Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VIII/Libro III/Capo III
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Capo III
Poesia italiana.
I. Eccoci a un argomento di cui par che fi- fi..talia debba anzi andar vergognosa, che lieta,,n e superba. Se alcuni degli scrittori da 1101 111 “iutrotliitlo. 66o LIBRO addietro accennnti usano d’uno stil tronfio e vizioso , essi almen c’istruiscono co’ lumi che spargono o sul regno della natura, o sulle vicende de’ secoli. Ma ora dobbiam parlar di scrittori a’ quali se mancan le grazie dello stile, manca il migliore e quasi l’unico pregio de’ lor lavori. Un teologo, un filosofo, un matematico, un medico, uno storico che scriva male, si legge con dispiacere e con noia, ma pur si legge con frutto. Ma un poeta incolto e rozzo a che giova egli mai? E nondimeno pur troppo dobbiam confessare che fra’ poeti di questo secolo il maggior numero è di quelli le cui poesie or non possono aver altr’uso che di servir di pascolo alle fiamme o alle tignuole, o d’esser destinate anche a più ignobile uffizio. Ma dovrò io rinnovare in certo modo la piaga che il reo gusto fece allora all’Italia, col far menzione di tanti inutili poetastri da’ quali ella fu innondata ed oppressa? Nè io ho coraggio a farlo, nè ove pure l’avessi, potrei sperarne lode ed applauso da’ lettori di questa Storia. Si giaccian essi dunque dimenticati fra quella polvere a cui sono or condennati. Io invece mi studierò di mostrare che, benchè quasi tutta l’Italia andasse follemente perduta dietro a quel falso lume che tanti e tanti sedusse, il numero però di coloro che non si lasciaron travolgere dalla corrente, non fu sì scarso, come da molti si crede; e che anche nel secolo XVII non fu del tutto priva l’Italia di leggiadri ed eleganti poeti. Solo perchè le infelici vicende della letteratura ugualmente che le gloriose da un sincero e imparziale storico debbono essere rammentate, io parlerò de’ primi e dei più celebri corrompitori del buon gusto in Italia, acciocchè si conosca a chi debba essa imputare le sue sciagure.
Notizie di Gabriello ChiabreraII. Prima però di essi dobbiam dire di un valoroso poeta, il quale tanto toccò del buon secolo, che potè raccoglierne in sè tutti i pregi, e tanto s’innoltrò nel cattivo, che per poco non ne contrasse alquanto i difetti. Parlo del celebre Gabriello Chiabrera, onor di Savona sua patria, ove nacque agli 8 di giugno del 1552 Ha scritta egli stesso la sua Vita, e di essa noi ci varremo nel ragionarne, finchè una più ampia non ne abbiamo, e noi speriamo di averla nella nuova edizione delle Opere di questo valoroso poeta già da qualche anno promessa da alcuni letterati savonesi, ma che non vedesi ancora venire a luce. Gabriello, rimasto presto privo del padre, fu in età di nove anni inviato a Roma, ove sotto la direzione di un suo zio paterno cominciò gli studi, e fu poscia inviato alle scuole del Collegio romano. L’amicizia da lui ivi contratta con Paolo Manuzio e poi col celebre Sperone Speroni, e le lezioni udite dal famoso Mureto, giovaron non poco a porlo sul buon sentiero. Fu per qualche tempo in corte del Cardinal Cornaro camerlingo; ma un incontro da lui avuto con un gentiluomo romano, il costrinse au’uscire da Roma e a tornare alla patria, ove in tranquillo riposo tutto si diè agli studi e a quello singolarmente della poesia italiana. E par veramente che il Chiabrera in età giovanile fosse d’indole vivace e risentita oltre il dovere, poichè confessa egli stesso che in patria incontrò, 662 LIBRO
senza sua colpa, brighe, e rimase ferito: la
sua mano fece sue vendette , e molti mesi ebbe
a stare in bando: quietossi poi ogni nimistà,
ed ei si godette lungo riposo. Ei visse quasi
sempre in patria, ove ancora in età eli cinquant’anni prese a moglie Lelia Pavese, da cui però
non ebbe figli. Solo nel trasser talvolta il desiderio di viaggiar per l’Italia, e gli onorevoli
inviti fattigli da alcuni principi. Fra essi Ferdinando I gran duca di Toscana , avendo saputo che il Chiabrera era venuto a Firenze,
chiamollo a sè , e accoltolo con molto onore,
gli commise alcuni versi per servire sulla scena
ad alcune macchine ch’ei volea mandare in dono
al principe di Spagna; ed avutili, gli fece dono
di una catena a oro con una medaglia in cui
era impressa la sua immagine e quella della gran
duchessa, e di una cassetta di acque stillate e
odorose. Indi in occasione delle feste che si
celebrarono per le nozze della principessa Maria, che fu poi reina di Francia, gli comandò
che avesse cura delle poesie che doveansi rappresentar sulla scena , e nella pruova che se
ne faceva innanzi al gran duca e ad altri gran
personaggi, avendo egli veduto che il Chiabrera , come gli altri, stavasi in piedi e a testa
scoperta , il fè scoprire e sedere; e ordinò poscia ch’ei fosse notato tra’ gentiluomini dalla
sua corte con onorevole provvisione e senza
obbligo alcuno. Abbiam parimente veduto coni’ ei fosse ivi onorato da Cosimo II, che in
somigliante occasione chiamatolo sel fece sedere a lato. Nè meno fu egli accetto a Carlo
Emanuello duca di Savoia, il quale sapendo TERZO 6f> 3
ch’egli scriveva VA mai Iride, chiainollo a Torino,
l’invitò a fermarsi alla sua corte, e poichè egli
non accettò l’invito, gli fè dono d’una catena
d’oro, e volle che nel partire fosse servito d una
carrozza e di quattro cavalli di corte, e ogni
qual volta ei fu a Torino , il duca fecegli contar pel viaggio 300 lire, benchè esso non fosse
che di 50 miglia. Anche il duca di Mantova
Vincenzo Gonzaga lo ebbe assai caro j volle
eli1 (’gli ordinasse le macchine e componesse
i versi per gl’intermedii! nelle feste per le nozze
del principe suo figliuolo, lo alloggiò in corte,
e seco il volle in carrozza, in barca, alla mensa, e gli assegnò un’annua pensione. Urbano VIII
gli diè parimente gran contrassegni di onore e
di stima, e fra le altre cose P ammise una volta
ad udire il predicatore apostolico nella sua bussola stessa, e con un Breve pieno di encomii
lo invitò a fissare il suo soggiorno in Roma ,
al che però non condiscese il Chiabrera. Finalmente la Repubblica di Genova, di cui era
suddito, lo ricolmò essa pure di onori e di
privilegi, permettendogli fra le altre cose di
scoprirsi, quando ragionava a’ serenissimi collegi. Così onorato da tutti, visse il Chiabrera
fino all’estrema vecchiezza , finchè in età di
ottantasei anni nel 1637 diè fine in Savona a’
suoi giorni.
III. A dare un’idea del poetare del Cinabro* m.
ra, ninna immagine è più opportuna di quella J
eh’ei medesimo ci somministra nella sua Vita jlere*
dicendo ch’ei seguia V esempio di Cristoforo
Colombo suo cittadino, eli egli voleva trovar
nuovo mondo, o affogare. In fatti, benchè Luigi HG4 unno
Alamanni, Bernardo Tasso e alcuni altri poeti
del secolo xvi avesser felicemente tentato di
ornare la poesia italiana colle leggiadre grazie
di Anacreonte, e cogli arditi voli di Pindaro,
niuno però sì vivamente espresse la greca poesia , quanto il Chiabrera. O egli scherzi nelle;
canzonette anacreontiche, o si sollevi al cielo
colle pindariche, vedesi in lui quella fervida
fantasia e quel vivace estro di cui i Greci ci
furono sì gran maestri, e senza cui non v’ ha
poesia nè poeta. Se 1* espressione non è sempre coltissima, se ne’ traslati e nelle metafore
è forse talvolta ardito oltre il dovere 7 sicché
sembri non del tutto esente da’ difetti del secolo , la nobiltà de’ pensieri, la vivacità delle
immagini, i voli lirici appena ci lasciano ravvisare cotai piccioli nei; e la molteplice varietà
de’ metri da lui nella poesia introdotti dà un
nuovo pregio alle sue Rime. Non v’ebbe genere
di poesia italiana a cui egli non si volgesse (a).
Ma alle canzoni principalmente ei dee la celebrità del suo nome. Ne’ sonetti egli è vivo e
immaginoso) ma al leggerli ci spiace quasi
ch’egli abbia esposti que’ sentimenti in un sonetto più tosto che in una canzone. Niun poeta
ci ha lasciato sì gran numero di poemi t quanto
il Chiabrera. L Italia liberata, la Firenze, la
(a) Il eavalier Vannctti nelle sue auree Ossrrvavazioni intorno ad Orario prima di tutti ha analizzate
le rare bellezze e la felice imitazion Oraziana de1 trenta
Sermoni del Chiabrera, ne’ quali egli ha di gran lunga
superato tutto ciò che di Sermoni e di Satire erasi fino
a’ suoi tempi avuto in poesia italiana (t. 5, p. 3’, cc.). TERZO 065
Coti fide, o delle Guerre de’ Goti, V Antadeide,
il Ruggiero, son tutti di lungo lavoro, oltre
molti altri poemetti di minor molte; e in tutti
si riconosce il Chiabrera, cioè un poeta versatissimo nella mitologia e nella erudizion greca
e latina, maestoso, fecondo, eloquente. Ciò
non ostante i poemi del Chiabrera non hanno
avuta la sorte di essere annoverati tra’ più perfetti che abbia V italiana poesia; e forse lo stesso
sarebbe avvenuto al gran Pindaro, s’ei si fosse
accinto a scriver poemi epici. Gl’ingegni fervidi e arditi sembran meno opportuni a quei
generi di poesia che richieggono regolare condotta e fatica di lungo tempo. Noi abbiamo altrove accennata la bella e giudiziosa critica che
dell’Amadeide fece il celebre Onorato d’Urfè,
e in cui ebbe parte anche il duca di Savoia
Carlo Emanuello I, in cui si rilevano, e, per
quanto a me ne è sembrato , assai giustamente, parecchi difetti di quel poema, nel quale
Per altro confessa il censore che ben si vede
l’ingegno e lo studio del valoroso poeta. Lo
stesso dee dirsi dei Drammi per musica e delle
Favole boscherecce e dell’Erminia tragedia,
tutte opere non indegne del loro autore, ma
per le quali egli non avea dalla natura sortita
quella felice disposizione che avea per la lirica
poesia. Non son molti anni che ne sono state
pubblicate le Lettere familiari!, scritte con quella
naturale eleganza che ne è il maggior pregio.
E nella nuova promessa edizione da noi poc anzi accennata molte altre opere finora inedite ci si fanno sperare di questo sì illustre
scrittore. IV.
Nuiixir Ji
marini «
le »ue Poesie.
66(5 LIBRO
IV. Mentre tanti e sì ben meritati onori rendevansi in ogni parte al Chiabrera, non eran
minori quelli che tributavansi a Giambattista
Marini, che si dee a ragione considerare come
il più contagioso corrompitor del buon gusto
in Italia, e di cui perciò dobbiamo or farci a
parlare. Giambattista Baiacca comasco ne ha
scritta la Vita, stampata lo stesso anno 1625
in cui il Marini morì, e poscia ristampata più
altre volte, e di lui innoltre favellano tanti altri scrittori, che non ci è d’uopo di gran fatica a raccoglierne le notizie. Ei fu di patria
napoletano, ed ivi nacque nel 1569 da padre
di professione giureconsulto, il quale perciò
avrebbe voluto che il figlio battesse la carriera
medesima. E forse sarebbe stato spediente all’italiana poesia che così fosse accaduto. Ma il
Marini fu uno de’ molti che volsero dispettosamente le spalle alla giurisprudenza , per seguire le Muse. Sdegnato il padre, cacciossel
di casa, negandogli perfino il pane. Il duca di
Bovino, e poscia il principe di Conca, che ne
ammiravano il raro talento , gli dieder ricovero, finchè un delitto giovanile da lui commesso
il fece imprigionare, e poichè ebbe riavuta la
libertà, lo persuase per timore di peggio a lasciare il Regno, e a trasportarsi a Roma, ove
prima presso Melchiorre Crescenzi, indi presso
il Cardinal Pietro Aldobrandini visse alcuni anni,
e col secondo fu ancora a Ravenna e a Torino. In questa città rendettesi celebre il Marini
non solo pel suo talento, ma ancora per le ostinate e più che letterarie contese che vi sostenne. La prima fu quasi una battaglia da giuoco TERZO ()(»;
in confronto delle altre, e nacque all1 occasion
(Ji un sonetto dal! Marini composto in lode di
un poemetto di Rafaello Rabbia sopra Santa Maria Egiziaca, in cui egli prese un solenne granchio confondendo il leone da Ercole ucciso
colf idra lernpaj oggetto, a dir vero, di troppo
lieve momento, perchè si dovesser per esso
pubblicar tanti libri, quanti allora ne uscirono,
altri contro, altri a favor del Marini, il cui
principal difensore fu il co. Lodovico J esauro
da noi nominato nella storia del secolo precedente La serie de’ libri in tal occasion pubblicati si può vedere presso il Crescimbeni
(Stor. (della volg" poes. p. 354, ed. Hom. i6i)8)
e presso il Quadrio (Stor. della Poesia, t. 2,
p. 283). Assai più aspra fu la contesa eli* egli
ebbe in Torino con Gasparo Murtola genovese,
segretario del duca Carlo Emanuele. Il Marini
recatosi, come si è detto, a Torino col Cardinal Aldobrandini, ottenne tal grazia presso
quel principe, singolarmente col panegirico in
onor di esso da lui composto, che questi lo
ascrisse all’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro,
e fermollo alla sua corte collo stesso carattere
di segretario. Il Murtola che credeva di non
aver pari nel poetare, e che allora stava per
pubblicare il suo poema del Mondo creato, che
infatti uscì alla luce in Venezia nel 1608, non
potè veder con buon occhio il favor del Marini. Quindi motti satirici e poscia sonetti delI uno contro dell’altro , e la Murtoleide e la
Marineide, e altri infami libelli dati alle stampe, con cui questi due poeti si vennero arrabbiatamente mordendo per lungo tempo nel 1808 GC>8 LIBRO
e nel 1609, libelli ne’ quali non solo la carità
cristiana, ma 1 onestà ancora e la decenza vedesi del tutto dimenticata. Alcuni autorevoli
personaggi ottennero colla lor mediazione che
cessassero sì indegne contese. Ma il Murtola
a cui parve di non esser sicuro finchè il suo
rivale vivesse, attesolo un giorno a Torino,
gli scaricò contro un’archibugiata. Essa invece
del Marini colpì un favorito del duca, che stavagli al fianco} e il Murtola fatto prigione, er;*
già condannato a morte, e s’ei ne campò, ne
fu debitore al suo rivale medesimo, che con
atto assai generoso gli ottenne la grazia del
duca} ma parve che il Murtola si sdegnasse
di dover la vita al Marini} perciocchè è troppo
probabile che o a lui, o a’ protettori di esso
si dovesse la calunnia con cui egli fu al duca
accusato di avere sparlato di lui in un suo giovanile poema intitolato la Cuccagna. Tanto poteron le voci degli emuli del Marini nell animo
di quel per altro sì saggio principe, che il fece
chiudere in carcere, e vel tenne, finchè la testimonianza inviatagli dal marchese Maso, che
il Marini fin da quando era in Napoli, e ancor non conosceva il duca, composto avea quel
poema, e l’intercessione di ragguardevoli personaggi , non l’indussero a rendergli la libertà.
Passò allora il Marini in Francia nel 1615, ove
la reina Margherita avealo premurosamente invitato. Trovò morta la sua protettrice, ma un’altra ne ebbe nella reina Maria, da cui ebbe un’annua pensione di 1500 scudi, cresciuta poi fino
a duemila. In Francia ei pubblicò il suo troppo
celebre Adone, che fu ivi stampato la prima TERZO
volta nel i6a3, e che diede occasione a una
altra contesa più lunga ancora e più ostinata
che le altre finor mentovate.
V. Tommaso Stigli ani, natio di Matera nella
Basilicata, nel i()o3 era passato al servigio del IIMIU SltjjlMJtica di Parma, come io raccolgo da due let- u,*‘"Ji.intere inedite, una da lui in quell’anno scritta r"“*
a Ferrante II Gonzaga duca di Guastalla, e
l’altra a lui inviata in risposta dal duca stesso.
Fu poscia in corte del Cardinal Scipione Borghesi e di Giannantonio Orsini duca di Bracciano , presso il quale morì dopo il 1625 , in
età di ottani’anni (Crescimbeni, l c p. 153, ec.).
Or questi avea nel 1601 pubblicate a Venezia
alcune sue Rime, che paren conformi al buon
gusto. Ma l’applauso eli’ ci vide farsi alle Poesie del Marini, lo invogliò d’imitarne lo stile,
e gli accese in seno un’ardente brama di superarne la gloria. Nel 1617 ei diede in luce la
prima parte del suo poema eroico intitolato il
Mondo nuovo, che or non si legge da alcuno*
e descrivendo in esso quel pesce che dicesi
uom marino, si fece a descrivere e a mettere
in burla lo stesso Marini. Questi, dopo aver
avuto a suo rivale il Murtola , non era uomo
che potesse temer lo Stigliani. Gli rispose adunque con alcuni pungenti sonetti intitolati Le
Smorfie, e in alcune sue lettere ancora il malmenò per modo, che lo Stigliani impauritone,
gli scrisse a Parigi nel 1619, assicurandolo che
in quelle stanze non avea mai avuta intenzione
di prenderlo di mira. Vi ha chi dubita che
questa lettera fosse dallo Stigliani finta solo,
poichè il Marini fu morto. E certo questi non 6~o li imo
tralasciò mai di mordere lo Stigliani!, perciocchè nel canto ix del suo Adone inserì alcune
stanze, in cui quegli veniva beffato e deriso
sotto r allegoria di un gufo. Lo Stigliani non
ebbe coraggio di assaltar di nuovo il Marini
ma scrisse la critica dell’Adone, a cui diè il
titolo di Occhiale; e quando il suo avversario,
morto nel 1625, non potea più rispondere, ne
pubblicò il quarto libro, sopprimendo i tre
primi che forse non avea mai composti. L’Occhiale fu come il segno di una generale battaglia che si accese contro l’infelice Stigliani,
il quale fu da ogni parte assalito. Girolamo
Aleandro, Niccola Villani, Scipione Errico
Agostino Lampugnani, Giovanni Capponi, Andrea Barbazza, il p. Angelico Aprosio ed altri,
tutti si volsero contro quel misero Occhiale, e
contro il fabbricator di esso, il quale però non
perdendosi d’animo, si apparecchiava a rispondere. Ma egli non ebbe o coraggio per uscire
in campo colla risposta , o tempo per terminarla. Il grande impegno di tanti nel difender
1 Adone è pruova del gusto che allor dominava in Italia. Perciocchè, comunque in esso
si leggano tratti degni di gran poeta, è certo
però, che non solo per l’oscenità di cui f autor
l’ba macchiato, e di cui il Cardinal Bentivoglio
avealo caldamente pregato a purgarlo, prima
che il pubblicasse (Mem, e Lett, del card, Bentiv. p. 243, ed. ven. 1668), ma anche pel
tronfio stile e per le strane metafore con cui
è scritto, non era degno <f esser sì caldamente
difeso. Frattanto il Marini invitato dal Cardinal
Ludovisio nipote di Gregorio XV, era tornato TERZO.671
in Italia sulla fine del 1622, e benchè molti
in Roma volessero avere l’onor di alloggiarlo,
egli antipose a tutti il fratello del suo antico
benefattore, cioè Crescenzio Crescenzi. Fu ivi
eletto principe dell’Accademia degli Umoristi.
