prora tempestata di pietre preziose, e colle vele composte di ricchi drappi, ed in cui oltre alle ampie sale, ove si mangiava, ai bagni, ed ai corridoj, trovavasi una gran quantità, di diverse specie di viti, e. di altri alberi da frutto. Allorquando Caligola fabbricar voleva Palazzi, e Ville, cercava soprattutto di poter mandare ad effetto quello, che comunemente credevasi ineseguibile. Per tal motivo egli gettò dighe ove il Mare era più profondo, ed impetuoso; tagliar fece le più dure rupi, abbattere le più alte montagne, ed altre inalzarne nelle pianure; e tuttociò con un incredibil prestezza, poiché il ritardo veniva punito colla morte. Ma per non raccontare, così conclude Svetonio, tutte le scialose imprese di Caligola basti il dire che egli in meno di un anno dissipò gli immensi tesori di Tiberio, che ascendevano a sessantasette millioni e mezzo della nostra moneta51. [p. 237 modifica]

Fra tutti gli uomini di buona e cattiva fama, che Roma aveva prodotti, niuno parve a Nerone così degno di esser preso per modello come Caligola. Egli lodava, e ammirava specialmente questo mostro per la sola regione che il medesimo consumati aveva in sì breve tempo i tesori di Tiberio52. Nerone opinava che le ricchezze, ed il danaro non dovessero aver altro scopo, e altro pregio se non che quello della profusione, e perciò come spilorci egli biasimava coloro, i quali non cercavan di spendere più di quello, che raccoglievano, e quai splendidi, e generosi encomiava gli altri, che dissipavano le lor sostanze, e ne facevano un cattiv’uso. Niun termine, e misura veniva quindi osservata da lui circa al [p. 238 modifica]regalare, e allo spendere. Egli passò fra le altre cose al Re Tiridate, che era venuto a visitarlo in Roma, venti mila talleri al giorno per la proprio corte, e nell’atto della sua partenza gli fece un regalo di più di tre millioni e mezzo della stessa moneta. Oltre a questo profuse a Gladiatori, a Commedianti, ed a Musici Case, Ville, e somme tali di danaro, che superavano le facoltà dei trionfanti Imperatori. Si fece il calcolo, secondo la testimonianza di Tacito, che Nerone in donativi dispensati a simil canaglia avesse per lo meno sciupato un capitale di cinquantacinque millioni di talleri53. Il figlio di Agrippina era [p. 239 modifica]d’opinione che fosse una cosa da plebeo il portare più d’una fiata gli stessi abiti più preziosi. Egli non giuocava mai meno di molte migliaja di talleri per volta; ed allorchè andavasene in campagna aveva sempre seco un seguito di mille cocchj, i cui condottieri egualmente che tutti gli altri del suo accompagnamento erano vestiti, ed ornati con regal pompa. In niun’altra parte però la sua profusione fu così eccessiva, e rovinosa, come nel fabbricare. Egli eresse per la seconda, ed ultima volta il così detto Aureo Palazzo, che racchiudeva quasi l’intera Città54. Le particolarità, che in questo palazzo destavano la maggior maraviglia, non erano già lo splendor dell’oro sparso per tutto, e quello delle perle, e pietre preziose, giacchè siffatte cose, come dice Tacito, erano da lungo tempo divenute famigliari, e comuni, ma i triplicati immensi ordini di colonne lunghi mille piedi, o come altri vogliono mille passi; i laghi, che parevano Mari, ed erano all’intorno circondati da file di edifizj paragonabili a Città; i boschi, le foreste, i campi, i prati, i vigneti, le solitudini, e le alture, che somministravano ampie, e deliziose vedute; i bagni caldi, e quelli che riempir potevansi d’acqua di Mare; e finalmente le sale ove si mangiava, le cui volte erano composte di amovibili tavole d’avorio, mediante le quali sparger potevansi sui commensali fiori, ed acque [p. 240 modifica]odorose. Nerone, come osserva Tacito, per queste, ed altre imprese ancor maggiori, ma non mai terminate, si servì di due soggetti  11, i quali avevano bastante capacità, ed arditezza per ottener coll’Arte ciò, che non era stato conceduto dalla Natura, e per burlarsi delle facoltà di tutto lo Stato, e del prodigo suo Monarca. Quando Nerone ebbe fabbricata l’aurea sua Casa egli disse che allora incominciava ad alloggiare come uomo. Vitellio peraltro considerò questa stessa Aurea Casa come una miserabil abitazione, e quai triviali, e meschine le splendide suppellettili, che l’adornavano55.

Non meno scialacquatore nel fabbricare di quel che lo fossero stati Caligola, e Nerone, si dimostrò il loro degno successor Domiziano56. Egli eresse fino dai fondamenti l’incendiato Campidoglio, e profuse tali somme nella sola doratura di questo sacro Edifizio che le sostanze dei più ricchi Romani non sarebbero state sufficienti a metterle insieme57. Ma chi, [p. 241 modifica]dice Plutarco  12, ha ammirato la ricchezza del Campidoglio, e poi vede soltanto un portico, un bagno, ed un’abitazione delle concubine di Domiziano, non potrà far a meno di esclamare ciò, che Epicarmo  13 disse a un dissipatore: Tu non sei generoso, ma un pazzo se ti compiaci di sprecare, e rassomigli appunto al Re Mida  14, il quale voleva che tutto fosse d’oro, e di pietre preziose58.

Per quanto insensata, e rovinosa fosse la prodigalità di un Caligola, di un Nerone, e di un Domiziano, tuttavia Ella ebbe sempre un non so che di maestoso, e di principesco mentre essi profondevano i proprj tesori in Monumenti, che duraron secoli, e attestar poterono alla più tarda posterità la loro magnificenza, e il lor gusto. Lo scialacquo al contrario praticato da Eliogabalo non fu, è vero, men grande di quello de’ suddetti suoi Predecessori, ma se ne dimostrò nel tempo stesso molto più puerile, ed inconcludente avendo egli sprecati molti millioni in oggetti di momentaneo piacere, o di una pompa più che donnesca, vale adire in abiti, ed ornamenti, o in fine secondo che gli dettava il proprio capriccio, per l’unico motivo di far conoscere che a lui solo era permesso di dissipare in tal modo. A questo crapulone, e voluttuoso Assiro59 sembrarono troppo comuni i cocchj cerchiati d’argento, e abbelliti coi più insigni [p. 242 modifica]lavori ir avorio, o di bronzo; e perciò egli non fece mai uso che di quelli guarniti d’oro, e per ogni dove coperti di perle, e di pietre preziose. In simil modo carichi d’oro, e di perle, e pietre preziose erano i suoi vestiti, le sue armi, i suoi cuscini, e letti perfino le reti, con cui pescava. Inoltre, sul dubbio che accader gli potesse d’esser costretto ad uccidersi da se medesimo, o che gli venisse in mente di morire per mezzo di una caduta, egli erasi circa al primo caso fatto preparare alcune funicelle intessute d’oro, e di porpora, pugnali, e coltelli d’oro, e fiaschi di smeraldo, e di giacinto ripieni di veleno, e rapporto all’altro non aveva mancato di provvedersi di varj tappeti o coperte sfarzosamente composte, e ricamate, giacchè, conforme da lui dicevasi, la stessa sua morte riuscir doveva oltremodo brillante e magnifica, e spiegare la dignità di una vita sommamente deliziosa e da principe. Esso non portò mai più d’una volta gli stessi abiti, pannilini, calcetti, ed anelli, ed impose una simil legge ancora alle sue concubine. Di più non viaggiò mai, come privato, con un seguito minore di sedici cocchj; e quando alcuno lo interrogò se temesse di divenir povero, gli rispose ne’ seguenti termini .= Cosa havvi al mondo di meglio che Tesser erede di me, e delle mie donne? In fine sparger faceva polvere d’oro, e d’argento sui gradini delle scale, ch’ei discendeva, come pure sopra i viali coperti ove andavasene al passeggio, e oltre a ogni cosa rammaricavasi di non poter far lo stesso [p. 243 modifica]inclusive con quella di ambra gialla. Stracciò, e tagliuzzò spesso i più sfarzosi vestiti, e sommerse nel mare varie navi col ricco lor carico credendo che ciò fosse un segno di un’anima grande, e Reale. Gli stessi suoi arnesi da notte erano vasi murrini, oppure d’oro, e di onice60.

L’illimitata profusione dei principali tra i Romani ebbe le medesime conseguenze funeste, che ha avuto in tutti i tempi, e paesi, e che nei prodighi Imperatori si resero molto più sorprendenti, e dannose. Essa produsse in primo luogo una vile spilorcierìa in tutti quei casi, ne’ quali l’onore, e il dovere richiesta avrebbero la maggior splendidezza; in seguito una del pari violenta che bassa avarizia; e per ultimo una tal povertà, e miseria, che gli Uomini, e i Giovani delle più nobili famiglie si vidder costretti ad applicarsi alle Arti, ed occupazioni più disonorevoli.

