Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte I

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Parte I – Letteratura degli Etruschi

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Tomo I - Prefazione alla prima edizione di Modena Tomo I - Parte II

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STORIA

DELLA

LETTERATURA ITALIANA


PARTE PRIMA

Letteratura degli Etruschi.



Oscurità ed incertezza della storia de’ primi abitatori d’Italia. I. La Storia generale della Letteratura Italiana, ch’io intraprendo a scrivere, dee necessariamente prender principio dagli antichi popoli che in Italia ebbero stanza ed impero. Ma chi furono essi? Donde e come vi vennero? Quali furono i lor costumi, le loro imprese? Eccoci in una questione involta ancora fra dense tenebre, cui dottissimi uomini hanno finora cercato invano di sciogliere e diradare. Aborigini, Ombri, Pelasgi, Tirreni, Liguri, ed altre genti di somiglianti nomi, dagli antichi autori si veggono nominati tra quelli che furon de’ primi ad abitare e a coltivare l’Italia; e molti tra’ moderni scrittori hanno l’ingegno e il saper loro rivolto a indagare l’origine e a descriver la storia di questi popoli. Ognuno di essi forma il suo proprio sistema: ognuno crede di averlo ridotto a quell’evidenza di certezza [p. 30 modifica]a cui un fatto storico si possa condurre; ma questa evidenza comunemente non vedesi che dagli autori medesimi di tai sistemi: gli altri confessano che siamo ancora al buio, e appena sperano di poterne uscire giammai. A me non appartiene l’entrare in sì aspro spinaio. Chi fosse vago di pur risaperne alcuna cosa, può consultare ciò che con somma erudizione ne han disputato il marchese Maffei ne suoi Ragionamenti sugl’Itali primitivi, monsignor Mario Guarnacci nelle sue Origini Italiche, il sig. Jacopo Durandi nel suo Saggio sulla Storia degli antichi popoli d’Italia, e il padre Stanislao Bardetti della Compagnia di Gesù nella sua opera De’ primi abitatori d’Italia.


I più celebri tra essi sono gli Etruschi. II. Gli Etruschi sono que’ soli tra le nazioni che prima della fondazione di Roma abitaron l’Italia, di cui qualche più certa notizia ci sia rimasta. Di essi veggiam farsi menzione in molti degli antichi scrittori; e le cose che essi qua e là ne dicono sparsamente, bastano a farci intendere quanto possente nazione essa fosse, e quanto grande imperio avesse ella in Italia. Il regno degli Etruschi, dice Livio (Dec. i, l. 1), innanzi a’ tempi dell’impero romano ampiamente si distese e in terra e in mare. Quanto potere essi avessero ne’ due mari inferiore e superiore, da cui l’Italia a guisa d’isola vien circondata, il dimostrano i loro nomi; che l’uno dagl’Italiani fu detto Tosco con nome alla lor nazione comune, l’altro Adriatico da Adria Colonia degli Etruschi. Quindi egli aggiunge che l’Italia tutta fino alle Alpi fu da essi abitata e signoreggiata, toltone solo il piccol tratto di terra [p. 31 modifica]che a’ Veneti apparteneva. Nè punto meno onorevole testimonianza rende loro Diodoro Siciliano. I Tirreni, dice egli (l. 5, c. 9), chiamando con questo nome gli Etruschi, benchè altri vogliano che due diversi popoli essi fossero, uniti poi e confusi in un solo, i Tirreni celebri per fortezza e a grande impero saliti, di molte e ricche città furono fondatori. Possenti ancora in armate navali, avendo lungamente signoreggiato il mare, dal lor nome medesimo chiamarono il mar d’Italia. Furono ancora numerosi e forti i loro fanti, ec.; le quali cose da più altri antichi autori vengono confermate.


Fatiche di molti dotti per illustrarne la storia e le antichità. III. Queste testimonianze degli antichi scrittori, ed alcuni monumenti etruschi che verso il fine del xv secolo furono felicemente disotterrati, cominciarono a risvegliare negl’Italiani un nobile desiderio d’internarsi più addentro nella cognizione della storia di questi sì illustri loro antenati; desiderio che in questi ultimi tempi singolarmente tanto vivo si fece ed ardente, che alcuni anni addietro di altro quasi non favellavasi in Italia tra gli eruditi, e singolarmente in Toscana, che di monumenti etruschi, di caratteri etruschi, di lingua etrusca, di sepolcri, di statue, di tazze etrusche. Ne abbiamo una chiara riprova nell’Etruria regale del Dempstero, nelle giunte e ne’ supplementi ad essa fatti dal senator Buonarroti e dal Passeri, nel Museo etrusco e nelle altre opere del proposto Gori, ne’ Saggi dell’Accademia di Cortona, e in tanti altri libri che ad illustrare le antichità etrusche furono pubblicati. Anzi anche le straniere nazioni da un somigliante [p. 32 modifica]entusiasmo per le glorie degli Etruschi parver comprese. Ginevra, Parigi, Lipsia, e per fino Londra e Oxford si vider piene di libri intorno alle etrusche antichità; come ce ne fanno fede le opere di Lodovico Bourguet, del conte di Caylus, di Gio. Giorgio Lottero, di Giovanni Svinton, le Memorie dell’Accademia delle Iscrizioni e delle belle lettere di Parigi, gli Atti di Lipsia, ed altre somiglianti opere periodiche, ed anche la Storia universale degli Eruditi Inglesi, i quali la gloria degli antichi Etruschi hanno assai più oltre portata (Hist. Univ. t. 14, p. 214, 308), che da alcun Italiano non sia mai stato fatto, come poscia vedremo. Della Letteratura adunque degli Etruschi ci convien qui favellare, e da essi dare cominciamento alla Storia della Italiana Letteratura.


In essa però molti punti non sono rischiarati. IV. E certo pare che dopo tanti libri che intorno agli Etruschi abbiam veduto uscire alla luce, le cose loro dovrebbon essere rischiarate così, che anche ciò che appartiene alla loro letteratura, fosse omai chiaro e palese. E nondimeno come in altre cose, così ancora in ciò che spetta alle scienze da essi coltivate, noi siamo ancora in gran parte all’scuro. Nè ciò per colpa degli eruditi scrittori, i quali niuno sforzo certamente han trascurato per illustrare il loro argomento. Ma tutti gli sforzi che ad illustrare le antichità si adoperano, cadono in gran parte a vôto, quando ci manca la scorta degli autori, o de’ monumenti antichi. A veder chiaro nelle cose degli Etruschi ci converrebbe o avere gli storici lor nazionali che le cose da essi operate avessero diligentemente descritte, [p. 33 modifica]o avere storici stranieri sì, ma ad essi vicini o di età o di luogo, o avere gli antichi lor monumenti, ma tali che e si potessero sciferare sicuramente, e le principali epoche delle loro vicende chiaramente ne stabilissero. Or degli storici etruschi non ci è rimasto pur uno. Gli storici latini, le cui opere non sono perite, troppo eran lontani da’ tempi a cui fioriron gli Etruschi; e unicamente intenti ad innalzare la gloria de’ lor Romani, nulla curavansi di quella degli antichi loro nimici, di cui perciò appena fecero motto. Gli storici greci non solo per la maggior parte di età, come i latini, ma di luogo ancora troppo eran discosti dagli Etruschi, perchè delle cose loro ci potessero, o volessero dare diligente contezza. I monumenti etruschi per ultimo, benchè in sì gran copia in questi ultimi tempi scoperti, son tali però, che per la difficoltà della lingua in essi usata, di cui, non ostante il lungo e penoso studio di dottissimi uomini, non si è ancora accertatamente compresa l’indole e la natura, e per l’incertezza dell’età loro, non ci danno que’ lumi che pur vorremmo trovare nelle loro storie.


È certo ch’essi coltivarono le scienze. V. Ciò non ostante anche in mezzo a sì folte tenebre abbiam tanto di luce, quanto ci basta ad assicurare che gli Etruschi coltivarono felicemente le scienze; anzi che i primi furono per avventura che in Europa le coltivassero1. [p. 34 modifica]A proceder con ordine, recherem prima gli argomenti da’ quali, conghietturando e ragionando, possiam ricavare che uomini colti e nelle scienze versati fosser gli Etruschi; poscia quelle [p. 35 modifica]pruove addurremo che ce ne fanno più certa fede, e delle scienze e degli studi loro partitamente ragioneremo. [p. 36 modifica]


Ma non è certo che le apprendessero dagli Egiziani. VI. E primieramente, se fosse certo che gli Etruschi traessero l’origin loro dagli Egiziani, come il senator Buonarroti ha conghietturato [p. 37 modifica](Suppl. ad Dempst. p. 103), sarebbe questo non dispregevole argomento a raccoglierne il lor valore nelle scienze. Non v’ha chi non [p. 38 modifica]sappia quanto in esse fosser versati gli Egiziani. O fosse, come alcuni hanno pensato, l’acutezza del loro ingegno e la positura stessa delle loro provincie; o fosse, come sembra più verisimile, il lungo commercio che ebbero cogli Ebrei, egli è certo che deesi lor questo vanto di essere stati o i primi, o almeno i secondi che allo studio delle più nobili arti si applicassero; e quindi, se dagli Egiziani discendean gli Etruschi, egli è verisimile che seco ne portassero in Italia l’amor delle scienze. Ma o dagli Egiziani, o da’ Fenicii, come a molti piace piuttosto, o da qualunque altro popolo essi venissero, par certo che cogli Egiziani avessero commercio ed amicizia. Troppo chiare sono le pruove che noi ne abbiamo. Strabone osserva (Geogr. l. 18) che le muraglie de’ tempii egiziani erano messe a vari lavori di scultura in maniera somigliante, egli dice, a quella che presso i più antichi Greci e presso gli Etruschi [p. 39 modifica]era in uso. Solevano gli Egiziani rappresentare ne’ lor monumenti de’ griffi, de’ lioni alati, ed altri somiglianti capricciosi mostri; e tali sculture noi veggiam pure ne’ monumenti etruschi. I monumenti etruschi de’ tempi più antichi hanno una grande somiglianza cogli egiziani, come ha osservato il celebre antiquario Winckelmann. (Hist. de l’Art. t. 1, p. 181, édit. d’Amsterd.). Le piramidi, sì famose presso gli Egiziani, usate erano ancor tra gli Etruschi, e ne abbiamo certissimo testimonio in ciò che Plinio ne dice (Hist. Nat. l. 36, c. 13) del sepolcro di Porsena uno degli antichi loro sovrani. Tutto ciò, conchiude l’erudito conte di Caylus (Recueil d’Antiquit. t. 1 p. 78), non ci permette di dubitare che commercio reciproco non fosse tra gli Egiziani e gli Etruschi, e che col commercio l’amore ancor delle scienze si tramandasse dagli uni agli altri. Quindi il soprallodato Winckelmann2, il qual per altro sostiene che gli Etruschi senza la scorta di alcun’altra nazione si applicarono alle arti liberali, confessa [p. 40 modifica]però che del commercio cogli Egiziani poterono dopo giovarsi assai (Monum. ined. c. 1).


