Opere (Lorenzo de' Medici)/II. Comento del magnifico Lorenzo de' Medici sopra alcuni de' suoi sonetti
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II
COMENTO
del magnifico LORENZO DE’ MEDICI
sopra alcuni de’ suoi sonetti
Assai sono stato dubbioso e sospeso se dovevo fare la presente interpetrazione e comento de’ miei sonetti; e, se pur qualche volta ero inclinato a farlo, le infrascritte ragioni mi occorrevano in contrario e mi toglievano da questa opera. Prima la presunzione nella quale mi pareva incorrere comentando io le cose proprie, cosí per la troppa estimazione che mostravo fare di me medesimo, come perché mi pareva assumere in me quel giudicio che debbe essere d’altri, notando in questa parte l’ingegni di coloro alle mani de’ quali perverranno i miei versi, come poco sufficienti a poterli intendere. Pensavo oltr’a questo poter esser da qualcuno facilmente ripreso di poco giudicio, avendo consumato il tempo nel comporre e comentar versi, la materia e subietto de’ quali in gran parte fussi una amorosa passione; e questo essere piú riprensibile in me per le continue occupazioni e publiche e private, le quali mi dovevano ritrarre da simili pensieri, secondo alcuni non solamente frivoli e di poco momento, ma ancora perniciosi e di qualche pregiudicio cosí all’anima nostra come all’onore del mondo. E, se questo è, il pensare a simili cose è grande errore, il metterle in versi è molto maggiore, ma il comentarle non pare minor difetto che sia quello di colui che ha fatto un lungo e indurito abito nelle male opere, massime perché i comenti sono riservati per cose teologiche o di filosofia, e importanti grandi effetti, o a edificazione e consolazione della mente nostra o ad utilitá dell’umana generazione. Aggiugnesi ancora questo, che forse a qualcuno parrá riprensibile, quando bene la materia e subietto fussi per sé assai degno, avendo scritto e fattone menzione in lingua nostra materna e volgare, la quale, dove si parla ed è intesa, per essere molto comune, non pare declini da qualche viltá, ed in que’ luoghi dove non ne è notizia, non può essere intesa, e però a questa parte questa opera e fatica nostra pare al tutto vana e come se non fussi fatta.
Queste tre difficoltá hanno infino ad ora ritardato quello che piú tempo fa avevo proposto, cioè la presente interpetrazione. Al presente ho pur deliberato, vinto, al mio parere, da miglior ragioni, metterla in opera, pensando che, se questa mia poca fatica sará di qualche estimazione e grata a qualcuno, sará bene collocata e non al tutto vana, se pure ará poca grazia, sará poco letta e da pochi vituperata, e, non essendo molto durabile, poco durerá ancora la reprensione nella quale possa incorrere.
E, rispondendo al presente alla prima ragione ed a quelli che di presunzione mi volessino in alcun modo notare, dico che a me non pare presunzione l’interpetrare le cose mie, ma piú presto tôrre fatica ad altri; e di nessuno è piú proprio ufficio lo interpetrare che di colui medesimo che ha scritto, perché nessuno può meglio sapere o eligere la veritá del senso suo, come mostra assai chiaramente la confusione che nasce dalla varietá de’ comenti, ne’ quali il piú delle volte si segue piú tosto la natura propria che la intenzione vera di chi ha scritto. Né mi pare per questo argomento ch’io tenga troppo conto di me medesimo o tolga ad altri il giudicarmi, perché credo sia ufficio vero d’ogni uomo operare tutte le cose a beneficio degli uomini, o proprio o d’altri. E, perché ognuno non nasce atto a potere operare quelle cose che sono reputate prime nel mondo, è da misurare se medesimo e vedere in che ministerio meglio si può servire all’umana generazione ed in quello esercitarsi, perché e alla diversitá degl’ingegni umani e alla necessita della vita nostra non può satisfare una cosa sola, ancoraché sia la prima e piú eccellente opera che possino fare gli uomini; anzi pare che la contemplazione, la quale sanza controversia è la prima e piú eccellente . . . . . . . . . . . . . . . 1; e per questo si conclude non solamente molte opere d’ingegno, ma ancora molti vili ministerii concorrere di necessitá alla perfezione della vita umana, ed essere vero officio di tutti gli uomini, in quel grado che si truovono o dal cielo o dalla natura o dalla fortuna disposti, servire alla umana generazione. Io arei ben desiderato potermi esercitare in maggior cose; né voglio però per questo mancare in quello che sopporta l’ingegno e forze mie a qualcuno, se non a molti, i quali forse, piú tosto per piacere a me che perché le cose mie satisfaccino a loro, mi hanno confortato a questo, l’autoritá e grazia de’ quali vale assai appresso di me. E, se non potrò far altra utilitá a chi leggerá i versi miei, almanco qualche poco di piacere se ne piglierá, perché forse troveranno qualche ingegno proporzionato e conforme al loro; e, se pure qualcuno se ne ridessi, a me sará grato che tragga de’ versi miei questa voluttá, ancora che sia piccola, parendomi massimamente, publicando questa interpetrazione, sottomettermi piú tosto al giudicio degli altri: conciosiaché, se da me medesimo avessi giudicato questi miei versi indegni d’essere letti, arei fuggito il giudicio degli altri; ma, comentandoli e publicandoli, fuggo, al mio parere, molto meglio la presunzione del giudicarmi da me medesimo.
Ora, per rispondere alle calunnie di quelli che volessino accusarmi avendo io messo tempo e nel comporre e nel comentare cose non degne di fatica o di tempo alcuno, per essere passioni amorose, ecc., e massime tra molte mie necessarie occupazioni, dico che veramente con giustizia sarei dannato, quando la natura umana fussi di tanta eccellenzia dotata, che tutti gli uomini potessino sempre operare tutte le cose perfette; ma, perché questo grado di perfezione è stato concesso a molti pochi ed a questi pochi ancora molto rade volte nella vita loro, mi pare si possa concludere, considerata la imperfezione umana, quelle cose essere migliori al mondo nelle quali interviene minor male.
E, giudicando piú tosto secondo la natura comune e consuetudine universale degli uomini, se bene non lo oserei affermare, pure credo l’amore tra gli uomini non solamente non essere reprensibile, ma quasi necessario ed assai vero argumento di gentilezza e grandezza d’animo, e sopratutto cagione d’invitare gli uomini a cose degne ed eccellenti, ed esercitare e riducere in atto quelle virtú che in potenzia sono nell’anima nostra. Perché chi cerca diligentemente quale sia la vera difinizione dell’amore, trova non essere altro che appetito di bellezza. E se questo è, tutte le cose deforme e brutte necessariamente dispiacciono a chi ama.
E mettendo per al presente da parte quello amore, il quale, secondo Platone, è mezzo a tutte le cose a trovare la loro perfezione e riposarsi ultimamente nella suprema Bellezza, cioè Dio, parlando di quello amore che s’estende solamente ad amare l’umana creatura, dico che, se bene questa non è quella perfezione d’amore che si chiama «sommo bene», almanco veggiamo chiaramente contenere in sé tanti beni ed evitare tanti mali, che secondo la comune consuetudine della vita umana tiene luogo di bene, massime se è ornata di quelle circostanzie e condizioni che si convengono ad un vero amore, che mi pare siano due: la prima che si ami una cosa sola, la seconda che questa tale cosa si ami sempre. Queste due condizioni male possono cadere se il subietto amato non ha in sé, a proporzione dell’altre cose umane, somma perfezione, e che oltre alle naturali bellezze non concorra nella cosa amata ingegno grande, modi e costumi ornati e onesti, maniera e gesti eleganti, destrezza d’accorte e dolci parole, amore, constanzia e fede. E queste cose tutte convengono necessariamente alla perfezione dell’amore, perché, ancoraché il principio d’amore nasca dagli occhi e da bellezza, nondimeno alla conservazione e perseveranza in esso bisognano quell’altre condizioni; perché, o se per infermitá o per etá o per altra cagione si scolorissi il viso e mancassi in tutto o in parte la bellezza, restino tutte quell’altre condizioni non meno grate all’animo e al cuore che la bellezza agli occhi. Né sarebbono ancora queste tali condizioni sufficienti, se ancora in colui che ama non fusse vera cognizione di questa condizione, che presuppone perfezione di giudicio nell’amante; né potrebbe essere amore della cosa amata verso colui che ama, se quello che ama non meritassi essere amato, presupposto l’infallibile giudicio della cosa amata.
E però chi propone un vero amore, di necessitá propone grande perfezione, secondo la comune consuetudine degli uomini, cosí nello amato come in chiama; e, come avviene di tutte l’altre cose perfette, credo che questo tale amore sia suto al mondo molto raro: che tanto piú arguisce l’eccellenzia sua. Chi ama una cosa sola e sempre, di necessitá non pone amore ad altre cose, e però si priva di tutti gli errori e voluttá, nelle quali comunemente incorrono gli uomini; ed, amando persona atta a conoscere e cercando in ogni modo che può di piacerli, bisogna di necessitá che in tutte le opere sue cerchi degnificarsi e farsi eccellente tra gli altri, seguitando opere virtuose per farsi piú degno che può di quella che lui stima sopra all’altre degnissima, parendogli che in palese e in occulto come la forma della cosa amata sempre è presente al core, cosí sia presente a tutte l’opere sue, le quali laudi o riprenda secondo la loro convenienzia, come vero testimonio ed assistente giudice non solo dell’opera, ma de’ pensieri. E cosí, parte colla vergogna reprimendo il male, parte collo stimolo di piacerli eccitando il bene, sempre questi tali, se perfettamente non operano, almanco fanno quello che al mondo è reputato manco male, la quale cosa rispetto alla imperfezione umana al mondo per bene si elegge.
Questo adunque è stato il subietto de’ versi miei; e se, pure con tutte queste ragioni, non risponderò alle obtrettazioni e calunnie di chi mi volessi dannare, almanco, come disse il nostro fiorentino poeta, appresso di quelli che hanno provato che cosa è amore:
il giudicio de’ quali è assai a mia satisfazione. Perché, se gli è vero, come dice Guido bolognese, che amore e gentilezza si convertino e sieno una cosa medesima, credo che agli uomini basti e solamente sia espettibile la laude degli alti e gentili ingegni, curandosi poco degli altri, perché è impossibile fare opera al mondo che sia da tutti gli uomini laudata. E però chi ha buona elezione si sforza acquistar laude appresso di quelli che ancora sono degni di laude e poco curano l’opinione degli altri. A me pare si possa poco biasimare quello che è naturale: nessuna cosa è piú naturale che l’appetito d’unirsi colla cosa bella, e questo appetito è stato ordinato dalla natura negli uomini per la propagazione umana, cosa molto necessaria alla conservazione dell’umana spezie. Ed a questo la vera ragione che ci debba muovere non è nobiltá di sangue, né speranza di possessioni, di ricchezza o altra commoditá, ma solamente la elezione naturale non sforzata né occupata d’alcun altro rispetto, ma solamente mossa da una certa conformitá e proporzione che hanno insieme la cosa amata e lo amante a fine della propagazione dell’umana spezie. E però sono sommamente da dannarsi quelli, i quali l’appetito muove ad amare sommamente le cose che sono fuori di quest’ordine naturale e vero fine giá proposto da noi, e da laudare quelli, che seguitando questo fine, amano una cosa sola diuturnamente e con ferma constanzia e fede. A me pare che assai copiosamente sia risposto a tale obietto; e, dato che questo amore, come di sopra abbiamo detto, sia bene, non pare molto necessario a purgare quella parte che in me parrebbe forse piú che reprensibile per le diverse occupazioni publiche e private; perché, se gli è bene, il bene non ha bisogno d’alcuna escusazione, perché non ha colpa. E se pure qualche scrupoloso giudicio non volessi ammettere queste ragioni, almanco conceda questa piccola licenzia all’etá giovenile e tenera, la quale non pare tanto obligata alla censura e giudicio degli uomini, e nella quale non pare tanto grave qualunque errore, massime perché è piú stimulata a declinare dalla via retta per la poca esperienzia, manco si può opponere a quelle cose che la natura e comune uso degli altri persuadono. Questo dico in caso che pure fussi stimato errore amare molto con somma sinceritá e fede una cosa, la quale sforza per la perfezione sua l’amore dello amante; la qual cosa non confesso essere errore. E se questo è, o per le ragioni dette o avuto rispetto all’etá, né il comporre né il comentare miei versi fatti a questo proposito mi può essere imputato a grave errore. E dato che fussi vero che non si convenissi comento a simile materia, per essere piccola e poco importante, o a edificazione o a contento della mente nostra, dico, che se questo è, la fatica di questo comento convenirsi massimamente a me, acciò che altro ingegno di piú eccellenzia che il mio non abbia a consumarsi o metter tempo in cose sí basse; e se pure la materia è alta e degna, come pare a me, il chiarirla bene e farla piana ed intelligibile a ciascuno essere molto utile; e per questo e per quello che ho detto di sopra, nessuno il può fare con piú chiara espressione del vero senso che io medesimo. Né io sono stato il primo che ho comentato versi importanti simili amorosi subietti, perché Dante lui medesimo comentò alcuna delle sue canzoni ed altri versi; ed io ho letto di Egidio romano e Dino del Garbo, eccellentissimi filosofi, sopra quella sottilissima canzone di Guido Cavalcanti, uomo al tempo suo riputato primo dialettico che fussi al mondo, e inoltre a questi versi vulgari eccellentissimo, come mostrano tutte l’altre sue opere e massime la sopradetta canzone che comincia:
Donna mi prega, ecc.,
la quale non importa altro che il principio come nasce ne’ cuori gentili amore, e gli effetti suoi. E se pure alla purgazione mia non sono sufficienti né le soprascritte ragioni né gli esempi, la compassione almeno mi doverre’ giustificare, perché, essendo nella mia gioventú stato molto perseguitato dagli uomini e dalla fortuna, qualche poco di refrigerio non mi debbe essere negato, il quale solamente ho trovato ed in amare ferventemente e nella composizione e comento de’ miei versi, come piú chiaramente faremo intendere quando verremo alla esposizione di quel sonetto che comincia:
Se tra gli altri sospir ch’escon di fore, ecc.
Quali sieno sute le mie maligne persecuzioni per essere assai publiche e assai note, qual sia suta la dolcezza e refrigerio che il mio dolcissimo e constantissimo amore ha dato a queste, è impossibile che altri che io lo possi intendere. Perché, quando bene l’avessi ad alcuno narrate, cosí era impossibile a lui lo intenderle, come a me riferirne il vero. E però torno al sopradetto verso del nostro fiorentino poeta, che dove sia chi per pruova intenda amore (cosí questo amore che io ho tanto laudato come qualche particolare amore e caritá verso di me);
spero trovar pietá non che perdono.
Resta adunque solamente rispondere alla obiezione che potessi essere fatta, avendo scritto in lingua vulgare, secondo il giudicio di qualcuno, non capace o degna di alcuna eccellente materia e subietto.
Ed a questa parte si risponde: alcuna cosa non essere manco degna per essere piú comune; anzi si pruova ogni bene essere tanto migliore quanto è piú comunicabile ed universale, come è di natura sua quello che si chiama «Sommo Bene»; perché non sarebbe sommo se non fussi infinito, né alcuna cosa si può chiamare «infinita», se non quella che è comune a tutte le cose.
E però non pare che l’essere comune a tutta Italia la nostra materna lingua li tolga dignitá, ma è da pensare in fatto la perfezione o imperfezione di detta lingua. E, considerando quali sieno quelle condizioni che dánno dignitá e perfezione a qualunque idioma o lingua, a me pare siano quattro; delle quali una o al piú due sieno proprie e vere laudi della lingua, l’altre piú tosto dipendino o dalla consuetudine ed oppinione degli uomini o dalla fortuna. Quella che è vera laude della lingua è l’essere copiosa e abondante ed atta ad esprimere bene il senso e il concetto della mente. E però si giudica la lingua greca piú perfetta che la latina e la latina piú che l’ebrea, perché l’una piú che l’altra meglio esprime la mente di chi ha o detto o scritto alcuna cosa. L’altra condizione che piú degnifica la lingua è la dolcezza ed armonia che risulta piú d’una che di un’altra; e, benché l’armonia sia cosa naturale e proporzionata con l’armonia dell’anima e del corpo nostro, nondimeno a me pare, per la varietá degl’ingegni umani, che tutti, se non sono bene proporzionati e perfetti, questa sia piú presto oppinione che ragione: conciosiaché quelle cose che si giudicano secondo che comunemente piacciono e non piacciono, paiono piú tosto fondate nella oppinione che nella vera ragione, massime quelle, il piacere e dispiacere delle quali non si pruova con altra ragione che coll’appetito. E, non ostanti queste ragioni, non voglio però affermare questa non poter essere propria laude della lingua; perché, essendo l’armonia, come è detto, proporzionata alla natura umana, si può inferire il giudicio della dolcezza di tale armonia convenirsi a quelli che similmente sono bene proporzionati a riceverla, il giudicio de’ quali debbe essere accettato per buono, ancora che fussino; perché le sentenzie e giudici degli uomini piú presto si debbono ponderare che numerare.
L’altra condizione che fa piú eccellente una lingua è quando in una lingua sono scritte cose sottili e gravi e necessarie alla vita umana, cosí alla mente nostra come all’utilitá degli uomini e salute del corpo: come si può dire della lingua ebrea per li ammirabili misterii che contiene, accomodati, anzi necessari all’infallibile veritá della fede nostra; e similmente della lingua greca, contenente molte scienze metafisiche, naturali e morali, molto necessarie alla umana generazione. E, quando questo avviene, è necessario confessare che piú presto sia degno il subietto che la lingua, perché il subietto è fine e la lingua mezzo. Né per questo si può chiamare quella lingua piú perfetta in sé, ma piú tosto maggior perfezione della materia che per essa si tratta. Perché chi ha scritto cose teologiche, metafisiche, naturali e morali, in quella parte che degnifica la lingua nella quale ha scritto, pare che piú presto reservi la laude nella materia, e che la lingua abbi fatto l’ufficio d’istrumento, il quale è buono o reo secondo il fine. Resta un’altra sola condizione che dá reputazione alla lingua, e questo è quando il successo delle cose del mondo è tale, che facci universale e quasi comune a tutto il mondo quello che è proprio naturalmente d’una cittá o d’una provincia sola; e questo si può piú presto chiamare felicitá e prosperitá di fortuna che vera laude della lingua, perché l’essere in prezzo e assai celebrata una lingua nel mondo consiste nella oppinione di quelli tali che assai l’apprezzano e stimano. Né si può chiamare vero o proprio bene quello che dipende da altri che da se medesimo; perché quelli tali, che l’hanno in prezzo, potrebbono facilmente sprezzarla e mutare oppinione, e quelle condizioni mutarsi, per le quali, mancando la cagione, facilmente mancherebbe ancora la dignitá e laude di quella. Questa tale dignitá d’essere prezzata per successo prospero della fortuna è molto appropriata alla lingua latina, perché la propagazione dell’imperio romano non l’ha fatta solamente comune per tutto il mondo, ma quasi necessaria. E per questo concluderemo che queste laudi esterne, e che dipendono dall’oppinione degli altri o dalla fortuna, non sieno laudi proprie. E però, volendo provare la dignitá della lingua nostra, solamente dobbiamo insistere nelle prime condizioni: se la lingua nostra facilmente esprime qualunque concetto della nostra mente; e a questo nessuna miglior ragione si può introdurre che l’esperienza. Dante, il Petrarca e il Boccaccio, nostri poeti fiorentini, hanno nelli gravi e dolcissimi versi ed orazioni loro monstro assai chiaramente con molta facilitá potersi in questa lingua esprimere ogni senso. Perché chi legge la Commedia di Dante vi troverrá molte cose teologiche e naturali essere con gran destrezza e facilitá espresse; troverrá ancora molto attamente nello scrivere suo quelle tre generazioni di stili che sono dagli oratori laudate, cioè umile, mediocre ed alto; ed in effetto, in uno solo, Dante ha assai perfettamente assoluto quello che in diversi autori, cosí greci come latini, si truova. Chi negherá nel Petrarca trovarsi uno stile grave, lepido e dolce, e queste cose amorose con tanta gravitá e venustá trattate, quanta sanza dubbio non si truova in Ovidio, Tibullo, Catullo e Properzio o alcun altro latino? Le canzone e sonetti di Dante sono di tanta gravitá, sottilitá ed ornato, che quasi non hanno comparazione in prosa e orazione soluta. Chi ha letto il Boccaccio, uomo dottissimo e facundissimo, facilmente giudicherá singulare e sola al mondo non solamente la invenzione, ma la copia ed eloquenzia sua. E, considerando l’opera sua del Decameron, per la diversitá della materia ora grave, ora mediocre ed ora bassa, e contenente tutte le perturbazioni che agli uomini possono accadere d’amore ed odio, timore e speranza, tante nuove astuzie ed ingegni, ed avendo ad esprimere tutte le nature e passioni degli uomini che si truovono al mondo, sanza controversia giudicherá nessuna lingua meglio che la nostra essere atta ad esprimere. E Guido Cavalcanti, di chi disopra facemmo menzione, non si può dire quanto comodamente abbi insieme congiunto la gravitá e la dolcezza, come mostra la canzone sopradetta ed alcuni sonetti e ballate sue dolcissime.
Restano ancora molti altri gravi ed eleganti scrittori, la menzione de’ quali lasceremo piú tosto per fuggire prolissitá che perché e’ non ne siano degni. E però concluderemo piú tosto essere mancati alla lingua uomini che la esercitino che la lingua agli uomini e alla materia; la dolcezza ed armonia della quale, a chi per essersi assuefatto con essa ha con lei qualche consuetudine, veramente è grandissima ed atta a muover molto.
Queste, che sono e che forse a qualcuno potrebbono pur parere proprie laudi della lingua, mi paiono assai copiosamente nella nostra; e, per quello che insino ad ora massime da Dante è suto trattato nell’opera sua, mi pare non solamente utile, ma necessario per li gravi ed importanti effetti che li versi suoi sieno letti, come mostra l’esempio per molti comenti fatti sopra alla sua Commedia da uomini dottissimi e famosissimi, e le frequenti allegazioni che da santi ed eccellenti uomini ogni dí si sentono nelle loro publiche predicazioni. E forse saranno ancora scritte in questa lingua cose sottile ed importanti e degne d’essere lette; massime insino ad ora si può dire essere l’adolescenzia di questa lingua, perché ognora piú si fa elegante e gentile. E potrebbe facilmente nella gioventú ed adulta etá sua venire ancora in maggiore perfezione; e tanto piú aggiugnendosi qualche prospero successo ed augumento al fiorentino imperio, come si debbe non solamente sperare, ma con tutto l’ingegno e forze per li buoni cittadini aiutare: pure questo, per essere in potestá della fortuna e nella volontá dell’infallibile giudicio di Dio, come non è bene affermarlo, non è ancora da disperarsene. Basta per al presente fare questa conclusione: che di quelle laudi, che sono proprie della lingua, la nostra ne è assai bene copiosa; né giustamente ce ne possiamo dolere. E per queste medesime ragioni nessuno mi può riprendere se io ho scritto in quella lingua nella quale io sono nato e nutrito, massime perché la ebrea e la greca e la latina erano nel tempo loro tutte lingue materne e naturali, ma parlate o scritte piú accuratamente e con qualche regola o ragione da quelli che ne sono in onore e in prezzo, che generalmente dal vulgo e turba popolare.
Pare con assai sufficienti ragioni provato la lingua nostra non essere inferiore ad alcuna delle altre; e però, avendo in genere la perfezione d’essa dimostro, giudico molto conveniente ristrignersi ai particolari e venire dalla generalitá a qualche proprietá, quasi come dalla circonferenzia al centro.
E però, sendo mio primo proposito la interpetrazione de’ miei sonetti, mi sforzerò mostrare, tra gli altri modi degli stili volgari e consueti per chi ha scritto in questa lingua, lo stile del sonetto non essere inferiore al ternario o alla canzona o ad altra generazione di stile volgare, arguendo dalla difficultá, perché la virtú, secondo i filosofi, consiste circa il difficile.
È sentenzia di Platone che il narrare brevemente e dilucidamente molte cose non solo pare mirabile tra gli uomini, ma quasi cosa divina. La brevitá del sonetto non comporta che una sola parola sia vana; ed il vero subietto e materia de’ sonetti per questa ragione debbe essere qualche acuta e gentile sentenzia, narrata attamente ed in pochi versi ristretta, fuggendo la oscuritá e durezza. Ha grande similitudine e conformitá questo modo di stile con l’epigramma, quanto all’acume della materia e alla destrezza dello stile, ma è degno e capace il sonetto di sentenzie piú gravi, e però diventa tanto piú difficile. Confesso il ternario essere piú alto e grande stile e quasi simile all’eroico, né per questo però piú difficile, perché ha il campo piú largo, e quella sentenzia, che non si può ristrignere in due o tre versi sanza vizio di chi scrive, nel ternario si può ampliare. Le canzoni mi pare abbino grande similitudine con la elegia, ma credo o per natura dello stile nostro o per la consuetudine di chi ha scritto insino a qui canzone. Lo stile della canzone non sanza qualche poco di pudore ammetterebbe molte cose non solamente leggere e vane, ma troppo molle e lascive, le quali comunemente si truovono scritte nelle latine elegie. Le canzoni ancora, per avere piú larghi spazi dove possino vagare, non reputo tanto difficile stile quanto quello del sonetto. E questo si può assai facilmente provare colla esperenzia, per chi ha composto sonetti, e si è ristretto a qualche certa e sottile materia, con grande difficultá ha fuggito la oscuritá e durezza dello stile; ed è grande differenzia dal comporre sonetti in modo che le rime sforzino la materia, a quello che la materia sforzi le rime. E mi pare ne’ versi latini sia molto maggiore libertá che non è ne’ volgari, perché nella lingua nostra, oltre a’ piedi che piú tosto per natura che per altra regola è necessario servare ne’ versi, concorre ancora questa difficultá delle rime, la quale, come sa chi l’ha provato, disturba molte e belle sentenzie, né permette si possino narrare con tanta facilitá e chiarezza. E che il nostro verso abbia i suoi piedi, si prova perché si potrebbono fare molti versi contenenti undici sillabe sanza aver suono di versi o alcun’altra differenzia dalla prosa. Concluderemo per questo il verso volgare essere molto difficile, e tra gli altri versi lo stile del sonetto difficillimo, e per questo degno d’essere in prezzo quanto alcuno degli altri stili volgari. Né per questo voglio inferire li miei sonetti essere di quella perfezione che ho detto convenirsi a tal modo di stile; ma, come dice Ovidio di Fetonte, per al presente mi baste aver tentato quello stile che appresso i volgari è piú eccellente, e, se non ho potuto aggiugnere alla perfezione sua di conducere questo carro solare, almanco mi sia in luogo di laude lo ardire di aver tentato questa via, ancora che con qualche mio mancamento le forze mi sieno mancate a tanta impresa.
Forse qualcuno giudicherá poco conveniente principio a’ versi miei, cominciando non solamente fuora della consuetudine di quelli che insino a qui hanno scritto simili versi, ma, come pare prima facie, pervertendo quasi l’ordine della natura, mettendo per principio quello che in tutte le cose umane suole essere ultimo fine; perché li primi quattro sonetti furono da me composti per la morte di una, che non solo estorse questi sonetti da me, ma le lacrime universalmente dagli occhi di tutti gli uomini e donne, che di lei ebbono alcuna notizia: e però, non ostante che paia cosa molto assurda, cominciando io dalla morte, a me pare principio molto conveniente per le ragioni che diremo appresso.
È sentenzia de’ buoni filosofi la corruzione d’una cosa essere creazione d’un’altra, e il termine e fine d’un male esser grado e principio d’un altro; e questo di necessitá avviene, perché, essendo la forma e spezie, secondo i filosofi, immortale, di necessitá si conviene sempre si muova dalla materia, e di questo perpetuo moto necessariamente nasce una continua generazione di cose nuove, le quali essendo sanza intermissione di tempo alcuno e con una brevissima presenzia dell’essere delle cose e dello stato d’esso in quella tale qualitá o forma, bisogna confessare il fine d’una cosa essere principio d’un’altra. E, secondo Aristotile, la privazione è principio delle cose create, e per questo si conclude nelle cose umane fine e principio essere una medesima cosa: non dico giá fine e principio d’una cosa medesima, ma quello, che è fine d’una cosa, immediate è principio d’un’altra. E, se questo è, molto convenientemente la morte è principio a questa nostra opera; e tanto piú perché chi esamina piú sottilmente, troverrá il principio dell’amorosa vita proceder dalla morte, perché chi vive ad amore, muore prima all’altre cose. E, se lo amore ha in sé quella perfezione che giá abbiamo detto, è impossibile venire a tale perfezione se prima non si muore, quanto alle cose piú imperfette. Questa medesima sentenzia pare che abbino seguíto Omero, Virgilio e Dante, delli quali Omero manda Ulisse appresso agl’inferi, Virgilio Enea, Dante se medesimo per lustrare lo inferno, per mostrare che alla perfezione si va per queste vie. Ma è necessario dopo la cognizione delle cose imperfette, quanto a quelle, morire; perché, poi che Enea è giunto a’ campi elisii e Dante condotto in paradiso, mai piú si sono ricordati dell’inferno. Ed arebbe Orfeo tratto Euridice dell’inferno e condottola tra quegli che vivono, se non fussi rivòltosi verso l’inferno: che si può interpetrare Orfeo non essere veramente morto, e per questo non essere aggiunto alla perfezione della felicitá sua, di avere la sua cara Euridice. E però il principio della vera vita è la morte della vita non vera. Né per questo pare posto sanza qualche buono rispetto la morte per principio de’ versi nostri.
Sará forse suto questo nostro proemio e troppo prolisso e maggiore preparazione che non è in sé l’effetto. A me pare non sanza vera necessitá essere suto alquanto copioso; e, considerando la inezia di questi miei versi, ho giudicato abbino bisogno di qualche ornamento, il quale si conviene a quelle cose che per lor natura sono poco ornate, né si convenia minore escusazione alle colpe, che forse mi sarebbono sute attribuite. E però, assoluta questa parte, verremo alla esposizione de’ sonetti, fatto prima alquanto d’argumento che pare necessario a questi primi quattro.
Morí, come disopra dicemmo, nella cittá nostra una donna, la quale mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino; non è gran meraviglia, perché di bellezza e gentilezza umana era veramente ornata quanto alcuna che innanzi a lei fussi suta. E in fra l’altre sue eccellenti dote aveva cosí dolce ed attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevono qualche domestica notizia credevono da essa sommamente essere amati. Le donne ancora e giovane sue equali non solamente di questa sua eccellentissima virtú tra l’altre non avevono invidia alcuna, ma sommamente esaltavono e laudavono la beltá e gentilezza sua, per modo che impossibile pareva a credere che tanti uomini sanza gelosia l’amassino e tante donne sanza invidia la laudassino. E, se bene la vita per le sue degnissime condizioni a tutti la facessi carissima, pure la compassione della morte per la etá molto verde e per la bellezza, che cosí morta, piú forse che mai alcuna viva, mostrava, lasciò di lei uno ardentissimo desiderio. E, perché da casa al luogo della sepoltura fu portata scoperta, a tutti che concorseno per vederla mosse grande copia di lacrime. De’ quali, in quelli che prima n’avevono alcuna notizia, oltre alla compassione nacque ammirazione che lei nella morte avessi superato quella bellezza che viva pareva insuperabile. In quelli che prima non la conoscevano nasceva un dolore e quasi rimordimento di non aver conosciuto sí bella cosa prima che ne fussino al tutto privati, ed allora conosciutala per averne perpetuo dolore. Si verificava veramente in lei quello che dice il nostro Petrarca:
Essendo adunque questa tale cosí morta, tutti i fiorentini ingegni, come si conveniva in tale pubblica iattura, diversamente e’ si dolsono, chi in versi e chi in prosa, dell’acerbitá di questa morte, e si sforzorono laudarla secondo la facultá del suo ingegno, tra li quali io ancora vòlsi essere, ed accompagnare io ancora le lacrime loro con gl’infrascritti sonetti, de’ quali il primo comincia:
O chiara stella, che co’ raggi tuoi.