Ma poco appresso , * morto il detto pontefice,
ed eletto a succedergli Urbano VIII, fece ritorno a Napoli, ove fu amorevolmente accolto
dal vicerè duca d Alba. Pensava ei nondimeno
di ritornare a Roma, ove era istantemente richiesto , quando sorpreso da mortal malattia,
in età di cinquantasei anni, venne a morte a’ 25
di marzo del 1625. Quando si vide vicino al
fin de’ suoi giorni, pianse e detestò le oscenità delle quali avea imbrattate le sue Poesie,
e pregò che si usasse ogni possibile diligenza
affin di sopprimerle. Ma il gusto del secolo e
il plauso con cui da alcuni si accoglie tutto
ciò che è favorevole al libertinaggio, aveale già
troppo moltiplicate, perchè ei potesse ottenere
ciò che bramava. Io non farò il catalogo delle
Poesie del Marini, nè mi tratterrò a formarne
il carattere. Inutile sarebbe il primo, che già trovasi presso molti scrittori, nè è molto glorioso
all’Italia il serbarne memoria. Il secondo è noto
abbastanza a chi ha buon gusto nell’italiana
poesia, e tutti ormai confessano concordemente
che pochi ebbero sì felice disposizione dalla
natura ad esser poeta, e più pochi tanto abusarono di questa felice disposizione quanto il Marini, che volendo levarsi in alto assai più che
non avesser mai latto tutti gli altri poeti, rinnovò i voli d learo, e per farsi più grande,
TlllABOSCiil, Voi. XV. <) VI.
Dii iskmu
fili, ola di
■in Francarle
nulla |ionij
italiana.
C~2. Li ItltO
divenne mostruoso. E l’esempio di lui fu anche più dannoso all’Italia , perchè quasi tutti
i poeti il vollero imitare; e non avendo l’ingegno e la fantasia di cui egli era dotato, ne
ritrassero tutti i difetti, senza ri trarne que’ pregi
che in qualche modo li rcndon minori.
VI. Ma io non posso dissimulare a questo
luogo la ridicola riflessione di un recente scrittor francese che, volendo giudicare generalmente
della poesia italiana, crede di dovere prendere
esempio dal Marini: Per avere una giusta
idea, ilice egli (Melatigas de M. Michault, Paris, 1770, t 1, p. 214 , ec.), deif arditezza tle
poeti italiani, basta U’ ggere una traduzione letterale del quarto Idillio della Sampogna del
cav. Marini, intitolato Europa. IL delirio, che
in esso regna, si rende, è vero, più ridicolo
nella nostra lingua; ma esso è almeno un saggio della poesia italiana, da cui si può conoscere il genio di questa nazione. Qual entusiasmo,
qual focosa immaginazione, qual affettazione
avranno i loro grandi poemi, se I Idillio tra essi
può ammettere stravaganze sì grandi? Quindi
prima di darci la traduzione in prosa francese
di questo Idillio, aggiugne in una nota, che
gl’italiani non osano di difendere il Marini riguardo a’ concetti, ma che pretendono che il
cattivo gusto di questo poeta è un frutto del
soggiorno che ei fece in Francia, quando le
arguzie vi erano in favore. Ma coloro, ecco
l’irrevocabil sentenza del nostro Minosse, che
conoscono il genio e le opere poetiche degl Italiani , troveranno ben ridicola la lor pretensione. Per vero dire, se M. Michault avvocato usa nel trattare le cause lo stesso metodo che nell’accusare i poeti italiani, io compiango la sorte de’ suoi clienti. Dunque perchè il Marini è un pazzo, tutti i poeti italiani son pazzi? Che direbbe egli di grazia, se io prendessi in mano il poema intitolato La Semaine, ou les sept Jours de la Creation di Guglielmo du Bartas francese, morto in età giovanile nel 1590, in cui il Sole vien detto il Duca delle Candele, il vento il Postiglione d’Eolo, il tuono il tamburo degli Iddii (V. Les Trois Siècles de la Littérat franc. t. 1, p. 96), e dicessi: Ecco il genio della poesia francese, ecco lo studio di cui i lor poeti si piacciono: non avrei io le fischiate non sol da’ Francesi, ma anche dagl’Italiani? E io potrei aggiugnere nondimeno che questo poema fu tanto applaudito in Francia, che in sei anni se ne fecero trenta edizioni (ib.), cosa non certo accaduta al Marini. Ma che genere d’argomento sarebbe questo? Du Bartas ha usate le più strane metafore: du Bartas ha avuto sì gran numero d’edizioni. Dunque coteste metafore son proprie del genio e della lingua francese. E questo argomento che sarebbe sì ridicolo riguardo alla Francia, potrà avere altra forza riguardo all’Italia, se non di mostrare che chi ha voluto farsene bello, avrebbe meglio provveduto al suo onore tacendolo? Ma forse M. Michault è degno di scusa. Forse egli non sa (nè egli è obbligato a sapere tanto) che l’Italia prima del Marini avea avuto un Bembo, un Ariosto, un Casa, un Sannazzaro, un Molza, un Alamanni, un Tasso, un Costanzo, mentre la Francia avea un Bonsard, un Marot, un du Bartas, e che dopo il Marini ha avuto un Redi, un Marchetti, un Magalotti, un Guidi, un Menzini, un Filicaia, un Manfredi, un Zanotti, un Frugoni, per tacer de’ viventi. Fors’egli ha creduto che noi non avessimo altri poeti fuorchè il Marini, o che tutti gli altri poeti fosser somiglianti al Marini. E s’egli ha creduto così, poteva egli scriver altrimenti? Quanto poi all’effetto che il soggiorno in Francia produsse in questo poeta, io non dirò che ivi apprendesse il Marini il vizioso suo stile, perciocchè egli l’avea formato prima di andarvi; ma dirò solo che le pensioni e gli onori che ivi ottenne non solo egli, ma ancor l’Achillini, come tra poco vedremo, ci pruovano chiaramente che le metafore e i concetti non erano men pregiati in Francia che in Italia. Ma basti così di questa non inutile digressione, e torniamo alla storia.
Notizie di Claudio Achillini e Girolamo PretiVII. Si rendevano nello stesso tempo in Italia onori ed applausi al Chiabrera, si rendevano onori ed applausi al Marini. E ciò non ostante pochi seguaci ebbe il primo, molti ne ebbe il secondo. Io penso che ciò avvenisse per la stessa ragione per cui più facil riesce a un pittore il ritrarre una ridicola caricatura, che una esatta e proporzionata bellezza. A imitare il Chiabrera richiedevasi vivo ingegno, fervida fantasia, ampia erudizione, forza di sentimenti, maestà d’espressione, sceltezza di voci. A imitare in qualche modo il Marini, bastava abbandonare le redini alla fantasia, e senza studiar la natura, lasciarsi trasportare dalla immaginazione, ovunque ella sconsigliatamente TERZO 6.75
guidasse. La turba ignorante, che è sempre il
maggiore numero, tanto più leva alte le voci
di applauso, quanto più è gigantesco l’oggetto
che le vien posto innanzi; nè molto si cura che
vi manchi ogni verosimiglianza e ogni esatta
proporzione. Ecco per qual ragione, s’io non
m’inganno, tanti si lasciaron sedurre dallo stil
Marinesco, sì pochi presero ad imitare il Chiabrera. Ma fra coloro che il seguirono più d’appresso, e quasi gareggiaron con lui nel farsi capi
di nuova scuola, di due soli che furono allor
rinomati singolarmente, io dirò qui in breve,
di Claudio Achillini e di Girolamo Preti (a).
Auicndue bolognesi di patria, amendue furono
giureconsulti, e il primo per lungo tempo, anzi
per quasi tutta la sua vita , tenne scuola di
questa scienza in Bologna, in Ferrara, in Parma,
nella qual ultima città giunse ad avere 1500
scudi d’annuo stipendio, e in ogni luogo ebbe
concorso affollatissimo di scolari. Fu caro al
Cardinal Alessandro Ludovisi , e il seguì con
carattere d’auditore in Piemonte, e poichè quegli fu eletto pontefice nel 1621 col nome di
Gregorio XV, volò a Roma, sperandone grandi
cose. Ma le sue speranza venner deluse, ed egli
tornossene colle mani vuote a Bologna. Miglior
fortuna trovò egli alla corte di Francia. Perciocchè avendo mandato al Cardinal di Richelieu.
non già, come scrivono alcuni, il famoso sonetto che incomincia: Sudate, o fuochi, a
(a) Notizie ancora più esatte della vita c delle opere
dell Achillini e del Preti ci ha poi date il sig. conte
Giovanni Fantuzzi ne’ suoi Scrittori bolognesi. G’jG LIBRO
preparar metalli, ma una canzone sulla nascita
del Delfino , come pruova il conte Mazzucchelli
(Scritt. ital. t.1, par. 1, p. 104, ec.) che un esatto
articolo ci ha dato intorno a questo poeta,
quel cardinale gli inviò in dono una collana d’oro
del valor, come dicesi, di mille scudi (a). Gli
ultimi anni della sua vita passò l’Achillini in
una sua villa detta il Sasso, e ivi in età di
sessantasei anni finì di vivere al primo di ottobre del i(34o. Le lodi con cui il veggiamo
onorato da quasi tutti gli scrittori di que’ tempi , son pruova del gusto che allor regnava:
e mi spiace di vedere tra gli ammiratori dell’Achillini anche il Cardinal Bentivoglio, che il
fu ancor del Marini. Ma gli elogi allor ricevuti
son ben compensati dall1 abbandono in cui or
se ne giacciono le opere. Di queste ci dà il catalogo il suddetto scrittore, e quasi tutte appartengono alla poesia italiana, niuna ve n’ha
in cui tratti della giurisprudenza, che fu pure
l’ordinaria sua professione, per cui anche fu
applauditissimo. Girolamo Preti, di cui abbiamo
l’elogio nelle Memorie de’ Gelati (p. iy3), e
(a) Poco esatto è sialo il sig. aliate Arteaga nel ragionare di questo fatto, perciocché parlando di Luigi XIV, dice: la munificenza di un Sovrano che pagava con quattordici mila scudi un pessimo Sonctlo di
Claudio A chi/lini (Rivoluz. del Teatro music. ital. t. ,
p. 16). Non fu Luigi XIV, ma il Cardinal «li Richelieu
a nome di Luigi XIII, die premiò 1’Achillini. Non li»
un sonetto, ma la canzone da me qui accennata, che gli
ottenne quel premio. 1£ il premio non fu del valore di
quattordicimila, ma solo, come diccsi comunemente,
di mille scudi. TF.RZO 677
in quelle degl’Incogniti (p. 227), figliuol di
Alessandro cavaliere di S. Stefano, fu, ancor
fanciullo, inviato paggio a Ferrara nella corte
del duca Alfonso II, e coltivò singolarmente lo
studio della giurisprudenza. Fu poscia in Genova presso il principe Doria, di cui suo padre era cavallerizzo, c tornalo indi a Bologna,
e annoiatosi presto del severo studio delle leggi,
tutto si diè alla volgar poesia e all’imitazione
del Marini e dell’Achillini. Fu per qualche tempo
in corte del Cardinal Pio Emanuele di Savoia,
e passò poscia a quella del Cardinal Francesco
Barberini, con cui mentre viaggia per mare in
Ispagna, sorpreso da febbre, in età ancor fresca morì in Barcellona a’ 6 di aprile del i(ìa(3.
Non molte sono le Poesie che se ne hanno alle
stampe, perchè non molti furon gli anni ch’ei
visse. Ma nulla avrebbe perduto la poesia italiana, se niuna ne fosse fino a noi giunta; così
son esse scipite, e piene solo di quelle metafore e di quo1 ghiribizzi che allora si rimiravano
come portenti d’ingegno.
Vili. Benché la maggior parte degl’italiani vi»,
poeti andasse follemente perduta dietro lo slil n0
del Marini e de’ suoi ampollosi seguaci, alenili j!
nondimeno possiamo indicarne che tenendosi «<•
sul buon sentiero, non vollero traviarne, e se
non ebber coraggio di opporsi all’uso e allo
stile comune, il seguiron però assai più parcamente, e si sforzarono di compensare con
nuovi pregi quegli stessi difetti ne’ quali quasi
lor malgrado cadevano. Fra essi è degno di
distinta menzione il conte Fulvio Testi. celebre non men per gli onori a cui giunse, che 678 ’unno
per le sventure dalle quali essi furon seguiti.
Io non mi tratterò qui a esporre le diverse
vicende, delle quali io dovrei dare o un troppo
inesatto compendio, o una troppo ampia relazione, trattandosi di un uomo che quanto più
merita d’essere conosciuto, tanto più sembra
che la memoria ne sia stata finora dimenticata
e negletta. Nella Biblioteca modenese ne parlerò
a lungo, e la gran copia de’ bei monumenti
che mi è riuscito di raccoglierne, spero che
renderà quell’articolo curioso e interessante sopra tutti gli altri (a). Qui basti il dire ch’egli,
nato in Ferrara nel i5c)3 in mediocre fortuna,
e trasportato a Modena ancor fanciullo nel 1598,
andò passo passo salendo alle più cospicue cariche di questa corte, e fu ancora onorato degli ordini equestri de’ SS. Maurizio e Lazzero
e di S. Jago; che la vita del Testi fu un continuo alternare di prospera e di avversa fortuna,
e che finalmente la sua ambizione e la sua incostanza medesima il fece cadere in disgrazia
al duca Francesco I, per cui comando, fatto
prigione in questa cittadella di Modena a’ 27
di gennaio del 1646, ivi finì di vivere a’ 28
d’agosto dell’anno stesso. Egli ne’ primi anni
e nel bollore della fervida gioventù si lasciò
trasportar dal torrente; e le Poesie da lui allor pubblicate sanno non poco de’ difetti del
(a) Non solo nella biblioteca modenese ho parlato più
a lungo del co. Fulvio Testi (t. 5, />. 2^41 ec-) » ,,,a
ne tio anche pubblicata a parie la \ ita stampata nel 17^0,
in cui le cose che a questo celebre poeta c infelice
ministro appartengono, sono più ampiamente spiegate. TEHZO \ Gyi)
secolo. Conobbe ei poscia di aver traviato dal
buon sentiero, e si studiò di tornarvi. Ma parve
che non avesse coraggio di opporsi egli solo
al gusto che allor dominava, e poche sono le
sue canzoni in cui qualche traccia non se ne
veda. Alcune di esse però, per elevatezza di
pensieri e per leggiadria d’immagini, possono
stare al confronto di quelle de’ migliori poeti.
E nelle altre ancora s’egli non è del tutto
esente da’ difetti del secolo, ha però comunemente un’energia e una forza talmente poetica,
che se ad esse fossero uguali quelle di molti
altri poeti, essi non giacerebbero ora del tutto
dimenticati. Ei volle provarsi ancora nello stil
tragico coll1 Arsinda e coll Jsala d Alcina; ma
pare ch’ei non sapesse dimenticare lo stil lirico anche scrivendo tragedie, che pur vogliono
avere il lor proprio.
IX. Guido Casoni natio di Serravalle nella
Marca Trivigiana, e uno de’ fondatori della seconda Accademia veneziana, da noi mentovata
nella storia del secolo precedente , Lelio Guidiccioni lucchese, di cui abbiamo ancora la
traduzione dell’Eneide di Virgilio in versi sciolti, e di cui un non breve elogio ci ha lasciato
l’Eritreo (Pinacoth. pars 2, n. 11). Porfirio
Feliciano da Gualdo di Nocera , lodato dallo
stesso scrittore (ib. pars 1,p. 133), sono poeti
che, benchè non poco contraessero delle macchie de’ loro tempi, mostrarono nondimeno
che in età più felice sarebbono stati tra’ più
felici. Tra’ più illustri ancora avrebbe potuto
aver luogo monsignor Giovanni Ciampoli nato
in 1 oscana di bassa famiglia, e pel suo raro
IX.
S» nominano pi il aitai porli.
/ 68o Linno
ingegno giunto a ragguardevoli dignità in Roma.
Ma un’intollerabil superbia che gli faceva rimirar con disprezzo quanti erano stati innanzi
a lui valorosi poeti, senza far grazia nè a Virgilio , nè ad Orazio, nè al Petrarca, e per cui
gonfio degli applausi che gli veniano fatti, giunse
a sdegnarsi di rendere il saluto a che gli pareva non degno di esser da lui rimirato, come
gli fece poi perder la grazia di Urbano VIII,
e il costrinse ad uscire di Roma, e ad appagarsi del governo di Jesi, ove morì nel 1643,
così gli fece talmente gonfiar lo stile, che non
v’ebbe mai simbolo che più al vivo esprimesse
la rana emulatrice del bue. Di lui parlano più
a lungo il suddetto Eritreo (ib), pars 3, n. 19)
e il Cardinal Bentivoglio (Mem, l.1, c. 7) (a).
Miglior uso del suo ingegno fece Alessandro
Adimari fiorentino, morto in età di settanta
anni nel 1649; perciocchè, comunque egli ancora nelle molte sue opere, che si annoverano
dal co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t 1, par. 1,
p. 139, ec.), seguisse l’esempio della maggior
parte degli altri poeti, nella traduzion di Pindaro nondimeno usò di uno stile molto migliore, e se non potè adeguare perfettamente l’energia e la forza di quel gran poeta, l’espresse
nondimeno con lodevole felicità, e ne illustrò
(a) Altre più minute notizie intorno n monsignor
Ciampoli, a cui lode non dee tacersi che fu in Koma
uno de’ difensori del Galileo, si posson vedere nell’opera altre \olte citata dpi dottor Giovanni Targioni
Tozzetti (Aggrandìmenti, ec. t. 1, p. 81, ec. j t. 1,
par. 1, p. 102). TEBZO 08I
ancora In Poesie con dotte annotazioni, frutto
del molto eli’ ci sapea nella lingua greca. Anche Lodovico Adi mari, che visse alquanto più
tardi fino al 1691, fu colto ed elegante poeta,
e ne ò in pregio singolarmente, oltre più altre
poesie, la traduzione de’ Salmi penitenziali (ivi,
p. 142). Il gran Galileo non isdegnossi di toccare la cetra , come a suo luogo si è detto,
e toccolla felicemente, e buon poeta ancora fu
Vincenzo figliuol di lui naturale (V. Salvini, Fasti consol. p. 438,- Codici mss. della Libr. Nani
p. La Sicilia ancora produsse un leggiadro scrittore di canzonette anacreontiche, cioè
Francesco Balducci palermitano, il quale, se
negli altri generi di poesia non fu punto meno
vizioso de’ suoi coetanei, in questo li superò
di modo, che il Crescimbeni afferma (Stor.
della volg. Poes. p. ifìi) eli’ ci non cede ad
alcuno de’ più accreditati poeti. Le sue diverse,
vicende concorsero a renderlo ancora più rinomato. Da varie sventure costretto ad abbandonare la patria, passò in Italia, indi, arrolatosi nelle truppe, in Allemagna. Quindi tornato
a Roma , ebbe ivi quasi sempre stabil soggiorno, nè gli mancarono onori e premii. Ma egli
uomo di umor bisbetico e facile all’ira, e oltre
ciò prodigo scialacquatore, cambiò spesso padrone, nè mai trovò con chi fosse pienamente
contento j si rendette famoso per l’intrudersi
che facea alle mense de’ gran signori; e di esse
ancora annoiato, si diè per compagno di tavola ad un barbiere che, non soffrendone la
petulanza, cacciossel di casa} fu prigione pe’
debiti, e fu più volle malconcio di bastonale 682 libro
Per modo, che a gran pena salvonne la vita,
inalmente prese gli ordini sacri, e finì di vivere nello spedale della Basilica Lateranense
nel 1642. Intorno alle quali vicende di questo
non men capriccioso che ingegnoso poeta veggansi il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 1,
p. i5cf) e gli altri scrittori da lui citati. Tre
valorosi poeti ebbe anche il regno di Napoli.