Pruova del fiore in cui erano le scienze presso gli Etruschi, tratta dalla loro eccellenza nelle arti liberali. VII. Queste nondimeno, a parlare sinceramente, non sono che conghietture. Altri più certi argomenti possiam recarne. Le arti che diconsi liberali, sotto il qual nome sogliamo intendere comunemente la pittura, la scultura, l’architettura, hanno una sì stretta union colle scienze, che le une non possono fiorire senza le altre; e se queste vengano meno, forza è che quelle ancora cadano e periscano miseramente. A me non appartiene il fare a questo luogo il filosofo, e il cercarne nell’indole e nella natura delle une e delle altre l’occulta ragione. Io parlo da storico, e mi basta il riflettere che il secol d’oro per Atene e per Roma fu tale per rapporto alle lettere ugualmente che per rapporto alle arti; che i secoli barbari furono alle une e alle altre ugualmente fatali, che il xv e il xvi secolo furono dell’une e dell’altre al tempo medesimo ristoratori; e che Luigi XIV le une e le altre ravvivò al tempo medesimo nella sua Francia. Oltre di che, egli è troppo palese che nè pittore, nè scultore, nè architetto d’alcun nome non può essere che non sappia bene la proporzione delle parti, la natura de’ colori, le leggi della prospettiva, ed altre sì fatte cose che solamente collo studio delle scienze s’imparano. Se dunque si mostri che delle arti liberali furon gli Etruschi illustri coltivatori, mostrerassi insieme che coltivate furono da essi con ugual successo le scienze; e se si mostri che queste arti coltivate furon da essi prima che da qualunque altro popolo d’Europa, [p. 41 modifica]mostrerassi insieme che i primi ancora essi furono che in Europa coltivasser le scienze.


Quanto anticamente cominciassero a conoscerla. VIII. Or che gli Etruschi fossero nelle arti liberali eccellenti ed illustri, ne abbiamo una chiara testimonianza in Ateneo. Varie sono, ne dice egli (Deipnos. l. 15), le opere de’ Tirreni, poichè nel travaglio delle arti sono essi esperti ed ingegnosi. Il che pure da Eraclide Pontico si afferma. Questi, egli dice (Polit. de Tyrrhen.), favellando de’ Tirreni, in molte arti si esercitano. Anzi, che nell’esercizio delle arti medesime fossero essi anteriori a’ Greci, egli è sentimento di più moderni scrittori3. Io non recherò gl’italiani che potrebbon cadere in sospetto di soverchia parzialità, ma due valenti oltramontani, cioè i soprallodati conte di Caylus e Winckelmann. On les voit, dice il primo parlando delle arti (Recueil d’Antiq. t. 1, préf. p. 9), formés en Egypte avec tout le caractère de la grandeur; de là passer en Etrurie où ils acquirent des partiers de détail, mais aux [p. 42 modifica]dépens de cette même grandeur, être ensuite transporté en Grèce. L’altro afferma parimente che dopo le opere egiziane le più antiche sono le etrusche (Monum. ant. ined. c. 3). Ma è da vedere di ciascuna arte in particolare.


Quando cominciasse la pittura fra’ Greci. IX. E primieramente, per ciò che appartiene alla pittura, non è sì agevole a determinare in qual tempo avesse ella in Grecia cominciamento. L’abate Fraguier in una dissertazione, di cui abbiamo il compendio nella Storia dell’Accademia delle Iscrizioni (t. 1, p. 75), vorrebbe persuaderci che anteriore ella sia a’ tempi d’Omero. Noi non veggiamo, egli dice, che Omero di pittura alcuna faccia menzione; ma pur veggiamo che le sculture dello scudo di Achille ci descrive per tal maniera, che sembra impossibile ch’egli non avesse idea di ciò che fosse pittura. Veggiamo ancora che di vari ricami egli parla, che messi erano a vari colori. Or come mai potevasi ciò immaginare senza aver già qualche cognizione o qualche idea della pittura? Ma qualunque si sieno tai conghietture, egli è certo che Omero di pittura alcuna non ci fa motto; e sembra impossibile che in due poemi, in cui tante e sì varie cose ei ne descrive, di questa sola non ci avesse lasciato memoria, se a’ suoi tempi ella fosse stata già in uso. Che più? Gli stessi scrittori greci riconoscevano che tardi avea tra essi avuto principio la pittura, cioè non prima dell’olimpiade xc che cade nell’anno di Roma 333. Anzi Plinio di negligenza li taccia (Hist. Nat. l. 35, c. 8) e di trascuratezza nella ricerca di questo punto di loro storia; perciocchè, egli dice, prima assai [p. 43 modifica]dell’olimpiade xc furono tra essi pittori cui egli annovera; e certo è presso tutti, soggiugne Plinio, che un quadro di Bularco greco pittore fu circa il tempo di Romolo comperato ad oro, cioè verso la xviii olimpiade. Questa è la più antica epoca che della pittura de’ Greci si possa trovare; e, ciò che è più strano, egli è convenuto che un Italiano, cioè Plinio, l’additasse a’ Greci, ricercatori per altro solleciti delle lor lodi.


Prima di loro la conobber gli Etruschi. X. Ma Plinio stesso, benchè abbia l’onor de’ Greci innalzato più ch’essi non isperavano, si fa nondimeno a mostrare che maggior lode ancora si debbe in questo all’Italia, e che tra noi perfetta era già arte del pingere quando fra’ Greci cominciava appena a nascere e dirozzarsi. Parla egli (ib. c. 3) di un tal Cleofanto da Corinto, di cui dice che fu il primo a usar di qualche colore nella pittura. Quindi soggiunge: Hunc aut eodem tempore alium fuisse, quem tradit Cornelius Nepos secutum in Italia Demaratum Tarquinii Prisci Romani Regis patrem... mox docebimus. Jam enim absoluta erat pictura etiam in Italia. Extant certe hodieque antiquiores urbe picturae Ardeae in aedibus sacris, quibus quidem nullas aeque demiror tam longo aevo durantes in orbitate tecti veluti recentes. Similiter Lanuvii, ubi Atalanta et Helena cominus pictae sunt nudae ab eodem artifice, utraque excellentissima forma, sed altera ut virgo, ne ruinis quidem templi concussae.... Durant et Caere antiquiores et ipsae. Tutto questo passo ho qui voluto recare perchè chiaramente s’intenda il senso di quelle [p. 44 modifica]non troppo chiare parole: Jam enim absoluta erat pictura etiam in Italia; parole le quali, a mio parere, non altro ci vogliono significare, se non che quando appena cominciava la pittura a conoscersi in Grecia, usata ella già era e perfetta in Italia. In questo senso e non altrimenti intese egli pure queste parole Davide Durand, che questo libro di Plinio tradotto in francese ed illustrato con note stampò in Londra l’anno 1725, della qual traduzione con somma lode si parla nella Biblioteca inglese (t. 13, p. 225). Or ecco in qual maniera traduce egli un tal passo. Mais ce que nous venons de dire des origines de la peinture ne regarde que la Grèce; car pour ce qui est de l’Italie il faut convenir que la peinture y avoit déjà acquis toute sa force et toute sa beauté avant Demaratus, puisqu’encore aujourd’hui il en reste des excellents morceaux plus anciens que Rome dans les débris du temple d’Ardée. Oltre di che, avendo Plinio trovato il più antico monumento di pittura greca intorno all’olimpiade xviii, e affermando che in Ardea, in Lanuvio e in Cere pitture vi erano più antiche di Roma, che fu fondata, secondo la cronologia del Petavio, nell’olimpiade vi; egli è evidente che Plinio afferma e prova che in Italia assai prima che in Grecia ebbe la pittura cominciamento.


E prima di tutti gli altri popoli d’Europa. XI. Ed ecco, per quanto da’ monumenti antichi si può raccogliere, assicurato questo non dispregevole onore all’Italia di avere essa prima de’ Greci usato della pittura. Dico prima de’ Greci: perciocchè io non voglio qui entrare in [p. 45 modifica]quistione se altre nazioni fuori d’Europa, come i Caldei, i Fenicii, gli Egiziani, ne usassero più anticamente. A me basta il mostrare che niuno usonne in Europa prima degl’Italiani, cioè prima degli Etruschi, a’ quali certamente attribuire si debbono queste pitture più antiche di Roma, di cui Plinio favella. Caere era una delle città degli Etruschi, detta ora Cervetere. Lanuvio e Ardea appartenevano propriamente la prima a’ Latini, a’ Rutuli la seconda; ma come di niuno di questi popoli noi sappiamo che coltivator fosse delle arti liberali, il che è indubitabile degli Etruschi, ella è cosa troppo verisimile che questi dalle altre città confinanti fosser chiamati, allor quando di alcun lavoro di tal natura facea loro bisogno4. [p. 46 modifica]


Riflessioni sull’iscrizione delle pitture del tempio di Ardea riferita da Plinio. XII. Egli è però vero che Plinio stesso, alla cui autorità solamente possiamo in questo appoggiarci, altrove aggiugne tal cosa che ci pone in non leggiero imbarazzo, e noi gli saremmo pure tenuti di assai se di queste antichissime pitture non ci avesse più fatto motto. Ma egli di quella di Ardea torna a parlare non molto dopo, e dice (c. 10): Decet non sileri et Ardeatis templi pictorem, præsertim civitate donatum ibi et carmine, quod est in ipsa pictura his versibus:

Dignis dicta loca picturis condecoravit
Reginae Junonis supremi Conjugis templum
Marcus Ludius Helotas Aetolia oriundus,
Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat:
Eaque scripta sunt antiquis literis latinis.

Così leggonsi questi versi nell’edizione del P. Harduino, benchè qualche diversità si vegga nelle [p. 47 modifica]altre edizioni, non però tale che sia di gran rilievo. Or se tai versi eran veramente nel tempio di Ardea a’ tempi di Plinio, io mi maraviglio ch’egli, uomo critico e dotto più che qualunque altro de’ tempi suoi, li potesse credere (se pur egli così credette) fatti a’ tempi sì antichi; e mi maraviglio ancora che niuno (ch’io sappia) degli editori e de’ commentatori di Plinio abbia a ciò posto mente. Supponiamo ancora che prima della fondazione di Roma usata fosse la lingua latina; non v’ha chi non sappia quanto diversa ella fosse da quella che veggiamo usata da’ posteriori scrittori. Basta vedere i frammenti che ne sono stati raccolti, e quegli ancora del quarto e del quinto secolo di Roma, per conoscere che i versi da Plinio riferiti non possono in alcun modo appartenere ad età sì remota. Che dirne dunque? Io proporrò varie conghietture; e tra esse gli eruditi sceglieranno ciò che più loro piaccia. Plinio dice che i versi erano scritti in antichi caratteri latini. Non giova qui il cercare quali essi fossero; ma forse erano tali che a’ tempi di Plinio più non s’intendevano. Quindi se ne cercava il senso indovinando, come or si fa de’ caratteri etruschi, e il sentimento indovinando raccoltone si poneva colle parole allora usate. Forse que’ versi erano stati aggiunti alcuni secoli dopo le mentovate pitture, e il sentimento ne era fondato su qualche popolar tradizione o vera, o falsa. Forse Plinio a questo luogo non parla di quelle stesse antichissime dipinture di cui avea di sopra parlato, ma di altre al tempio di Ardea aggiunte nelle età posteriori. [p. 48 modifica]Comunque sia, ancorchè questi versi sieno apocrifi e supposti, ciò nulla dee pregiudicare alla antichità di cotali pitture. Essi non sono il fondamento a cui Plinio la appoggia. Una somigliante antichità egli attribuisce alle pitture di Lanuvio e di Cere, delle quali non dice che avessero aggiunti versi. Dal che raccogliesi chiaramente che l’opinione di sì grande antichità non era già fondata su tali versi, ma sulla qualità e natura delle pitture medesime, sulla costante universal tradizione, e su altri argomenti, i quali benchè da Plinio non si producano, tali però esser dovevano a formarne una morale certezza, poichè veggiamo che Plinio ne parla come di cosa indubitabile e certa5.


