Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo I/Capitolo quarto

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Capitolo quarto

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CAPITOLO QUARTO.


Ruppemi l’alto sonno nella testa ec.

Nel principio del presente canto, siccome usato è l’autore, alle cose dette nella fine del precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto, come un vento balenò una luce vermiglia, la quale toltogli ogni sentimento, il fece cadere, come l’uomo il quale è preso dal sonno; perchè nel principio di questo dimostra, come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il sonno, e come nell’inferno si ritrovasse, nella seconda, procedendo [p. 217 modifica]dietro a Virgilio, racconta sè avere molti spiriti veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena: e questa seconda comincia quivi:

Or discendiam quaggiù nel cieco mondo.

Dice adunque nella prima parte cosi: Ruppemi, Questo vocabolo suona violenza; volendo in ciò dimostrare, che ogni atto che in inferno si fa sia violento e non naturale: la qual cosa non è senza cagione, la quale è questa. Giusta cosa è, che chi peccando fece violenza a’ comandamenti e a’ piacer di Dio in questa vita, violentemente sia da’ ministri della giustizia punito nell’altra: l’alto sonno: il sonno, secondochè ad alcun pare, è un costrignimento del caldo interiore, e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica. Altri dicono il sonno essere un riposo delle virtù animali, con una intenzione delle virtù naturali: del qual volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio così:

Somne, quies rerum, placidissime somne Deorum,
Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
Fessa ministeriis mulces, reparasque labori etc.

E appresso costui assai più pienamente ne scrive Seneca tragedo1, in Tragedia Herculis Furentis, dove dice:

— — — — tuque, o domitor
Somne malorum, requies animi,
Pars humanae melior vitae,
Volucer, matris genus Astreae
Frater durae languide mortis

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Veris miscens falsa, futuri
Certus, et idem pessimus auctor:
Pater o rerum, portus vitae,
Lucis requies, noctisque comes,
Qui par regi, famuloque venis,
Placidus fessum, lenisque fovens:
Pavidam leti genus humanum
Cogis longam discere mortem etc.

Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume descrive la casa, la camera, e il letto, e la sua famiglia, se quella per avventura alcun desiderasse. Nella testa. La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi chiamiamo fronte, e alcuna volta per tutto il capo, e così in questo luogo intende l’autore; perciocchè nel capo dimora il sonno causato da’ vapori surgenti dallo stomaco, e saglienti per l’arterie del cerebro. Un greve tuono. È il tuono quel suono, il quale nasce da’ nuvoli quando sono per violenza rotti: e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e umide, e da esalazioni calde e secche, siccome Aristotile mostra nel terzo libro della sua Meteora; perciocchè essendo l’esalazioni calde e secche, dalle fredde e umide circondate, sforzandosi quelle d’uscir fuori, e queste di ritenerle, avviene, che per lo violento molo delle calde e secche, elle s’accendono: e per quella virtù aumentata, assottiglia tanto la spessezza della umidità, che ella si rompe: ed in quel rompere, fa il suono, il qual noi udiamo: il quale ò tanto maggiore e più ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si trova esser più spessa quando si rompe. La qual cosa [p. 219 modifica]intervenir non può in quello luogo dove l’autore disegna che era, perciocchè in quello non possono esalazioni surgere che possano tuono causare. Perchè assai chiaro puote apparere, l’autore per questo tuono intendere altro che quello che la lettera suona, siccome già è stato mostrato nell’allegoria del precedente Canto: sì, ch’io mi riscossi,

Come persona, ch’è per forza desta.

E in queste parole mostra ancor l’autore, gli atti infernali tutti essere violenti. E l’occhio riposato: dice riposato, perciocchè prima invano si affaticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore dello essere stato desto cessato; conciosiacosachè non solamente l’occhio, ma ciascun altro senso non incerto di sè divenuto, intorno mossi, Dritto levato: in questo dimostra l’autore il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici: e fiso riguardai, le parti circustanti: ed a questo segue la cagione, perchè ciò fece, cioè,

Per conoscer lo loco, dov’io fossi,

perciocchè quello non gli pareva, dove il sonno l’avea preso. Vero è: qui dimostra d’aver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual fosse, dicendo, che in su la proda mi trovai, così desto,

Della valle d’abisso dolorosa,

sopra la quale come esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente Canto dimostrato:

Che tuono accoglie d’infiniti guai,

cioè un romore tumultuoso ed orribile simile ad un tuono. Oscura, all’apparenza, profonda era, all’esistenza, e nebulosa, per la qual cosa, oltre [p. 220 modifica]all’oscurità, era noiosa agli occhi: Tanto che per ficcar, cioè agutamente mandare, lo viso, cioè il senso visivo, a fondoò, cioè verso il fondo,

Io non vi discernea alcuna cosa.

Pur dunque alcuna cosa vi vedea, ma quello, che fosse non discerneva, per la grossezza delle tenebre e della nebbia.

Or discendiam quaggiù nel cieco mondo.

In questa seconda parte del presente canto dimostra l’autore essere per una medesima colpa, cioè per non avere avuto battesimo, tre maniere di genti esser dannate: e questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere de’ predetti: nella seconda scrive della terza: e comincia la seconda quivi: Non lasciaiam l’andar, ec. Nella prima parte l’autore fa due cose, primieramente descrive la pena delle tre maniere di genti di sopra dette; e pone delle due, delle quali l’una dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, l’altra dice essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio gli solve: e comincia questa seconda quivi: Dimmi, maestro mio, ec. dice adunque così: Or discendiam, perciocchè in quel luogo sempre infino al centro si diclina, quaggiù nel cieco mando, cioè in inferno, il qual pertanto dice esser cieco, perciocchè alcuna natural luce non v’è: Cominciò il maestro, cioè Virgilio, tutto smorto, cioè pallido oltre l’usato. È il vero che l’uomo impalidisce per l’una delle tre cagioni, o per infermità di corpo, nella quale intervengono le diminuzioni dei sangue, le diete, e l’altre evacuazioni, le quali [p. 221 modifica]vanno a torre il vivido colore, o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirà, Virgilio discendendo giù, impalidì per compassione: Io sarò primo, cioè andrò avanti, e tu sarai secondo, cioè mi seguirai, volendo per questo ordine dell’andare renderlo più sicuro, in quanto colui che va davanti trova prima ogni ostacolo, il quale l’andare impedisse, e quello rimuove, se egli è buono e valoroso duca. Ed io, che del color, palido di Virgilio, mi fui accorto, riguardandolo nel viso; Dissi, come verrò, io appresso, se tu, che vai avanti, e ha’mi fatto vedere di menarmi salvamente, paventi, cioè hai paura,

Che suogli al mio dubbiare esser conforto?

Siccome nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa; e nel secondo canto, dove tu dell’animo cacciasti la viltà sapravvenuta. Ed egli, cioè Virgilio, a me, disse: l’angoscia delle genti, onorevoli e di alta fama, Che son quaggiù, in questo primo cerchio dell’inferno, nel viso mi dipigne, cioè colora, Quella pietà, cioè compassione, che tu per tema, cioè per paura, senti, cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo. Perciocchè tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore che io similmente abbia paura: ma non è così, io son pallido per compassione, ec. La prima esposizione mi piace più. Andiam, confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo, che la via lunga ne sospigne, a dovere andare. Così si mise, procedendo, e così mi fe’ entrare, seguendolo io, Nel primo cinghio, cioè [p. 222 modifica]nel Limbo, che l’Abisso, cioè Inferno, cigne, cioè attornia. Quivi in quel primo cerchio, secondochè per ascoltare potea comprendere, Non avea pianto mai, cioè d altro, che di sospiri. È il sospirare una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il cuore, per agevolamento di sè, manda fuori: e se così non facesse, potrebbe l’angoscia ritenuta dentro tanto ampliarsi, e tanto gonfiare intorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sì lo spirito vitale, che il cuore perirebbe: e perciocchè la quantità dell’angoscia di quelle anime, che eran laggiù, era molta, pare i sospiri dovere esser molti, e con impeto mandati; fuori per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè, Che l’aura eterna, in quanto non si muta la qualità di quella aura, nè avia un soave movimento d’aere: e per questa cagione non credo voglia dire il testo aura, perciocchè alcuna soavità non ha in inferno, anzi v’è ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire aere eterno: facevan, gl’impeti de ’sospiri, tremare, cioè avere un movimento non maggiore che il tremare. E ciò avvenia, cioè questo sospirare, da duol senza martirj. Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da alcuna pena estrinseca stimolate, ma da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice: Che avean le turbe, cioè moltitudini, ch’eran grandi, D’infanti, cioè di pargoli, li quali infanti si chiamano, [p. 223 modifica]perciocchè ancora non eran venuti ad età che perfettamente potesson parlare. E questa è luna delle due maniere di genti, delle quali dissi che l’autor trattava in questa parte, e di femmine e di viri, cioè d’uomini; e questa è l’altra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in età perfetta; li quali una medesima cosa direi loro essere e gli infanti, se quella copula la quale vi pone, quando dice:

D’infanti, e di femmine, e di viri,

non mi togliesse da questa opinione. E la ragione che mi moverebbe sarebbe questa; perciocchè io non estimo che da creder sia, quantunque nella presente vita gl’infanti in tenerissima età morissono, che essi sieno al supplicio in quella età, cioè in quello poco o nullo conoscimento; anzi credo sia da credere, loro essere in quello intero conoscimento che è qualunque degli altri che più attempati moriro: la qual perfezione del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo, è conceduto. Lo buon maestro, cioè Virgilio, il quale in questa parte per ammaestrarlo che domandar dovesse, quando alcuna cosa vedesse nuova, e da doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare perciocchè nel precedente canto, perchè non li parve che Virgilio tanto pienamente al suo dimando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio l’essere domandato, perchè [p. 224 modifica]poi d’alcuna cosa domandato non l’avea; a me, disse, tu non domandi,

Che spiriti son questi, che tu vedi?

qui sospirando si dolgono: ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale vedendo quello, di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si fa incontro, col farlo chiaro di ciò che l’uditore addomandar dovea, e dice,

Or vo’ che sappi, avanti che più andi,

Ch’ e’ non peccaro, questi spiriti che tu vedi qui: e s’egli hanno mercedi, cioè se essi adoperarono alcun bene, il quale meritasse guiderdone; Non basta, cioè non è questo bene avere adoperato sofficiente alla loro salvazione: e la cagione è, perch’e’ non ebber battesmo: e questo n’è assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Niccodemo dice, Amen, amen dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spirito Sancto, non potest intrare in regnum Dei. È adunque il battesimo una regenerazione nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti nascendo siamo maculati, divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove d’avanti eravamo figliuoli delle tenebre: e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, siccome qui afferma l’autore,

Ch’è parte della fede, che tu credi,

cioè della fede cattolica; e però dice che è parte di quella; perciocchè gli articoli della fede son dodici, de’ quali dodici è il battesimo uno. Appresso questo [p. 225 modifica]risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove, dicendo: E se pur fur, costoro de’ quali noi parliamo, dinanzi al Cristianesmo, cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il battesimo essere necessario a volere avere vita eterna; perciò son perduti, perchè

Non adorar debitamente Iddio:

e in tanto non l’adorarono debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio, cioè lui essere una deità in tre persone, lui dover venire a prender carne per la nostra redenzione: non sentirono de’ comandamenti dati da lui al popolo suo, ne’ quali, bene intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio volea essere adorato e onorato: E di questi cotai, cioè che dinanzi al cristianesimo furono, son’io medesmo: perciocchè Virgilio, siccome in libro temporum d’Eusebio si comprende, avanti la predicazione di Cristo, e il battesimo da lui introdotto, morì nel torno di quarantacinque anni; nè della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentì alcuna cosa: comechè santo Augustino in un sermone della natività di Cristo, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata ne’ versi scritti nella quarta Egloga della sua Buccolica, dove dice:

Ultima Cumaei venit jam carminis aetas:
Magnus ab integro seclorum nascitur ordo.

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Jam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
Jam nova progenies Coelo delabitur alto.

De’ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Angustino. E se pure sono di quelli che il sentono, e per avventura santo Augustino medesimo, non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo già preso da loro, che bisognava che uno morisse per lo popolo, acciocchè tutta la gente non perisse. Non adunque sentì Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al cristianesimo salvarsi, Per tai difetti, cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo, e per non aver debitamente adorato Iddio: e non per altro rio, cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso: Semo perduti, cioè dannati, a non dovere in perpetuo vedere Iddio: e sol di tanto offesi,

Che senza speme vivemo in disio:

il quale disio non è altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria de’ beati. E quantunque molto faticosa cosa sia il ferventemente desiderare, e oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile 1’ardentemente desiderare, e non conoscere nè avere speranza alcuna di dover potere quello che si desidera ottenere: e perciò quantunque, prima facie paia non molto gravosa pena essere il desiderare senza sperare, io credo che ella sia gravissima; e ancora più [p. 227 modifica]se le aggiugne di pena, in quanto questo desiderio è senza alcuna intermissione.