Il primo fu Salvador Pasqualoni, detto per errore Baldassarre dal Crescimbeni (comment.
della volg. Poes. t. 2 , par. 2, p. 292) e dal
Quadrio di lui copiatore. Egli era nato in Acumulo città del regno di Napoli nella provincia
dell’Aquila, e venuto a Roma nel 1602 , vi ebbe
la cittadinanza romana, e nel diploma perciò
speditogli egli è detto dottor di leggi. Le Rime
da lui pubblicate in Napoli nel 1620 (nel qual
tempo non è possibile ch’egli avesse soli Irent’anni, come ha detto il Crescimbeni, poichè
nel 1C02 già era dottore) son tali che si possono paragonare con quelle de’ più leggiadri
scrittori del secolo xvi, ed egli stesso protestasi nella prefazione di aver presi a sua guida
i migliori maestri, e non già quelli che al suo
tempo tanto si celebravano. Egli è annoverato
dal marchese Manso tra gli amici che ebbe in
Napoli il Tasso, e detto da lui intendentis si ino
della Poesia non meno che delle Leggi. Delle
quali notizie intorno a questo illustre poeta, e
de’ monumenti qui accennati, io son debitore
all’ornatissimo sig. Pietro Pasqualoni che cortesemente da Roma me le ha trasmesse. Il secondo fu natio di Castel d’Abrigliano presso
Cosenza, cioè Pirro Schettini canonico della TERZO G83
della città, e morto nel 1678 in età ili quaraiitott’aiini, il quale, benchè al principio traviasse seguendo il Marini, si rimise poscia felicemente sul buon sentiero (Spiriti, Scritt. cosent.
p. 157). Il terzo era nato in /11 ghiera nell’isola
di Sardegna, ma visse lungamente in Napoli,
ove anche chiuse i suoi giorni nel 1670 in età
di quarantanove anni, cioè Carlo Buragna, a
cui principalmente si attribuisce il tornar che
fece in quel regno la volgar poesia all’antica
eleganza, da cui gli adoratori del Marini tanto
l’aveano allontanata (Mazzucch. l. cit. t. 2, par. 4,
p. 2422) (*).
X. Tra’ poeti che furono più ritenuti nel se- f
guire il reo gusto delletù loro, si annovera dal lion.le’ OHCrescimbeni (CommenL t. 2, par. 2, p. 3o6) ‘ " "
e dal Quadrio (t. 2, p. 3ot)) Giambatista Lalli
nato in Norcia nel 1072. Benché la poesia italiana nc fosse Ja più dilettevole occupazione,
non lasciò nondimeno di coltivare i più gravi
studi, e quello della giurisprudenza principalmente , e perciò fu adoperato in diversi governi
dalla corte di Parma e da quella di Roma j e
(*) A’ valorosi poeti usciti dal regno di Napoli nel
secolo xvii, dee aggiugnersi Bartolommeo Nappini calabrese autor poco noto in addietro , perchè avendo
egli in Roma, ove vivea , voluto sostenere l’Accademia
degl Infecondi rontro la nascente Arcadia, il Crescimbeni perciò sdegnato non volle farne menzione alcuna
nella sua Storia , e quindi anche il (Quadrio non ne ha
parlato. Le Poesie ne furono stampate in Guastalla negli
anni 1769 e 1770, e poi riprodotte in Londra dal siguor
Baretti nel 1780, ed esse sono in istil pedantesco, nel
quale egli ha molta grazia e felicità. L’autore morì in
Roma in età di oltre ad ottantanni nel 1717. G84 Limo
in essi egli ottenne non solo la stima di tutti
pel suo sapere , ma ancor l’amore per le sue
dolci maniere e per l’amabile tratto. Ritiro.ssi
poscia in patria, ove venne a morte nel 1637.
Le Poesie serie da lui composte, fra le quali
abbiamo un poema sulla distruzione di Gerusalemme , gli han dato luogo tra’ buoni poeti di
questo secolo. Ma più felice disposizione avea
egli sortita dalla natura alla scherzevole poesia,
e le sue Pistole giocose , i suoi burleschi poemi
intitolati la Moscheide e la Franceide son tra’
migliori di questo genere. Egli volle ancora ridurre in istile burlesco alcune rime del Petrarca
c i Eneide di Virgilio; e se è possibile che serii
e gravi componimenti piacciano ancor travestiti in tal modo, niuno poteva ottenerlo meglio del Lalli, a cui non mancava nè quella
scherzevole fantasia, nè quella facilità di verseggiare che a ciò principalmente richiedesi,
e sol si vorrebbe che alquanto più colta ne
fosse la locuzione. Del Lalli abbiamo un onorevole elogio presso l’Eritreo (Pinacoth. pars 1,
p. 130). Un’altra traduzion dell’Eneide in ottava rima, e in uno stile più confacente alla
dignità dell’argomento, pubblicò nel 1680 in
Lucca sua patria il P. Bartolommeo Beverini
della Congregazione della Madre di Dio, uomo
assai dotto , e uno de’ più colti scrittori così
nell’italiana poesia, come nella latina, che avesse
il secolo di cui parliamo, e che sarebbe degno
che qui ne parlassimo distesamente, se il conte
Mazzucchelli, col darci un esatto articolo della
vita di esso e un minuto catalogo di tutte le
opere da lui composte (l. cit. t. 2, par. 2, TERZO 685
p. uo3), non ci avesse già prevenuti. E lo
stesso poema ci dieder tradotto il P. Ignazio
Angelucci da Belforte Gesuita, sotto il nome
del suo parente Teodoro [a) , e Pier Antonio
Carrara bergamasco (b). Nè deesi qui tacere la
traduzione di Orazio di Loreto Mattei natio di
Rieti, uno de’ primi Arcadi, e morto in Roma
in età di oltantatrè anni nel 1705. Se ne ha la
Vita tra quelle degli Arcadi illustri, ed egli è
ancor noto per la sua versione de’ Salmi e per
(tf) Nella Biblioteca Picena {t. 1, p. i5a) si nega che
la version di Virgilio sia del 1*. Ignazio Angelucci, e
si dice che l’originale che ne avea il Zeno , mostra
eh’essa fu veramente opera di Teodoro. Ma il Zeno
(Note al Fontan. t. 1, p. 277) riporta il detto del SoInello che fa autore della versione il 1*. Ignazio, e non
dice parola per impugnarlo.
{!>) Il Carrara, che è anche autore di ini poema ms.
in ottava rima intitolalo La maschera dell’odio e delP amore, di cui più copie conservami in Bergamo,
era natio di Nese terra poco distante ila quella città.
Mi si permetta l’aver rilevato questa minutezza per
osservare clic non sol le città, ma anche alcune delle
picriole terre del loro distretto esistevano fin da’ tempi
della Repubblica, o dell’Impero romano. Cosi ci mostra
la seguente, benché mancante c guasta, iscrizione,
die era già incastrata nel campanile di quella terra,
e che or conservasi presso il sig. Giuseppe Beltratnelli, e in cui si nominano gli Anesiati , cioè gli abitanti di Anese o JN’ese. Le parole che ce uc* sou rimaste , son queste:
... RAE COI
QVI VICANIS 11.. O...
ANEMAT1BVS PRÀTV..
«VAI. LOSCJAN. V1VV..
PED1T EX CV1VS.. ED G86 LIBRO
altro poesie, nelle quali avrebbe anche ottenuto
più chiara fama, se più colto e purgato ne fosse
lo stile. Anche Claudiano ebbe un traduttore
in ottava rima, per questi tempi non dispregevole, in Niccolò Biffi nobile bergamasco, la
cui traduzione, insieme co’ comenti latini ch’egli
vi aggiunse, fu stampata in Milano nel 16&4.
Di lui, e di altre cose che se ne hanno alle
stampe , parla il co. Mazzucchelli (Scritt. ital.
t. 2, par. 2, p. 1216). Il più celebre tra’ traduttori degli antichi poeti fu Alessandro Marchetti, che in età giovanile avea intrapresa un’altra version <lc\Y E/icìde in ottava rima, la quale
avrebbe probabilmente fatto dimenticare quella
del Beverini, ma egli non si avanzò oltre al
quarto libro, e questa parte ancora non è mai
stata stampata, trattine alcuni frammenti inseriti nel Giornale de’ Letterati d’Italia (t. 21).
Più che a questa versione, dee il Marchetti la
fama di cui ora gode , e goderà sempre fra’
dotti, alla bella sua traduzione in versi sciolti
del poema di Lucrezio, per cui assai più che
per le sue opere filosofiche e matematiche egli
è rinomato. Di questo illustre scrittore, dopo
più altri, ci ha data di fresco la Vita il chiarissimo monsignor Fabbroni (Vita Italor. doctr.
excell. dec. 4? p 421) 1 dalla quale trarremo in breve le più importanti notizie. Pontormo, castello celebre nel territorio fiorentino
per altri dotti uomini che ne sono usciti, fu
la patria di Alessandro, che ivi nacque nel 1632.
Fu prima applicato alla mercatura, indi alla
giurisprudenza, ma nè l’una nè l’altra piacevano al giovane Marchetti, che tutto sentivasi TERZO O87
trasportar verso la poesia. Inviato all’università
di Pisa, congiunse agli studi poetici i filosofici
e i matematici sotto la direzione principalmente
del famoso Borelli, che facea gravide stiina delf ingegno di questo suo scolaro. Fu ivi promosso alla cattedra della logica e della filosofia. e giovò non poco a sbandire da quelle
scuole gli avanzi della barbarie peripatetica che
tuttora vi dominava. Nel 1669) pubblicò la sua
opera De Resistenti a solidorum , e parlando del
Viviani, abbiamo accennati i contrasti che perciò sorser tra essi. Avverte monsignor Fabbroni
che nacque allora sospetto che quell’opera, almeno in gran parte, fosse del Borelli; ma aggiugne che il Marchetti avea abbastanza di
sapere e d’ingegno per esserne egli stesso l’autore, e che non mancano monumenti a provare ch’egli il fu veramente. E tanto solo mi
basti aver detto su questa contesa, su cui più
ancora che non bisognava si è scritto negli
anni addietro; e perciò anche io lascerò di parlare delle altre opere matematiche del Marchetti , che non gli ottennero ugual nome, e delle
altre contese ch’egli ebbe collo stesso Viviani,
e poi col P. abate Grandi, le quali più utili
sarebbono riuscite alla repubblica letteraria, se
fossero state più pacifiche e più modeste. Mentre il Marchetti occupavasi in questi serii argomenti, quasi a sollievo delle sue gravi fatiche , si diè a tradurre Lucrezio, e condusse
felicemente a termine il suo lavoro. Ei volle
farne la dedica al gran duca Cosimo III; ma
quel pio sovrano, avendo in orrore le empie
Tiaaboschi , Voi. XV. 10 1
G88 unno
massime di cpiel poeta epicureo, e mal volentieri veggendo che il Marchetti invece di confutarle, sembrasse anzi che le avesse poste in
più chiara luce, nè volle accettarne la dedica,
nè mai permise che quella traduzion si stampasse. Corse ella dunque manoscritta per le mani
di molti, finchè per opera di Paolo Rolli fu
stampata la prima volta in Londra nel 1717.
Chiunque ha l’idea del buon gusto, non può
negare che poche opere abbia la volgar poesia,
e niuna forse tra le traduzioni degli antichi
poeti latini, che a questa possa paragonarsi;
tale ne è la chiarezza, la maestà, l’eleganza,
e così bene riunisce in sè tutti i pregi che a
render perfetti cotai lavori richieggonsi. Abbiamo
altrove accennata (t 1, p. 163, ec.) la severa
critica che inutilmente ne ha fatta l’abate Lazzarini, il quale invano ha preteso di combattere il comun sentimento de’ dotti. Il Marchetti, forse per far conoscere ch’egli era ben lungi
dall1 adottar come suoi i principii e le massime
di Lucrezio, si accinse a scrivere un altro poema
filosofico di più sana morale, ma presto se ne
stancò, e solo qualche frammento ce n’è rimasto nell’accennato Giornale. Ne abbiamo ancora
molte altre poesie italiane, e fra esse la traduzione di Anacreonte , che, benchè da lui latta ■ ’
in età avanzata , è la migliore che in quel secolo venisse a luce. Sul finir della vita ritirossi
a Pontormo, e ivi venne a’ morte a’ 6 di settembre del 1714.
1 t’ ni Benché molti de’ poeti da noi finor 110*on» minati non fosser toscani, convien confessare
nondimeno che quella fu la provincia in cui r
TERZO G8<)
l’universale contagio, che sì granile strage menò
nelle altre parti il Italia, più lentamente si sparse, e vi fece men funesti progressi. Oltre quelli
da noi già indicati, ivi fra gli altri fiorirono il
Redi e il Magalotti, dei quali già abbiam parlato trattando de’ più gravi studi in cui essi
occuparonsi principalmente. Le poesie del Redi
sono per grazia e per eleganza vaghissime, ma
sopra ogni cosa è stimato il suo Bacco in
Toscana , ditirambo a cui non si era ancora
veduto l’uguale, e forse non sì è poscia ancora
veduto (a). Il Magalotti seguì dapprima egli pure
il più battuto sentiero, ma poscia se ne ritrasse;
e benchè a quando a quando si vegga in lui
qualche avanzo dell’antico costume, egli è poeta
nondimeno, singolarmente in ciò che è immaginazione ed energia, da stare a confronto co’
più illustri. « Nè è perciò a stupire ch’ei tanto
pregiasse e lodasse Dante, come fa sovente
nelle sue Lettere, dalle quali anzi raccogliesi
eli egli avea preso a illustrarlo con un nuovo
Comento, di cui già avea compiti i primi cinque capi dell’Inferno, come egli scrive a’ 12 di
gennaio del 16(35 a Ottavio Falconieri Lettere
famigl. t. 1, p. 107). In esse fa ancor menzione
di un altro grande ammiratore di Dante, cioè
di Francesco Ridolfi, di cui di fatto tra quelle
del Magalotti è una bellissima lettera in lode
(</) Negli Elogi degl’illustri Pisani si è riprodotto il
Ditirambo di Uonavita Capezzali, pubblicato un anno
prima «Iella nascita del Redi, e si è osservato die «pienti si è in più luoghi giovato delle espressioni c delle
immagini del poeta pisano (Moir.un. (Pili. Pisani, t. 3,
P• d 13, ec.).
ti di t|Uc*lo
secolo.
di quel sommo poeta„. Anche Lorenzo Bellini,
da noi già lodato per le sue celebri opere anatomiche e mediche, coltivò con felice successo
la poesia, e, oltre più altre rime, la sua Bucchereide dimostra che se alle Muse ei si fosse
interamente rivolto, avrebbe avuto luogo tra’
più illustri loro seguaci. “Francesco Baldovini
sacerdote fiorentino, morto nel 1716 in età di
ottantadue anni, pubblicò nel 1694 il Lamento di Cecco da Varlungo, riprodotto poscia nel 1755
colle note di Orazio Marrini, componimento
giocoso contadinesco, e uno de’ migliori in tal
genere che abbia la volgar nostra lingua. Di
altre sue Poesie altre stampate, altre inedite, si
può vedere il co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2,
par. 1 p. 157, ec.), e la Vita che del Baldovini ha scritta il sig. Domenico Maria Manni,
e che è premessa alla sopraccitata seconda edizione. Anche Girolamo Leopardi fiorentino fin
dal principio del secolo fu non infelice scrittore
di poesie giocose„. Antonio Malatesti fiorentino, morto nel 1672, oltre diverse rime, fu
autore De’ Brindisi de’ Ciclopi, componimenti
in quel genere pregiatissimi; e leggiadri ancor
ne sono gli Enimmi, che volgarmente diconsi
indovinelli. Ne’ sonetti anacreontici esercitossi
con molta felicità fin dagli ultimi anni del secolo precedente il P. Antonio Tommasi lucchese
della Congregazione della Madre di Dio, che
continuò poscia ancor per più anni a darci
pruove de’ poetici suoi talenti.
Elogio del senator Filicaia
XII. Ma fra molti Toscani a’ quali la poesia italiana dee o l’aver conservata la sua natia eleganza, o l’averla presto ricuperata, due Tf
TERZO 6()I
principalmente son degni di onorata menzione,
j| senator V incenzo da Filicaia e il canonico
Renedetto Menzini, de1 quali amendue abbiati)
le V ite tra quelle degli Arcadi illustri, e tra
quelle scritte da monsig. Fabro ili {PTitae Jtalor.