Ciò, che i primarj Romani profondevano smodatamente nei loro Palazzi, Ville, mobili, tavole vestiti, e ornamenti, cercavano poi di ricuperarlo con un’intempestiva economia nell’educazione dei loro figli, e nel mantenimento dei proprj servi, ed amici. Se mai domandate, dice Giovenale61, a quel Ricco quanto gli costano la sua casa, e la sua sala ove mangia sostenuta da alte colonne Numide; quanto i suoi bagni, e i suoi coperti passeggi; quanto i suoi equipaggi, e le [p. 244 modifica]sue cucine; voi troverete che a motivo di tante spese da lui fatte egli non può dare che pochi talleri allo stesso Quintiliano per l’annuale istruzione di suo figlio, e che nulla gli costa meno dell’educazione del medesimo. Invece che i figli delle primarie famiglie, così si lagna Tacito, o l’Antore del Discorso sul decadimento della Romana Èloquenza, siano come nei tempi della libertà, ove erano partoriti da caste madri, educati in grembo alle lor Genitrici o sotto l’ispezione di una vecchia parente della lor casa, essi vengono presentemente affidati piuttosto alla cura dì una Greca fantesca, alla quale si dà per compagno l’ano, o l’altro dei più vili schiavi, che impiegar non possonsi in altro modo. Mediante la superstizione, e la leggierezza di tai custodi i teneri spiriti dei bambini rimangono di buon’ora traviati, e corrotti. Niuno in tutta la casa fa attenzione a quel che dice, o fa in presenza del giovine Padrone. Gli stessi Genitori non assuefanno i proprj figli alla modestia, ed all’ordine, ma piuttosto alla stravaganza, ed alla rilassatezza, e così finalmente s’insinua in loro una sfacciata disistima di se stessi, e degli altri. A ciò si aggiungono i vizj particolari della nostra Città, e vale a dire un eccessivo entusiasmo pel Teatro, e pei Comici, e la passione dei Gladiatori, e Cavalli. Quando lo spirito, è una volta preoccupato da tali inezie, qual luogo, e tempo vi rimane per le più serie cognizioni, ed occupazioni? Di che altro parla la Gioventù nelle proprie case, e [p. 245 modifica]nelle scuole, se non se di Commedianti, di Gladiatori, e di Cavalli? Gli stessi maestri, che guadagnar non si possono i loro uditori coi meriti, ma colle adulazioni, non si trattengono per lo più coi loro scolari che di questi oggetti frivoli, e indegni62.

Quando all’avarizia, e trascuranza dei Genitori si univano ancora i loro cattivi esempj, ed un natural contraggenio verso qualunquesiasi grande, ed utile capacità, cognizione, e virtù, non dee recar maraviglia se i Figli divenivan simili ai loro Padri, ed eziandio peggiori di questi. Dio volesse, esclama Quintiliano, che noi medesimi non corrompessimo i costumi dei nostri figli! Noi siamo quelli, che snerviamo la lor fanciullezza coi sensuali piaceri; e la molle educazione, che da noi amore, e premura si chiama, indebolisce loro tutti i nervi dello spirito, e del corpo63. Cosa non desidererà divenuto adulto, ed uomo quel bambino, che già si strascica sulla porpora? Tostochè appena un fanciullo comincia a balbettare egli conosce, e brama digià seta, porpora, e leccornie. Noi ammaestriamo il palato de’ bambini prima della lor lingua, e gli lasciamo crescere nelle lettìghe; e se qualche volta mettono essi appena i piedi in terra li sostenghiamo subito dall’una e dall’altra parte. Noi ci rallegriamo [p. 246 modifica]al sommo nell’udirli pronunziare qualche detto malizioso, e indecente, e gli baciamo ridendo per certe uscite, ed espressioni, che appena comportate sarebbero fra le Alessandrine facezie. Anche questo non dee recar maraviglia. Essi le imparano, e le odon da noi, e veggono i nostri concubini, e le nostre meretrici. I nostri banchetti risuonano di voluttuose canzoni, e diam loro motivo di osservar alcune cose anche più scandalose di quelle, che ascoltano. Da ciò ne procedono abitudine, e carattere. Essi imparano in somma i nostri vizj prima di saper che sian tali, e portano quindi nelle pubbliche scuole tutti quei difetti, dei quali si suppone che abbiano già fatto acquisto nelle medesime.

La degenerazione della gioventù Romana, e segnatamente la sua poltronerìa per rapporto ad ogni buon’opera furono però, assai più che dall’avarizia, dalla negligenza, e dai cattivi esempj dei Genitori, favorite senza dubbio dal Dispotismo, sotto il quale le principali qualità, cognizioni, e virtù erano per lo meno inutili, o piuttosto pericolose; e questo deterioramento sempre crescente della Romana Gioventù fu nel modo il più visibile la conseguenza di quell’istesso orribile sistema di Governo, che trasse origine dalla perversa corruzion dei costumi. Plinio il giovine scrivendo ad un suo esperto amico una Lettera, nella quale gli chiede consiglio sopra un fatto importante accaduto in Senato, si fa egli medesimo un rimprovero rispetto alla propria ignoranza. Tu dirai, così [p. 247 modifica]egli parla al suo amico, perchè m’interroghi tu circa a un affare, che tu stesso saper dovresti? — La schiavitù dei passati tempi, risponde Plinio, ha prodotta una piena dimenticanza di tutte le buone arti, e cognizioni egualmente che dei diritti, e dell’uso del Senato. Chi è così pazzo, il quale imparar voglia ciò ch’ei prevede di non poter giammai porre in pratica? mentre è noto che è difficile il tener a memoria quelle cose, di cui non si ha giammai occasione di far uso. Il ritorno della libertà ci ha quindi trovati così ignoranti, e inesperti che siamo costretti di far molti tentativi prima di sapere in qual modo propriamente incominciar ci convenga. Una volta si costumava che i Giovani non solamente cogli orecchi, ma anche cogli occhi imparassero dai più Vecchj ciò che dessi far dovevano in seguito, e come istruire la susseguente gioventù. I giovani erano prima obbligati a servire per qualche tempo onde avvezzarsi a obbedire, e coll’obbedienza rendersi capaci di giungere un giorno al grado di Comandanti. Dopo che essi fatte avevano le loro campagne, ritornavano in Città, accompagnavano i proprj Padri, o Congiunti in Senato, e udivano alla porta del medesimo le sue deliberazioni prima di poterne esser membri. Quivi trovava Ognuno nel proprio Padre, o in uno de’ più illustri, e vecchj Senatori il più sincero, e fedel maestro. Allora s’apprendeva soprattutto come esporre le cose, dir il proprio sentimento, quanta autorità accordar dovevasi ai primi Membri dei [p. 248 modifica]Magistrati, quanta libertà agli altri, dove conveniva opporsi, o lasciar correre, quando bisognava tacere, e parlare, come dividere in più capi i discordi pareri, ed aggiungere qualche cosa ad una opinione di già proposta; insomma coll’esperienza, che è la più fedele Maestra, imparavasi tutto l’uso, e la condotta del Senato. Noi pure nella nostra gioventù siamo stati al campo, ma in un tempo, nel quale la virtù era sospetta, e stimata la poltroneria; in cui i Generali non avevano alcuna autorità, e i soldati alcuna disciplina; in cui non regnava in verun luogo alcun ordine, ma tutto si trovava in tal modo disordinato, e sconvolto che si dee piuttosto porre in dimenticanza che richiamar alla mente ciò che allora si vedeva, e ascoltava. Anche noi abbiamo fissati gli sguardi nelle adunanze del Senato, egualmente che sui campi di battaglia, ma allorquando il Senato taceva, e tremava, e riusciva pericoloso il dire ciò, che pensavasi, e funesto l’approvar quello, che si abborriva. Cosa potevasi imparare in quel tempo, in cui il Senato veniva solamente convocato per ischerno, o per ingiuriose o infami deliberazioni, ed in cui non ardiva mai propor cose utili, ed importanti, ma era piuttosto costretto ad esaminare lagrimevoli, e ingiuste accuse, e proferir consimili giudizj? Noi stessi, come Senatori, abbiamo vedute, e sopportate per molti anni queste medesime disgrazie, e stante una sì lunga schiavitù le nostre intellettuali [p. 249 modifica]facoltà si sono purtroppo istupidite, e sconvolte64.

Con tali vizj dei Padri, con tali difetti del Governo, con una tale depravazione del Popolo, e specialmente di quelle della Capitale, e con un numero così grande di perniciosi tentativi, e di pessime seduzioni era impossibile che i Figli non divenissero più rilassati, ed iniqui de’ lor Genitori; che dessi non si abbandonassero di buon ora alla più grossolana crapula, e alle più innaturali dissolutezze; che non visitassero più le celebri cucine, e gli spettacoli, che le sale dei Retori, e dei Filosofi; e che finalmente non amassero più i loro cavalli, i loro concubini, e le loro concubine che i proprj Padri, e le proprie Madri, che spesse volte temevano più di quel che desiderassero di aver prole avendo non di rado i più giusti motivi di dover maledire la propria fecondità a cagione dei traviamenti, e delle dissolutezze dei loro Figli65. [p. 250 modifica]