Gran duol mi prese il cuor quando l’intesi,

sì per Virgilio, e sì ancora,

Perocchè gente di molto valore,

stati intorno agli esercizii temporali, Conobbi, non qui, ma nel processo, quando co’ cinque savii entrò nel castello sette volte cerchiato d’alte mura, che in quel Limbo, cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i gradi di quelli, Limbo, dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, perciocchè quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra:) eran sospesi, dall’ardore del loro desiderio. Dimmi, Maestro mio. Qui dissi cominciava la seconda particella della prima parte della seconda della division principale, nella quale l’autore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque:

Dimmi, Maestro mio, dimmi Signore.

Assai l’onora l’autore per farselo benivolo, acciocchè egli più pienamente gli risponda, che fatto non avea alla domanda fattagli nel precedente canto: dopo la quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. Ed intende in questa domanda, non di voler sapere de’ santi padri che da Cristo ne furon tratti, che dobbiamo credere il sapea, ma perciò fa la domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta fu per la venuta di Cristo, [p. 228 modifica]alcun altro n’uscì mai: quasi per questo voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente, che se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu vi fosse, egli s’ingegnerebbe d’adoperare di farne uscire lui, e di farlo pervenire a salute.

Comincia’ io, per volere esser certo
Di quella fede, che vince ogni errore,

cioè per sapere se quello era stato che per la nostra fede ne porto, cioè, che Cristo scendesse nel Limbo, e traessene i santi padri. Il che, quantunque creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura n’è scritto, sono nondimeno di quelli che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non credo che senza colpa far si possa, perciocchè pare un derogare alla fede debita alle Scritture; e però le cose passate, come quelle che venir debbono, senza cercarne testimonianza d’alcuno, si vogliono fermamente credere e semplicemente confessare. Uscicci mai, di questo luogo, alcuno, o per suo merto, cioè per l’avere con intera pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per l’avere sì nella mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse: O per l’altrui, opera o fatta, o che far si possa per l’avvenire, che poi fosse beato? uscendo di qui e sagliendo in vita eterna. Ed egli, cioè Virgilio, che’ntese il mio parlar coverto, cioè intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva la domanda generale,

Rispose, io era nuovo in questo stato:

dice nuovo, per rispetto a quelli che forse migliaia d’anni v’erano stati, dove egli stato non era oltre a [p. 229 modifica]quarantotto anni; perciocchè tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè, Quando ci vidi venire, in questo luogo, un possente, cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina perciocchè nol conobbe. E meritamente dice possente, perciocchè egli per propria potenza aveva quel potuto fare che alcuno altro non potè mai; cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo: ed era questo possente,

Con segno di vittoria incoronato.

Non mi ricorda d’avere nè udito nè letto, che segno di vittoria Cristo si portasse al Limbo, altro che lo splendore della sua divinità, il quale fu tanto, che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive, che habitantibus in umbra mortis, lux orta est eis.

Trasseci l’ombra del primo parente,

cioè d’Adamo. Adamo fu, siccome noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primo uomo il sesto dì creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte del mondo, secondochè tengono i santi, che poi chiamata fu il campo Damasceno. Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo l’anima dotata di libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per sè medesimo: e secondochè i santi credono, egli fu creato in età perfetta, la quale tengono esser quella nella quale Cristo morì [p. 230 modifica]cioè di trentatrè anni: e lui così creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sè intelletto, volontà e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro, dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo nè de’ piedi, ma del costato gli trasse Eva nostra prima madre, similemente di perfetta età: la quale come Adamo desto vide, disse: questa è osso dell’ossa mie, e per costei lascerà l’uomo il padre e la madre, ed accosterassi alla moglie: la qual’è tratta dal suo costato, per darne ad intendere, che per compagna, non per donna, nè per serva dell’uomo l’avea prodotta Iddio: e ad Adamo non per sollecitudine perpetua, e guerra senza pace e senza triegua, come l’odierne mogli odo che sono, ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro, che tutte le cose le quali nel paradiso erano usassero, siccome produtte a loro piacere, ma del frutto d’uno albero solo, il quale v’era, cioè di quello della scienza del bene e del male, s’astenessero, perciocchè se di quello gustassero morrebbero: e quindi in così bello e dilettevole luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma l’antico nostro nemico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere quelle sedie, le quali per la ruina sua e de’ suoi compagni evacuate erano, prese forma di serpente, e disse ad Eva, che se ella mangiasse del frutto proibito ella non morrebbe, ma s’aprirebbono gli occhi suoi, e saprebbe il bene e il male, e sarebbe simile a Dio. Per la qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo, incontanente s’apersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano ignudi: e fattesi alcune coperture di [p. 231 modifica]foglie di fico d’avanti, si nascosero per vergogna: e quindi ripresi da Dio, furono cacciati di paradiso; e nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero più figliuoli e figliuole: ultimamente Adamo divenuto vecchio d’età; di novecentotrenta anni si morì. Ma qui son certo si moverà un dubbio, e dirà alcuno: tu hai detto davanti, che ciò che Iddio crea senza alcun mezzo è perpetuo: Adamo fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale? A questo si può in questa forma rispondere. Egli è vero che ciò che Iddio senza mezzo crea è perpetuo; ma è questo da intendere delle creature semplici, siccome furono e sono gli angioli, li quali sono semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li quali tutti sono di semplice materia creati; ma l’uomo non fu così: anzi fu creato di materia composta, siccome è d’anima e di corpo, e perciò non è perpetuo come sono le predette creature. Ma quinci può surgere un’altra obiezione, e dirsi: egli è vero, che l’uomo è composto d’anima e di corpo, e queste due cose amendune furon create da Dio; perchè dunque è l’anima perpetua, e ’l corpo mortale? Dirò allora l’anima essere stata da Dio composta di materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo non così; perciocchè non fu composto del semplice elemento della terra, senza alcuna mistura d’altro elemento, siccome d’acqua; perciocchè della terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura dell’uomo, fu adunque fatta del limo della terra, avente alcuna mistura d’acqua. Non che io non creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra [p. 232 modifica]semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le cose, ma la commistione2 de’corpi ne mostra, quelli essere stati fatti di materia composta: e perciò quantunque in perpetuo viva l’anima, non seguita il corpo dovere esser perpetuo. Sarebbon di quelli che alla obiezione prima risponderebbono, Adamo aversi questa corruzione e morte de’ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo Domeneddio avanti il peccato fatto accorto. Ma potrebbe qui dire alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale: gli angioli che peccarono, perchè non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai risposto di sopra; perciocchè di semplice materia creati non posson morire, se non come l’anime nostre, la quale quantunque peccasse col corpo d’Adamo, non però la sua perpetuità perdè, ma perdella il corpo, al quale, siccome a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto più sublime ingegno che il mio non è, e perciò per la vera soluzione di tanto dubbio, si vuole ricorrere a’ teologi ed a’ sofficientissimi lettori, la scienza de’ quali propriamente d’intorno a così fatte quistioni si distende. D’Abel suo figlio, cioè d’Adam. Questi si crede che fosse il primo uomo che morì, ucciso da Caino suo fratello per invidia. Leggesi nel Genesi, Caino, il quale fu il primo figliuolo di Adamo, essersi dato all’agricultura, e Abel similmente figliuolo d’Adam, e che appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato a far primi che alcuni [p. 233 modifica]altri, de’ frutti delle loro fatiche sacrifìcio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per far sacrificio, d’eleggere le più cattive biade, o che avessero le spighe vote, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fumo di quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abel in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre eleggeva il migliore e il più grasso agnello delle greggi sue, e quello sacrificava: di che seguiva, che essendo il sacrificio d’Abel accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il cielo. La qual cosa vedendo Caino, e avendone invidia, cominciò a porlare odio al fratello; ed un dì, con lui insieme discendendo in un lor campo, non prendendosene Abel guardia, Caino il ferì in su la testa d’un bastone, e ucciselo; e quella di Noè. Dispiacendo a Domeneddio l’opere degli uomini sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio; conoscendo Noè essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinogli in che maniera facesse un’arca, e come dentro v’entrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse: e ciò fatto mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra ’l crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta l’arca, la quale notava sopra l’acque, sopra le montagne d’Erminia, e non movendosi più per l’acque che scemavano, aperta una finestra, la [p. 234 modifica]quale era sopra l’arca, mandò fuora il corvo: il qiial non tornando, mandò la colomba, e quella tornò con un ramo d’ulivo in becco; per la qual cosa Noè conobbe che il diluvio era cessato, e uscito fuori dell’arca fece sacrificio a Dio: e appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto del vino inebbriò, e addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto, il quale di lui beffatosi il disse a’ fratelli, a Sem e a Jafet: li quali portato un mantello ricopersero il padre; ed egli poscia desto, e risaputo questo, maladisse Cam: ed essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di questa vita.

Di Moìsè legista, ed ubbidiente.

Moisè nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re d’Egitto comandato, che tutti i figliuoli degli Ebrei maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, perciocchè bello figliuolo era paruto alla madre non l’uccise, ma servollo tre mesi occultamente: ma poi non potendolo più occultare, fatto un picciolo vasello di giunchi, e quello imbiutato di bitume, sicchè passar l’acqua dentro non poteva, il mise nel fiume: e l’acqua menandolo giù, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che divenisse: ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello: e fattolo prendere ad una delle sue femmine l’aperse, e trovatovi dentro il picciolo fanciullo che piagnea, disse: questi dee essere de’ figliuoli delle Ebree: allora la fanciulla che il vasello seguiva, disse; madonna, vuogli che io vada, e trovi una Ebrea che il [p. 235 modifica]balisca? A cui la donna disse: va’; ed ella andò, e menò la madre medesima, la quale come cresciuto l’ebbe il rendè alla donna, la quale il nominò Molsè, quasi tratto dall’acqua, e a modo che figliuolo se l’adottò. Moisè crebbe, ed avendo un Egizio, perciocchè egli batteva un’Ebreo, ucciso, temendo del re se ne andò in Madian, e quivi co’ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandogli che liberasse il popolo d’Israel della servitudine nella quale il tenea. La qual cosa non volendo far Faraone, più segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed ultimamente comandato agli Ebrei, che quelle cose che accattar potessero dagli Egizi e’ prendessero e seguitasserlo, che egli li merrebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, siccome gli Ebrei erano dodici tribi, ed in tante s’aperse subitamente il mare, per le quali gli Ebrei passarono subitamente; e gli Egizii, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli Ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisè costoro per lo diserto, e per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso: e piovvero loro da cielo coturnici: e percossa da Moisè con la verga una pietra, subitamente ne uscì per divino miracolo un fiume d’acqua di soavissimo sapore, del quale gli Ebrei saziarono la sete loro: e oltre a questo, esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero [p. 236 modifica]sacrificare a Dio: ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti: e similmente le vittime e gli olocausti: e diede loro i giudici a udire, e determinare le loro quistioni: e oltre a ciò salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato in digiuni e penitenza quaranta dì, ebbe da Dio due tavole, nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso disceso del monte diede al popolo: e però il soprannomò l’autore legista: al fine dopo molte fatiche morì nella terra di Moab, essendo d’età di centoventi anni e fu seppellito nella valle della terra di Moab di contra Assegor: nè fu alcuno che conoscesse il luogo della sua sepoltura. Abraam Patriarca. Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur città di Caldea, l’anno quarantatre di Nino re d’Assiria. Questi per comandamento di Dio, insieme con Sara sua moglie venne in Canaam: e quivi essendo già d’età di novantanove anni, avendo prima d’Agar serva egizia avuto Ismael, generò in Sara già vecchia, come annunziato gli fu da’ tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre, un figliuolo il quale chiamò Isaac: e avendogli comandato Iddio che egli gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ’1 coltello in mano, n’andò sopra una montagna: e quivi essendo per uccidere il figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento d’Iddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quelli per le corna; come Iddio volle, veduta la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che vinti i re di Soddoma, [p. 237 modifica]e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech re e sacerdote di Salem: a costui fece Iddio la promessione di dare a’ suoi discendenti la terra abbondante di latte e di mele: il quale essendo già d’età di centosettantacinque anni morì, e fu da’ figliuoli seppellito nel campo d’Efron de’ figliuoli di Seor Eteo della regione di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morì Sara sua moglie, da’ figliuoli di Net. È costui chiamato Patriarca, a piter, che in latino viene a dir padre, e arcos, che viene a dire principe: e così resulta principe de’ padri: e David re. Questi fu figliuolo di Tesse della tribù di Giuda: e levato giovane da guardare le pecore del padre, perocchè ammaestrato era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il demonio alcuna volta gli dava: ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia Filisteo, il quale avea statura di gigante; e lui con la fionda 3, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise; onde egli meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol figliuola di Saul per moglie: racquistò l’arca foederis, la quale al popolo d’Israel era stata per forza di guerra tolta: e fu valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzione patì da Saul, al quale per invidia era venuto in odio: ultimamente essendo da’ Filistei stato sconfitto Saul, e’ figliuoli in Gelboe, e quivi sè medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato [p. 238 modifica]re; e nelle sue opere fu grato a Dio: e avuti di più femmine figliuoli, e invecchiato molto si morì, e lasciò in suo luogo re Salomone suo figliuolo, E Israel, cioè Jacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre uscito Esaù, e per quello appartenendosi a lui le prime geniture, quelle acquistò con una scodella di lenti la quale gli donò, tornando esso affamato da cacciare: e tornandosi esso di Mesopotania, dove dopo la morte d’Isaac, per paura d’Esaù fuggito s’era, siccome nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia: e non potendo da quell’uomo esser vinto venendo l’aurora, disse quell’uomo: lasciami;, al quale Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse: il quale colui domandando come era il nome suo, a cui esso rispose, io son chiamato Jacob: e quell’uomo disse: non fia così, il tuo nome sarà Israel; perciocchè se tu se’ forte contro a Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini: e toccatogli il nervo dell’anca, gliele indeboli in sì fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i Giudei non mangiano di nervo: col padre, cioè Isaac, il quale fu figliuolo d’Abraam, e co’ suoi nati, cioè di Giacob, li quali furono dodici acquistati di quattro femmine: e da’ quali le dodici tribi d’Israel ebbero origine, e ciascuna fu dinominata da un di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.