Eccellenza delle pitture etrusche. XIII. Se alcuna delle etrusche pitture ci fosse rimasta, noi potremmo cogli occhi nostri medesimi giudicare della loro bellezza. Ma se anche delle greche e delle romane abbiam fatta tal perdita, che assai piccola idea ne avremmo se la scoperta delle rovine di Ercolano non ce ne avesse poste moltissime sotto degli occhi, qual maraviglia è che delle etrusche tanto più antiche non ci rimanga vestigio6? Quale però [p. 49 modifica]ne fosse il valore e il pregio, si può bastantemente raccogliere dall’allegato passo di Plinio, che di eccellentissima forma le dice; e ne aggiugne in pruova l’infame uso che voleva farne Ponzio Legato, egli dice, del principe Caio, cioè, come pare che debba intendersi, di Caio Caligola, ovvero, come legge il P. Arduino, lo stesso principe Caio, se esse non fossero state dipinte sul muro. E certo il sol conservarsi intatte e vive per tanti secoli, quanti ne erano corsi dal tempo, qualunque fosse, anteriore a Roma fino all’età di Plinio, che vivea nel nono secolo dopo la fondazione di essa, è una chiarissima prova della loro eccellenza7. [p. 50 modifica]


Scultura esercitata dagli Etruschi. XIV. Nè lode punto minore si acquistaron gli Etruschi nella scultura e nell’arte di fare statue e lavori di qualunque materia. Alcuni [p. 51 modifica]scrittori attribuiscono loro la gloria di tale invenzione. Ajunt Thuscanos plasticen excogitasse, dice Clemente Alessandrino (Stromat. l. 1); [p. 52 modifica]e Cassiodoro parlando delle statue di metallo fuso, Has, dice (l. 7 Variar. Formul. 15), primum Thusci in Italia invenisse referuntur. Ma [p. 53 modifica]convien parlare sinceramente. Troppo antichi sono gli esempi che e di statue e di sculture d’ogni maniera abbiamo non solo tra gli Ebrei e tra gli Egiziani e tra altri più antichi popoli, ma tra’ Greci ancora, per potere un tal vanto attribuire agli Etruschi. Basta leggere Omero ad esserne pienamente convinto. Se però gli Etruschi non possono a ragione chiamarsi i primi inventori della scultura e dell’arte statuaria, non puossi loro a ragione negar la lode di essere in quest’arte ancora saliti a sommo onore. Egli è vero che Quintiliano duri chiama i lavori degli Etruschi (l. 12, c. 10), e il valente antiquario Winckelmann così ne dice (Hist. de l’Art. t. 1, c. 3, sect. 1): L’art n’a jamais atteint chez les Etrusques ce dégré de perfection où il fut porté par les Grècs; et dans les ouvrages même de leur meilleur temps, il regne un goût outré qui les dépare. Tale è pure il sentimento dell’autore del trattato De l’usage des Statues: Le stile etrusque, dic’egli (part. 3, c. 2), doit être consideré sous différents périodes, mais, sous quelque période qu’on le considere, on y trouve toujours quelque chose de la rudesse de son origine. Altri nondimeno ne pensano altrimenti. E certo le due statue dell’Aruspice etrusco e della Chimera, delle quali oltre altri parla lungamente il chiarissimo [p. 54 modifica]proposto Gori (Mus. Fiorent. Stat. p. 81. Mus. Etrusc. t. 2, p. 289), statue che certamente sono di artefici etruschi antichissimi, come dalle iscrizioni sopra esse incise raccogliesi chiaramente, e statue che in bellezza, in simmetria, in grazia alle più pregiate di tutta l’antichità possono a giusta ragione paragonarsi, ci fan conoscere qual fosse in questa parte ancora il valor degli Etruschi. Plinio ancor ci rammenta una gigantesca statua maravigliosa d’Apolline, opera etrusca che fino al suo tempo vedevasi in Roma. Videmus certe Thuscanicum Apollinem in bibliotheca templi Augusti, quinquaginta pedum a pollice, dubium aere mirabiliorem an pulchritudine (l. 34, c. 7). Un altro testimonio ne abbiamo nella gran quantità di monumenti etruschi, che sappiamo essere stati un tempo per l’Italia e per l’Europa tutti dispersi; che non sarebbon già essi stati con sì gran desiderio ricercati, se bello e pregevole non ne fosse stato il lavoro. Due mila statue furono da’ Romani tolte e trasportate a Roma nella espugnazione della città de’ Volsinii, oggi Bolsena, come ne assicura Plinio (ib.), il quale nel luogo stesso afferma che sparse erano pel mondo tutto le loro statue. Signa quoque thuscanica per terras dispersa; quae in Etruria factitata non est dubium.


Loro vasi, urne, lampadi, ec.XV. Aggiungansi i loro vasi, le sepolcrali loro urne, le lampadi, e tanti lavori singolarmente di creta, in cui gli Etruschi erano più che altri famosi ed illustri. Quindi Plinio col testimonio di Varrone afferma (l. 35, c. 12) che con più fino lavoro fu quest’arte esercitata [p. 55 modifica]in Italia, e nella Etruria specialmente: Praeterea elaboratam hanc artem (ait Varro) Italiae, et maxime Etruriae. Non vi ha museo alcuno di antichità che una gran copia non abbia di tai lavori etruschi. Il museo etrusco, il fiorentino ed il cortonese, l’Etruria regale del Dempstero, la raccolta del conte Caylus, ed altre somiglianti ce ne somministrano quantità prodigiosa, la quale ancora ci dà motivo di conghietturare quanto maggior sia quella che ne è perita. Aggiungansi per ultimo le pietre che da essi incise o scolpite ancor ci rimangono, e che il valore degli Etruschi anche in questa parte ci scuoprono chiaramente. Ne parla con somma lode il valoroso antiquario e insieme pulitissimo stampatore Mariette nella sua descrizione delle pietre incise del gabinetto del re di Francia (t. 1, p. 8), ove dopo aver riferito il sentimento del proposto Gori, il qual congettura che molte di tali pietre siano ancor più antiche dell’assedio di Troia, così soggiugne: C’est assurément donner beaucoup aux conjectures, et peut-être plus qu’il ne convient; mais il n’en est pas moins vrai que les ouvrages de sculpture des Etrusques (et il n’en faut point séparer leurs pierres gravées) portent avec eux, comme Pline même le reconnoit, le caractère dune très-haute antiquité. A’ tempi di Orazio ancora convien dire che celebri fossero i cammei toscani, poichè egli ne fa menzione; Thyrrena sigilla (Epist. 2, l. 2). Tutti questi lavori son tali, che a giusta ragione l’ammirazione riscuotono degl’intendenti d’antichità. Les Etrusques, dice il più volte citato conte [p. 56 modifica]di Caylus, della cui testimonianza più volentieri io valgomi che non di quella degl’Italiani, che sospetta potrebbe forse sembrare, e dall’amor della patria regolata e condotta, connoissoient toutes les parties de la sculpture et même de la gravure des pierres.... Quelle pureté ne remarque-t-on pas dans leurs formes; quelle sagesse dans quelques-uns de leurs ornemens courans; quelle légéreté dans le travail de la terre; quelle justesse dans la position de leurs anses! Dalle quali osservazioni anche a vantaggio della pittura degli Etruschi così conchiude il medesimo autore: Quoique il ne nous reste point des monumens de leur peinture, il est certain que cet art. leur fut connû... — et puisqu’il y avoit parmi eux d’habiles graveurs et des célèbres sculpteurs, on doit croire qu’ils excelloient aussi dans la peinture.


Loro architettura. XVI. Rimane per ultimo a parlare dell’architettura. Ancorchè nulla sapessimo del valor degli Etruschi in quest’arte, basterebbe riflettere a ciò che narra Livio (Dec. 1, l. 1), che volendo Tarquinio il magnifico tempio del Campidoglio innalzare in onore di Giove, non altronde chiamonne gli artefici che dall’Etruria: Fabris undique ex Etruria accitis. Ma altre più certe prove ne abbiamo. L’uso degli atrii, che al primo ingresso delle signorili case maestosamente ci si aprono innanzi, deesi agli Etruschi che ne furono i primi inventori. Lo accenna brevemente Varrone: Atrium appellatum est ab Atriatibus Tusceis (De lingua lat. l. 4), cioè dagli Etruschi abitatori d’Adria: la quale etimologia da Festo Pompeo (Ad verb. Atrium). [p. 57 modifica]e ancora da Servio (Ad l. 1. Aen. v. 730) si accenna. Ma più chiaramente di tutti Diodoro Siculo: Domorum quoque porticus ad avertendum turbae servorum et clientum strepitus et molestias percommodas invenerunt (Hist. l. 5, c. 9).


Ordine toscano da essi introdotto, forse il più antico di tutti. XVII. L’uso de’ portici dagli Etruschi introdotto fu quello per avventura che diede l’ordine di architettura da essi trovato, e che dal loro nome fu detto toscano. Che essi ne fossero gl’inventori, il nome stesso cel mostra. Sarò io troppo ardito, se oserò affermare che sia questo tra tutti i cinque ordini il più antico? Ma riflettiamo di grazia. L’ordin toscano è certamente il più semplice, nel che i migliori architetti convengono comunemente. Gli autori degli ordini dorico, corintio, ionico e composto hanno aggiunti ornamenti e vezzi che nel toscano non sono. Or egli è certo che le cose più semplici sono le più antiche, e gli ornamenti fan certa fede di più recente lavoro. Pare dunque che con qualche probabilità si possa affermare che l’ordin toscano è il più antico tra tutti: il che quando si conceda, sarà certo non piccola gloria dell’Italia nostra, che essa la prima sia stata a fissare certe e determinate leggi d’architettura; e unendo insieme le antiche e le recenti età, potremo a ragione gloriarci che l’architettura abbia da noi avuto e il suo cominciamento e la sua perfezione8. [p. 58 modifica]


Altre pruove delle scienze coltivate dagli Etruschi. XVIII. Io ho finora recate quasi in compendio le prove che della lor perizia nelle arti liberali ci han lasciate gli Etruschi. Queste prove medesime più ampiamente distese, ed altre ancora ch’io ho per brevità tralasciate, si posson vedere nella dotta opera di monsig. Mario Guarnacci, Delle Origini Italiche, il quale su questo argomento lungamente non meno che eruditamente si è trattenuto (l. 8, c. 1 e 2)9. A me basta di aver detto ciò ch’era necessario a provare che queste arti liberali, e quindi ancora le scienze, fiorirono tra gli Etruschi. Ma, quand’anche non avessimo a provarlo un sì valido argomento, esaminando diligentemente gli antichi scrittori, noi possiam ricavarne sufficiente lume a conoscere che uomini amanti delle scienze furono gli Etruschi. Tali certamente li chiama nel luogo più volte allegato [p. 59 modifica]lo storico Diodoro: Literis vero, et in primis naturae ac rerum divinarum perscrutationi plurimum studi impenderunt. Il qual detto, benchè breve sia e conciso, ogni sorte di scienze veggiam nondimeno che abbraccia, e in ogni scienza egregiamente versati ci rappresenta gli Etruschi. E in fatti noi leggiamo in Livio, che a’ primi tempi di Roma solevano i romani giovani nelle etrusche lettere esser ammaestrati, come a’ più recenti tempi nelle greche: Auctores habeo romanos pueros, sicut nunc graecis, ita tunc etruscis literis erudiri solitos (Dec. 1, l. 9). E Dionigi d’Alicarnasso racconta che Demarato greco10 fece nelle greche egualmente che nelle etrusche lettere i figliuoli suoi istruire (Antiq. Rom. l. 3): il che ne dà indizio che uomini scienziati e colti fosser comunemente creduti gli Etruschi, perchè onorevole ed util cosa si riputasse l’essere nella lingua e nelle scienze loro ammaestrato. Ma conviene entrar più addentro in tale materia, e degli studi loro favellare distintamente.