Siccome i primarj Romani erano così ingiustamente avari per rispetto all’educazione dei proprj figli, così si può facilmente congetturare che dessi lo siano stati in un grado anche più sorprendente verso i loro più poveri concittadini. Nei tempi della Repubblica essendo il Governo divenuto una vera Democrazia, ovvero Oclocrazia, l’autorità, e l’influenza delle Case grandi dipendevano dal numero, dall’importanza, e dallo zelo dei domestici, e stranieri Clienti, fra i quali annoveravansi ancora interi Popoli alleati, Satrapi, e Regi. Gli stessi Clienti della Città, i quali erano individui della più numerosa, e più povera classe del Popolo, venivano nei tempi della libertà trattati colla maggior distinzione, e stima dai proprj Patroni di maniera che n’ottenevano spesso regali, e l’onore di stare alla [p. 251 modifica]loro tavola in ricompensa dei servigi, che ai medesimi prestavano, di accompagnarli cioè in tutti i pubblici luoghi, di difenderli nella circostanza di qualche pericolo, di votare in loro favore nelle popolari adunanze, e di cercar di attirare al loro partito tutti i proprj conoscenti, ed amici. Allorchè sotto Tiberio cessò l’influenza del Popolo riguardo ai pubblici affari, seguitarono tuttavia ad aver corso gli antichi rapporti fra i Patroni, e i Clienti, del pari che la vanità de’ più illustri Romani di farsi accompagnare da grandi turbe di quest’ultimi; ma la generosità, e la stima dei Patroni medesimi verso i più poveri amici della lor casa decaddero immantinenti a misura che costoro finirono d’essere vantaggiosi, e importanti. I primarj Romani pretendevano che i loro Clienti allo spuntar del giorno comparissero alle soglie delle lor case, gli accompagnassero in tempo di pioggia, o di freddo al Senato, ai bagni, ed in tutte le visite, che facevano, applaudissero i loro discorsi, prendessero le lor difese nei contrasti e pericoli, a cui trovavansi esposti, ed in fine baciasser loro umilmente la mano, o il petto, come se fossero stati altrettanti Principi, e Re; e per tutte queste viltà, e tali abietti servizj non accordavano poi ad essi che di rado un importante donativo, e quanto meno potevano l’onore di mangiare una volta ogni due, o tre mesi, o al più una volta il mese alle proprie [p. 252 modifica]tavole66. Questi stessi rari inviti peraltro divennero troppo gravosi ai primarj Romani; motivo, per cui Nerone gli proibì67, ed introdusse invece dei medesimi le così detto sportule  15, le quali consistevano in una certa provvisione di viveri soliti darsi ai Clienti, e che in breve convertite vennero nel regalo di soli cento quadranti  16. Queste scarse limosine furono di nuovo tolte da Domiziano, il quale ridusse per la seconda volta gli antichi inviti ad un’effettiva cena. Da un Epigramma di Marziale rilevasi che il Popol [p. 253 modifica]Romano riputò come un gran benefizio questa ordinanza di Domiziano68, ma questo stesso benefizio Imperiale fu quasi del tutto reso vano dalla vile spilorcerìa dei ricchi. Non solo venivano assegnati ai Clienti gli ultimi posti, ma in quelle medesime tavole, ove pompeggiavano le più squisite leccornìe, facevasi porger loro da deformi, ed orgogliosi Schiavi pane ammuffito, pessimi legumi, e pesci, cattiva carne, olio puzzolente, e vino il più acido. Oltre a ciò collocavansi intorno loro alcune persone, le quali dovevano osservare che niuno di questi poveri convitati rubasse qualche bicchiere, o almeno non ne levasse una pietra preziosa da quelli d’oro69.

Quando i Patroni non erano tanto splendidi, o ricchi da presentare ai proprj Clienti cibi diversi da quelli, cui essi gustavano, allora mangiavano in segreto, oppure fingendo che anche le migliori vivande riuscite fosser [p. 254 modifica]cattive, ingiuriavan, e frustar facevano inclusive i proprj cuochi, e quindi davan ordine che si levasser di tavola tutti quei cibi, di cui non volevano far parte ai suddetti lor commensali70.

Ma assai più vituperosa della avarizia che i primarj Romani usavano verso i proprj figli, e Clienti era la loro pitoccherìa rapporto alle sportule di quest’ultimi, e la viltà con cui essi cercavano di ottener legati, ed eredità dalle persone vecchie, e facoltose dell’uno, e dell’altro sesso. I più ragguardevoli Membri de’ Magistrati, i Pretori, e i Tribuni non si vergognavano di comparire di buon mattino colla feccia della Plebe Romana alle porte dei Ricchi, di farsi ivi chiaramente osservare dai loro Guardaportoni, e Servi dei Bagni (imperocchè senza questa precauzione venivano spesse volte lasciati addietro), e di implorare per la lor dignità di esser considerati prima degli altri, benchè una tal supplica non riscuotesse perlopiù alcun riguardo71. Spesse volte essi vi facevano pure trasportare in lettiga le proprie in realtà o in apparenza ammalate, o gravide Consorti, affinché anche queste ricever potessero i loro cento quadranti; ovvero [p. 255 modifica]prendevano il compenso di farsi unicamente seguire da una lettiga vuota, dando poi ad intendere che le loro care metà erano così deboli, e oppresse dal male da non poter nemmeno alzar il capo, e farsi vedere. Vi è infatti appena qualche altro dato, il quale comprovar possa in modo così persuasivo la totale estinzione di lutti i più nobili sentimenti nei già affatto decaduti Romani, come la sicura notizia che essi permettevansi di usare pubblicamente tutte queste infamità, e che quindi ogni anno facevano il computo di quanto ricavato avevano colle questuate loro sportule72.

Non meno vile, ma nel tempo stesso molto più iniquo di un tal procedere era il modo surretizio, con cui procuravasi di ottenere, per mezzo di testamenti, pingui legati, ed eredità da qualsivoglia soggetto; [p. 256 modifica]mestiere, che dai più facoltosi ed illustri Romani veniva senza vergogna esercitato, ed appreso come un’arte, e che unitamente alla delazione divenne la sola strada, a cui gli uomini d’ogni ceto, età, e condizione si appigliavano in Roma ad oggetto di maggiormente arricchirsi73. Gli avidi Eredipeti non solamente s’ingegnavano di procacciarsi il favore de’ proprj congiunti, ed amici, e di regalare, e sedurre i lor vicini, e lontani conoscenti, ma sulla speranza di un felice successo avevano altresì la baldanza di tentar le persone da loro non conosciute, e perfino i proprj dichiarati nemici cercando di assalirli pel loro debole. In conseguenza essi ponevano in opera la superstizione, e i falsi giuramenti, vendevano la propria castità, e quella dei loro figli74, e se ciò nulla giovava, [p. 257 modifica]allora in vece di tutti gli altri artifizj facevan uso della più sfacciata importunità, nè allontanavansi da coloro, che assaliti avevano, se non quando eran giunti ad afferrar la lor preda. Regolo, che fu uno dei più pericolosi delatori del governo di Domiziano, e nel tempo stesso uno de’ più arditi, ed accorti Eredipeti, e che col mezzo di queste inique arti aveva già in pochi anni messo insieme un capitale di un millione, e mezzo di talleri, e sperava di acquistar in breve altrettanto, si presentò un giorno ad un’illustre Romana per nome Aurelia, allorchè essa voleva far testamento, e la supplicò a lasciargli in legato il bel vestito, ch’ella erasi fatto fare pel giorno delle sue nozze. Aurelia credette sul principio che Regolo scherzasse; ma avendola egli assicurata che parlava sul serio, si maneggiò in tal guisa colle sue violente, e reiterate istanze che la medesima dovette finalmente acconsentire alle di lui brame75. Questo stesso Regolo avendo inteso che [p. 258 modifica]Verania vedova di Pisone  17 figlio adottivo di Galba, trovavasi pericolosamente ammalata, fondò subito su questa notizia la speranza di carpirle qualche legato, quantunque ben sapesse che Pisone non lo aveva odiato meno di quello che erasi da lui fatto rispetto al medesimo76. Quell’impudente scellerato essendosi pertanto introdotto fra i parenti, e i più vecchj amici della casa del defunto Pisone, si accostò più che potette al letto dell’inferma, e le chiese con aria misteriosa in qual’ora, e in qual giorno fosse nata, e dopo averne ottenuta la risposta incominciò tutto raccolto in se stesso, con volto teso, con occhi fissi, e stralunati, e con un tacito movimento delle labbra a contar sulle dita onde eccitare al maggior segno l’aspettativa della paziente. Allorchè egli ebbe per qualche tempo continuato in questo muto ciarlatanesimo proruppe ad un tratto in ffueste parole. — Tu ti trovi al presente in un punto decisivo, ma n’uscirai felicemente; ed affinchè ciò si renda tantopiù chiaro voglio consultar un indovino, che ho spesso ritrovato veridico. — Dopo questo consolante discorso egli partì sul momento, sacrificò un animale, e quindi tornato giurò pel capo di suo figlio che le viscere della vittima si accordavano con le Costellazioni del Cielo. La vedova di Pisone premiar volendo questa buona nuova richiese il suo testamento, e lasciò un [p. 259 modifica]considerabil legato a quell’ingannatore Eredipeta. Ciò appena accaduto l’inferma peggiorò a colpo d’occhio, e morendo esclamò: o miserabile, e più che spergiuro, che ha giurato il falso per la vita stessa del proprio figlio77!

In conseguenza di questa infamità dei più cospicui soggetti potette giustamente Petronio  18 sotto il nome della Città di Crotone parlar di Roma nei seguenti termini78. — In questa Città, dic’egli, si pensa così poco all’Eloquenza come alle altre Arti, e Scienze; l’innocenza, la lealtà, ed altre virtù sono egualmente poco stimate, che premiate. Ciò succede perchè, conforme sapete, tutti gli abitanti di questa Città sono divisi in due partiti, e vale a dire in eredipeti, ed in quelli, che si lascian sedurre, regalare, e adular dai medesimi. Niuno produce, ed alleva figli proprj, giacché coloro, che hanno simili eredi naturali, restano esclusi da tutte le società, e dai divertimenti dei Ricchi, e dei Grandi. Gli uomini al contrario, che sono privi di moglie, e di altri prossimi congiunti, arrivano alle prime cariche, e vengono essi soli riputati illustri Capitani, e Uomini di Stato. La nostra Città rassomiglia ad un campo di battaglia, o ad un cimitero in tempo di fatali, e distruggitrici epidemie. Non si veggono che cadaveri, i quali vengono straziati, [p. 260 modifica]e fatti in pezzi, ed affamati Corvi, che ne divoran le carni — . Seneca descrive l’avarizia dei Romani or vile, ed or violenta in un’altra non men terribile allegoria79. — Se tu, dic’egli nel testè citato suo passo, ti vuoi fare una giusta idea della nostra vita, devi figurarti una Città conquistata, in cui la prepotenza sta in luogo della ragione, e dove è già stato dato il segno per un general saccheggio. In tal città si adoperano furiosamente il ferro, ed il fuoco, si praticano impunemente tutti i vizj, e delitti, e i ladri avidi di preda non vengono neppur trattenuti dal rispetto pei Numi. Si dà di piglio ai tesori pubblici, e sacri, come ai beni dei privati. Quà uno s’insinua di soppiatto, là un altro abbatte con violenza tutto ciò, che si oppone alle sue mire. Il primo saccheggia senza spargimento di sangue, e il secondo all’opposto inalza il suo furto con sanguinoso braccio, e non havvi alcuno, il quale rubato non abbia qualche cosa ad un altro80. [p. 261 modifica]