E con Rachele, per cui tanto fè’,

Jacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca sua madre ricevute tutte le benedizioni da Isaac suo [p. 239 modifica]padre, le quali Esaù, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano siccome a primogenito, per paura di lui se n’andò in Mesopotania a Labam, fratello di Rebecca sua madre; il quale Labam avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Labam di servirlo sette anni, ed esso in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata da Labam messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa: di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che l’usanza della contrada non pativa, che la più giovane si maritasse prima che colei che di più età fosse; ma se servire il volesse, gli darebbe in capo del tempo similmente Rachel: di che convenutosi insieme, che esso servisse altri sette anni, come serviti gli ebbe, gli fu da Labam conceduta Rachel; e questo è quello che l’autore intende, quando dice, Rachele, per cui tanto fe’ cioè tanto tempo servì. Fu questo Jacob buono uomo nel cospetto di Dio: e per fame fu costretto egli e’ figliuoli e’ nipoti di partirsi del paese di Cananea, e d’andarne in Egitto; laddove Josef suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto de’ granai di Faraone: e quivi onoratamente ricevuto, già vecchio d’età di centodieci anni morì; e fu il corpo suo con odorifere spezie seppellito in Egitto; avendo egli avanti la morte scongiurati i [p. 240 modifica]figliuoli, che quando da Dio vicitati fossero, e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi l’ossa sua ne portassero. E altri molti, siccome Eva, Set, Sara, Kebecca, Isaia, Jeremìa, Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi, e fecegli beati, menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua beatitudine:

E vo’ che sappi, che dinanzi ad essi,

cioè innanzi che costoro beatificati fossero,

Spiriti umani non eran salvati,

e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quelli che bene aveano aoperato liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro e a coloro che appresso doveano venire, e bene adoperare, la porta del paradiso. Non lasciavam l’andar. Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale 1’autore dimostra come procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa l’autore quattro cose: nella prima dice sè aver veduto in quel luogo un lume: nella seconda dice, come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto: nella terza dice, come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifìchi spiriti: nella quarta dice, come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: In tanto voce. La terza quivi: Così andammo infino, La quarta quivi: La sesta compagnia. Dice adunque: Non lasciavam, Virgilio ed io, l’andar perch’el dicessi, cioè [p. 241 modifica]ragionasse: Ma passavam, andando, la selva tuttavia. E appresso questo dichiara sè medesimo, qual selva voglia dire dicendo:

La selva dico, di spiriti spessi:

volendo in questo dare ad intendere, quello luogo essere così spesso di spiriti, come le selve sono d’alberi.

Non era lunga ancor la nostra via,

cioè non c’eravam molto dilungati, Di qua dal sonno, il quale nel principio di questo canto mostra li fosse rotto. Alcuna lettera ha, Di qua dal suono: ed allora si dee intendere questo suono, per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha, Di qua dal tuono, il quale di sopra dice che il destò: e ciascuna di queste lettere è buona; perciocchè per alcuna di esse non si muta, nè vizia la sentenza dell’autore: quando io vidi un fuoco, un lume, Che Emisperio. Emisperio è la mezza parte d’una spera, cioè d’un corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può più vedere 4 della metà: Di tenebre vincia, Qui non vuole altro dir 1’autore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo: a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto; perciocchè non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero. Di lungi v’eravamo, da questo lume, ancora un poco; Ma non sì, n’eravamo [p. 242 modifica]lontani, che io non discernessi, per lo splendore di quel lume, in parte, quasi dica non perciò a pieno: Che orrevol, cioè onorevole, gente possedea, cioè dimorando occupava, quel loco, nel quale eravamo. O tu, Virgilio: e domanda qui l’autore chi coloro sieno li quali hanno luce, dove quelli che passati sono non l’hanno: che onori, col ben sapere l’una, e col bene esercitar l’altra, ogni scienza ed arte. Catta qui l’autore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo, lui essere onoratore di scienza e d’arte: dove è da sapere, che secondochè scrive Alberto sopra il sesto dell’Etica d’Aristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza, ed intelletto, sono in cotal maniera differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori: scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura: arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche; e se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta arte, in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costrigne infra certi termini: prudenza è delle cose che deono essere considerale da noi: onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma l’intelletto si dee propriamente alle preposizioni che si fanno, siccome ogni tutto è maggiore che la sua parte. Estolle adunque qui l’autore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora scienza ed arte, bene e maestrevolmente operandole, siccome appare ne’suol libri, ne’ quali esso agl’intelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, [p. 243 modifica]il che aspetta alla scienza: e oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione de’ suoi poemi, o alle parti di quelli si richiede, usando in essi l’artificio di qualunque liberale arte, secondochè le opportunità hanno richiesto. E questo appartiene all’arte non meccanica, ma speculativa; e perciò meritamente queste lode dall’autore attribuite gli sono.

Questi chi sono, c’hanno tanta orranza,

il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per onoranza, orranza, Che dal modo degli altri, li quali per infino a qui abbiam veduti, gli diparte? in quanto hanno alcuna luce, dove quelli che passati sono non hanno. E quegli, cioè Virgilio, disse a me: l’onrata, cioè l’onorata, nominanza, puossi qui nominanza intender per fama:

Che di lor suona su nella tua vita,

nella quale questi cotali, sì nelle scritture degli antichi, e si ancora ne’ ragionamenti de’ moderni raccordati sono: Grazia, singulare, acquista nel Ciel, da Dio, che sì gli avanza, oltre a quelli che senza luce lasciati abbiamo. Intorno alla quale risposta dobbiamo sapere, aver luogo quello che della divina giustizia si dice cioè, che ella non lascia alcun male impunito, nè alcun bene irremunerato; perciocchè questi, de’ quali l’autor domanda, sono genti le quali tutte virtuosamente, ed in bene della repubblica umana, quanto al mortal vivere, adoperarono; ma perciocchè non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non [p. 244 modifica]meritarono l’eterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che avendo rispetto a lui adoperan bene; ma nondimeno perciocchè bene adoperarono, e dispiacque loro i vizii e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino: il quale è, secondo la intenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro, in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; perchè bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni bene fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede. Intanto voce fu. Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto: e dice, Intanto, cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, voce, a differenza del suono. È la voce propriamente dell’uomo, in quanto esprime il concetto della mente quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dell’uomo, o d’alcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è o suono o sufolo: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversità delle cose dalle quali nascono, fu per me, cioè da me, udita, così fatta:

Onorate l’altissimo poeta;

e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, di chi che se la dicesse, a quelli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice, altissimo, il quale adiettivo degnamente si confà a Virgilio, perciocchè egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni [p. 245 modifica]latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. L’ombra sua, cioè di Virgilio, torna, ch’era dipartita, quando andò al soccorso dell’autore, come di sopra è dimostrato. Poichè la voce, già detta, fu ristata, e queta, Vidi quattro grand’ombre, non di statura, ma grandi per dignità, a noi venire, come l’uno amico va a ricoglier l’altro, quando d’alcuna parte torna:

Sembianza avean nè trista, nè lieta.

In questa discrezione della sembianza di questi poeti, dimostra l’autore la gravità e la costanza di questi solenni uomini; perciocchè costume laudevole è de’ maturi e savi uomini, non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale, e viso e animo, le felicità e le avversità sopravvegnenti ricevono; perciocchè chi altrimenti fa, mostra sè essere di leggiere animo e di volubile. Lo buon Maestro, Virgilio, cominciò a dire:

Mira colui con quella spada in mano,

è la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare l’autore ad intendere di che materia colui che la portava cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la descrive in mano, perciocchè il primo fu che si creda che in istilo metrico scrivesse dì guerre e di battaglie, e per conseguente pare, che chi dopo lui scritto n’ha, l’abbia avuto da lui. Che vien dinanzi a’ tre, poeti che ’l seguono, siccome Sire, cioè signore e maggiore.

Egli è Omero poeta sovrano.

Dell’origine, della vita, e degli studii d’|Omero secondochè diceva Leon Tessalo, scrive un valente [p. 246 modifica]uomo Greco, chiamato Callimaco, più pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale si legge, che Omero fu d’umile nazione; perciocchè in Ismirna, in que’ tempi nobile città d’Asia, il padre di lui in pubblica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice d’erbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, comechè in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizii, non si sa certamente di qual città esso natio fosse. È il vero che per la sua singular sufficienza in poesia, sette nobili città di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna d’esse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le città furon queste, Samos, Smirne, Chios, Colofon, Philos, Argos, Atene; e alcune di queste furono, le quali li feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse: e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza lui essere stato suo cittadino: e quelli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero de’ loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia d’anni. Fu nondimeno dai più reputato, che egli fosse Ismirneo, o perocchè, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli Smirnei mostrassero più chiara testimonianza che gli altri dell’altre citltà; e così mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum Smirnei durabunt vatis honores,

[p. 247 modifica]dicendo d’Omero. Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse: colui che al presente nasce morrà cieco, e per questo fu dal padre nominato Omero: il quale nome è composto ab o, che in latino viene a dire io, e mi, che in latino viene a dire non, ed ero, che in latino viene a dire veggio: e così tutto insieme viene a dire io non veggio: e come nel processo apparirà, secondo il vaticinio morì cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studii: e udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udì sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultà; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studii, se n’andò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udì poesia e filosofìa e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quelli tempi sopra ogn’altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine: e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermità perdè il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, de’ quali ancora si trovano alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie de’ Greci e de’ Troiani, infino alla morte d’Ettore, mirabilmente commendando Achille. Compose similemente l’Odissea in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori d’Ulisse, li quali dieci anni perseverarono [p. 248 modifica]dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similemente un libro delle laude degl’iddii, il cui titolo non mi ricorda d’avere udito. Scrisse ancora un libro distinto in due nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra stata tra le rane e’ topi, la quale non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose oltre a ciò un libro della generazione degl’iddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse: e similemente più altri infino in tredici, de’ quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora ha i lor nomi nascosi, e spezialmente a noi Latini. E acciocchè questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che avendo Alessandro Macedonico vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale città, trovò in essa tanto tesoro, che vedendolo obstupefece: ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero, e carissima per ornamento di pietre e di perle: e co’ suoi baroni, siccome scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse l’opere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle che essi sapessero, paresse loro piuttosto che alcuni altri, da servare in così caro vasello: non v’ebbe alcuno che la real corona, o lo scettro o altro reale ornamento dicesse, ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sì preziosa cassa, cosa alcuna più degnamente servar non potea, che la Iliade d’Omero: e così a [p. 249 modifica]servar quel libro fu deputata. Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu da breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; perciocchè, o povertà o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu oltre a ciò poverissimo tanto, che essendo cieco, non aveva di che potesse dare le spese ad un fanciullo che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertà era volontaria, perciocchè delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli: di mansueto animo e d’onesta vita, e di poche parole. Fu oltre a ciò alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e tra l’altre essendo in Atene, ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli Ateniesi lapidare; perciocchè in essa, poeticamente parlando, aveva scritto gl’iddii l’un contro all’altro aver combattuto; non sentendo gli Ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, nè quello che per quelle battaglie degl’iddii Omero s’intendesse: e per questo credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere: e se stato non fosse un valente uomo e potente nella città, chiamato Leontonio, il quale dal furioso empito degli Ateniesi il liberò, senza dubbio l’avrebbono uccìso. La quale bestiale ingiuria, il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, perciocchè appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel quale egli morse fieramente i vizii degli Ateniesi, mostrando nel vulgo di quelli nulla altra cosa*Tessere che [p. 250 modifica]parole. E altra fiata essendo chiamato da Ermolao re, ovvero tiranno d’Atene, quasi sprezzandolo disse, che per lui nè per tutto il suo regno non vorrebbe perdere una menoma sillaba d’un suo verso: e che esso co’ suoi versi possedeva maggior regno, che Ermolao non faceva con la sua gente d’arme: per la qual cosa turbato Ermolao il fece prendere, e crudelmente battere e poi metterlo in pregione: nella quale avendolo otto mesi tenuto, nè per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertà dell’animo suo, il fece lasciare: nè potè fare che con lui volesse rimanere. Della morte sua, secondochè scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione; perciocchè essendo egli in Arcadia, ed andando solo su per lo cito del mare, sentì pescatori, li quali sopra uno scoglio si stavano, forse tendendo o racconciando loro reti: li quali esso domandò se preso avessero, intendendo seco medesimo de’ pesci . Costoro risposero, che quelli che presi aveano avean perduti, e quelli che presi non aveano se ne portavano. Era stata fortuna in mare, e però noa avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, s’erano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi, e purgati di que’ vermini che in essi nascono; e quegli che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi, e quegli che presi non aveano, essendosi ne’ vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero udita la risposta de’ pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel cader percosse, e di quella percossa il terzo dì appresso si morì. Alcuni voglion dire, che [p. 251 modifica]non potendo intender la risposta fattagìi da’ pescatori, entrò in tanta maninconia che una febbre il prese, della quale in pochi dì si morì, e poveramente in Arcadia fu seppellito. Donde poi portando gli Ateniesi le sue ossa in Atene, in quella onorevolmente il seppellirono. Fu adunque costui estimato il più solenne poeta che avesse Grecia, nè fu pure appo i Greci in sommo pregio, ma ancora appo i Latini in tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue Quistioni Tusculane scrive Tullio così di lui: Traditum est etiam, Homerum caecum fuisse: at ejus picturam non poësia videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna, quae acies, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit? ec. Nè si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui il nostro autore il chiama poeta sovrano. Fiorì adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano Cesare, padre d’ogni virtù, secondo l’opinione d’alcuni, ne’ tempi che Melanto regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice, che egli fu cento anni poichè Troia fu presa. Aristarco dice, lui essere stato dopo l’emigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di Lacedemonia, e Latino Silvio re d’Alba. Altri vogliono che fosse dopo questo tempo detto, essendo Labote re di Lacedemonia, ed Alba Silvio re d’Alba. Filocoro dice, che egli fu [p. 252 modifica]a’ tempi di Archippo, il quale era appo gli Ateniesi nel supremo maestrato, cioè centottanta anni dopo la presura di Troia, Archiloco dice, che egli fu corrente la XXIII. Olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento di Troia. Apollodoro gramatico, ed Eufarbio istoriografo testimoniano, Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta centoventiquattro anni: e come dice Cornelio Nepote, avanti la prima Olimpiade cento anni, regnante appo i Latini Agrippa Silvio, ed in Lacedemonia Archelao. Del quale perciò così particulare investigazione del suo tempo ho fatta, perchè comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero, quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere, se non per la sua preeminenza singulare.