contesa tra il Bruckero e il Lampredi intorno alla filosofia degli etruschi. XIX. Una letteraria contesa si è in questi ultimi anni eccitata intorno alla filosofia degli Etruschi. Il ch. Bruckero nella sua Storia Critica della Filosofia, esaminando i sentimenti che intorno all’essere ed agli attributi di Dio sostenevano i filosofi etruschi, avea asserito (t. 1, [p. 60 modifica]p. 344) che l’opinion degli Etruschi intorno a Dio era a quella degli Stoici somigliante. Aveane recato in pruova primieramente il detto di Seneca, che di ciò favellando (Nat. Quaest. l. 2, c.41), avea detto darsi dagli Etruschi a Dio nome di Fato, di Provvidenza, di Natura, di Mondo. Avea inoltre addotto un passo di Suida, il quale un frammento di anonimo etrusco intorno alla creazione del mondo ci ha conservato, cui piacemi di qui arrecare: Opificem rerum omnium Deum (Suid, in voc. Thyrreni) duodecim annorum millia universi hujus creationi impendisse, resque omnes in duodecim domos ita dictas distribuisse; ac primo millenario fecisse coelum et terram; altero fecisse firmamentum illud quod appareat, idque coelum vocasse; tertio mare et aquas omnes quae sunt in terra; quarto luminaria magna solem et lunam, itemque stellas; quinto omnem animam volucrum et reptilium et quadrupedum in aëre, terra et aqua degentium. Videri itaque primos sex millenarios ante formationem hominis praeterüsse, et reliquos sex millenarios duraturum esse genus hominum, ut sit universum consummationis tempus duodecim millium annorum. La qual opinione pure mostrò il Bruckero con quella degli Stoici convenire, i quali in diversi successivi tempi affermavano creato il mondo. Ma questo sentimento del Bruckero non piacque all’erudito signor Giammaria Lampredi, il quale nel suo Saggio sopra la filosofia degli antichi Etruschi, stampato in Firenze l’anno 1756, prese a combatterlo, riflettendo che potevasi bensì l’opinion degli Etruschi con quella degli Stoici [p. 61 modifica]accordare in ciò che spetta all’Esser Divino, ma per niun modo in ciò che alla cosmogonia ossia alla generazione del mondo si appartiene; e a provarlo recò l’autorità di Laerzio, presso il quale Zenone, capo e fondator degli Stoici, così ragiona, secondo la traduzione dello stesso Lampredi: Iddio adunque essendo nel principio appresso di se medesimo, converse tutta la sostanza (preesistente) che era per aria (cioè nel voto), la converse, dico, in acqua; e siccome nel feto si contiene il seme, così egli essendo la ragion seminale del mondo, lasciò tal seme nell’umido, il qual somministrasse la materia alla futura generazion delle cose. Di poi generò primieramente i quattro elementi, il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra. Dalle quali parole conchiuse il Lampredi, che intorno alla generazione delle cose troppo notabile era la diversità che passava tra l’opinione degli Stoici, e quella degli Etruschi. Tardi giunse al Bruckero la notizia di tal libro, ma giunse appunto mentre stava componendo l’appendice alla sua Storia, che fu poi pubblicata l’anno 1767; e benchè egli dica di aver lette ad animo tranquillo e posato le cose dal Lampredi oppostegli, quod facile et frigido quidem sensu ferimus (pag. 183), par nondimeno che ne fosse egli punto alquanto ed offeso. Ma s’io debbo parlare sinceramente, a me sembra che il Bruckero, uomo per altro dottissimo, non abbia alle ragioni del Lampredi soddisfatto felicemente; e due cose singolarmente son degne di osservazione. Avea prima il Bruckero allegato egli stesso in suo favore il testo dell’anonimo etrusco presso Suida; ma [p. 62 modifica]poscia veggendo che su quello appunto si fonda il suo avversario, lo rigetta come apocrifo e supposto, e dice che il Lampredi si è lasciato ingannare nugatoris Etruscum physiologum simulantis narratione apud Suidam. Inoltre invece di mostrare la differenza che nel sistema della cosmogonia passava tra gli Stoici e gli Etruschi, si ferma il Bruckero a provar di nuovo la loro coerenza in ciò che appartiene all’Esser Divino, nel che il Lampredi stesso avea conceduto convenir cogli Stoici gli Etruschi.


In essa si scorge qualche analogia con quella di Mosè. XX. Ma io non voglio in questa quistione trattenermi più oltre. Chi più ne desidera, può vedere ciò che ne dicono i citati autori, a’ quali può aggiugnere ancora i due dottissimi scrittori Cudworth e Moshemio (Cudw. Systema intellect. tom. 1, cap. 4, § 27. Moshem. in notis ad hunc loc., et in Diss. de Creatione ad calcem Vol. II. Cudw. § 18). A me non pare che sia ben impiegato il tempo che ad esaminare i delirii degli antichi filosofanti si adopera; perciocchè, che giova finalmente il sapere in qual maniera precisamente andassero errati, mentre la ragione stessa, non che fa fede, ci mostra quanto essi si allontanasser dal vero? Non posso però a meno di non osservare che quando sia sincero il passo da Suida arrecato, in mezzo a’ grossolani errori che nella filosofia degli Etruschi ritrovansi, vedesi ancora una non piccola somiglianza tra ’l lor sistema e la narrazion di Mosè. L’intervallo della creazion delle cose è troppo diverso; ma l’ordine dello stesso intervallo è quasi pienamente conforme. Anzi le cose create quasi colle stesse parole si [p. 63 modifica]esprimono che nella sacra Genesi. Dal che parmi di poter raccogliere, conghietturando l’antichità degli Etruschi, che o dagli Ebrei, o da’ popoli confinanti agli Ebrei dovetter certo discendere, se sì viva si mantenne tra essi la tradizione della creazione, e di errori ingombra assai meno che presso le altre nazioni11. [p. 64 modifica]
In mezzo alle loro superstizioni si vede qualche barlume di buona fisica. XXI. Così si fossero essi nella purezza del culto che a Dio si dee, attenuti più fedelmente alla tradizione de’ primi loro antenati, e a’ libri santissimi di Mosè. Ma in questo punto essi degenerarono bruttamente. Non vi ebbe forse in tutta l’antichità nazione alcuna che nella superstizione andasse tant’oltre. Arnobio giunse a chiamar l’Etruria genitrice e madre di superstizione (l. 7). L’ispezion delle viscere degli animali e l’osservazione de’ fulmini erano la principal loro occupazione. Quindi que’ tanti libri rituali, fulgurali, aruspicini, acherontici, pontificali, reconditi, di cui veggiam fatta menzione dagli antichi autori (V. Maffei della Nazione. etrusca nel t. 4 delle Osserv. lett. p. 56); quindi i favolosi racconti di Bacchide e di Tagete primi inventori, come essi dicevano, dell’arte di prendere augurii; quindi ancora il chiamarsi, che era in uso, de’ toscani aruspici a Roma per le celesti osservazioni, e per altre somiglianti puerilità, dietro a cui pare strano che perduti andassero sì follemente uomini in altre cose avveduti e saggi. Tutto ciò non appartiene a scienza, nè io mi ci debbo perciò trattenere più oltre. Pare veramente che di mezzo a queste superstizioni una fisica opinione prima d’ogni altro proponesser gli Etruschi, che in quest’ultimi tempi molti ha avuti sostenitori e seguaci; cioè che i fulmini vengano ancor di sotterra, e non dal cielo soltanto. Il march. Maffei (ib. p. 73) e il Lampredi (loc. cit. 33) sostengono che così veramente sentissero gli Etruschi, e un passo di Plinio allegano in lor favore: Etruria erumpere terra quoque [p. 65 modifica]fulmina arbitratur (Hist. nat. l. 2, c. 53). Il Bruckero al contrario, che singolarmente dopo aver letta la Dissertazione del Lampredi suo avversario poco favorevol si mostra alla etrusca letteratura, pretende che effetto di superstizione soltanto e non di fisica osservazione si fosse una tale sentenza. A me non sembra questione sì agevole a diffinire. Se altro non si aggiugnesse da Plinio, parrebbe essa chiaramente decisa in favor degli Etruschi; ma egli di questi fulmini favellando aggiunge: Quae infera appellat (Etruria) brumali tempore facta, saeva et execrabilia. Colle quali parole sembra indicarne che i fulmini di sotterra scoppiassero solo, secondo gli Etruschi, in tempo di verno, e che essi soli funesti fossero e dannosi; il che certo a buona fisica non si conviene. Ma le parole non son sì chiare che bastino a decidere sicuramente. Io lascerò dunque che ognuno segua qual parer più gli piace. Delle altre superstiziose osservazioni degli Etruschi intorno a’ fulmini, benchè qualche morale allegorico senso possan racchiudere, come ingegnosamente osserva il Lampredi, io non farò motto; e ad altre cose passerò in vece, che del saper degli Etruschi ci fanno più certa fede.


Gli Etruschi coltivarono la medicina e l’anatomia. XXII. Che gli Etruschi coltivasser la medicina e l’anatomia, si è da alcuni provato con sì deboli argomenti, che l’usarne troppo mal si conviene a’ sostenitori di buona causa. Possonsi questi vedere presso il Lampredi che saggiamente ne mostra l’insussistenza (p. 41, ec.). Nè è perciò che altre migliori pruove noi non ne abbiamo. Il continuo sviscerar degli animali, che [p. 66 modifica]dagli Etruschi facevasi, dovea necessariamente condurgli allo studio di quelle parti che attentamente disaminavano, e renderli nell’anatomia profondamente versati. Questa non è che semplice conghiettura, appoggiata però, come ognun vede, a buon fondamento. Argomenti ancor più sicuri noi abbiamo del valor loro nella medicina. Celebre per l’origine de’ rimedii chiama Marziano Capella l’Etruria (De. nupt. Phil. et Merc. l. 6): Etruria regio ... remediorum origine ... celebrata. E facilmente si vede qual occasione avessero gli Etruschi di esercitarsi in quest’arte. Abbonda quella provincia di terme, le cui acque a varii usi di medicina giovano maravigliosamente. Anche Dionigi Alicarnasseo e Strabone ne fan menzione (Dion. Antiq. Rom. l. 1. Strab. l. 5). Or ciò dovette probabilmente risvegliar l’animo degli Etruschi a investigarne la qualità e gli effetti, e quindi ad usarne colle opportune leggi a giovamento degl’infermi. Il Lampredi a provare che così fu veramente, seguendo il Dempstero (Etrur. reg. l. 1, c. 13), mentova l’Aquilege etrusco, di cui, egli dice, tanti antichi fanno menzione. Ma io temo che questa volta egli siasi troppo affidato all’autorità del Dempstero. Crede egli che impiego dell’Aquilege fosse l’esaminare la natura de’ bagni, prescrivere il modo di usarne, ed osservare ove più utilmente si avessero a collocare. Ma egli è certo che esaminando i passi di Cassiodoro (l. 3. Var. Epist. 53), di Plinio il giovane il giovane (l. 2, ep. 46), e il vecchio (Hist. nat. lib. 26, c. 6), chiaramente raccogliesi che l’Aquilege era quegli che indagava i terreni da’ quali potesse [p. 67 modifica]sperarsi di trarre acqua, e la maniera e le leggi prescriveva, con cui derivarla e condurla a’ luoghi opportuni. Io non veggo inoltre chi sieno questi antichi autori che dell’Aquilege etrusco fanno menzione. Certo niuno de’ tre poc’anzi nominati al nome di Aquilege aggiugne quello di etrusco. Un sol passo di M. Terenzio Varrone io veggo allegarsi dal Dempstero (loc. cit.), in cui si nomina Tuscus Aquilex: ma, come il Dempstero medesimo osserva, altri a quel luogo con notabile diversità leggono Herophilus Diogenes. Ma checchè sia di ciò, l’esservi nella Toscana bagni salubri, e la fama in che essi erano fino a’ tempi più antichi, bastar dee certamente a persuaderci che uomini ancora vi avesse in Etruria, i quali le qualità e gli effetti con attento studio ne ponderassero.