Non meno sfacciato della pitoccheria, e dell’arte di ottener con frode eredità, e legati era l’aperto ladroneccio, che i facoltosi, e primarj Romani praticavano verso i loro Concittadini, e molto più coi proprj Alleati. Siccome i ricchi credevano di non poter abbastanza ingrandire, ed estendere le lor possessioni, così procuravano di comprare tutti i più piccoli effetti, che restavano contigui alle medesime, e quando i respettivi lor proprietarj ricusavano di abbandonare la paterna greggia, e i campi lavorati da un tempo immemorabile dai loro antenati, allora essi ve gli obbligavano colla forza, o facevano così di frequente, e con tal barbarie devastare le loro messi dalle proprie mandre, che quegli infelici implorando invano protezione, e soccorso erano in fine costretti a cedere ai desiderj dei loro insolenti oppressori81. [p. 262 modifica]

Giacchè i Grandi si permettevano di praticare tali avanìe, e prepotenze in Italia, si può facilmente congetturare ciò, ch’essi ardivano di commettere nelle Provincie, e soprattutto nelle più remote, ove forniti di assoluto potere si trasferivano in qualità di Comandanti. Tutti gli Istorici, i Filosofi, e i Poeti di quei tempi sono ripieni di lagnanze per rispetto alle ruberie, e crudeltà, che esercitavansi nelle Provincie. La stessa Roma trovavasi del continuo ingombra di schiere d’infelici, che per se medesimi, o a nome delle saccheggiate Provincie imploravano soddisfazione, e vendetta. Se anche sotto i più rigorosi e migliori Imperatori i Comandanti, o le proprie donne, i loro Liberti, Uffiziali, e soldati non rubavano solamente le cose preziose, e il danaro, ma le mogli, ed i figli dei sudditi, e vendevano pubblicamente ad alto prezzo di sangue82 la vita stessa d’insigni Romani Cavalieri; quanto più sfacciati, e rapaci esser non dovevan quei ladri, e quei mostri che sotto un Caligola, un Claudio, un Nerone, e un Domiziano entravano spesse volte nelle Provincie come se fossero altrettante Terre nemiche coll’espresso comando di rubare, ed uccidere, o almeno con la protezione, e il favore dei spensierati, ed inaccessibili Tiranni. Al tempo di tali Monarchi i maltrattati sudditi non trovavano quasi più alcun ascolto, o se pure i [p. 263 modifica]delinquenti venivano qualche volta arrestati, e puniti, ciò non ostante questi gastighi non atterrivano punto i lor successori dall’intraprendere eguali prepotenze, e saccheggi; poichè, come accade in tutti i Governi dispotici, non sacrificavasi di rado che un solo fra tanti rei83. Le continue estorsioni dei Comandanti riducevano i nudi Sudditi, ed Alleati, a cui era stato tolto tutto fuori che l’armi, a disperate sollevazioni84, le quali vennero qualche volta prodotte ancora dalle devastatrici, e come dice Seneca sanguinarie usure, che i Ricchi della Metropoli praticar solevano nelle Provincie85. [p. 264 modifica]

Tutte queste vituperose arti di risparmiare; e di far bottino non erano però sufficienti a saziare le illimitate richieste della voluttà, della crapula, e del fasto. Le più ricche, e nobili famiglie sparivano, ed impoverivano con tal sollecitudine, e in sì gran numero che quasi tutti gl’Imperatori furono costretti a riformare, e ripulire gli Ordini Senatorio, ed Equestre, liberandoli, ciò è, da que’ membri, i quali disonoravano il loro grado con una colpevol miseria. Sotto Caligola l’Ordine de’ Cavalieri, per la prima volta rimesso in buon essere da Augusto, non solo era decaduto in modo che fu di mestieri porvi riparo coll’ammettere nel medesimo nuovi Membri, ma si rese altresì necessario che lo stesso Imperatore scegliesse i nuovi Cavalieri in tutta l’estensione del vasto Stato Romano, mentre l’Italia, che tutto assorbiva, e dissipava, non aveva un numero sufficiente di ricchi, e rispettabili soggetti, che capaci fossero di riempir i vuoti, che nell’Ordine Equestre, [p. 265 modifica]e in quello de’ pubblici Appaltatori  19 s’incominciò ad osservare fin dal tempo di Augusto86. Ciò, che Caligola erasi trovato costretto di porre in opera rispetto al ceto de’ Cavalieri, lo fece per le stesse ragioni Claudio suo successore in quello dei Senatori, per quanto vi si opponessero le famiglie Romane, e Italiane87. Le antiche famiglie, che Romolo, e dopo l’espulsione dei Re, Lucio Bruto ammesse aveva nel Consiglio, si erano quasi tutte estinte, e quelle medesime inalzate da Cesare, e da Augusto a una tal dignità trovavansi già talmente impoverite che permetter si dovette eziandio ad altri soggetti non nati in Roma, e in Italia l’ingresso nella più illustre Magistratura dello Stato del pari che il conseguimento delle primarie cariche, e dignità88.

I due opposti vizj dei Romani, e vale a dire l’avarizia, e la profusione, produssero indispensabilmente enormi debiti, e usure. Perciò, quando sotto Tiberio gli spioni, e gli accusatori attaccarono anche coloro, che preso avevano denaro a frutto contra una legge da gran tempo obbliata del Dittator Cesare, allora tutto il [p. 266 modifica]Senato, in cui niuno de’ suoi Membri era esente da usure, e da debiti, si rivolse con tale impegno all’Imperatore per ottenerne protezione, e soccorso, che egli concesse agli usuraj, e debitori un lasso di tre anni, e mezzo, onde porre in ordine, ed assestare i loro domestici interessi89. L’enorme copia dei debiti, da cui trovavasi oppressa l’immensa Roma, fu tanto più cagione di una general mancanza di numerario in quanto che una considerabil parte del denaro contante era per le continue confische colato nel tesoro dell’Imperatore, e dello Stato, ed il Consiglio aveva prescritto che i Ricchi impiegar dovessero due terzi dei lor capitali in poderi situati in Italia. Benchè i Capitalisti impiegassero con avidità il lor denaro, di cui non dovevano in avvenire tirar alcun frutto, nella compra di effetti campestri, tuttavia il numero di coloro che li vendevano per pagare i lor debiti, era molto maggiore di quello de’ Compratori, di modo che i detti beni decaddero talmente di prezzo che non poche illustri famiglie andarono del tutto in rovina, e sarebbero state seguitate da varie altre se Tiberio non avesse senza alcun frutto imprestata per tre anni la somma di tre millioni e mezzo di talleri a quei tali, che trovavansi in grado di dare in ipoteca altrettanti beni che valessero il doppio di quanto ricevevano in [p. 267 modifica]danaro contante90. Anche da questo notabil fatto si può dedurre quanto fosse grande in Roma la massa dei debiti, e quanto nella maggior parte delle primarie famiglie la profusione superasse di gran lunga le rendite, e il Capitale.

Quando i più illustri Giovani, e Uomini dissipate avevano tutte le loro ricchezze, allora essi invece di applicarsi a qualche arte, ed occupazione onorevole, onde cercare di ristabilir le proprie finanze, ripudiavano piuttosto la lor dignità, e il cospicuo grado di Cittadini per calcare il pubblico Teatro, o la pubblica Arena, che fino daì tempi di Tiberio erano divenuti il rifugio di tutti i falliti Voluttuosi, Crapuloni, e Dissipatori. È vero che Giulio Cesare, Augusto, e Tiberio, e molto più Caligola, e Nerone obbligarono i primarj Romani dell’uno, e dell’altro sesso a comparire negli spettacoli teatrali, e ne’ combattimenti, ch’essi diedero al popolo91; ma ciò venne imputato a Cesare come una delle sue tiranniche azioni, ed Augusto tralasciò di [p. 268 modifica]farlo dopo che il Senato prese la risoluzione di proibire ai nobili, e liberi Romani d’ambo i sessi d’infamarsi nell’Arena, e sopra il Teatro. Sotto Tiberio al contravio, vi furono molti Giovani dei due primi Ordini dello Stato, i quali rinunziarono spontaneamente a tutti i privilegj della lor nascita ad oggetto di poter comparire fra i disonorati Comici, e Gladiatori92. Se Caligola costrinse Cavalieri, Senatori, e le primarie Donne a calcar l’Orchestra, l’Anfiteatro, ed il Circo, onde in tal modo nobilitare i suoi spettacoli si dee però confessare che egli trovò nelle più distinte famiglie un maggior numero di Volontarj di quello che ne avesse di bisogno, giacchè fra i Gladiatori, che combatter fece fino alla morte in una gran festa popolare da lui data caddero ventisei Romani Cavalieri, che sciupate avevano le lor sostanze93. Nerone fu in ciò anche più fortunato, o piuttosto più infelice di Caligola. Esso non diede alcuna sorta di spettacoli, a cui non corressero in folla Ragazzi, Giovani, Uomini, e Vecchj, come pure Fanciulle, Donne, e Vecchie delle prime famiglie94. Tutto ciò, che eravi di ricco, e di nobile in Roma, visitava le scuole dei Sonatori, [p. 269 modifica]dei Comici, e dei Cantanti, e i luoghi, in cui si esercitavano i Gladiatori, e i Cocchj destinati alle corse; e tostochè uno credeva di esser in istato di farsi vedere, ed ascoltar dal popolo; allora vendeva se stesso, ed il proprio grado, ed onore95. Al contrario chi non poteva giungere a tanto di arrischiarsi a comparire fra i detti virtuosi, gettavasi da se medesimo, o era da altri spinto nel Coro ove molti soggetti, i quali coperte avevano le prime cariche per un resto di timidezza, e vergogna, cantavano in maschera, che poi veniva lor tolta ad istanza della Plebe Romana. I discendenti dei maggiori Eroi eran quelli, che soprattutto s’infamavano nell’Arena. I posteri di Paolo rappresentavano i Macedoni, quelli di Mummio i Greci, di Claudio i Siciliani, di Appio gli Epiroti, e gli indegni Nipoti delli Scipioni, gli Spagnuoli, gli Africani, e gli Asiatici; e sì gli uni, che gli altri si disonoravano fra vili schiavi in un luogo, a cui i loro illustri antenati non avrebbero nemmeno creduto conveniente alla propria dignità l’affacciarsi. Se Svetonio non ha esagerato, 600 furono i Cavalieri, e 400 i membri del Senato, che Nerone combatter fece fra i Gladiatori durante il suo Governo; e qualora ammettere debbasi che all’incirca un egual [p. 270 modifica]numero degli uni, e degli altri si dedicasse alle arti, ed agli esercizj del Circo, e del Teatro, non possono esser stati molti i primarj Romani, che sotto il detto Imperatore rimasero esenti da qualche macchia.