L’altro e Orazio satiro, che viene.

Orazio Flacco fu di nazione assai umile e depressa, perciocchè egli fu figliuolo d’uomo libertino: e libertini si dicevan quelli, li quali erano stati figliuoli d’alcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertà ridotto, e chiamavansi questi cotali liberti: e fu di Venosa, città di Puglia: e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, o sotto cui, non lessi mai, che io mi ricordi, ma uomo d’altissima scienza e di profonda fu, e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua fu, per quello che comprender si possa nelle sue opere, il più a Roma, dove venuto, meritò la grazia d’Ottaviano Cesare, e fugli conceduto d’essere dell’ordine equestre, il quale in Roma a que’ tempi era venerabile assai. Fu oltre a ciò fatto maestro [p. 253 modifica]della scena: e singularmente usò l’amistà di Mecenate nobilissimo uomo di Roma, ed in poesia ottimamente ammaestrò. Usò similmente quella di Virgilio e di alcuni altri eccellenti uomini: e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile de’ versi lirici, il quale comechè in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli Ebrei; perciocchè, secondochè san Geronimo scrive nel proemio libri temporum d’Eusebio Cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici fu da’ Salmisti composto il Salterio. E questo stilo usò esso Orazio in un suo libro, il quale è nominato Ode. Compose oltre a ciò un libro chiamato Poetria, nel quale egli ammaestra coloro, li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir debbono, e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi libri, siccome nelle Pistole, e ne’ Sermoni, fu acerrimo riprenditore de’ vizii, per la qualcosa meritò di esser chiamato poeta satiro. Altri libri de’ suoi, che i quattro predetti, non credo si trovino. Mori in Roma d’età di cinquantasette anni, secondo Eusebio dice in libro temporum, l’anno XXXVI. dello imperio d’Ottaviano Augusto.

Ovidio è il terzo.

Publio Ovidio Nasone fu natio della città di Sulmona in Abruzzo, siccome egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama de Tristibus, testimonia, dicendo:

Sulmo mihi patria est gelidis uberrimus undis,
Millia qui decies distai ab Urbe novem,

E secondochè Eusebio in libro temporum dice, egli [p. 254 modifica]nacque nella patria sua il secondo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella città: e dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studii della scienza. Per la qual cosa siccome esso mostra nel preallegato libro, il padre più volte si sforzò di farlo studiare in legge, siccome faceva un suo fratello, il quale era di più tempo di lui; ma traendolo la sua natura agli studii poetici, avveniva, che non che egli in legge potesse studiare, ma sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice nel detto libro:

Quidquid conabar scribere, versus erat:

della qual cosa il padre, dice, che più volte il riprese , dicendo:

Saepe pater dixit, studium quid inutile tentas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes.

Per la qual cosa eziandio contro al piacer del padre si diede tutto alla poesia; e divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria se ne venne a Roma, già imperando Ottaviano Augusto, dove singularmeute meritò la grazia e la familiaritade di lui: e per sua opera fu ascritto all’ordine equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo cavalleria: e oltre a ciò fu sommamente nell’amore de’ romani giovani. Compose costui più libri essendo in Roma, de’ quali fu il primo quello che noi chiamiamo l’Epistole: appresso ne compose uno partito in tre, il quale alcuno chiama Liber Amorum, altri il chiama Sine [p. 255 modifica]titulo, e può l’un titolo è l’altro avere, percioccliè d’alcuna altra cosa non parla, che di suoi innamoramenti, e di sue lascivie, usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna. E puossi dire similmente Sine titulo, perciocchè d’alcuna materia continuata, dalla quale si possa intitolare, non favella; ma alquanti versi d’una, e alquanti d’un’altra, e così possiam dir di pezzi, dicendo procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De Fastis, et Nefastis, cioè de’ dì ne’ quali era lecito di fare alcuna cosa, e di quelli che lecito non era; narrando in quello le feste e’ dì solenni degl’iddii de’ Romani, ed in che tempo e giorno vengano, i come appo noi fanno i nostri calendarii: e questo libro è partito in sei libri, ne’ quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che più non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece oltre a questo un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi de Arte amandi, dove egli insegna a’ giovani ed alle fanciulle amare. E oltre a questo ne fece un altro, il quale intitolò de Remedio, dove egli s’ingegna d’insegnare disamorare. E fece più altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale stilo egli valse più che alcuno altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondochè esso medesimo scrive nel libro de Tristibus, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio d’emendarlo. Appresso, qual che la cagione si fosse, venuto in indegnazione d’Ottaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua [p. 256 modifica]cosa lasciata, andare ia una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette Infìno alla morte. È questa isola nella più lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce d’un fiume de’ Colchi, il quale si chiama Phasis, E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, siccome fu quello de Tristibus, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitola in Ibin. Composevi quello che egli intitola de Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo. La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, siccome egli scrive nel libro de Tristibus, mostra fosse l’una delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:

Perdiderint me cum duo crimina carmen, et error.

La prima adunque dice che fu l’aver veduta alcuna cosa d’Ottaviano Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duole molto nel detto libro, dicendo:

Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?

Ma che cosa questa fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi

Alterius facti culpa silenda mihi est.

La seconda cagione dice che fu l’avere composto il libro de Arte amandi, il quale pareva molto dover adoperare contro a’ buoni costumi de’ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può s’ingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie d’Ottaviano, e lei esser quella [p. 257 modifica]la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano una sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente essendo già d’età di cinquantaotto anni, l’anno quarto di Tiberio Cesare, secondochè Eusebio in libro temporum scrive, nella predetta isola Tomitania finì i giorni suoi: e quivi fu seppellito. Sono nondimeno alcuni li quali mostran di credere, lui essere stato rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti Romani facendo mirabile festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine volendogli ciascun far motto e festa, che nel mezzo di sè inconsideratamente strignendolo, il costrinse a morire.

E l’ultimo è Lucano.

Il nome di costui, secondochè Eusebio in libro temporum scrive, fu M. Auneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiar . Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela, e di Filla sua moglie, il quale Anneo Mela, fu fratel carnale di Seneca Morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, siccome nel libro delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo da lui composto appare. Fu alquanto presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; perciò che si legge, che avendo egli alcuna volta con li amici conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire: che dite? mancaci cosa alcuna a essere eguale al Culice? Culice fu un libretto metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da [p. 258 modifica]comparare all’Eneida: e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso, in sì fatta maniera il disse, che egli voleva che s’intendesse, se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere eguale all’Enelda; della qual cosa esso maravigliosamente sè medesimo ingannò. Appresso fu costui, chechè cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcuno letti. Sono oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano, costui non essere da metter nel numero de’ poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, perciocchè nel collegio de’ poeti fu determinato, costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piuttosto di storiografo metrico; e questo assai leggiermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico d’Omero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il comico di Plauto e di Terenzio, o il satiro d’Orazio, o di Persio o di Giovenale, con quello de’ quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme; ma comechè si trattasse, maravigliosa eccellenza d’ingegno dimostra. Esso ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane Romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondochè Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avantichè alcun de’ congiurati nominar volesse, non [p. 259 modifica]solamente alcuno n’aspettò per non accusare sè medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere nè i tormenti nè i tormentatori, ma come domandato fu, se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò: e non solamente gli bastò di avere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre: per la qual cosa morto già Lucio Anneo Seneca suo zio, essendo a M. Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le vene; e sentendo già per lo diminuimento del sangue le parti inferiori divenir fredde, secondochè scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi già composti da lui d’uno uom d’arme, il quale per perdimento di sangue morire in quelli racconta, quelli a’ circunstanti raccontò, ed in quelli l’ultime sue parole e la vita finirono. Perocchè ciascun, di questi quattro nominati, meco si conviene, cioè si confà, o è conforme,

Nel nome che sonò la voce sola,

cioè che dice che udì,

Onorate l’altissimo poeta:

nella qual voce sola non è alcun altro nome sustantivo se non poeta: nel qual nome dice, questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi quattro è così chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; perciocchè le materie delle quali ciascun di loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia, e degli errori d’Ulisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano le guerre cittadine [p. 260 modifica]di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la venuta d’Enea in Italia, e le guerre quivi fatte da lui con Turno re de’ Rutoli:

Fannomi onore, e di ciò fanno bene.

Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quelli li quali sono d’una medesima professione, come costoro erano con Virgilio. Così, come scritto è, vidi adunar, cioè congregare, essendosì Virgilio congiunto con loro, la bella scuola. Scuola in greco viene a dire convocazione in latino; perciocché per esse son convocati coloro li quali desiderano sotto l’audienza de’ più savii apprendere: il qual vocabolo, conciosiacosachè sia alquanto discrepante da quello che l’autore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione ma i convocati, nondimeno tollerar si può licenza poetica, ed intender per la convocazione i convocati. Di que’ signor, cioè maestri e maggiori, dell’altissimo canto, cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, siccome nelle parole seguenti l’autor medesimo dice,

Che sopra ogn’altro come aquila vola.

Cioè, come l’aquila vola sopra ogn’altro uccello, così il canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogn’altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in fuori avesse fatto: il che, postochè d’alcuni, non credo di tutti si verificasse:

E poich’egli ebber ragionato alquanto:

puossi qui comprendere per l’atto seguitone, che dice si volson verso lui con salutevol cenno, che essi [p. 261 modifica]ragionassero dell’autore, domandando gli altri Virgilio, chi fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando l’autore molto, come i valenti uomini fanno, che sempre commendano coloro de’ quali parlano, se già non fossono evidentemente uomini infami, ne seguì ciò che appresso dice, cioè,

Volsonsi a me con salutevol cenno:
E ’l mio maestro sorrise di tanto.

Cioè rallegrossi, come colui al quale dilettava, uomini di tanta autorità aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso commendato avea. È nondimen qui da considerare la parola che dice, sorrise, la qual molti prenderebbono, non per essersi rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da credere, perciocchè l’autore non l’avrebbe scritto, nè è verisimile il dottore farsi beffe de’ suoi uditori, conciosiacosachè nell’ingegno de’ buoni uditori consista gran parte dell’onor del dottore; ma senza alcun dubbio pose l’autore quella parola sorrise avvedutamente, e la ragione può esser questa. È il riso solamente all’umana spezie conceduto: alcuno altro animale non è che rida: e questo mostra aver la natura voluto, acciocchè l’uomo non solamente parlando, ma ancora per quello mostri l’intrinseca qualità del cuore, la letizia del quale prestamente, molto più che per le parole, si dimostra per lo riso. È il vero che questo riso, non in una medesima maniera l’usano gli stolti che fanno i savii; perciocchè i poco avveduti uomini fanno le più delle volte un riso grasso, [p. 262 modifica]il quale rende la faccia deforme, e fa lagrimar gli occhi, e ampliar la gola, e doler gli emuntori del cerebro e le parti interiori del corpo vicine al polmone, e questo non è laudevole mai. I savii non ridono a questo modo, anzi quando odono o veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia più bella assai, che non è senza quello. Perchè assai ben comprender si puote, l’autore aver detto, Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni, che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa scherniscono, o talvolta sdegnando si turbano. Questo non è da dir sorridere, anzi ghignare: e procede non da letizia, ma da malizia d’animo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci dispiace.