Se coltivassero la botanica. XXIII. Troppo debole parmi ancor l’argomento che dal Lampredi si adopera (p. 52) a provare gli Etruschi versati nella botanica. Adduce egli un passo di Plinio, in cui parla di un’erba detta myriophilon da’ Greci, millefolium da’ Latini, e dice che gli Etruschi con tal nome chiamarono una cotal erba cui egli vien descrivendo. Ma se l’avere presso alcun popolo ogni erba il suo nome, bastar potesse a farci credere che lo studio della botanica vi fiorisse, non vi sarebbe nazione alcuna a cui non convenisse tal lode.


Loro invenzioni. XXIV. Altre invenzioni però noi veggiamo dagli antichi autori agli Etruschi attribuite, che uomini ingegnosi li mostrano, e nello studio della fisica diligentemente versati. Una sorta di tromba ad uso di guerra fu da essi trovata, [p. 68 modifica]secondo Diodoro Siculo, che da lor prese il nome: Tubam primi invenerunt bello admodum utilem, et ab illis thyrrenam appellatam (l. 5, c. 9): il che da Ateneo e da Polluce (Athen. Deipnos. l. 4 Poll. Onom. l. 4, c. 11) vien confermato; anzi che ogni sorta di musicali strumenti fosse tra essi conosciuta ed usata, chiaro si rende dalle urne e da altri antichi lor monumenti12, in cui i sacrificii e le feste veggonsi accompagnate dal suono di diversi strumenti, alcuni de’ quali ancora, come osserva il Buonarroti (Supplem. ad Dempst. p. 68), non si veggono mai ne’ monumenti di altre nazioni13. Agli abitanti di una delle loro città, cioè di Bolsena, attribuisce Plinio la lode di aver ritrovato l’uso de’ molini moventisi a mano: Molas versatiles Volsiniis inventas (Hist. nat. l. 36, c. 18). La nautica ancora, in cui ne’ tempi più addietro possenti furon gli Etruschi, nuova perfezione ebbe da essi, e nuovi [p. 69 modifica]ornamenti; perciocchè l’uso delle ancore e de’ rostri vuole Plinio che fosse da essi trovato. Rostrum addidit Piseus Thyrrenus, uti et anchoram (l. 7, c. 56); o come altri leggono, Rostrum addidit Piseus, Thyrreni anchoram.


Ebbero qualche sorta di poesia. XXV. Nè queste arti soltanto, che serie e gravi soglion chiamarsi, ma le più liete ancora, coltivate furono dagli Etruschi. Il continuo uso e la solenne pompa de’ sacrificii, di cui abbiam tante prove ne’ lor monumenti, appena ci lascian luogo a dubitare che qualche genere, benchè rozzo, di poesia non fosse da essi conosciuto ed esercitato. Essi furono innoltre da cui i Romani appresero i teatrali spettacoli. Dall’Etrutria chiamati furono i primi comici a Roma, che col nome di istrioni dalla etrusca voce ister si appellavano: Majores non abhorruisse, dice Tacito (Annal. l. 14), spectaculorum oblectamentis pro fortuna, quae tunc erat, eoque accitos e Tuscia histriones. Confermasi ciò ancor maggiormente coll’autorità di Livio (Dec. 1, l. 7), il quale, dopo avere la cosa stessa più ampiamente narrata, soggiugne che agl’istrioni succederon non molto dopo le favole Atellane, che il primo abbozzo furono, per così dire, de’ drammatici componimenti; ma queste ancora non d’altronde che dagli Osci popoli dell’Etruria furono prese. Quod genus ludorum, dice Livio (Ib.), ab Oscis acceptum tenuit juventus. Gli epitalamii parimente, con cui la nuzial pompa solevasi accompagnare, cominciarono ad usarsi in Fescennia, città d’Etruria. Fescennium oppidum, dice Servio (Ad l. 7 Aeneid.), ubi nuptialia inventa sunt carmina. [p. 70 modifica]E in fatti presso i Latini gli epitalamii col nome di canti fescennini soleano appellarsi. Il Dempstero (l. 3, c. 35) vorrebbe farci credere che, prima ancora che gli Etruschi soggettati fossero a’ Romani, avessero essi composte tragedie. A provarlo allega egli un passo di Varrone, ove nominando alcuni popoli della Toscana, dice: Sed omnia haec vocabula tusca, ut Volumnius qui tragoedias tuscas scripsit, dicebat. Ma da questo passo ben si comprova che Volumnio alcune tragedie avea scritte in lingua etrusca; ma in qual tempo le avesse scritte non si dimostra, perciocchè poteron bene gli Etruschi, anche dapoichè costretti furono a soggettarsi a Romani, comporre tragedie nella materna lor lingua.


Opere de’ loro scrittori perdute. XXVI. Egli è certo a dolersi che niun letterario monumento degli Etruschi sia a noi pervenuto, e che a saperne alcuna cosa ci convenga fiutare, per così dire, in ogni parte, e ogni passo degli antichi scrittori faticosamente cercare. Eppur sappiamo che non furon negligenti gli Etruschi nel tramandare a’ posteri la memoria loro. E al tempo di Varrone leggevansi ancor le storie degli Etruschi scritte fin dall’ottavo lor secolo, come Censorino ci assicura. In tuscis historiis, quae octavo corum saeculo scriptae sunt, ut Varro testatur (De Die nat. c. 5). Qual fosse questo ottavo secolo degli Etruschi, in cui le loro storie essi scrissero, non è sì agevole a diffinire; non potendosi in alcun modo determinare a qual tempo venissero essi in Italia. Ma qualunque esso fosse, il sapersi che storici delle loro cose furono tra [p. 71 modifica]gli Etruschi, egli è un altro indubitabile argomento a mostrarci che uomini colti essi furono, e nelle belle arti eruditi; poichè non veggiamo che barbare e incolte nazioni abbian avuto storico alcuno. Alcuni altri scrittori etruschi veggiam mentovati presso gli antichi (V. Maffei Osserv. Lett. t. 4, p. 19); ma pare che essi fossero scrittori non di cose che a scienza appartengano, ma sì delle stolte loro superstizioni. Ben sappiamo, per testimonianza di Svetonio (in Claud. c. 42), che l’imperador Claudio una storia degli Etruschi scrisse in greco, divisa in venti libri, la quale, se fosse a noi pervenuta, più pregevoli notizie intorno ad essi potrebbe forse somministrare.


I pregi letterari degli Etruschi troppo esagerati da alcuni. XXVII. Se io volessi seguir l’esempio del Dempstero, troppo più altre cose mi rimarrebbero a dir degli Etruschi. Ne’ due gran tomi dell’Etruria regale, il terzo libro intero diviso in xcv capi ha egli impiegato a scoprire le invenzioni degli Etruschi. Non vi ha quasi cosa che da essi non sia stata trovata, e, come scherzando riflette il march. Maffei (Osserv. Letter. t. 3, p. 235), l’uso stesso del respirare non viene per poco attribuito a loro ritrovamento. Deesi a lui certo gran lode, che è stato il primo a trattare ampiamente una tal materia, e a raccogliere su di essa quanto trovar poteva negli antichi scrittori. E forse hanno a vergognarsi gl’Italiani che uno straniero abbia dovuto il primo sboscare sì incolto terreno, e che uno straniero parimente, cioè Tommaso Coke, abbia dovuto essere di quest’opera il! primo editore. Meglio nondimeno alla gloria [p. 72 modifica]degli Etruschi provveduto avrebbe il Dempstero, se a più piccola mole ristringendo il suo libro, moltissime cose inutili ne avesse tolte, e valendosi solo degli antichi accreditati scrittori, non avesse molte cose asserite appoggiato solo all’autorità de’ moderni, e se le cose dagli Etruschi soltanto usate distinto avesse da quelle di cui essi furono i primi ritrovatori. Nulla io dirò parimente di più altre cose, la cui invenzione dagli antichi si attribuisce agli Etruschi, ma che non appartengono a scienza. Tali sono i riti de’ sacrificii, la solennità de’ trionfi, le insegne de’ generali e de’ magistrati, l’ordine delle battaglie, ed altre somiglianti cose, di cui puossi vedere il citato Dempstero, e gli altri trattatori dell’etrusche antichità. Io scrivo la Storia della Letteratura Italiana, e quindi ciò solo che alla etrusca letteratura appartiene, debbe in questa mia opera aver luogo14.


Senza bastevole fondamento Pitagora si dice da alcuni etrusco. XXVIII. Un altro pregio attribuirei io volentieri all’Etruria, come altri han fatto, se l’amore di verità mel permettesse. Vogliono essi che vi nascesse Pittagora. E negar non si può che da alcuni ei fosse creduto toscano: ma la cosa è così incerta, che non si può nemmeno con probabile fondamento asserire. Su [p. 73 modifica]questo punto alcuni Italiani, e singolarmente il ch. march. Maffei, dall’amor della patria si son lasciati trasportare più oltre che a sincero e critico storico non si conviene. Che Pittagora fosse Tosco, dice il mentovato autore (Osserv. Letter. t. 4, p. 72), ne abbiam testimonii.... Eusebio, e Clemente Alessandrino, e Porfirio, e Laerzio, e Suida. Io mi sono presa la noiosa briga di esaminare i passi di tutti questi autori, ove della patria di Pittagora essi favellano, e confesso che sono stato sorpreso al vedere che non ve ne ha un solo che affermi Pittagora essere stato etrusco. Mi sia qui lecito arrecare le lor parole, perchè ognun possa vedere quanto io sia lungi dall’appoggiarmi all’autorità sola de’ moderni scrittori, e dall’attribuire alla mia Italia onore alcuno che non se le possa con sodi argomenti difendere e conservare. Eusebio dunque, per cominciare da lui, parla della patria di Pittagora come di cosa affatto incerta: Pythagoras.... Samius, ut nonnulli volunt, vel, ut aliis placet, Tuscus erat, nec desunt, qui Syrum eum vel Tyrium fuisse dicant. Utut sit, ec. (Praepar. Evangel. l. 10, c. 4). Nell’incertezza medesima ci lascia Clemente Alessandrino: Pythagoras Mnesarchi filius, Samius quidem erat; ut dicit Hyppobotus; ut autem dicit Aristoxenus in vita Pythagorae, et Aristarchus, et Theopompus, erat Tuscus; ut autem Neanthes, Syrus, vel Tyrius (Stromat. l. 1). Porfirio altro non fa egli pure che riferire più diffusamente le diverse opinioni intorno alla patria di Pittagora, ed arreca ancora la testimonianza di un antico storico, detto [p. 74 modifica]Lico, a comprovare questa incertezza medesima. At Lycus historiarum quarto commemorat diversas de ipsius patria quorumdam sententias esse, dum ait: patriam itaque et civitatem, cujus civem virum hunc esse contigit, nisi ipse videris, scire parum tua intersit; quidam enim Samium eum fuisse dicunt, alii vero Phliasium, nonnulli Metapontinum (in Vit. Pythag. ex edit. L. Holsten). Nè punto maggior certezza intorno alla patria di Pittagora noi troviamo in Diogene Laerzio. Pythagoras Mnesarchi anulorum sculptoris filius, ut Hermippus ait, sive, ut Aristoxenus tradit, Thyrrenus ex una insularum, quas, ejectis Thyrrenis, Athenienses possederunt. Sunt qui Marmacum illius patrem, avum Hippasum, et Eutyphronem atavum, Cleoniumque abavum, qui Phliunte profugerit, dicant; habitasse Marmacum in Samo, atque inde Pythagoram Samium dici, inde migrasse Lesbum, ec. (de Vit. Philos. l. 8, sub init.). Suida per ultimo non solo dà la Toscana per patria a Pittagora, ma nemmeno vuol che si dubiti che ei non fosse di Samo. Pythagoras Samius (in Lexic. ad V. Pythag.15. Egli è dunque a confessare [p. 75 modifica]sinceramente che gli autori dal march. Maffei arrecati a provar toscano Pittagora, son quegli stessi che ci costringono a dubitar della patria di questo illustre filosofo.