Se i miei Lettori vorranno prendersi la pena di riguardare la serie dei quadri, che io ho loro già esposti, e di considerarli sotto il medesimo punto di vista, essi vedranno allora tutto il terribil registro genealogico delle diverse specie di vizj dei primarj Romani. La stravagante, e non natural voluttà, e crapula non solo produssero un abborrimento per tutti i vincoli conjugali, paterni, e filiali, ed una non curanza di tutte le domestiche contentezze, ma estinsero affatto altresì il pudore, e l’onoratezza, e furon causa d’un insuperabile contrarietà ad ogni prerogativa sì dello spirito come del cuore, che solo ottener si possono col mezzo di lunghi, e serj sforzi. Dalla rozzezza, e depravazione dello spirito, non meno che dalla insensibilità, e corruttela del cuore dei molli, voluttuosi, e crapuloni Romani ne nacquero immediatamente la pueril vanità, e pompa, che poi in compagnia del libertinaggio, e della crapula partorirono il più stravagante, ed insensato dissipamento. Questo diè luogo da prima ad una tal viltà nel risparmiare, ed accumular danaro che por fece in dimenticanza tutta la dignità dell’uomo, e poscia suscitò un ingiusto, e sfacciato ladroneggio, per cui calpestavansi [p. 271 modifica]impunemente qualunque giustizia, ed umanità. Siccome però la voluttà, la crapula, e il lusso dei Romani dissipatori assorbivano, e consumavano qualsivoglia ricchezza a segno tale che tutte le arti della viltà, e tutte l’estorsioni del supremo, e arbitrario potere non bastavano a procurar loro un sufficiente nutrimento, così i brutali Romani essendo del continuo immersi in un perfetto sbalordimento, o vaneggiamento di sensuali piaceri, traboccavano per lo più dopo pochi anni nella più vergognosa miseria, in cui sordi alle voci dell’onore, insensibili ai derisorj sguardi, e gesti dei proprj concittadini, incapaci di fare qualunque buon’opera seguitavano a passare la loro stomachevol vita tra i più corrotti schiavi fino a tanto che questa venisse lor tolta da qualche animal feroce, o da qualche barbaro, con cui dovevan combattere.

Dopo di avere fin qui rappresentati i costumi delle primarie famiglie e degli Imperatori di Roma io voglio, per compimento di quest’Opera, che allora potrà considerarsi come la più sublime pittura della corruttela d’Europa, aggiungervi ancora una breve descrizione di quelli del popolo, e degli Eserciti Romani nei primi secoli dopo la nascita di Cristo, e far quindi osservar l’effetto di tali costumi sopra le arti, le scienze, e la lingua.