I 7, p. 2B4, ec’j ec.). Vincenzo, nato in
Firenze a’ 30 di dicembre del 1642 dal senator Braccio e da Caterina Spini, fino da’
primi anni e alle pubbliche scuole della sua
patria c all1 università di Pisa diè grandi pruove
di un raro talento, di un1 insaziabile avidità
di studiare, e insieme di una fervente pietà,
che accompagnollo poscia nel decorso tutto
della sua vita. In età di trentun anni prese a
sua moglie Anna Capponi, e continuò ciò non
ostante a vivere lungamente in un tranquillo ritiro , dividendo il tempo tra gli studi della
poesia, tra’ doveri del padre di famiglia, e
tra gli esercizii della Religione. Lontano da ogni
jattanza , appena ardiva di mostrare le sue poesie ad alcuni pochi amici, perchè essi le disaminassero severamente. Ma le belle Canzoni
da lui composte in occasion deli1 assedio di
Vienna quasi suo malgrado il renderono famoso
al mondo, e le lettere a lui scritte dalfimperador Leopoldo, dal re di Polonia e dal duca
di Lorena fanno conoscere qual esse destassero
maraviglia in ogni parte d1 Europa. La reina di
Svezia ne fu ella ancora così rapita, che ne
scrisse al Filicaia, congratulandosi*, e avendo
poscia da lui avuta la magnifica canzone in sua
lode, il ricolmò di onori, lo ascrisse, benchè
assente, alla sua Accademia, e volle incaricarsi
di mantenerne i figli , come fossero suoi, e il Cxj2 LIBRO
fece, finché ebbe vita , coniandando perù ,\
Vincenzo di non palesare questo suo beneficio , perchè, dicea ella , sarebbesi vergognata
se si fosse saputo che sì poco ella facea per
un uomo sì grande. Dal gran duca onorato della
carica di senatore, fu anche impiegato ne’ governi di Volterra e di Pisa, nell’impiego di
segretario delle Tratte, e in altri cospicui magistrati; e in tutti ei soddisfece sì esattamente
a’ suoi doveri, che insiem colla grazia del principe ottenne non solo la stima , ma f amore
ancora e la tenerezza de’ popoli, che il rimiravano come lor padre , e che nell1 amore della
giustizia, nella soavità del tratto, nella compassione verso gf infelici, e in tutte le altre
amabili doti, di cui il senator Vincenzo era
mirabilmente adorno, trovavano il più dolce
sollievo ne’ lor bisogni. Così amato e stimato
da’ grandi non men che da’ piccioli, e caro a
Dio ugualmente che agli uomini, visse il senatore da Filicaia fino all1 anno scssanlncinque
dell1 età sua, e a’" 25 di settembre del 1707
chiuse co’ più sinceri contrassegni di una fervente pietà i suoi giorni, pianto non solo da’
suoi concittadini, ma da quanti erano allora
in Europa amanti delle buone lettere e della
toscana poesia. E ne fu egli infatti uno de’
principali ornamenti. Nelle canzoni non meno
che ne’ sonetti egli è sublime, vivace, energico, maestoso, e in ciò che è forza di sentimenti e gravità di stile, non ha forse chi il
suj eri. Se ne hanno ancora alle stampe Poesie
latine, scritte esse ancora con eleganza, e qualche orazione e alcune lettere inserite nelle
Prose fiorentine. TEBZO Gt)3
Xin. Il Menzini ancora ebbe per patria Firenze, e vi nacque di poveri genitori a’ 29 di
marzo del 1646. A dispetto della sua povertà
volle coltivare gli studi, e sì nelle pubbliche
scuole, come nelle letterarie adunanze, alle quali
presto cominciò a intervenire, fece concepir
di se stesso sì liete speranze, che il marchese
Gianvincenzo Salviati sel prese amorevolmente
in casa , e gli diè agio di coltivare i suoi talenti. Fu poi destinato in età ancor giovanile
ad essere pubblico professore d’eloquenza in
Firenze e in Prato, e in più occasioni ei fece
conoscere quanto bene ei possedesse quell’arte
che agli altri insegnava. Bramò egli di esser
promosso a qualche cattedra nell1 università di
Pisa; ma poichè vide, non ostante la protezione
e l’amore di molti ragguardevoli personaggi,
di cui godea, deluse le sue speranze, sdegnato, abbandonò la patria, e sovvenuto di
denaro dalla gran duchessa Vittoria dalla Rovere, nel 1685 andossene a Roma, ove, per
opera del Cardinal Decio Azolini, la reina di
Svezia il prese al suo servigio, e lo ammise alla
celebre sua Accademia. Lieto il Menzini della
sua sorte, attese più tranquillamente a’ suoi
studi, e furono questi gli anni ne’ quali scrisse
la maggior parte delle sue poesie. Ma non
durò molto la sua fortuna , e morta nel 1689
quella gran protettrice de’ dotti, il Menzini
trovossi povero e disagiato. Paolo Falconieri
splendido cavaliere , che ivi vivea , il Cardinal
Corsini e monsig. Alessandro Falconieri, poi
cardinale , furono i soli da’ quali ebbe allora
il Manzini qualche soccorso, ed ei fu costretto
XIIIDi
dello Melinini. 694 LIBRO
per vivere a prestare il suo ingegno e le sue
fatiche ad altri, componendo ciò che gli veniva richiesto; e volsi che giugnesse a dettare
un intero Quaresimale ad uno che volendo comparire eloquente oratore, non avea altro mezzo
per ottenerlo che la sua borsa. Nel 1691 ,il
Cardinal Ragotzchi primate della Polonia invitollo ad andar seco in quel regno col carattere
di suo segretario *, ma non avendo ei voluto
lasciar l’Italia, trovò finalmente nel Cardinal
Gianfrancesco Albani, che fu poi Clemente XI,
un amorevole protettore che gli ottenne dal pontefice Innocenzo XII un luogo tra’ suoi famigliari e un canonicato nella chiesa di S. Angelo
in Pescheria, e oltre ciò nel 1701 fu nominato
coadiutore nella cattedra d’eloquenza nella Sapienza di Roma del canonico Michele Brugueres, a cui le sue malattie non permettevano
più di sostener quell’impiego. Ma poco tempo
il sostenne anche il Menzini; che a’ 7 di settembre del 1708, in età di cinquantauove anni , finì di vivere. Appena vi ebbe genere di
poesia italiana, in cui il Menzini non si esercitasse. Le sue Canzoni pindariche non hanno
quella elevatezza d’idee, nè quella rapidità
di voli che si ammira nel Chiabrera e nel
Filicaia; ma hanno esse nondimeno e condotta ed estro ed eleganza che le rende degne di aver luogo tra le migliori. Nelle Canzoni anacreontiche, ne’ Sonetti pastorali, nelle
Elegie, negl1 Inni sacri egli ha pochi che il pareggino , forse niuno che il superi: così vedesi
in questi componimenti tutto il gusto e tutta
le delicatezza de’ Greci. La sua Poetica in terza TERZO (x)5
rima, e per 1’eleganza dello stile c per l’utilità ile’ precetti, ò una delle più pregevoli che
abbia la nostra lingua. Nelle Satire italiane ei non
ha chi gli possa stare al confronto; e solo ad
esse si accostano quelle di Lodovico Adimari,
da noi nominato poc’anzi, e più da lungi quelle
di Salvator Rosa poeta e pittore napoletano,
e più celebre per la pittura che per la poesia,
morto in Roma nel 1675. Ei volle ancora provarsi nel genere epico, e intraprese un poema
sul Paradiso terrestre, ma ne scrisse tre libri soli,
i quali benchè abbian più tratti degni del loro
autore, ci mostran però, eli’ egli era più felice ne’ brevi componimenti, clic in que’ che
richieggono lungo lavoro. La sua Accademia tuscolana è un’imitazion dell’Arcadia del Sannazzaro, tale però, che è appunto come una copia , per altro di molto pregio , in confronto
al suo originale. Ei fu per ultimo scrittore elegante anche in latino, come ci scuoprono le
molte cose da lui in quella lingua scritte sì in
prosa che in verso. Tutte le opere di questo
valoroso poeta sono state insieme riunite, e in
quattro tomi stampate in Firenze nel 1731.
XIV. Mentre il Menzini faceva ammirare a
Roma i poetici suoi talenti, più altri valorosi
poeti erano ivi raccolti, che sotto la protezione della reina Cristina, e poscia del pontefice Clemente XI, faceano risorgere all’antico
suo vanto la volgar poesia, e la vendicavano
dagli oltraggi che il reo gusto di più altri
poeti le avea recato. Molti potrei io qui indicarne; ma perchè non debbo ragionar di coloro che vissero ancora non pochi anni del
XIV.
Porli prolriti dal la retila (‘.rittili*: Alr>’W
dro Guidi. GijG LIBRO
nostro secolo, a due soli mi ristringo, cioè ad
Alessandro Guidi, e all1 avvocalo GiumbntisUi
Felice Zappi. Del primo, oltre agli scrittori,
ci ha data la Vita il più volte lodato monsignor
Fabroni (/ it. Jtalor ec. dec. 3, p. 223, ec.).
Nato in Pavia nel i(>5o , passò in età ancor
fresca a Parma, ove dal duca Ranuccio II fu
amorevolmente accolto e onorato, e ove egli,
giovane di trentun anni, pubblicò alcune sue
Poesie liriche e un dramma intitolato Amalasunta in Italia. I quali componimenti però eran
nello stile conformi al gusto allora comune. Ma
poichè da Parma passò a Roma, e dalla reina
Cristina col consenso del duca Ranuccio fu alla
sua corte fermato nel 1685, egli unitosi con
alcuni altri valorosi poeti, cospirò con essi a
fare la rivoluzione e il cambiamento totale del
gusto nella volgar poesia, e tutto diessi all1 iinitazione di Pindaro. Parve a lui che il numero
determinato de’ versi di ciascheduna stanza
nelle canzoni e la stabile collocazion delle rime
fosse troppo importuno legame a’ voli di un
ardito poeta; e perciò ebbe coraggio di scuotere il giogo, e di non astringersi ad altre leggi,
se non a quelle che il suo estro gli suggeriva,
facendo or più brevi or più lunghe le stanze,
e cambiando, come parevagli, l’ordine delle rime. Questa novità, come suole accadere, ebbe
approvatori e contraddittori, ma i secondi furono in numero maggior che i primi, e avvenne
perciò, che l’esempio del Guidi non avesse
seguaci. E forse egli avrebbe in ciò avuto sorte
migliore, se una certa alterigia pindarica, con
cui egli parlava e scriveva di se medesimo, c t rii 7,0 (ì<)7
Jjt» appariva ancor più spiacevole in un uomo,
qual egli era, di aspetto deforme, non l’avesse
remi ut o odioso e oggetto degli scherzi e delle
satire di molti, e fra gli altri del famoso Settano.
Ciò non ostante, è certo che le Poesie del Guidi
son piene di entusiasmo e di forza , e ch’egli
è uno de’ pochi che felicemente han saputo
trasfondere nell’italiana poesia l’estro e’I fuoco
di Pindaro. Per comando della reina egli scrisse
ancor l’Endimione., dramma pastorale, in cui
la stessa Cristina non si sdegnò d’inserire alcuni suoi versi. Volle ancora scrivere una tragedia, prendendone l’argomento dalle vicende
di Sofonisba; ma dissuaso dagli amici a continuar quel lavoro, per cui non parve disposto
dalla natura, si volse invece a tradurre i Salmi. Ma anche questa fatica dovette interrompere, richiamato a Pavia sua patria, e destinato
a trattare presso il principe Eugenio governatore della Lombardia la diminuzione de’ pubblici
aggravii. Nel che egli fu sì felice, che ne ebbe
in ricompensa l’onore di esser posto nel numero de’ patrizii pavesi. Tornato a Roma, diessi
a compire la traduzione già cominciata delle
Omelie di Clemente XI. Questa traduzione però
non solo non ottenne al Guidi quel frutto che
ne sperava, ma gli fu anche fatale; perciocchè
essendo essa stampata, e volendone egli offrir
copia al pontefice che allora villeggiava in Castel Gandolfo, per viaggio leggendo il suo libro, vi trovò qualche errore di stampa, di che
fu oltremodo afflitto; e giunto a Frascati, mentre ivi si trattiene, fu sorpreso da un colpo
d’apoplesa, che a’ 12 di giugno del 1712 il
tolse di vita. 6l)8 LIBRO
v. XV. Il secondo de’ due poeti or mentovati
’00,° cioè l’avvocata Zappi, ebbe a sua patria Imola
ove quella famiglia ha luogo tra le nobili, e fu
allevato in Bologna nel collegio Mori tal to, ove
nelle lettere e nelle scienze fece sì rapidi e sì
maravigliosi progressi, che in età di soli tredici
anni vi ricevette la laurea. Passò indi a Roma
per esercitarvi la profession di avvocato, in cui
si occupò finchè ebbe vita, ed ebbe in premio
del suo molto saper nelle leggi le cariche di
assessore nel tribunale dell’Agricoltura, e di fiscale in quello delle Strade. Ma lo studio prediletto del Zappi era quello della volgar poesia, nella quale sì felicemente scriveva, che i
componimenti di esso erano altamente ammirati e applauditi nelle letterarie adunanze alle
quali egli interveniva. Fu uno de’ fondatori del1 Arcadia, la quale non poco dovette a lui della
fama che presto ottenne. Frequentò ancora f Accademia de’ Concilii fondata nel collegio De Propaganda, e vi lesse più volte erudite dissertazioni su diversi argomenti di storia e disciplina
ecclesiastica. Prese a sua moglie Faustina figlia
del celebre cavalier Maratti, la quale, come nelle
virtù, così ancor nel talento di poetare, gareggiò col marito, e più anni poscia gli sopravvisse. Caro ai più ragguardevoli personaggi, e
singolarmente al pontefice Clemente XI, e amato
da tutti i dotti non sol di Roma e dell’Italia,
ma dagli stranieri ancora, che il conoscevan
per fama, godeva il più dolce frutto che da’
suoi studi bramar potesse, quando un’immatura
morte il venne a rapire in età di soli cinqanladue anni, a’ 30 di luglio del 1719. Non molte TERZO (>yc)
sono le Poesie dell’avvocato Zappi che han veduta la luce*, ma esse son tali che lo agguagliano a’ più illustri poeti. O egli s’innalzi collo
stile a’ più grandi e più sublimi oggetti, o scherzi
in argomenti piacevoli ed amorosi, egli è ugualmente felice; e come ne’ primi egli è pien d’estro e di fuoco, così ne’ secondi tutto è venustà,
grazia e naturalezza. Le stesse critiche fatte ad
alcuni de’ suoi più famosi sonetti, son pruova
della loro bellezza, poichè eccellente convien
dire che sia un componimento che esaminato
con tutto il rigore, trovasi avere solo qualche
sì picciola macchia, che rimane ancor dubbioso
se essa sia neo, ovvero ornamento.
XVI. Benchè quasi tutti i poeti finor nomi- ^vi-,
nati fiorissero o nella Toscana, o nello StatoLomiJa«.
pontificio, la Lombardia non ne fu priva del
tutto, e due singolarmente ne ebbe sul fine di
questo secolo, da’ quali in gran parte ella dee
riconoscere il risorgimento del buon gusto da
molti anni dimenticato. Il primo è il celebre
Carlo Maria Maggi segretario del Senato di Milano sua patria, professore di lingua greca nelle
scuole Palatine, e morto nel 1699 in età di
sessanlanove anni. Il Muratori, che gli fu amicissimo, ne ha scritta la Vita, la qual si legge
innanzi al primo de’ cinque tomi delle Poesie
di esso, stampate in Milano nel 1700. E nella
sua opera ancora della Perfetta Poesia ne parla
spesso con molta lode, e spesso reca, come
ottimi esemplari, i sonetti e le canzoni di
questo poeta. Ma pare che l’amicizia abbia
avuta non picciola parte in tali elogi; perciocchè, comunque sia vero che non manchi loro 700 li uno
comunemente nobiltà de’ sentimenti e regolarità
di condotta, è certo ancora, e lo stesso Muratori il confessa (Perf Poes. t 1, p. 31), che
lo stile non ne è abbastanza sublime uè lìgurato, nè cosi vivace la fantasia, come si converrebbe. Più pregevoli nel loro genere sono
le Commedie nel dialetto milanese d i lui composte, nelle quali vedesi una naturalezza e 1111,1
grazia non ordinaria, e quella piacevol satira
de’ costumi che diletta insieme e istruisce. L’altro fu il conte Francesco de Lemene natio di
Lodi, e ivi passato a miglior vita, in età di
settant’anni, a’ 24 di luglio del 1704, uomo
che per amabilità di maniere , per probità di
costumi, per felicità di talento ebbe pochi p.ui
a suo tempo. Le Memorie d’alcune virtù del
Sig. Conte Francesco de Lemene con alcune
riflessioni sulle sue Poesie del P. Tommaso
Ceva Gesuita, stampate in Milano nel 1706,
sono al tempo medesimo uno de’ più begli
elogi che ad un poeta si possan fare, e uno
de’ libri intorno all’arte poetica più vantaggiosi
che abbian veduta la luce. Il p. Ceva, che si
può dir con ragione il poeta della natura, perchè niuno più felicemente di lui l’ha condotta
ed espressa nelle sue Poesie latine, singolarmente nelle sue leggiadrissime Selve, nel rilevare i pregi delle Rime di questo valoroso poeta,
vien facendo riflessioni sì fine, e tratte sì bene
dall’indole del cuore umano, che questo libretto è, a mio parere, assai più utile di molte
Poetiche, le quali altro non contengono che
innutili speculazioni. Il conte de Lemene ardì il
primo di esporre in sonetti e in canzoni i più TERZO 701
angusti e i più profondi misteri della Religione
rivelata 5 e benché lo stile non ne sia sempre
coltissimo, e vi si possa bramare un estro più
\ ivo , nondimeno non pochi sono i pregi di
queste Rime, attesa singolarmente la difficoltà
dell’argomento..Ma alcuni madrigali da lui in
esse inseriti, e altri somiglianti brevi componimenti, ove descrivonsi piacevoli scherzi di
fanciulli, di pastori, di ninfe, sono di una tal
grazia e di una tale veramente greca eleganza,
eli io non so se la poesia italiana ne abbia altri che lor si possano contrapporre.
XVII. Come il numero de’ poeti non fu in xvu.
questo secolo inferiore a quello del precedente, aleuue jiucma di molto minore ne fu f eccellenza, cosìUur’
ancora non mancò a questi tempi all’Italia copioso numero di poetesse, ma tra esse più non
veggiamo una Colonna , una Gambara, una
Stampa. Molte ne annovera il Quadrio (t 2,
p. 286), come Lucrezia Marinella nata in Venezia di padre modenese (a), Lucchesi a Sbarra
natia di Conegliano, Veneranda Bragadina Cavalli gentildonna veneta, Chiara Fontanella Zoboli dama reggiana, Margherita Costa romana,
Caterina Costanza napoletana, Marta Marchina
parimente napoletana con ampio elogio lodata
dall’Eritreo (Pinacoth. pars 3, n.), Leonora
(") ^ nella Biblioteca modenese P articolo della
Marinella (/.3, p. i5t) , e cosi pure quello in cui si
è a lungo trattato di \ cronica IW.1legu7.z1 poco appresso
nominata (tv, (. />. 1*28), che tu un prodigio d’ingegno , lìm hè visse al secolo , e che poi venne a nascondere 1 suo udenti e a vivete santamente in quello ino*
nastero della \ nutazione. ^03 LIBRO
Gonzaga principessa di Mantova e poi moglie dell1 imperador Ferdinando III, Maria Antonia Scalera Stellini da Acquaviva nella Puglia
Francesca e Isabella Farnesi romane, Giovanna
Geltrude Rubino palermitana, Maria Porzia Vignoli romana e monaca Domenicana, Veronica
Malegtizzi V aleri dama reggiana, che oltre la poesia coltivò ancora le scienze più gravi, e innanzi
a più principi ne sostenne solenni dispute in
Reggio, ma poscia rinunciando alle pompe e agli
onori, si rendette monaca in questo monastero
della Visitazione di Modena (V. Guasco, Stor.
letter. di Regg p. 353); Maria Elena Lusignani
genovese, dotta ancora in greco e in latino ,
e che meritò gli elogi del P. Montfaucon (Diar.
italic. p. 25); Margherita Sarrocchi napoletana,
di cui non troppo onorevolmente, quanto a’
costumi, ragiona l’Eritreo (Pinacoth. pars 1,
p. 259), e che volendo gareggiar col Marini,
si accinse a scrivere un poema epico, intitolato
la Scanderbeide, stampato in Roma nel 1623;
e moltissime altre, le Rime delle quali si leggono nella Raccolta che delle piò illustri Rimatrici (d’ogni secolo ha pubblicata nel 1726 una
di esse, cioè Lovisa Bergalli. Niuna però fra
le donne di questo secolo fu tanto onorata di
elogi e d* applausi, quanto Elena Cornaro Piscopia gentildonna nobilissima veneziana, figlia
di Giambattista procurator di S. Marco, e nata
in Venezia a’ 5 di giugno del 1646. La Vita
che ne hanno scritta il P. Massimiliano Dezza
della Congregazione della Madre di Dio e il
P. abate Bacchini, le Poesie stampate nella morte
di essa, le testimonianze che del sapere e delle
\ TERZO -Jo3
virtù «Iella medesima si leggono presso mille
autori sì italiani che stranieri, ci dispensano
jal clinic lungamente. E certo era cosa ammirabile il vedere una giovane damigella possedere non solo le lingue italiana, spagnuola, francese e latina, ma la greca ancora e l’ebraica,
e avere innoltre qualche cognizion dell’arabica,
comporre poesie, e cantarle ella stessa, accompagnando maestrevolmente il canto col suono,
parlar dottamente delle più astruse questioni
della filosofia, della matematica, dell’astronomia , della musica e della teologia , e perciò
onorata della laurea con solennissima pompa
nel duomo di Padova nel 1678. Questa in una
donna sì rara e sì ammirabile erudizione riceveva in Elena un più illustre ornamento da una
non meno rara ed ammirabil pietà, per cui
avendo in età di soli undici anni fatto voto di
castità, ricusò poscia costantemente ogni più
onorevol partito che vennele offerto, nè volle
valersi della dispensa suo malgrado ottenutale
dal suo voto; anzi bramò di rendersi Religiosa,
ed avendo finalmente ceduto alle preghiere dell’amantissimo suo genitore, volle almeno nella
paterna sua casa vestir l’abito delle monache
dell’Ordine di S. Benedetto, e osservarne, come
meglio poteva, le leggi. Sparsa perciò la fama
del sapere e delle virtù di Elena in ogni parte
d’Europa, non v’era gran personaggio che venisse in Italia, e non cercasse di conoscerla
di presenza, e grandi furono singolarmente i
contrassegni di onore c di stima clic ella ricevette nel 1680 dal Cardinal d’Estrèes, eh e volle
far pruova se veri erano i pregi che ad essa
Tiradoschi, Voi XV. 11 XVIII.