Confutazione de’ loro argomenti. XXIX. Un altro argomento ancora arreca il march. Maffei a comprovare il suo sentimento, cioè il detto di un cotal Lucio pittagorico presso Plutarco, di cui narra questo autore, che Etruscum fuisse affirmavit eum (cioè Pittagora), non ut alii quidam, quod majores ejus Thyrreni fuissent, sed ipsum in Etruria natum, educatum, institutum (Symposiac. l. 8, qu. 7). Questo argomento è sembrato sì valido all’erudito canonico Filippo Lapparelli, che in una sua Dissertazione sopra la nazione e la patria di Pittagora, inserita nel tomo vi de’ Saggi dell’Accademia di Cortona, di esso singolarmente ha voluto usare a provar che Pittagora fosse etrusco. Ma io mi maraviglio che amendue questi valenti autori o non abbian letto, o abbiano dissimulato ciò che soggiugne Plutarco stesso; il quale all’autorità del pittagorico Lucio oppone quella di Teone grammatico, cui introduce a favellare così: Magnum puto et non facile esse, evincere Pythagoram Etruscum esse (ib.). E in vero l’argomento preso da’ Simboli [p. 76 modifica]pittagorici, a cui singolarmente appoggiavasi Lucio, e che nel luogo stesso da Teone vien confutato, anche al Bruckero è sembrato (Hist Crit. Philos. t. 1, p. 994) debole troppo e insussistente. Ella è dunque cosa dubbiosa in tutto ed incerta che Pittagora fosse etrusco. Questa gloria però non si può così facilmente negare all’Etruria, che in essa ancora per qualche tempo egli abitasse. Non già ch’io voglia pretendere che, ove gli antichi storici dicono ch’egli abitò lungamente in Crotone città della Magna Grecia, si debba intender Cortona città dell’Etruria; che ciò dicesi senza alcun fondamento. Ma la vicinanza della Magna Grecia all’Etruria ne fa credere probabilmente che dall’una all’altra passasse talvolta Pittagora, e che l’Etruria ancora ne’ suoi insegnamenti avesse parte. Ma di Pittagora basti per ora così; che più lungamente di lui dovrem favellare, quando della Magna Grecia dovrem tenere ragionamento.


È probabile che Omero sia stato qualche tempo nell’Etruria. XXX. Potrei io forse avanzarmi ancora a concedere un’altra gloria all’Etruria, cioè di avere accolto ed alloggiato il divino Omero? L’unico autore che di ciò abbiane lasciata memoria, egli è Eraclide Pontico (perciocchè quanto ad Erodoto e a Strabone, che da altri sono allegati come affermatori della cosa medesima, io non ho potuto in essi trovarne vestigio), il quale ne’ Frammenti rimastici della sua opera de Politiis, e stampati in alcune edizioni di Eliano, parlando de’ Cefalenii popoli della Grecia, così dice (p. 455 post Aelian. edit Lugd. 1604): Testatur etiam Homerus se ex Tyrrhenia in [p. 77 modifica]Cephaleniam et Ithacam trajecisse, quum morbo correptus oculos amisisset. Egli è vero che Eraclide non è autor così antico che bastar possa a farci di ciò sicura testimonianza. Ma egli allega il detto stesso di Omero, tratto forse da qualche sua opera che or più non esiste: testatur Homerus16. Sembra dunque che dubitar non si possa che Omero sia stato in Etruria, il che ancor giova a confermare che uomini colti fosser gli Etruschi, e nelle scienze versati. Perciochè egli è troppo verisimile che Omero viaggiando a que’ popoli si recasse, da’ quali sperar poteva e favorevole accoglimento e profittevoli cognizioni, onde nuovo ornamento recare a’ suoi poemi. E forse, come osserva il proposto Gori (Mus. Etrusc. t. 2, p. 236), ciò ch’egli scrisse intorno all’Acheronte, all’Averno e ad altre somiglianti favole della gentilità, fu in parte frutto del viaggio ch’egli fece in Etruria, e delle conversazioni che vi ebbe co’ dotti uomini di quel paese. Ma ben dee dolerne all’Etruria che ella si fosse appunto il luogo in [p. 78 modifica]cui l’infelice poeta fu privo degli occhi. Se pure, come a maggior gloria di Omero tornò il suo accecamento medesimo, non dee l’Etruria in qualche modo gloriarsi che in essa trovasse egli di questo suo nuovo onore l’origine e l’occasione.


La lingua degli Etruschi non è ancora ben conosciuta. XXXI. A compire questo trattato dell’etrusca letteratura parrà forse ad alcuno che ancor rimanga ch’io prenda a parlare de’ caratteri e della lingua degli Etruschi. Ma io non penso di dover entrare in sì difficile argomento. Veggo ed ammiro le fatiche che intorno ad esso han sostenute uomini eruditissimi. Ognuno ha preteso di aver colto nel vero, e di avere sciferate le lettere dell’etrusco alfabeto, e il senso di lor parole. I primi a tentare l’impresa furono applauditi e ottenner lode. Altri ne venner dopo che distrussero il sistema de’ primi, e un nuovo alfabeto formarono e una nuova lingua. Ma anche il loro regno, per così dire, ebbe poca durata, e di tanto in tanto veggiam sorgere nuovi Edipi, e accingersi a nuove spiegazioni dell’oscuro enimma. In tanta lontananza di tempo, in tanta diversità di lingue, in sì grande scarsezza di antichi scrittori, io stimo quasi impossibile l’accertar cosa alcuna. Mi sia lecito dunque il tenermi lungi di sì spinosa quistione, e di accennar solamente, ma senza entrarne garante, il sentimento degli eruditi Inglesi autori della Storia Universale, i quali dopo avere esaminati da una parte i caratteri de’ monumenti più antichi che ci rimangono di qualchesia nazione, e dall’altra que’ che leggonsi in alcune iscrizioni e in alcune medaglie etrusche, [p. 79 modifica]così conchiudono: Noi non possiam a men di non credere che i caratteri alfabetici, i quali ci son rappresentati in alcune iscrizioni etrusche, sieno i più antichi che al presente trovinsi al mondo.... Diversi monumenti letterarii etruschi posson gareggiare d’antichità con tutti quelli di tal genere, che attualmente esistono, senza pure eccettuare quelli di Egitto, che finora sonosi considerati come i più antichi di tutti (t. 14. p. 246, 247, edit. Amsterd. 1753). Così essi hanno la gloria degli Etruschi portata a tal segno, a cui niuno tra gli Italiani osò mai di sollevarla. Basta leggere tutto ciò ch’essi a quel luogo dicono di questa illustre nazione, per vedere quanto altamente sentissero dell’ingegno, del valor loro, e della loro letteratura d’ogni maniera; e per intendere che se è sembrato che gl’Italiani volessero oltre il dovere innalzare questi loro antenati, non son mancati eruditissimi uomini tra le straniere nazioni, a’ quali è paruto che di soverchia modestia dovesser gl’Italiani esser ripresi, anzi che di soverchio desiderio di lode.


Decadenza e rovina della loro nazione. XXXII. Ma questa sì illustre nazione subì anch’essa la comun sorte d’Italia, anzi del mondo. Dopo essere stata e nelle lettere e ne’ sacri riti per lungo tempo maestra a’ Romani, fu costretta a divenir lor serva. Il dominio di essa s’indebolì, si ristrinse, e finalmente verso il fine del quinto secol di Roma cadde sotto il potere dell’ambiziosa rivale. Col perire del lor potere parve che perissero ancora le arti e gli studi loro; e che col dominio il sapere ancor degli Etruschi passasse a’ Romani. Ma [p. 80 modifica]prima di venire a favellare di essi, due altri popoli d’Italia ci si fanno innanzi, che prima di essi conobber le scienze, e coltivaronle felicemente.