Note dell'autore

  1. Tac. Annal. XIV. 53. „ sestertii ter millies possessor„.
  2. Dio. L. 61. c. 10. Qua sapientia, dimandava Suilio, XIII. 42 . Tac. Annal „ quibus philosophorum praeceptis intra quadriennium regiae amicitiae ter millies sestertium paravisset?„ Seneca non divenne così facoltoso come gli Schiavi, e i Liberti di Nerone, e di Claudio, cui egli tante volte deride, ma si arricchì molto più presto dei medesimi, dei quali niuno guadagnò, com’egli, due millioni l’anno.
  3. II. 27. de Benef. „ Cn. Lentulus augur, divitiarum maximum exemplum, antequam illum, libertini pauperem facerent, hic quater millies sestertium suum vidit„. Più incredibile ancora dell’iperbole di Seneca è ciò, che dice Olimpiodoro  1 delle rendite di Gordiano, e di altro primarie Case di Roma. Secondo questo Greco vi erano molte famiglie in Roma, le quali ricavavano annualmente dai loro effetti 4000 libbre d’oro  2 oltre alle biade, al vino, e ad altri prodotti naturali, che per lo meno formar dovevano un terzo della somma predetta. Olimpiodoro dà alle Case di second’ordine 1000, 1500. libbre d’oro di rendita annuale, ap. Lips. II, 15. de Magn. Rum.
  4. XXXIII. 10. Plin.
  5. C. II. de Tranq. animi; „ cum tot flumiua possideret in suo orientia, et suo cadentia„.
  6. Plin. XVIII. 6.
  7. VII. 10. de Benef.
  8. Ep. 95.
  9. Senec. Ep. 89.
  10. Ibid. 35. 4. „ rusticitati propior, quam deliciis.
  11. L. 49. c. 43. p. 600. Dio. Cass.
  12. Plin. 31. 3. 36. c. 15. Per ripulir le Cloache furono da lui introdotti in Roma sette piccoli Fiumi.
  13. Lib. 53. Dio. c. 23. p. 717.
  14. Ibid. c. 27,
  15. „ Plin. 35. 4. Exstat certe ejus oratio magnifica, et maximo civium digna de tabulis omnibus, signisqne publicandis: quod fieri satius fuisset, quam in villarum exilia pelli„.
  16. L. 59. - 61. Gibbon. Edizione di Basilea.
  17. Ep. 90. non habebant (majores) domos instar urbium. de Benef. VII. 10. Aedificia privata laxitatem urbium magnarum vincentia.
  18. Cincinnato possedeva quattro jugeri. Val. Max. IV. 4.
  19. XVIII. 2.
  20. XXXVI. 15.
  21. Mart. XII. 50. Senec. Ep. 122. Non vivunt contra naturam, qui pomaria in summis turribus serunt? Quorum silvae in tectis domorum, ac fastigiis nutant, inde ortis radicibus, quo improbe cacumina egissent?
  22. La sala pei conviti di Calisto, Liberto di Claudio, era sostenuta da trenta colonne. Plin. l. c.
  23. Mar. 1. c. Senec. Ep. 86. 114.
  24. Mar. l. c.
    Et tibi centenis stat porticus alta columnis, Calcatusque tuo sub pede lucet onyx.
    Ep. 86. Senec. Pauper sibi videtur ac sordidus, nisi parietes magnis et pretiosis orbibus refulserunt; nisi Alexandrina marmora Numidicis crustis distincta sunt; nisi illis undique operosa, et in picturae modum variata circumlitio praetexitur; — eo deliciarum venimus, ut nisi gemmas calcare velimus. Et Ep. 114. Deinde in ipsas domos impenditur cura, ut in laxitatem ruris excurrant, ut parietes advectis trans maria marmoribus fulgeant, ut tecta varientur auro, ut lacunaribus pavimentorum respondeat nitor.
  25. Senec. II. cc. inpr. vero Ep. 89.
  26. Ep. 89.
  27. Ep. 86. et 122.
  28. È notabile la descrizione della Villa della Famiglia Gordiana posta sulla strada di Preneste. Capitol. in Gord. c. 32.
  29. Tac. III. 53. 54. Quid enim, scrisse Tiberio al Senato, primum probibere, et priscum ad morem recidere adgrediar? Villarumque infinita spatia, familiarum numerum, et nationes! - Quantulum istud est, do quo aediles admonent; quam, si caetera respicias, in levi habendum! At Hercule nemo refert, quod Italia externae opis indiget, quod vita populi Romani per incerta maris, et tempestatum quotidie volvitur. Ac nisi provinciarum copiae, et dominis, et servitiis, et agris subvenerint; nostra nos scilicet nemora nostraeque villae tuebuntur. La grandezza delle case Romane della Metropoli, e molto più la sollecitudine, con cui venivano esse fabbricate, erano tante volte cagione della lor rovina. Tutti i Moralisti, e i Poeti satirici di quei tempi annoverano bene spesso la caduta delle case fra i pericoli della Città, e della vita dei Cittadini. Seneca descrive quindi i Ricchi di Roma come ondeggianti in una continua agitazione pel timore che rovinassero i lor Palazzi. Ep. 90. At vos ad omnem tectorum pavetis sonum, et inter picturas vestras si quid increpuit, fugitis attoniti.
  30. Tacit. Annal. II. 33. Plin. Hist. N. 33. 11.
  31. Plin. 34. 2. Mirumque cum ad infìnitum operum pretia creverint, auctoritas artis exstincta est: Tiberio lagnavasi in simil guisa; Corinthiorum vasorum pretia in immensum exarsisse. Suet. c. 34. in Tib.
  32. Lib. 33. c. 12.
  33. 37. 2. Plin.
  34. 37. 2.
  35. 37. 2.
  36. 35. 12.
  37. Plin. 33. II.
  38. Ib. et Dio. Cass. 62. 28.
  39. Plin. 37. 2.
  40. I. 17. Senec Quaest. Nat.
  41. Senec. VII. 9. de Benef. Dio. Cass. Lib. VI. 10. p. 990.
  42. VII. do Benef. 9. Senec. et de Tranq. c. 9. Apud desidiosissimos ergo videbis quicquid orationum hìstoriarumque est, et tecto tenus exstructa loculamenta. Jam enim inter balnearia, et thermas bibliotheca quoque ut necessarium domus ornamentum expolitur. Quid habes cur ignoscas homini armaria cedro atque ebore aptanti etc.
  43. Ib. VI. 20.
  44. Tacit. Annal. 53. 54. XIV. 43, 44.
  45. Ep. 95. Senec. VII. de Benef. 10. Quivi egli dice parimenti: „ O miserum si quem delectat — et to familia bellicosis nationibus major„.
  46. Vedasi il sopracitato esempio d’Isidoro 33, 10. Plin.
  47. Quattrocento n’aveva Pedanio Prefetto della Città, il quale venne ucciso da uno de’ suoj Schiavi. Questo numero doveva essere uno dei maggiori; imperocchè C. Cassio disse in Senato „ Chi sarà più protetto dal numero de’ proprj schiavi se neppure 400. di costoro hanno salvato la vita a Pedanio? XIV. 43. Tac. Annal.
  48. Senec. de Tranq. Animi c. 8.
  49. Io ho già notati molti passi, che comprovano questa asserzione. Veggansi fra gli altri Senec. Ep. 86. de Tranq. c. 8. Tacit. XIV. 39. Avendo Nerone spedito il suo Liberto Policleto nella Brettagna ad oggetto di comporre certi dissidj, che esistevano fra il Legato, ed il Procuratore d. quella Provincia, e per sedare ancora le turbolenze di quegli Abitanti, egli si rese, oltremodo incomodo agli Italiani, ed ai Galli a motivo del suo seguito, e molto formidabile alle Romane Schiere mediante la grande autorità, di cui trovavasi rivestito; ma i Barbari lo derisero, come dice Tacito, per esser essi altrettanto ardenti di libertà, quanto inesperti, e ignoranti rispetto al poter dei Liberti.„ Sed hostibus irrisui fuit, apud quos flagrante etiam tum libertate nondum cognita libertorum potentia erat„.
  50. Ai tempi degli Imperatori erano pochi quei schiavi, che tratti avevano i lor natali nelle case, e nei poderi dei Grandi, venendo essi quasi tutti raccolti da lontane, e diversissime Nazioni. „ Suspecta, disse C. Cassio presso Tacito, XIV. 44. majoribus nostris fuere ingenia servorum, etiam cum in agris aut domibus iisdem nascerentur, caritatemque dominorum statim acciperent. Postquam vero nationes in familiis habemus, quibus diversi ritus, externa sacra aut nulla sunt, colloviem istam non nisi metu coercueris.
  51. Svet. c. 37. Dione Cassio L. 59. 1, 2. p. 903. fa ammontare a dieci millioni almeno il tesoro di Tiberio, ma soggiunge che altri l’avevano stimato sopra 82 ½ millioni. Caligola, e Nerone furono i soli Imperatori dei quali potè dir Plinio, che essi coi loro palazzi, avevano totalmente cinta o racchiusa Roma. L. 36. 15. „ Bis vidimus urbem totam cingi „ domibus principum Caii, et Neronis, et hujus quidem, ne nihil deesset, aurea„. Fra le grandi imprese, che Cajo lasciò imperfette, vi furono eziandio certi nuovi Acquedotti per Roma. Essi vennero però terminati da Claudio, che impiegò in questa sola Opera circa otto millioni e mezzo. Plinio facendo menzione dei medesimi assicura che nulla erasi immaginato di più maraviglioso su tutta la Terra. Ma non meno grande, o per meglio dire maggiore di tal lavoro, fu il Porto che Claudio fabbricò presso Ostia, e quindi il tentativo da lui fatto di seccare le Paludi Pontine. Ib. Plin. e Svet. c. 20. In quest’impresa vennero occupate per undici anni trentamila persone, conforme giustamente dice Plinio „ inenarrabili profecto. impendio„.
  52. Svet. c. 30. 31. in Nerone.
  53. Hist. Lib. I. 20. „ Bis, et vicies millies sestertium donationibus Nero effuderat„. Dopo la morte di Nerone, Galba procurò di soccorrere l’esausto Tesoro col ripetere dai donatari il decimo delle somme che Nerone aveva loro profuse; Ma si trovò, che a quelli i quali dal detto Imperatore eran stati arrichiti, appena rimaneva la decima parte di ciò che essi avevano ricevuto, e questi avanzi della Neroniana prodigalità non consistevano già in beni campestri, o capitali mà in istrumenti della loro voluttà e ghiottornia. „ At illis vix decumae super portiones erant: iisdem erga aliena sumptibus, quibus sua prodegerant, cum rapacissimo cuique ac perditissimo non agri aut foenus, sed sola instrumenta vitiorum manerent„. Questa è una nuova conferma della già fatta osservazione, cioè che il facile, ed ingiusto mezzo col quale i Romani giungevano ad arricchirsi era una delle principali cause della loro forsennata profusione.
  54. Svet. 1. c. et Tac. XV. 42.
  55. Dion. Cass. 65. c. 4. pag. 1062.
  56. Svet. in Domit. c. 5. e Plutarch. in Poplicol. Vit. I. 413. Ed. Reiskii.
  57. Plutarco porta le spese dell’indoratura del Campidoglio a 12000 talenti, cioè dodici millioni. Questa somma sembra del tutto incredibile qualora non si ammetta che il Campidoglio fosse stato coperto di piastre d’oro, o internamente costrutto d’oro; magnificenza, che di frequente si trovò nei Templi, e nei Palazzi degli Dei, e dei Re dell’Oriente.
  58. Ibid.
  59. Lampr. in G. vita c. 29. et seq.
  60. Ibid.
  61. VII. 174. et seq. v.
  62. De oratoribus dialog. c. 29.
  63. 1. 2. Instit.
  64. L’Autore del discorso sul Decadimento dell’Eloquenza dal 33. cap. sino al fine descrive anche più egregiamente di Plinio la gran differenza di educare la Gioventù Romana nei migliori tempi della Repubblica, e sotto i governi degli Imperatori.
  65. „ Tac. XIV. 20. Degeneretque studiis externis juventus, gymnasia, et otia, et turpes amores exercendo, Principe, et Senatu auctoribus: qui non modo licentiam vitiis permiserint, sed vim adhibeant. Senec. Ep. 99. Adspice illos juvenes, quos ex nobìlissimis domibus in arenam luxuria projecit: adspice illos, qui suam alienamque libidinem exercent, mutuo impudici; quorum nullus sine ebrietate, nullus sine aliquo insigni flagitio dies exit: plus timeri, quam sperari potuisse manifestum erit„. Siccome i Padri si resero gli autori della corruttela dei loro Figli, così furon le Madri quelle, che corruppero le proprie Figlie. Juv. 17. 238. et seq.„ Scilicet exspectas, ut tradat mater honestos, atque alios mores, quam quos habet„? Gli stessi pubblici spettacoli erano una scuola di corruttela per tutte le classi, e tutti i ceti di persone. Juv. 17. 63. et seq.

    Cheironomon Ledam molli saltante Bathyllo
         Tuccia vesicae non imperat: Apula gannit
         Sicut in amplexu: subitum, et miserabile longum
         Attendit Thymele: Thymele tunc rustica discit.

  66. Vedansi Luciano I. 59. 60. Ed. Reitzii. Martial. III. Ep. 7 36. 45. 94. e soprattutto Giovenale nella sua quinta Satira. Con maggior brevità fa vedere il 36. Epigramma di Marziale gli incomodi della vita del Cliente, e l’avarizia dei Patroni.

    » Quod novus, et nuper factus tibi praestat amicus:
         Hoc praestare jubes me, Fabiane, tibi.
    Horridus ut primo semper te mane salutem,
         Per mediumque trahat me tua sella lutum:
    Lassus ut in Thermas decima, vel serius hora
         Te sequar Agrippae, cum laver ipse Titi.
    Hoc per triginta merui, Fabiane, Decembres.
         Ut sim tiro tuae semper amicitiae?
    Hoc merui, Fabiane, toga tritaque meaque,
         Ut nondum credas me meruisse rudem?

    Questo povero Cavalier Romano spedì in sua vece all’avaro di lui Patrono il proprio Liberto, giacchè questi poteva meglio di lui adempire a tutti i doveri dei Clienti. III. 46. In altri luoghi egli loda i generosi Reges, et Dominos (così i Clienti chiamavano i proprj Patroni,) i quali gli avevano regalato un abito nuovo.

  67. Svet. in Nerone c. 16.
  68. III. 7.
  69. Juven. Sat. V. Marziale finge quindi che un affamato Spagnuolo essendosi incamminato alla volta di Roma per godere delle cene, che si davano nelle case dei Grandi, ritornò indietro dal Ponte Milvio avendo ivi inteso come erano trattati i Romani Clienti III. 14.

    „ Romam petebat esuritor Tuccius,
              profectus ex Hispaniu.
         Occurrit illi sportularum fabula:
              a ponte rediit Mulvio.

  70. Mart. Epig. III. 93.

    „ Esse negas coctum leporem, poscisque flagella,
         Mavis, Rufe, coquum scindere, quam leporem.

  71. Juven. I. v. 99. et seq.
  72. Juven. ib. 117. et seq. v.

    » Sed cum summus honor finito computet anno,
         Sportula quid referat, quantum rationibus addat:
         Quid facient comites, quibus hinc toga, calceus hinc est,
         Et panis fumusquae domi; densissima centum
         Quadrantes lectica petit, sequiturque maritum
         Languida vel praegnans, et circumducitur uxor.
         Hic petit absenti, nota jam callidus arte:
         Ostendens vacuam, et clausam pro conjuge sellam.
         Galla mea est, inquit. Citius dimitte. Moraris?
         Profer Galla caput. Noli vexare, quiescit.