Piwli satirici: dur l>ifdrhi divenuti poeti.
li ano
si attribuivano, e ne parli altamente maravigliato. lilla venne a morte nel lior degli anni, cioè
a* 26 di luglio del 1G84 , quando contavane
soli trentotto di età; e come la morte ne fu
conforme alla santa vita da lei condotta, così
ancora le esequie e gli onori rendutigli furon
corrispondenti alla fama di cui essa godeva
Il suddetto p. abate Bacchini ne raccolse e ne
pubblicò le opere, che sono alcuni Discorsi
accademici italiani, gli Elogi latini di alcuni
uomini illustri, poche Lettere latine, e la traduzione italiana di un’opera del Certosino Laspergio, a cui deesi aggiugnere qualche componimento poetico inserito nell’accennata Raccolta
della Bergalli. Queste opere nondimeno a me
non sembra che adeguin la fama di cui ella
godè vivendo, e forse la troppa premura di
darle alla luce, ha fatto che questa illustre damigella non sembri or così degna degli onori
che le furono conceduti, quanto parve a coloro clic ebber la sorte di viver con lei, e di
ammirarne le virtù e i talenti.
XVIU. Nella storia del secolo precedente noi
abbiamo distintamente trattato degli scrittori
di satire, di egloghe pastorali, di poesie bernesche , e d’altri diversi generi di componimenti , perciò in ciascheduno di essi ci si
offrivano nomi illustri, e pregevoli opere a
rammentare. Or che più scarsa e men lodevole
serie ci si presenta, non ci tratterremo a parlarne segnatamente, e sarem paghi dell1 accennar che abbiam fallo poc1 anzi i migliori poeti
che anche in questi generi s1 esercitarono. Solo
per ciò che appartiene alla poesia satirica, TERZO 7OJ
j.,icino un cenno della famosa Cicceide, di cui
fu autore Gianfrancesco Lazzarelli natio di Gubbio, il quale dopo aver sostenute diverse cariche di governo nello Stato pontificio, passò
ad essere auditore del principe Alessandro Pico
duca della Mirandola nel 1661, e nel 1682 fu
nominato proposto di quella chiesa, e finì poscia di vivere nel 1694 Ei fu un de’ pochi
poeti che non seguirono il reo gusto del secolo , ma presero a batter la via segnata già
da’ più eleganti scrittori, e sarebbe stato a
bramare eh1 egli avesse esercitato il suo stile
in migliore argomento, e non avesse preso a
mordere e a dileggiare l’infelice don Ciccio,
cioè Buonaventura Arrighini, già suo collega
nella Ruotagli Macerata. La Vita di questo valoroso poeta è stata di fresco scritta con molta
esattezza e con uguale erudizione dal ch. signor
abate Sebastiano Ranghiasci, che si apparecchia a darci altre Vite degli uomini illustri della
sua patria. Ma passiamo ormai a dire degli
scrittori de’ poemi, qui ancora però ristringendosi a que’ soli, la menzione de’ quali è all’italiana poesia onorevole e gloriosa. Con molto
applauso fu accolto lo Stato rustico, poema
in versi sciolti di Gianvincenzo Imperiali nobile genovese, stampato la prima volta in Genova nel 1611, il qual però non può stare al
confronto colla Coltivazione dell’Alamanni. Di
questo poeta, che morì circa il 1645, e di alcune altre opere da esso composte, parlano gli
scrittori delle Biblioteche genovesi. Maggior rumore destarono co’ loro poemi due contadini,
che sbucati fuora improvvisamente, uno dalle 70O LIBRO
campagne dell’Abruzzo, P altro dalle montaci,e
sanesi, comparvero tutto in un colpo poeti
volsero a loro l’ammirazione di Roma e di Fi
renze. 11 primo fu Benedetto di Virgilio nato
nel 1602 in Villa Barbarea nell’Abbruzzo, prima
pastore, poscia bifolco nelle tenute che nella
Puglia aveano i Gesuiti del Collegio romano
Avendo appreso a leggere e a scrivere, nelf ore che gli rimanevano libere da’ suoi lavori
cominciò a prendere tra le mani 1’ \riosto, il
Sannazzaro, il Tasso ed altri poeti. Al leggerli
gli parve che potesse esser poeta egli pure.
Cominciò a far versi all’improvviso, e i versi
sì felicemente gli venivano fatti, die nompaqo
di brindisi o di canzonette, si accinse a scrivere un poema. Avea dai suoi padroni appresa
la Vita di S. Ignazio, ed ei la prese a soggetto
del suo lavoro. Questo poema fu pubblicato la
prima volta in Trani nel 1647, ed egli poscia
il ritoccò e corresse più volte, e rifattolo quasi
di nuovo, il ridusse a undici canti, e così il
diè in luce nel 1660. Il padre. Vincenzo Carrafa
generale dei Gesuiti il trasse a Roma, perchè
avesse più agio di coltivare gli studi; e il pontefice Alessandro VII, conosciutone il raro talento , gli assegnò onorevole provvisione, gli
diè stanza nel Vaticano, e creollo ancora cavaliere di Cristo. Più altri poemi scrisse e pubblicò egli poscia , cioè il Saverio Apostolo delle
Indie in ventun canti, la l ita del Beato Luigi
Gonzaga in 207 stanze in sesta rima, e La
Grazia trionfante, o l Immacolata Concezione.
Anzi l’Eritreo, a cui dobbiamo in gran parte
queste notizie (Epist. ad Eutych. t. 2, p. lo-j; TERZO
fjriacoth. pars 3, p. 298), accenna ancora la
Vita di Gesù Cristo, e quella di S. Bruno fondatore de’ Certosini, che forse non furon date
alle stampe, oltre alcuni Panegirici in versi,
cj,c si annoveran dal Quadrio (t 2, p. 509))
e dal Cinelli (Bibl. volante, t. 4, p• 362). Uno
di questi fu da lui composto nel 1666, e perciò dee correggersi lo stesso Quadrio, ove dice
(t, 6, p. 280) di’ ci morì poco dopo il 1 (>(>0.
\jO stile di questo poeta non è certo quello
del Petrarca, o del Tasso; anzi manca di eleganza , ed è languido e diffuso. Nobili però ne
sono i sentimenti; e ciò che li rende più ammirabili, si è che un contadino ha in essi saputo svolgere e spiegare con felicità insieme e
con esattezza maravigliosa i più difficili misteri
della nostra Religione. Quindi se lo stile di questi poemi fosse più colto (benchè pur esso
non abbia i difetti del secolo) e più conforme
alle regole ne fosse la tessitura, il loro autore
non avrebbe l’ultimo luogo tra gli scrittori de’
poemi; e dee ciò non ostante tra i poeti italiani essere annoverato con lode. Il secondo fu
Giandomenico Peri nato in Arcidosso nelle montagne di Siena, di cui pure ci ha data la Vita
il sopraccitato Eritreo (Pinacoth. pars 2, n. 27).
Da’ suoi genitori, benchè bifolchi, mandato il
fanciullo Giandomenico a una vicina terra alla
scuola di un pedante, un giorno ch’ei vide un
suo condiscepolo posto dal maestro sulle spalle
di un altro , e crudelmente battuto, e si udì
minacciare lo stesso poco onorevol gastigo,
prese in tal orrore il maestro e la scuola, che
tornato a casa, e presi segretamente alcuni 708 LIBRO
tozzi di pane, se ne fuggì, e per tre anni andò
aggirandosi per solitarie montagne in compagnia delle bestie e de’ loro pastori. Un di questi, che dovea esser uom dotto, perchè sapea
leggere, godeva talvolta di portar seco l’Ariosto , e di farne udir qualche tratto a’ suoi colleghi. Il Peri provava a quella lettura incredibil
piacere, e più ancora all udir che lece talvolta
la Gerusalemme del Tasso. Frattanto, trovato
da suo padre, fu ricondotto a casa, e allora
che sarebbe stato opportuno mandarlo alla scuola , fu destinato ad aver cura dei buoi. Ma mentre questi fendevano i solchi, il Peri, provvedutosi ingegnosamente de’ mezzi a scrivere,
facea versi, e di nascosto scriveali. Il talento
del Peri non potea star lungamente nascosto.
Cominciò a comporre drammi pastorali, e godeva di recitarli egli stesso co’ suoi compagni; e ognuno può immaginare quanto quel
teatro fosse magnifico. Si accinse poscia a scriver poemi, e avendone composto uno sulla
caduta degli Angioli, il fè recitare innanzi al
gran ducache venne a passare per quelle montagne nel 1613. Così fattosi conoscere il Peri,
fu quasi a forza tratto a Firenze, e da Giambattista Strozzi nel suo abito contadinesco presentato al gran duca, il quale si prese maravigli oso trastullo della semplicità insieme e del
talento di quel rozzo bifolco. Interrogato qual
grazia volesse, rimase prima sorpreso a tal nome; poscia, preso coraggio, pregò il gran duca
a fargli dare ogni anno tanto frumento, quanto
alla sua famiglia bastasse, e l’ottenne. Tornato
poi alla patria, porse uno scherzevole memoriale TERZO 709
in versi a un cavaliere, pi egandolo clic , poiché il gran duca aveagli dato pane, si compiacesse egli di dargli il vinoj e il memoriale
ebbe 1’elTetto eli1 egli bramava. Si tentò ogni
via per fermarlo in Firenze, e fargli cambiar
abito e tenore di vita j ma tutto fu inutile}
anzi avendolo monsignor. Ciampoli fatto andare a
Roma, e a grande stento avendo ottenuto che
a un solenne pranzo venisse in abito alquanto
migliore, appena ei vide il lauto apparecchio
di quella mensa , e le dilicate vivande di cui
fu essa coperta, che, sdegnato, fuggissene dispettosamente, e lasciata subito Roma, tornossene alle sue montagne, ove poscia continuò
a vivere fino alla morte. Oltre una favola cacciatoria , intitolata il Siringo, ne abbiam due
poemi in ottava rima, uno intitolato Fiesole
distrutta, l’altro il Mondo desolato: i quali> se
si considerano come opera di un rozzo bifolco , non posson non rimirarsi come ammirabili; ma se si considerano come parto di un
poeta, non posson aver luogo che tra’ mediocri. E poichè siamo sul parlar di prodigi, a’
due contadini poeti aggiugniamo un fanciullo
figliuol di un facchino, filosofo, teologo, medico , giureconsulto, e in tutte le scienze maravigliosamente istruito. Ei fu Jacopo Martino
modenese, nato agli 11 di novembre del 1639)
in Racano nella diocesi d’Adria, di padre oriondo
modenese, che poi venuto, per guadagnarsi
il pane, a Budrio, colà condusse anche il figlio.
Il P. Giambatista Meietli dell1 Ordine de1 Servi
di Maria, avendo ivi scorto in lui quasi ancora
bambino un raro talento, prese ad istruirlo a 710 liuro
dispetto del padre, il qual diceva di voler formare di suo figlio un facchino , non un lettera,
to- e il venne in tal modo istruendo, che in età
di sette anni, condottolo a Roma nel 1(147. gli
fece ivi sostenere in pubblico molte proposizioni su tutte le scienze, le quali furono allora
stampate, con tal concorso di cardinali, di prelati e d’altri personaggi d’ogni ordine, e con
tal! plauso all’ammirabile felicità con cui il fanciullo parlava delle più difficili materie, che
Roma non vide mai forse il più strano spettacolo; e l’Eritreo, pieno perciò di stupore, ce
ne lasciò onore voi memoria (Pinacoth. pars. 3,
n. 75). Tornò poi il fanciullo col suo maestro
a Budrio, e parve che quell’ammirabile ingegno andasse svanendo , e molto più dopo la
morte del suo maestro avvenuta nel 1648. Fu
allora per opera del Cardinal Giambattista Palotta inviato al collegio «li Cai dar ola nella Marca , ove circa il 1650 finì di vivere. Più ampie
e più curiose notizie di questo portentoso fanciullo si posson leggere nell’Apologia del Padre
Meietti, scritta dal P. Paolo Maria Cardi reggiano dello stesso Ordine in risposta a chi volea far credere che fossero state opere del Demonio e frutto di stregherie i prodigi d’ingegno
dal Modenese mostrati (Miscell, di varie Operette, t. 7, p. 1, ed. Ven. 1743) (a).
(ci) Di Jacopo Martino modenese si è parlato più a
lungo nella Biblioteca modenese (t. 3, p. -ì xS) , ove
anche si son recate probabili congetture che ci posson
far credere ch’ei fosse oriondo da Fossoli villa del Carpigiano nel ducato di Modena. TERZO 711
XIX. I poemi finor mentovati, appena possono aver questo nome , perchè le leggi ad essi
prescritte non vi si veggono esattamente osservate. E se noi andiamo in cerca di poemi epici, o ancor romanzeschi, che per una parte
sieno scritti secondo le regole, e abbian per
l’altra quella nobiltà di stile che lor si conviene , peneremo a trovarne nel corso di questo secolo. Que’ del Chiabrera da noi già accennati , e la Croce racquistata di Francesco
Bracciolini, di cui diremo tra poco, sono i
migliori che in questo secolo si vedessero^ ma
pure sono ben lungi dal potere uguagliarsi a
que’ dell’Ariosto e del Tasso. Dell’Adone del
Marini, del Mondo nuovo dello Stigliani e del
Mondo creato del Murtola si è già detto poc1 anzi. Ansaldo Ceba genovese, nato nel 1!>65
e morto nel i(>23, fu poeta fecondo di molte
rime , e anche due poemi eroici divolgò intitolati l’Ester e il Furio Camillo. Ma, come osserva il Crescimbeni (Stor. della volg. Poes.
p. 152, ec.), ei fu più felice nel dare i precetti del poema epico in un trattato che su ciò
scrisse, che nell1 eseguirli. Di lui si può vedere
il non breve elogio fattone dall1 Eritreo (Pinacoth. pars 3, n. 3o) (a). Questo autore parla
(a) Fra le opere del Ceba merita di essere rammentata la traduzione dei Caratteri morali di Teofrasto ,
da lui ancora con copiose note illustrati, stampata in
Genova nel 1620. Di essa ragiona singolarmente il
ch. sig. abate Gio. Cristofano Amaduzzi nella erudita
prefazione premessa a’ due Capi anecdoti di Teofrasto
da lui pubblicati, e dal celebre sig. Bodoni con edizione magnifica stampati in Parma nel 1786, ove ambe
- #
XIX.
Scrittori «li
piicini eroici. 712
unno
ancora a lungo (ib. pars i, />. ir), cc.) deliV
mor incostante e della intollerabil superbia di Belmonte Cagnoli, che colla sua Aquileia distrutta,
stampata nel 1628 , pretese di aver fatto un
poema miglior di quello del Tasso, ma fu il
solo che se ne mostrasse persuaso. Niccolò Vib
lani pistoiese, grande difensor del Marini, autore di alcune Satire latine scritte con molta
eleganza , e di un pregevole Ragionamento sulla
{)oesia giocosa, pubblicato sotto il nome deb
’Accademico Aideano, volle provarsi ancora nel
genere epico, e prese a scrivere un poema intitolato la Fiorenza difesa; ma egli nol potè
finire, e avrebbe probabif
alla luce. Il co. Girolamo Graziani, natio della
Pergola, ma vissuto quasi sempre in luminosi
impieghi alla corte di Modena a’ tempi del duca
Francesco I e de1 successori, oltre molte altre
poesie di diversi generi, due poemi ancora ci
diede, uno in vcntisei canti, intitolato il Conquisto di Granata, l’altro in tredici, intitolato la
ossciTa che il Ceba sospettò a ragione che qualche cosa
muncassc all’opera ili Tcofrasto appunto ove si son poi
trovati i suddetti Capi. 11 Ceba è uno de’ più colti
scrittori che vivessero al principio del secolo xvu. E
vuoisi che nel suo Dialogo del Poema epico, eh’ei
finge tenuto prima che si pubblicasse la Gerusalemme
del Tasso, prendesse di mira, benché senza nominarlo,
questo poema , mostrando clic in più luoghi ei non segue i precetti della Poetica d’Aristotile, i quali ei si
vantava di aver seguiti a rigore nella sua Estcrre. Ma
questa non trova ornai più chi la legga ^ e il Tasso,
tinche il buon gusto non perirà, avrà sempre lodatola
e ammiratori
il consiglio di chi dopo TERZO 713
Cleopatra i il primo de’ quali si registra dal
Quadrio (t.6 7 p. 688) tra’ migliori che questo
secol vedesse (a), e la stessa lode egli dà pure
al Boemondo o l’Antiochia difesa di Giovan
Leone Semproni da Urbino. Sigismondo Boldoni di patria milanese, e morto in età di trentatrè anni in Pavia nel 1630, della cui vita ci
ha date esatte notizie il co. Mazzucchelli (Scritt.
ital, t. 2, par. 3, p. 1455, ec.), fra i molti
saggi che del suo felice ingegno diede alle stampe, scrisse ancora un poema sulla Caduta, de’
Longobardi in venti canti, che fu poi finito e
pubblicato dal P. Gianniccolò di lui fratello barnabita nel 1636. Alcune opere di questo valoroso poeta sono state di fresco ristampate in
Avignone per opera di S. E. il sig. Cardinal
Angelo Maria Burini, colf aggiunta di più cose
inedite (V. Gazzetta letter. di Mil. 1776, p. 3^4)•
Finalmente il barone Antonio Caraccio sul finire del secolo pubblicò il suo Imperio vendicato , che, benchè da molti onorato con somme
lodi, non ha però avuta sorte migliore di tanti
altri poemi di cui questo secolo fu fecondo, e
de’ quali basta l’avere accennati alcuni, lasciando
che i titoli de’ moltissimi altri, che sono ancora meno conosciuti, si leggano, da chi ne brama
notizia, presso il Quadrio (b).
(n) Del co. Girolamo Graziarli, de’ diversi impieghi
ch’egli ehhe alla corte di Modena, delle vicende alle
quali tu esposto, della pensione che ottenne da Luigi XIV,
e delle sue opere si e lungamente parlato nella lìihlioteca modenese (r. 3, 12, ec.).
(b) Questi però ha ommesso d’indicare un poema
ch’io pure posso solo accennare, non avendone altronde 7 14 LIBRO
xx. XX. Il genere di poema, in cui l’Italia ci
AfcSipni in questo secolo additare eccellenti seritiiusoui. tori, è l’eroico-comico. Qualche saggio erasene
già veduto nel secolo precedente in alcune opere
di Betto Arrighi, di Girolamo Amelunghi, di
Antonfrancesco Grazzini e di altri che si accennan dal Quadrio (l. cit. p. 724), le cui opere
nondimeno non posson veramente dirsi poemi
di questo genere. La gloria di condurli a quella
perfezione di cui sono capaci, o più veramente
di esserne i primi inventori, era riserbata a
due leggiadri e vivaci ingegni di questo secolo , cioè ad Alessandro Tassoni modenese e a
Francesco Bracciolini pistoiese, i quali conteser tra loro del primato di questa invenzione.