Note

  1. A questo passo cominciano gli spaventosi assalti che l’ab. D. Saverio Lampillas ha dati alla mia Storia ne’ due primi tomi del suo Saggio storico-apologetico della Letteratura Spagnuola, stampati in Genova nel 1778. Io pubblicai allora una lettera non per sostenere le mie opinioni da lui combattute, ma sol per ribattere l’ingiusta taccia da lui appostami di nimico del nome e della gloria spagnuola. Egli persuaso forse che debba credersi vincitore chi è l’ultimo a scrivere, replicò tosto alla mia lettera, e volle sostenere che benchè io protestassi di non avere avute le ree intenzioni ch’egli mi attribuiva, io aveale avute veramente, e che in ciò doveasi fede a lui più che a me; ed io lasciai ch’ei si stesse tranquillo godendo della sua vittoria. A luogo opportuno io aggiungerò la suddetta mia lettera, e aggiungerò insieme la replica dell’ab. Lampillas, illustrandone però con qualche nota alcuni passi che possono sembrare oscuri. Frattanto, secondo che il seguito della mia Storia il richiederà, io verrò richiamando all’esame i passi ch’ei ne ha criticati, e mi difenderò, ove mi sembri d’aver ragione, e confesserò di avere errato, ove mi vegga convinto. Egli dunque comincia a combattere questa mia proposizione che gli Etruschi coltivaron felicemente le scienze, anzi che i primi furono per avventura che in Europa le coltivassero; e alla mia proposizione oppone quest’altra (t. 7, p. 5): In Ispagna furono coltivate le arti e le scienze prima che in Italia. Si avverta dapprima, ch’io ho scritto per avventura, appunto perchè non ho voluto affermar come certo ciò che non pareami provato abbastanza. Ma quali sono le pruove che l’ab. Lampillas reca della sua opinione? I Fenicii, popolo assai più antico degli Etruschi, ebber commercio colla Spagna, ed essi erano uomini nelle scienze ben istruiti. Si conceda. Dunque i Fenicii comunicarono agli Spagnuoli il loro amor per le scienze. La conseguenza non mi par che discenda necessariamente dalla premessa. Ciò potè certo accadere. Ma non provasi che sia accaduto. Il sig. abate Lampillas però vuol provarlo, e arreca ancora la testimonianza degl’Inglesi scrittori della Storia universale, i quali, secondo lui, così dicono: Da tempo immemorabile cominciarono a fiorire nella Spagna le arti e le scienze. Era singolare l’ingegno degli Spagnuoli, e quale il manifestarono in appresso i grandi uomini che ha dati la Spagna. Tutti gli altri popoli dell’Europa furono tardi assai nel coltivare le arti e le scienze, che non conoscevano per mancanza di commercio. Non così gli Spagnuoli: il loro paese, abbondante di ricchezze ed opportuno al commercio, chiamò a sè le nazioni straniere più colte ed industriose: in forza di questa comunicazione bisogna dire che fu la Spagna nazion colta prima delle altre Occidentali. Prova di ciò esser ne possono gli antichi libri de’ Turdetani, benchè la loro antichità sia non poco esagerata. Nè sono questi i soli vestigi che abbiamo della inclinazione degli Spagnuoli alla letteratura, ec. Egli cita il tom. 18, cap. 24, sect. 2. Non so di qual edizione si sia valuto l’ab. Lampillas. Io ho alle mani la traduzione francese stampata colla data di Amsterdam e di Lipsia, e al tomo xviii vi si parla di tutt’altro che della Spagna. Della storia antica di questi regni si parla in essa nel tomo xiii, lib. iv, cap. xii, ed ivi nella sezione 2, p. 211 si leggono le seguenti parole, che son ben diverse da quelle citate dall’ab. Lampillas: Nous ignorons en quel temps les Espagnols commencerent à cultiver les arts et les sciences. Ciò è ben diverso dal dire che le arti e le scienze cominciarono a fiorirvi da tempo immemorabile. Ils y étoient fort propres, au moins à en juger par le grand nombre d’excellens hommes que l’Espagne a produit, et dont nous nous contenterons de nommer trois des plus illustres, scavoir le fameux philosophe stoïcien, qui étoit natif de Corduba, l’immortel Quintilien, et le grand cosmographe Pomponius Mela tant de fois cité dans le cours de cet ouvrage. Comincia ben tardi la serie degl’illustri Spagnuoli, se non comincia cbe da questi tre scrittori. Et quoique d’autres peuples européens, comme les Gaulois, les Germains, et autres, bien loin de faire le grand progrès dans les arts, ayent paru les mépriser, comme nuisibles à la valeur, nous devons porter un autre jugement des Espagnols, dont le pays, admirablement bien situé pour le commerce, fut habité outre cela par plusieurs peuples différens, la plupart très-hables. Parlano poi con lode delle antiche loro manifatture, e tornando alle scienze, continuano: Les sciences et les arts libéraux, si nous en croyons Strabon, ont fleuri de très-bonne heure chez eux; car cet auteur nous apprend que les Turdetani, peuple de la Boetique, possédoient un nombre prodigieux de volumes, et de Corps de Loix écrits en vers, et d’autres pièces de poësie, dont l’antiquité étoit d’environ 6000 ans. Ce dernier trait, quoique fort exagéré, prouve, au moins, que les Espagnols se piquoient d’avoir eu des connaissances de très-bonne heure; et c’est qui est confirmé d’ailleurs par plusieurs anciens écrivains, particulièrement par ceux de leur propre nation, mais plus it d’un Espagnol nommé Lartius Licinius qui donna une somme immense pour un livre des Commentaires de Pline II, cioè di Plinio il vecchio, ed è perciò anche questo esempio recente assai. Questo passo è ben diverso da quello che reca l’ab. Lampillas. Qui non si vede indicata sorte alcuna di preferenza di tempo della letteratura degli Spagnuoli sopra tutte le altre nazioni, trattine i libri che al tempo di Strabone aveano già 6000 anni di età, sul qual punto lascerem ch’essi se la intendano co’ Cinesi. Nè io voglio perciò accusare l’ab. Lampillas di avere alterato questo passo. Forse egli ha avuto tra le mani o l’originale inglese, o qualche altra versione diversa dalla mia: forse questo passo trovasi in qualche altro tomo di quella storia che a me non è riuscito di ritrovare. Io crederò qualunque altra cosa piuttosto che credere ]’ab. Lampillas reo di sì vergognosa alterazione. Ma ancorchè questo passo, qual egli il reca, trovisi veramente nella detta storia, io lo prego a dirmi come mai ne discenda la conseguenza ch’egli ne trae (p. 10): Ora dunque o l’ab. Tiraboschi non pretenda dar questa gloria agli Etruschi, o confessi che i detti Inglesi non hanno oltre portata la gloria degli Etruschi assai più che da nessun Italiano sia mai stato fatto. Io non so di qual logica egli abbia fatto uso. Sia pur vero tutto ciò ch’egli, e, secondo lui, gl’Inglesi dicono degli Spagnuoli. Sia vero che questi cento secoli prima degli Etruschi abbian coltivate le lettere. Sarà egli falso perciò che i medesimi Inglesi nel passo da me recato nella mia Storia abbian portata la gloria degli Etruschi più oltre che da niun Italiano siasi mai fatto? Io ne rimetto il giudizio al più acuto professore di dialettica che abbia l’Europa.
     Debbo qui protestarmi una volta per sempre, che se nelle risposte che, secondo l’occasione, io darò all’ab. Lampillas, parerà talvolta ch’io esalti l’Italia sopra la Spagna, io son ben lungi dal farlo perchè non abbia della nazione spagnuola quella giusta stima che tutti i saggi le accordano. Protesto che è falsissima e calunniosa l’accusa che mi dà l’ab. Lampillas, d’avere usata una singolar arte a fine di sfigurare i veri originali lineamenti della letteratura spagnuola (t. 2, p. 294). Protesto che non mi è mai caduto neppure in pensiero questo disegno, indegno di un uomo onesto, ch’egli mi attribuisce. Ho scritto, senza riguardo alcuno allo spirito nazionale, ciò che ho creduto vero. Se in alcuna cosa ho errato, l’errore è nato dalla mia ignoranza, non da alcuna maliziosa intenzione. Rispetto la nazione spagnuola, rispetto i dottissimi uomini ch’ella in ogni tempo ha prodotti, e son ben lungi dall’adottare i sentimenti di disprezzo con cui alcuni autori, singolarmente francesi, e anche alcuni spagnuoli (ch’io indicherò all’ab. Lampillas, se mai non li conoscesse) ne hanno scritto. E frutto di questo mio rispetto sarà la moderazione ch’io procurerò di usare all’occasione in queste mie note, nelle quali mi guarderò sempre dal volgere in discredito della nazione ciò ch’io dovrò dire di qualche scrittore particolare. L’unica cosa nella quale ei può rinfacciarmi di aver tacciata generalmente la nazione spagnuola, si è riguardo al cattivo gusto ch’io ho detto che da alcuni di essa fu introdotto in Italia. Ma io ho detto finalmente ciò che da molti altri era già stato detto; nè vi era ragione per cui contro di me ei rivolgesse quell’armi che ad ugual diritto avrebbe potuto rivolgere contro tanti altri i quali ancora han detto assai più che non abbia detto io.
  2. Quando io pubblicai la mia Storia aveasi solo la prima edizione della Storia del Winckelmann, e io non potei far uso che della version francese stampata in Amsterdam e altrove nel 1766. La nuova edizione da lui apparecchiata, ma non potutasi da lui pubblicare per l’infelice sua morte accaduta nel giugno del 1768, ci ha dati assai più copiosi lumi su questo argomento. Io ho alle mani l’edizione fattane in Roma per opera dell’ab. Carlo Fea l’anno 1783, ec. Ivi si può vedere ciò che a lungo dice nel terzo libro del primo tomo il chiarissimo autore delle belle arti esercitate non sol dagli Etruschi, ma anche dagli altri antichi popoli lor confinanti, quali erano i Sanniti, i Volsci e i Campani.
  3. Su questo argomento merita di esser letta la Dissertazione del celebre sig. D. Giambatista Gherardo del S. R. I. conte e signore di Arco, Della Patria primitiva delle Arti del Disegno, stampata in Cremona nel 1785, nella quale con più argomenti ei dimostra che non solo in Italia prima che in Grecia fiorirono tutte le arti, ma che anzi la Grecia non altronde ricevettele che dall’Italia. Egli ha ancor voluto provare che gli Etruschi inventori delle arti non furono quelli che abitavano le provincie indicate poi col nome di Etruria, ma più probabilmente quelli che nelle regioni circompadane fissata aveano la lor dimora. Ma in questa parte non sembra che gli argomenti da lui addotti abbiano ugual forza.
  4. Mentre credevasi che non si potesse negare agli Etruschi la gloria di avere i primi fatto uso in Europa della pittura, ecco uscire in campo i Volsci a lor contrastarla. Si son pubblicati in Roma l’anno 1785 alcuni bassi rilievi in terra cotta dipinti a vari colori, che si conservano in Velletri presso il sig. Giampaolo Borgia, il quale ne fu il felice discopritore. Ci si assicura ch’essi non sono nè egizii, nè etruschi, che hanno uno stile originale, e che, benchè mancanti di proporzioni, hanno nondimeno quella espressione che pruova la perizia e il saper dell’artefice. E poichè Velletri era città de’ Volsci, se ne inferisce che Volsci probabilmente ne furono gli artisti, e il carattere di que’ lavori li fa credere più antichi degli etruschi. A me, che altro non cerco che l’onor dell’Italia, è indifferente questa ricerca; perciocchè italiani erano ugualmente e i Volsci e gli Etruschi. Ma i difensor de’ secondi non ammetteranno forse così facilmente le pruove che si arrecano del primato de’ Volsci in quest’arte. Essi diranno per avventura che anche tra gli Etruschi poteron essere diverse scuole, come tante diverse ne ha avute negli ultimi secoli l’Italia; e che, comunque Velletri fosse città de’ Volsci, poterono chiamarvisi per tal lavoro gli Etruschi, come chiamati furono a Roma. E diranno ancora, che ancorchè si conceda che que’ lavori sian de’ Volsci, non pruovasi che sian più antichi delle pitture etrusche; perciocchè potè avvenire che l’arte più tardi s’introducesse tra’ Volsci, e che perciò rozze fossero le lor figure, mentre assai più perfette già erano quelle degli Etruschi. Certo se si pongono a confronto le opere, a cagion d’esempio, de’ pittori francesi al principio del secolo xvi con quelle di Rafaello, di Michelagnolo, del Correggio, e di altri Italiani della stessa età, si vedrà tra esse una notabile differenza: e nondimeno mal si apporrebbe chi volesse inferirne che le pitture francesi son più antiche delle italiane. Ma non entriamo in una quistione che non è propria di questa Storia.
  5. Nell’edizion romana dell’opera del Winckelmann si afferma (t. 3, p. 467) che si può soddisfare alle difficoltà da me a questo luogo proposte, col dire che Plinio avrà portati que’ versi secondo l’ortografia e la pronunzia de’ suoi tempi, e direi quasi a senso. Ma questa è appunto la prima delle congetture da me recate a spiegare i versi da Plinio riportati.