Era notte, ed andavamo insieme parlando di questa comune iattura un carissimo mio amico ed io; e cosí parlando ed essendo il tempo molto sereno, voltando gli occhi ad una chiarissima stella, la quale verso l’occidente si vedea, di tanto splendore certamente, che non solamente di gran lunga l’altre stelle superava, ma era tanto lucida che faceva fare qualche ombra a quelli corpi che a tale luce si opponevono, ed avendone da principio ammirazione, io, vòlto a questo mio amico, dissi: — Non ce ne maravigliamo, perché l’anima di quella gentilissima o è trasformata in questa nuova stella o si è congiunta con essa. E, se questo è, non pare mirabile questo splendore; e però come fu la bellezza sua viva di gran conforto agli occhi nostri, confortiamoli al presente con la visione di questa chiarissima stella. E, se la vista nostra è debole e frale a tanta luce, preghiamo il nume, cioè la divinitá sua, che li fortifichi, levando una parte di tanto splendore, per modo che sanza offensione degli occhi la possiamo alquanto contemplare. E per certo, essendo ornata della bellezza di colei, non è presuntuosa volendo vincere di splendore l’altre stelle, ma ancora potrebbe contendere con Febo e domandargli il suo carro, per essere lei autrice del giorno. E, se questo è, che sanza presunzione questa stella possi fare questo, grandissima presunzione è suta quella della morte, avendo manomessa tanta eccellentissima bellezza e virtú. — Parendomi questi ragionamenti assai buona materia a un sonetto, mi parti’ da quell’amico mio, e composi il presente sonetto, nel quale parlo alla sopradetta stella:
O chiara stella, che co’ raggi tuoi |
Morí questa eccellentissima donna del mese d’aprile, nel quale tempo la terra si suole vestire di diversi fiori molto vaghi agli occhi e di grande recreazione all’animo. Mosso io a questo piacere, per certi miei amenissimi prati solo e pensoso passeggiavo, e, tutto occupato nel pensiero e memoria di colei, pareva che tutte le cose reducessi a suo proposito. E però, guardando tra fiore e fiore, vidi tra gli altri quel picciol fiore che vulgarmente chiamiamo «tornalsole» e da’ latini detto «clitia», nel quale fiore, secondo Ovidio, si trasformò una ninfa, Clizia chiamata, la quale amò con tanta veemenzia ed ardore il Sole, che cosí conversa in fiore sempre si rivolge al sole, e tanto, quanto può, questo suo amante vagheggia. Rimirando io adunque questo amoroso fiore pallido, com’è natura degli amanti, e perché veramente il fiore è di colore pallido, perché è giallo e bianco, mi venne compassione della sorte sua, perché, essendo giá vicino alla sera, pensavo che presto perderebbe la dolcissima visione dell’amato suo, perché giá il sole s’appressava al nostro orizzonte, che privava Clizia della sua amata vista; il dolor della quale era ancora maggiore, perché quello che era negato a lei era comune a molti altri, cioè agli occhi di coloro che sono chiamati «antipodi», a’ quali splende il sole quando noi ne siamo privati, e la notte de’ quali a noi fa giorno. Da questo pensiero entrai in un altro, che, se bene lei per una notte perdeva questa diletta visione, almanco la mattina seguente gli era concesso il rivederla, perché, come l’orizzonte occidentale gliene toglie, l’orientale glielo rende, e la benigna aurora, piatosa all’amore di Clizia, di nuovo glielo mostra. Ed io ancora ringrazio per questo l’orientale orizzonte che gliel rende, perché è cosa molto naturale e umana aver compassione agli afflitti, massime a quelli che hanno qualche similitudine di afflizione con noi. Questa sorte di Clizia, diversa ed alterna, mi fece poi pensare quanto era piú dura ed iniqua sorte quella di colui che desidera assai vedere la cosa, il veder della quale necessariamente gli è interdetto, non per una notte, ma per sempre. Veggo quale aurora rende a Clizia il suo sole, ma non so qual altra aurora renda al mondo questo altro sole, cioè gli occhi di colei. E, se questo sole non può tornare di necessitá agli occhi di quelli che non hanno altra luce, bisogna sia sempre notte, perché non è altro la notte che la privazione del lume del sole. E però durissima sorte è quella di colui che con assai desiderio aspetta quello che non può avere; né questo tale può avere altro refrigerio che ricordarsi e tenere gli occhi della mente fissi a quello che ha piú amato e che gli è suto piú caro; perché, come credo avvenga a Clizia, che la sera resta vòlta col viso verso l’orizzonte occidentale, che è quello che gli ha tolta la visione del sole, insino che la mattina il sole la rivolta all’oriente, cosí questo novello Clizia non può avere maggior refrigerio che tenere la mente e il pensiero vòlto alle ultime impressioni e piú care cose del suo sole, che sono a similitudine dell’orizzonte occidentale, che lo hanno privato della sua amata visione.
Possiamo ancora dire questo ultimo orizzonte intendersi la morte di questa gentilissima. Perocché «orizzonte» non vuol dire altro che l’ultimo termine, di lá dal quale gli occhi umani non possono vedere; come diciamo, se il sole tramonta, quell’ultimo luogo di lá dal quale il sole non si vede piú, e, quando si leva, il primo luogo dove il sole appare. E però convenientemente possiamo chiamare la morte quell’orizzonte che ne tolse la vista degli occhi suoi, al quale questo nuovo Clizia, cioè l’amator degli occhi suoi, debbe tenere gli occhi fissi e fermi, venendo in considerazione che ciascuna cosa mortale, ancora che bella ed eccellentissima, di necessitá muore. E questa tale considerazione suole essere grande ed efficace remedio a consolare ogni dolore ed a mostrare agli uomini che le cose mortali si debbono amare come cose finite e sottoposte alla necessitá della morte. E chi considera questo in altri, può facilmente conoscere questa condizione e necessitá in se medesimo, servando quel sapientissimo detto che nel tempio d’Apolline era scritto: «Nosce te ipsum», perseverando in questo pensiero infin che la morte venga, la quale renderá il sole suo a questo nuovo Clizia, come l’aurora che rende a Clizia giá convertita in fiore, perché allora l’anima sciolta dal corpo potrá considerare la bellezza dell’anima di costei, molto piú bella che quella la quale era prima visibile agli occhi, perché la luce degli occhi umani è come ombra rispetto alla luce dell’anima. E cosí come la morte di colei è stata orizzonte all’occaso del sole degli occhi suoi, cosí la morte di questo nuovo Clizia sará all’orizzonte orientale che renderá a lui il suo sole, come l’aurora lo rende a Clizia giá conversa in fiore. Questo pensiero adunque parendomi fussi assai conveniente materia da mettere in versi, feci il presente sonetto:
Quando il sol giú dall’orizzonte scende, Poi quando di novella fiamma accende |
È comunemente natura degli amanti e pasto dell’amorosa fame pensieri tristi e maninconia, pieni di lacrime e sospiri; e questo comunemente è nella maggiore allegrezza e dolcezza loro. Credo ne sia cagione che l’amore, che è solo e diuturno, procede da forte imaginazione, e questo può male essere, se l’umore maninconico nello amante non predomina, la natura del quale è sempre aver sospetto, e convertire ogni evento o prospero o avverso in dolore e passione. Se questa è propria natura degli amanti, certamente il dolore loro è maggiore che quello degli altri uomini, quando a questa proprietá naturale si aggiugne accidente per sé doloroso e lacrimoso; e nessuna cosa può accadere allo amante degna di piú dolore e lacrime che la perpetua privazione della cosa amata. Di qui si può presumere quanto dolore dessi la morte di colei a quelli che sommamente l’amavono, che ragionevolmente fu maggiore che possi provare un uomo. È natura de’ malenconici, come abbiamo detto essere gli amanti, nel dolore non cercare altro remedio che accumulazione di dolore, ed avere in odio e fuggire ogni generazione di refrigerio e consolazione; e però, se qualche volta per remedio di questo acerbissimo dolore si poneva innanzi degli occhi la morte, in quanto era fine di questa dolorosa passione, era odiata da me, e tanto piú doveva essere odiata, quanto la morte per essere stata negli occhi di colei si poteva stimare piú dolce e piú gentile, perché, essendosi comunicata a una cosa gentilissima, di necessitá partecipava di quella qualitá che tanto copiosa aveva trovato in lei. E, pensando quanto per questo fussi fatta gentile la morte, credevo gli dèi immortali dover mutare sorte, ed ancora loro voler gustare la gentilezza della morte. E, se questo era, io, per mia natura desiderando solamente dolore e non gustare alcuna cosa dolce, per piú dolore eleggevo seguitare questi anni della vita, acciò che il mio dolore fussi piú diuturno e che gli occhi potessino piú tempo piangere e il cuore piú lungamente sospirare l’occaso, cioè la morte del mio sole, e gli occhi privati della loro dolcissima visione e il cuore d’ogni sua speranza e conforto, piangendo e sospirando in compagnia d’Amore, delle Grazie e delle muse, a’ quali è cosí conveniente il pianto ed il dolore come agli occhi e al cuor mio. Perché, come gli occhi e il cuore hanno perduto quel fine al quale da Amore erano suti ordinati e destinati, cosí Amore debbe ancora lui piangere, perché aveva posto l’imperio e fine suo negli occhi di costei, e le Grazie tutti i doni e virtú nella sua bellezza, le muse la gloria del loro coro in cantare le sue degnissime laudi. Adunque convenientemente il pianto a tutti quelli conviene, e chi non piangesse con quelli, bisogna sia uomo al tutto sanza parte o d’amore o di grazia, o perché ciascuno debba piangere, alcuni per non essere, altri per non parere almeno ribelli da tanta gentilezza, questi affetti arei voluto esprimere nel presente sonetto:
Di vita il dolce lume fuggirei |
Non si maraviglierá alcuno, il cuore del quale è suto d’amoroso fuoco acceso, trovando in questi versi diverse passioni ed affetti molto l’uno all’altro contrari. Perché, non essendo amore altro che una gentile passione, sarebbe piú presto maraviglia che un amante avessi mai punto di quiete o vita uniforme. E però, se ne’ nostri e negli altrui amorosi versi spesso si truova questa varietá e contradizione di cose, questo è privilegio degli amanti sciolti da tutte qualitadi umane, perché alcuna ragione né se ne può dare, né trovar modo o consiglio in quelle cose che solo la passione regge. Pare il presente sonetto molto contrario al precedente, perché, come quello fugge ogni generazione di consolazione e pare si pasca e del presente dolore e della speranza d’averlo ancora maggiore, questo mostra aver cerco diverse ragioni di consolazione e, se bene indarno, molte cose aver provate, perché questa acerbissima memoria della morte di colei fuggissi dall’animo, ed in fine mostra qualche desiderio della morte, dal quale il precedente è in tutto alieno. Chi sente eccessivo dolore, comunemente in due modi fa prova di mitigarlo, cioè o che qualche cosa amena, dolce e piacevole addolcisca il dolore, o che qualche pensiero grave ed importante lo cacci; e comunemente s’elegge prima quel rimedio che è piú facile e dolce. E però, sentendo io l’acerbitá di questa memoria, andavo cercando qualche luogo solitario o ombroso, o l’amenitá di qualche verde prato, come ancora testifica il comento del secondo sonetto, o mi ponevo presso a qualche chiara e corrente acqua o all’ombra di qualche arbuscello. Ma interveniva come a quello che è aggravato d’infermitá, il quale, avendo corrotto il gusto, se bene diverse spezie di delicati cibi gli sono amministrati, di tutti cava un medesimo sapore, che converte la dolcezza di que’ cibi in amaritudine. Cosí quanto piú letizia dovevano porgere al cuor mio queste cose diverse ed amene, perché il gusto mio era corrotto e l’animo disposto alle lacrime, tutti multiplicavano il dolor mio, e la memoria di colei, che in ogni luogo e tempo era presente, mi mostrava con molto maggiore amaritudine che l’ordinario tutte quelle cose. E, se bene questa memoria era durissima e molesta; pure, come abbiamo detto dell’infermo, il quale se bene i cibi tutti rapportono al gusto amaritudine, pure lo nutriscono e sono cagione che viva, cosí di questo amarissimo cibo della memoria sua si sosteneva la mia vita: ed in effetto contro a questo male nessun migliore antidoto o rimedio si trovava che il male medesimo; né si poteva vincere quel pensiero se non col medesimo pensiero, perché altra dolcezza non restava al cuore che questa amarissima memoria, e però sola questa giovava al mio male. Essendo adunque necessario ricorrere al secondo rimedio, fuggivo di questi dilettevoli luoghi nel freto e tempesta delle civili occupazioni. Questo rimedio ancora era scarso, perché, avendo quella gentilissima preso il dominio del mio cuore e una volta fattolo suo tra tutti gli altri pensieri, il pensiero e memoria di lei stava in mezzo del cuore, ed a dispetto di tutte l’altre cure, come sua cosa, se lo consumava; perché «cura» non vuol dire altro se non «quella cosa che arde e consuma il cuore». E però, non potendo né con l’uno né con l’altro modo levarmi da tanta amaritudine ed acerbitá, non vi restava altro rimedio e speranza che quello della morte, la quale troppo tardi ode; che si può interpetrare cosí per non aver voluto prima udire i prieghi di tanti che a lei desideravono la vita, come perché l’afflizione sentita dopo la morte sua, non avendo altro rimedio che la morte, era sí grande, che ogni indugio e dilazione della morte, ancora che piccolo, pareva insopportabile.
In qual parte andrò io ch’io non ti truovi, |
Avendo assoluto la esposizione de’ quattro precedenti sonetti ed essendo quelli che seguono molto differenti, par necessario per maggior delucidazione far prima un nuovo argumento, il quale sia comune a tutti li seguenti sonetti, acciò che si verifichi quello che disopra abbiamo detto, cioè che la morte sia stata conveniente principio a questa nuova vita, come mi sforzerò di mostrare appresso.
Nascono tutti gli uomini con un naturale appetito di felicitá, ed a questo come a vero fine tendono tutte le opere umane. Ma, però che è molto difficile a conoscere che cosa sia felicitá ed in che consista, e, se pure si conosce, non è minore difficultá il poterla conseguire dagli uomini, per diverse vie si cerca: e però, da poi che in genere ed in confuso gli uomini questo si hanno proposto per fine, cominciano chi in uno e chi in un altro modo a cercare di trovarlo; e cosí, da quella generalitá ristrignendosi a qualche cosa propria e particulare, diversamente si affaticano, ciascuno secondo la natura e disposizione sua, onde nasce la varietá degli studi umani e l’ornamento e maggiore perfezione del mondo per la diversitá delle cose, simili all’armonia e consonanza che resulta di diverse voci concorde. Ed a questo fine forse Colui che mai non erra ha fatto oscura e difficile la via della perfezione. E cosí si conosce l’opere nostre e la intelligenzia umana avere principio dalle cose piú note, venendo da quelle alle manco note. Né è dubbio alcuno essere di piú facile cognizione le cose in genere che in spezie e particulate; dico secondo il discorso dell’umana intelligenzia, la quale non può avere vera diffinizione d’alcuna cosa, se prima non procede la notizia universale di quella.
Fu adunque la vita e morte di colei che abbiamo detto notizia universale d’amore e cognizione in confuso che cosa fussi amorosa passione; per la quale universale cognizione divenni poi alla cognizione particulare della mia dolcissima ed amorosa pena, come diremo appresso. Imperocché, essendo morta la donna che disopra abbiamo detto, fu da me e laudata e deplorata nelli precedenti sonetti come publico danno e iattura comune, e fui mosso da un dolore e compassione che molti e molti altri mosse alla cittá nostra, perché fu dolore molto universale e comune. E se bene nelli precedenti versi sono scritte alcune cose che piú tosto paiono da privata e grande passione dettate, mi sforzai, per meglio satisfare a me medesimo ed a quelli che grandissima e privata passione avevono della sua morte, propormi innanzi agli occhi d’avere ancora io perduto una carissima cosa, e introdurre nella mia fantasia tutti gli effetti che fussino atti a muovere me medesimo, per poter meglio muovere altri. E, stando in questa immaginazione, cominciai meco medesimo a pensare quanto fussi dura la sorte piú di quelli che assai avevono amato questa donna, e cercare con la mente se alcuna altra ne fussi nella cittá degna di tanto amore e laude. E, stimando che grandissima felicitá e dolcezza fussi quella di colui, il quale o per ingegno o per fortuna avessi grazia di servire una tale donna, stetti qualche spazio di tempo cercando sempre e non trovando cosa che al giudicio mio fussi degna d’un vero e costantissimo amore. Ed essendo giá quasi fuora d’ogni speranza di poterla trovare, fece in un punto piú il caso, che in tanto tempo non aveva fatto la esquisita diligenzia mia; e forse Amore per mostrare meglio a me la sua potenza, volle manifestarmi tanto bene in quel tempo, quando al tutto me ne pareva essere disperato.
Facevasi nella nostra cittá una publica festa, dove concorsono molti uomini e quasi tutte le giovane nobile e belle. A questa festa quasi contro a mia voglia, credo per mio destino, mi condussi con alcuni compagni ed amici miei, perché ero stato per qualche tempo assai alieno da simili feste, e, se pure qualche volta mi erono piaciute, procedeva piú presto da una certa voglia ordinaria di fare come gli altri giovani, che da grande piacere che ne traessi. Era, tra l’altre donne, una agli occhi miei di somma bellezza e di sí dolci ed attrattivi sembianti, che cominciai, veggendola, a dire: — Se questa fussi di quella delicatezza, ingegno e modi che fu quella morta che abbiamo detta, certo in costei e la bellezza e la vaghezza e forza degli occhi è molto maggiore. — Di poi, parlando con alcuno che di lei aveva qualche notizia, trovai molto bene rispondere gli effetti, non cosí comuni ciascuno a quelli che la bellezza sua e massime gli occhi mostravano, nelli quali si verificava molto quello che dice Dante in una sua canzona parlando degli occhi della donna sua:
Veramente, quando la natura li creò, non fece solamente due occhi che fiso li risguardassino, secondo che da loro fussino amati o odiati, ma il vero luogo dove stessi Amore e insieme la morte, o vero la vita e felicitá degli uomini. Cominciai allora in quel punto ad amare con tutto il cuore quell’apparente bellezza, e di quella che non appariva, la opinione e indizio, che ne dava tanto dolce e peregrino aspetto, mi fece nascere un incredibile desiderio; e dove prima mi maravigliavo non trovando cosa che io giudicassi degna d’un sincero amore, cominciai avere maggiore ammirazione, avendo veduto una donna che tanto eccedesse la bellezza e grazia della sopradetta morta. Ed in effetto, tutto del suo amore acceso, mi sforzai diligentemente investigare quanto fussi gentile ed accorta ed in parole ed in fatti; e in effetto trovai tanto eccellenti tutte le sue condizioni e parti, che molto difficilmente conoscer si poteva qual fussi maggiore bellezza in lei, o del corpo o dell’ingegno ed animo suo. Era la sua bellezza, come abbiamo detto, mirabile: di bella e conveniente grandezza; il colore delle carni bianco e non ismorto, vivo e non acceso; l’aspetto suo grave e non superbo, dolce e piacevole, sanza leggerezza o viltá alcuna; gli occhi vivi e non mobili, sanza alcun segno o d’alterigia o di levitá. Tutto il corpo sí bene proporzionato, che tra l’altre mostrava dignitá sanza alcuna cosa rozza o inetta; e nondimeno, nell’andare e nel ballare e nelle cose che è lecito alle donne adoperare il corpo, ed in effetto in tutti li suoi moti, era elegante ed avvenente. Le mani sopra tutte le altre, che mai facessi natura, bellissime, come diremo sopra alcuni sonetti, alli quali le sue mani hanno dato materia; nell’abito e portamenti suoi molto pulita e bene a proposito ornata, fuggendo però tutte quelle fogge che a nobile e gentile donne non si convengono, e servando la gravitá e dignitá. Il parlare dolcissimo veramente, pieno d’acute e buone sentenzie, come faremo intendere nel processo, perché alcune parole e sottili inquisizioni sue hanno fatto argomento a certi delli miei sonetti. Parlava a tempo, breve e conciso, né si poteva nelle sue parole o desiderare o levare; li motti e facezie sue erono argute e salse, sanza offensione però d’alcuno dolcemente mordere. L’ingegno veramente meraviglioso assai piú che a donne non si conviene; e questo però sanza fasto o presunzione, e fuggendo un certo vizio che si suole trovare nella maggior parte delle donne, alle quali parendo d’intendere assai, diventano insopportabili, volendo giudicare ogni cosa, che vulgarmente le chiamano «saccenti». Era prontissima d’ingegno, tanto che molte volte o per una sola parola o per un piccolo cenno comprendeva l’animo altrui; nelli modi suoi dolce e piacevole oltra modo, non vi mescolando però alcuna cosa molle o che provocassi altri ad alcun poco laudabile effetto; in qualunque sua cosa saggia ed accorta e circonspetta, fuggendo però ogni segno di calliditá o duplicitá, né dando alcuna sospezione di poca constanzia o fede. Sarebbe piú lunga la narrazione di tutte le sue eccellentissime parti che il presente comento; e però con una parola concluderemo il tutto, e veramente affermeremo nessuna cosa potersi in una bella e gentil donna desiderare, che in lei copiosamente non fussi.
Queste eccellentissime condizioni mi avevono in modo legato, che non avevo o pensiero o membro che fussi piú in sua libertá. E posso dire, quanto agli occhi miei, che quella morta, di che abbiamo detto, fussi la stella di Venere, da’ latini Lucifer chiamata, la quale, precedendo il sole, venendo poi quello maggior lume, cede e al tutto si spegne, quasi come se fussi ordinata per avvertire gli uomini che il sole viene e non per dare luce al mondo. Muore e spegnesi questa stella sopravenendo lo splendore del sole, e nondimeno è chiamata Lucifer, che vuol dire una cosa che porta seco la luce, la quale luce non porta nel mondo se non quando si spegne la luce sua; parve adunque a’ latini ancora la morte di quella stella, vita e principio della luce del giorno. Adunque con questa autoritá ancora si verifica la morte di quella essere suto conveniente principio a questo giorno, che fece agli occhi miei il nuovo sole degli occhi di colei; la quale, se bene molto laudata abbiamo, le laude non aggiungono però all’eccellenzia e meriti suoi. Mostrommi il morto Lucifer che presto doveva venire questo mio novello sole, e, come abbiamo detto, scòrse il cammino mio cieco alla visione di questo tanto splendore. E, poi che ebbe assuefatti gli occhi miei a vedere lo splendore della stella, cioè lo splendore celeste, sentendo il sole sopravenire, si spense, ed io, che per lei avevo cominciato a voltare gli occhi in cielo, con manco offensione della vista mia li pote’ traducere dal lume della stella allo splendore del sole.
Lasso a me! quand’io son lá dove sia |
Era, lasso a me! come abbiamo detto, il mio core tutto acceso ed infiammato della beltá e gentilezza di questa mia donna: e, se alcuna parte restava in me che non consentisse coll’altre, n’era cagione il dubbio che avevo che con tanta bellezza e gentilissimi modi non fusse congiunta qualche durezza e poca pietá; perché sapevo giá quanto era grande il desio, ed aspettavone passione ed insopportabile tormento, quando in questa mia gentilissima non fussi stata pietá. Questo sospetto teneva ancora in me il mio core, né lo lasciava assicurare al partire. E però, se mi trovavo alla presenzia di lei, il viso suo veramente pareva angelico al cuore, dolce e altero; dolce, perché cosí veramente era; altero glielo faceva parere il dubbio giá detto della poca pietá. E però prima diventavo tutto pallido, perché il cuore, sendo giá acceso ed avendo il dubbio che di sopra abbiamo detto, non poteva fare che sommamente non temessi. Di questo suo timore nasceva in lui affanno, e però gli spiriti vitali, correndo per soccorrere il cuore, lasciavono la faccia mia sanza colore pallida e smorta, ed insieme con gli spiriti, come ha ordinato la natura, assai copia di sangue intorno al cuore conveniva. Questo generava in quel loco caldo assai piú che l’usato, né potendo tanto caldo esalare, per essere piccolo lo spazio a tanta quantitá, ne nasceva quasi una suffocazione di quegli spiriti e sangue; onde era costretto, non potendo esalare il sangue, a mortificarsi e a freddarsi, come mostra la esperienzia in quelli che per paura muoiono, alli quali si truova intorno al cuore quantitá di sangue coagunato e freddo, ancora che nell’altre sue membra resti qualche qualitá di caldo. Ma poi, rimirando la faccia sua, parendomi vi fussi tanti segni di pietá, il cuore poneva da parte la paura e ripigliava qualche ardire. E per questo gli spiriti vitali ritornavono al luogo onde prima erono partiti, e con loro tornava il valore e colore prima perduto; e tanto piú, perché, guardando negli occhi suoi, vedevo Amore rinvolto ne’ raggi di que’ begli occhi, e mostrandogli la via come potessi fuggire da me negli occhi della donna mia; la quale via si può dire cieca, perché il cuore non aveva però certezza alcuna se non le parole d’Amore, e però camminava per tenebre ed in dubbi di se medesimo: tanto piú perché Amore, il quale era sua scorta a quel cammino, ancora lui si dipigne cieco. Ed, acciò che il mio cuore gli dessi piú fede, giurò per gli occhi della mia donna essere vera la pietá che quelli mostrano di fuore, ed oltre a questo di stare sempre in compagnia del mio cuore: perché dove concorre pietá ed amore, non può essere sospetto o timore al cuor mio; e, giurando Amore per gli occhi di colei, non può fare piú efficace giuramento. Perché giuramento non è altro che producere per testimonio di quello che tu affermi quella cosa per la quale giuri; perché chi giura, verbigrazia, per Giove, vuole che Giove sia testimonio e quasi fideiussore dell’osservanzia di quella cosa, e chi rompe un sacramento e’ diventa periuro: offende la prima cosa e vilipende quello per chi ha giurato. Avendo adunque Amore giurato per gli occhi della donna mia, e soggiugnendo che gli occhi suoi sono l’onore e forza sua, doveva il cuore credere ad Amore; perché non è da presumere volessi ingannare o provocarsi inimici quegli occhi, nelli quali era posto l’onore e forza sua. E però non errò il cuor mio credendogli, ed abbandonatamente lasciò il mio petto e se n’andò in quegli splendidissimi ed amorosi occhi.
Spesso mi torna a mente, anzi giá mai |
Sogliono le prime impressioni nelle menti degli uomini essere molto veementi, e pare cosa molto conforme alla ragione che cosí sia. Perché, essendo la mente nostra per natura ordinata a ricevere diverse impressioni, e con questo naturale appetito di non stare vacua, fa come uno assetato, il quale spegne la sete colla prima cosa che gli occorre, atta ad estinguerla; e tanto piú volentieri lo fa, quanto è piú quella tal cosa dolce al gusto. Per questa ragione, secondo Platone, quelli che sono di tenera etá hanno piú tenace memoria, perché quelle cose, che loro imparano, come prime e nuove impressioni meglio si ricevono nella memoria. Essendo adunque giá assicurato da Amore il mio cuore e giá da me fuggito, nessuna cosa molesta restava nel pensiero, parendomi giá vedere indizi assai certi della futura pietá nella donna mia. Questo generava in me grandissima speranza e dolcezza; e perché naturalmente s’appetisce quello che piace, quando non può essere presente, la memoria e il pensiero ce lo rappresenta, e piú volentieri quelle cose che sono sute prime, come principio o cagione di quel bene che sente la mente. Erono dunque nella memoria mia quasi perpetuamente presenti l’abito del quale era adorna la mia donna, e il luogo e il tempo quando prima fiso mirai negli occhi suoi, cioè quando, giá acceso dell’amor suo, con somma delettazione la guardai, perché il mirar fiso non procede se non da due cagioni, cioè o per conoscere bene quella tale cosa che si guarda, o per grande dilettazione che si piglia guardandola. Cessava in me la prima cagione, perché giá conoscevo la bellezza e forza degli occhi suoi; restava adunque solamente il diletto, cagione del mio mirare fiso. Ed io, se bene per altri tempi avevo veduto gli occhi suoi, non avendo ancora avuto grazia di conoscerli, non gli avevo ancora mirati fiso. E quando prima gli mirai fiso, fu dopo la cognizione di tanto bene, dopo la quale immediate necessariamente tutto di loro m’accesi, perché prima precede la cognizione e poi l’amore. Quello che paresse agli occhi miei era a me molto difficile o immaginare o referire; perché le bellezze sue, come dice Dante, soverchiono il nostro intelletto, come raggio di sole in fraile viso. E però quello, che era impossibile a me, lasciai ad Amore, il quale, stando sempre con lei ed abitando, come abbiamo detto, negli occhi suoi, e meglio conoscere e piú assolutamente esprimer poteva tanta eccellenzia. Ed oltra questo, proponendo io che la sua bellezza, leggiadria, gentilezza e pietá erono cose impossibili o a narrare o ad immaginare, e parendo questo a chi legge mirabile e quasi impossibile, pare molto conveniente producere in fede di questo un testimonio autentico; e nessuno è migliore testimonio che Amore, massime sendo suto presente, ed ancora merita essere creduto da quelli almanco che gli sono stati suggetti: i quali, come nel proemio dicemmo, bisogna che sieno animi alti e gentili, appresso li quali basta in simili amorosi miracoli aver fede; e se fuor di questo numero non fussino creduti, non è bene che cuori rozzi e villani e rebelli d’amore gustino tanta gentilezza. Avendo adunque in genere detto della eccellenzia di costei e quanto nel primo aspetto paressi bella, gentile e pia, parve da fare menzione delle tre cose proposte nel principio del sonetto, cioè l’abito, il tempo e il loco. E però, quanto all’abito, ancora che sia minore la comparazione che l’eccellenzia di lei, essendo vestita tutto di bianco e mostrando in su quel capo i suoi aurei capelli, mi parve assimigliarli a’ raggi del sole quando si spandono sopra a un monte di candida neve, perché né meno di candida cosa coprivono i capelli che sia la neve, né manco splendore avevano i capelli che i raggi del sole. E se i capelli erono tanto lucenti, molto piú erono gli occhi. E però, quanto al tempo, non è dubbio che era giorno, il quale almeno faceva il sole degli occhi suoi. E, dato che questo fussi, il luogo di necessitá era paradiso, perché dove era tanto splendore, bellezza e pietá, certamente si può dire paradiso. Perché «paradiso», chiunque rettamente vuole diffinire, non vuol dir altro che un giardino amenissimo, abbondante di tutte le cose piacevoli e dilettevoli, d’arbori, di pomi, di fiori, acque vive e correnti, canti d’uccelli, ed in effetto di tutte le amenitá che può pensare il cuore dell’uomo; e per questo si verifica che paradiso era ove era sí bella donna, perché qui era copia d’ogni amenitá e dolcezza, che un gentil cuore può desiderare.