La Vita del primo è stata sì ampiamente e sì
esattamente illustrata dal Muratori, eli1 io posso
spedirmene in breve, accennando solo le più
importanti notizie da lui comprovate con autorevoli testimonianze e con autentici documenti (a). In Modena di antica e nobil famiglia
nacque a1 28 di settembre del i5G5 Alessandro
Tassoni, tìglio di Bernardino e di Gismonda
Pelliciari. Privo de1 genitori in età fanciullesca,
notizia, die dalle Opere del Redi stampate in Napoli
net 1778 (t. 6, p. 191), ove s’indica la Buda liberata
poema eroico di Federigo Nomi (di cui rammenteremo altrove le Satire), dedicato ali7 ili. sig. Bah Gregorio Redi: in Fenczia, presso Girolamo Albrizzi, 1703,
in 1 o..°
(a) Nella Biblioteca modenese ho avuta la sorte di
dar più altre notizie intorno alla vita e alle opere del
Tassoni, che finora si erano ignorate, e di pubblicarne
ancora parecchie lettere inedite (t. 5, p. 180, ec.). TERZO ^ l5
fu ancor travagliato da infermità, da disgrazie,
da nimicizie pericolose; le quali però non gl’impedirono il coltivare gli studi delle lingue greca
e latina sotto la direzione di Lazzaro Labadini allora celebre maestro in Modena. Circa il 1585
passò a Bologna a istruirsi nelle più gravi scienze,
ove ebbe fra gli altri a maestri Claudio Betti e
Ulisse Aldrovandi. Fu anche all1 università di
Ferrara, ove attese principalmente alla giurisprudenza. Così impiegò nello studio parecchi
anni, finchè circa il principio del i5<)7, recatosi a Roma, entrò al servigio del Cardinal Ascanio Colonna, e con lui nel 1600 navigò in Ispagna, e da lui nel 1602 fu spedito in Italia, per
procurargli la facoltà dal pontefice Clemente VIII
di accettare la carica di vicerè d’Aragona da
quella corte profertagli, e di nuovo nel 1603,
perchè in Roma avesse cura di tutti i suoi beni,
nella qual occasione il Cardinal gli assegnò (600
annui scudi pel suo mantenimento. In occasione
di uno di questi viaggi egli scrisse le celebri
sue Considerazioni sopra il Petrarca, che furono poscia stampate alcuni anni appresso.
Frattanto egli in Roma fu ascritto alla famosa
Accademia degli Umoristi. Frutto del frequentar
eh1 ci faceva le romane adunanze, furono i dieci
libri de’ suoi Pensieri diversi, de’ quali un saggio avea egli stampato sotto il titolo di Quesiti fin dal 1608, e che poi di molto accresciuti
vider la luce nel 1612. Quest1 opera scandalizzò
altamente molti de1 letterati che allor viveano,
i quali veggendo in essa riprendersi passi di
Omero, censurarsi più volte Aristotele, emettersi in «dubbio se utili fossero o dannose le n16 nono
lettere, menarono gran rumore; come se il
Tassoni a tutte le scienze e a tutti i «.lotti movesse guerra. E certo molte delle cose che in
quell’opera leggonsi, sono anzi ingegnosi e
scherzevoli paradossi, che fondate opinioni.
Era T ingegno del Tassoni somigliante a quello
del Castelvetro, nimico de’ pregiudizii e di quello
singolarmente che nasce dalla venerazione per
gli antichi scrittori, acuto e sottile in conoscere i più leggeri difetti, e franco nel palesarli; se non che, dove il Castelvetro è uno
scrittor secco e digiuno, benchè elegante, che
sempre ragiona con autorità magistrale , il Tassoni è autor faceto e leggiadro che sa volgere
in giuoco i più serii argomenti, e che con una
pungente ma graziosa critica trattiene piacevolmente i lettori. E probabilmente non era persuaso egli stesso di ciò ch’egli talvolta scrivea.
Ma il desiderio di dir cose nuove e di farsi
nome coll’impugnare i più rinomati scrittori,
lo introdusse a sostenere alcune strane e poco
probabili opinioni, fra mezzo alle quali però
s’incontrano riflessioni e lumi utilissimi per leggere con frutto gli antichi e moderni autori.
Maggior rumore ancora destarono le sue Considerazioni sopra il Petrarca, stampate la prima
volta nel 1609. Parve al Tassoni, e forse non
senza ragione, che alcuni fossero sì idolatri di
quel gran poeta, che qualunque cose gli fosse
uscita dalla penna, si raccogliesse da loro come
gemma d’inestimabil valore, e che perciò avvenisse che alle Rime di esso si rendesse onor
troppo maggiore che non era loro dovuto. Ma
il Tassoni cadde nell’eccesso contrario; e per TERZO 7 I 7
opporsi alla soverchia ammirazione che alcuni
aveano pel Petrarca, il depresse di troppo, e
non pago di rilevare i difetti che i critici spassionati osservano nelle Rime di quel famoso
poeta, volle ancora, come si dice, vedere il
pelo nell1 uovo, e trovare errori ove niun altro li trova. Levossi dunque in difesa del Petrarca Giuseppe Aromatari da Assisi, giovane
allora di venticinque anni-, che ritrovavasi in
Padova, e nel 1611 pubblicò le sue Risposte
alle Considerazioni del Tassoni, nelle quali però
non passa oltre a’ primi dieci sonetti, rispondendo alle accuse colle quali il Tassoni aveali
criticati. Il Tassoni nell1 anno stesso replicò alf Aromatari co’ suoi Avvertimenti^ pubblicati sotto
il nome di Crescenzio Pepe; e perchè due anni
appresso replicò ad essi l’Aromatari co’ suoi dialoghi sotto il nome di Falcidio Melampodio,
il Tassoni sotto quello di Girolamo Nomi senti
gli controrispose colla sua Tenda rossa; libretto
pieno di fiele contro il suo avversario, e che
non dee prendersi a modello dello stile da tenersi nelle dispute tra’ letterari. E con esso finì
la contesa, della quale, oltre ciò che narrane
il Muratori, si può vedere il racconto presso
il conte Mazzucchelli, ove dell’Aromatari e di
queste e di altre opere da lui pubblicate ci
dà esatta contezza {Se riti ilal. t 1, par. 2,
p. 1115 , ec.)
XXI. Il Tassoni frattanto, che già da alcuni xxl ’
anni, e forse dopo la morte del Cardinal Colonna ".’iX
avvenuta nel 1608, non avea avuto altro pa-m•d*,,me,
drone, e a cui le anguste sue fortune facean
bramare il servigio di qualche principe, nel 1613 7 »8 LIBRO
cominciò a introdursi nella servitù del duca di
Savoia Carlo Emanuele. Il Muratori racconta a
lungo le diverse vicende che in tal servigio
ebbe il Tassoni presso quel duca e presso il
principe cardinale di lui figliuolo, gli onorevoli assegnamenti che più volte gli furon fatti,
ma de’ quali appena potè egli mai aver parte,
il viaggio da lui fatto a Torino, e i raggiri co’
quali gli fu impedito di avanzarsi nella grazia
del duca, il vario contegno con lui tenuto dal
principe cardinale, da cui or venne amorevolmente raccolto , or costretto perfino ad uscir di
Roma. I diversi maneggi di (quella corte con
quella di Spagna, di cui il (duca Carlo Emanuele spesso ebbe guerra e spesso conchiuse
la pace, furon probabilmente origine di tali vicende, perciocchè essendo il Tassoni rimirato
come nimico della monarchia spagnuola, non
poteva esser veduto collo stesso occhio in tempo
di guerra e in tempo di pace. Nè senza fondamento credevasi ch’ei fosse di animo mal
disposto contro la corte di Spagna , perciocchè a lui furono attribuite alcune Filippiche
contro gli Spagnuoli, e un libello intitolato Le
Esequie della Monai’ chia di Spagna. Il Muratori non parla delle Filippiche come di opera
uscita #alle stampe; ma esse son veramente
stampate, benchè sieno per avventura un de’
più rari libri che esistano, ed io ne ho pochi
anni addietro acquistata copia per questa biblioteca Estense. Le Esequie non so che sieno
stampate. Il Tassoni protestò di non essere
autore nò deli1 uno, nè dell1 altro libro; e delle
Filippiche, o almeno delle due prime, afferma TERZO ~l()
che è autore quel Fulvio Savojano, che ha composte altre Scritture ancora più pungenti di
quelle contra gli stessi Spaglinoli; e dell1 Esequie dice che fu libro composto da quel Padre Francescano... che fece poi per altri rispetti quella bella riuscita (V. Murai. I ita del
Tassoni, p. 28). Nondimeno lo stesso Muratori confessa di aver vedute due di queste Filippiche presso il conte Alfonso Sassi, che sembrano scritte di man del Tassoni, e così ne
sembra a me ancora, che pur le ho vedute, e
lo stile piccante con cui sono stese , può far
sospettare ch’ei ne fosse autore. In fatti tra le
sette Filippiche che stampate si trovano in
questa ducal biblioteca, le due prime, come
ho detto, mi sembrano opera del Tassoni. Ma
lo stile delle altre cinque è diverso , e si ravvolgono per lo più sulle cose de’ V eneziani,
co’ quali non avea relazione alcuna il Tassoni.
Innanzi alle stesse Filippiche precede un altro
opuscolo di somigliante argomento, intitolato
Caducatoria prima, a cui leggesi sottoscrillo
V Innominato Accademico libero, il qual nome
medesimo si legge a’ piedi della quarta e della
settima filippica; nè io so chi abbia voluto
ascondersi sotto a quel nome. Dopo le Filippiche, segue la Risposta alle Scritture intitolate
Filippiche stampata collo stesso carattere e
nella forma medesima, in cui si difende la
corte di Spagna, e si fanno sanguinose invettive contro il duca Carlo Emanuele I. In questi opuscoli non vi ha indicio del luogo ove
sieno stampati, o del nome dello stampatore,
e solo al fine della filippica III si legge segnato
TlRABOSCBi, Voi. XV. 12 ’"■20 LIBRO
l’anno i6i5. Le quali minute riflessioni ho io
voluto qui fare, trattandosi di un libro da pochissimi conosciuto. Ma ritorniamo al Tassoni.
Nell’anno 1623 lasciò di essere al servigio del detto
cardinale, e visse tre anni tranquillamente, attendendo insieme a’ suoi studi e alla coltura
de’ fiori, della quale molto si dilettava. E questo fu il tempo probabilmente nel quale si uf.
faticò a finire il Compendio del Baronio da lui
cominciato più anni addietro, e di cui esistono
alcune copie a penna in quattro tomi, una delle
quali conservasi in questa biblioteca Estense.
Avea egli cominciata quest’opera in latino; ma
poscia la stese in italiano, e il Muratori muove
qualche sospetto che il Compendio latino de’
medesimi Annali, pubblicato nel 1635 da Lodovico Aureli perugino, fosse quel desso che
già scritto avea il Tassoni; il qual sospetto
però non sembra abbastanza fondato. Nel 1626
cominciò egli a provare sorte alquanto più lieta.
Dal Cardinal Lodovisio nipote di Gregorio XV
fu preso al servigio coll’annuo stipendio di 400
scudi romani e colla stanza nel suo palazzo.
Dopo la morte di quel cardinale, avvenuta
nel 1632 , passò il Tassoni alla corte del duca
Francesco I, suo natural sovrano, e ne ebbe il
titolo di gentiluomo trattenuto e di consigliero
con onorevole stipendio e abitazione in corte.
Ma tre anni soli godette del nuovo suo stato,
e venuto a morte a’ 25 d’aprile del 1635, fu
sepolto in S. Pietro.
Sun^io ™ XXII. Io ho accennato la più parte delle opere
««■«co-comi- dal Tassoni composte, lasciando di parlare di
Pr.u.l è** alcune altre di minor importanza , e per lo più
BramoUni- 1 /41 TERZO nai
inedite, delle quali fa menzione il Muratori, e
differendo ad altro luogo il trattare delle Annotazioni sul Vocabolario della Crusca a lui
attribuite. Ma ora dobbiam dire di quella per
cui egli è celebre singolarmente, cioè della
Secchia rapita. Oltre ciò che intorno alla sto,-ia di questo poema rac< onta il Muratori nella
Vita del poeta, più minute notizie ancora ne
abbiamo nella prefazione dal ch. dottor Giannandrea Barotti premessa alla magnifica edizione
fattane in Modena nel 1744 ove diligentemente
espone quando il Tassoni si accingesse a comporlo, come per più anni se ne tentasse più
volte inutilmente la stampa in Modena, in Padova e altrove; come finalmente fosse esso la
prima volta stampato in Parigi nel 1622, e ristampato colla medesima data nell’anno stesso
a Venezia; come per ordine del pontefice dovesse il Tassoni toglierne e cambiarne qualche
espressione, e così corretto il poema uscisse
di nuovo a luce in Roma nel 1624 colla data
di Ronciglione; e come poscia se ne facessero
più altre edizioni. Tutto ciò si può vedere nella
suddetta prefazione esattamente narrato, Io mi
arresterò solo alquanto sulla gara di precedenza
tra La Secchia rapita e Lo Scherno degli Dei
del Bracciolini. Questo fu pubblicato la prima
volta in Firenze nel 1618, cioè quattro anni
prima di quello del Tassoni; ma il Tassoni già
da molti anni prima l’avea composto. Gasparo
Salviani, che è nome supposto dello stesso Tassoni, in una lettera da lui scritta a quei tempi, ma pubblicata solo innanzi all’accennata
edizion modenese, afferma ch’egli lo scrisse rj’2 LIBRO
tra l’aprile e l’ottobre del 1611. e aggiugne
che alcuni cavalieri e prelati, che allor viveano
ne posson far fede. Anzi lo stesso Tassoni, in
una lettera premessa all’edizione di Ronciglio,
ne, dice di averlo composto una state nella sua
gioventù, il che vorrebbe direprima dei 1611
nel qual anno ei contava quarantasei di età.
Ma il dottor Barotti crede che così affermasse
il Tassoni, perchè temeva che gli si potesse
fare un rimprovero di avere in età avanzata
scritto un sì scherzevol poema, e crede ancora
che nella lettera del Salviani, in vece del 1611
debba leggersi il 1 Gì4- Checchessia di ciò, è
certo che fin dal 1615 avea il Tassoni compiuto il suo poema, benchè poscia vi aggiugnesse due canti j che nel 1616 cominciò a
trattarsi di darlo alle stampe, benchè ciò non
si eseguisse che nel 1622, e che frattanto ne
correano per le mani di molti copie a penna.
Tutto ciò compruovasi dal Barotti con autentici documenti, e colle lettere del Tassoni medesimo e di altri a lui scritte. E una fra le altre ne abbiam del Tassoni, scritta a’ 28 di
aprile del i(ìi8, in cui mostra la sua premura
che La Secchia rapita venisse presto alla luce,
perchè avea udito che ’l Bracciolini da Pistoja
s’era messo a fare aneli egli un Poema a concorrenza, il qual di fatto, come si è detto, in
quell’anno medesimo fu stampato. È certo dunque che il poema del Bracciolini fu stampato
quattro anni prima di quel del.Tassoni; ma è.
certo ancora che il Tassoni avea compiuto il
suo nove anni prima che si pubblicasse, e
quattro anni prima che Lo Scherno degli Dei TERZO ^23
vedesse la luce. E certo che le copie della Secchia rapita corsero manoscritte per le mani di
molti , e che il Bracciolini potè vederla e prenderne esempio; e non è improbabile che così
fosse. Al contrario non si è ancora prodotta
pruova la qual ci mostri che il Bracciolini assai
prima del 1618 avesse intrapreso il suo lavoro;
e perciò finora il vanto dell’invenzione di questo genere di poema sembra che sia dovuto al
Tassoni. Il co. Mazzucchelli, che lascia indecisa questa quistione (Scritt. ital t. 2, par. 4,
pag. 1960, not 30), dice che Lo Scherno degli
Dei, se non ha la gloria del primato, quanto
al tempo in cui fu composto, lo ha quanto a
quello della stampa , e che può certamente nel
merito andar del pari colla Secchia rapita. Io
però temo che quest’ultima decisione non sia
)per essere molto approvata. A me certo sembra che, o si riguardi la condotta e l’intreccio,
o la leggiadria e la varietà delle immagini, o
la facilità del verso, il poema del Tassoni sia
di molto superiore a quello del Bracciolini. E
pare ancora , che il comune consenso sia favorevole alla mia opinione; perciocchè, ove
dello Scherno degli Dei non si hanno che sei
edizioni (a), e ni una posteriore al 1628, della
Secchia rapita se ne hanno poco meno di trenta, ed essa è stata stampata anche in Francia
e in Inghilterra , e recata ancora nelle lingue
•
(a) lina nuova edizione dello Scherno degli Dei del
Bracciolini fu fatta in Firenze nel 1772 per opera del
ili. sig. Giuseppe Pelli direttore di quella reai galleria
delle antichità. XXIII.
Noi ime del
Biucoolini.
rz\ l.’mio
francese ed inglese, e anche dopo la bella edb
zione di Modena del 1741 •. un’altra vaghissima
se ne è fatta in Parigi nel Alla maggior
parte delle edizioni di questo poema va aggiunto il primo canto di un poema eroico sulla
scoperta dell’America, dal Tassoni incominciato , e che se fosse stato da lui finito, non
sarebbe forse divenuto sì celebre come l’altro.
Ma è tempo che facciam conoscere il poeta
rival del Tassoni, e il faremo facilmente, valendoci dell’esatte notizie che ne ha raccolte
il sopraccitato conte Mazzucchelli.
XXIII. Pistoia fu la patria di Francesco Bracciolini , che ivi nacque a’ 26 di novembre
del 1566. Fu prima in Firenze, ove venne
ascritto all’Accademia fiorentina. Indi passato
a Roma, entrò al servigio di monsignor Maffeo Barberini, che fu poi cardinale, e finalmente pontefice col nome di Urbano VIII, e
con lui andossene in Francia. Dopo la morte di
Clemente VIII, il Bracciolini lasciò il servigio
del Barberini e la Francia, e tornato alla patria, attese tranquillamente per più anni a’ suoi
studi. Ma poichè udì f elezione a pontefice del
suo antico padrone, volò a Roma, e da Urbano VIII amorevolmente accolto, fu dato per
segretario al Cardinal Antonio Barberini suo fratello. Visse in Roma tutto il tempo del pontificato di Urbano, vi frequentò le più illustri
accademie, vi fu udito con plauso, e solo fu,
in lui notata una sordida avarizia. Dopo la
morte di quel pontefice tornò in Pistoia, e ivi
egli ancora non molto dopo, cioè a’ 31 agosto
nel 1645, chiuse i suoi giorni. Oltre il poema TERZO 7^5
croico-comico da noi già rammentalo, quattro
altri poemi eroici egli compose, fra’ quali il più
celebre è quello che ha per titolo La Croce racqui stata, a cui da alcuni si dà il terzo luogo
tra’ poemi italiani dopo quelli dell1 Ariosto e del
Tasso; nè io il contrasterò, purchè il Bracciolini sia pago di stare non pochi passi addietro a quei sì valorosi poeti. L’elezione di Urbano f III è un altro de’" poemi del Bracciolini,
ed ei ne ebbe per premio da quel pontefice
l’inserire nelle sue armi gentilizie le api de’ Barberini, e di prendere da esse il soprannome, con
cui di fatto egli si nomina: tenue premio, a
dir vero, ma forse adattato al merito del poema. Di alcune postille che il Tassoni fece a
questo poema, mi riserbo a parlare nella Biblioteca modenese (a). L amoroso Sdegno, favola pastorale dello stesso autore, viene annoverata tra le migliori che questo secol vedesse,
e non sono senza i lor pregi alcune tragedie
da lui parimente composte, e singolarmente l’Evandro. Nelle poesie liriche ei nome ugualmente
felice, e si risente non poco de’ difetti del secolo. Di queste e di altre opere del Bracciolini
si potranno leggere, da chi le brami, più minute notizie presso il soprallodato scrittore.