  6. Ho asserito che non ci rimane vestigio alcuno delle pitture etrusche; e tale pure è il sentimento del conte Caylus da me citato più sotto. Forse le figure che si veggono su’ vasi etruschi, si vorranno da alcuni considerare come opera di pittura; il che, quando sia, gioverà a confermare l’eccellenza degli Etruschi in tal arte, poichè è certo che molte se ne incontrano di vago ed elegante lavoro; e se non vogliansi dire pitture, serviranno almeno a provarci la finezza degli Etruschi medesimi nel disegno. Altri forse potranno additare altre pitture che diconsi opere degli Etruschi; e quando si possa provare che tali siano veramente, saranno una nuova pruova della nostra opinione che gli Etruschi in tutti i lavori dell’arte fossero valorosi maestri. V. la Nota seguente.
  7. L’ab. Passeri ha osservato che alcuni vasi etruschi hanno diversità di colori, e fra essi ancora un bellissimo porporino lavorato a fuoco (Picturae Etrusc. in Vasc. t. 1, p. 65), il che può provare che essi sapevano ancora impastare e maneggiare i colori. Un’altra pruova ne posson somministrare le grotte che tuttor veggonsi presso Corneto, ove era già l’antica città etrusca detta Tarquinium. Servivano esse a’ sepolcri, e vi si osservan tuttor le pitture onde essi gli ornavano. Niuno aveane finora parlato con esattezza, e il primo a darcene una diligente descrizione e stato il Winckelmann nella nuova edizione della sua Opera (t. 1, p. 192); e nelle note aggiunte all’edizion romana si dice che se ne avrà presto un’accurata notizia con tavole in rame dal sig. Byres inglese. Mentre si sta aspettando quest’Opera, in cui sarebbe desiderabile che alla rigorosa esattezza del disegno si aggiugnesse l’espression de’ colori, io mi compiaccio di poter qui recare la descrizione che, dopo aver diligentemente esaminata una di quelle grotte, me ne ha trasmessa, con sua lettera da Corneto de’ 20 di maggio del 1786, il sig. card. Garampi, vescovo di quella città e di Montefiascone, la cui erudizione e il cui ottimo gusto, in tutto ciò che alle belle arti appartiene, è abbastanza noto. Eccomi nel caso, mi scrive egli, di poter soddisfare l’erudita curiosità del sig. cavaliere mio stimatissimo. Corneto è situato su di una collina concatenata con molte altre, che specialmente dalla parte del settentrione e dal levante la circondano. A circa un miglio di distanza da essa e di tre dal mare ne sorge una di quasi eguale elevazione, la quale ha per sommità una spaziosissima pianura tutta piena di macerie, e un tal fondo chiamasi ab immemorabili Tarquinia. Quindi si asserisce che ivi fosse anticamente la cospicua città di tal nome, ch’ebbe anche vescovo proprio almeno fino alle incursioni dei Saraceni de’ secoli vii, viii, ix. Si presume ancora che rimanesse da essi desolata, e che d’allora in poi cominciasse a popolarsi la collina dirimpetto, ch’era di assai più difficile accesso che Tarquinia, e che fu primieramente detta Corgnitum, forse dalla copia dei cornioli o corgnali, e ora Cornetum. La nuova popolazione soggiogò di poi la vecchia, e Tarquinia, sempre più diminuendosi, rimase finalmente territorio dei Cornetani e loro vassalla, gli ultimi avanzi di cui furono distrutti dai Cornetani circa l’anno 1307.
     Ora tutte le delle colline sono in massima parte o di pietra viva, o di peperino e tufo: e da per tutto trovansi nelle rupi quantità di caverne, delle quali la massima parte e per rozzezza e incuria degli agricoltori perita, eccetto alcune che servono tuttavia a ricovero di bestiami e ad usi rustici. Molte in vero sono state otturate a fine di togliere ai malviventi il comodo di rifugiarvisi. Ora in molte di queste, che sonosi andate di mano in mano discoprendo, sonovisi trovate o pitture, o iscrizioni etrusche, o rottami di vasi e di statue, ed altre antichità. Prescindendo da qualche iscrizione non incomoda al trasporto, tutto il rimanente, a misura che discoprivasi, periva o disperdevasi. Ne rimangono tuttavia alcune mezzo otturate, nelle quali vengo assicurato essere state e pitture e iscrizioni etrusche.
     Una di esse si è frattanto riaperta, e sbarazzata in gran parte dalla terra che l’otturava. Essa è distante un miglio di qui, lunga e larga in quadro circa 72 palmi romani d’architetto per ogni lato, e alta palmi 9. Essa è tutta scavata nel sasso. La parte superiore non è a volta, ma tutta piatta: così che per meglio sostenerla sonovisi lasciati nel sasso medesimo quattro piloni quadrati, ciascuno de’ quali è in ogni lato di palmi nove.
     Tutta questa soffitta piatta ha con buon ordine i suoi compartimenti, dove con liste lunghe, e dove con cassettoni incavati nel sasso e ornati con scorniciamenti, alcuni de’ quali vedonsi tuttavia coloriti. D’intorno poi a tutta la grotta presso al soffitto, e dove rimane tuttavia aderente alle pareti l’intonacatura di calce, vedesi una linea di dentelli bianchi che ne fingono la cornice. Sotto a questa ricorre un architrave o sia fascia dell’altezza di once 10, nella quale vedonsi dipinte decursioni e processi di Genii alati, molti de’ quali tengono erette in alto ascie a foggia di grandi martelli. Dov’è qualche biga, dove su di essa è qualche figura, e in uno vidi rappresentata anche un’urna ovale a guisa di ossuario. Altrove osservasi un navicello. Considerato il tutto in complesso, mi è parso di potervi ravvisare misteri relativi allo stato nelle anime separate dai corpi. In pochi luoghi in vero si distinguono i colori. Il giallo, il verde e il rosso sonosi conservati più che altri; ma comunemente scorgonsi le figure come ombreggiate e scure, in modo però che se ne distinguono sufficientemente l'atteggiamento e i contorni.
     In un sito, dove maggiore è il terrapieno, continuandosi a scavare, sonosi finora trovate sei diverse teste di peperino di grandezza superiore al naturale, pezzi di torzi, una mano, il pollice di un piede da quattro volte maggiore del naturale, una mano che rialzasi a tutto rilievo sopra la tavola di peperino in cui fu scolpita, e cinque frammenti d’iscrizioni in caratteri etruschi scritte da destra a sinistra.
     In altra parte, poco lungi della stessa grotta, vengo assicurato che scoprissi, anni sono, un cadavere con ornamenti e armatura di bronzo, e con clavi o liste del vestimento in oro bratteato a lavori meandrici, de’ quali ho potuto acquistare un picciolo frammento.
     Le lettere di tali iscrizioni sono alte circa once 4, incavate nel peperino e tinte in rosso, che rimane tuttavia ben vivo e conservato. Nella grotta stessa vedonsi tuttora al muro due altre iscrizioni etrusche, l’una tinta di verde e l’altra di rosso.
     Sicchè ora non più dubito che tali grotte fossero a uso de’ popoli etruschi, e che per conseguenza tali pitture ad essi appartengono. Per quanto però posso finora congetturare, tali grotte non furono ad uso di abitazione, ma soltanto di sepolcri già degli antichi Tarquiniesi, giacchè esistono in fatti o sotto le rupi della stessa collina, o nel circondario di circa un miglio da essa, e quindi fin quasi alle mura di Corneto medesimo. E qui senza più me le protesto di cuore, ec.
  8. Il sig. Francesco Milizia vuole che il dorico sia il più antico tra tutti gli ordini d’architettura, e che il toscano non sia altro che il dorico più semplice (Memorie degli Architetti, ec. t. 1, p. 31, 35, ediz. Bassan. 1781). Ma se le cose semplici comunemente sono le prime ad esser trovate, e ad esse più tardi si aggiungono gli ornamenti, a me sembra che debba piuttosto credersi che il toscano sia l’ordin più antico di tutti, e che il dorico non sia altro che il toscano più ornato.
  9. Mentre si stava stampando il primo tomo della mia Storia, venne alla luce il tomo III delle Origini Italiche dell’eruditissimo monsig. Mario Guarnacci, in cui nuovi argomenti e nuove testimonianze produconsi a dimostrare quanto eccellenti fossero nelle belle arti gli Etruschi, e come prima ancora de’ Greci giungessero ad ottenere in esse la perfezione. Io godo di poter rimettere i lettori bramosi di aver su ciò nuovi lumi a questo dotto scrittore, a cui invano mi sforzerei io di aggiungere altre scoperte.
  10. Demarato era natio di Corinto, e venne a stabilirsi nell’Etruria ove ebbe due figli, Aronte e Lucumone. Il primo morì in età giovanile; il secondo, chiamato poscia Tarquinio, e soprannomato Prisco, giunse ad essere re di Roma.
  11. Niuno tra’ moderni scrittori ha sollevata a più alto grado di perfezione la filosofia degli Etruschi, di quel che abbia fatto il valoroso antiquario Giambatista Passeri. Egli si è fatto a provare che l’arcana loro filosofia ammetteva un solo Dio; che oltre la religion naturale essi ammisero ancora la rivelata; che riconoscendo un Dio solo ed eterno, ne riconobbero insieme qualche generazione; ch’essi dicevano l’uomo essere stato da Dio formato dal fango; che osservarono non solo pel lume della ragione, ma per la religion rivelata ancora lo stato infelice dell’umana natura decaduta dall’antico suo primiero grado; che ne’ genii adombrarono gli angeli, e un di essi ammisero per capo degli altri, e che ebber notizia della caduta degli angioli ribelli; che asserirono l’anima essere immortale; che credevano che i buoni dopo morte fossero trasformati quasi in altrettanti dei; che eterne fosser le pene de’ reprobi, e che i più leggieri falli dovessero o con temporali gastighi in questa vita punirsi, o espiarsi nell’altra con pene di più breve durata, alle quali però potevasi da’ viventi recar qualche sollievo. In somma, se crediamo al Passeri, i più dotti tra gli Etruschi professavano in cuor loro a un dipresso quella legge medesima che professava il popol di Dio (Picturae Etrusc. in Vasc. vol. II, p. xi, ec.). Ma io temo che questa Dissertazione, in vece di accrescere l’onor degli Etruschi, sia per confermare nella loro opinione alcuni i quali non troppo riconoscenti alle grandi fatiche degli antiquarii, per poco non li rimirano come sognatori, che in un vaso di creta, o in un pezzo di marmo o di bronzo s’immaginano di veder cose a tutti gli altri nascoste.
  12. Intorno alla musica degli Etruschi si può leggere un’erudita Dissertazione del celebre antiquario Passeri poc’anzi da noi lodato (Picturae Etrusc. in Vasc. vol. II. p. lxxiii, ec.).
  13. Il sig. Landi nelle note aggiunte al suo Compendio della mia Storia osserva (t. 1, p. 332) che il trovarsi scolpiti ne’ vasi etruschi i musicali strumenti, prova che essi ne usavano, non che ne fossero gl’inventori. Nè io ho argomentato così, come ognun può vedere; ma dalle sculture loro io ho solo inferito che ogni sorta di musicali strumenti era tra essi conosciuta ed usata. Poco appresso ei muove qualche dubbio su ciò ch’io ho detto delle invenzioni nautiche degli Etruschi; ma non parmi che ei rechi ragione alcuna per dubitarne.
  14. Nel terzo tomo della sua opera monsig. Guarnacci si occupa molto in ragionar delle leggi e della giurisprudenza delle antiche nazioni italiche. Ognuno potrà in esso vedere quanto a questo argomento appartiene, e forse ne troverà ancora oltra il bisogno.
  15. Il sig. ab. Fea nelle sue annotazioni all’edizion romana della Storia delle arti del Winckelmann (t. 1, p. 175) ha giustamente rilevata la mia inavvertenza nel parlare di questo passo di Suida. Perciocchè io non avendo osservato che il breve articolo di questo autore, ove dice solo Pythagoras Samius, non ho posta mente all’articolo precedente in cui ne ragiona più a lungo, e dice che fu genere Tyrrhenus, e che ancor giovinetto col padre dalla Tirrenia navigò a Samo. Sarà dunque questo il solo de’ cinque autori che si producono per provar che Pittagora fosse etrusco, il qual veramente lo affermi. Ove vuolsi anche avvertire ch’egli è il più recente tra tutti, e perciò il meno opportuno ad aggiugnere colla sua autorità nuovo peso a questa opinione, la quale continuerà ad essere tuttora dubbiosa ed incerta.
  16. Il sig. Landi osserva che Erodoto, anterior di un secolo a Eraclide, contraddice al racconto di questo scrittore da me allegato (t. 1, p. 333). Ma in primo luogo confessa il sig. Landi medesimo che la Vita di Omero, pubblicata sotto nome di Erodoto (che in essa solo e non nelle Storie ne parla), non è certo che sia di quel celebre storico, e perciò se ne sminuisce di molto l’autorità. In secondo luogo il supposto Erodoto afferma egli ancora che Omero fu in Italia, e solo nega che qui perdesse la vista, il che alle glorie di questa provincia è indifferente.