Occhi, voi siete pur dentro al mio core, Portate a lei i miseri lamenti. |
Era giá per gli occhi miei discesa al cuore la imagine della bellezza di costei, e gli occhi suoi avevono fatto in esso tale impressione, che sempre gli erono presenti; ed Amore, il quale abbiamo detto sempre con loro abitava, se n’era ancora lui in compagnia di quelli occhi venuto; e il cuore per questo era di tante fiamme circondato, che gli pareva impossibile a sopportare l’affanno, che dal suo ardente desiderio nasceva. E, pensando quale migliore remedio potessi a questo male opporre, nessuna cosa gli occorse di maggiore efficacia che fare intender la sua dolorosa condizione e miserabile stato alla donna mia; la quale sola poteva, come sola cagione di tanta pena, sollevarlo. Pareva necessario in questo caso eleggere nunzio e messaggiero che avessi due condizioni: una che fussi grato a colei a cui era mandato, perché, avendo a riportare grazie, piú facilmente si poteva per mezzo di graziosa persona; l’altra che chi andava, oltra all’essere bene informato della miseria in che si trovava il cuore, fussi creduto da lei, acciò che la veritá della pena piú facilmente la movessi a pietá. E però fece il cuore concetto di pregare gli occhi della donna mia, i quali, essendo in lui, vedevano il suo grande tormento, che andassino a referirlo a lei; ed in compagnia di loro Amore, acciò che, multiplicati gl’intercessori ed il numero de’ testimoni del male suo, piú facilmente s’impetrassi grazia per questi graziosi messi: perché nessuno doveva essere alla donna mia o piú grato o piú creduto che Amore e gli occhi suoi medesimi. Erono testimoni quelli occhi, ed Amore con loro, della pena del cuore ed ancora della intera sua fede, non superata dalla grandezza de’ martíri. E credeva per questo il cuore che a lei dovessi essere noto lo stato suo, e, come nel processo del sonetto si vede, era in grande errore, perché, non potendo vivere il cuore sanza quelli occhi, ed essendo vivo quando mandava questi nunzi, per le parole sue medesime si comprende che quelli occhi mai s’erano partiti dal cuor mio. E però, quando il cuore mio dice: — Tornate a lei, — presupponendo quasi che altre volte si fussino partiti, si vede che il cuore per la passione more; come ancora mostra, maravigliandosi lui che madonna non curi il suo dolore, presupponendo gli sia noto: prega adunque il cuore questi due nunzi che vadino a placare la durezza della donna mia, come unico refugio e sola speranza della sua salute. E chi legge bisogna presupponga che giá gli occhi ed Amore erano in cammino per partirsi, quando il cuore, accortosi dell’error suo e che impossibile gli era a vivere sanza quelli occhi, gli richiamò indrieto, pregandogli che restino con lui, e commettendo che Amore solo andassi e pregassi per lui. Una passione amorosa in due modi si può levare dal cuore, cioè o con dimenticare la cosa amata o col placarla. Tentò il cuor mio l’una e l’altra via, e, volendo cacciare da sé gli occhi di colei, fece esperienzia di metterla in oblivione, perché non è nel cuore quella cosa di che altri non si ricorda. Tentò questo remedio invano, e però ricorse al secondo, cioè di placarla. Questo non si può fare se non per mezzo d’Amore, né poteva nascere pietá nella donna mia se Amore non era con lei insieme con la certezza della pena e fede del cuore, perché l’amore, la pena e la fede sono quelle cose che muovono la pietá. Parla adunque il presente sonetto agli occhi della donna, che erono continui assistenti del cuore.
Quel, che ’l proprio valore e forza eccede, |
Avviene spesse volte agli uomini, che e’ desiderano quello che sarebbe loro gravissimo danno e sperano ottenere quelle cose che sono impossibili a conseguire, mossi da presunzione ed ignoranzia, la quale, secondo i filosofi, è madre di tutti i mali. Questo difetto piú spesso si truova in quelli che sono posti in maggiore desiderio e passione, nelli quali l’afflizione e la pena è sí grande, che ogni disperata via tentano per liberarsene. Questo tale errore si nota per lo soprascritto sonetto, il quale prima propone quanto sia grave inconveniente o desiderare o sperare d’avere quelle cose che eccedono le forze nostre, alle quali la natura nostra non è proporzionata, per essere assai inferiore e meno degna; subiungendo due esempli in confermazione di questa veritá. Il primo contra quelli occhi che presummono guardare verso il sole, i quali solamente non lo possono vedere, ma perdono per quello la visione dell’altre cose. L’altro esemplo è degli orecchi, i quali non sono sufficienti a poter udire l’armonia delle spere celesti. E, per chiarir meglio questa parte, è da intendere essere suto oppinione d’alcuni filosofi (la quale mette Cicerone nel suo libro intitolato De somnio Scipionis) che il moto delle celeste spere generi diverse voci, secondo la varietá de’ moti piú veloce o piú tarda, e di tutti insieme una dolcissima armonia, di tanta grande voce e suono, che gli orecchi umani non sono sufficienti a udire, come gli occhi mortali non possono vedere il sole; dando per esemplo che quegli uomini, i quali nascono vicini alle cateratte del Nilo, cioè dove quel grande fiume da altissimi monti cade in basso, per lo strepito e romore grande tutti sono sordi. Questa oppinione, non essendo molto approvata ancora da me, non è messa per certa, e però dissi: «Se gli è vero il pensier», ecc. Da queste comparazioni degli occhi e degli orecchi umani non proporzionati o a poter vedere il sole o a udire l’armonia predetta, vengo poi a mostrare l’errore degli occhi e degli orecchi miei, i quali sono suti presuntuosi: gli occhi a guardare il sole della donna mia, gli orecchi a udire l’armonia dolcissima delle parole sue. E, se pur questo è grave errore, molto maggiore è quello del pensier mio, e molto maggior presunzione, desiderando che s’aggiunga pietá, cioè tanto maggior forza alle bellezze della donna mia, le quali, se erano insopportabili alli miei frali ed umili sensi sanza questa pietá, si può pensare quanto il pensier mio desideri contro a sé, volendo aggiunger forze all’offesa sua. Pare molto conveniente alla presente materia fare intendere la cagione perché si fa solamente menzione del pensiero, degli occhi e degli orecchi, e non di altra forza o senso; e però diremo appresso da che cagione mossi abbiamo fatto questo. Secondo i platonici, tre sono le spezie della vera e laudabile bellezza: cioè bellezza d’animo, di corpo e di voce. Quella dell’anima può solamente conoscere ed appetire la mente; quella del corpo solamente diletta gli occhi; quella della voce gli orecchi. I diletti degli altri sensi fuora di questi, come vili e non convenienti ad animo gentile, sono repudiati. Pel pensiero adunque s’intende la mente, la quale ha per obietto la bellezza dell’anima, la quale consiste nella perfezione che dalla virtú gli viene, ed è piú e manco bella e di piú e manco bellezza ornata, secondo che è accompagnata di piú virtú, cosí in numero come in quantitá e perfezione d’essa. La bellezza del corpo e grazia d’esso pare che proceda dall’essere bene proporzionato, di grazioso aspetto, ed in effetto da una certa venustá e leggiadria, la quale qualche volta piace non tanto per la perfezione e buona proporzione del corpo, quanto per una certa conformitá che ha cogli occhi ai quali piace, che dal cielo o dalla natura procede; e tutto questo è obietto ed indizio degli occhi. La terza bellezza della voce consiste quando di piú voce concordi resulta un concento, che si chiama «armonia»; e questo può procedere cosí da diverse voce, come è detto, come da una dolcezza e suavitá di parole insieme ben connesse ed accomodate, le quali ancora non possono essere cosí composte sanza armonia.
Tutta questa bellezza solamente agli orecchi si riferisce, e per questo solamente questi tre modi abbiamo posto a conoscere la donna mia. Imperocché per quella piatá, che il mio pensiero desiderava in lei, bisogna intendere la bellezza delle virtú e dote dell’anima della donna mia, desiderate dalla nostra mente. Perché la pietate è opera degnissima dell’anima mossa da giustizia, perché, essendo posta in animo ragionevole, sanza qualche parte di merito non si muove per gli occhi suoi la bellezza del corpo dagli occhi miei amata. Per le parole sue che vincono l’armonia celeste si tocca la terza bellezza della voce e dell’armonia, alla quale solo gli orecchi miei stavono intenti. Perché queste tre bellezze erano in questa gentilissima, bellissima e dolcissima donna, la quale era a me cara sopra ogni cosa.
Occhi, io sospiro come vuole Amore, |
Se gli è vera quella difinizione d’amore che nel proemio abbiamo detto, molto bene ancora si verifica il proposito ed intenzione del presente sonetto, la quale è di provare per evidente ragioni che il cuore acceso d’amore giammai ha pace; e gli occhi dell’innamorato tanto sono piú felici, quanto il cuore ha maggiore tormento. La difinizione che abbiamo detta d’amore è che amore sia desiderio di bellezza; e, se questo è, molto veramente si può dire amore non possedere quella bellezza che desidera, perché, se la possedessi, il desiderio d’essa sarebbe invano, perché non si può disiderare quello di che altri ha copia. E però diremo altra cosa essere amore, altra cosa essere il fine che lo muove, perché l’amore desidera ed è mosso da un fine che si chiama «felicitá» e «beatitudine», la quale consiste nel congiugnersi con quella bellezza che l’amore appetisce e con essa inseparabilmente stare. Ed insino a tanto che a questo fine di beatitudine non si perviene, amore non solamente non è bene, anzi è pena e tormento insopportabile, piú e manco secondo la grandezza dell’amore. E però presupponendo che il cuore non sia pervenuto alla perfezione di questa beatitudine e dolcezza, bisogna confessare il cuore sia gravemente tormentato, perché il cuore ha per obietto quella beatitudine, della quale è privato, ma gli occhi, l’ufficio de’ quali è vedere, tanto sono piú felici, quanto veggono cosa piú bella; e ciascuna cosa tanto pare agli occhi piú bella, quanto è maggiore l’amore, cioè il desiderio del cuore. Perché, se l’amore è grande, necessariamente conviene che la bellezza o sia o paia agli occhi grande: altrimenti non sarebbe amore, cioè il desiderio della bellezza. Adunque si conchiude per una medesima cagione gli occhi essere tanto piú felici, quanto il cuore è piú misero, pigliando questi termini largamente, cioè il cuore come sede e luogo della concupiscibile, cioè nel quale nascono tutti i desidèri, e gli occhi, non in quanto sono senso, perché come senso proprio ed esteriore non possono giudicare la bellezza d’una cosa o d’un’altra; e però bisogna per gli occhi intendere l’operazione dell’animo nostro, che opera mediante gli occhi, e quel contento e piacere che sente per mezzo dello strumento degli occhi, quando per rapporto loro giudica una cosa bella e piglia per questo consolazione e conforto. Parla adunque nel presente sonetto il cuore agli occhi miei, mostrando l’afflizione e miseria in che si truova, come vuole Amore, e il diletto che pel male suo sentono gli occhi, mostrando prima il male suo, e poi il loro diletto. La miseria del cuore è questa: che lui sempre desidera quello che e’ non possiede, né aggiugne a quell’effetto e fine, il quale lui piú brama e disia d’un desio antiquo ed inveterato. Ma gli occhi non solamente veggono l’obietto loro, cioè gli occhi e la bellezza della donna mia, ma veggono la piú bella ed eccellente cosa che e’ possino vedere, cioè la donna mia, perché nessuna cosa può tanto desiderare il cuore quanto lei. E dal desiderio suo nasce la maggiore bellezza della donna mia, la quale è tanto piú bella e perfetta, quanto è maggiore la doglia del cuore, cioè il desiderio d’essa per le ragioni che abbiamo dette. Risponde di poi a una tacita contradizione che li potria essere fatta, cioè che gli occhi qualche volta ancora loro piangono; e questo pare contro alla felicitá, la quale il cuore afferma essere negli occhi, e però dice che, se pure gli occhi piangono, questo non procede per cagione d’alcuna pena loro, ma da dolore e desiderio del cuore, il quale per la via delle lacrime sfoga una parte del suo dolore. Poi, rivoltatosi a loro, gli priega che loro prieghino Amore che faccia pietosa la donna nostra, ed a questo gli debbe muovere non solamente la compassione della miseria del cuore, ma ancora la speranza di maggior bene degli occhi, perché, aggiugnendosi pietá nella donna mia, Amore sará tranquillo, cioè il desiderio della bellezza sará adempiuto, né piú molesterá il cuore. Ed in questo caso il sole, cioè gli occhi e bellezza della donna mia, sará molto piú bello agli occhi, e tanto piú bellezza vedranno, quanto la pietá la fará maggiore. Pare molto conveniente in confermazione di quello che abbiamo detto, che il cuore sia cagione delle lacrime, narrare come naturalmente le lacrime procedono piú tosto dal cuore che dagli occhi, ed intendere che cagione muove le lacrime, come diremo appresso.
Secondo i fisici, nel cuore nascono tutte le perturbazioni d’allegrezza, di dolore, d’ira, di speranza e di timore, e qualunque altra passione; le quali tutte, cosí nate nel cuore per una certa colleganza e conformitá che è tra il cuore e il cervello, subito al cervello sono comunicate. Onde avviene che, quando si comunica con lui o dolore o letizia, il cervello oppresso o vero compresso da alcuna di queste passioni, quasi in se medesimo si ristringe, ed, essendo per natura umido e ristringendosi in guisa d’una spugna piena d’acqua, distilla per gli occhi una parte di quella umiditá, e cosí genera lacrime, le quali sono piú abbundanti in uno che in un altro, secondo che il cervello è piú o manco umido o secco. È cosa manifesta che ancora si piange cosí per allegrezza come per dolore; ma, secondo Aristotile, questa differenzia hanno le lacrime che procedono da letizia da quelle che vengono da dolore: che le lacrime liete sono fredde, le dolorose piú calde. E ne assegna questa ragione: l’allegrezza e il dolore, per essere diverse passioni, fanno molti diversi effetti, perché l’allegrezza diletta e fa piú rari gli spiriti vitali e il dolore gli ristrigne. Dove e’ concorre maggior numero di spiriti, di necessitá è maggior copia di caldo, e cosí e contra; onde nasce la differenzia delle lacrime calde e fredde, che nascono o da dolore o da letizia. Concludesi per questo le lacrime avere due cagioni, l’una la passione del cuore, l’altra la distillazione dell’umiditá che fa il cervello. E per questo gli occhi piú tosto esser via che cagione delle lacrime.
Se fra gli altri sospir ch’escon di fore |
Promettemmo nel proemio, quando venissimo alla esposizione del presente sonetto, narrare quanto fussi grande e maligna la persecuzione che io sopportai in quel tempo e dalla Fortuna e dagli uomini; e nondimeno sono in disposizione passarmene molto brievemente, per fuggire il nome di superbo e vanaglorioso. Imperocché il narrare i gravi e propri pericoli difficilmente si fa sanza presunzione o vanagloria. E questo credo proceda che, quando un legno di turbolentissima tempesta dopo molti pericoli e paure si riduce nella tranquillitá del porto, il piú delle volte il nocchiere e governatore d’esso piú tosto alla propria virtú lo attribuisce che ad alcuna benignitá della Fortuna; ed acciò che la virtú sua paia tanto maggiore, accresce tanto piú il pericolo passato, e spesse volte fuora della veritá, acciò che della virtú sua ancora si creda piú che non è il vero. Questo medesimo esemplo seguitando, i medici dell’etá nostra sempre fanno il pericolo dell’infermo assai maggiore che egli non è, mettendo spesse volte dubbio di morte in quelli, nelli quali la salute quasi manifesta si vede: perché, sopravenendo pure la morte, la colpa sia piú tosto della natura che della cura; venendo la salute, la cura ed opera si mostri tanto piú efficace. E però brevemente diremo: la persecuzione essere suta gravissima, perché li persecutori erano uomini potentissimi, di grande autoritá ed ingegno, e in disposizione e proposito fermo della mia intera ruina e desolazione, come mostra l’aver tentato tutte le vie possibili a nuocere ad uno. Io, contro a chi venivano queste cose, ero giovane privato e senza alcun consiglio o aiuto, se non quello che dí per dí la divina benignitá e clemenzia mi ministrava. Ero ridotto a quello che, essendo ad un medesimo tempo nell’anima con escomunicazione, nelle facultá con rapine, nello Stato con diversi ingegni, nella famiglia e figliuoli con nuovo trattato e macchinazioni, nella vita con frequenti insidie perseguitato, mi saria suto non piccola grazia la morte, molto minor male al mio appetito che alcuno di quelli altri. Essendo adunque in questa oscuritá di fortuna posto tra tante tenebre, qualche volta pure luceva l’amoroso raggio, talora gli occhi, talora il pensiero della donna mia; la quale dolcezza e refriggerio traeva la vita mia delle mani della morte, ancora che la fortuna non s’accorgesse di questo mio refriggerio, perché non discerneva bene gli amorosi sospiri da quelli che procedevano da lei. E però dico che, quando Amore mescolava alcuno de’ suoi sospiri tra quelli che mi dava la mia avversa fortuna e dura sorte, gli amorosi addolcivono e mitigavono quelli altri e riconfortavono il cuore. E se avveniva qualche volta che vedessi il viso della donna mia, come altre volte aveva estorto delle mani avare di morte gli spiriti e forze mie, al presente ancora difendeva contro alla morte l’anima mia. Ed «estorta» non vuol dire altro che una cosa che è tolta ad uno a suo dispetto. E la morte è veramente avara, perché maggiore avarizia non può essere che di colui, il quale vuole il tutto per sé, come la morte vuole ogni mortal cosa. Subiunge poi che, veggendo la fortuna inimica ed invidiosa d’ogni mio bene, quelli sospiri che Amore mandava dal cuore, non gli conosceva per amorosi, ma, credendo procedessino dalla mia mala sorte e persecuzione predetta, gli comportava, non credendo mi portassino dolcezza, ma che si arrogessi tanto piú al mio male e che la pena mia fussi tanto maggiore. Ed io, accorgendomi dell’inganno della fortuna, per ingannarla tanto meglio, qualche volta, come Amore voleva, piangevo e mi lamentavo, e tanto manco poteva intendere la fortuna la dolcezza e de’ sospiri e de’ pianti miei. Con quest’arte adunque, per virtú di quelli belli occhi e d’Amore, qualche volta sentivo qualche refriggerio e dolcezza, la quale non arei sentita, se la fortuna se ne fussi accorta.
Se ’l fortunato cor, quand’è piú presso |
Io vorrei avere o tal forza di parole o tanta fede appresso degli uomini, che potessi bene esprimere e far credere la eccellenzia della donna mia; perché a lei sarebbe onore, ed io fuggirei qualche pericolo d’essere stimato poco veritiero. Ma, non potendo né esprimere né mostrare gli occhi e le bellezze sue, perché, secondo il comune uso, forse quello che è virtú ad incarico sarebbe attribuito, almanco mi sforzerò in qualche parte mostrare la gentilezza dell’ingegno suo, narrando alcuno delli suoi motti, e questi, al mio parere, molto piú alti e sottili che a donna non si conviene. E perché dinanzi abbiamo detto che le parole e quesiti suoi qualche volta hanno dato argumento a’ nostri versi, il presente sonetto è uno di essi, come faremo intendere appresso. Ero assai vicino agli occhi suoi, per modo che d’appresso e quelli e l’altre bellezze potevo vedere, e guardando fiso in essi, tutto acceso giá di speranza e pieno di dolcezza, qualche volta con profondi sospiri sospiravo. Questa gentilissima, alla quale era giá noto il desiderio e stato del cuore mio, con dolcissime parole mi domandò come io ero contento e come stavo. E rispondendo io che piú contento non potevo essere, né il cuore in maggior dolcezza, ella soggiunse: — Donde procedono adunque questi tuoi sospiri? — Io, per timiditá e perché e la bellezza e le parole avevono quasi trattomi di me stesso, non potei per allora rispondere altro; ma, partitomi di poi da lei, feci il presente sonetto, nel quale mi sforzai mettere le cagioni naturali onde procedono i sospiri. È fatto questo presente sonetto in risposta di quella gentilissima donna. E però parla alla donna mia e dice che, se il mio core fortunato, cioè felice e contento (perché «fortunato» non vuole dire altro che quello il quale ha prospera fortuna), sospira in quel tempo quando è piú presso alla donna mia, cioè aggiunto alla sua beatitudine, non è cagione alcuna perturbazione o cosa che l’offenda, come sarebbe sdegno, ira, dolore o paura; ma, volendo intendere bene il vero, n’è cagione la dolcezza che lui sente, la quale è sí grande, che tiene occupate tutte le forze e spiriti vitali, e gli svia dal loro uffizio naturale alla fruizione di quella dolcezza. Essendo adunque gli spiriti tutti attenti a questo, bisogna cessino le operazioni naturali che per mezzo loro si fanno. Tra l’altre operazioni naturali è ancora il respirare o, vogliamo dire, alitare, il quale ancora s’intermette per quello abbiamo detto. Di qui nasce che al cuore manca il suo usato refriggerio; perché, essendo il cuore di natura caldo, ed ancora per il concorso degli spiriti molto piú acceso, si suffocherebbe e morrebbe, se non si rinfrescassi per mezzo di quell’aria, la quale aria per quell’alito continuamente si rinnuova e rinfresca. Di questo nasce che Amore, veggendo il cuore mio in tanto pericolo, chiama in soccorso i suoi spiriti vitali; e veramente Amore gli muove, perché la natura, amatrice della conservazione della vita, subitamente pigne in ogni passione del cuore gli spiriti vitali. I quali spiriti, per ubbidir a questo amore della natura, con prontitudine e velocitá corrono in soccorso suo. Di questo nasce che, se prima il cuore aveva bisogno di respirare e refriggerarsi, molto piú ne ha bisogno sopravenendo tanti spiriti, i quali di natura loro sono caldi. E però necessariamente bisogna tirare dentro al petto piú quantitá d’aria per ristorare l’ordinario offizio dell’alito, il quale era intermesso; e di qui nasce il sospiro e quinci si rinfresca il cuore, il quale, avendo giá dimenticato se stesso, per sé non si curava di morire, anzi bramava sí dolce e sí felice morte. Possiamo adunque dire il sospiro procedere da ogni passione di mente e da ogni fatica del corpo, purché la passione della mente sia efficace in modo che diverta o intermetta le operazioni naturali dell’ordinario alitare, che appresso i latini propriamente «refocillare» si chiama, o vogliamo dire «respirare». La fatica e agitazione del corpo, come in uno che corre o facci qualche forte esercizio, ancora genera sospiri, perché il caldo naturale si eccita ed accende; né potrebbe il corpo in quella fatica perseverare, se il cuore non si refriggerassi e spesso respirassi. Vorrei avere potuto meglio esprimere questo mio concetto, perché cosí si conveniva a tanto degno e gentile quesito. E nondimeno ho eletto piú tosto che al sonetto manchi ornamento e la vera espressione di questo senso, che in me manchi una pronta voluntá di satisfare a quello che vuole Amore.
Poscia che il bene avventurato core, |
Come nel precedente sonetto abbiamo narrato, giá il cuore, assicurato da Amore, era da me fuggito; e di questo convenientemente séguita volere intendere e in che luogo arrivassi ed in che stato si trovassi. Le quali cose si narrano nel presente sonetto, la sentenzia del quale è questa: che, da poi che il cuore mio bene avventurato (e questo si vede per la conclusione del sonetto, perché «avventurato» si può chiamare quello che è gentile e perfetto, come dimostrerremo nella difinizione infrascritta della gentilezza; e però non dice «bene avventurato» per esser suto vinto dalla grandezza de’ martíri, ma pel bene che gliene seguitò); dico adunque che, da poi che questo cuore vinto dai martíri molto sospirò, finalmente si partí del petto mio. Li martíri suoi non erano altro che l’acceso desiderio della bellezza della donna mia. Cosí adunque fuggito, giunse agli occhi suoi, e da loro graziosamente fu ricevuto; che si puote interpetrare che il cuore mio si pasceva e della bellezza di quelli occhi e della speranza che aveva della futura pietá, la quale speranza gli dava Amore, che era ancora lui in quegli occhi, il quale non è mai sanza pietá. Questo dolcissimo ricetto per la virtú di quelli occhi fece gentile il mio cuore; perché, se gli è vero che quelli occhi mossi da Amore faccino gentile ogni cosa che e’ guardano, molto piú dovevono fare il mio cuore degno di tanto onore, cioè della gentilezza, il quale cuore sempre in loro abitava. E, per esprimere meglio il vero e verificare quanto è detto, diremo in questo modo: farsi gentile le cose che sono vedute da quelli occhi, quando Amore gli muove; per li occhi si presuppone una singulare bellezza, per amore pietá; e dove concorrono queste due cose, nasce, nel cuore di chi vede, gran dolcezza ed amore, il quale, secondo che abbiamo detto, non è mai sanza gentilezza. Né possono quelli occhi mossi da Amore, cioè con affezione, guardare cosa che non sia o in potenzia o in atto gentile, perché l’affezione non si estende se non a quello che piace, né può piacere se non quella cosa la quale abbi qualche conformitá con noi; e però, presupposto la gentilezza di quelli occhi, si verifica che e’ non possono con Amore guardare cosa che non faccian gentile. Il cuor mio adunque, eletto, cioè non per alcuno merito suo, ma per liberalitá e grazia della donna mia assunto a questo grado di gentilezza, giá si stimava tanto, ed in tale perfezione gli pareva esser venuto, che non estimava alcuna cosa vile e mortale. E perché non paia questo contradica a quello abbiamo detto, che sanza qualche merito non possa alcuna cosa ricevere da quelli occhi il grado di questa gentilezza, avendo io detto che il mio cuore sanza merito a questo fu eletto, dico, confermando la sentenzia sopradetta, che possiamo chiamare uno «gentile» o in atto o in potenza, cioè veramente gentile e con tutte le parti che vengono da gentilezza o atto a poter essere gentile; come diremo d’un fabbro, il quale, avendo il ferro sanza alcuna certa forma, si può dire abbi in mano una spada, una zappa, o quell’istrumento il quale è sua intenzione di comporre di quel ferro. Era il mio cuore prima questo ferro rozzo, ma atto a essere quello che volevano quelli occhi. E perché in loro potenzia era o lasciarlo cosí rozzo o farne una o un’altra cosa, per elezione del fabbro fu fatto gentile: e, quanto alla elezione, sanza merito; quanto all’essere disposto e atto ad essere gentile, non sanza qualche merito; e cosí si assolve questa parte. Io, veggendo il mio core tanto gentile, cominciai ad amarlo piú e desiderare che tornassi a me. E, per muoverlo a questo, purgai la mente ed il petto mio di ogni cosa vile e vulgare per mezzo pure di quelli occhi, la perfezione de’ quali, portata in me dagli occhi miei, si restò nella immaginazione; né sarebbe restata quella gentilissima forma in mezzo di tutti i miei pensieri, se i miei pensieri fussino suti vili e vulgari. E però, come di natura fa il bene, prima spogliò il petto mio d’ogni male; e, nonostante questa purgazione, non voleva tornare il cuore mio a me, né desiderava altra bellezza che quella di quelli occhi ove lui era. E cosí di necessitá bisogna fussi, sendo quelli occhi bellissimi e il cuore giá fatto gentile, come meglio faremo intendere nella esposizione di quel sonetto che comincia:
Candida, bella e delicata mano.
Pare solamente al presente necessario, perché spesse volte nelli nostri versi si truova questo vocabulo di «gentilezza» e «gentile», difinire una sola volta per sempre quello che sia gentilezza secondo la mia opinione. Né arei presunto di far questo, se Dante, clarissimo poeta, in quella canzone dove si difinisce la gentilezza, non si fussi ristretto alla difinizione della gentilezza dell’uomo, la quale lui chiama «quasi nobilitá». Ma, essendo questo vocabulo, secondo il vulgare uso, quasi comune a tutte le cose, non mi pare inconveniente dire quello che ne intendo, massime perché nella significazione che si usa è vocabulo nuovo ed al tutto vulgare, del quale non può essere né per difinizione né per l’uso degli antichi alcuna certa proprietá. Pare adunque a me che questo vocabulo «gentile» sia nato da quelli che «gentili» furono chiamati, cioè i Romani, i quali e dalli ebrei teologi e da’ cristiani furono chiamati «gente», e di poi «gentili», come per molti esempli si può provare. E perché i gentili, cioè i Romani, in queste cose che il mondo onora e pregia furono reputati eccellentissimi, credo si cominciassi chiamare «gentile» ogni cosa che avessi tra le altre qualche eccellenzia, quasi opera fatta da’ gentili o che alla eccellenzia loro convenissi. L’uso di poi ha allargato la significazione del vocabulo, tanto che la difinizione è molto difficile. Perché si dirá, verbigrazia, uno «gentile avorio», uno «gentile ebano», che l’uno è tanto piú bello quanto è piú candido, l’altro quanto è piú nero è piú stimato: cose molto contrarie l’una all’altra, e nondimeno espresse dal medesimo vocabulo. Diremo adunque «gentile» essere quella cosa, la quale è bene atta e disposta a fare perfettamente l’ufficio che a lei si conviene, accompagnata da grazia, la quale è dono di Dio. E per esemplo chiameremo un «gentile cavallo corridore», il quale corre piú velocemente che gli altri; ed oltre a questo vi aggiugneremo la bellezza che agli occhi lo facci grato, perché, oltre al correre forte, non sarebbe gentile, se non corressi levato e ben partito e con poca dimostrazione di fatica o d’affanno. Né sarebbe gentile se e’ non fussi bello, né avessi piccola testa e asciutta, larghe le nare del naso, gli occhi di conveniente grandezza e vivi, piccoli orecchi, collo sottile e svelto, non molto petto ma raccolto, il piè di buon colore, e forti, alti e larghi calcagni, giuntato corto, le gambe né grosse né sottili ma asciutte, le quali equalmente eschino delle spalle, abbi assai a proporzione del resto dalla punta della spalla al guidalesco, schiena non molto lunga, doppio di lombi, poco corpo e non pendente, e lungo piú di sotto che nella schiena, le lacche buone, le falci di drieto diritte, piccola coda, mantello che sia grato agli occhi con qualche buon segno, come sarebbe un cavallo, verbigrazia, tutto morello col piè di drieto sinistro balzano e un poco di stella in fronte. Chi volessi laudare con queste parti un corsiere da guerra errerebbe, perché ha a fare uffizio molto diverso. E però la gentilezza è quasi una distinzione iudiciale di tutte le cose. Volendo adunque vedere quello che era il mio cuore giá fatto gentile, è necessario intendere l’uffizio del mio cuore, il quale, avendo per obbietto gli occhi e bellezza della donna mia, a me pare avessi tre uffizi, l’uno conoscere, l’altro amare, il terzo fruire e godere quella bellezza. E se questa bellezza è grande, come abbiamo detto, grande perfezione bisognava fussi quella del cuore a conoscerla, ad amarla e fruirla. Non diremo piú di questa parte per al presente, perché nelli sonetti seguenti esplicheremo molto meglio questa materia, e mostreremo chiaramente perché il cuore giá fatto gentile non può bramare altra bellezza che quella della donna mia.
Candida, bella e delicata mano, |
Abbiamo detto quelle cose potersi chiamare gentili, le quali perfettamente e con grazia fanno quello a che sono ordinate. E per questo parrebbe prima facie che qualunche cosa fatta una volta gentile non avessi bisogno di alcun’altra cosa alla perfezione sua; che par contro a quello che dice il presente sonetto, la conclusione del quale è che la mano gentilissima della donna mia, avendomi tratto il cuore del petto, lo abbi fatto gentile, avendolo formato di nuovo, il qual cuore giá era suto fatto gentile dagli occhi suoi, come mostra il sonetto giá esposto che comincia: «Poscia che ’l bene avventurato core». E però, prima che piú particolarmente vegniamo alla esposizione del sonetto, per concordare questa apparente contradizione, diremo cosí. Che se la gentilezza è quella che abbiamo detto, tante cose possono essere gentili quanti sono i fini a che tendono le cose, come si vede per esperienza in un uomo, perché lo chiameremo nella sua tenera e puerile etá un «gentil fanciullo», dipoi un «gentil garzone», un «gentile giovane», un «gentile uomo», ecc., secondo che l’etá e la natura gli dimostra diversi fini; perché diverse cose convengono a diverse etá. E però, quando il mio cuore si fuggí negli occhi della donna mia, dalli quali fu fatto gentile, si può intendere che allora il cuore aveva per obbietto solamente gli occhi della donna mia e le altre appartenenti bellezze, e solamente di quelle si pasceva per mezzo della visione degli occhi miei; ed a questo fu fatto gentile, cioè a intendere, contemplare e fruire solamente per mezzo degli occhi quella bellezza. Ma di poi, essendo quella mano candidissima entrata nel petto e trattone il cuore, pare che questo fussi assunto a piú degno uffizio. Per questo dimostra la iuridizione che aveva la donna mia sopra al mio cuore, ed espressamente chiarisce che giá lei lo reputava suo, ed, essendo sua cosa per elezione di lei, di necessitá lo amava; e questo mostra piú chiaramente lo averlo cominciato a fare gentile cogli occhi, cioè fattogli questo benefizio, perché quelle cose si amano piú che l’altre, le quali noi reputiamo nostre e come nostre abbiamo cominciato a beneficarle. Altro era adunque l’uffizio del cuore, prima che la donna mia facessi segno alcuno d’amore verso di lui; altro è questo che doveva fare dopo tante benigne dimostrazioni. E però come a nuovo offizio e fine bisognò farlo gentile, perché non solamente aveva per obbietto la bellezza sua, ma ancora lo amore della donna mia, tanto piú degna cosa, quanto piú spirituale e manco corporea, e non di manco non meno desiderabile bellezza al cuore mio che gli occhi suoi agli occhi miei. Era adunque necessario, come è detto, di nuovo farlo gentile e formarlo per questo nuovo obbietto, e questo uffizio a nessuno pare che piú si convenissi che alla mano della donna mia, la quale bisogna intendere fussi la mano sinistra, la quale partendo dal cuore, come piú certo nunzio e testimone della intenzione del cuore della donna mia.....2: perché si dice nel dito anulario, cioè quello che è allato al dito che vulgarmente chiamiamo «mignolo», è una vena che viene immediate dal cuore, quasi un messo della intenzione del cuore. Veggiamo adunque di necessita il cuore di nuovo bisognava essere riformato e fatto gentile a questo nuovo e piú degno fine, e che la vera ministra a questo effetto era la mano sinistra per le sopradette ragioni.