XXIV. L’esempio del Tassoni e del Bracciolini, e il plauso con cui i lor poemi furono
(rt) Sou queste alcune scherzevoli riflessioni su quel
poema trovate in una copia che ora se ne conserva
presso monsignor Onoralo Gaetani, c delle quali io ho
pubblicato qualche saggio (Bibl. nind. t. ó, p. ai5),
avendomene mandata copia il celebre abate Serassi <lt
gloriosa memoria, da cui quel codice era stalo trovato.
r \
XXIV.
Altri *rriilori Hi |>netni bui U iclii. 726 unno
accolti, invogliò molti altri a seguirne le orme,
e a coltivare questo nuovo genere (di poesia.
Ma, come suole avvenire, fra molti che il tentarono, pochi vi riuscirono felicemente. I più
famosi tra tali poemi sono il Malmantile racqui.
stato e il Torracchione desolato. Del primo, che
fu pubblicato la prima volta in Finaro nel 1676
sotto nome di Perlone Zipoli, fu autore Lorenzo Lippi fiorentino, pittore di professione,
morto in età di cinquantott’anni nel il
cui poema però non si può leggere con piacere, se non da chi intende i proverbii e i riboboli fiorentini, di cui tutto è pieno, e che
perciò ha avuto bisogno di essere comentato
prima da Paolo Minucci sotto il nome di Puccio
Lamoni, poscia dal canonico Antonmaria Biscioni e dall1 ab. Àntonmaria Salvini. Del secondo
fu autore Bartolommeo Corsini natio di Barberino in Mugello , e autore ancora di una traduzion d’Anacreonte. Ma esso non è stato stampato che l’anno 1768 in Parigi colla data di
Londra, aggiuntevi alcune poche notizie della
vita dell’autore. A questi possiamo aggiugnere
un altro poema che, benché»non mai pubblicato, corre nondimeno per le mani di molti,
ed è riputato un de’ più felici in tal genere,
cioè il Capitolo de’ Frati del P. Sebastiano
Chiesa della Compagnia di Gesù, di patria reggiano, e morto in Novellara verso la fine del
secolo, di cui più altre opere, singolarmente
drammatiche, accenna il Quadrio (t. 2,p. 328;
t. 4, p• 91J t. 5, p. 106; t. 6, p. 72.3), che
parimenti si giacciono inedite. TF.RZO 727
XXV. Ci resta a dire per ultimo degli scrii- xxv.
tori di poesie teatrali. E di queste pure noi po- ,„’^ ’1^1treinmo qui dare un lungo catalogo, se voles-cbesimo aver riguardo più al numero che alla
sceltezza. Ma pur troppo ci convien confessare
che fra molte centinaia di tali poesie che questo secol produsse, non molte son quelle che
si possano rammentare con lode. E qui è.singolarmente dove gli stranieri c’insultano, e rimproverandoci le irregolari tragedie e le sciapite
commedie italiane, ci van ripetendo fastosamente i gran nomi de’ Cornelii, de’ Racine, de’
Moliere. E non negheremo già noi che questi
illustri scrittori sieno stati i primi a condurre
alla lor perfezione la tragedia e la commedia,
e che noi non avevamo ancora avuto alcuno
che fosse giunto tant’oltre. Ma se i nostri rivali vorranno usare di un’eguale sincerità, dnvrnn essi ancor confessare che noi nel secolo
precedente avevamo avuti scrittori di tragedie
e di commedie, se non eccellenti e perfette,
come quelle de’ mentovati scrittori, certo molto
pregevoli, mentre in Francia appena si conoscevan di nome tali componimenti; che le Tragedie dell’Alamanni, del Rnceliai, del Tri ssi no,
del Martelli, dello Speroni, del Giraldi, dell’Anguillara, del Tasso, del conte di Cammerano, del
conte Torelli, del Cavallerini che le Commedie del Macchiavelli, dell’Ariosto, del cardin
Bibbiena, del Cecchi, del Gelli: che i Drammi
pastorali del Beccari, del Tasso, del Guarini,
dell’Ongaro, furono i primi esempii di tal genere di poesie che dopo il risorgimento delle
lettere si vedessero; che i tre gran lumi’ della xxvi.
S<- or annoverano alenili tra1 migliori.
72S LIBRO
teatrul poesia francese nominati poc’anzi non
si sdegnarono di valersi più volte delle loro fatiche, e di recare nella lor lingua diversi passi
de’ tragici e de’ comici italiani; e che il Moliere
principalmente ne fece tal uso, che se a lui si
togliesse tutto ciò ch’egli ha tolto ad altri, si
verrebbono a impicciolire di molto i tomi delle
sue Commedie; che finalmente se essi ci andarono innanzi, il fecer seguendo le orme de’
nostri maggiori, i quali aveano spianato e agevolato il sentiero. Intorno a ciò è degno d1 esser letto il Paragone della Poesia tragica d /tal in con quella di Francia del sig. conte Pietro
de’ Conti di Calepio eruditissimo cavalier bergamasco, morto nel 1762, in cui si pongono
a confronto le migliori tragedie francesi colle
migliori italiane, e collo scoprire i difetti che
son nelle prime , senza dissimulare que’ delle
seconde, si mostra che gli scrittori italiani hanno
servito in più cose di guida a’ francesi, e che
questi sarebbon più degni di lode, se non si
fosser più volte discostati da’ primi. Nella qual
opera, benchè possa sembrare che l’autore sia
forse alquanto prevenuto in favor dell’Italia ,
contengonsi nondimeno riflessioni molto utili e
critiche assai giudiziose.
XXVI. Benchè però il gusto degl’italiani di
questo secolo fosse comunemente infelice, possiamo additare alcune tragedie che anche al
presente non meritan di essere dimenticate. Fra
esse sono degne di onorevol menzione quattro
tragedie di Melchiorre Zoppio bolognese, fondatore dell1 Accademia de’ Gelati, e morto in
Bologna in età di ottantanni nel 1634, uomo TERZO ~2f)
<li moltiplice erudizione, e autore di molle nltre opere, «li cui ci danno più ampie notizie
le Memorie della detta Accademia (p. 323,ec.)
e il Crescimbeni (Comment. t. 2. par. 2, p. 273),
e più esattamente di tutti il conte Giovanni
Fantuzzi (Scritt. bologn. t. 8, p. 3o8 —jpc.).
}j Acripanda di Antonio Decio si nomina dal
medesimo Crescimbeni tra quelle che furono
men soggette alla critica e alle riprensioni de’
dotti (l. c. t. 1, p. 2^9)- Quelle di Giambatista Andrei ni, figliuolo di Isabella da noi mentovata nella storia del secolo precedente, comico
di professione , e ebe ebbe gran nome anche
in Francia a’ tempi di Luigi XIII, non sono
ugualmente pregevolij ma ei debb’esser qui ricordato, perchè vuolsi che colla sua rappresentazione sacra intitolata l’Adamo desse occasione
al celebre Milton, che udilla recitare in Milano,
a comporre il suo Paradiso perduto (V. Mazzucch. Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 708, ec.) (a).
(a) L’eruditissimo sig. come Carli (Op. t. 17, p. 42)
osserva assai giustamente che il Milton nato nel 1608,
non potè assistere di presenza all’Adamo dell’Andreini,
rappresentato circa il 1613 , e stampato nel 1617. Ma
ciò non basta a provare che da esso non traesse l’idea
del suo poema, perciocchè ei potè ben averlo alle mani,
essendo singolarmente quel libro stampato con molta
magnificenza , e ornato con quaranta rami disegnati dal
celebre Procaccino, e dedicato alla reina di Francia.
È certo, benchè l’Adamo dell’Andreini sia in confronto
del Paradiso perduto ciò che è il poema di Ennio in
confronto a quel di Virgilio, nondimeno non può negarsi che l’idee gigantesche, delle quali l’autore inglese
ha abbellito il suo poema, di Satana ch’entra nel Paradiso terrestre e arde d" invidia al vedere la felicità
dell’uomo, del congresso de’ Demonii, della battaglia I
^3o unno
li co. Ridolfo Campeggi bolognese, morto in età
di cinquantanove anni nel 1624, fra molte opere,
parecchie delle quali appartengono al genere
drammatico (V. Orlandi, Scritt. bologn. p. 241),
ci diè il Tancredi tragedia che può aver luogo
tra lt^migliori di questo secolo. Alcune tragedie
abbiamo ancora, che non son prive di qualche
pregio, di Bartolommeo Tortoletti veronese, di
cui si posson veder le notizie presso il marchese
Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 459, ec.) e presso
il Crescimbeni (l. cit. p. 304). Più celebre è il
Solimano del co. Prospero Bonarelli gentiluomo
anconitano, stampato la prima volta in Venezia
nel 1619, e poscia più altre volte. Questa tragedia in fatti, se troppo non avesse dello stil
lirico, e se gli episodii fossero al genere tragico più adattati, avrebbe poche che le potessero stare al confronto. L’autore visse fino
al 1659, e giunse all1 età di circa settant’anni,
aggregato a molte accademie, e caro a più principi, a’ quali ebbe l’onor di servire, e fra gli
desìi Angioli contro Lucifero, e più altre somiglianti immagini veggonsi nc\Y Adamo adombrate per modo, che a
me sembra mollo credibile che anche il Milton dall’immondezze , se cosi è lecito dire, delfAndreini raccogliesse l’oro, di cui adornò il suo poema; come abbiamo altrove veduto die è probabile eh1 ci pur facesse
riguardo aW’Angeleide del Valvasone. Per altro Y Adamo
delfAndreini, benché abbia alcuni tratti di pessimo gusto , ne ha altri ancora che si posson proporre come
modello di eccellente poesia. Yeggasi 1’analisi di questo dramma fatta con ingegno e con esattezza dal chiarissimo sig. conte Gianfrancesco ISapione Galeani Coc’ronalo di Passerano (Dell’uso e de’ pregi della lingua
iial. l. 2 , p. 274» cc*)• TERZO ^31
altri all’arciduca, poi imperador Leopoldo, per
cui comando avendo composti alcuni drammi,
ne ebbe in dono il ritratto gioiellato con un sonetto dallo stesso arciduca composto e scritto
(V. Mazzucch. Scritt. ital. (. 2,par. 3; p. 1554, ec.).
Oltre la detta tragedia più altre opere ce ne
son pervenute, delle quali non giova il dire distintamente. Si possono ancor ricordare non
senza lode alcune tragedie di Ansaldo Ceba,
di cui abbiam detto poc’anzi, e singolarmente
le Gemelle Capoane, e l’Alcippo. Ma niuno scrittore fu sì fecondo nel comporre tragedie, quando
il P. Ortensio Scamacca Gesuita di Lentini in
Sicilia, morto in Palermo nel 1648, di cui ne
abbiamo oltre a cinquanta, altre sacre, altre
profane; intorno alle quali si possono vedere
gli onorevoli giudizii che ne danno il Cresci tubeni (Coment t. 2,par. 2, p. 308), il Quadrio
(t 4> p- 87) e gli altri autori da essi citati.
Molte pure ne abbiamo di Girolamo Bartolommei Smeducci gentiluom fiorentino, autore innoltre di diversi drammi musicali, di un poema
in quaranta canti, intitolato l’America, e di
altre opere che si annoverano dal conte Mazzucchelli (l. cit. t. 2, par. 1, p. 4;0). Egli fiorì
verso la metà del secolo, e finì di vivere nel 1662.
Due cardinali ci vengono ancora innanzi fra gli
scrittori di tragedie. Il primo è il card. Sforza
Pallavicino, noto per la sua Storia del Concilio di Trento, che, essendo tuttor Gesuita,
nel 1644 diè alla luce l’Ermenegildo, e poscia
di nuovo nel 1655 con un Discorso, in cui
difende la sua tragedia da alcune accuse che
le venivano date. Il discorso, per le ottime ^32 LIBRO
riflessioni che in esso contengonsi, è forse più
pregevole della tragedia; ma invano egli in
esso si è affaticato a provare che le tragedie
vogliono essere scritte, com’egli avea fatto,
in versi rimati. L’altro è il Cardinal Giovanni
Delfino} che dopo aver sostenuti onorevoli impieghi nella Repubblica, nominato nel i(ì56 da
Girolamo Gradenigo suo coadiutore nel patriarcato di Aquileia, gli succedette tra poco , da
Alessandro VII nel 1667 fu sollevato all’onor
della porpora, e passò a miglior vita nel 1699.
Quattro tragedie egli scrisse, la Cleopatra, la
Lucrezia, il Medoro e il Creso , le quali, benchè non sieno del tutto esenti da’ difetti del
secolo, per la nobiltà dello stile nondimeno e
per la condotta possono andar del pari colle
migliori dell’età precedente. Ma egli non volle
mai che si pubblicassero. La Cleopatra fu la
prima volta stampata nel Teatro italiano (t. 3).
Quindi tutte quattro vennero a luce, ma assai
guaste e malconcie, in Utrecht nel 1730, finchè una assai più corretta e magnifica edizione
se ne fece dal Comino in Padova nel 1 j33
insieme con un Discorso apologetico del Cardinal medesimo in difesa delle sue Tragedie.
Sei Dialoghi in versi di questo dottissimo cardinale sono poi stati stampati (Miscell, di varie
Op., Ven. 1740) t. 1), ne’ quali ei si mostra
molto versato nella moderna filosofia di que’
tempi, senza però abbandonare del tutto i pregiudizii dell’antica. Ma il loro stile non è sì nobile
e sostenuto come nelle tragedie. L’Aristodemo
del co. Carlo de’ Dottori padovano, stampato
nel 1657, sarebbe una delle più illustri tragedie TERZO - 7 33
italiano, se l’autore seguendo l’uso di quell’età, non P avesse scritta con uno stile troppo
lirico, che mal conviene a tal genere di poesia. Egli è ancora autore di altre Rime , e di
un poema eroico-comico intitolato L’asino stampato in Venezia nel 1652 , e diviso in dieci
canti (a). Finalmente Antonio Muscettola napoletano ci diede la Rosminda e la Belisa, e della
seconda di queste tragedie prese a considerare
i pregi il celebre Angelico Aprosio in un suo
libro sotto il nome di Oldauro Scioppio stampato nel i(JC»4- F queste tragedie ci basti l’avere accennate fra mille altre che pur potrebbonsi nominare, se tale fosse il lor pregio che
l’Italia potesse a ragione andarne lieta e gloriosa.
XXVII. Ma se la tragedia italiana nel corso sviv,’>|li,di
di questo secolo non fece que’ felici progressi mmimI».
che dallo stato a cui essa era giunta nel secolo
precedente, poteansi aspettare, più infelice ancora fu la sorte della commedia, la quale venne
talmente degenerando, ch’essa comunemente
non fu più che un tessuto di ridevoli buffonerie, senza regolarità e senza verosimiglianza
d’intreccio e senza ornamento alcuno di stile,
e spesso ancora ripiena di oscenità e di lordure, per ottenere dalla vil plebaglia quel plauso
(a) Il co. Carlo de’ Dottori fu amicissimo e corrispondente del Redi*, c molte delle lettere che questi scrisse
l O/). t. 4, p. I, ec. ed. Neapol. 1778) fanno conoscere
in quanta stima ne avesse il talento e le poesie; e certo
il Redi era uomo , quant’altri mai fosse, spet to a conoscere ti \ero merito, e a disceruere il buon gusto
dal reo.