  73. » Senec de Benef. VI. 38. An tu Arruntium, et Atcriiim, et caeteros, qui captandorum testamentorum artem professi sunt, non putas eadem habere, quae designatores, et libitinarios, vota?
  74. Ciò fu praticato da Filomena in Crotone, come narra Petronio p. m. 274. verso la fine del libro.» Matrona inter primas honesta, Philumene nomine, quae multas saepe haereditates officio aetatis extorserat, tum anus et floris extincti filium, filiamque ingerebat orbis senibus, et per hanc suecessionem artem suam perseverabat extendere». Plinio racconta un altro sorprendente esempio della scelleratezza degli Eredipeti. VII. Epist. 24.» At Hercule! alienissimi homines in honorem Quadratillae (pudet me dixisse honorem per adulationis officium) in theatrum cursitabant, exultabant, plaudebant, mirabantur: ac deinde singulos gestus dominae cum canticis reddebant, qui nunc exignissima legata theatralis operae corollarium accipient ab haerede, qui non spectabat„, Senza dubbio i vili adulatori restavano spesse volte delusi dalla avvedutezza, e rettitudine degli adulati. Veggansi ancora VIII. 18. Ep. Plin. et Petron. 1. c.
  75. Plin. Ep. II. 20.
  76. Ibid.
  77. Plin. l. c.
  78. p. m. 208. 209.
  79. VII. 27. de Benef.
  80. Non merita di esser passato sotto silenzio un tratto notabile di viltà, il quale sembra che non sia stato raro al tempo di Giovenale. Secondo una legge di Domiziano le adultere non potevano ereditar alcuna cosa dai loro adulteri. Per eludere questa legge alcuni amanti istituirono eredi dei proprj beni i pazienti mariti delle loro amiche, affinchè questi venditori delle lor donne potessero passar alle medesime ciò, che era stato lor destinato. Giovenale descrive egregiamente quei mariti, che sapevano l’arte di dormir a tempo debito, o di osservar attentamente i soffitti delle stanze, ove mangiavasi I. 55. e seg.

    „ Cum leno accipiat moechi bona, si capiendi
         Jus nullum uxori, doctus spectare lacunar,
         Doctus, et ad calicem vigilanti stertere naso.

  81. Senec. Ep. 90. Juven. Sat. XIV. 145—52. È incredibile, dice Giovenale, quante persone si lagnino di simili offese, e quanti campi, e poderi siano per tali prepotenze divenuti a vil prezzo.

      „ Dicere vix possis, quam multi talia plorent,
         Et quot venales injuria fecerit agros .

  82. Tacit. Annal. IV. 72. XIV. 31. Plin. Ep. II. 11.
  83. Juven. VIII 95.

       „ Sed quid damnatio confert,
         Cum Pansa eripiat, quidquid tibi Nalta reliquit?
         Praeconem Chaerippe tuis circumspice pannis,
         Jamqne tace. Furor est post omnia perdere naulum.

  84. Vedansi Tac. l. c. e juven. VIII. 121. e seg.

       „ Curandum in primis, ne magna injuria fiat
         Fortibus, et miseris, tollas licet omne quod usquam est.
         Auri atque argenti: scutum gladiumque relinques,
         Et jaculum, et galeam, spoliatis arma supersunt.

    Con molta giustezza, dice Giovenale, alcuni versi prima:

       „ Horrida vitanda est Hispania, Gallicus Axis,
         Illiricumque latus etc.

  85. Senec. de Benef. VII. 10. „ Quid sunt istae tabulae, quid computationes, et vaenale tempus, et sanguinolentae centesimae?
      Ma benchè Seneca declamasse con molto vigore contra le usure, tuttavolta egli era, secondo il non incredibil racconto di Dione Cassio, uno dei maggiori Usuraj di Roma, e mediante quelle sue usure, colle quali impoverì la Brettagna, divenne una delle cause principali della sollevazione, che scoppiò in quell’Isola. Dione Cassio Lib. 62. cap. 2. pag. 1003. Il fruttato ordinario era di un 12 per cento, ma gli abitanti delle provincie prendevano comunemente anche di più.
  86. Dio. Cass. 59. 9. pag. 912.
  87. Tac. XI. 23—25. Annal.
  88. Paucis jam reliquis familiarum, quas Romulus majorum, et L. Brutus minorum gentium appellaverunt, exhaustis etiam, quas Dictator Caesar lege Cassia, et princeps Augustus lege Senia sublegere. Ibid.
  89. VI. 16, 17. Annal. Tac.
  90. Copiam vendendi secuta vilitate, quanto quis obaeratior, aegrius distrahebant: multique fortunis provoluebantur: eversio rei familiaris dignitatem, et famam praeceps dabat. Donec tulit opem Caesar, disposito per mensas millies sestertio, factaque mutuandi copia sine usuris per triennium, si debitor populo in duplum pracediis cavisset. Ibid.
  91. Dion. Cass. 59. 9. pag. 912. 60. 7. 945. et ibi Rein.
  92. c. 35. Suet. in Tiber.
  93. Dione l. c. pag. 912.
  94. Dion. Cass. L. 61. c. 17. pag. 997. c. 19. 909. p. Senec. Nat. Quaest. VII. 31. Suet. in Nerone c. 12. Tacit. XIV. 14. XV. 32. juven. Sat. VIII. 191. et seq. v. XI. 20. et seq.
  95. Fra le ballerine vi era ancora una delle più ricche, ed illustri Romane, la quale chiamavasi Aelia Catella, ed aveva già più di ottant’anni.

Note del traduttore

  1. [p. 299 modifica]L’Olimpiodoro citato dal Sig. Meiners fu l’Olimpiodoro Tebano, il quale era gentile di Religione, e scrisse una Storia dall’anno di Cristo 407. fino al 425. comprendendo in essa tutti quei fatti, che accaddero fra il Consolato di Onorio, e l’Imperator Valentiniano. Di quest’Istoria più non esiste ora se non l’estratto fattone da Fozio nella sua Biblioteca, e riportato nel primo Tomo della Storia Bizantina. Ediz. Veneta pag. 153.
  2. [p. 299 modifica]La libra Romana antica corrisponde ad oncie dieci, e grossi quattro del moderno peso Francese, ossia a grani 6048. del medesimo peso. Questa libra era lo stesso che l’asse Romano, il quale si divideva in oncie dodici. Beverini, de ponderibus et mensuris Rom.
  3. [p. 299 modifica]I Romani chiamavano particolarmente col nome di provincia d’Africa tutta la parte di quella Regione, la quale estendesi da Cirene fino all’Oceano presso il porto di Salè ultima città del Romano Impero. Gibbon.
  4. [p. 299 modifica]I contrassegni dei quali facevasi uso in [p. 300 modifica]Roma per somministrare a chi gli otteneva qualche distinzione, o regalo provennero dai Tarentini, e furono dai Greci chiamati tessere a motivo della lor forma quadra, o composta di quattro angoli. Tali contrassegni come narra il Pitisco, ed altri, erano di legno, di piombo, e di qualche altro metallo, e si dividevano in più specie vale a dire in Ospitali, convivali, frumentarj ec.
  5. [p. 300 modifica]Æliles, dice Varrone, fuerunt sic dicti a sacrarum, privatarumque rerum atque ædium procuratione; ed infatti il loro ministero consisteva soprattutto nell’aver cura delle case, e degli edifici pubblici, nel provvedere la città del necessario frumento, nel cercare che non si alterassero la qualità, il peso, ed il prezzo dei commestibili, e per ultimo nel invigilare sui pubblici spettacoli, de’ quali ne davano eziandio alcuni a proprie spese nel prender possesso di questa lor carica. Essi venivano scelti dal popolo nei comizj delle Tribù, ed al medesimo al terminar dell’anno dovevano render conto del loro operato in presenza del Pretore, o dei Tribuni della Plebe. Nieuport et Gravina.
  6. [p. 300 modifica]Valerio Massimo così chiamato perchè ei discendeva dalla famiglia dei Valerj, e da quella de’ Fabj, seguì Sesto Pompeo alla guerra, e militò qualchè tempo in Asia. Ritornato poscia a Roma negli ultimi anni [p. 301 modifica]di Tiberio scrisse, ed inviò a questo medesimo Imperatore una raccolta dei detti e dei fatti più memorabili dei Romani, e di altri grand’Uomini. Quella che abbiamo al presente non è forse che un compendio, o un estratto di quanto ci ha lasciato il mentovato Autore su tal proposito. Fabr. Bibliot. Lat.
  7. [p. 301 modifica]Dicevasi dai Romani jugero una porzione di terreno la quale potesse essere lavorata in un giorno da un pajo di bovi. Esso consisteva in 240. piedi di larghezza, e in 220. di lunghezza, corrispondendo a braccia quadre Toscane da terra 8227, e , che equivalgono all’incirca a 4. stiora, e 3. quarti. Forcellini Vocab.
  8. [p. 301 modifica]Alcuni Scrittori Latini tra i quali Plinio, e Floro vogliono che quello che rendeva prezioso, e celebre il metallo di Corinto fosse il contenere un mescuglio d’oro, d’argento, e di rame. Essi pretendono di più che non all’arte, ma al caso attribuir si debba la lega, e l’unione di questi tre metalli, sostenendo che presa, ed arsa da L. Mummio quella città, l’anno di Roma 608., dalla fusione eccitata dalle fiamme di molte statue, e simulacri d’oro, d’argento, e di bronzo, che ivi in gran copia esistevano, ne nascesse quella preziosa mistura, a cui diessi il nome di bronzo o metallo Corinzio. Rilevasi però da altri [p. 302 modifica]Scrittori Latini, e dallo stesso Plinio che questo famoso bronzo era conosciuto, e molto stimato in Roma anche un secolo prima della presa, e dell’incendio di Corinto, talche l’anedoto della mentovata combinazione dei suddetti tre metalli riesce alquanto sospetto, e sembra piuttosto che la medesima provenisse da un’arte particolare che in seguito si perdette. Quel che è certo si è che il metallo o bronzo di Corinto tenevasi in tal pregio che un volume di esso si pagava con un’altro simile d’oro come dice Stazio. ( Sylv. II. 2. 68.)

    Aeraque ab Isthmiacis auro potiora favillis.

    Vi erano persino alcuni fanatici, i quali pretendevano di conoscerlo all’odore. Uno di questi fu quel Mamurra giustamente burlato da Marziale. (IX. 60. 11.)

    Consulent nares an olerent aera Corinthum,
    Culpavit statuas, et Polyclete tuas.