Ora verremo a piú particulare esposizione del sonetto. Certamente tra l’altre gentilissime bellezze della donna mia le mani sue non parevano cose umane, e, benché ambo fussino belle, pure il presente sonetto, come disopra dicemo, parla alla mano sinistra, la quale chiama «candida, bella e delicata», non perché comprenda tutte le bellezze di quella mano, ma, narrandone una parte, vuol che chi legge comprenda ogni esatta perfezione che si convenga a una mano. E che questo sia vero, lo mostra soggiugnendo poi che l’amore e la natura gli avevano in modo contribuito ogni loro gentilezza, leggiadria e dolcezza, ed in effetto ogni generazione d’ornamento, che pareva ogni altra opera loro fatta invano quanto a comparazione di queste bellezze. Qui è da notare che tutte le cose che piacciono per due rispetti piacciono, cioè o per essere perfettamente belle, o per esser molto amate e desiderate: perché spesso avviene che e’ s’ama una cosa che non è reputata bella; e però, dove si unisce colla bellezza naturale lo amore, nessuna cosa può piacere tanto. Per questo si dice che Amore e la Natura avevano posto in quella mano ogni ornamento, che si può interpetrare la perfezione della bellezza naturale e l’amore grande che non lasciava mancare alcuna, ancora che piccola, parte di bellezza a quella mano. Questa mano tanto bella adunque entrò nel petto mio, il quale trovò aperto per la ferita, che prima avevono fatta gli occhi, drieto alli quali subitamente entrò e ne trasse il mio cuore. Ebbono grazia gli occhi miei prima di conoscere la bellezza degli occhi suoi, e poi, come spesso avviene, o ballando o in altro simile onesto modo, fui fatto ancora degno di toccare la sua sinistra mano; perché sulla scala d’amore si monta di grado in grado. Ebbe tanta forza questa mano, cosí da me tócca, che mi tolse di me lo intero dominio, e, come abbiamo detto, trasse il cuore del mio petto, il quale, preso da questa mano, fu di principio legato molto stretto, di poi reformato di nuovo e fatto gentile da quella mano, perché il formare è proprio offizio delle mani. Ed essendo cosí reformato e fatto gentile, quella mano sciolse tutti i lacci e mise il mio cuore in libertá, perché, essendo fatto gentile, non poteva amare se non gentile cosa, né avere altro che gentilissimo obbietto, e nessuno piú gentile ne poteva trovare che la donna mia, anzi la vera gentilezza; e però non bisognava dubitare che mai piú si partissi da lei, perché giá stava sanza essere legato, né ancora si poteva dubitare che altra bellezza gli potessi piacere; perché, se quella cosa piace piú, la quale è o pare piú bella che l’altre, nessuna piú bella se ne poteva trovare che la donna mia, della quale si può veramente dire, per essere gentile e bella, quello che dice Dante. Di costei si può dire:
Gentile in donna ciò che in lei si truova |
O mano mia suavissima e decora, Candida e bella man, tu sani poi |
Come nel precedente sonetto abbiamo detto, la natura e lo amore dánno ogni perfezione ed ornamento. Questo medesimo conferma il sonetto presente, il quale parla pure a quella mano gentilissima, e la chiama «suavissima e decora»: decora per li ornamenti e bellezze naturali, suavissima per lo amore e desiderio d’essa, perché, se non fussi questo amore e desiderio, non potrebbe essere suave, ancora che bellissima. Oltre a queste due proprietá, è da notare che io la chiamo «mia». E perché questo pare una arroganzia, perché di sí bella e gentile cosa non ero degno, replico questo vocabulo «mia» immediate nel secondo verso, e giustifico se cosí la chiamo, mostrando esserne cagione Amore, il quale me la dette per pegno della promessa pietá della donna mia. È comune ed antiqua consuetudine tra gli uomini in ogni patto e transazione, per piú efficace segno del cuore e voluntá nostra, toccare colla mano destra propria la destra di colui con chi si fa il patto, e comunemente s’usa quando si perviene a pace dopo qualche guerra ed ingiuria seguíta. Similmente, quando in tali o in altri casi si piglia giuramento alcuno, la destra mano è lo instrumento e ministra. Credo questa tale consuetudine sia suta introdotta dalla cagione che diremo appresso. Qualunque pace o simile patto e fede data, che fussi interrotta o non osservata, bisogna che sia cosí rotta da qualche nuova ingiuria, della quale il piú delle volte suole essere principio e ministra la mano destra, che è quella che percuote, e nella maggior parte degli uomini è piú espedita e pronta alla offesa. E però, usandosi la destra nelle convenzioni sopra dette, come testimonio e confermazione di quello che è fatto, pare che si obblighi quella cosa, la quale prima e piú facilmente può violare il patto. Dettemi adunque Amore questo pegno delle promesse sue quel giorno che ebbi a sdegno la mia libertá, cioè quello di che mi legò. E piú è da notare che questo pare contro alla veritá, perché, quel giorno che quelli occhi mi legarono, ancora non avevo tócca questa gentilissima mano. Ma bisogna intendere in uno de’ dua modi, cioè o che quel dí, che Amore mi legò, in se medesimo fece questo proposito di darmi in pegno questa mano, ancora che per qualche tempo differissi lo effetto; o vero ch’io fui interamente legato, ed al tutto fuori di libertá, come toccai quella mano: perché, come dicemo nel precedente sonetto, quella legò il mio cuore con mille nodi. E questo mostra che il cuore allora stava per forza di legame, e, se avessi forse potuto, volentieri si saria sciolto; e però riteneva ancora qualche parte di libertá. Ma, poi che fu riformato di nuovo e levati i lacci, stando di sua voluntá sempre con la donna mia, allora si poteva chiamare interamente fuor d’ogni sua pristina libertá, e quel d’Amore ebbe a sdegno la libertá sua, cioè la libertá che prima aveva il cuore innanzi che conoscessi questa nuova libertá, dove lo mise Amore; perché «libertá» si può chiamare quando alcuno può disporre a suo arbitrio, come poteva il cuor mio, sendo sciolto e libero da ogni legame. E di questa parte diremo piú ampliamente nella esposizione del sonetto che comincia: «Chi ha la vista sua» ecc. Subiunge di poi che questa mano veramente dolcissima indora gli strali d’Amore, codesta tira l’arco d’Amore, e ferisce tutti i cuori gentili che s’innamorano, che sono segno e berzaglio agli strali amorosi, come certifica il nostro Petrarca, quando dice:
Amor che i cor gentil suave invesca, |
Qui è da notare che tutti questi sono offizi che si fanno per mezzo delle mani. Ed oltre a questo, dicendo che questa mano indora le saette amorose, bisogna intendere che questa mano prepara ad Amore gli strali, li quali innamorano, che si dicono essere aurei, e non quelli di piombo, i quali sogliono cacciare amore e far nascere odio. E, come tutti questi sono offizi della mano, similmente è offizio suo medicare le ferite, perché la cerusica, la natura della quale si estende a simili medicine, non vuole dire altro che opera di mani. Ferisce adunque e sana, cioè accende il desiderio, di poi lo adempie, come si dice faceva il telo, cioè la lancia d’Achille figliuolo di Pelleo, la quale avendo due punte, dicono i poeti che con l’una feriva, con l’altra sanava le ferite. Di questo nasce convenientemente che, potendo questa mano e ferire e sanare, può ancora uccidere e vivificare. Adunque convenientemente è detto che quelle dita eburnee, cioè quelle dita di colore d’avorio, tengono la vita e morte mia. Ed ancora questo è proprio offizio delle dita, perché quello che stringe la mano lo fa per mezzo delle dita. Tiene ancora questa mano il mio gran disio, e questo molto veramente per quello che nel precedente sonetto è detto. Perché, tenendo il cuor mio, nel quale è la virtú concupiscibile, cioè il desiderio, tiene il mio desio, il quale io nascondo dagli occhi degli uomini, a’ quali al tutto è invisibile. Perché, se gli è vero quello che abbiamo detto, che questa mia donna sia gentilissima ed il cuore mio da lei sia fatto gentile, perché altrimenti non poteva conoscere o amare tanta bellezza, gli occhi degli altri uomini non possono vedere il mio gentilissimo disio, non sendo fatti gentili da lei non sono sufficienti. Ora, per non lasciare in confusione chi ha letto nel precedente comento nostro qualche cosa che pare prima facie contraria, a maggiore declarazione diremo come appresso. Abbiamo detto questa mano tanto da me lodata ed amata essere suta la sinistra, e tutti gli esempli che abbiamo dato, e della fede che per suo mezzo ebbi da Amore, e dello indorare gli strali, tirare l’arco e medicare, si riferiscono piú presto alla mano destra. Per levare adunque questa confusione, bisogna intendere che naturalmente la mano sinistra è piú degna e piú forte che la destra, perché è piú propinqua al cuore, il quale è datore della virtú e della potenza. È vero che l’uso umano, come molte altre cose, ancora questa naturale potenzia ha depravato. E però, se la destra ha piú degnitá o forza, è piú tosto per consuetudine che per natura. Né debbe l’uso ostare che non sia piú degno quello che per natura è piú degno. E però li buoni intelletti, come quello della donna mia, non ostante la perversa consuetudine, volle in questa come nell’altre cose essere piú eccellente degli altri; ed avendo a fare fede al cuor mio della pietá e disposizione del cuor suo, lo fece per quel mezzo a cui era piú naturale e che meritava piú fede, come piú vicino al cuore. Oltre a questo lo indorare le saette, tirare l’arco d’Amore e medicare le piaghe amorose è offizio della mano sinistra; perché, se bene le bellezze legano molto, il cuore della cosa amata strigne molto piú, e cosí molto meglio medica. E tutte queste opere manuali, che hanno a essere a significazione del cuore, molto meglio convengono alla mano sinistra per la propinquitá giá detta. E però è piú tosto errore quello che comunemente usano gli uomini, che la elezione in questa parte della donna mia.
Quanta invidia ti porto, o cor beato, |
Abbiamo disopra concluso e piú volte difinito «gentile» potersi chiamare quella cosa, che, secondo la umana perfezione, fa perfettamente e con grazia l’offizio a che è ordinata. Ed essendo giunto a questa perfezione il cuor mio per mezzo di quella mano bellissima, il presente sonetto fa menzione del modo come fu fatto gentile, ed ancora di alcuni effetti di beatitudine e dolcezza, che per questo sente il cuore; perché questa tale menzione e memoria non altrimenti è grata al cuore, che i navicanti raccontare qualche loro pericolosa fortuna, poi che hanno conseguito la sicurtá del porto. Parla adunque il presente sonetto al cuor mio, mostrando portarli invidia, non perché gli dispiaccia il bene suo, ma piú presto per desiderio di poter conseguire il medesimo bene; e, chiamandolo «cuor beato», mostra assai manifesto la cagione della invidia, la quale si è, come abbiamo detto in questo luogo, desiderio del medesimo bene. L’invidia necessariamente è maggiore e piú manifesta, quanto è maggiore il bene che si vede in altri; e nessuno è maggior bene che l’essere beato, e quella cosa è veramente beata che è gentile; e però, dicendo «cuor beato», giá si presuppone la gentilezza. Narra di poi il modo che tenne quella mano a riducere il mio cuore dalla durezza e viltá sua naturale alla perfezione della gentilezza, cioè mulcendolo e stringendolo, che si può interpetrare quella mano usasse qualche volta seco cose piacevoli e dolce, qualche volta aspre e forti; perché, avendo a combattere con due inimiche, cioè durezza e viltá, bisogna opporre due virtú contrarie, cioè forza contro alla durezza, e dolcezza contro alla viltá. Perché chi pensa bene che cose ostano a qualunche vuole andare alla perfezione, troverrá essere solamente due. Prima una naturale inerzia e contraria disposizione alla beatitudine che si cerca; e questo nasce e per difetto di complessioni e d’organi del corpo, e per le naturali concupiscenzie ed inclinazioni a molti errori, con ciò sia cosa che la via della perfezione sempre fu laboriosa e difficile, e però queste cose contrarie sono spesso di tale impedimento, che non lasciano, non che altro, qualche volta conoscere la beatitudine: e questo si può chiamare «durezza». L’altro ostaculo è che, ancora che qualche volta questa beatitudine in confuso si conosca e conoscendosi si desideri, gli uomini hanno una naturale viltá e diffidenzia, per la quale spesso si disperono di conseguirla, né, tentando la via per andarvi, possono giammai adiungervi. Bisogna adunque contro a quella prima durezza la forza, contro alla viltá la mollificazione e dolcezza, usando or l’una e or l’altra, secondo che si truovono potenti gl’inimici, perché l’una rompe la durezza, l’altra contro alla viltá dá speranza. Questi due effetti mostra il presente sonetto dicendo «or mulce, or stringe», ché con queste due cose trae del cuore ogni durezza e viltá, le quali remosse, si fa gentile, cioè diventa subito atto a ricevere ogni degna forma e gentile impressione. Séguita di questo che, subito che il cuore è diventato materia gentile, tanto può stare sanza la forma gentile, quanto può la materia sanza forma. E perché lo amore congiugne la materia e la forma, cioè un naturale desiderio che ha l’uno dell’altro, cosí Amore, che mosse quella mano a fare gentile il mio cuore, fa ancora che di nuovo si muove a darli tanta gentile impressione. E, trovando il mio cuore sanza durezza, cioè mollificato ed atto a ricevere ogni impressione, comincia col dito a scrivere in lui il nome della donna mia, quel nome, dico, al quale Amore consecrò il mio cuore; perché «consecrare» s’intende un tempio a uno iddio o una chiesa a un santo, dandoli il titolo di quel nome, perché perpetualmente si conosca quel tal tempio o chiesa. Adunque il cuor mio fu veramente consegrato, perché Amore ne fece un tempio ed abitaculo per sempre, dove si celebrassi e stessi quel nome della donna mia. Dipinge ancora quel candido dito l’apparenza del viso della donna mia, e quelle perturbazioni e passioni che a gentile donna si convengono, come è qualche modesta letizia e qualche dolce perturbazione. E perché pare cosa impossibile quello che appresso si scrive, cioè che si possa descrivere o depingere i pensieri che non sono sottoposti agli occhi, bisogna intendere che le passioni che convengono alla donna mia sono tre, cioè le due che abbiamo dette della modesta letizia e dolce perturbazione, e quella che si gli aggiunge al presente è l’amore, il quale include di necessitá una dolce speranza; né si esclude delle quattro perturbazioni il timor solamente, perché questo non si conviene a sí gentile donna, ancora che sia comune a tutti gli uomini. Volendo adunque fare menzione di questa gentilissima passione dello Amore, ed essendo il vero nutrimento dello Amore i pensieri, abbiamo detto nel mio cuore essere dipinti i suoi pensieri amorosi, e, volendo riferire questa pittura agli occhi, bisogna intendere che il medesimo viso della donna mia, che prima era dipinto or lieto, or dolcemente perturbato, fussi dipinto ancora qualche volta amoroso, perché, come conosciamo la letizia e il dolore, e ridendo e piangendo e per altri segni, cosí i pensieri amorosi per molti segni si comprendono, anzi dagli occhi innamorati difficilmente si nascondono; e tra gli altri segni, come avviene ancora delle altre perturbazioni, per le parole molto meglio si conoscono, le quali sogliono essere il piú delle volte espressioni di pensieri. E però soggiugne che la medesima mano descrive ancora le parole della donna mia, come nunzi de’ pensieri e testimoni esteriori di quello che il cuore fa dentro. Debbesi adunque presupporre che degnissima pittura fussi quella, della quale era ornato il cuor mio; perché tre cose, secondo il giudizio mio, si convengono a una perfetta opera di pittura, cioè il subietto buono, o muro, o legno, o panno, o altro che sia, sopra la quale distenda la pittura; il maestro perfetto e di disegno e di colore; ed oltre a questo che le cose dipinte sieno di lor natura grate e piacevoli agli occhi: perché, ancora che la pittura fussi perfetta, potrebbe essere di qualitá quello che è dipinto, che non sarebbe secondo la natura di chi debbe vedere. Conciosiaché alcuni si dilettano di cose allegre, com’è animali, verzure, balli e feste simili; altri vorrebbono vedere battaglie o terrestri o marittime e simili cose marziali e fere; altri paesi, casamenti e scorci e proporzioni di prospettiva; altri qualche altra cosa diversa: e però, volendo che una pittura interamente piaccia, bisogna adiungervi questa parte: che la cosa dipinta ancora per sé diletti. Era il mio cuore materia e subietto molto atto a ricevere ogni impressione; mai non fu mano tanto gentile e dotta a tale pittura, quanto quella della donna mia, né piú grate cose potevono essere espresse nel mio cuore che i dolcissimi accidenti ed il viso ed il nome della donna mia. E però quanto al giudizio del mio cuore era tanto perfetta questa pittura, che desiderava si perservassi e che eternamente cosí in esso si conservassi. E questo è molto naturale desiderio e séguita da’ principi giá detti. Conciosiacosaché si va per la via della perfezione, molto dura e laboriosa, per venire alla beatitudine; e chi ha grazia di condurvisi, non gli resta altro desiderio che stabilirsi e fermarsi in essa, come ancora desidera il mio cuore. E credendo che questo fussi il modo a potersi perpetuare in tanto bene, desiderava che gli occhi dalla donna mia avessino quella forza e virtú, che si legge ebbe giá il viso di Medusa, e che, come l’aspetto suo convertí gli uomini in sassi, cosí gli occhi della donna mia cosí dipinto il mio cuore e cosí bello convertissino in un duro adamante. Bisogna adunque intendere, per la pittura di tante belle e dolcissime cose nel mio cuore, i pensieri ch’erano in lui e la immaginazione di quelle tali cose. Li quali pensieri essendo pieni di somma dolcezza, il cuore desiderava si conservassino in lui e durassino a guisa della durezza d’uno adamante, e che nuovi e molesti pensieri non succedessino e cacciassino quelli ch’erano dolci, come spesse volte adiviene negli amanti, i quali comunemente brieve tempo si preservano nel medesimo stato.
Belle, fresche e purpuree viole, |
Fu non solamente la donna mia sopra tutte l’altre bellissima e dotata di degnissimi modi ed ornati costumi, ma ancora piena d’amore e di grazia. E puossi veramente di lei affermare che era tanto eccellente in tutte le parti che debba avere una donna, che qualunque altra donna, che fussi suta cosí perfettamente dotata di una parte sola di tante che n’avea la donna mia, sarebbe suta tra le altre eccellentissima. E che fussi, come abbiamo detto, tutta piena d’amore e di grazia, oltre a molti altri evidentissimi segni, mi accade nel presente sonetto fare menzione di uno singularissimo dono e a me gratissimo. E questo fu che, essendo io stato per qualche tempo per alcuno accidente sanza potere vederla, quasi ero diventato cosa insopportabile, né sanza pericolo della vita mia potea stare per qualche altro tempo, ancora che brieve, cosí sanza vederla. Di che essa accorgendosi, non per visibili segni, ché questo era impossibile, ma per esserli noto l’amor grande che io li portavo, e provando forse in sé medesima quanto fussi difficile e insopportabile la privazione degli occhi suoi agli occhi miei, né potendo a questo per allora rimediare, soccorse alla mia afflizione in quel modo che per allora si poteva. Dilettavasi di natura, come di molte altre cose gentili, ancora di tenere in casa in alcuni vasi bellissimi certe piante di viole, alle quali lei medesima soccorreva e d’acqua per li eccessivi caldi, e d’ogni altra cosa necessaria al nutrimento loro. Elesse adunque tre viole tra molte altre che ne aveva; quelle alle quali o la natura vòlse meglio, per averle produtte piú belle che l’altre, o la fortuna che prima all’altre le fece venire a quella candidissima mano. Le quali viole cosí còlte mi mandò a donare; ché veramente da lei in fuora nessuna cosa poteva meglio mitigare tanto mio dolore. Parla adunque il presente sonetto alle sopradette tre viole, le quali essendo per loro medesime di meravigliosa bellezza, ed essendo dono della donna mia e còlte da quella mano candidissima, ragionevole cosa era che mi paressino molto piú belle che non suole produrre la natura. E per questo convenientemente si domanda pel presente sonetto, come si suole fare di tutte le cose maravigliose, della cagione di tanta eccellenzia. E perché il presente sonetto per sé pare assai chiaro, brievemente diremo che nel domandare della cagione perché erono sí belle, si tocca tutti i mezzi per li quali la natura produce le piante, li arbusti e l’erbe e i fiori. E perché tutte queste cagioni insieme non parevono ancora sufficienti alla nuova bellezza, al colore, alla forma e all’odore di quelle bene avventurate viole, bisognava che qualche nuova cagione ed estraordinaria potenzia le avessi produtte; ed impossibile era intendere qual cagion fussi, se non a chi avessi in altre cose veduto esperienzia d’una simile virtú e potenzia. Avendo io adunque in me provato la virtú e forza di quella candidissima mano, che, secondo il precedente sonetto, di vile e durissimo aveva fatto il mio cuore gentile, potevo credere ed affermare, quella medesima mano poter avere fatto quelle viole di tanta eccessiva bellezza, perché maggior cosa era fare gentile una cosa rozza e villana che bellissima una cosa bella, come di natura sono le viole. Per questo si conclude: quella mano aver fatto quelle viole di tanto pregio ed eccellenzia, che aveva fatto il cuor mio, di villano, gentile, e per questo meritamente queste viole esser consorte del mio cuore, perché «consorti» si chiamano quelli che sono sottoposti alla medesima sorte. E però di tanta loro bellezza quelle viole non dovevono ringraziare né il sole, né la terra, né l’aria, né la rugiada, né il luogo aprico, né qualunche altra naturale potenzia che concorressi a simile produzione, ma solo la virtú e potenzia di quella candidissima mano. Non è forse inconveniente vedere se la bellezza di queste viole o era in oppenione mia, o era possibile in fatto. E benché io non possa iudicare se fussi vera in fatto, perché non posso riferire se non quello che pareva a me secondo che i sensi rapportavono al giudizio, i quali, se erano depravati e corrutti, o se pure mi portavano il vero, a me è difficile a intendere, perché bisogna il giudicio giudichi quello che portono i sensi e in quel modo che lo portono, nondimeno confesso essere possibile che la forte immaginazione sia cagione di corrompere i sensi, come spesso avviene in uno farnetico, che li pare vedere quello che non è, imperocché gran potenzia ha ne’ sensi la immaginazione, come faremo intendere nella esposizione di quel sonetto che comincia: «Della mia donna, omè, gli ultimi sguardi». E nondimeno non toglie che non possa essere vera quella bellezza, o vero questo che la cagione di essa sia la virtú di quella mano; perché si vede, o la grazia di Dio o per influsso celeste o per virtú naturale, a diversi uomini essere dato diverse potenzie e grazie. Vedesi spesso un medico dottissimo uccidere gran numero d’uomini; uno piú ignorante sanare quasi tutti quelli che e’ cura; alcuni uomini avere qualche propria virtú, con la presenzia sanare certi mali e con un semplice tatto di mano; ad alcuno essere giovato piú contro a chi lo assale la presenzia che la spada.
Truovasi in alcuni autori d’astrologia che chi ha una certa costellazione, ha virtú solo con la presenzia di guarire indemoniati. E non è molto maggiore forza quella delle parole che sieno udite dagli animali bruti, dalle piante e dall’erbe, come si dice de’ serpenti e d’altri animali, e che possino fare seccare le piante e l’erbe, e che solo la fascinazione facessi tanti diversi e grandi effetti, quanti si legge e in Catone e in Plinio, ed in altri autori antiquissimi e degni di fede e riverenzia? E che piú vogliamo cercare di esempli? Non veggiamo noi che maggior forza hanno spesso gli occhi umani che con un semplice sguardo uccidono quasi e vivificano, fanno fuggire e tornare il sangue, tolgono e rendono le forze, e quello che è piú, corrompono il giudizio della mente umana? Pare per questo assai possibile che possa una mano avere tanta virtú che dia, non dico alcuna nuova qualitá, ma alle medesime qualitate piú bellezza ed eccellenzia che non suole dare la natura, e massime la piú bella mano che forse mai facessi natura. E se io fussi di questo suspetto giudice, rispondo che prima fu giudicata da me la bellezza di quella mano che è amata eccessivamente; perché di necessitá la cognizione precede la voluntá. Se adunque mi parve bella che io l’amassi, è necessario che io vachi da colpa di passione, e che quella mano veramente fussi bellissima. E se cosí è, pare piú tosto impossibile che con tanta bellezza non fussi coniunta una maravigliosa virtú e potenzia, ch’è difficile a credere di lei quello che ne scrivo.
Chiare acque, io sento il vostro mormorio |
Ancora che nel precedente comento abbiamo detto volere riservare alla esposizione del sonetto che comincia: «Della mia donna» ecc. che gran potenzia è ne’ sensi la immaginazione, nondimeno pare che accaggia al presente dire qualche cosa piú tosto dello effetto che della cagione. Interviene adunque molte volte che, quando altri sente qualche continua e non articulata voce, la immaginazione nostra si accomoda quella tale voce a quello che allora piú immagina; ed immaginando gli pare articulata quella tale voce, dandogli quel senso e facendogli dire quello che piú desidera. E comunemente sonando campane, cadendo un’acqua continova, pare che questo tale suono dica quella cosa che vuole colui che la immagina. Vedesi ancora, per esemplo di questo, qualche volta nelle nubi aeree diverse e strane forme d’animali e di uomini; e, considerando certa ragione di pietre, che sieno molto piene di vene, vi si forma ancora dentro il piú delle volte quello che piace alla fantasia. Questo medesimo interveniva a me, che ritrovandomi in un luogo amenissimo dove era uno chiaro ed abondante fonte, nel quale perpetualmente l’acqua cadendo da alto faceva uno dolcissimo mormorio, a me pareva che quel mormorio continuamente dicessi il nome della donna mia, perché questa era quella cosa la quale piú immaginavo e quel nome che piú desideravo sentire. Aiutava questo dolcissimo inganno l’essere giá suta la donna mia in questo luogo amenissimo ed avere guardato nel fonte, che di necessitá era diventato suo specchio, perché per qualche tempo aveva pure ritenuto in sé quella bellissima e chiarissima acqua la effigie bellissima della donna mia. E però non pareva impossibile alla credulitá delli amanti che quell’acqua, innamorata di sí bel viso, da quel tempo in qua col suo amoroso mormorio perpetualmente replicassi quello dolcissimo nome. Pareva per questo conveniente, se quelle acque erano di sí bel viso innamorate, che dovessino per sempre ritenerlo in loro né lasciarlo mai partire, come a me pareva che perpetualmente dicessino il nome della donna mia. E si può ben credere che la medesima immaginazione che mi faceva sempre udire quel nome, guidata da una amorosa simplicitá, mi conducessi ancora a guardare nell’acqua, per vedere se v’era dentro ancora il viso della donna mia; e, non ve lo vedendo, mi accorsi dell’errore, e considerai subito che l’acqua non può ricevere alcuna tale forma se non ha un simile obietto assistente, perché la natura dell’acqua è cosí fatta, per essere corpo diafano. Ma gli è ben lecito col mormorio suo, secondo che pareva a me, ricordare il suo nome. E perché questo nasceva solamente dalla immaginazione e desiderio mio, altri che io non lo sentiva, né permetteva Amore che sí dolce armonia pervenissi ad altri che a’ miei innamorati orecchi. Cominciai di poi a fare comparazione dalla felicitá di quelle acque alla propria, e, parendomi essere piú felice di loro, se avevo in prima concetto alcuna invidia a quelle acque, la convertii in alquanto di arroganzia, mostrando che o gli occhi miei avevono avuto migliore fortuna, o erono suti piú prudenti e saggi; perché dalla prima ora in qua che ’l bel viso della donna mia si presentò agli occhi, sempre serborono in loro quella dolcissima immagine, né poterono da poi in qua mai vedere altra cosa né per scuritá di tenebre o d’ombra, né per lume di sole, che si può interpetrare l’ombra per la notte ed il sole per il giorno, che è tanto a dire come se dicessi né dí né notte toglie quegli occhi dagli occhi miei. O, interpetrando piú largamente, possiamo dire che due cose corrompono la vista umana e levano la potenzia agli occhi, cioè una grande oscuritá, e la oscuritá non è altro che l’ombra che nasce dalla interposizione della materia tra ’l sole e noi o da uno superchio lume, come avviene a chi guarda il sole. Adunque quella medesima immaginazione, che mi faceva sentire il nome della donna mia per il cascare dell’acqua, mi faceva vedere ancora in ogni tempo e luogo quel dolcissimo viso. Tutto questo concetto cosí espresso s’include nel presente sonetto, il quale parla sempre all’acqua del fonte sopradetto. Resta a chiarire meglio quella parte che dice che gli occhi miei furono specchio al volto della donna mia, la quale abbiamo riservato all’ultimo per non interrompere la sentenza del sonetto. E, non parendo da pretermetterla, diciamo che, volendo verificare che gli occhi miei fossino specchio dal suo viso, bisogna intendere naturalmente che gli occhi veggono, e come la potenzia visiva si riduce in atto. Secondo i peripatetici, la cosa che è veduta si rappresenta drento agli occhi multiplicandosi la spezie e forma di essa cosa, tanto che perviene a quella parte dell’occhio che si chiama «cristallina», perché è trasparente e diafana come il cristallo, la quale riceve quella tale forma della cosa che si vede, come fa lo specchio di qualunque cosa che gli è opposita. Questa tale forma cosí veduta dalla cristallina si transferisce al senso comune, che giudica per questo la qualitá di quella tale cosa. Secondo gli accademici, negli occhi nostri sono certi spiriti sottilissimi, i quali si partono dagli occhi e vanno a quella cosa che si vede, e riportonla per riflessione agli occhi, quasi informati della forma di quella tale cosa, la quale rappresentono pur alla cristallina giá detta, come a uno specchio, e di qui poi al senso comune. E però, secondo qualunque di queste due oppinioni, molto propriamente abbiamo detto che gli occhi miei fussino specchio al viso della donna mia, perché negli occhi si forma la immagine di qualunque cosa si vede, come nello specchio qualunque opposita forma.