- 34 LIBRO
che dalle colte persone non poteasi sperare. Quindi fra molte commedie che pur vennero a luce nel corso di questo secolo, io non oso di far menzione che della Tancia di Michelangelo Buonarroti il giovane, nobile fiorentino e nipote del gran Buonarroti, in cui egli vivamente seppe descrivere il linguaggio non meno che le maniere e i costumi de’ contadini fiorentini , e si mostrò imitatore felice di Terenzio e di Plauto. La Vita di questo colto scrittore è stata dopo altri esattamente descritta dal conte Mazzucchelli (l. cit. t. 2, par. 4» p■ 2352); ma come essa altro non contiene che la serie degl’impieghi ne’ quali egli fu adoperato, da’ suoi sovrani, e delle cariche che sostenne in diverse accademie della sua patria , io non mi arresterò in farne un compendio. Solo non vuolsi tacere che fu il Buonarroti uno splendido promotore delle belle arti e de’ buoni studi, sì col formare colla spesa di ventiduemila scudi una magnifica galleria, come colf adunare in sua casa i più dotti uomini eh1 erano allora in Firenze, e colf animarli a investigare le memorie della comune lor patria j e frutto di queste assemblee fu l’opera da Francesco Segaloni intrapresa per illustrare le famiglie fiorentine, intitolata IL Priorista, che fu poi corretta e ampliata da Bernardo Benvenuti altrove da noi nominato. Egli cessò di vivere agli 11 di gennaio del 1646, dopo aver pubblicate diverse altre operette, come orazioni, cicalate, poesie, lezioni, e scritta un1 altra commedia, intitolata La Fiera, che non fu stampata che nel 1^26. TERZO ^35 XXVIII. Non picciolo parimenti ò il munero xxvm. de1 drammi pastorali che in questo secolo prò- dnmnTf*’ ilusse l1 Italia. Ma in essi ancora in vece di seguir le vestigia de’ primi autori di tal genere di componimento , e di toglierne que’ difetti che sogliono accompagnare le nuove invenzioni, nuovi e peggiori difetti si vennero introducendo singolarmente quanto allo stile, che quasi in tutti si vede vizioso per soverchio raffinamento e per lo smoderato uso di fredde metafore e di ricercati concetti. Forse eran migliori delle altre due Favole pastorali inedite di D. Cesare II, duca di Guastalla, che ad imitazione di D. Ferrante II, suo padre, esercitossi in tali studi de’: quali compiacevasi assai j e alcune lettere da lui scritte , le quali si conservano nell’archivio di Guastalla, e dal chiarissimo P. Affò mi sono state comunicate, ci mostrano che avea in essi buon gusto. Una è intitolata la Procri, che leggesi al fine della Storia ms. di Guastalla del canonico Giuseppe Negri; l’altra La Piaga felice, il cui originale è presso il medesimo P. Affò. E forse maggiori saggi ci avrebbe egli lasciati del suo talento poetico, se la morte non l’avesse in età giovanile rapito l’anno 1632 in Vienna, ove D. Ferrante suo padre, poco prima di morire, l’avea mandato per l’affare della successione al ducato di Mantova. Fra le pastorali stampate io ne accennerò una soltanto che sopra tutte ebbe plauso, cioè la Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli della Rovere, fratello del conte Prospero da noi nominato poc’anzi. Egli era nato in Urbino nel 1563 , ove allora era TiRABOscni, Voi. XV. i3 7^6 LIBRO in molla grazia del duca Guidubaldo II il conte Pietro di lui padre. Dopo la morte del detto duca, parendo al giovane Bonarelli di non essere ugualmente caro al successore Francesco Maria II, passò col padre alla corte del conte Cammillo Gonzaga in Novellara: e indi fu invitato a studiare in Francia, ove diede tai saggi cf ingegno , che in età di diciannove anni gli venne esibita dal collegio della Sorbona una cattedra di filosofia. Ma richiamato dal padre in Italia , fu qualche tempo presso il Cardinal Federigo Borromeo, indi al servigio di Alfonso II duca di Ferrara, e poi di Cesare duca di Modena, onorato da essi di ragguardevoli cariche e di cospicue legazioni. Il cardinale d1 Esle chiamollo a Roma all’impiego di suo primo maggiordomoj ma nel viaggio, sorpreso in Fano da mortal malattia in casa di Federigo da Munte vecchio suo zio, finì di vivere agli 8 di gennaio del 1608 in età di quarantacinque anni, lasciando una sola figlia avuta da Laura Coccapani sua moglie. Queste sono le principali circostanze della vita del conte Guidubaldo, che ci narran gli autori citati dal conte Mazzucchelli (l. cit t. 2, par. 3, p. 1549). Ma altre diverse ne ho io trovate in una Cronaca ms. di Modena dal 1600 al 1637, scritta da Giambattista Spaccini modenese che allora vivea , e che conservasi nell’archivio di questa città. Ivi ai 22 di agosto del 1600 si legge così: Questa sera V Imola (segretario di Stato del duca Cesare) a hore 22 fece commissione al sig. conte Guidubaldo Bonarelli Anconitano , Cameriero secreto diS.A.j clic in termine TERZO 737 J ho re 2:\ si debba levare di su il suo Stato: la causa non si sà. Quindi soggiugne che il dì seguente a 12 ore egli partì, rimanendo in Modena i conti Antonio e Prospero di lui fratelli con una loro zia. Aggiugne che si diceva che la cagione di questa sua disgrazia fosse il matrimonio da lui contratto colla suddetta Laura in modo e con circostanze tali, che avevano irritato Y animo del duca f sicché invece di mandarlo, come avea destinato, suo ministro in Francia, mandollo in esilio. Lo stesso storico fa qui un breve compendio della storia di questa famiglia , e oltre le cose da noi notate, dice che il conte Pietro padre di Guidubaldo si era renduto odioso nel ducato di Urbino per le gravezze che avea fatte imporre a que’ popoli; che fu poi costretto a fuggire, perchè fu accusato di avere avuta parte in una congiura contro il duca Francesco Maria, e che tutti i beni gli furono confiscati; che in Novellara avendo egli tentato di unire un de’ suoi figli in matrimonio con una nipote del conte Cammillo Gonzaga, questi gli ordinò di partire nel termine di 24 ore; che allora tutti vennero a Modena, ove poscia il conte Pietro morì. e i figli passarono a Ferrara al servigio del duca Alfonso II, e quindi col duca Cesare si erano trasferiti a Modena; e conchiude ch’era gran danno che il conte Guidubaldo fosse caduto in tal fallo , per essere giovane dottissimo, et bellissimo dicitore, portando però con lui la sua parte dell’ambizione. Indi sotto a’ 30 del detto mese racconta che il conte Guidubaldo erasi ritirato a Ferrara, e narra più 7^8 LIBIIO stesamente l’accennata origine della sua disgrazia) e a’ 26 di aprile del 1601 racconta che il Bonarelli avea ottenuto di venire a Modena a baciar la mano al duca prima di ritirarsi a’ suoi castelli. Il suddetto dramma fu da lui pubblicato in Ferrara nel 1607, e fu allor fatto solennemente rappresentare dagli Accademici Interpreti di quella città, de’ quali egli era stato uno de’ primi fondatori. L1 applauso con cui esso fu ricevuto, ne fece poscia moltiplicar l’edizioni, e alcune ne ha vedute il nostro secolo ancora e in Italia e oltremonti, ed è anche stato tradotto in francese e in inglese. Ed è sentimento comune de’ dotti, che dopo l’Aminta del Tasso e il Pastor fido del Guarini debbasi a questo il primo luogo. Ma se que’ primi due drammi venner da alcuni ripresi, perchè i pastori vi s’introducessero a ragionare con sentimenti e con espressioni troppo raffinate, molto più deesi questa critica alla Filli di Sciro , in cui, oltre un raffinamento anche maggiore, si veggon non pochi saggi del guasto stile che allor tanto piaceva. Ne fu ancora in qualche parte biasimato l’intreccio, e singolarmente il doppio amore di cui egli fa compresa la sua Celia; e questa accusa diede occasione a’ discorsi eh’ ci pubblicò in sua difesa. Intorno alle quali, e a più altre notizie delie opere del Bonarelli, io rimetto chi legge a quelle notizie che ce ne somministra il conte Mazzucclielli. k XXIX. XXIX. Ma a niun genere di poesia teatrale drammi per fu in questo secolo l’Italia sì ardentemente rivolta, come a’ drammi per musica , i cui TERZO ^3t) cominciaracnti abbiam veduti nella storia del secolo precedente. Questi però invece di ricevere dal generale entusiasmo, che per essi si accese? maggior perfezione, furono anzi da esso condotti a una total decadenza. Pareva che tutto lo studio de’ poeti drammatici s1 impiegasse nel sorprendere e riempire di stupor gli ascoltanti con solenni maravigliose comparse, e purchè l’occhio fosse appagato, sacrificavasi ad esso ogni altra cosa (a). La magnificenza de1 principi . (a) 11 sig. abate Arteaga, parlando del reo gusto che ne’ drammi musicali di questo secolo s’introdusse, dice (Rivoluz. del Teatro music, ital. t. 1, p. 268, ec.). Ma donde sia venuta in mente a’ poeti siffatta idea, per qual istrano cangiamento una nazione sì colta se ne sia compiacciuta a tal segno, che abbia nel Teatro antiposta la mostruosità alla decenza, il dubbio alla verità, C esclusione di’ ogni buon senso alle regole inalterabili di critica lasciateci dagli antichi, se il male sia venuto dalla poesia ovver dalla musica, o se tutto debba ripetersi dalle circostanze dei tempi, ecco ciò che niuno Autore italiano ha finora preso ad investigareì e quello che mi veggo in necessità di dover eseguire. \ eggiamo dunque ciò che questo valoroso autore osserva. Egli avverte che l’uomo naturalmente ama il maraviglioso, e gode di tutto ciò che ha dello strano e del sorprendente, che quindi nacquero le favole mitologiche, gl’incantesimi, i romanzi, ec. Osserva poscia che essendo lo stil poetico diverso assai dal prosaico, e il poetico musicale essendo ancora assai più difficile del poetico ordinario, e riuscendo esso perciò men gradito al popolo, i poeti si rivolsero a supplire a questa difficoltà coll’introdurre il maraviglioso, e disperando di soddisfare il buon senso , s3 ingegnarono di piacere all’immaginazione. Tutto ciò vedesi lungamente ed eloquentemente svolto dall’ingegnoso scrittore. Ma è ella sciolta con ciò la proposta quislione? l.e suddette ragioni concorrevano ugualmente e a’ cominciaulenti 7^° LIBRO e ile’ privali in queste decorazioni contribuì essa ancora a fare eli1 esse fossero il principale oggetto dell’attenzion de1 poeti. Celebre per questo genere fu singolarmente il teatro del proccurator Marco Contarmi eretto in Piazzola , dieci miglia lungi da Padova , ove nel 1G80 e nel 1G81 si videro girar sulla scena tirate da superbi destrieri lino a cinque ricchissime carrozze e carri trionfali , e cento Amazzoni e cento Mori, c cinquanta altri a cavallo, e caoeie, ed altri solenni spettacoli (V. Quadrio, t 5, p. 4^5). Le corti di Modena e di Mantova fecero pompa in ciò verso la fine del secolo, quasi a gara l’una dell1 altra, di 1111 lusso veramente reale: La Musica, dice il Muratori (Ann. d’Jtal. ad an. 1690), c quelli particolarmente de Teatri, era salita in alto pregio, attendendosi dappertutto a suntuose opere in Musica, con essersi trasferito a decorare i Musici e le Musicìiessc t adulteralo tìtolo di del dramma musicale verso la fine del secolo xvi e al secol seguente, in cui il dramma medesimo, che avea avuto sì felice principio, decadde sì miseramente, c a’ tempi del Zeno c del Metastasio, in cui giunse alla sua perfezione, e a’ tempi nostri, in cui esso sembra decader! nuovamente. Il maraviglioso e il mitologico erasi introdotto anche dal Ri micci ni, ma egli ne usò saggiamente; que’ che vennero appresso, ne abusaron di troppo. Ecco dunque ciò che noi vorremmo sapere , c non è ancora spiegato; per qual ragione nel secolo scoso, e non prima, e non dopo, siasi un sì reo gusto introdotto nel dramma musicale, Veggasi intorno a questo argomento il Giornale di Modena, ove si parla della prima edizione dell’opera dell’abate Arteaga t 28, p. 276 , co.). I TERZO 74I Virtuosi e Virtuose. Gareggiavano più fieli altre fra loro le Corti di Mantova e di Modena , dove i Duchi Ferdinando Carlo Gonzaga, e Francesco 11 dì Estc, 5/ studiavano di tenere al loro stipendio i più accreditati Cantanti, e le più rinomate Cantatrici, e i Sonatori più cospicui di varii musicali strumenti. Invalse in questi tempi! l’uso di pagare le ducento, trecento , ed anche più doble a cadauno de’ più melodiosi Attori ne’ Teatri, oltre al dispendio grande dell Orchestra , del Vestiario, delle Scene , delle illuminazioni Spezialmente Venezia colla sontuosità delle sue opere in Musica, e con altri divertimenti tirava a sè nel Carnevale un incredibil numero di gente straniera, tutta vogliosa di piaceri, e disposta allo spendere. Roma stessa, essendo cessato il rigido contegno di Papa Innocenzo XI, cominciò ad assaporare i pubblici solazzi, ne’ quali nondimeno mai non mancò la modestia; e videsi poscia Pippo Acciajuoli nobile Cavaliere con tanto ingegno architettar invenzioni di macchine in un privato Teatro, che si trassero dietro r ammirazione (V ognuno, e meritavano ben di passare alla memoria de’ posteri. Poco dunque importava che i drammi fossero regolari, verisimili gli avvenimenti, ben ideato V intreccio, purché magnifica fosse la scena, e varie e ammirabili le comparse. E i poeti avendo nel lor comporre riguardo al genio de’ lor padroni non meno che degli spettatori, di altro non eran solleciti che di piacere a’ loro occhi. Questo è il carattere di quasi tutti i drammi di questo secolo 3 nè può esser perciò glorioso all1 Italia 742 LIBRO il far menzione ili lauti che nello scriverli si occuparono. Tra essi i più rinomati, se non per l’eccellenza, pel numero almeno de’ loro drammi, furono Andrea Salvadori fiorentino (a), Ottavio Tronsarelli da noi già nominato altrove, Benedetto Ferrari di patria reggiano, e soprannomato dalla Tiorba, perchè era celebre sonatore dello stromento di questo nome (b) • Giovanni Faustini veneziano, Giacinto Andrea Cicognini fiorentino, di cui dicesi che fosse il primo che introducesse le ariette ne’ drammi, usandole la prima volta nel suo Giasone (V. Planelli dell’Op. in mus. p. 14) (c)) Niccolò (a) 11 suddetto sig. abate Arteaga rende giustiria al Salvadori annoverandolo tra un di que’ pochi poeu die sepper seguire le vestigio del Itinuccini (Rivoluz. del Teatro music, ital. t. r, p. 341, sec. ed.), della qual lode ei concede ancor qualche parte ad alcuni de" drammi del co. Prospero Boiiarelli, dell" Adimaii, del Moniglia e di Girolamo Preti; c osserva inoltre che nelle opere bulle il contagio fu minore che nelle serie, c ne reca in pruova il transunto della Verità raminga di Francesco Sbarra, che è certamente piacevole e grazioso. (b) Di Benedetto Ferrari, che fu insieme scrittoi’ de’ drammi, e compositore della lor musica, celebre a’ suoi tempi, e che fu il primo a far rappresentare pubblicamente in Venezia i drammi musicali, si è parlato a lungo nella Biblioteca modenese (t. 2, p. 2l>5; t. 6, p. no). (c) Abbiamo nel precedente tomo osservato che si è ingannato il sig. aliate Arteaga nel volere additarsi un’aria assai anteriore al Cicognini nella Euridice del Rinuccini, giacchè quella nè per riguardo alla musica , nè per riguardo alla poesia non può avere il nome di aria. Il sig. Napoli Signorelli, che troppo docilmente avea in ciò seguita l’opinione dell’Arteaga, avea anche additata un’altr’aria assai più antica Euridice iu TERZO 74O Minato bergamasco, poeta della corte imperiale di Vienna (a), Giacomo Castoreo veneziano, Francesco Sbarra lucchese, Aurelio Aureli veneziano, il conte Francesco Berni ferrarese, una farsa drammatica del Notturno, stampata nel 1518 (Vicende della Coltura nelle Sicil. t. 3, p. 376). Ma, come si è ivi osservato, e come ha provato il sig. Ginnikalista dalP Olio nella lettera ivi indicata, non si può nè quella, nè alcun7 a] tr’aria di quel secolo annoverare tra quelle che or diconsi arie drammatiche. Ad assicurare nondimeno meglio il Cicognini la gloria di esserne stato il primo inventore, converrebbe esaminare attentamente la musica di altre azioni drammatiche circa quel tempo pubblicate, in cui veggonsi alcune che per riguardo alla poesia debbon certamente dirsi arie. (a) 11 teatro di Vienna fu il primo , a mio parere, fuori d3 Italia , in cui s’introducesse il dramma per musica; e io credo che la prima idea ne portasse seco da Mantova l’arciduca Leopoldo figlio dell’imperador Ferdinando II, il quale l’anno 1626 venuto a Mantova, vi vide rappresentare per musica nell3 Accademia degl" Invaghiti V Europa di Baldovino di Monte Simoncelli. I primi poeti cesarei veggonsi alla corte dell" imperador Leopoldo di lui nipote; ed essi furono Niccoli’ » Minato bergamasco e Francesco Sbarra lucchese (Quadrio , t. 5, p. 462, 4^8 7 4^9)- Fu anche alla corte medesima col titolo di poeta cesareo, benchè non sappiamo che scrivesse drammi per musica, Giovanni Pierelli da Trasilico nella Garfagnana, il quale era anche segretario del celebre principe Raimondo Montecuccoli. Una memoria di mano del Vallisnieri conservasi presso il ch. sig. Vincenzo Malacarne, in cui curiose notizie contengonsi intorno all3 incostante e capriccioso carattere del Pierclli, che era tanto amalo dall3 imperador Leopoldo, che questi fu veduto stare con lui alla finestra per ben mezz3 ora tenendogli il braccio al collo. Ma il Pierelli invaghitosi di una Olandese, lasciò la corte, e, dopo varie vicende , morì assai povero nella sua patria. 741 unito Giulio Cesare Corradi parmigiano , autore di moltissimi drammi, e di quello fra gli altri intitolato La Divisione del Mondo, la cui rappresentazione fatta in Venezia fu una delle più splendide che mai si vedessero- Adriano Morselli e Francesco Silvani veneziani, Pietro d’Averara bergamasco, per tacere di mille altri che al par di questi si potrebbono nominare (a). Solo verso la fine del secolo e ne’ primi anni del nostro cominciarono i drammi a prendere miglior aspetto, e tra quelli a’ quali se ne dee la lode, voglionsi annoverare Silvio Stampiglia romano, che visse fino al 172!), e di cui si ha I* elogio nel Giornale de’ Letterati d’Italia (l. 38, par. 2); Pietro Antonio Bernardoni natio di Vignola nel ducato di Modena, lodalo come valoroso poeta da Apostolo Zeno, e intorno al quale più copiose notizie si posson vedere presso il conte Mazzucchelli (Scrìtt. ital. t. 2. par. 2 , p. 977 , ec.), e Giannandrea Moneglia, quel desso di cui abbiamo altrove narrate le controversie che ebbe col Magliabecchi, col Cinelli e col Ramazzini. Al suddetto Zeno era riserbala la gloria di ricondurre il dramma (a) Al genere drammatico ridur si possono gli oratorii per musica, genere di componimento che a questo secolo dee la sua origine. Il sig. conte commendator Carli ne addita il primo scrittore in Domenico Giberti, di cui in un libro stampato in Monaco nel 1672, e intitolato Urania Poesie celesti, si hanno nove Oratori per musica (Carli, Op. t. 17, p. 26). Ma il Quadrio ne accenna alcuni più antichi esempii (Stor. e Ragione (V ogni Poes. t. 3 , par. 1, p.) e quelli singolarmente di Francesco Calducci morto nel 1 G\i. TFRZO 74^ alla maestà e al decoro che gli conviene, e al gran Metastasio quella tanto maggiore di riunire in esso tutti que’ pregi che posson rendere amabile e bella la drammatica poesia. Ma queste glorie appartengono al nostro secolo, di cui non è questo il luogo di ragionare. « XXX. Nello stesso secolo di cui parliamo, diede 1* Italia , come già si è avvertito nella «*»• nuova edizione della Drammaturgia dell’Allacci,,l j’ il primo esempio di un nuovo genere di dramma, che, condotto poscia alla sua perfezione dal celebre Gio. Giacomo Rousseau, si è creduto. e credesi comunemente da lui trovato. Esso è il monologo, ossia il dramma a un sol personaggio, e tale è il Rodrigo di D. Giuseppe Malatesta Garuffi riminese, stampato prima in Roma nel 1677, poi ristampato in Parma. In esso s’introduce il suddetto re che entra in una sotterranea spelonca creduta opera d’arte magica; e i pericoli che v’incontra, i mostri che gli si fanno vedere, i prodigii ch’egli vi osserva , fanno tutto l’intreccio di questo dramma, che quanto allo stile ha tutti i difetti del secolo, e quanto alla condotta ancora non ha cosa che lo renda pregevole; e solo merita d’essere rammentato, per essere il primo, benchè informe, saggio di un tale componimento. Nè io credo perciò, che da esso ne prendesse l’idea il Rousseau; perchè troppo è difficile che questo libercolo passasse le Alpi ». « XXXI. Cominciò anche in questo secol 1’I- (xxx{m_ talia ad essere innondata da infiniti romanzi, 1 •rodili Manilla tutti scritti secondo l’infelice gusto che al-r * lor regnava, Io perciò non gitterò il tempo nel 746 treno ragionarne, e solo dirò di uno nulla miglior degli altri, e che nondimeno tra gli stranieri, che talvolta insultano al reo gusto degl1 Italiani, fu accolto con plauso, e anche nel nostro secolo è stato più volte tradotto. Esso è il Caloandro fedele di Giannambrogio Marini nobile genovese. Egli stampollo dapprima col titolo di Caloandro , sotto il nome di Giovanni Mara Indres boemo, fingendolo tradotto dal tedesco, colla data di Bracciano nel 1640, e vi aggiunse poi la parte II, stampata in Venezia nel 1641. Ristampollo poscia più volte or col titolo di Endimiro creduto Uranio, or con quello di Caloandro sconosciuto, e finalmente con quello di Caloandro fedele. Or questo romanzo fu prima tradotto in francese da Giorgio Scudery, e stampato nel 1668. Ma ciò non basta. Il celebre conte di Caylus non isdegnossi di nuovamente tradurlo, e questa traduzione fu stampata in Parigi nel 1760, e poi di nuovo in Lion nel 1788 coll’aggiunta dell’altro romanzo del Marini intitolato Le, Gare de’ Disperati. E nella prefazione a questi romanzi, premessa da M. Delandine, essi si esaltano con somme lodi, e si dice che Tommaso Cornelio ha preso dal Caloandro l’argomento del suo Timocrate, e che il Calprenede nella sua Cleopatra da esso ha tratto l’episodio di Alcamene. Così l’Italia si può vantare che gli autori da lei or riprovati , veggonsi nondimeno con piacere e con onore accolti da altre nazioni. Anche un certo Vulpius tedesco ha tradotto il Caloandro, cambiandolo però in gran parte, e 1’ ha pubblicato nel 1787 ».
- Testi in cui è citato Gabriello Chiabrera
- Testi in cui è citato Guillaume de Salluste Du Bartas
- Testi in cui è citato Pietro Bembo
- Testi in cui è citato Ludovico Ariosto
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- Testi in cui è citato Luigi Malaspina di Sannazzaro
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