    Si credeva per ultimo che il metallo Corinzio si appanasse più difficilmente del bronzo ordinario, che più tardi del medesimo prendesse la patina verdastra del verde rame, e con più facilità se ne spogliasse.

  9. [p. 302 modifica]I vasi Murrini presero, come si dice, la loro denominazione da Murra pietra, con cui credevansi fabbricati. I primi che si viddero, e comparvero in Roma furono una delle cose singolari, le quali decorarono il trionfo di Pompeo vincitore di Mitridate. Erano essi in tanto pregio tenuti [p. 303 modifica]che si pagavano ad un prezzo esorbitante fino i loro frammenti. Un vecchio già stato Console comprò uno di questi vasi per settanta talenti. Petronio fece acquisto di una coppa Murrina per 300000 sesterzj, e presso a morire la spezzò affinchè non servisse, al dire di Plinio, ad ornare la mensa di Nerone. Circa alla materia poi ond’erano formati siffatti vasi, varj sono i pareri degli Antiquarj, e degli Eruditi, mentre alcuni, e tra i quali Giulio Cesare Scaligero, e Girolamo Cardano hanno supposto che i medesimi non fossero di una pietra solida, ma bensì di una certa creta, o majolica inverniciata. Costoro andarono fino a dire che venivano dalle Indie, ed erano di finissima porcellana, opinione invero, che non regge a fronte della descrizione, che Plinio (lib. XXXVII. c. 2.) ci fa rapporto alla materia, della quale i suddetti vasi trovavansi composti. Il dotto Winkelman illustrando una corniola appartenente al museo Stosch, nella quale è effigiato un vaso murrino con anse, crede che questi vasi fossero di quella bella specie d’agata chiamata dai Lapidarj Sardonica, o Sardonico. Essa ha infatti quella varietà di macchie, e di colori, che vanno dal porporino al lateo, quel lucido, e quelle gradazioni di tinta, cui Plinio loda tanto nei vasi murrini.

    Oltre a ciò si deve rifiettere che se tali [p. 304 modifica]vasi fossero stati fabbricati di un’argilla, e creta ridotta a forma di pasta come le porcellane, Plinio, che ben conosceva i vasi di terra cotta, non avrebbe detto espressamente nel XXXV. Libro, quoniam eo pervenit luxuria ut etiam fictilia vasa pluris constent quam murrhina. Non è poi probabile che alcuni vasi di creta, o terra cotta comunque egregiamente lavorati, e per quanto eccellente ne fosse la man d’opera, potessero essere ascesi al valore esorbitante dei Murrini. Notizie particolari del chiarissimo Sig. Cavalier Baillou.

    Il celebre Sig. Hager, che non molti anni addietro ha scritto assai dottamente sopra i vasi Murrini è di sentimento che i medesimi fossero di una pietra dura, splendidissima, e preziosissima da Lui creduta l’iu-sce dei Chinesi, la quale è più consistente, e più bianca dell’agata. Egli pretende inoltre che l’iu-sce sia la stessa cosa del jasfe degli Ebrei, che si traduce comunemente jaspis, ed era una delle 12. pietre preziose, le quali adornavano la veste Puntificale di Aronne.

  10. [p. 304 modifica]Ateneo celebre Scrittor Greco nativo di Eucrate in Egitto fu uno dei più dotti uomini dei tempi di Marco Aurelio, e di Commodo. Abbiamo ancora di esso un’Opera in parte mutilata la quale ha per titolo, i Sofisti a tavola. Bibliot. Greca.
  11. [p. 304 modifica]Tra le Opere grandiose, che i due [p. 305 modifica]valenti artisti, Severo, e Celere pesuasero a Nerone d’intrapreadere, e che poi rimasero imperfette, merita specialmente di essere riferito quanto si legge nel seguente passo di Tacito. Namque, dice quest’Istorico, ab lacu averno navigabilem fossam usque ad Ostia Tiberina depressuros premiserant, squalenti littore, aut per montes adversos. Neque enim aliud humidum gignendis aquis occurrit, quam Pomptinæ paludes: cætera abrupta aut arentia ac si perrumpi possent intollerandus labor nec satis causæ. Nero tamen, ut erat incredibilium cupitor, effodere proxima Averno juga connixus est; manentque vestigia irrita spei. Annal XVI.
  12. [p. 305 modifica]Il famoso Plutarco nacque a Cheronea in Beozia, e fiorì sotto Trajano, e Adriano dai quali fu molto distinto, ed ottenne varj pubblici impieghi di somma importanza. Credesi, che la sua morte seguisse nell’anno 140. di Gesù Cristo al tempo di Antonino Pio. Oltre alle vite degli Uomini illustri abbiamo di lui ancora alcuni trattati di morale molto utili per la condotta della vita. Manuzio.
  13. [p. 305 modifica]Epicarmo celebre poeta, e filosofo pitagorico di Siracusa fioriva circa il 440. prima di Gesù Cristo, e morì in età di oltre a 90. anni. Egli scrisse al dire di Cicerone nelle sue Tusculane, sopra cose naturali, e sulla medicina, e fu, come racconta Orazio nel secondo libro delle sue Epistole, [p. 306 modifica]il primo Autore della Commedia. Si vuole che Plauto lo abbia molto bene imitato nelle sue produzioni, o favole teatrali. ibid.
  14. [p. 306 modifica]Il Re Mida figlio di Gordio bifolco dippoi eletto Re di Frigia viveva nel 2666. del mondo e passava per uno dei più ricchi Potentati di quei tempi. Egli era nondimeno così avaro, ed ingordo di sempre più accumular ricchezze, che secondo la favola chiese a Bacco suo zio di poter convertire in oro tutto ciò ch’ei toccava; lo che gli venne da esso accordato sebbene con gran ripugnanza. Gioì Mida sommamente per aver ottenuta siffatta grazia: ma poi vedendo che gli divenivano oro anche la carne, il pane, ed il vino, che prendeva per mettersi in bocca, si afflisse per modo che ricorse al mentovato suo zio, onde lo liberasse da tale calamità, dicendogli ch’egli era prossimo a morir di fame. Compatì il divinizzato Eroe l’angustia dell’avaro nipote, e gli promise ch’ei ne sarebbe rimasto libero, qualora fosse andato a bagnarsi nel fiume Patolo. Ubbidì Mida alle insinuazioni di Bacco, ed avendo ottenuto quanto desiderava, le arene di quel fiume divennero d’oro conforme sono fino al presente. Ovidio Metamorfosi.
  15. [p. 306 modifica]I Romani davano il nome di sportulæ a quelle provvisioni di viveri, che dai Patroni davansi ai proprj Clienti, per la ragione soprattutto che queste venivano loro spedite, o consegnate in certe sportole, o [p. 307 modifica]sporte. Il Pitisco, il Casaubono, ed altri Eruditi ci hanno rispetto a tali sportulæ riferite molte curiose notizie, le quali ritrovar si possono nei rispetivi loro Dizionarj d’antichità.
  16. [p. 307 modifica]La moneta, che dai Romani dicevasi quadrante, preso aveva questo nome a motivo che essa formava il quarte dell’asse, il cui valore ascenderebbe rispetto a noi ad una crazia incirca. Diz. di Forcellini.
  17. [p. 307 modifica]Pisone Liciniano figlio adottivo di Galba ebbe per Genitori M. Crasso, e Scribonia ambidue di stirpe nobile. Egli era un’eccellente Giovine sì di spirito che di cuore, e fu per ordine di Ottone trucidato nel tempio della Dea Vesta, ov’erasi rifugiato dopo l’uccisione di Galba. Tac. Hist. Lib. l. c. 1.
  18. [p. 307 modifica]Tito Petronio Arbitro nacque come alcuni pretendono a Marsiglia, ed ebbe molta parte alle buone grazie di Nerone di cui era ad un tempo Liberto, e confidente. Egli fu uno di quei dotti voluttuosi, che al dire di Tacito ( annal. XV.) donava tutto il giorno al sonno, e la notte ai piaceri, e allo studio, e che sapeva spender bene, e con gusto le sue ricchezze senza esser prodigo. Tutte le sue parole, e le sue azioni riuscivano comunemente tanto più amabili, e grate in quanto che denotavano una non so quale facilità, e naturalezza, e sembravano esser dette, e fatte come a caso, e con una certa specie di negligenza. Da ciò ne nacque che insorse contro di lui [p. 308 modifica]l’invidia di Tigellino, altro favorito di Nerone, il quale mal soffriva un rivale, che lo superasse nella scienza della voluttà, e dell’adulazione. Petronio essendo pertanto stato da costui accusato d’aver contribuito ad una congiura in pregiudizio del suddetto Imperatore venne arrestato, ed avendo risoluto di morire si fece di tanto in tanto aprire e poi chiuder le vene trattenendosi coi suoi amici di versi, e di poesie fino all’ultimo suo respiro. Egli descrisse le deboscie di Nerone sotto nomi finti, e dopo avere colle proprie mani sigillato il libro che le conteneva glie lo inviò. Noi abbiamo di Lui una Satira, ed alcune poesie, le quali abbondano di espressioni oscene, ma la latinità n’è così pura che Petronio è stato con ragione chiamato, auctor purissimæ impuritatis. Gli Eruditi gli attribuiscono pure un’altra operetta intitolata la cena di Trimalcione, che M. Petit nel 1663. trovò a Trau città della Dalmazia in un manoscritto del XV. secolo. Questo manoscritto. che ora conservasi nella Real Biblioteca di Parigi, contiene oltre alla suddetta cena, le Opere di Catullo, di Tibullo, e di Properzio, ed è conosciuto sotto il nome di fragmentum Tragurianum.
  19. [p. 308 modifica]I pubblici appaltatori, vale a dire coloro che prendevano in appalto dal Governo i dazj pubblici, erano tutti, o quasi tutti dell’ordine equestre, dopo che sotto gl’Imperatori questo insigne ordine militare si diede alla mollezza, ed al lusso. Nieuport.