Io ti lasciai pur qui quel lieto giorno |
Quando li successi d’alcuna cosa sono prosperi ed il desiderio grande, se il fruire quella tale cosa per qualche cagione è impedito, si ricorre il piú delle volte a quelli rimedi, i quali o per similitudine o per propinquitá meglio e piú proprio la rappresentano al pensiero. E perché il principio in tutte le opere è la potissima parte, la mente nostra volentieri torna col pensiero e, potendo, co’ sensi a quelle cose che concorsero al principio, come è tempo, luogo, parole, modi e che altro vi fussi intervenuto. Credo sia giá detto a sufficienzia quanto fussi grande il desiderio di fruire la sua dolcissima presenzia, della quale sendo privato in quel tempo che composi il presente sonetto, mi era necessario aver ricorso al sopradetto remedio di cercare qualche cosa e piú simile e piú propinqua che potevo al vero, che desiderava il cuor mio. E però cominciai prima a rimembrare nel pensiero quello felicissimo principio, onde sono proceduti tanti dolci successi. Da questo pensiero mi nacque uno desiderio ardentissimo di andare in quello luogo, nel quale prima l’anima mia, e con la donna mia e con Amore, assai lontano da me si partí: perché passò poco tempo da poi che gli occhi suoi m’ebbono legato, che la vidi e molto bella e molto amorosa e dolce in un luogo amenissimo assai vicino alla terra nostra. Dopo il qual tempo, come volle la mia fortuna, lei si partí, ed io stetti per qualche spazio che mi era interdetta la sua dolcissima visione, nel quale feci il presente sonetto. Trovandomi adunque in questo luogo, nel quale avevo lasciato l’anima mia, cercavo se ve la potevo ritrovare; ma, non vedendo né la donna mia né Amore, pensai subito che ’l mio cercare era in vano e che l’anima insieme con Amore e madonna fussi fuggita in altra parte, come era segno manifesto, non vi vedendo né l’anima né la compagnia sua, cioè Amore e madonna, li quali tutti insieme avevo lasciato in quello bello luogo. La quale anima fu sviata da Amore e dalle parole che con Amore parlava la donna mia; perché parlare con Amore non vuol dire altro che parlare cose che piacessino all’anima e, piacendoli, piú la legassino. E certamente fu vero che molte e dolcissime parole piene d’amore e di pietá quel giorno mi fece udire. Tornai adunque non solamente in questo luogo, ma ancora mi riducevo in esso a memoria e le parole e i modi suoi, perché maggior conforto nell’assenzia sua non potevo ricevere. Questo pensiero ed il luogo, che continuamente mi rappresentava quello lieto giorno, facevono nascere in me maggiore desiderio di vedere gli occhi suoi ed investigare la via per la quale si fusse partita; ed, essendomi incognita, nessuno migliore argumento occorreva a trovarla che guardare la terra e l’aere. Perché dove avevono tócco li piedi suoi era fiorita la terra; tanta virtú e grazia da quelli piedi aveva ricevuta quell’aria, per la quale il viso e gli occhi suoi erono penetrati, e l’andare suo aveva diviso e partito: ed, essendo assai piú chiara ed illustre che l’altra, faceva in quella regione segno del passare di madonna; come la via lattea in cielo, la quale, mostrandosi per abbondanza di splendore che viene da moltitudine di stelle piú spesse e serrate insieme, assai similitudine aveva colla via della donna mia, illustrata dallo splendore delli suoi occhi. Era adunque assai noto il cammino, onde e con madonna e con Amore insieme s’era da me dilungata e fuggita l’anima mia. Ma il destino mio e avversa sorte non sopportava che io potessi, come aveva fatto l’anima, seguitare quel bello cammino, che non poteva essere se non bellissimo, per essere ornato di fiori novelli ed illustrato dallo splendore di quelli belli occhi. Questi affetti amorosi vorrei fussino espressi nel presente sonetto, il quale parla sempre alla fuggitiva anima mia, e conviene presupporre che fussi composto e recitato nel proprio loco dove furono questi amorosi accidenti.
Datemi pace omai, sospiri ardenti, |
Sogliono comunemente tutte le infermitá corporali nel sopravenire della notte pigliare augumento ed affliggere piú l’infermo. E questo avviene che, mancando la virtú del sole, il quale è propizio all’umana natura, li umori maligni prendono maggior forza e la virtú fa manco resistenza, perché naturalmente la notte gli è data per riposo ed, essendo piú inclinata la notte che ’l giorno a posare, non è cosí intenta e vigilante alla conservazione del corpo. Questo medesimo avviene delle infermitá dell’animo nostro, le quali sono nutrite da’ maligni e malinconici pensieri, come le corporali da’ maligni umori. E questo procede forse da piú altre cagioni, ma al presente me n’occorre due: perché, come abbiamo detto, alla infermitá del corpo concorre e maggior forza di maligni umori e manco resistenza della virtú naturale; cosí due cagioni hanno i morbi della mente, per le quali sono piú validi la notte che ’l dí. Il primo si è che naturalmente gli umori, di che siamo composti, si muovono nel corpo nostro a certe ore determinate e proporzionate alla lunghezza e brevitá del dí o della notte; cioè dividendo la notte e ’l dí o lungo o brieve in dodici parte, e chiamando ciascuna d’esse parte «un’ora», in modo che verso la sera comincia a muoversi l’umore maninconico, e consuma una parte della notte, e quasi tutto il resto occupa la flemma. Conciosiacosaché, secondo i fisici, l’ultime tre ore della notte e le tre prime del giorno si muove il sangue, le seguenti sei ore la còllora, l’altre ultime tre del giorno e le tre prime della notte l’umore melanconico, le seguenti della notte la fiemma. E perché l’umore melanconico e flemmatico generano nella mente nostra malinconici e tristi pensieri, di necessitá conviene questi tali pensieri abbino maggior forza in quel tempo che si muovon quelli umori. L’altra cagione, che multiplica il male della mente piú la notte che il giorno, diremo essere che la notte non si possono usare quelli remedi contro a questi mali, che si può il giorno. Conciosiacosaché contro alla malignitá de’ pensieri migliore rimedio non si può trovare che la diversione da quel tale pensiero. E questo procede e da vedere, udire e praticare diverse cose, che ritraggono la mente dalle moleste cogitazioni; la qual cosa difficilmente si può fare la notte. Concludesi per questo: i notturni pensieri essere molto piú veementi, e, quando sono maligni, molto piú molesti, e per essere piú potenti e per aver manco resistenzia e rimedio.
Era adunque notte, ed io era tanto afflitto da’ pensieri miei amorosi, che piú resistere non potevo, privato al tutto di sonno, cioè di quel poco di refriggerio ch’io potevo avere; e se cercavo porre da parte que’ pensieri, questo mostra assai chiaramente che i pensieri erono molesti. La molestia de’ miei pensieri amorosi da due cose poteva procedere: o veramente da una dubitazione e continua gelosia, la quale, ancora che non abbi cagione vera, accompagna sempre la mente come l’ombra il corpo. Perché è natura de’ maninconici, come dicemo nell’esposizione del terzo sonetto, mettere dubbio nella chiarezza del sole, o veramente che, pensando io alla bellezza della donna mia, se n’accendeva in me uno maraviglioso desiderio, del quale ardendo il cuor mio, non poteva non aver grandissima passione, desiderando sommamente quello di che allora era al tutto privato. Quale adunque di queste due cagioni fusse, mosso da questa molestia, priego nel presente sonetto li miei ardenti sospiri, cioè i sospiri che nascevono dallo acceso desiderio sopradetto; priego ancora li miei pensieri sempre fissi in quel bel viso, cioè che altro non vedevono o pensavono che quella; priego ancora le lacrime degli occhi miei, ché tutte e tre queste cose a un tempo mi molestavano, che mi dieno pace, acciò che qualche sonno placido e dolce venissi alle mie luci roranti, cioè agli occhi miei lacrimosi, perché «rorante» s’interpetra quello che vulgarmente diciamo «rugiadoso». E per muovere commiserazione in quelli i quali io pregavo, mostro che tutti gli altri uomini e gli animali bruti, in quel tempo che io sospiravo e lacrimavo, si stavano quieti e in riposo sanza fatica o sanza pensiero alcuno; e oramai avevo passato con questi affanni tanta parte della notte, che era tempo mi dovessi posare, perché giá i cavalli del sole erono suti messi al giogo del carro solare per conducere la luce nel mondo; perché la scorta de’ raggi febei, cioè l’aurora che precede il sole, giá faceva segno al mondo del futuro giorno. E perché forse pare impropriamente detto che i pensieri melanconici e flemmatici avessino tanta forza nel tempo dell’aurora, che abbiamo detto muoversi il sangue, bisogna intendere che, come dicemo ne’ sonetti precedenti, gli amanti il piú delle volte o sono o diventano di natura melanconici. E benché in ogni tempo produchino pensieri simili alla complessione, pure questi tali pensieri multiplicano piú, quando alla natura si aggiugne il tempo nel quale si muove l’umore. E però ancora che succede quel tempo che pare contrario alla malinconia, interviene come d’una fornace, della quale ancora si levi il fuoco, vi resta il caldo per qualche tempo, per la impressione che ha fatto il fuoco; perché naturalmente da uno estremo a un altro non vi si va sanza mezzo. La impressione che ha fatto l’umore malinconico è grande, e la flemma che subintra non è opposita in modo allo umore precedente, che gli tolga forza per la partecipazione che ha colla maninconia della freddezza. E però, giugnendo questi pensieri cosí fortificati dagli umori, allora che si muove il sangue, bisogna che a grado a grado per la forza dell’umore si reduchino i pensieri alla natura del sangue. E però all’ora giá detta veramente la forza di quelli maligni non era tanto diminuita, che reducessi il sonno agli occhi miei. Non bastorono i prieghi miei a farmi esaudire da’ sospiri, da’ pensieri e dalle lacrime. E però, pensando quello che piú potessi fare, mi accorsi che la cagione vera del male mio, quella che moveva le lacrime ed i sospiri ed i pensieri, era Amore. E però cominciai a voltare a lui i miei prieghi, ed, avendo chiesto a quegli primi invano pace, mi ridussi con Amore a domandarli triegua, cosa che piú facilmente doveva consentire, perché la pace è una perpetua quiete, la triegua temporanea; e, perché piú facilmente me l’acconsentisse, promissi ad Amore che, ancora che io dormissi, non mi rebellerei del suo regno, e ne’ sonni miei vederei il viso della donna mia, udirei le sue dolce parole e toccherei quella candidissima mano, ed i pensieri miei dormendo sarebbono amorosi come erano nella vigilia; solamente con questa differenzia: che, vegghiando o per gelosia o per desiderio, i pensieri erono molestissimi e duri; dormendo, sarebbono dolci e soavi, perché adempierei quello desiderio che avevo, di vedere, udire e toccare la donna mia. E questo potevo sicuramente promettere, perché comunemente ne’ sonni si veggono quelle cose che piú s’immaginono e desiderono nella vigilia. Negandomi adunque questo bene Amore, che almanco dormendo io fussi felice, veramente lo potevo chiamare invidioso, poiché d’una falsa e brevissima dolcezza non consentiva satisfarmi.
O sonno placidissimo, omai vieni |
Abbiamo nel precedente sonetto verificato che li pensieri della notte sono piú intensi che quelli del giorno, e quando sono maligni, molto piú molesti. Ma, ancora che generalmente cosí sia, li pensieri amorosi piú che gli altri, secondo la mia oppinione, prendono la notte forza, e sono molto piú insopportabili quando sono molesti; né possono essere altro che molesti, presupponendo la privazione della cosa amata, perché tutti i mali che possono cadere negli uomini, non sono altro che desiderio di bene, del quale altri è privato. Perché chi sente alcuno dolore o torsione nel corpo, desidera la sanitá di che è privato; chi è in carcere, la libertá; chi è deposto di qualche dignitá, tornare in buona condizione; chi ha perduto alcuna facultá e sostanza, la ricchezza. E di questo veramente si può concludere che chi fussi sanza desiderio, non sarebbe sottoposto ad alcuno caso; e chi piú desidera, sente maggiore afflizione. E, se questo è vero, certamente gli amanti sono, piú che tutti gli altri, miseri, perché hanno maggiore desiderio, e la notte sono miserrimi, perché il desiderio è maggiore, perché, mancando le altre occupazioni che distraggono la mente, non hanno altro recorso contro al pensiero che li affligge che il medesimo pensiero, e sono privati di qualche mitigazione che potrebbe il giorno aver la loro passione, come sarebbe vedere la donna amata, parlarne con qualche amico, vedere qualche suo intimo o consanguineo o domestico, vedere almeno la casa dove lei abita: le quali, benché non sieno altro che a uno febricitante e siziente lavarsi alquanto la bocca, che è cagione di crescere tanto piú la sete, pure il tempo passa con manco afflizione; e puossi veramente dire che gli amanti vivono di dolcissimi inganni, che loro fanno a loro medesimi, de’ quali essendo privati in qualche parte la notte, soli e pensosi, né consolazione alcuna né sonno ammettono, come mostra il presente sonetto, molto simile di sentenzia al precedente. Il quale parla al sonno, pregandolo che vogli venire dopo tanti affanni ed inquietudini a serrare il fonte degli occhi miei lacrimosi, fonte perenne, cioè vivo e perpetuo, quasi dica che, se ’l sonno non serra quegli occhi, non resteranno mai di lacrimare. Chiama di poi il sonno dolce oblivione ed unica quiete per raffrenare il desio, perché questi due remedi aveva l’affilizione mia, cioè o dimenticare, intermettendo, i pensieri, o mitigare tanto desiderio. E, perché a me medesimo pareva impossibile non solamente il dormire, ma il viver sanza immaginare la donna mia, priego il sonno che venendo negli occhi miei la meni seco in compagnia, cioè me la mostri ne’ sogni, e mi faccia vedere e sentire il suo dolcissimo riso; quel riso, dico, ove le Grazie hanno fatto loro abitacolo, che è sopra tutti gli altri grazioso e gentile; che veramente è detto sanza alcuna adulazione, tanta grazia e in ogni cosa, e massime in questa, aveva la donna mia. Desideravo ancora che ’l sembiante suo, cioè l’apparenzia, mi fussi mostra dal sonno pia, e il parlare accorto, e atta l’una e l’altra cosa a porre in qualche pace il mio ardentissimo desiderio; e però bisognava che il sembiante e le parole fussino amorose e piene di speranza. E come si vede, in tutto questo sonetto, non si cerca altro che raffrenare e temperare il desio corrente ed ardentissimo; e, credendosi il mio pensiero dover ottenere dal sonno questa sua petizione, come avviene alla insazietá dello appetito umano, da questo primo desiderio trascorre il desiderare ancora, o vero perpetuamente, queste felicitá dormendo, o qualche volta remosso il sonno: perché dice che, consentendo il sonno, e volendo esaudire i prieghi miei di rappresentarmi la donna mia bella e piatosa, ecc., desidererebbe dormire eternalmente sanza destarsi mai, presupponendo sempre vedere la donna mia colle giá dette condizioni. E se pure questo fussi impossibile, almeno non sieno questi sonni vani e bugiardi, come quelli che passano per la porta eburnea. Trovasi scritto fabulosamente per li antichi poeti essere appresso gl’inferi due porte, che l’una è eburnea, cioè d’avorio, l’altra è di legno di corno, e che tutti i sogni, i quali pervengono alla umana immaginazione nel sonno, passano per queste due porte, con questa distinzione, che i sogni veri passano per la porta del corno, quelli che sono falsi e vani per la porta d’avorio. E però, pregando io che questi sogni lieti non passino per la porta eburnea, tanto è come pregare che quelli sogni non sieno falsi, ma verificati, ed abbino quello felice effetto che sogliono avere quelli della porta cornea.
Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori, |
Assai copiosamente nelli due precedenti sonetti abbiamo mostro quanto siano piú veementi i pensieri notturni, e spezialmente gli amorosi. Ed, avendo fatto menzione solamente dell’afflizione che dánno li maligni pensieri, convenientemente pare che séguiti li due precedenti il presente sonetto, nella esposizione del quale accade mostrare quanta dolcezza portino li pensieri amorosi, che non procedono da molesta cagione; che ragionevolmente portono maggiore dolcezza che gli altri pensieri, se è vero che li maligni pensieri portino maggiore molestia, perché le medesime cagioni, che fanno il primo eccesso della infelicitá, producono ancora piú eccessiva felicitá, come diremo d’uno avaro, il quale ha tanto dolore, perdendo una quantitá di danari, quanto è la letizia se guadagnassi la medesima quantitá: perché, se gli è vero, come abbiamo detto nel precedente comento, che l’appetito sia quello che ci sottomette a’ casi della fortuna ed alle perturbazioni, pare necessario bisogni che secondo la quantitá dello appetito si misuri il bene e ’l male nostro. Ed essendo d’una medesima cosa il medesimo appetito, pare non solamente vero, ma necessario che la felicitá e infelicitá di quella tale cosa sia equale secondo equali gradi, o della privazione di quella cosa o dello adempiere l’appetito. Sono adunque gli amorosi pensieri dolcissimi e piú che gli altri soavi, quando procedono da dolce cagione, come mostra il presente sonetto. E, perché dicemo innanzi, che la infelicitá degli amorosi pensieri procedeva da privazione della cosa amata e dal sospetto che comunemente accompagna gli amanti, da due cagioni similmente procede la felicitá de’ pensieri giá detti, presupposta sempre la certezza che possino avere gli amanti della fede e amore della cosa amata. L’una cagione è che, pensando a qualche fresca e passata felicitá e contento, sopra alla quale il pensiero si dilata e volentieri a cosa a cosa rimembra, parendogli cosí facendo quasi piú prolungare la passata dolcezza. L’altra procede da una speranza assai vicina allo effetto del futuro bene, la quale abbi in sé tale certezza, che quasi lo facci parere presente. E, come la prima cagione dopo il fatto fa piú perpetuo il passato bene, cosí la propinqua speranza innanzi al fatto gli dá principio, come si vede per esemplo che chi aspetta una simile dolcezza o chi di fresco l’ha provata, vorrebbe alienarsi da tutti gli altri pensieri. Ed io ho conosciuto qualcuno, che, avendo una súbita ed insperata novella e insperata certezza nel propinquo e futuro bene, ne resta quasi attonito, sanza udire alcuna cosa che gli sia detta o usare alcuno senso, essendo astratto da quel pensiero. Questi effetti amorosi adunque mostra il presente sonetto, il quale, posponendo a simili pensieri amorosi tutte le cose che agli uomini comunemente sono gratissime e dolce, assai chiaro fa intendere quanto sia grande la dolcezza della amorosa cogitazione. Dice adunque lasciare a chi le vuole le pompe e gli alti onori e le pubbliche magnificenzie, come piazze, templi e gli altri edifici pubblici, e per questo denota gli ambiziosi e quelli che con sommo studio cercano l’onore. Dice di poi che cerchi ancora chi vuole le civili dilicatezze, e per questo denota tutti i piaceri e lascivie umane. Aggiugne il tesoro, mostrando l’amore e lo studio della pecunia, perché l’appetito nostro solamente circa a queste tre cose si estende, cioè ambizione, voluttá corporale e avarizia, perché l’onore, il piacere e l’utile impedisce ogni altra nostra operazione. Séguita di poi mostrando che cose aiutano e nutriscono i pensieri amorosi, cioè un verde praticello pieno di be’ fiori, ed un rivolo che bagni i fiori e l’erba intorno al luogo onde gira, e gli amorosi canti di qualche uccelletto. E qui è da notare che, contro alle pompe e edifizi magni e l’altre cose descritte con parole grandi e magnifiche, si oppone tutte cose piccole e chiamate per vocabuli diminutivi, come «praticello», «rivuli» ed «augelletti», per provare meglio che, se le predette cose grandi sono accompagnate da mille duri pensieri e da mille dolori, queste piccole a contrario debbono inducere piú tranquilli e queti pensieri. Séguita di poi che le selve, monti e sassi, le spelonche, le fere silvestre, e qualche timida ninfa sono cose propizie a questi pensieri d’amore, per mostrar in effetto che la solitudine e il dilungarsi dall’umano consorzio riduce la mente piú quieta e non forza i pensieri. E però, non sendo forzati, facilmente tornono alla natura, e si profondono tanto piú nella immaginazione di quello che piú desiderano e amano; e allora ha tanta forza la immaginazione, che mostra agli occhi quello che vuole, ed a me mostrava il mondo le luci, cioè gli occhi della donna mia, come se vedessi lei viva e vera. Ma, nella cittá, quando una cura e quando un’altra mi toglieva questa dolcezza, la quale veramente è grandissima. E, quando non si provassi per altra ragione, si prova per questa: che la dolcezza della immaginazione ha qualche similitudine colla vera beatitudine, cioè quella che consegue l’anima a cui è data la gloria eterna, la quale in altro modo non si fruisce che immaginando e contemplando la bontá divina. E, benché questa contemplazione sia differente assai dalla contemplazione umana, perché quella contempla il vero e questa una immaginazione vana che forma l’appetito mortale, non di meno l’una che l’altra ha qualche poco di similitudine nel mondo. E, cosí imperfetta come è questa mortale, è approvata per la prima felicitá del mondo, quando ha per obietto la vera perfezione e bontá, secondo che si può conseguire nella mortal vita. Per questo si può dire che la contemplazione di qualunque cosa non molesta abbi in sé grande dolcezza, perché ha qualche parte di similitudine colla somma dolcezza e perfetta felicitá. Bisogna nel presente sonetto presupporre che fussi composto nella cittá, perché dicendo «Qui mel toglie», ecc., come si legge nell’ultimo verso, è necessario s’intendi «qui», cioè nella cittá, presupponendo ancora qualche fresco piacere o di contemplazione o d’altro, ricevuto in luoghi alpestri e solitari, per la quale comparazione s’appetiscono le ville e si ha in odio le cittá.
— Ponete modo al pianto, occhi miei lassi: — Dunque qual disio face a voi, qual sorte |
Leggesi in Omero, antiquo ed eccellentissimo poeta greco, che Giove, quando vuole mandare agli uomini nel mondo la sorte che a ciascuno si conviene, ha due grandissimi vasi, delli quali uno è pieno di sorte avverse ed infelici, nell’altro sono sorte felici ed infelici insieme confusamente miste. E, volendo mandare ad alcuno cattiva sorte, toglie di quelle del vaso, il quale le avverse sorte solamente contiene; volendo fare alcuno felice, gli manda dell’altro vaso, nel quale sono le avverse e prospere sorte mescolate; per denotare che facilmente gli uomini possono essere infelici sanza partecipazione d’alcuna felicitá, ma non possono giá essere felici sanza partecipazione di miseria. E, se alla confermazione di sí vera sentenzia non fussi abbastanza l’autoritá d’un poeta tanto eccellente, che fu chiamato «divino», la esperienza dell’umane cose ne rende assai abbundante testimonianza. Questa veritá seguitiamo ancora noi nel presente sonetto, ed, avendo nelli tre precedenti verificato due sentenzie, cioè la felicitá ed infelicitá degli amorosi pensieri, non pare che sanza vera cagione accaggia nel presente sonetto mostrare che la felicitá ed infelicitá amorose bene spesso sono congiunte e complicate insieme, anzi quasi sempre sono in compagnia, se bene tra loro or l’una or l’altra abbia maggiore potenzia. Né avviene questo solamente nelle cose amorose, ma ancora nelle naturali, e comunemente in tutti i casi che avvengono agli uomini; perché, quanto alle naturali, veggiamo tutte le cose che vivono al mondo constare d’oppositi e vivere per contrarietá d’umori, ed essere composte di cose che ciascuna per sé offende molto la natura di quella tale cosa. E, se non fussi la repressione degli umori contrari, non viverebbe alcuna cosa in questo mondo inferiore. E però si può dire tutti gli animali mortali, vegetativi, sensitivi e razionali non vivere per beneficio degli umori de’ quali sono composti, ma a dispetto d’essi e contra alla voglia loro; perché ciascuno umore naturalmente appetisce vincere i contrari suoi, e, súbito che questo tale naturale appetito in qualunche d’essi ha effetto, e che l’uno vinca l’altro, di necessitá viene la morte; e la vita si conserva, mentre che dura la potenzia equale e la guerra tra l’uno e l’altro. E però diremo, la vita nostra constare d’opposizione, contrarietá e diversi mali, e la morte proceder dalla pace. Provasi adunque, per questo, la vita, che appresso i mortali è stimata tra’ primi beni, aver sempre in compagnia questo conflitto delli elementi. Quanto a’ casi del mondo ed a quello che ’l piú delle volte avviene agli uomini, è assai manifesto o essere male puro sanza partecipazione di bene, o bene misto con molto male. E, benché e’ non mi paia questa proposizione abbi bisogno d’alcuna confirmazione, tutta volta, distinguendo le operazioni umane in mentali e corporali, credo sia facile ad intendere che sempre la mente e intelletto nostro ha oppositi ed inimici i sensi e le passioni corporali (che cosí conviene che sia, essendo di natura molto contrari lo intelletto ed il corpo), le passioni e gli appetiti corporali sempre hanno per ostaculo il rimordimento della coscienza, che procede dallo intelletto. Ed, oltre a questo, spesso, anzi quasi sempre, una passione è contraria all’altra, e l’uno appetito all’altro; ché cosí conviene che sia, procedente le passioni umane in gran parte dagli umori delli quali siamo composti, che, come abbiamo detto, sono de diretto contrari l’uno all’altro. Veggiamo ancora, nelle civili, proprie e domestiche operazioni, la difficultá di pigliare qualche partito nasce del concorrere in ogni partito qualche inconveniente, né si trovare di mille volte una vera deliberazione, alla quale non si possa contradire. E però quegli che sono piú prudenti, indugiono piú a pigliare partito, e per questa tarditá si chiamono «uomini gravi». Ed il tempo si chiama «sapientissimo», perché la sapienzia vera consiste nello aspettare ed usare l’occasione; e questa non sarebbe necessaria, se non per la molta difficultá che portano seco le occorrenti deliberazioni. Verificasi adunque ogni umana azione non essere assolutamente buona né dolce sanza participazione di miseria. E questo molto piú si conosce nelle cose che la passione e l’appetito governono, come sono i casi amorosi. Perché dicemo, nel comento del sonetto che comincia: «In qual parte andrò io» ecc., Amore non essere altro che una gentile passione. Questa medesima sentenzia conferma il presente sonetto, il quale è composto per dialogo. Perché nel primo quaternario parla il sonetto agli occhi miei lacrimosi: il secondo quaternario, che comincia: «Miseri noi», rispondono gli occhi; di poi il primo ternario: «Dunque qual disio», ecc., parla pure il sonetto agli occhi; l’ultimo ternario che comincia: «Natura», rispondono pure gli occhi. Ritornando adunque al principio, è necessario presupporre che gli occhi miei da grave e continuo pianto erono occupati; e per questo pareva maraviglia, essendo loro molto vicini, ed avendo quasi presente l’angelico viso della donna mia, nella visione del quale pareva consistessi la loro felicitá, come dicemo nel sonetto che comincia: «Occhi, io sospiro», ecc. Per questo pareva ragionevole prima confortare gli occhi a porre fine al pianto, perché presto vedrebbono la donna mia, la quale si poteva dire essere quasi presente. E, perseverando pure gli occhi nel pianto, molto convenientemente si domanda perché pure piangono e per che cagione il cuore sta nel petto tutto pavido e pieno di sospetto. Rispondono a questa proposta gli occhi, mostrando il pianto loro procedere per il dubbio che hanno della forza degli occhi della donna mia, la quale chiamano «bavalischio», il quale si dice avere per natura di uccidere solamente coll’aspetto degli occhi. E però, come cogli occhi solo lui uccide, cosí, dubitando gli occhi miei non potere sopportare lo sguardo della donna mia, la quale, se fiso gli mirassi, o farebbe priete degli occhi, come del resto del corpo, o converria l’alma spirassi e la vita si partissi, vedesi questi due dubbi, che mostravano gli occhi miei, essere fondati nella sperienzia di cose giá sute; perché, quanto al diventare priete, si legge di Medusa, come abbiamo detto; quanto alla morte, similmente abbiamo l’esemplo del bavalischio. Assoluto adunque il primo dubbio e mostra la cagione giusta del pianto, ne nasce un altro. E questo è che, dato che tale sospetto sia giusto, gli occhi dovevano fuggire lo aspetto della donna mia come cosa mortale, e, seguitando pure il cammino per vederla, era necessario che giustificassino se desiderio o sorte menassino gli occhi miei, desiderando loro e temendo una medesima cosa. Ed in questo desiderio e timore si mostra la mistione sopradetta della amaritudine colla dolcezza, perché il timore presuppone l’amaritudine, e il desiderio la dolcezza. Dice «disio» o «sorte», perché gli uomini qualche volta sono mossi da uno proprio e naturale desiderio, qualche volta sforzati quasi dal destino, perché si legge: «Fata volentem ducunt, nolentem trahunt»; e per sperienzia spesse volte si vede gli uomini per elezione fare molte cose contro alla propria volontá. Qual disio adunque o qual sorte muove il passo lento e raro; ed in questi due epiteti del passo si mostra a un tempo e voglia e timore nello andare; perché se fusse voglia sanza timore, il passo sarebbe presto ed espedito, se fusse timore sanza voglia, non sarebbe il passo né alcuno movimento verso quella cosa che si temessi. Perché il timore di natura fa fuggire, conciosiaché quello che si teme si ha in odio, e quello che si ha in odio si fugge. A questo obietto rispondono gli occhi, mostrando la cagione del timore essere molto naturale, conciosiacosaché per natura ciascuno teme la morte: la cagione dello andare pure innanzi essere Amore, il quale non per alcuna naturale ragione, ma mirabilmente fa parere suave nelli amanti quello che in tutti gli altri è amaro e durissimo. E veramente è detto mirabilmente, perché mirabile è ogni cosa la quale è contro all’ordine della natura; né potrebbe essere piú opposito all’ordine di natura, quanto è il desiderio della morte, de’ pianti e de’ sospiri e dell’altre amorose passioni. Concluderemo per questo gli amanti essere di tutti gli uomini miserrimi, non solamente per una sorte comune, come abbiamo detto aver tutte le cose umane, per aver sempre la mistione del male, ma ancora per una particulare cagione: che gli amanti non hanno mai bene alcuno, né per proprietá, come l’altre cose, né per participazione; conciosiacosaché le maggiori dolcezze amorose non pare che consistino in altro che in quello che gli altri uomini chiamano «sommo male». Pure è assai agli amanti gustare una felicitá che paia a loro propria, perché il contento umano consiste piú tosto nel parere che nell’essere. E, se a loro pare essere felici, sono, non però sanza ammistione sempre di felicitá, cure amorose. E per questo io giudico che la dolcezza degli amanti sia rara, e qualche volta assai grande, ma le infelicitá loro essere quasi continue, ed il dolore, sanza comparazione, maggiore; conciosiacosaché il dolore è spesso sanza dolcezza, e la dolcezza non mai sanza dolore. E cosí conviene che sia, dove è infinita passione e insaziabile appetito.
Sí dolcemente la mia donna chiama |
Perché nel precedente sonetto abbiamo fatto qualche menzione de’ miracoli d’amore, vorrei avere tale facultá, che gli potessi fare credibili appresso di qualunque, come sono certi appresso alli gentilissimi ingegni delli innamorati. E veramente come si può imputare a gran difetto il creder leggermente quelle cose che prima facie paiono impossibili, cosí non mi pare da approvare la oppinione di quelli che non prestono fede ad alcuna cosa, quando ecceda in qualche parte o l’uso comune o l’ordine naturale. Perché spesso si è veduto nascere grandissimi inconvenienti presupponendo una cosa falsa, per parere quasi impossibile, e nondimeno pure essere vera. Ed, oltre questo, come il credere presto pare officio d’uomo leggieri, cosí assolutamente nel non credere dimostra grande presunzione; perché chi dice «questa cosa non può essere» presumme di sapere tutte le cose che possono essere, e quanto sia la potenza della natura. E nondimeno si vede molti effetti naturali diversi e quasi incredibili, se non fussino notissimi quasi a ogni persona. E chi crederebbe che d’uno piccolo acino d’uva, nel quale non si vede colore, odore o sapore certo, si generassi la vite con tante degne qualitá? Questo medesimo degli altri semi, che tutti servano diversamente le proprie spezie, né paiono mirabile queste cose perché si veggono a ogni ora. Ed a me pare che sia maggiore maraviglia quelle che ad ogni ora si veggono degli effetti naturali, che quelle di alcune altre cose, le quali, per essere molto rare e lontane dalla cognizione nostra, paiono mirabile. Come sono alcune spezie d’animali, che per essere ignote a noi, giudichiamo quasi impossibile che possino essere; e forse in quelli paesi che le producono, sono cosí comune come a noi cani, cavagli ed altri simili animali. Leggonsi quelle sei maraviglie, che mette il poeta nostro Petrarca in quella canzone che comincia: «Qual piú diversa e nuova», appresso gli autori antichi e autentici. E chi considera bene e quelle e l’altre cose che per mirabili si predicono, vederá, se si può cosí dire, molto maggiore fatica della natura in queste cose che ad ogni ora abbiamo innanzi agli occhi, che in quelle le quali ammiriamo piú tosto per essere rare che impossibile. Debbonsi adunque gli amorosi miracoli, se non al tutto credere che sieno, almanco credere che sieno possibili. Ed a me è paruto dover fare questa preparazione nella esposizione del presente sonetto, avendo a narrare una cosa che forse pare impossibile e nondimeno è vera; perché il sonetto non intende che provare come il desiderio della morte è cagione immediate della vita. E, per venire allo effetto, bisogna intendere che la mia gentilissima donna aveva per uno suo costume spesso in bocca la morte, e mostrava nelle parole sue bramarla. Credo, conoscendosi tanto gentile, che gli pareva questa vita noiosa, né fussi degna di sí bella cosa; ed, essendo io suto presente qualche volta quando lei dolcissimamente chiamava la morte, mi veniva tanta amaritudine e dolore, quanto darebbe a ciascuno il dubbio della privazione d’ogni suo bene. Perché mi pareva che lei la chiamassi sí dolcemente e con parole tanto efficaci, che la morte non si gli potesse negare, aggravando piú il dolore mio la cagione di questo suo desiderio, la quale era amore, chiamando lei morte negli amorosi suoi sospiri. E per questo bisognava che fussi cagione di questo desiderio o una grande amaritudine e passione o una somma dolcezza. Perché ambodue questi effetti causano negli uomini simili desidèri: perché la morte si brama o per uscire di doglia o perché non sopravenga amaritudine che contamini una somma dolcezza e felicitá, seguitando quella sentenzia: «Tunc pulchrum esse mori». Quale adunque fussi di queste cagione, a me dava grandissima afflizione, massime per quello di che io potessi essere suto imputato, poi che Amore era cagione di questo desiderio. E, combattuto da questa passione, infine mi risolvevo a uno unico rimedio, di accompagnare ancora io la donna mia in questo durissimo desiderio della morte; e però s’accendeva tanto in me questo desiderio, che cominciava a parermi dolce in modo che addolciva tutte l’altre mie passioni. E, perché naturalmente si appetisce e si séguita quello che piace piú, il cuore mio abbandonò tutti gli altri pensieri e pose da parte ogni altro desiderio e cura, per seguire questo dolcissimo e gentile desio della morte. E, benché tutti i pensieri d’una cosa, essendo intensi e veementi, faccino posporre comunemente tutte l’altre cure, pur quello della morte fa molto meglio questo effetto: perché ogni altro pensiero mette da parte gli altri pensieri minori, non per sempre, ma per qualche tempo, perché vivendo possono tornare, anzi è necessario che tornino, e almeno quegli che induce la necessitá della vita; ma il pensiero della morte debbe alienare la mente da ogni altra cosa, perché dopo la morte non v’è che pensare quanto per il corpo e per il mondo. Per questo si dice che ogni altro desiderio e passione, e tutti i martíri ed affanni che si sentono, erono spenti nel cuore sopravenendo questo dolce desiderio della morte; ed essendo tutte queste passioni, e restando solo il dolce pensiero della morte, la vita ne pigliava vigore e respirava alquanto: che cosí necessariamente conveniva che fussi, essendo spenti gl’inimici suoi e restando in lei solo quello dolcissimo desiderio, cioè uno desiderio che gli piaceva e, piacendogli, dava forza all’anima, e contra a sua voglia prolungava la vita: non contra a sua voglia, quasi contro alla sua naturale voglia, ma contro al desiderio della morte. E, benché questo gli dovessi arrecare qualche molestia, sendo opposito alla dolcezza di quello desiderio, pure, vivendo madonna, come faremo intendere, e mantenendosi viva, per questa medesima cagione non gli dava molestia alcuna, anzi maggiore contento, perché il desiderio vero del mio cuore era la vita della donna mia. Provasi adunque che ’l desiderio della morte, che chiamava spesso la donna mia, si conservava in me la vita. Questo medesimo desiderio suo conservava ancora la vita in lei, conciosiacosaché il desiderio faceva che lei colle dolcissime sue parole chiamasse la morte, la quale, sentendosi chiamare, non chiudeva per questo però i begli occhi della donna mia, ma per pietá di lei gli prolungava la vita; e cosí ed in lei ed in me si conservava la vita. E questa conservazione era causata da uno desiderio contrario alla vita, cioè della morte, il quale escludeva la morte; cioè, ne’ modi che abbiamo detto, faceva scostare la morte. Questi miracoli e molti altri abbiamo veduti d’Amore, e crediamo appresso i gentili cuori sará assai credibile, il testimonio de’ quali ancora appresso degli altri doverrebbe avere fede.
Allor ch’io penso di dolermi alquanto |
Ero soletto e sanza alcuna compagnia se non delli miei amorosi pensieri, li quali, molestandomi come il piú delle volte sogliono fare, cominciai meco medesimo a fare pensiero di volerne fare doglienza con Amore, come cagione de’ miei pianti e sospiri e dell’altre amorose pene. E, volendo ad una ad una narrargliene, mi era necessario cominciare da quella parte che e prima e piú era offesa, la quale era il cuore. Volendo adunque narrare l’afflizione del cuore, pareva necessario di guardare nel cuore, e guardando considerare per potere narrare lo stato suo. E se bene nel cuore erano dipinte molte passioni e tormenti, pure maggiore impressione aveva fatto in esso la imagine del viso della donna mia, il quale, essendo bellissimo, e sí come era il vero, molto lucente e chiaro e per la bellezza e per la luce, tirò gli occhi miei e gli sforzò a rimirare quella imagine, levando loro la visione delle pene del cuore; parendo molto conveniente che una cosa bella e lucente elevi la visione dell’altre cose, com’è natura della eccessiva luce, e tragga gli occhi a sé come sempre suol fare la bellezza. Mirando adunque gli occhi miei questa imagine, in luogo delle pene, parve loro molto bella e dolce, cioè piena di pietá. E però, se prima era intenzione degli occhi vedere l’afflizione del cuore, cosa molesta e deforme, per dolersi, veggendo il viso della donna mia bello e pietoso, e de directo opposito a quelle afflizioni, ne doveva nascere ancora uno effetto tutto contrario al dolersi. Per la quale cagione il primo pensiero di dolersi vergognoso morí ed in tutto si spense, ed un altro ne nacque contrario, di ringraziare ed onorare la donna mia, la quale era sí bella e tanto gentile, che, solamente essendomi concesso di vedere sí bella cosa, quando mai non vi fussi suto pietá alcuna, non potevo aver cagione a dolermi, ma piú tosto di ringraziarla. Mosse il pensiero di dolersi la passione, che accieca la mente ed obumbra l’intelletto d’una tenebrosa ignoranza; ma, sopravenendo la luce della veritá, e fugate queste tenebre, non sanza vergogna si rimira l’errore passato, e però muore vergognoso il primo pensiero, e nel suo luogo succede l’altro pensiero piú vero e piú laudabile, di ringraziare la donna mia e di esaltarla e laudarla; le quali laudi, sendo portate alla imagin sua che è nel mio cuore, la fanno parere assai piú bella e piú piatosa; ché cosí pare al pensier mio, che non vede alcuna cosa se non questa imagine. E, perché disopra abbiamo detto gli occhi veder il cuore e le cose che sono in lui, le quali sono invisibili, al presente si dice che il pensiero, il quale non ha potenza di vedere, mira la imagine della donna mia. E, per solver l’una e l’altra oscuritá, bisogna intender dove si dice «occhi e vedere», «pensieri ed imaginare»; perché gli occhi, gli orecchi e la lingua ed ogni senso che s’attribuisce al cuore, non sono altro che pensieri, per mezzo de’ quali il cuore, cioè la mente nostra, imagina ed opera, come il corpo per mezzo de’ sensi. E però tutte le altre operazioni corporali, come è parlare e sentire, che fa quella imagine, si debbono referire a imaginazioni. E, cosí intendendo, si verifica quello abbiamo detto, che, sentendoci quella imagine laudare, si fa piú bella e piatosa. Perché quanto la imaginazione è piú forte, piú gli pare vedere quello che allora imagina, ed imaginando la donna mia piatosa e bella, pare necessario che quanto piú la imagina, cosí piú diventi bella e piatosa nel pensiero. Da questa tale imaginazione di tanta bellezza e dolcezza nasce un desiderio ardentissimo e nuovo nella mente di veder la donna mia viva e vera. Né dice «disio nuovo», perché questo sia nel cuore mio il primo desiderio che avessi mai di vedere la donna mia, ma dice nuovo a quegli altri pensieri, quasi rinato allora di nuovo. Questo nuovo disire adunque mi muove a vedere la donna mia viva e vera, perché il parlare, udire e spirare sono ufficio d’animale vivo e non di cosa che sia imaginata. Con questo desiderio adunque torno a vedere li lucenti e dolci raggi degli occhi della donna mia; e, dicendo «torno», mostro il desiderio non essere nuovo, cioè il primo che avessi mai di vederla; perché tornare a vederla, presuppone altre volte essere ito per vederla. E, dicendo «raggi e lucenti e dolci», si mostra la bellezza e pietá che prima era in quella imagine, la quale per similitudine del vero mi mosse a vedere quella bellissima cosa, della quale ella era un dolcissimo esemplo. Notasi nel presente sonetto tre pensieri e uno effetto. Prima il pensiero di dolersi, il quale vergognoso morendo, nasce il secondo di ringraziare e laudare la donna mia, imaginandola bella e pietosa. Quinci nasce il terzo dello andare a veder la vera, per similitudine della imaginata. Dopo questi tre pensieri seguita l’effetto di mettere ad esecuzione quello che propose l’ultimo pensiero.
Madonna, io veggo ne’ vostri occhi belli |
Di tutti i sensi nostri sanza alcuna controversia il piú degno e reputato è il vedere; e questo non è solamente giudicio degli uomini, ma ancora della natura. Conciosiacosaché ha posti gli occhi e piú alti che alcuno altro senso e piú vicini al luogo dove sta l’intelletto. Conoscesi manifestamente gli occhi essere piú necessari alla vita umana che alcuno degli altri sensi, perché pare che per la notizia delle cose visibili si proceda agli altri sensi molto piú facilmente. Sono cagione ancora gli occhi di farci conoscere la piú bella cosa che possono conoscere i sensi, cioè la luce; perché né odore, né sapore, né alcuna voce o altra cosa sensitiva si può comparare alla luce. Hanno ancora gli occhi questo privilegio ed eccellenzia negli altri sensi, che il cuore per alcuno altro mezzo sensitivo non si manifesta, ma tiene a tutti gli altri quasi secreti i suoi concetti, e solo per gli occhi li manifesta; perché di letizia e dolore, ira ed amore, e di tutte l’altre passioni del core gli occhi bene spesso dánno assai chiaro indizio. È tanto vicino questo senso del vedere alle qualitá dell’animo nostro, che, secondo Plinio, chi bacia gli occhi ad alcuna persona, gli pare quasi baciare l’animo suo. E, benché questo avvenga in tutte le passioni, pure molto meglio si conosce negli effetti amorosi, nelli quali gli occhi hanno grandissima parte. Perché il principio donde esce e donde entra Amore sono gli occhi, i quali per loro medesimi sono la piú bella parte che abbi il corpo umano, ed hanno per obietto la bellezza. E però, essendo la piú bella cosa che abbi una donna bella, credo il piú delle volte siano la prima cosa che cominci dagli occhi dello amante a essere amata. E, se adunque Amore dagli occhi della cosa amata e per li occhi dello amante entra nel cuore (che si verifica che gli occhi active e passive sono principio d’amore), facendo adunque Amore la prima impressione negli occhi, ed aprendo per loro la strada al cuore, molto piú facilmente comunica il cuore le sue passioni amorose agli occhi che le altre. E Amore ha dato questo rimedio all’afflizione degli amanti: che, essendo tolto di mezzo il parlare ed ogni altra via d’intendere il cuore l’uno dell’altro, per gli occhi spesso ed amorosi sguardi s’intendono.
Era la donna mia, come abbiamo detto, sopra tutte le altre bellissima, e però si può pensare quanto fussino belli gli occhi suoi, che, secondo abbiamo detto, vincono qualunche corporale bellezza. E, perché l’appetito nostro sempre cerca piú quello che gli pare migliore, ancora che tutta la donna mia da me fusse amata, pure gli occhi miei erono tirati a guardare gli occhi suoi come maggiore bellezza. Guardavo adunque fiso i suo’ begli occhi, e pareami vedere in essi uno desiderio amoroso pieno di pietá e dolcezza, che cosí per mezzo loro mi voleva fare intendere il suo gentilissimo cuore. E questo dolcissimo desiderio Amore non lo mostrava se non agli occhi miei, nascondendolo dagli altri, credo perché gli altri cosí fiso non gli miravano; né era tanto espedita la via tra la donna mia e loro da Amore per mezzo degli occhi, come tra ’l cuore suo e ’l cuore mio, secondo che disopra abbiamo detto. Ed, oltre a questo, essendo Amore quello che mi mostrava questo desio della donna mia, che era di mezzo tra lei e me, gli altri non potevano vedere, perché tra loro e lei non era Amore che lo mostrassi. Parevami quello gentile desiderio parlassi al mio cuore e gli promettessi, dopo tanti affanni ed amorose persecuzioni, pace e riposo, presupponendo per la futura pace la passata guerra, e per riposo e quiete le fatiche ed affanni amorosi; perché tutti questi effetti dolcissimi mostravano quegli occhi. E, dubitando la donna mia che per li passati esempli io non prestassi forse interamente fede alle parole che gli occhi suoi mi dicevano, accompagnò questo pietoso desiderio d’uno amoroso sospiro; il quale, sendo mandato nunzio al mio cuore, uscí fuor del bianco petto della donna mia, testimone della pietá ch’era in essa, la quale pietá aveva messo nel cuore quello sospiro amoroso. Ed, avendo detto la cagione naturale de’ sospiri nella sposizione di quello sonetto che comincia: «Se ’l fortunato cor», ecc., non pare necessario qui dirne altro; ma bisogna intender che questo sospiro nacque nel cuore, il quale contrasse a sé per mezzo dell’alito l’aere per refrigerarsi, e, prima che esalassi e spirassi fuore, formò nella bocca della donna mia certe parole dolcissime ed amorose, per modo che e le parole e il sospiro parea che ad un tempo di quella bella bocca uscissi: perché, parendo alla donna mia non fussi forse sufficiente a testificazione della sua pietá ed amore né il segno degli occhi, né la testimonianza de’ sospiri, v’aggiunse quella delle parole, molto piú efficace testimonio che li due precedenti; acciò che il cuor mio, e per la efficacia del testimonio e pel numero sufficiente, essendo tre, avessi maggiore certezza. Furono le parole della donna mia tanto pie e belle e di tanto dolcissimo effetto, che Amore ne restò stupefatto. E per questo si debbe pensare quello intervenisse a me. Né si debbe maravigliare alcuno che crede questo, se non sono per me narrate formalmente le parole, perché, vinto dal medesimo stupore che vinse Amore, non solamente le parole, ma quasi dimenticai me stesso. È, a mio giudicio, il processo del presente sonetto assai naturale e secondo il vero, e perché chi ama, prima ne fa qualche segno cogli occhi, di poi di necessitá nasce il sospiro, perché il piacere del veder la cosa amata e quella ferma intenzione di vedere genera sospiro per le ragioni dette nel sonetto preallegato, e mostra piú veemenzia d’amore il sospirare che il guardare. Seguitano il sospiro le parole, tanto piú efficaci, quanto piú si riducono alla certezza della cosa. Conciosiaché gli sguardi e sospiri potrebbono essere per altra cagione che non paiono, ma le parole mostrano piú chiara la veritá e sono spinte da maggior forza d’amore. E cosí fa la natura di grado in grado gli effetti suoi.
Quando la bella imagine Amor pose |
Avendo nel precedente sonetto mostro quanto sieno eccellenti gli occhi tra gli altri sensi, e quanta degnitá ha dato loro Amore, volendo che sieno la porta onde egli entri e facendogli spesso ministri suoi e nunzi de’ pensieri del cuore, bisogna confessare che grandissima dolcezza traggono gli amanti degli occhi. E, se questo è vero, a contrario è quasi insopportabile tormento in chi ama la privazione d’essi, anzi sarebbe al tutto insopportabile, se Amore non vi avessi posto un solo rimedio, di sovvenire in questo caso il cuore mediante i pensieri; il quale rimedio però non è fatto altrimenti che l’altre amorose sovvenzioni, le quali sono piú presto fomento e legno all’amoroso fuoco che refrigerio al cuore. Questa sentenzia mostra il sonetto presente, nel quale in principio si denota l’amorosa providenzia, perché, essendo antiveduta da Amore, come le altre pene degli amanti, ancora questa della privazione degli occhi amati, ha pregato soccorso de’ pensieri contro questo male, avendo messo la imagine della cosa amata drento al cuore, che la rappresenta a’ pensieri, quando ne sono privati gli occhi. Pose adunque Amore nel mio cuore, secondo la sua usanza, la bella imagine della donna mia, grazia o virtú che fusse nel cuor mio, cioè per una particulare grazia d’amore verso di lui, che lo fe’ degno di sí degna imagine, o per virtú, essendo giá fatto gentile. Quando venne questa imagine nel cuore, spense e scacciò da lui tutte l’altre impressioni che per qualunque desire fussino nel cuor mio, e solo vi rimanesse la bella imagine della mia donna. In quel giorno che io composi il presente sonetto, avevo con assai passi e tempo cerco di vedere gli occhi della donna mia, e certamente invano, perché mai ebbi grazia di vederli quel dí. Cercavo adunque, con le mie lacrimose luci, le luci che avevo perdute, cioè gli occhi della donna mia, i quali non potevo trovare; di che certamente intollerabile tormento sentivo. Ma, non sendo possibile che altrimenti fussi, ricorsi a quell’unico rimedio che mi aveva concesso Amore; e, lasciato il cercare cogli occhi la donna mia, rifuggii al cercarne col pensiero, al quale domandai la salute mia, cioè che lui almeno mi mostrassi la mia donna, perché in potenza sua era il mostrarmela, non si ascondendo ella giammai da lui, perché il pensiero la vede sempre. Furono esauditi i miei prieghi benignamente dal pensiero, e subito mi mostrò la donna mia sola, ed in mezzo del cuore non erano altri pensieri, come dicemo disopra: ma non vi potevano essere, perché, essendo il mezzo del cuore fondamento de’ pensieri, come il centro fondamento della terra e di tutto il mondo, non si poteva fondare pensiero alcuno se non nella donna mia, e tutti gli altri che avessi fatto il cuore, se pure avessi potuto, sarebbono suti come sono tutte le cose sanza fondamento. Era adunque madonna in mezzo del cuore ed intorno a lei erano tutti i desidèri miei, che per questo si verifica che né li pensieri pensavono ad altro, né ’l desiderio appetiva altre cose. E naturalmente il luogo e fonte de’ desidèri è il cuore per la concupiscibile, che è virtú e potenzia del cuore. Soccorse Amore col pensiero al difetto degli occhi, né di questo avvenne altro che accumulazione di pene. Perché, come dicemo nel comento del sonetto che comincia: «Allor ch’io penso», ecc., l’imagine della cosa amata multiplica il desiderio della vera; come avvenne ancora a quel tempo, perché del vedere la donna mia drento al mio cuore s’accese uno nuovo e maggiore desiderio della donna mia. E, perché pare impossibile che a tanto fuoco il mio cuore potesse resistere, che ardendo non si consumasse e divenisse cenere, si pone, per fare credibile queste maraviglie, il rimedio che non lasciava consumare il cuore, cioè la forza de’ sospiri, i quali, come abbiamo detto, naturalmente sono dal cuore generati per suo refrigerio ed esalazione contro alla suffocazione, che l’offende per il concorso degli spiriti vitali.
Piú dolce sonno o placida quiete Aura suave, quale or togli, or rendi |
Se io potessi ad uno ad uno gli atti ed amorosi accidenti della donna mia proseguire, certamente molto maggiore ornamento ne riceverebbe questa nostra amorosa istoria e molto piú laude la donna mia. Perché veramente ogni atto, ancora che minimo, della vita sua è suto degno d’essere celebrato da me, ed, avendone io gran parte pretermesso, ne do cagione solamente alla abbondanzia e copia delle cose: perché a me è accaduto come a uno, il quale, sendo in mezzo d’uno amenissimo prato, il quale produce diversi colori di fiori, e volendo côrre de’ piú vaghi, non sa a qual prima porre la mano; perché la qualitá della bellezza fa piú difficile la elezione, essendo l’appetito nostro tirato piú da quelle cose che piú piacciono. Non potendo io adunque côrre tutti i fiori dello eccellentissimo prato della donna mia, né proseguire tutte le laude sue, né sapendo eleggere qual prima meritassi essere da me còlta e celebrata, a caso errando con la mano, quelli primi fiori, che la sorte mi ha monstro, ho còlti, facendone piú tosto giudice la fortuna che la mia elezione. Era, come nel precedente sonetto abbiamo detto, la donna mia a sedere, come mostra averla io cercata assai cogli occhi, e solo trovatala col pensiero. Trovandosi ella adunque in una villa non molto lontana dalla cittá, ma posta in luogo che non poteva vederla, mosse i passi suoi, e, montando per un monte assai alto e silvestro, pervenne in parte onde facilmente la cittá, dove io ero, poteva vedere, credo pensando poter dare qualche refrigerio o presente o futuro all’afflizione, la quale vedeva in me per l’assenzia sua. Era questo luogo salvatico, come abbiamo detto: il terreno coperto d’erbe e di fiori, il quale una vecchia quercia adombrava. Ed essendo pure la donna mia per il cammino erto e difficile alquanto affaticata, e vedendo sí bello luogo, deliberò fare degna quell’erba e que’ fiori, che fussino letto e piuma al suo gentilissimo corpo. E, da poi che alquanto, cosí giacendo, contemplò la terra e il loco dove io ero, avuti alcuni dolcissimi ed amorosi pensieri, e mossa da quella pietá dell’afflizione mia, vinta finalmente dal sonno, s’addormentò, aiutando il sonno l’ombra di quella quercia ed un’aura dolce ed estiva, la quale, movendo i rami della quercia e gli altri arbori vicini, con mormorio ancora quel dolcissimo sonno nutriva. Questo atto amoroso intendendo io, giudicai degno degli soprascritti due sonetti, delli quali il primo contiene che, poi che la natura concesse sonno agli occhi umani, piú dolce sonno o piú quieto riposo non serrò occhio mortale, né anche il sonno mai chiuse piú belli occhi che quelli della donna mia. Quello, che faceva il sonno sopra tutti gli altri dolcissimo, era l’ombra, la mollizie del luogo ove giaceva lei, la dolcezza del venticello, il mormorio degli arbori, che di necessitá da quelle nasceva, e la fatica che era proceduta; che tutte sono cose che dánno forza al sonno. Che quelli occhi fussino sí belli come abbiamo detto, non posso assegnare altre ragioni che la mia oppinione, fondata in sugli effetti che in me facevano. E se erano cosí belli, di necessitá seguiva che Amore da loro avesse gran forza. E però, stando serrati dal sonno, e celandosi quella amorosa luce al mondo, di necessitá il valore e forza d’amore ne sentiva detrimento assai, perché la vista sua gli dava e toglieva la forza, siccome avviene ad alcuna spezie di fiori, li quali si aprono venendo il sole e di poi nell’occaso si riserrano, in modo che quelle tali erbe il dí sono fiorite e la notte private dell’ornamento de’ fiori. Cosí diremo che i cuori gentili per il sole degli occhi amati si aprano a ricever le influenze amorose, le quali quando mancassino, si riserrerebbono; ed, acciò che mai non si serrino, fa la virtú d’Amore per mezzo di quelli occhi tale impressione, che possino dire giammai essere sanza sole. Amore adunque, che fa sentire la virtú sua per mezzo degli occhi, quando mancassi quella visione, perderebbe la sua virtú.
Ora, tornando al sonno, si può facilmente comprendere che, essendo tanto soave quanto abbiamo detto, alla donna mia fussi molto grato. E però, come quella che in tutte le cose era gentile sommamente, come grata, retribuí qualche gratitudine a tutte le cose che avevano avuto parte e cagione di tanta dolcezza. E però all’erba e fiori, che sanza durezza e morbidamente avevono ricevute le sue membra, e fattali cosí ornate piume e delicato letto, dette un dono gratissimo, d’essere sute tócche e premute da sí pulite membra. L’aura, che aveva mosso gli arbori e rinfrescato l’aria, similmente toccò il suo bellissimo corpo. L’ombre ancora, sopra a quel viso bellissimo e l’altre membra a loro piacere errando, erano vaganti. Restava solamente la quercia, non minima cagione di questa dolcezza, perché era suta cagione dell’ombre, le quali avevano sumministrato a quel bel sonno; ed, acciò che questa ancora sanza parte di premio non restassi, gli occhi della donna mia consecrorono ad Amore, liberandola dalle percosse e impeti de’ fulmini e tempestose saette. Perché la quercia, essendo l’arbore di Giove, piú spesso è percossa che gli altri alberi dalle sue saette; il luogo delle quali, da quel tempo in qua che soprastette a quelli belli occhi, sará piú tosto ricettaculo delle saette amorose, poiché quelli occhi grati ad Amore l’hanno consecrata.
Perché nel primo sonetto non è fatta menzione alcuna del praticello sopra il quale giaceva la donna mia, né dell’aura soavissima, due cagioni, secondo abbiamo detto, assai efficaci di quello bellissimo sonno, perché è difficile fare capace la brevitá del sonetto di molte cose, se ne fa menzione nel seguente che comincia: «Odorifera erbetta», ecc., dove si vede che con somma dolcezza il mio pensiero rimembrava tutti quegli amorosi accidenti; né sanza qualche invidia di quell’erba e fiori mi s’appresentò quell’atto, che fussi ricevuta da loro la donna mia cosí dolcemente affaticata. E però, volgendomi a quell’erba e fiori, chiamandola odorifera e ponendo la varietá de’ fiori simile alla distinzione che fanno le stelle nel cielo sereno, si dá quella proprietá quasi che può avere il prato, cioè l’odore e la bellezza. E, perché abbiamo detto che la donna mia, cosí giacendo, ebbe qualche amoroso pensiero di me, e questo era impossibile a sapere, se non perché ove è pensieri s’introduce Amore per testimone di questa occulta visione, come quello che udí parlare cautamente la donna mia di me, che, per essere degno d’entrare in sí alti e dolci pensieri, felicissimo mi potevo chiamare, perché il pensare non è altro che un tacito parlare, perché chi pensa immagina quelle cose, in se medesimo le chiama per i nomi loro, onde si può dire veramente il pensare essere uno parlare tacito. Discorre poi il pensiero mio a tutte l’altre circostanze, come fu ancora quella dell’aura o, vogliamo dire, piccolo vento, e, quasi riferendogli grazia, mostra l’effetto che faceva; perché, movendo i rami che per la interposizione loro tra ’l sole e gli occhi suoi facevono ombra, di necessitá bisogna l’ombre ancora si movessino, e però quelli occhi talora potevono vedere il sole, talora no. Ed, essendo questi occhi di tanta perfezione e bellezza che signoreggiavono Amore, come disopra abbiamo detto, gloriosa vittoria fu quella del sonno, quando vinse sí belli occhi; ed, acciò che fussi perpetua e memorabile, deveva il sonno appiccarne all’alta quercia i trofei con le spoglie degli occhi giá da lui vinti, siccome solevano gli antichi romani, i quali ebbono in consuetudine, quando vincevano qualche potente o famoso inimico, pigliare le spoglie sue e vestirne il troncone d’un albero per memoria della ricevuta vittoria. Bisogna vedere che fussino le spoglie di quelli belli occhi, per vedere di che cosa deveva vestire il sonno il troncone della quercia. Né si può interpetrare che gli occhi della donna mia fussino vestiti d’altro che di belli ed amorosi sguardi e d’una amorosa luce, che solo dagli occhi degl’innamorati suole lasciarsi vedere. Questi sguardi e luce amorose adunque dovevono certamente restare come stigmate nel tronco della quercia, e di queste spogliò il sonno la donna mia, subito che chiuse quegli occhi belli, e di queste spoglie credo sia ancora ornata quella quercia. Né Amore di questo trionfo del sonno si debbe sdegnare, se è vero quello che abbiamo detto: che gli occhi suoi signoreggiassino Amore, dandogli e togliendo forza, avendogli poi il sonno superati quegli belli occhi.
Tante vaghe bellezze ha in sé raccolto Se di grata pietá talora è involto, |
Grandissimo argumento mi pare di eccessiva potenzia, quando alcuna virtú nelle cose contrarie e diverse tra loro opera potentemente, facendo ancora qualche volta effetti quasi fuora d’uno naturale ordine dell’altre cose. E, perché questo spesse volte accade nella vita degli amanti, gli abbiamo chiamati disopra «miracoli amorosi». Che grandissima fussi la potenzia della bellezza della donna mia, intende provare il presente sonetto per li effetti diversi e straordinari che in me faceva. Perché, contemplando io la bellezza del viso suo in diversi accidenti e passioni, mi pareva che tutte le passioni, che apparivano o dimostravansi in quel bel viso, e ne divenissino piú belle e ricevissino piú forza, cioè movessino piú potentemente in altri o timore o pietá o dolore o letizia, movendo non solo potentemente, come è detto, secondo la qualitá delle passioni, ma servando sempre la bellezza e la grazia, le quali in alcune passioni, come è il timore e ’l dolore, par quasi impossibile si possino conservare, perché chi teme, di necessitá ha in odio la cagione del timore. Questo medesimo avviene a chi sente dolore, perché, potendo, fuggirebbe la cagione d’esso, e quelle cose che si fuggono non s’amano. E però grandissima potenza era quella di questa bellezza, avendo forza, movendo timore e dolore, d’essere ancora in queste tali passioni desiderata ed amata. Introduce adunque il presente sonetto quattro passioni solamente, cioè la pietá, l’ira, il dolore e la letizia, le quali dal viso della donna mia pigliano piú forza e piú bellezza. E, cominciando dalla pietá, mostra che, quando la pietá viene in quel bel viso, non trovò mai luogo o domicilio alcuno, dov’ella paressi piú veramente pietá, né dove paressi piú dolce e pia. Ed, essendo per sé la pietá bella, basta sia fatta menzione solamente della forza che piglia, presupponendo la bellezza. Venendo di poi all’ira, propriamente e’ doveva ardere d’ira e di sdegno; perché l’ira non è altro che uno accendimento della collera intorno al cuore, e gli effetti dell’ira sono comunemente simili a quelli del fuoco, che presto fa gli effetti suoi, e quelli che sono di natura collerica e calda sono piú disposti all’ira. Ardendo adunque quel bel viso d’ira, diventa piú bello e rio, cioè piú da temere, come mostra l’esemplo seguente: perché, tremando Amore nel viso suo, è segno manifesto il timore della potenza di quell’ira; ed il non si partire di quel viso, non ostante il tremore, che dimostra il timore essere grandissimo, mostra assai chiaro la bellezza essere quella che lo ritiene, perché, se questo non fusse, il timore caccerebbe Amore. Questo medesimo avviene nella mestizia e dolore della donna mia, la quale, movendo a lacrime ancora Amore, e cosí piangendo, affermando lui il viso di lei essere il regno e l’imperio suo, mostra la medesima forza e bellezza nel dolore che prima nell’ira. Nasce poi di queste premesse molto bene la conclusione del sonetto; perché, se la bellezza di quel viso ha avuto forza di parere piú bella in quelli accidenti che sogliono oscurare e diminuire la bellezza, fortificando questi tali accidenti oppositi alla bellezza, molto piú facilmente può crescer in bellezza negli accidenti che naturalmente sumministrono forza alla bellezza, tanto piú fortificando questi accidenti, come avviene nella letizia della donna mia. Era la donna mia per sé bellissima; la letizia per sé in qualunque persona è bella. Se adunque quella per sé è bella, e lo accidente ancora è bello, eccessiva bellezza era quella, quando si congiugneva insieme sí bella natura e sí bello accidente, presupposto che l’uno e l’altro pigliassi forza per tale congiunzione, come disopra abbiamo detto, dell’altre passioni, e che ancora l’accidente fussi per sé fortissimo e quasi in supremo grado, come mostra il riso, che è maggior segno di letizia che faccino gli uomini, come il pianto del dolore, il quale similmente disopra è posto per segno d’eccessivo dolore. Credendo adunque tanta bellezza e dolcezza insieme, si può dire questa bellezza essere al mondo non solamente maravigliosa, ma forse non piú veduta, e però veramente il mondo potersi chiamare cieco, e dover producere in chi la vede quello che si può chiamare vera letizia e beatitudine.
Lasso! che sent’io piú muover nel petto? |
Ancora che in molti e diversi modi la donna mia dessi assai evidenti argumenti dello amore e pietá sua verso di me, come giá in piú luoghi abbiamo monstro, nessuno piú efficace ne dette, né poteva mai dare, che quello il quale contiene il presente sonetto. Né io da lei potevo maggior dono ricevere, perché maggior dono non può essere che quando altri dá e quello che è suo e quello che è carissimo al donante, secondo Epitteto. Perciò nessuna cosa possiamo chiamare «nostra» al mondo se non la opinione, perché tutte l’altre cose o sono della fortuna o sono della natura. E che questo sia vero, si manifesta perché e la natura e la fortuna spesse volte contro alla voglia nostra ce ne privano. E però, sanza estendersi in molte cose, per esser tali conclusioni molto trite e provate, confesseremo esser nostra solamente l’opinione, com’è detto, la quale è sempre libera, né può da alcuna cosa essere forzata; ed, a mio giudicio, chi fa menzione dell’opinione, di necessitá presuppone la volontá, la quale non è altro che desiderio di quel bene che all’opinione pare bene. E per questo si può dire, se bene la opinione e volontá non sono una cosa, essere tanto simili e prossime e di necessitá l’una con l’altra congiunte, che a me non sia inconveniente parlare dell’una come dell’altra, perché queste mie non sono diffinizioni, ma piú tosto parole largamente e liberamente dette.
Se adunque solo la opinione e volontá è nostra, chi dona questa tal cosa, dona tutto quello che possiede per suo, e chi dona tutto il suo, di necessitá dona una cosa che al donante è carissima, e però non può fare maggior dono. Intendesi largamente in questi versi amorosi per la opinione e volontá nostra il cuore; e però, avendo fatto la donna mia una commutazione del suo cuore al mio, cioè tolto il mio per sé e a me donato il suo, come mostra il presente sonetto, nessuno maggior dono mi poteva dare, né fare piú evidente segno che io fussi pieno della grazia sua. E perché parrebbe, la mia, grandissima arroganza, persuadendomi questo esser vero, e facendo me medesimo autore e degno di tanto bene sanza il testimonio della donna mia, mi accade dire il vero di questo amoroso processo, e per fuggire la colpa della arroganzia detta e per il contento che mi reca al cuore la dolcissima memoria di quell’atto amoroso. Ero in parte che assai vicino mi trovavo al viso della donna mia, e, riguardandola fisa, per la dolcezza che porgevano gli occhi suoi, quasi attrito ed indebilito, sostenevo col mio destro braccio la testa. Lei pensando di darmi qualche conforto, con un gentile modo appressandosi piú a me, pose la candida sua mano sopra la sinistra parte del petto mio, e, tenendola per alquanto spazio ferma, io le domandai assai timidamente quello che intendessi fare. Ella, con una onesta baldanza, rispose che stava a udire muovere il cuore suo. Ed io a lei: — Veramente e questa ed ogni altra cosa che vive in me è vostra. — Lei soggiugnendo disse: — Io dico veramente questo essere il cuore che giá viveva in me, che ora in te vive, e quello, che prima era tuo, conservo io nel mio petto. — Quello che mi paressino sí dolci parole e che effetto facessino in me, lascio questo giudicare a coloro a’ quali è nota la fiamma e forza amorosa, perché, come dice Dante in una sua canzona:
Non è di cor villan sí alto ingegno, |
Partendomi di poi da lei, e considerando qual fussi piú o la gentilezza di quel parlare, o l’amore che per questo dimostrava, diliberai fare il presente sonetto, e li duoi seguenti nella medesima invenzione, ancora che concludino diversamente, se bene quell’amoroso parlare e quell’atto gentilissimo fussino degni d’altra lingua che la mia per farne memoria. Fingo adunque, ancorché la istoria sia sopradetta, io medesimo sentir nuovo moto nel petto mio, e con qualche ammirazione domando me medesimo della cagione; massime perché, essendo fuggito il mio core da me, come disopra in piú luoghi abbiamo detto, non poteva essere la cagione di quel moto dal mio core. Il moto adunque e gli spessi miei sospiri, che naturalmente, sono ordinati per refrigerio del core, mostravano pure che un core dovessi essere quello che nel mio petto si moveva. Mostravano ancora quel medesimo gli alti e dolci pensieri che concepeva la mente mia, li quali dovevano essere similmente mossi dal core, non come loco di pensieri, ma come cagione, perché, essendo il core quel che desidera, quelli pensieri erano dal core, perché non erano che un desiderio della donna mia. Ed essendo i pensieri alti e dolci, cioè piú degni che a me non si convenia, cominciai in me medesimo a credere che piú degna cagione che non era il mio core gli movessi. In mezzo a questi miei dubbi soccorse Amore, il quale, essendo stato quello che aveva fatto ardito il mio core a fuggirsi, come mostra quel sonetto che comincia: «Lasso a me, quand’io son lá dove sia», ecc., sapeva veramente il mio core essere fuggito. E però con la sua bocca mi manifestò questa veritá, che, interpetrando secondo il vero, come abbiamo detto, Amore, fa la donna mia, che con la bocca sua mi manifestò questo amoroso miracolo; il quale fu questo: che quando Amore prima fece la via agli occhi della donna mia, per la quale entrorono al core, allora quella gentilissima mano entrò drieto agli occhi nel petto e ne trasse il cor mio, come mostra il sonetto che comincia: «Candida, bella e delicata mano», ed in luogo del mio core pose quello della donna mia; e, perché questo pare cosa mirabile ed inaudita, soggiunse Amore questa esser opera maravigliosa della potenzia sua. E, considerando veramente, Amore non è altro che una trasformazione dello amante nella cosa amata; e, quando è reciproco, di necessitá ne nasce la medesima trasformazione in quel che prima ama, che diventa poi amato, per modo che maravigliosamente vivono gli amanti l’uno nell’altro, ché altro non vuole inferire questa commutazione di cori.
Quel cor gentil, che Amor mi diede in pegno |
Sogliono quelle cose, che per la eccellenzia e degnitá loro eccedono i meriti di chi le riceve, parere ancora poco durabili, perché ogni eccesso è di questa natura. E però si vede talora quelli temere piú, che sono da infimo grado venuti in grandi condizioni. Oltra questo, secondo il corso delle cose umane, quelli che sono in maggior felicitá constituti debbono piú che gli altri temere, essendo la felicitá umana il piú delle volte brieve e poco stabile. Queste condizioni erono in me, per quanto mostra il precedente comento, per ora essendo il mio petto fatto recettaculo del core della donna mia, ed il cor mio altero e troppo nobile essendo ito ad abitare nel candido petto di quella, e’ mi pareva cosa molto sopra li meriti miei, e mi pareva tanto maggiore per essere di umile loco in un tratto esaltato a tanto bene, e felicissimo sopra ogni altro per questo mi riputavo. Dovevo adunque per tutte queste cagioni temere e parermi quasi impossibile conservarmi lungo tempo in questa felicitá. Ed ancora che la costanzia e fede della donna mia non mi dessi cagione alcuna di dubitare, mi pareva ad ogni ora il core della donna mia, il quale in me viveva, perché Amore per pegno del mio me lo aveva dato, da me si volessi partire e lasciare di sé solo il mio petto. Facevami questo dubbio pensare di richiamare il mio core a me, pregandolo che tornassi, ma, essendo lui eletto a maggior bene, cioè per istare nel candido petto della mia donna, era fatto sí degno ed in tal modo insuperbito, che aveva in dispetto il petto mio, dove prima soleva stare, né tornare a me voleva. Io, credendo che di questo fussi cagione, perché lui avessi opinione di potere starsi nel petto della donna mia, proposi al cor mio, accioché tornassi, che, quando il core della donna mia non degnassi di stare piú nel mio petto, il petto suo similmente non degnerebbe di ricettare piú il mio core; e di questo poteva nascere che il cor mio a un tempo per elezione sarebbe privato del petto mio, e per necessitá di quello della donna mia, quando da lei fussi cacciato. Risponde il core a questo dubbio, che, quando bene fussi cacciato da lei, stará in luogo donde non potrá essere cacciato, cioè nelli occhi della donna mia; perché Amore e lei fanno che quelli occhi sieno comuni a ciascuno, essendo in quelli occhi non sospiri, non parole, non altro segno che proceda dal core, ma gli sguardi solamente della donna mia, i quali spesso ne diranno novelle a me del cor mio, perché spesso da me saranno veduti gli occhi suoi. È necessario intendere il naturale processo di questo sonetto, col quale queste amorose finzioni debbono quadrare. Nasce Amore allo amante e va nella cosa amata, e cosí prima si fugge il core dello amante alla cosa amata. Nasce di poi Amore reciprocamente nella cosa amata ed allora si fa la commutazione che abbiamo detto de’ cori. Nasce di poi la gelosia, vera miseria delli amanti, perché è tormento immortale; ed allora nasce il dubbio che il core dell’amata non si torni a lei, e di questo un pensiero di ritrarre l’amor suo dalla cosa amata, e questo è revocare il cor suo a sé. Ma, perché il vivace amore cresce nelli affanni, non può impetrare lo amante di ritrarre l’amor suo, ma, necessario, li bisogna continuare in esso. E, benché fra se stesso assai certo si giudichi non potere aver alcuna dolcezza, anzi affanni e tribulazioni, non sendo amato dalla cosa amata, né essendo mai libero da gelosia, si riduce infine per necessitá a prendere quello che piú facilmente può avere dalla cosa amata; e, non potendo aver il cor suo, non si parte però il core dall’amata, ma fermasi nelli occhi dell’amata, cioè gode le esteriori bellezze e con esse si conforma, poiché del core, cioè amore dell’amata, non può disporre. Ed allora gli sguardi delli occhi amati fanno segno dell’amore che è in lei; perché e la pietá e l’amore, e cosí lo sdegno e l’ira qualche volta per segno delli occhi si comprendono. E di questo si ha spesso novelle; perché la visione dell’amata male si può celare dalli occhi o diventare invisibile, e lo amore tanto piú muove ed incita l’amante a vedere spesso l’amata, quanto piú mancano l’altre cose che solevano consolar la mente. Tutti questi effetti vorrei fussino meglio espressi nel sonetto, per levare ogni difficultá a quelli intelletti che faranno degni i versi miei della loro cognizione.
— Amorosi sospiri, i quali uscite |
Truovonsi scritte due sentenzie contrarie, e nondimeno spesso verificate nelle umane azioni. Perché si dice i miseri facilmente credere quello che desiderano, e, contro a questo, che «a gran speranza uom misero non crede». Io penso che la diversitá delle opinioni nasca piú presto dalla natura di quelli che sperano e desiderano alcuna cosa che dalla ragione, presupposto che l’una o l’altra opinione abbi cagioni equali, che non inclinino per sé piú ad una parte che all’altra. E però credo che quelli uomini, che di natura sono malinconici, sieno di manco speranza che gli altri; e tanto piú quanto nella vita loro hanno avuto la fortuna cosí avversa, che poche cose hanno conseguite secondo il desiderio loro. Abbiamo nel principio detto ogni forte amore procedere da forte imaginazione, e questi tali amanti di natura essere malinconici. Io confesso essere di quelli che con grandissima fervenzia ho amato, e però come amante ragionevolmente dovevo dubitare piú che sperare; aggiunto a questo che in tutta la vita mia, avvenga che piú onore e grado abbi conseguito che a me non si convenia, pure rari piaceri e poche altre cose secondo il desiderio mio ho vedute; dico di quelle cose che per refrigerio delle pubbliche e private fatiche e pericoli qualche volta ammette l’animo nostro, ancora che contentissimo viva e che molto appaghi della mia sorte. Dovevo adunque, per le ragioni nel precedente comento scritte e per le presenti, ragionevolmente dubitare. Ed essendo una volta nel cor mio nato il sospetto, grandissima ed intollerabile passione, m’insegnava la natura fare ogni cosa per cacciarlo da me. E, dubitando, come molto mostra il precedente sonetto, il mio core non fussi cacciato del petto della donna mia, né sapendo bene se quivi o altrove fussi, mi parve dovere intenderne novelle da chi veniva dal luogo medesimo; e, nascendo i sospiri del proprio luogo ove sta il core loro, me ne potevano dire il vero. E però il presente sonetto, composto per dialogo, si dirizza e parla a quelli sospiri che uscivano del petto della donna, i quali immediate venivano dal cor mio, se era in quel petto. E, per tôrre confusione, è da notare che li primi quattro versi parlo io a’ sospiri sopradetti; nel secondo quadernario rispondono i sospiri a me; di poi tutto il nono verso e principio del decimo, cioè quella parola che dice: «Da voi», parlo pure io a’ sospiri, e la seguente parola dove dice: «Sí certo», rispondono i sospiri a me, e tutto il resto del sonetto parlo poi io, parte a’ sospiri e parte per narrazione. Ora, tornando al principio, è da notare che, parlando io a’ sospiri della donna mia e chiamandoli «amorosi», cioè mossi da Amore, o era o volevo che paressi qualche speranza mescolata col dubbio, come mostra ancora; perché, domandandogli io che mi dicessino novelle del mio core, quale loro nutrivano dolcemente nel petto suo, giá aveva opinione e che ’l mio core vi fussi e che fussi ben trattato da lei. E veramente è detto che i suoi sospiri nutrivano il cor mio, perché lui stava in quel petto dove era ancora Amore, sanza il quale il mio core non vi poteva stare. E però la cagione che moveva i sospiri veramente nutriva dolcemente il mio core e lo conservava in quel petto, perché i sospiri erano mossi da Amore. Rispondono i sospiri il mio core starsi lieto, quieto e pieno di umiltá e di dolcezza, ed esser cagione di molto dolci ed amorosi pensieri nella donna mia, co’ quali pensieri e con Amore parla spesse volte molti alti misteri amorosi e cose molto gentili. E per questo si mostra non solo il mio core era in quel petto, ma giá vi abitava come familiare di esso e domestico, poiché intendeva tutti i pensieri della donna sua, i quali li altri non possono intendere, cioè quelli che da Amore non sono fatti degni e gentili, come era il cor mio. Fu tanto maggiore la dolcezza che per questa desiderata novella mi venne, quanto era suta maggiore la dubitazione, come sempre avviene di qualunque sperata allegrezza. E, quasi non credendo che possibile fussi quanto avevono riferito quelli amorosi sospiri, di nuovo gli domando se è vera la loro relazione. Loro risposono in confermazione una brevissima risposta, cioè: «Sí certo»: né potevano piú lungamente rispondere, come mostra il seguente del sonetto, perché, facendo io loro una nuova interrogazione, non bastò lo spirito a que’ sospiri in modo che potessino piú rispondere. E qui è da notare che tutto quello che parlano i sospiri predetti in questo sonetto, sono tante parole, quante le potrebbe dire naturalmente uno comodamente con uno spirito, cioè senza riavere l’alito; e però, finita quella forza che portava seco lo spirito d’un sospiro, ragionevolmente piú parole non doveva dire. E, se bene io gli chiamo «sospiri» in plurale, cioè piú d’uno, bisogna imaginare che i sospiri della donna mia fussino piú, ma che uno solo contenessi la risposta. E natura di chi ha conseguito qualche gran bene fare ogni cosa per conservarlo e farlo diuturno: e però, avendo io quello che desideravo, sentito dello stato del cor mio, desideravo ancora intendere quanto dovessi essere durabile e diuturna questa sua tale beatitudine; e però domandai li spiriti quanto fussi per stare il cor mio in quel petto. Ed essendo giá, come abbiamo detto, mancato quello spirito, e li sospiri giá resoluti in vento, non poterono rispondere. Amore allora, che, secondo che disopra abbiamo detto, era in quel luogo donde venivono li sospiri, in supplemento loro risponde, giurando sopra il petto suo che ’l mio core stará sempre con la donna mia, né giamai tornerá a me, assicurandomi col giuramento come da principio aveva assicurato il cor mio, quando prima partí da me, come mostra il sonetto che comincia: «Lasso a me, quando io son lá dove sia».
Ove madonna volge gli occhi belli, |
Era del mese d’aprile, nel quale, secondo la commune consuetudine della cittá nostra, li uomini volentieri insieme con la loro famiglia nelle dilettevole ville a loro consolazione si stanno, perché in quel tempo l’anno è tanto piú bello, quanto è la prima iuventú piú bella che tutte l’altre etá delli uomini. Ed oltre a questo la cittá nostra ha vicini a sé molti e delicati e piacevoli luoghi, i quali oltre alla naturale consuetudine allettano qualche volta a lasciare le civili e private cure e fruire alquanto di rusticano ozio. In questo tempo adunque accadde alla donna mia andare, come molte altre, in una sua dilettevole villa, ove stette alquanti dí, privandomi della sua desiderata visione. Nel qual tempo uno amicissimo, e di tanto mio amore verso di lei conscio, mi disse: — Ora si vorrebbe essere nella tal villa, a vedere la tua bella donna, perché ora cantano gli augelli, ora si rinnovano i prati d’erbe e di fiori, ora si rivestono gli arbori di frondi; le ninfe, li uomini e tutti li animali sentono al presente piú le forze amorose: e però ora sarebbe tempo che tra tanti naturali ornamenti vedessi la tua carissima donna. — Al quale io risposi che il desiderio mio di vederla né cresceva né poteva per tempo alcuno diminuire, e che io credevo, ancora che tutto il mondo in questo tempo fussi bellissimo e ornato piú che in alcuno altro, quel paese quale era intorno alla donna mia doveva esser piú bello che li altri; perché dove era lei non bisognava né sole, né stagione novella, né altra virtú che la sua a fare germinare la terra, fiorire ed empiersi di fronde li arbori, cantare li uccelli, e li altri effetti che suole far primavera. Finí il nostro parlare in simili parole. E partito dal predetto amico, tutto pieno di quelli pensieri, composi il presente sonetto, nel quale mi sforzai esprimere li effetti della virtú della donna mia, li quali operava in quelli salvatichi luoghi, dove in quel tempo si trovava; mostrando prima che li occhi suoi avevono la virtú del sole, perché dove ella li volgea faceva producere alla terra diversi colori di novelli fiori, chiamandola la bella Flora in questa parte che faceva nascere i fiori, cioè la dea de’ fiori. Faceva ancora cantare amorosamente li augelli innamorati del canto suo, quando lei sentivano dolcissimamente cantare; rivestiva delle loro frondi i secchi rami di quelli arbori, che la vernata perdono le foglie, quando dolcemente parlava. E qui è da notare che nel cantare e nel parlare della donna mia sono comprese tre parti, che, secondo Platone, contiene la musica, le quali sono queste: il parlare, armonia e ritmo, che credo sia detta quella che volgarmente chiamiamo «rima», perché «ritmo» non è altro che un parlar terminato da certa misura. Come sono li versi e rime vulgari, chiamasi il parlar musico, ancora che non abbi piedi certi, quando è composto in modo che diletti li orecchi, come si vede in quelli che «eloquenti» sono chiamati. L’armonia è una consonanzia di voci umane, o veramente di suoni, come è notissimo; il ritmo abbiamo detto quello sia. Vedesi la prima spezie di musica, cioè il parlare, espressa nel verso che dice: «Che senton quanto dolce ella favelli»; l’altre due, cioè l’armonia e il ritmo, si includono nel canto della donna mia, la quale conviene presupporre che cantassi dolcemente certi versi e rime amorose, delle quali lei sopra modo si dilettava. Ed io molte volte li senti’ cantare e delli altri e de’ miei con tanta dolcezza e gentilezza, che poi in bocca d’altri non mi potevano piacere. Cantando adunque lei con suavissima melodia simili versi e rime, abbiamo tutte e tre le spezie giá dette della musica; ed, essendo cosí, manca in qualche parte la maraviglia delli effetti che faceva la donna mia. Perché, essendo la musica commune a tutte le cose, che non potrebbono sanza una certa consonanzia essere, ragionevolmente per la musica si dovevono muovere, come veggiamo che, temperando due istrumenti di corde in una medesima voce, e mettendo vicino l’uno all’altro, quando l’uno si suona, le corde dell’altro ancora si muovono per lor medesime sanza essere tócche da altri, solamente per la conformitá del tuono e similitudine di voce che hanno fra loro. Ora, avendo detto disopra due potenzie della donna mia, cioè delli occhi e dell’armonia, ecc., ed avendo a dire piú maravigliosa operazione di lei, bisogna ancora assegnarne piú potente ragione; perché, ancora che sieno grandi effetti far germinare la terra, cantare li augelli e vestire li arbori di frondi, queste sono tutte cose naturali, ma mettere una impressione contraria in uno subietto è maggior cosa, come è fare che le ninfe timide e caste ammettino nella durezza del core loro qualche molle e dolce pensiero d’amore, perché l’amore è al tutto contrario alla timiditá e castitá. E però maggior ragione fa questo maggior effetto, come è il riso e il sospirare della donna mia, il quale, quando viene nella bocca sua, muove li pensieri amorosi, come abbiamo detto nelle ninfe. E che sia piú potente ragione questa, la mostra che quella cagione, a mio parere, è piú potente a muovere affetto, che mostra in sé maggior effetto il riso e il sospiro che il guardare e il cantare o parlare, come mostreremo, e maggior effetto mostra di tutti questi il toccare; e però, conclude il sonetto, che questo fa ancora maggior effetto che li altri, mostrando che dove tocca la sua candida mano, abbonda tanta grazia e virtú, che non si può né referire né imaginare. E cosí delle cose manco efficace per gradi si procede a quelle che sono efficacissime: perché, presupponendo che Amore muova tutti li atti che abbiamo detto della donna mia, cioè il vedere, il cantare, il parlare, il ridere, il sospirare ed ultimamente il toccare, manco affezione mostra il vedere che il cantare, manco il cantare che il parlare; e cosí dico di tutti gli altri insino al tatto. Perché, presupponendo essere uno amante innamorato di questa donna, credo che, se lei lo guarda amorosamente, li sará molto grato; se la sente cantare versi amorosi, li parrá ancora maggior segno d’amore; se la ode parlar seco, lo giudicherá ancora piú efficace testimonio dell’amor suo; se la vede o ridere o sospirare per amore, li parrá maggiore augumento della grazia sua; e molto maggiore di tutti, se la toccassi. E però tutte queste cose faranno maggiori o minori effetti in lui, secondo la qualitá delle cagioni. Sono adunque comprese nel presente sonetto quelle linee, cioè gradi di amore, che pone Ovidio, poeta ingeniosissimo, in quel libro ove dá gli amorosi precetti.
Il cor mio lasso in mezzo all’angoscioso — Se ben ciascun di voi è amoroso, |
Ancora che nel comento del sonetto che comincia: «Ponete modo al pianto» assai dicessimo quanta fussi misera la condizione umana, e massime l’amorosa, pure, perché non se ne può dir tanto, che non sia molto piú, accade nella presente esposizione farne qualche menzione nuova; né so qual piú efficace argumento possa meglio provare la veritá di questa cosa, che considerando quello in che l’umana felicitá consiste, parlando largamente e secondo la depravata consuetudine delli uomini, e mettendo ora da parte la vera felicitá, la quale credo in questa vita non si truovi. E però diremo quella felicitá essere maggiore, alla quale procede maggior desiderio ed ardore; ed essendo ogni appetito, quanto è maggiore, piú veemente passione, bisogna confessare il fondamento di questa felicitá esser miseria grandissima. E che lo appetito sia suo vero fondamento, è manifesto, perché, mancando l’appetito, manca ancora la volontá; come, per esemplo, chi ha gran appetito di mangiare sente con piú dilettazione piacere il sapore di quello che mangia, la qual dura quanto dura la fame e con la fame muore: anzi quello, che è piacere mentre che è desiderato, quietato tale desiderio, diventa cosa molesta e fastidiosa. E per questo si può dire questa tale felicitá consistere piú presto nella privazione di quello che dá molestia, che in cosa la quale porti seco alcun bene, ed essere una medicina che solamente levi dallo infermo il male, sanza fortificare poi la natura a darli virtú alcuna; come mostra Orazio in una sua epistola, quando dice: «Nocet empta dolore voluptas». Ed avendo questo in tutte le cose umane nell’onore, nell’utile, nella voluttá, è necessario confessare tutta la vita umana, che da queste cose depende, essere una passione, e la felicitá sua sempre mista con essa; perché la passione è sola immediata cagione di essa, e l’accompagna come l’ombra il corpo. Trovandosi adunque in me questo medesimo effetto, e ricevendo io dalli miei pensieri gravissima e continua molestia, né parendomi poter senza questi tali pensieri vivere, composi il presente sonetto ad espressione dello stato del cor mio. Il quale, sendo posto nel mezzo del petto mio pieno d’angoscia e stracco giá dalla molestia de’ pensieri, chiama intorno a sé tutti i pensieri, i quali, secondo abbiamo detto, naturalmente sono intorno al core come cagion d’essi; di questo avviene che il cor sospira, perché, concorrendo diverse passioni a un tempo, generano sospiri, e per le ragioni giá dette. Dopo il qual sospirare, il core voltatosi ai pensieri, e con dolce e pietoso parlare, gli priega che debbino cessare alquanto di molestarlo, e far pace della lunga e continua guerra che senza intermissione li fanno, mostrando che debbino satisfarli in questo, conciosiacosaché sono suoi figliuoli creati e generati da lui. Perché, ancora che sieno pensieri amorosi, e perché d’altro non parlano che d’amore, il core gli ha fatti amorosi; e però altro padre che lui non debbono riconoscere, e come figliuoli non gli dare tanta molestia. A questa pietosa proposta risponde uno de’ pensieri giá detti, mostrando in effetto loro essere cagione della vita del core, e facendo comparazione che, come le pecchie la primavera, quando Flora di fiori adorna il mondo, fanno di diversi fiori una sola dolcezza, cioè il mèle, cosí li miei pensieri di diverse bellezze della donna mia generano una certa dolcezza, mista con amaritudine, onde il cor si nutrisce e vive; mettendo nella donna mia li sguardi, le parole e i modi e l’altre bellezze sue, come stanno fiori in un prato, ove, diversamente pascendosi, i miei pensieri generano questa amara dolcezza per le ragioni dette disopra, ché alcuna voluttá del mondo non è senza mistione di passione. Ancora che ne’ pensieri amorosi si veggia piú distinto l’amaro dal dolce, benché sieno misti insieme, e che grandissima dolcezza è contemplare e immaginare tante maravigliose bellezze nella donna mia, grandissimo tormento ed amaritudine è poi desiderarle ed esserne privato. Ed il core, tirato dalla dolcezza detta, non può fare che non pensi alla donna sua; e li pensieri di necessitá portono con seco ancora il desiderio, cioè la privazione di quel bene: veramente è detto il core nutrirsi di questi dolci ed amarissimi pensieri.
S’io volgo or qua or lá gli occhi miei lassi, |
Perché io non credo sia determinato qual sia maggiore infelicitá, o l’essere infelicissimo o veramente perdere al tutto l’essere, lascerò la veritá di questa cosa a maggior iudicio che ’l mio, affermando però, per molte esperienzie, alli uomini accadere molte volte cose che pigliano per elezione piú presto privarsi della vita che sopportarle; ed ancora che sia cosa reprensibile la passione, in questi casi si tira drieto ogni altro migliore rispetto. Vedesi ancora molte volte li uomini eleggere piú presto privarsi per qualche poco di tempo della operazione de’ sensi che sopportare la offesa loro: come diremo d’uno che serra li orecchi a qualche grande e pauroso strepito, un altro li occhi per non vedere o qualche cosa brutta o altro che movessi compassione o dolore, altri il naso per qualunque fetore; e si debbe credere questi tali terrebbono questi sensi sempre serrati, se sempre durassino le cose che offendono. E, se questo è, possono accadere molti casi che reputeremo manco male la privazione dell’essere che la offensione. E, perché a’ sensi mia era gravissima offesa quando erono privati del vero obietto loro, cioè la donna mia, il presente sonetto verifica la sentenzia sopradetta, eleggendosi per me in tal caso piú presto la privazione d’ogni esteriore operazione che tale offensione; stimando maggior cosa la privazione della donna mia che la privazione dell’essere delle operazioni giá dette. Ed ancora che paia che privandomi solamente dell’atto, e non della potenzia, non sia intera privazione, presupposto quello che abbiamo detto di sopra, cioè che la offensione durassi sempre, si può affermare la privazione cosí della potenzia come dell’atto. Dice adunque il sonetto che, quando accadeva che io cercassi o colli occhi o co’ passi, colle parole o co’ pensieri la donna mia, senza trovarla, ne resultava grandissima miseria a tutte queste cose che lei cercavano. Perché non è maggior miseria che non trovar mai pace o quiete né fine alle passioni, massime quando quella cosa, della quale altri è privato, è assai desiderata. Nessuna cosa poteva essere piú desiderata o cara che la donna mia, presupposto che la fussi quel bene che solo mi piacessi, che significa ogni altra cosa fuori che lei darmi dispiacere e molestia. E però, sendo infinite di numero l’altre cose, tanto maggiore era la molestia mia, quanto piú cose mi si offerivano dinanzi, e però erono quasi infinite molestie, tutte gravi, perché tutte mi appresentavano la privazione della donna mia. Interviene all’animo nostro che non si quieta mai insino che non truova quella cosa che piú che l’altre gli piace; ed ancora che molte cose li piaccino, l’appetito che si ferma in quel che li piace piú, mette da parte tutte l’altre, quando può conseguire il suo primo desiderio. Come, per esemplo, uno si diletta di diverse cose, come i cani, uccelli, cavalli, e con queste cose insieme è avaro di natura e piú tirato al cumulare che ad alcuna di quelle altre cose: e però, posposti li altri piaceri, che ancora naturalmente appetisce, l’appetito suo solo in quello si quieta, che prima e piú appetisce, ed ogni altra cosa li dá molestia. Molto maggiore era la molestia mia, perché solo desideravo la donna mia, né di altra cosa mi appagavo, perché il desiderio di lei non solo era il primo e maggiore desiderio mio, ma era solo senza compagnia di alcuna altra cosa che mi dilettassi; e però grandissima molestia era la mia, e pel numero delle molestie e per la quantitá di esse. Ne truovavo a queste cose migliore rimedio che la privazione sopradetta, perché serravo li occhi, coprendoli con le lacrime e tenendoli fissi a terra, fermando i passi nel vestigio loro, cioè in quella orma nella quale si trovavano, la lingua teneva silenzio ed i pensieri si restrignevano al core. E qui è da notare che questi pensieri s’intendono per la industria, la quale io usavo per trovare la donna mia, pensando quelli modi come piú presto la potessi trovare, a differenza de’ pensieri che diremo, appresso a’ quali in un altro modo e in un altro luogo la cercavano, e, trovandola, di questa sedazione delle operazioni esteriori li pensieri intrinsici e la fantasia ne pigliavan tanto piú forza, quanto piú mancava la distrazione de’ sensi. E però quasi di necessitá i pensieri miei, ristretti al core, contemplavano la donna mia, nel core da Amore scolpita, nel quale la vedevano e bellissima e gentile, come era veramente; ed allora colli occhi de’ pensieri io vagheggiavo il mio cuore bello veramente, essendo in lei scolpito la bella donna mia. Ed era lo imaginare mio sí forte, che, imaginando in me medesimo, quel piacere ricevevo allora, che se li occhi la vera avessino veduta; e, perché una forte imaginazione, se non in molti pochi ed eletti, può poco durare, accorgendomi io di quel dolcissimo inganno, quasi come da un sonno svegliato, trovandomi senza la mia donna, in grandissima passione restavo: per la quale il core si partiva da me, e quasi esanime cosí tacito e solo mi lasciava; perché la bellezza della donna mia, che nel core a’ miei pensieri si mostrava, faceva nascere il desiderio della vera, come dicemo nel comento del sonetto che comincia: «Allor ch’io penso di dolermi», ecc. E quel desiderio faceva non solo i pensieri, ma quasi tutti li spirti miei partire di quella forma imaginata ed ire alla vera, perché i pensieri non potevano stare se non dove era la donna mia; e però stettono tanto in me, quanto in me la vedevano, e, partendosi quella imagine, loro ancora mi abbandonorno. Allora restai né vivo né morto, perché, partendo il core, sede della vita, morto mi potevo chiamare. Ma, perché pure qualche vitale forza restava, né morto mi potevo chiamare, né vivo interamente. E, se sono vere quelle cose che abbiamo detto nella esposizione di tre sonetti della commutazione del core, chi vive in altri, come fanno li amanti, quanto a sé non si può chiamar vivo, né ancora morto, se vive in qualche luogo; né si può interpetrare che altra cosa fussi lo stato in che io restavo, se non il primo che mostra questo sonetto, cioè in quella molestia di cercare colli occhi, con le parole e co’ passi, ecc., senza trovare la donna mia, e però si verifica quello che proponemo al principio di questo comento, la privazione dell’essere parere manco male qualche volta che una gravissima molestia, poiché io restai peggio che se fussi stato o tutto vivo o tutto morto. E, perché morte include questa tale privazione, cosí dell’atto come della potenzia, a me pareva minor male che la miseria di quello infelicissimo stato.
Lasso, or la bella donna mia che face? |
Ancora che molte e diverse sieno le pene delli amanti, pure, chi considera bene, tutte da due cagioni procedono, cioè da gelosia e da privazione, e per l’assenzia della cosa amata; e bisogna di necessitá cosí sia, perché in due cose similmente consiste la felicitá loro, cioè due proprietá che sono nella cosa amata, la prima la esteriore ed apparente bellezza, l’altra lo amore, cioè il core della cosa amata. Perché due cose sono nello amante, che si hanno a pascere ed adempiere: cioè li sensi, per li quali si conosce cosí le bellezze visibili, come dolcezza di parole ed altri sensitivi ornamenti o naturali o accidentali; ed il core, al quale piacendo quelle cose, tanto che si trasforma in altri, come abbiamo detto, si pasce della reciproca transformazione del core amato nello amante. Se queste adunque sono le felicitá delli amanti, la infelicitá consiste nella privazione di queste, che non può essere se non per mezzo della gelosia ed assenzia giá dette. E però, trovandosi in questi nostri versi bene spesso la deplorazione della assenzia, non è maraviglia; perché, dettando la passione il verso, maggior passione muove piú numero di versi, ed, essendo grandissima passione l’assenzia della cosa amata, tanto piú spesso ricorreva il mio core al remedio de’ versi, quanto spesse volte accade l’assenzia mia sempre con grandissimo mio dolore. Trovandomi adunque dilungato dalli occhi della donna mia, e per qualche tempo e per assai intervallo di luogo, cominciai meco medesimo a pensare, non senza gran passione, quello che in quel punto facessi la donna mia, ove sedessi e quel pensassi, e chi fussi degno di tanto bene o tanto in grazia della fortuna, che, essendo veduto da’ suoi belli occhi o tócco dalla mano sua, fussi felicissimo; né potendo intendere quello che desideravo da altri che da Amore, lui ne domandavo, e, non volendo lui darmi alcuna risposta, pensai meco medesimo chi potessi portarmene qualche novella. Né occorse alli miei lacrimosi occhi piú espedito messo che le lacrime, le quali da loro uscivano; ma, non potendo però aggiugnere al luogo dove era la donna mia, perché il loro cammino si finiva in sul petto mio, dove cadevano, o alla piú lunga insino a terra, la quale le mie lacrime bagnavano, il core allora, veggendo tornar vano il disegno delli occhi, e le lacrime non potere arrivare alla mia donna, deliberò mandare a lei molti sospiri, pure per intendere qualche novella. E qui si verifica quello abbiamo detto di sopra, mettendo li occhi per tutti i mezzi sensitivi, che hanno per obietto la esteriore bellezza, ed il core, che aveva per obietto il core della donna mia; e li occhi sono i primi che si muovono, ed il core li segue, perché, approvata la bellezza esteriore, séguita immediate il desiderio del core non solo quella bellezza ma quella del core amato. Mandò adunque il core drieto alle lacrime degli occhi molti sospiri, il viaggio de’ quali non fu molto piú lungo che quel delle lacrime, risolvendosi in vento e in aria, come erono quando diventorono sospiri. Essendo adunque il core fraudato di questa sua speranza, ricorse a’ pensieri, confortandoli che loro andassino a trovare la donna mia, ché, essendo velocissimi e pronti, ancora che il cammino fussi lungo, presto potevano andare. Li pensieri subitamente vanno a trovarla, e trovonla sí bella e piena di tanta dolcezza, che s’innamorono di lei, né possono da essa partirsi, e, non si ricordando della miseria nella quale m’avevono lassato, non mi rendono né risposta né novella alcuna; per la qual cosa il cuore, come altrove abbiamo detto, solo di questi pensieri si nutriva e viveva collo esemplo de’ pensieri, da me si parte, e piangendo mi lascia sanza lui misero e sconsolato, e vassene ancora lui alla donna mia. Né io nelli mia pianti mi dolevo se non della sorte e destino mio avverso, che non mi aveva fatto sí agile e pronto, che potessi insieme col cuore e co’ pensieri trasferirmi alla donna mia. E, perché abbiamo molte volte fatto menzione di questa fuga e partenza del cuore e della trasformazione d’esso e del fuggire della vita, pare necessario verificare come questo sia, mostrando massimamente qualche volta che il cuore e la vista si parta, e pure in me resti la vita, come mostra il sonetto antecedente nell’ultimo suo verso. E però diremo nell’anima nostra essere tre potenzie, o vogliamo dire tre spezie di vita: la prima, per la quale viviamo solamente, nutriamci e cresciamo sanza alcun senso e nel modo che vivono gli alberi e l’erbe, che si chiama «vegetativa»; l’altra, per la quale veggiamo, odoriamo ed usiamo l’altri sensi, come fanno gli animali bruti, che per questo si chiama «sensitiva»; la terza, per la quale intendiamo sopra li sensi, e con ragione approviamo che una cosa sia meglio che un’altra, discorrendo nelle cagioni delle cose, che si chiama «razionale», la quale è comune con gli angioli, ed è quella parte di noi che si dice essere immortale, perché le due prime si vede che mancono e muoiono. Adunque chi si innamora di queste tre potenzie ne trasforma dua nella cosa amata, cioè la sensitiva e la razionale, perché tutte le forze dello intelletto nostro, e quello che per mezzo de’ sensi si conosce, si dá in potestá della cosa amata, ed ella al suo modo ne dispone e governa. E cosí segue necessariamente, perché, sottomettendosi la libertá dello arbitrio volontariamente, che è principio in noi d’ogni operazione, bisogna tutte le operazioni seguino il principio sanza il quale non si farebbono. Resta adunque solamente in chi ama quella parte della vita, per la quale solamente viviamo, come abbiamo detto, a guisa delle piante. E cosí si verifica il partire della vita e del cuore, cioè della razionale e sensitiva potenzia, sanza che manchi la vita, restando la potenzia vegetativa nello amante.
Lasso, io non veggo piú quelli occhi santi, |
Non pare conveniente dire molte cose nella esposizione del presente sonetto, essendo molto simile d’argumento alli dua precedenti, né volendo denotare altro che la miseria dello stato amoroso, quando accade la privazione per assenzia della cosa amata. E, perché per tre vie si sfogono comunemente le passioni amorose, quando procedono da assenzia, cioè lacrime, sospiri e pensieri, con qualche indulgenzia credo si replichi molte volte queste medesime cose, ancora che in diversi modi; perché, se questa passione e spesse volte accade nelli amanti, e non ha altri rimedi, bisogna spesse volte le medesime cose replicare. Mostra adunque il presente sonetto che, essendo privati gli occhi miei de’ dolcissimi occhi della donna mia, solo e vero loro obietto e riposo, avevono in dispetto tutte le altre cose che vedeano. Amore, mosso dalla pietá della miseria degli occhi, gli ricopriva di pianti, accioché, occupati dalle lacrime, almanco fussino liberi dalla visione dell’altre cose, che davano loro dispetto; perché gli occhi abbondanti di lacrime difficilmente veggono. Cascando adunque queste lacrime sopra quella parte del petto, sotto la quale dentro è posto il cuore, destorono il cuore, sentendo il petto di fuora esser offeso pel cascare delle lacrime. E per questo si mostra l’abbundanzia del pianto, dal quale desto il cuore, cioè svegliato quasi d’uno dolce pensiero che prima lo teneva occupato, dalla nuova offensione delle lacrime, quasi come uno che dorma, da una nuova ed orrida voce, domanda Amore, che era presente, per che cagione piangono cosí forte gli occhi; e, narrandogli Amore la cagione del pianto, bisogna gli dica che la pietá che hanno mossa in lui gli miei miseri occhi, ha fatto che lui sumministra loro queste lacrime, accioché, essendo gli occhi privati della donna loro, ed avendo in dispetto ogni altra cosa, se non può rendere loro la desiderata visione, almanco gli aiuti di fuggire quello che hanno in odio. Perché due rimedi si truovano nella miseria, cioè il fare d’un misero felice (e questo è il piú perfetto) o veramente levarli la miseria, cioè il male sanza darli bene. Come sarebbe in un mendico e d’ogni cosa necessitoso, che chi gli levassi la necessitá di quelle cose, sanza le quali non può fare, e solamente gliele dessi a sufficienza, trarrebbe questo tale della miseria e d’uno grandissimo male che è la necessitá d’ogni cosa; ma chi lo facessi ricchissimo ed abbundante d’ogni cosa, non solo leverebbe il male della miseria, ma gli darebbe il bene, facendolo ricchissimo. Fece adunque Amore agli occhi questo effetto, dando loro l’infimo grado del bene, levando loro quella cosa che gli offendeva, cioè la visione dell’altre cose: essendo in essi dua cagione di dolore, cioè il desiderio di vedere la donna mia, come prima felicitá ed ultimo bene loro, ed il timore della offesa procedente dalla visione dell’altre cose. Il cuore, sentendo la cagione de’ pianti, mosso dalla medesima compassione che mosse Amore, aiuta la occecazione degli occhi, cominciata per le lacrime con gran numero di sospiri, e oppone la nebbia de’ sospiri agli occhi, accioché, aggiunti alle lacrime, pur possono difendere gli occhi e levarli la visione dell’altre cose. E naturalmente è detto «nebbia de’ sospiri», che ascende e monta alla faccia, perché il sospiro porta seco una certa aria piú vaporosa e grossa a guisa quasi di fumo e di nebbia, e naturalmente vanno in su verso gli occhi, ove gli manda l’impeto che nasce dell’ultima parte del petto. Ma, perché tutti questi rimedi non bastavano a tanta miseria, perché il perdere la visione dell’altre cose non era sola e vera beatitudine degli occhi, tutti gli desidèri del cuor mio si volsono a pregare gli occhi della donna mia che alquanto si mostrassino e dalli miei si facessino vedere. Ed essendo le lacrime simile all’acqua che piove, e li sospiri alla nebbia, come al dissipare la nebbia ed acqua non è piú efficace virtú che quella del sole, cosí nessun rimedio migliore si poteva trovare a levare le lacrime e i sospiri che ’l lume degli occhi della donna mia, al quale come a unico rimedio si ricorre, pregandolo, come abbiamo detto, che si mostri; perché, quando indugiassi o per alquanto tempo celassi la sua luce e virtú, gli occhi si tornerebbono nella maggiore miseria; perché non solamente sarebbono privati di questo sole, vera beatitudine loro, ma sarebbono forzati a vedere le altre cose, che abbiamo dette essere a loro sommamente in dispetto, conciosiacosaché le lacrime ed i sospiri non potevano lungamente occupare la loro veduta, perché pareva impossibile il fonte delle lacrime non ristagnassi e seccassi, e la sede e luogo de’ sospiri ne avessi tanta copia, che non fussi qualche volta per mancare questa pietosa sumministrazione.
Io torno a voi, o chiare luci e belle, Vengo con passi lenti a mirar quelle, |
Grandissima miseria è quella d’alcuno, il quale si affligge per desiderio d’una cosa, la quale poi, quando è di conseguirla in grandissima speranza, non manca però della sua prima miseria, dubitando, conseguendola, ancora restare misero. E, perché spesse volte avviene negli accidenti amorosi, si può Chiamare la vita degli amanti sopra tutte l’altre misera, poiché, ed avendo e non avendo quello che vuole, non muta mai la sua infelice sorte, ancora che si mutino le cagioni della miseria. Questo effetto esprime il presente sonetto, perché, essendo stato, come abbiamo detto di sopra, per qualche tempo distante dalla donna mia con molta afflizione, ed essendo gia in cammino per tornare al suo tanto desiderato aspetto, e vicino alla visione de’ suoi begli occhi, come se fussi quasi presente, a loro dirizza le parole, mostrando ch’io torno a rivedere la dolcezza del loro lume e la loro infinita bellezza, dalla quale ogni cuor gentile ha da riconoscere la vita, come le stelle del Cielo riconoscono la cagione del lume loro dallo splendore del sole. Ed a provar questa veritá che la vita delli gentili cuori proceda da questa infinita bellezza, bisogna presupporre la bellezza essere sanza fine, e però sarebbe non solo la maggiore bellezza, ma quanta bellezza può essere, perché ogni cosa infinita è tale; ed essendo una medesima cosa somma bellezza e somma bontá e somma veritá, secondo Platone, nella vera bellezza di necessitá è la bontá e veritá in modo annesse, che l’una con l’altra si converte. E intendendosi per li cuori gentili gli animi elevati, secondo che abbiamo detto, e perfetti, bisogna sia vero che ogni gentil cuore viva d’infinita bellezza, perché il bello, buono e vero sono obietto e fine di ogni ragionevole desiderio, dando vita a quegli che gli appetiscono; perché chi si parte dal bello, dal buono e dal vero, si può dire non vivere, perché fuora di queste perfezioni non si dice esser cosa alcuna. Adunque, come il sole co’ raggi suoi fa risplendere le stelle sanza diminuzione della sua luce, cosí questa somma bellezza infonde come raggi ne’ gentili cuori della sua grazia, cioè un lume spirituale, per lo quale vivono e spiritualmente relucono; e, se bene la materia, di che parlano i versi nostri, non è di tanta perfezione, pure gli errori amorosi fanno credere poter essere in altri quello che in se medesimo si trova. E però, vivendo io della luce di quegli belli occhi, la loro bellezza mi pareva sí maravigliosa, che pensavo a ciascuno doversi egualmente piacere sí come a me, onde affermavo di tutti gli altri quello che in me sentivo. Tornando adunque a questa infinita bellezza, sanza la quale miserrimo mi giudicavo, ed essendo pieno di vari pensieri, e tanto piú in me confuso quanto piú mi appressavo ad essa, grande infelicitá si debbe reputare la mia, poiché in quel bene, che io cercavo, dubitavo di male. La varietá e confusione di pensieri era che una parte d’essi mi persuadeva che troverrei la donna mia piena d’amore, di pietá e di dolcezza; un’altra parte mi sbigottiva, persuadendomi il contrario: in modo che in me medesimo dubitavo d’intendere le vere novelle per la molestia che arebbe portato al cuore, quando avessi inteso essere cacciato al tutto della grazia della donna mia. Questo faceva allentare i passi miei, ed era potentissima cagione, poiché, desiderando io sopra ogni cosa gli occhi della donna mia, ritardavo il passo per vederla. Soccorse Amore a questa mia durissima perplessitá: e, perché uno amoroso pensiero mi redusse a memoria alcune parole che mi aveva detto la mia donna, partendo da essa, tutte piene di speranza, affermando che in ogni luogo e tempo sarei sempre pieno della sua grazia, accertandomi della fede e costanzia sua, le quali parole mi scolpí dentro al cuore Amore colle mani sue, questa dolce memoria mi fece prestare fede a quello piú che soggiugne Amore, mostrando ogni altro pensiero, ogni sdegno ed ira aver tratto del cuore della donna mia, né restare altro desiderio o altro fuoco che quello vi aveva messo Amore per mia satisfazione e felicitá. Pieno adunque di questa speranza, si può presumere che io accelerai i passi, ancora che il sonetto di questo non faccia menzione, perché mancava il sospetto onde procedeva la prima lentezza de’ passi miei.
Quell’amoroso e candido pallore, |
Platone, filosofo eccellentissimo, pone due estremi, cioè scienza ed ignoranza: la scienza quasi uno lume, che ci mostra quello che è veramente e perfettamente, e l’ignoranza, come una tenebrosa oscuritá, la quale ci priva della cognizione di quelle cose che sono, e resta solamente in quello che non è. E, perché sempre tra gli estremi debbe essere il mezzo, mette la opinione tra la scienza e ignoranza, la quale, per esser qualche volta vera e qualche volta non vera, pare che in un certo modo participi qualche volta della scienza, qualche volta della ignoranza. Non che possa essere mai scienza, ancora che la opinione sia vera, delle cose che sono, ma ignoranza può ben essere quella opinione e di quello che non è. La scienza comprende cose che sono certe e chiare; la ignoranza comprende nulla; la opinione quelle che qualche volta sono, qualche volta non sono, e che possono essere e non essere. E per questa cagione la opinione è sempre ansia ed inquieta, perché, non si contentando l’animo nostro se non di quello che è vero e non è, potendo avere la opinione alcuna certezza, non si quieta, ma giudica le cose piú presto per comparazione e rispettive che secondo il vero. Verbigrazia, io dirò: — Il tale è un grande uomo, — perché eccede di alquanto la grandezza di tre braccia, ove comunemente termina la statura degli uomini. E se gli uomini si trovassino grandi quattro braccia, quello che fussi tre braccia e mezzo sarebbe reputato piccolo. Chiamerassi tra gli etiopi, di natura neri, bianco uno che sará manco nero che gli altri; e tra questi occidentali uno nero che tra gli etiopi sarebbe candidissimo. Dirai: — Il tale è buono, — che, secondo Davit profeta, «non est usque ad unum»; ma chiamerassi buono, rispetto alla malizia degli altri. Tale è oggi ricchissimo a Vinegia, in Firenze ed altrove, che colle medesime facultá al tempo della monarchia di Roma sarebbe suto mendíco a comparazione di molte altre maggiori ricchezze. E però diremo secondo la opinione umana non poter essere scienza d’alcuna cosa, ma giudicarsi il meglio essere quello che piú s’accosta al bene, o vero che piú si discosta del contrario suo. E se, per esemplo, a uno paressi molto piú bella una perla quanto fussi piú chiara e candida, cioè quanto piú si appressassi alla vera e perfetta bianchezza, la vorrebbe vedere in un campo nero ed in qualche colore oscuro, accioché quella comparazione del contrario suo mostrassi la perla accostarsi piú alla vera bianchezza. Ed ancora che la prima intenzione sia questa bianchezza, vi mescola il colore nero che gli è opposito, ingannandosi e parendogli che questo gli dia forza, perché in fatto quella perla non è piú bianca sul nero che fussi sul bianco. Quinci nasce la bellezza, che procede dalla varietá e distinzione delle cose, perché l’una per l’altra piglia forza, e pare che piú si appressi alla sua perfezione. Perché, se la opinione intendessi il vero, solamente quelle cose che sono piú belle eleggeremo, sanza ammistione di altre cose meno belle, e dove nella vita umana per somma bellezza comunemente cerchiamo la varietá, se intendessimo perfettamente, prima ad ogni altra cosa la fuggiremo.
Tutto questo discorso è paruto necessario, trattando nel presente sonetto della somma bellezza che venne nel viso della donna mia per uno accidente, che negli altri il piú delle volte suole la bellezza ricoprire e spegnere, ed in essa la multiplicò. Andavo adunque per una via assai solitaria solo, pieno però di amorosi pensieri, ed essendo fuori d’ogni espettazione di potere in tal luogo vedere la donna mia, subito la scontrai, e giá molto vicina m’era, quando la vidi. Questa insperata visione e subito assalto degli occhi suoi a’ miei fece in un tratto partire da me quasi ogni forza e ’l colore del viso, e, rimirando la faccia sua, mi parve similmente adorna d’uno amoroso e bellissimo pallore, non però di colore ismorto, ma che pendessi in bianchezza. E di principio mi parve fussi suta grande presunzione di quel colore pallido ad esser venuto in sí bel viso. Ma, pensando poi meglio, vidi che aveva aggiunto forza all’altre bellezze, come suole fare l’erba verde piú belli i fiori, ed il cielo mostrare piú chiare le stelle che distinguendole col colore e serenitá sua: ancora che i fiori sieno piú belli che l’erba, e le stelle piú belle che il campo del cielo, l’erba faceva parere piú belli i fiori che se fussi tutto il prato fiori, e non fussino campeggiati dal verde dell’erba; similmente il cielo delle stelle, per la forza non solamente della varietá, ma perché gli oppositi l’uno vicino all’altro pigliono maggior forza e meglio si mostrono. Né erono a me manco bellezza a numero quelle della donna mia, che sieno i fiori de’ prati e le stelle del cielo. Erano adunque quelle bellezze in mezzo del pallido colore, come i fiori in mezzo dell’erba e stelle in mezzo del colore del cielo. Tra tanti fiori era ancora in mezzo di questo viso Amore, bellissimo fiore, e tra tante stelle era similmente la stella d’Amore. Era Amore in un tempo medesimo lieto e maraviglioso, avendo fatto sí gentile e bella opera: lieto, perché era bellissima, e maraviglioso, perché gran cosa era quella che aveva fatto e molto nuova, avendo aggiunto tanto ornamento per mezzo di quel colore pallido, che, come abbiamo detto, gli altri visi suole turbare e fare brutti. Se n’era Amore pieno di maraviglia, che era suto autore di sí bella opera, si può pensare che io ne restassi attonito e pieno di stupore, e che ogni mia virtú, superata dalla eccessiva nuova bellezza, per qualche tempo si partissi da me, che cosí credo sarebbe intervenuto a ciascuno, che avessi avuto grazia di vederla, considerarla ed amarla.
Lasso, oramai non so piú che far deggia, |
Tutti gli affetti umani sanza controversia sono passione, e le cagioni che muovono gli affetti degli uomini sono due, l’ira e la concupiscenzia, che, per essere passione molto diverse, secondo alcuni, hanno diversi luoghi e sede nel corpo nostro: perché la potenzia irascibile si genera nel cuore, la concupiscibile nel fegato; secondo alcuni altri, amendue sono nel cuore. Che sieno diverse potenzie e differenzie, mostranlo gli effetti che procedono da queste cagione, de’ quali una parte, cioè quelli che procedono dall’ira, il piú delle volte sono molestie all’animo nostro; quelli che nascono da concupiscenzia, piú spesso grati e dolci. Ed essendo tutti questi affetti, come abbiamo detto, passione, di necessitá si conclude che ogni desiderio, ancora che sia per cosa dolce e grata, sia pure passione; anzi, come abbiamo detto nel principio, nella diffinizione d’Amore e nella esposizione del sonetto che comincia: «Ponete modo al pianto, occhi miei lassi», ogni appetito mostra la privazione di quel che s’appetisce, che è somma infelicitá, peroché chi non può quietare l’appetito e frenarlo, vive in continua passione. E cosí in un tempo medesimo una medesima cosa si cerca e fugge, perché chi desidera assai quietare un grande appetito ha assai desiderio, e chi non desidera quietarlo ha similmente l’appetito grande. Ma quello fa maggior errore, che cerca quietare lo appetito d’una cosa pigliando rimedi e modi atti a multiplicarlo e accrescerne la inquietudine, come avveniva a me, che, pensando alla bellezza della donna mia, ne avevo grandissimo desiderio, e, credendo quietarlo, andavo per vederla, e, cominciando a veder li occhi, mi parevano sí belli occhi, che il desiderio pure cresceva; che era il contrario di quello volevo. Non trovando adunque la pace mia negli occhi suoi, ma vedendo in essi rilucere e lampeggiare la morte mia, cioè Amore, fuggivo l’aspetto loro, credendo trovare la quiete, che non avevo trovato in essi, in qualcun’altra delle molte bellezze che apparivano nella donna mia. E però, domandando il mio soccorso, cioè la quiete predetta, quando a’ suoi gentilissimi modi, considerandoli con grandissima attenzione, quando sentendo il suo dolcissimo parlare e diversante, secondo la multiplice diversitá in tante bellezze naturali ed ornamenti suoi, trovavo in effetto Amore armato e parato alla mia morte, perché è vero officio d’infinita bellezza accendere infinito desiderio: cosí diremo a proporzione d’ogni bellezza e desiderio. Desperato adunque della quiete mia dalle bellezze ed ornamenti che continuamente vedevo con gli occhi, pensavo quietarmi, quando potessi toccare la sua mano candidissima; ma, ricordandomi ch’ell’era stata quella che mi aveva tolto la vita e teneva il mio cuore e tutti li miei pensieri in sé stretti, ancora di questo mi disperai, perché, se li miei pensieri erano felici sendo in quella mano, era impossibile loro si partissino dalla felicitá, ove sogliono correre tutte le cose; ed io senza pensieri non potevo quietarmi, perché li pensieri sono il principio d’ogni umana azione, e perché procedono le opere, né si può far cosa che prima non si pensi, e però, mancando il pensiero, mancono le opere. Non potendo adunque ottenere la mia salute, cioè la quiete del desiderio, anzi crescendo ogni ora piú, la necessitá mostrava che io dovessi sopportare queste offese dolcissime e che amassi sí dolci inimici, come erano li occhi, le parole, i modi, la mano e l’altre bellezze della donna mia, i quali erano veramente dolci, perché gran dolcezza era considerare tanta bellezza, e veramente inimici, essendo cagione di multiplicare piú il desiderio, cioè la passione. Credevomi adunque non solamente quella bellezza presente, ma ancora la speranza di molto piú dolce morte, la quale dalli inimici giá detti, per mezzo di queste amorose offese, con grandissimo desiderio aspettavo. Perché quanto maggiore erono le offese, cioè il desiderio di tanta bellezza, piú dolce si faceva la morte. E però la speranza di questa morte mi empieva il core di tanta dolcezza, che il core giá se ne nutriva e viveva: intendendo questa morte nella forma che abbiamo detto morire li amanti, quando tutti nella cosa amata si trasformono, che non importa altro che lo adempiere il desiderio, che si adempie quando l’amante nello amato si trasforma. E però questa morte non solamente è dolce, ma è quella dolcezza che puote avere l’umana concupiscenzia. E per questo da me, come unico remedio alla salute mia, era con grandissima dolcezza e desiderio aspettata, come vero fine di tutti li miei desidèri.
Non è soletta la mia donna bella |
Come molte altre volte accadde, secondo abbiamo detto, ero assai dilungato dalli occhi della donna mia nel tempo che composi il presente sonetto. E tra molti duri pensieri che facevano molestissima questa assenzia, uno maravigliosamente offendeva il cor mio. E questo è che, considerando quante diverse passione generava in me la privazione dello aspetto suo, entrai in pensieri che quelle medesime cose dovessino similmente assai offender lei; e però al dolore, che del mio proprio male sentivo, si aggiunse ancora questo, presentandosi al cor mio la pietá ed il dolor suo per esser sola e senza me. E, perché la natura, e ogni buon medico, della natura imitatore, prima pone remedio a quello che principalmente e piú offende la vita, li miei amorosi pensieri, sola medicina di questo dolcissimo male, prima pensavono il remedio che piú mi offendeva, cioè la pietá della solitudine della donna mia, mostrando in effetto che sola non era, ancora che fussi di lungi dalli occhi miei dolenti e lacrimosi, perché in compagnia sua era amore, speranza e fede, ed insieme tutti i miei pensieri. Non era adunque sola, ancora che in sua compagnia non fussi alcuna persona, e fussi destituita della conversazione delli altri, come testifica la sentenzia di Catone, dicendo «mai esser men solo che quando era solo», e chiamandosi ancora da Ieremia la cittá di Ierusalem «sola», ancora che fussi piena di popolo, perché la vera solitudine è esser destituto da quelle cose che piacciono. E dicesi uno esser solo in mezzo di molti inimici, perché mancando il vero fine per che è ordinata una cosa, di necessitá quella cosa non è piú quella, come, per esemplo, chiamiamo un uomo e «razionale», perché è ordinato a fine della ragione, dal quale quando lui manca, non si può piú chiamare uomo. La societá e compagnia delli uomini l’un con l’altro dalla natura è ordinata, accioché tutte le comoditá necessarie alla vita umana, che non si possono trovare in un solo, si abbiano da molti. E, se questo è il fine della compagnia, ogni volta che fussi grandissimo numero per offendere uno, quella non si può chiamar «compagnia», anzi «inimicizia». Se adunque alla donna mia la conversazione delli uomini era molesta, e solo li piaceva amore, speranza, fede e li miei pensieri, senza questi tra molti era in estrema solitudine, e con essi, quando fussi suta ne’ deserti della arenosa Libia, si poteva chiamare «accompagnata». E che non fussi sola, si dimostra ancora, parlando lei e dolendosi con questa compagnia. Dolevasi adunque sí dolcemente, che Amore maravigliosamente si faceva pietoso di lei, e, costretto da questa compassione, nelli occhi suoi piangeva. Ed avendo detto che la sede d’Amore e il vero suo luogo era ne’ suoi bellissimi occhi, di necessitá in quelli occhi piangeva. E di questo pianto, e perché da loro medesimi vinti dal dolore bassi si stavano, alquanto si rimetteva lo splendore loro: non che li occhi per questa oscurazione ne diventassino manco belli, ma splendevano alli altrui occhi come suole il sole, interponendosi qualche nube; dico secondo pare alli occhi nostri, non che il sole perda parte alcuna della sua luce. E, perché pareva cosa maravigliosa e quasi incredibile quanto è detto, bisognava fare autore di questo chi fussi suto presente, come era suto uno de’ mia pensieri, il quale, essendovi tutti li miei pensieri, di necessitá vi era ancor lui; perché, come dicemo in principio, questo rimedio venne dai pensieri amorosi; e, per confermazione di questa veritá, ne portò seco fede della compagnia sua, cioè delli altri pensieri d’Amore, della fede e della speranza, veramente dolce e bella compagnia. Perché altro bene non ha la vita umana né maggior dolcezza; e, se amore e fede erano veramente nella mia donna, di necessitá vi era la compassione dell’assenzia mia, ed il pensiero con questi testimoni doveva esser creduto. Questo fido nunzio con queste novelle da un canto mi empiè il core di dolcezza, pensando che non solo non era sola la mia donna, ma da sí bella compagnia accompagnata. D’altra parte, sentendo pure che la donna mia si doleva e piangeva, mi accese il core di grandissima pietá, tanto che veramente per quella dolcezza e per la pietá sarei morto, se la speranza non mi avessi soccorso di veder presto li occhi suoi, i quali sempre vedeva il mio core; e, perché li occhi del core sono i pensieri, si verifica che i pensieri sempre erano con la donna mia . . . . . . . . . . . . . . . .
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