E più d’onore ancora assai mi fenno,

cioè feciono, non essendo contenti solamente ad averlo salutato: e l’onor che gli fecero fu questo,

Che e’ mi fecer della loro schiera,

cioè mi dichiararon fra loro esser poeta: e questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno che cosa sia poesia, siccome uomini che ia quella sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore:

Sì, ch’io fui sesto tra cotanto senno,

cioè tra’ cinque altri così notabili poeti, io mi trovai essere stato sesto in numero in sofficienza: non dice Poeta, perocchè sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa [p. 263 modifica]parola l’autor di iattanza, dicendo ad alcuno non star bene nè esser dicevole il commendar sè medesimo: la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di sè medesimo la verità, alcuna volta sarebbe dannoso: e perciò par di necessità il commendarsi d’alcuno suo laudevole merito alcuna fiata. E questo n’è assai dichiarato per Virgilio nel primo dell’Eneida, laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

Sum pius Æeas fama super aethera notus.

Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento, e intanto essere stato Enea in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo non è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo? Che considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessità rispondendo di commendar sè medesimo; perciocchè se di sè quivi avesse taciuta la verità, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno siccome naufrago della sovvenzione de’ paesani: il quale non è dubbio niuno, che avendo di sè medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama conosciuto, avrebbe molto piuttosto trovato che se questo avesse taciuto. E acciocchè a provare questa verità aiutino i divini esempli, mi place di producere in mezzo quello che [p. 264 modifica]noi nello Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dì della sua ultima cena in terra lavati i piedi a’ discepoli, tra l’altre cose da lui dette loro in loro ammaestramento, disse queste parole: Voi mi chiamate maestro e signore e fate bene, perciocchè io sono. Direm noi di questo Cristo aver peccato? O contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, perciocchè nè in questo, nè in altra cosa, peccò giammai colui che era toglitore de’ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre: anzi così questo, come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece; perciocchè se così fatto non avesse, non avrebbe dato l’esemplo dell’umiltà a’ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro maestro e signore, come il chiamavano: il che assai si vede per le parole seguenti dove dice: e se io, il quale voi chiamate maestro e signore, e così sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi; così dovrete voi l’uno all’altro lavare i piedi: io v ho dato l’esemplo: come io ho fatto a voi, e così similmente fate voi, ec. Adunque è talvolta di necessità di parlar bene di sè medesimo, senza incorrere nel disonesto peccato della iattanza, e così si può dire che qui facesse l’autore. Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse l’autore d’alcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da lui, la qual molto pende dall’autorità d’esso. E perciò qui l’autore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere [p. 265 modifica]dello stato dell’anime dopo la morte temporale, accioccliè prestata gli sia fede, di necessità confessa qui esser da’ poeti dichiarato poeta.

Così andammo infino alla lumiera.

Questa è la terza parte della seconda principale, nella quale esso dice, come con quelli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifici spiriti, e di quelli alquanti nomina. Dice adunque, Così andammo, questi cinque poeti ed io, infino alla lumiera, cioè insino al luogo dimostrato di sopra, dove disse sè aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio di tenebre. Parlando, insieme, cose, che il tacere è bello, cioè onesto, Così come, era bello, il parlar, di quelle cose, colà dov’era. Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano d’indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savii, il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercare che ciò si fosse, poichè l’autore il volle tacere?

Venimmo a piè d’un nobile castello,

cioè nobilmente edificato,

Sette volte cerchiato d’alte mura,

Difeso intorno, cioè circundato, d’un bel fiumicello. Questo, fiumicello, passammo come terra dura, cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse. Per sette porti, le quali il castello avea, come sette cerchi di mura, entrai con questi savj, predetti: Venimmo, passate le sette porti, in prato di fresca verdura. Allegoricamente è da intendere il castello e la verdura, perciocchè nè edificio alcun v’è, nè alcuna erba può nascere nel ventre della terra, [p. 266 modifica]dove nè sole nè aere puote entrare. Genti v’aveva: venuti al luogo dove i famosi sono, discrive l’autor primieramente alcuno de lor costumi e modi, per li quali comprender si puote, loro esser persone di grande autorità: e appresso ne nomina una parte. Dice adunque: Genti v’eran, in quel luogo, con occhi tardi, e gravi. Dimostrasi molto nel muover degli occhi delle qualità dell’animo, perciocchè coloro li quali muovono la luce dell’occhio soavamente o con tardità, o con le palpebre quasi gravi in parte gli cuoprono, dimostrano l’animo loro esser pesato ne’ consigli, e non corrente nelle diliberazioni:

Di grande autorità ne’ lor sembianti,

in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levità: Parlavan rado, perciocchè nel molto parlare, se necessità non richiede, e ancora nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravità, con voci soavi; perciocchè il gridare, e l’elevar la voce soperchio si manifesta piuttosto abbondanza di caldezza di cuore che modestia d’animo:

Traemmoci così dall’un de’ canti,

cioè dall’una delle parti di quel luogo: e son prese queste parole dell’autore da Virgilio nel sesto dell’Eneida, ove dice:

Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
Et tumulum capit,unde omnes longo ordine possit
Adversos legere, et venientum discere vultus, etc.

In luogo aperto, cioè senza alcuno ostacolo, luminoso, e alto; perciocchè del pari non si può vedere ogni cosa, [p. 267 modifica]

Sì che veder si potean tutti quanti,

quelli li quali quivi erano,

Colà diritto, sopra ’l verde smalto,

cioè sopra il verde pavimento: il quale dice verde, perciocchè di sopra ha detto,

Venimmo in prato di fresca verdura,

perchè appare che il luogo era erboso: la qual cosa come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo; e perciò si può comprendere, lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerà. Mi fur mostrati, da quelli cinque poeti, gli spiriti magni, cioè gli spiriti di coloro, li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi: Che del vedere, così eccellenti spiriti, in me stesso n’esalto, cioè me ne reputo in me medesimo esser maggiore. I’ vidi Elettra. Elettra, questa, della quale qui si dee credere che l’autore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so; perciocchè di due si legge che furono, de’ quali l’uno è questi, e più famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale dal mare Oceano atalantiaco andando verso levante persevera molte giornate. L’altro fu Greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi oltre a questi esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano, ed edificatore della città di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno diversi che credono lui essere stato il padre d’Elettra, nè altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del [p. 268 modifica]luogo dove maritata fu, cioè in Corito, città ovverò castello, non guari lontano a Roma. Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole de’ poeti, perciocchè nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro: delle quali scrive Ovidio nel suo De Fastis, così:

Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
     Quae septem diei, sex tamen esse solent:
Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
     Nam Steropen Marti concuhuisse ferunt:
Neptuno Halyonen, et te formosa Celaeno:
     Majan, et Eletean, Tajgetenque Jovi:
Septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
     Poenitet; et facti sola pudore latet.
Sive quod Electra Trojae spectare ruinas
     Non tulit: ante oculos opposuitque manum.

Secondo gli astrologi l’una di queste sette stelle è nebulosa, e però come l’altre non apparisce. Chiamanle queste stelle i Latini Virgilie. Anselmo in libro De Imagine mundi, dice, che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantità; perciocchè plion in greco, viene a dire moltitudine in latino, Virgilie son chiamate, perciocchè in quelli tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè all’entrata di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola; perciocchè essendo simili in numero alle predette sette stelle, furono cominciate [p. 269 modifica]a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e perseverando eziandio dopo la morte loro questo numero, furono dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. L’avere nutricato Bacco, può esser preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umidità riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dì sono faticate, avendo patito mancamento d’umido. Che esse abbiano nutrito Giove, si dice per questa cagione: Giove alcuna volta s’intende per lo elemento del fuoco e dell’aere, e se nell’aere umidità non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse, l’aere non potrebbe i suoi effetti adoperare, si sarebbe affocata: adunque l’umidità di queste stelle, che è molta, è cagione di questa sustentazione, e per conseguente di nutrimento. E fu costei moglie di Corito re della sopraddetta città di Corito, la quale estimo da lui nominata fosse. E sono di quelli che vogliono, questo Corito essere quella terra la quale noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione forse agevolmente s’adatterebbe il nome, perciocchè aggiunta una n al nome di Corito, farà Cornito: e queste addizioni, e diminuizioni, e permutazioni di lettere essere ne’ nomi antichi fatte sovente si trovano. Essendo adunque costei, come detto è, di Corito re, gli partorì tre figliuoli, Cardano, e Jasio e Italo; nè altro di lei mi ricorda aver letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno di quelli che si maraviglieranno, perchè tra gli spiriti magni non solamente dall’autor posta sia, ma ancora perchè la prima nominata, della qual cosa [p. 270 modifica]può essere la ragion questa. Volle, per quello che io estimo, l’autore porre qui il fondamento primo della troiana progenie, e per conseguente de’ discendenti d’Enea, e della famiglia de’ Julii, le quali, o vogliam dir la quale, più che alcuna altra è stata reputata splendida per nobiltà di sangue, e oltre a questo, quella che in più secoli è perseverata ne’ suoi successori: perciocchè, come assai manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo per dritta linea si pervenne da Dardano figliuolo d’Elettra ad Anchise, e da Anchise per diciassette o forse diciotto si pervenne in Numitore padre d’Ilia, madre di Romolo, edificatore di Roma: e per Giulio Proculo, figliuolo d’Agrippa Silvio, che de’ discendenti d’Enea fu, si fondò in Roma la famiglia Julia: parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Nerone Cesare: e d’altra parte, secondochè alcuni si fanno a credere, essendo per più mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che dopo il disfacimento d’Ilione, certi figliuoli di Ettore essersene andati in Tracia, e quivi aver fatta una città chiamata Sicambria: e de’ lor discendenti dopo lungo tempo esserne andati su per lo Danubio e pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide da’ Galli: e appresso dopo più centinaia d’anni, dietro a due giovani reali di quella schiatta discesi, de’ quali l’un dicono essere stato chiamato Francone, e l’altro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data origine e principio alla progenie de’ reali di Francia: e così infino a’ nostri dì voglion dire che pervenuta sia. Ma potrebbe nondimeno [p. 271 modifica]dire alcuno, se l’autore voleva il principio di così nobile e così antica schiatta porre, perchè non poneva egli Corito il marito di questa Elettra? A che si può così rispondere: perchè, conciosiacosachè di questa origine fosse Dardano figliuolo d’Elettra cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però non avendo questo certo, volle porre l’autore inizio di questa progenie colei, di cui era certo Dardano essere stato figliuolo, E il credere che Dardano fosse figliuolo di Giove nacque da questo, che essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e Jasio, avvenne che Dardano uccise Jasio: di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo suo, e da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie pervenne in Frigia, provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento ricevuto, fece una città la quale nominò Dardania: a’ suoi cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e ginstissimo, estimarono quegli cotali, lui non essere stato figliuolo d’uomo ma di Giove: e questo, perciocchè le sue operazioni erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. E regnò questo Dardano, secondochè scrive Eusebio in libro temporum, a’ tempi di Moisè, regnando in Argo Steleno: e in Frigia pervenne l’anno del mondo tremilasettecentotrentasette. Cosi adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertì in dubbio, e però non il padre [p. 272 modifica]ma la madre, come detto è, pose in questo luogo primiera: con molti compagni. Questi estimo erano discesi di lei, tra’ quali ne furono alquanti, più che gli altri famosi e laudevoli uomini: de’ quali compagni ne nomina l’autore alcuno dicendo: Tra’ quai conobbi, per fama, Ettorre, figliuolo di Priamo re di Troia, e d’Ecuba, Costui si crede che fosse in fatti d’arme e forza corporale tra tutti i mortali maravigliosissìmo uomo, e così appare nella Iliada d’Omero per tutto: ultimamente avendo molte vittorie avute de’ Greci, avvenne che avendo Achille, ad istanza de’ preghi di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patroclo suo siugulare amico, che egli per un dì si vestisse l’armi sue; e Patroclo con esse in dosso essendo disceso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo l’uccise, e spogliógli quelle armi; e quasi d’Achille trionfando se ne tornò con esse nella città. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combattè, e ultimamente vintolo l’uccise: e tanto potò in lui l’odio il quale gli portava per la morte di Patroclo, che spogliatogli l’armi, e legato il morto corpo dietro al carro suo, tre volte intorno intorno alla città lo strascinò: e quindi alla tenda sua ritornato il guardò dodici dì senza sepoltura, infino a tanto che Priamo, di notte e nascosamente, venuto alla sua tenda, quello grandissimo tesoro e molte care gioie [p. 273 modifica]ricomperò: e portatonelo nella città, con molte sue lacrime, e degli altri suoi, e di tutti i Troiani, onorevolmente il seppellì; ed Enea. Questi fu figliuolo, secondochè i poeti scrivono, d’Anchise Troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano ad Ilion: al quale poi Priamo re di Troia, splendidissimo signore, diede Creusa sua figliuola per moglie, e di lei ebbe uno figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando egli rapì Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse: nonpertanto valorosamente contro a’ Greci combattè molte volte per la salute della patria, e tra l’altre si mise una volta a combattere con Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli ambasciadori greci: per le quali cose essendo Ilion preso da’ Greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi con quella quantità d’uomini che gli piacesse del paese di Troia partirsi, e andare dove più gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quelli Troiani alli quali piacque di venir con lui, e similmente il padre di lui ed il figliuolo, e secondochè ad alcun place uccisa Creusa, lasciato il troian lito, primieramente trapassò in Tracia, e quivi fece una città, la quale del suo nome nominò Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato, e onorato di sacrifici come iddio, siccome Tito Livio nel decimo libro scrive: e quindi poi sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia [p. 274 modifica]aveva ucciso Polidoro figliuolo di Priamo, si partì, e andonne con la sua compagnia in Creti: donde costretto da pestilenza del cielo si partì, e venuene in Cilicia, dove Anchise morì appo la città di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato co’ suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una città da lui fatta chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondochè Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone reina di(Cartagine fu ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo già sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato, quivi per arte negromantica, appo il lago d’Averno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far dovesse consiglio: e quindi partitosi, laddove è oggi la città di Gaeta perdè la nutrice sua, il cui nome era Gaeta: e sopra le sue ossa fondò quella città, e dal nome di lei la dinominò: e quindi venuto nella foce del Tevere, ed essendogli, secondochè dice Servio, venuto meno il lume d’una stella, la quale dice essere stata Venere, estimò dovere esser quivi il fine del suo cammino: ed entrato nella foce, e su per lo fiume salito con le sue navi, laddove è oggi Roma, fu da Evandro re ricevuto e onorato: e in compagnia di lui essendo, da Latino re de’ Laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno re de’ Rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte battaglie vi furono: e [p. 275 modifica]secondochè scrive Virgilio, egli uccise Turno; ma alcuni altri sentono altrimenti. Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio, che Caton dice, che andando in compagnia d’Enea predando appo Lauro Lavinio, s’incominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono, che avendo Enea avuta vittoria de’ Rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume, e in quello annegò, nè mai si potè il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca Virgilio nel IV. dell’Eneida, dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:

At bello audacis populi vexatus, et armis,
Finibus extorris, complexu avolsus Juli
Auxilium imploret, videatque indigna suorum
Funera: nec, cum se sub leges pacis iniquae
Tradiderit, regno, aut optata luce fruatur:
Sed cadet ante diem, mediaq; inhumatus arena,
Haec precor, etc.

E Virgilio medesimo mostra, lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo dell’Eneida finge, che Giunone sollecitata da Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma d’Enea: e seguitata da Turno, fugge alle navi d’Enea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga d’Enea, e che quivi morto esso cadesse nel fiume: ma comechè egli morisse, fu da quelli della contrada deificato, e chiamato Giove [p. 276 modifica]indigete. Cesare armato. Caio Giulio Cesare fu figliuolo di Lucio Giulio Cesare, disceso d’Enea, come di sopra è dimostrato, e d’Aurelia, discesa della schiatta d’Anco Marco re de’ Romani: nè fu, come si dice, denominato Cesare, perciocchè del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il tempo del sue nascimento; perciocchè come Svetonio in libro XII. Caesarum dice, quando egli uscì candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele, io non tornerò a te, se non pontefice massimo: e così fu, che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, perciocchè ad un de’ suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello Iato de’ Giulii che di lui dicessero, tutti furono cognominati Cesari. Fu adunque, e per padre e per madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenza fece in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare ammaestra tissimo: e gli onorevoli uficii di Roma tutti ebbe ed esercitò; e tra gli altri due consolati, li quali esso quivi governò. Ma essendo egli questore, ed essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore: ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel tempio d’Ercole avendo veduta la statua d’Alessandro Macedonio, seco si dolse dicendo, Alessandro già in quella età nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi: ed esso da cattività e da pigrizia occupato, non avere [p. 277 modifica]alcuna cosa memorabile fatta: e quinci si crede, luì aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò; e con astuzia e con sollecitudine sempre s’ingegnò d’esser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande d’amici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con que’ popoli: e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combattè e vinsegli: e similmente trapassato in Inghilterra, dopo più battaglie gli soggiogò: e quindi tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo gli fu negalo l’un de’ due; per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito s’era, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro: e rotte le forze sue in Tessaglia il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo re d’Egitto gli fu presentata la testa: e quivi fatte con gli Egiziachi certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto s’era, concedette il reame, quasi in guiderdone dello adulterio commesso. Quindi n’andò in Ponto, e sconfìtto Farnace re di Ponto si volse in Affrica, dove Giuba re di Numidia, e Scipione suocero di Pompeo vinti, trapassò in Ispagna contra a Gneo Pompeo figliuolo di Pompeo Magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso e’ suoi contro a’ Pompeani, e’ fu in tanto pericolo, che esso di voler morire, di quale spezie di morte si volesse uccidere pensava; respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in [p. 278 modifica]Roma, dove trionfò de’ Galli e degli Egiziaci, e di Farnace in tre diversi dì. Scrive Plinio in libro de naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro Romano non avvenne d’essere in tante: solo Marco Marcello, secondochè Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le più fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, nè fuorchè in una, si trovò esser prudente: e di questo potè esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria in diverse parti combattendo, essere stati uccisi de’ nemici dalla sua gente un milione e cento novanta due migliaia d’uomini: nè si pongono in questo numero quelli che uccisi furono nelle guerre nè nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo e’ suoi seguaci furono; per la qual cosa meritamente dice l’autore, Cesare armato. Fu oltre a ciò costui grandissimo oratore, siccome Tullio, quantunque suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervor della guerra cittadina aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fa grandissimo perdonatore delle ingiurie, intantochè non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti senza addomandar, di sua spontanea volontà perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie in opere ed in parole fattegli. Fu lussurioso molto; perciocchè, secondochè scrive Svetonio, egli [p. 279 modifica]nella sua concupiscenza trasse più nobili femmine romane, siccome Postumia di Servio Sulspizio, Lollia d’Aulo Gabbinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma oltre a tutte l’altre, amò Servilia madre di Marco Bruto, la figliuola della quale chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora l’amicizie d’alcune altre forestiere, siccome quella della figliuola di Nicomede re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re de’ Mauri, e Cleopatra regina d’Egitto e altre. Nè furon questi suoi adulterii taciuti in parte da’ suoi militi trionfando egli, perciocchè nel trionfo gallico fu da molti cantato: Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare; ed altri dicevano: ecco Cesare, che al presente trionfa di Gallia, e Nicomede non trionfa, che si sottomise Cesare. Ed oltre a questo, in questo medesimo trionfo fu detto da molti Romani: guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero. E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole: tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui l’hai preso in prestanza. Costui adunque tornato in Roma, ed avendo trionfato, occupò la repubblica, e fecesi fare contro alle leggi romane dittatore perpetuo: dove secondo le leggi non si poteva più oltre che sei mesi stendere l’uficio del dittatore. Ed appartenendo all’autorità del senato il conceder l’uso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, acciocchè con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro, dinanzi. Ed in questa dignità perseverando, ed essendo a molti de’ senatori gravissimo, [p. 280 modifica]intanto che gran parte del senato avea contro a luì congiurato, si riscaldò nel desiderio, lungamente portato, d’esser re; per la qual cosa essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con più legioni romane ucciso da’ Parti ferocissimi popoli, subornò Lucio Gotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, trovarsi li Parti non poter esser vinti nè soggiogati, se non da re; e però convenirsi, che Cesare si facesse re; La qual cosa parve gravissima a’ senatori ad udire: e comechè essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un’avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano forse ragionato: e perciò gl’idi di marzo, cioè di quindici di marzo, Giulio Cesare sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte, ritenere, nè ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguì, in su la quinta ora del dì uscito di casa ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dì era ragunato il senato: dove non dopo lunga dimora fu da Gaio Cassio, e da Marco Bruto, e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da più altri senatori assalito, e ferito di ventitrè punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi come meglio potè i panni dinanzi, acciocchè disonestamente non cadesse, senza fare alcun rumore di voce o di pianto cadde: ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le plaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da [p. 281 modifica]Marco Bruto ricevette. Appresso fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano rostri, glie ne fu fatto secondo l’antico costume un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso, e le ceneri raccolte, e diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di san Piero in Roma, la quale il vulgo chiama Aguglia, comechè il suo vero nome sia Giulia: con gli occhi grifagni. Non mi ricorda aver letta la qualità degli occhi di Giulio Cesare; ma perciocchè gli occhi grifagni, se da grifone viene questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza d’animo dovere essere in colui che gli ha: e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo l’autore, o colui da cui l’ebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri, Cesare dovergli così avere avuti fatti ragionevolmente. Vidi Cammilla. Chi costei fosse, distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui l’autore per la sua virginità, e per la sua costante perseveranza in quella: e oltre a ciò per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò, e mori: e la Pantasilea.

La Pantasilea fu reina dell’Amazzone, cioè di quelle donne, le quali senza volere o compagnia o signoria d’uomini, per sè medesime in Asia, allato [p. 282 modifica]al Mar maggiore, sotto più reine lungo tempo signoreggiarono parte d’Asia, e talora d’Europa. La origine delle quali fu questa, secondochè Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi ne’ tempi di Nino re d’Assiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era tra’ nobili uomini di Scizia, grandissima quantità di giovani Scizii, avendone seco menata insieme con le lor mogli e figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero: e quivi occupati i campi chiamati Ciri, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare, e spogliare, ed infestare i vicini popoli da torno, avvenne che per occulto trattato de’ popoli, noiati dà loro, essi furono quasi tutti uccisi. Le mogli de’quali veggendo essere aggiunto al loro esilio l’esser private de’ mariti, preson l’armi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quelli cacciarono dal lor terreno: e oltre a ciò continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi congiugnendosi per matrimonio co’ popoli circunstanti, posero giù alquanto la ferocità dell’animo; ma poi ripresala, e intra sè ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, a’ quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piuttosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa diliberarono di fare, e fecero, cosa mai più non udita, e questa fu, che tutti quelli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono: e quasi resurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro [p. 283 modifica]mariti, nella morte degli altri da torno tutte d’uno animo cospirarono: e per forza d’arme, con quelli che rimasi erano, avuta pace, acciocchè per non aver figliuoli non perisse la loro gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere co’ vicini uomini, e come gravide si sentivano si tornavano a casa: e quelli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano, e con diligenza allevavano: le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, o ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare, ed in fatica continua l’esercitavano. E acciocchè esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizii delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva, che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si seccava, e così poi venendo in più matura età, non v’ingrossava la poppa. E da questa privazione dell’una delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè Amazzone, il quale tanto vuol dire, quanto senza poppa. E così perseverando più tempo, quando sotto una reina, e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. Ed essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna, e governò bene il suo regno: ed avendo udito il valor di Ettorre, figliuolo del re Priamo, [p. 284 modifica]desiderò d’avere alcuna figliuola di lui. E per cattare l’amore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro a’ Greci venne in aiuto de’ Troiani; ma non potè quello che desiderava adempiere, perciocchè trovò, quando giunse, Ettorre esser già morto; ma nondimeno mirabilmente più volte per la salute di Troia combattè; al fine combattendo fu uccisa. E secondochè alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella che da lei fu trovata aveva due tagli, dove le nostre n’hanno un solo. Dall’altra parte, forse a rincontro a’ nominati, vidi il re Latino.

Latino fu re de’ Laurenti, e figliuolo di Fauno re de’ discendenti di Saturno, e d’una ninfa Laurente, chiamata Marica, siccome Virgilio nell’Eneida dice:

— — — — Rex arva Latinus, et urbes
Jani senior longa placidas in pace regebat'.
Hunc Fauno, et Nympha genitum Laurente Marica Accipimus.

Ma Giustino non dice così; anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che tornando Ercole di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E così non di Fauno, ma d’Ercole sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio sopra Virgilio dice, che secondo Esiodo in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo d’Ulisse e di Circe, la quale alcuni chiamarono Marica; e però dice il detto [p. 285 modifica]Servio, Virgilio aver dello di lui, cioè di Latino, Solis avi specimen; perciocchè Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (perciocchè la ragione de’ tempi non procede, perciocchè Latino era già vecchio quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Igino dice, cioè essere stati più Latini. Oltre a questo, così come del padre di Latino sono opinioni varie, così similmente sono gli antichi scrittori scordanti della madre; perciocchè Servio dice, Marica essere dea del lito de’ Minturnesi, allato al fiume chiamato Liro; laonde Orazio dice:

Et innantem Maricae
Littoribus tenuisse Lirim:

e però se noi vorrem dir, Marica essere stata moglie di Fauno, non procederà; perciocchè gl’ iddii locali, secondo l’erronea opinione degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono, Marica esser Venere, perciocchè ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto Pontina Venere. Ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state più Marihe. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re de’ Laurenti, ne’ tempi che Troia fu disfatta: ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno re d’Ardea, e zia di Turno, siccome per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive de origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola d’Evandro re, fu sua moglie. Costui, secondochè vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia; ed avendo avuto un responso da quelli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale doveva mirabile succession nascere, desse [p. 286 modifica]Lavina sua figliuola per moglie, avendola già promessa a Turno, la diede ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondochè dice Servio, questo Latino morì quasi nella prima battaglia.

Che con Lavina sua figlia sedea.

Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e d’Amata, e moglie d’Enea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggì in una selva; e appo un pastore, secondochè dice Servio, chiamato Tiro dimorò nascosamente: e partorì al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, perciocchè nato era dopo la morte del padre nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli già fatta la città di Alba, ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in età da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro temporum dice, che costei dopo la morte d’Enea si rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato Latino Silvio: nè più di lei mi ricorda aver trovato.

Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquinio:

Bruto fu per lignaggio nobile uomo di Roma, perciocchè egli fu d’una famiglia chiamata i Giunii, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto: e la madre di lui fu sorella di Tarquinio superbo, re de’ Romani. E perciocchè egli vedeva Tarquinio incrudelire [p. 287 modifica]contro a’ congiunti, temendo di sè, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e così visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, acciocchè facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benevolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltà del zio. E perciocchè poco nettamente viveva, fu cognominato Bruto: il quale per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sè i figliuoli di Tarquinio. Ora avvenne, che essendo Tarquinio superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri loro compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle loro mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtù e in costumi preponeva la sua a tutte l’altre femmine: e non finendosi la quistione per parole, presero per partito d’andare alle lor case con questi patti, che quale delle lor donne trovassero in più laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendare più che alcuna altra. E così montati a cavallo, subitamente fecero: e pervenuti a Roma, trovano le nuore del re, ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti d’arme e a campo: e di quindi n’andarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia: e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare, e far quello che a buona donna e valente s’apparteneva di fare; perchè fu reputato che costei fosse più da lodare che alcuna dell’altre, e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi [p. 288 modifica]giovani Sesto Tarquinio, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia, e seco medesimo commendatola molto, entratagli nell’anima la bellezza e l’onestà di lei, seco medesimo dispose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti di, senza farne sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizion della casa, la notte, come silenzio sentì per tutto, estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente n’andò dove Lucrezia dormiva: e postale la mano in sul petto disse: io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo: se tu farai molto alcuno, pensa che io t’ucciderò di presente. Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir voleva, le disse: se tu non farai il piacer mio, io l’ucciderò, e appresso di te ucciderò uno de’ tuoi servi, e a tutti dirò che io t’abbia uccisa, perciocchè col tuo servo in adulterio t’abbia trovata. Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggiermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, nè sarebbe chi la sua innocenza difendesse; e però quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentì. Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea: e essa piena di dolore e d’amaritudine, come il giorno apparì, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino suo padre, e Collatino suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola così dolorosa nell’aspetto, la domandò [p. 289 modifica]Collatino: che è questo Lucrezia? Non sono assai salve le cose nostre? A cui Lucrezia rispose: che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? Nel tuo letto è orma d’altro uomo che di te. E quinci aperse distesamente, ciò che per Sesto Tarquinio era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dell’accidente forte turbati fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo, la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia ferma nel suo proposito, trattosi di sotto a’ vestimenti un coltello, disse: questa colpa in quanto a me appartiene, non trapasserà impunita: nè alcuna mai sarà, che per esempio di Lucrezia diventi impudica. E detto questo, e posto il petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere: e così senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morì. Tricipitino, e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo più nascondere l’indegnità del fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando l’iniquità di Sesto Tarquinio, e di molte altre ingiurie accusando il re e’ figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata de’ Collazii n’andò a Roma, lasciando che l’un de’ due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquità: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava piangendo e dolendosi convocava la moltitudine a compassione della innocente donna, e ad odio de’ Tarquinii. Per la qual cosa furono [p. 290 modifica]incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e de’ figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Tarquinio, e tutti, lasciato il re e’ figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontà con gli altri divenuti, al re Tarquinio, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignità e la signoria del re: sì veramente che più d’uno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu l’uno Bruto, e l’altro Collatino. E sentendo in processo di tempo Bruto, due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re e’ figliuoli in Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con le scure, e così morire. Cotanto adunque mostrò essergli cara la libertà racquistata. Ma poi avendo Tarquinio invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e d’altra gente d’arme, ad assediare Roma venne, incontro al quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli: ed essendosi tra’ due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, l’uno de’ figliuoli di Tarquinio, combattendo vide Bruto; perchè lasciata la battaglia degli altri gridò: questi è colui che m’ha del regno cacciato: e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea più forte n’andò verso lui: il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso [p. 291 modifica]lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti caddero del cavallo. E poi avendo i Romani avuta vittoria de’ nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto: laddove egli da tutte le donne di Roma, siccome padre, e recuperatore della loro libertà, e vendicatore e guardatore della loro pudicizia, fu amarissimamente pianto: e poi secondo l’uso di que’ tempi onorevolmente fu seppellito. Lucrezia, di questa donna è narrata la storia. Marzia.

Marzia non so di che famiglia romana si fosse, nè alcune storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di lei; par nondimeno per antica fama tenersi, lei essere stata onesta e venerabile donna: e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia, lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due di Catone Uticense: il quale avendola la prima volta menata a casa, generò in lei tre figliuoli: poi dispostosi del tutto di volere nel futuro servar vita celibe, e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondochè alcuni dicono, gliele disse: e oltre a ciò immaginando, non dovere per l’età essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo, per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio: a quale non so, che più ne furono; e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su l’aurora, picchiò all’uscio di Catone, ed entrata da lui, il pregò che gli piacesse [p. 292 modifica]di doverla ritorre per moglie, e che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro, che solamente il nome d’esser moglie di Catone, e sotto l’ombra di questo tìtolo vivere, e quando alla morte venisse, morire moglie di Catone. Alli cui preghi Catone condiscese; e con quella condizione ritoltala, senza alcuna altra solennità osservare, e mentre visse, servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per suo marito: Giulia.

Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di Cinna, già quattro volte stata consolo; la quale lasciata Consuzia, che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che essendo delle comìzie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo suo marito rispersi di sangue (il che, secondochè alcuni scrivono era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli l’animale che sacrificar dovea, già ferito, delle mani scappato, e così del suo sangue macchiatolo) come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna violenza fosse a Pompeo stata fatta subitamente cadde, e da grave dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figlluolo che nel ventre avea, e quindi morirsi. E Corniglia. Il vero nome di costei fu Cornelia: ma sforzato l’autore dalla consonanza de’ futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina Corniglia.

Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia de’ Cornilii, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con Giuba re de’ Numidii, seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare [p. 293 modifica]sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso da’ Parti, e a cui fu l’oro fonduto messo giù per la gola: e poi come Lucio morì, divenne moglie di Pompeo Magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicità, ma veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era stata, ne’ pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondochè Lucano manifesta, con lui dell’isola di Lesbo partitasi n’andò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse non so; ma d’intera fede e di laudabile amore puote debitamente esser pregiata.

E solo in parte vidi ’l Saladino.

Il Saladino fu soldano di Babilonia, uomo di nazione assai umile, per quello mi paia avere per addietro sentito; ma di grande e altissimo animo, e ammaestratissimo in fatti di guerra, siccome in più sue operazion dimostrò. Fu vago di vedere e di cognoscere li gran principi del mondo, e di sapere i loro costumi; nè in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intra’ cristiani, li quali per la Terra santa da lui occupata gli erano capitali nemici. E fu per setta de’ seguaci di Maometto, quantunque per quello che alcuni voglion dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e [p. 294 modifica]delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore: e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E perciocchè egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono, e che appresso si nomineranno, estimo che in parte starsi solo il descriva l’autore.

Poich’io alzai un poco più le ciglia,

cioè gli occhi per vedere più avanti, Vidi il Maestro, cioè Aristotile, di color, che sanno, Seder, cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, tra fìlosofica famiglia.

Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco medico d’Aminta re di Macedonia, e poi di Filippo suo figliuolo e padre d’Alessandro; la madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide: vogliono alcuni esser discesi di Mataone e d’Asclepiade, discendenti d’Esculapio: il quale gli antichi, perciocchè grandissimo medico fu, dicono essere stato figliuolo d’Apollo, iddio della medicina: e dicono alcuni lui essere stato d’una citta chiamata Stagira, la quale se io ho bene a memoria, o già ho letto o udito, che è non in Macedonia ma in Trazia: le quali due provincie è vero che insieme confinano, perchè essendo in su i confini la città, forse agevolmente s’è potuto errare a dinominarla più dell’una provincia che dell’altra. Fu costui primieramente, dopo l’avere apprese le liberali arti, ammaestrato ne’ libri poetici: e credesi che il primo libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto ovvero comento sopra li due maggior libri d’Omero, e che [p. 295 modifica]per questo ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udì tre anni sotto Socrate, in que’ tempi famosissimo filosofo: e lui morto, s’accostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne: e sotto lui udì nel torno di venti anni; perchè si per l’eccellenza del dottore, e sì ancora per lo perseverato studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che andando alcuna volta Platone alla sua casa, e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse: l’intelletto non c’è, sordo è l’auditorio. Visse appresso la morte di Platone suo maestro anni ventitrè, de’ quali parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuì Asia, e parte di quelli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente, prima in altissimo colmo recò, e ad istruzione5 di quella scrisse più volumi. Scrisse similmente in rettorica: nè meno in quella apparve facondo6, che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti morali, ciò che vedere se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi, etica, politica ed economica; nè delle cose naturali alcuna lasciò indiscussa, siccome in molti suoi libri appare: e oltre a ciò passò a quelle che sono sopra natura, con profondissimo intendimento, siccome nella sua metafisica appare: e brevemente egli fu il principio e ’l fondamento di quella setta di filosofi, i quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello [p. 296 modifica]che alcuni si sforzano d’apporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone: la qual cosa credo, volendo non averebbe potuta fare, in tanto pregio e grazia degli Ateniesi fu Platone, e la sua memoria e li suoi libri: li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o almeno i più notabili, scritti in lettera e gramatica greca in un grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo filosofo lungo tempo sotto il velamento d’una nuvola d’invidia di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini la scienza di Platone: nè è assai certo, se a venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima rotta la nuvola, fece apparir la sua luce, e venirla in pregio intantochè oggi, quasi altra filosofia che la sua non è dagl’intendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo all’età di sessantatrè anni finio la vita sua: e secondochè alcuni dicono, per infermità di stomaco. Tutti lo miran, per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che a’ nostri dì in filosofia studiano: tutti onor gli fanno, siccome a maestro e maggior di tutti. Quivi vid’io, appresso d’Aristotile, e Socrate:

Socrate originalmente si crede fosse Ateniese, ma di bassissima condizione di parenti disceso: perciocchè, siccome scrive Valerio Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica di pazienza, il padre suo fu [p. 297 modifica]chiamato Sofonisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne ne’ parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondochè dice Papia, alquanto tempo s’esercitò nell’arte del padre: poi lasciata l’arte paterna, divenne discepolo d’una femmina chiamata Diotima, secondochè si legge nel libro De Vitis Philosophorum. Ma santo Agostino nel libro VIII. De Civitate Dei, scrive che egli fu uditore d’Archelao, il quale era stato auditore di Anassagora. E poichè alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto degl’intrinseci effetti della natura, in più parti del mondo gli ammaestramenti de’ più savii andò cercando, secondochè scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni Tusculane: e in tanta sublimità di scienza pervenne, che egli, secondochè scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oraculo dell’umana sapienza. E secondochè mostra di tenere Apulegio, e similmente Calcidio sopra il primo libro del Timeo di Platone e come Agostino nel libro VIII, della Città di Dio, egli ebbe seco infìno dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama iddio di Socrate in un libro che di ciò compose: il quale molte cose gl’insegnò, e in ciò che egli aveva a fare l’ammaestrò. Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli uomini ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi ne’ loro errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo. Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosachè egli fosse nelli studii della filosofìa assiduo; e tanto [p. 298 modifica]nelle meditazioni perseverante, che A. Gellio scrive nel libro II. Noctium Atticarum, lui essere usato di stare dal cominciamento d’un dì, infino al principio del seguente, in piede senza mutarsi poco o molto col corpo, e senza volgere gli occhi o ’l viso dal luogo al quale nel principio della meditazione gli poneva. Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltà, perciocchè quantunque in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si faceva: e da lui, secondochè Girolamo scrive nella XXXV. sua pistola, e oltre a ciò nel proemio della Bibbia, nacque quel proverbio, il quale poi per molti s’è detto, cioè, hoc scio, quod nescio. E oltre a questo, essendo tanto e sì venerabile filosofo, non solamente in parole ma in opera la sua umiltà dimostrò. Esso tra l’altre volte, secondochè negli studii è usanza, facendo la colletta degli uditori suoi, e essi tutti dandogli volentieri, non solamente il debito, secondo l’uso, ma ancora più; Eschilo poverissimo giovane ma d’alto ingegno, lasciò andare ogn’uomo a pagar questo debito, e non andandone più alcuno, esso levatosi andò alla cattedra di Socrate e disse: maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che io ti do più che dato non t’ha alcuno altro che qui sia; perciocchè non ce n’è alcuno che tanto donato t’abbia, che alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me t’ho dato, cosa alcuna non è rimasa, Al quale Socrate umilemente rispose: Eschilo, il tuo dono m’è molto più caro che alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa. [p. 299 modifica]Io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto m’hai, e quello sono io medesimo; e così mi ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto fa’ che tu abbi me per tuo. Fu di sua natura pazientissimo, e con egual’animo portò le cose liete e le avverse: in tanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto più che un viso: il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dell’una delle due mogli che avea chiamata Santippe; la quale senza interporre, il di e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei stimolato: la qual tanto più nella sua ira s’accendeva, quanto lui più paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stalo addomandato da Alcibiade, nobilissimo giovane d’Atene, secondochè scrive A. Gellio in libro ii. Noctium Atticarum, perchè egli non la mandava via, conciofossecosachè per la legge lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dell’ingiurie dimestiche fattegli da Santippe, egli aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un dì preso luogo e tempo, dalla finestra della casa li versò sopra la testa un vaso d’acqua putrida e brutta, il quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, null’altra cosa disse: io sapeva bene che dopo tanti tuoni dovea piovere. Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente [p. 300 modifica]divenne medico: il che essendo detto a Socrate disse: questi può esser savio uomo d’aver lasciata l’arte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre. Era oltre a ciò usato di prendere piacere di vedere le due sue mogli, per lui talvolta non solamente gridare ma azzuffarsi insieme, e massimamente sè considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso camuso, le spalle pelose, e le gambe storte: e appresso la viltà dell’animo loro, e il farle venire a zuffa insieme, era qualora egli volea, sol che un poco d’amore più all’una che all’altra mostrasse: di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tantochè la loro indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogn’altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maravlglioso frutto gli uditori suoi, siccome Seneca nella sesta pistola a Lucilio dicendo: Platone e Aristotile, e l’altra turba tutta de’ savii uomini, più da costumi di Socrate trassero di sapienza, che dalle sue parole. Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge, che essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, nè mai si parti, nè mai infermò, nè parte d’alcuna infermità sentì. Sostenne con grandissimo animo la povertà, intantochè non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse, ma ancora i doni da’ grandi uomini offertigli ricusò. Ed essendo già vecchio, volle apprendere a sonare gli stormenti musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse: maestro che [p. 301 modifica]è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere alle menome cose musicali? Al quale egli dimostrò, sè estimare esser meglio d’avere tardi apparata quella arte, che morire senza averla saputa. Nè in alcuna età potè sofferire d’essere ozioso, perciocchè secondo scrive Tullio nel libro de Senectute, egli era già d’età di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro il quale egli appellò Panatenaico. Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi Ateniesi fu grave, ed ultimamente cagione della morte sua, egli non potè mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza gl’iddii li quali gli Ateniesi adoravano, affermando un cane, un asino o qualunque altro più vile animale esser degno di molta maggior venerazione che gl’iddii degli Ateniesi. E la ragione che di ciò assegnava era, che gli animali erano opera della natura, gl’iddii degli Ateniesi erano opera delle mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dovere riformare lo stato della città, e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali forse da alcuna altra occulta cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse gli loro iddii essere da onorare, e che Atene dalla lor deità e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo già d’età di novantanove anni, fu fatto mettere in pregione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine vedendo coloro che tener vel facevano, non potersi a ciò l’animo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedii mostratigli da Lisia alla sua salute, amando più di [p. 302 modifica]finire la vita che di diminuire la sua gravità, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi ch’egli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo: dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto, o avvenga, che io giustamente condannato sia. E bevuto la venenata composizione, molte cose a’ suoi amici che dintorno gli erano parlò dell’eternità dell’anima. Ma appressandosi già l’ora della morte, per la forza del veneno che al cuore s’avvicinava, il dimandò un de’ suoi discepoli chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo si facesse poichè morto fosse. Perchè Socrate rivolto agli altri disse: lungamente m’ha invano ascoltato Trifone. E poi disse, se poi che l’anima mia sarà dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare estimerete: ma così vi dico, che partendomi io, alcun di voi non mi potrà seguire. Nè guari stette che egli morì. In onor del quale, secondochò scrive Tertullio, fecero poi gli Ateniesi, in memoria e in sembianza di lui fare una statua d’oro, e quella fecero porre dentro ad un tempio. Nacque Socrate, secondochè nelle istorie scolastiche si legge, al tempo di Serse re di Persia, e morì regnante il re Assuero: e Platone.

Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo d’Aristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie: e socondochè alcuni affermano, esso fu de’ discendenti del chiaro legnaggio di [p. 303 modifica]Solone, il quale ornò di santissime leggi la città di Atene. E volendo Speusippo figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, siccome essi nel secondo libro della filosofia scrivono, finsero Perissione madre di lui essere stata oppressa da una sembianza d’Apolline, volendo che per questo s’intendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogn’altro suo contemporaneo eloquentissimo: e fu tanta dolcezza e tanta soavità nella sua prolazione, che quasi pareva più celestial cosa che umana parlando: la qual cosa per due assai evidenti segni, avantichè a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente essendo egli ancora picciolissimo fanciullo, e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollicitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mele, senza d’alcuna cosa offenderlo. Secondariamente quella notte, che precedente fu al dì che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, acciocchè della sua. dottrina l’ammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da esso Socrate gli era dato. Perchè come Socrate vide Platone il dì seguente, così estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondochè questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale soavissimamente canta; per la qual dolcezza di canto assai bene [p. 304 modifica]si può comprendere, essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza. Fu costui nominato Plato, secondochè Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso poichè più anni ebbe udito Socrate, secondochè Agostino racconta nel IV. della Città di Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli Egiziaci si poteva mostrare. E quindi tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quelli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, e ancora, maravigliosa stima, quasi da tutti quegli che a’ tempi ch’ e’ Romani erano nel colmo del lor principato eran famosi uomini: e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla verità cristiana. Fu oltre a ciò in costumi splendido, e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intantochè per poterla alquanto domare, e vita solitaria desiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogn’altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze nè d’umana pompa curandosi, visse infino nell’età di anni ottantuno secondochè scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola: avendo molti libri scritti, e scrivendo continuamente si morì, lasciati appresso di sè molti d’suoi uditori [p. 305 modifica]solennissimi filosofi. Che ’nnanzi agli altri, siccome più degni filosofi, più presso gli stanno. Democrito, supple vidi.

Democrito fu Ateniese, e fu il padre suo sì abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, e con lui a tutto il suo esercito, quando venne in Grecia, che scrive Giustino fosse un milione d’uomini d’arme. Dopo la morte del quale, Democrito dato tutto a’ filosofici studii, riserbatasi di sì gran ricchezza una piccola quantità, tutto il rimanente donò al popolo d’Atene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso secondochè Giovenale scrive, essendo nella piazza era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e domandato alcuna volta della cagione, rispose: io rido della sciocchezza di tutti quegli li quali io veggio, perciocchè io m’accorgo che con l’animo e col corpo tutti faticano intorno a cose, che nè onor nè fama lor posson recare, nè con loro oltre a ciò far lunga dimora. Costui perciocchè estimò il vedere esser nemico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studii, per potere liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono, lui aver ciò fatto perchè il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo, e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E domandato alcuna volta, che utilità si vedesse d’averlo fatto; nulla altro rispose, se non che per quello era d’uno più che l’usato accompagnato, e questo era un fanciul che ’l guidava, Benchè Tullio nel V. delle Quistioni Tusculane dice, questa essere stata risposta [p. 306 modifica]d’Asclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo, e similmente cieco. Fu uondinieno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque de’ principii delle cose tenesse un’opinione strana, e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dall’uno de’ due principii, o da odio, o d’amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi Caos, il che tanto suona quanto confusione: e di questa affermava che a caso, non secondo la deliberazione d’alcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo nascere. E questo chiamava odio, in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, siccome da nemico, si separavano. Poi dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa materia chiamata Caos, e questo appellava tempo d’amore e d’amistà. E così teneva, questi esser due principii formali, essendo questo Caos principio materiale. Fu oltre a questo costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste re de’ Battriani , trovatore di questa iniqua arte, molto 1’aumentò e insegnò. Dice adunque per le predette opinioni l’autor di lui, che ’l mondo a caso pone essere creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel V. libro delle Quistioni Tusculane dice: Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere, et atra non poterat; at vero bona, mala, aecqua, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva, poterat; et fine varietale colorum licebat vivere beate, sine notione rerum, non licebat; atque hic vir impediri [p. 307 modifica]animi aciem, aspectu oculorum arbitrabatur; et cum alii persaepe, quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret. Diogene.

Diogene cui figliuol fosse, o di qual città, non mi ricorda aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale come la verità filosofica cominciò a conoscere, così tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza, e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E così ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e de’ templi: poi trovato un doglio di terra abitò in quello: e diceva che esso meglio che alcuno altro abitava, perciocchè egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro Ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e ’l caldo volgeva a tramontana, e così avea l’aere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzo dì, e così aveva tutto il dì i raggi del sole che il riscaldavano. Fu negli studii continuo, e sollecito dimostratore agli uditor suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi cioè, che ogni cosa onesta si doveva fare in pubblico; ed eziandio i congiugnimenti de’ matrimonii, perciocchè erano onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie. Il quale perchè atto di cani pareva, fu cognominato Cinico, e principe della setta de’ Cinici. Di costui si raccontano [p. 308 modifica]cose assai, e non men piacevoli che laudevoli; perchè non sarà altro che utile l’averne alcuna raccontata. Dice Seneca nel libro V. de’ Beneficii, che Alessandro re di Macedonia s’ingegnò molto di poterlo avere appresso di sè, e con grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare, le quali tutte ricusò: alcuna volta dicendo, che egli era molto maggior signore che Alessandro, in quanto egli era troppa più quello che egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto donare. E dice Valerio Massimo, che essendo un dì Alessandro venuto alla casa di Diogene, per avventura postosegli davanti al sole, e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose, che quello che egli voleva da lui era, che egli si levasse dal sole, e non gli togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio tiranno di Siragusa molto cercato d’averlo, nè mai venir fatto gli era potuto; che essendo Diogene andato in Cicilia a considerare l’incendio di Mongibello, avvenne che lavando lattughe salvatlche ad una fonte presso a Siragusa per maugiarlesi, passò un filosofo chiamato Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore: e veggendo Diogene gli disse: se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non li bisognerebbe al presente lavare coteste lattughe; quasi volesse dire, tu averesti de’ fanti e de’ servidori che te le laverebbono. A cui Diogene subitamente rispose: Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio. Altra volta essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il viso turpissimo, a vedere una sua [p. 309 modifica]bella casa, la quale era ornatissima di dipinture, e d’oro, e d’altre care cose, e non che le mura e’ palchi, ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, s’accostò a colui che menato l’aveva, e sputógli nel viso: perchè quegli che presenti erano dissero: perchè hai tu fatto cosi, Diogene? A’ quali Diogene prestamente rispose: perciocchè io non vedeva in questa casa parte alcuna così vile, come quella nella quale sputato ho. Oltre a ciò, secondochè Seneca racconta nel III. libro dell’Ira, avvenne che leggendo Diogene del vizio dell’Ira, un giovane gli sputò nel viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando l’ingiuria, niuna altra cosa disse, se non: io non m’adiro, ma io dubito se sarà bisogno o nò d’adirarsi. Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno sputo ben grosso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò: il quale sputo, poichè Diogene ebbe forbito, disse: per certo coloro che dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati. Fu, secondochè A. Gellio scrive in un libro Noctium Atticarum, Diogene una volta preso: e volendolo colui che preso l’aveva vendere, venne un per comperarlo: e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al quale Diogene rispose: io so comandare agli uomini liberi. E acciocchè noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della vita sua, secondochè scrive Tullio nel I. libro delle Quistioni Tusculane, essendo Diogene infermo di quella infermità della quale si morì, fu domandato da alcuno de’ discepoli suoi, quello che voleva si facesse, poichè egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente rispose: [p. 310 modifica]gittalo al fosso. Alla qual risposta colui che domandato avea seguì: come Diogene? vuoi tu che i cani, e le fiere salvatiche, e gli uccelli ti manuchino? Al quale Diogene rispose: pommi il baston mio, sicchè io abbia con che cacciargli. A cui questo addimandante disse: o come gli caccerai, che non gli sentirai? Disse allora Diogene; se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perchè mi mangino? E così si morì: il dove non so. Anassagora.

Anassagora fu nobile uomo Ateniese, e fu uditore di Anassimene, e famoso filosofo: e perciocchè sostener non poteva i costumi e le maniere de’ trenta tiranni li quali in Atene erano, si fuggì d’Atene, e segui gli studii pellegrini tanto tempo, quanto la signoria de’ predetti durò. Poi tornando ad Atene, e vedendo le sue possessioni, che erano assai, tutte guaste, e occupate da’ pruni e da malvage piante, disse: se io avessi voluto guardar queste, io averei perduto me. Questi nella morte d’un suo figliuolo, assai della sua fortezza d’animo e della sua scienza mostrò; perciocchè essendogli nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò: ni una cosa nuova, o da me non aspettata mi racconti, perciocchè io sapeva che colui che di me era nato era mortale. Ed essendo infermo di quella infermità della quale egli morì, e giacendo lontano alla città, fu domandato se gli piacesse d’essere portato a morire nella città, Rispose, che di ciò egli non curava, perciocchè egli sapeva, che altrettanta via era del luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla città in inferno: e Tale.

Tale fu Asiano, figliuolo d’uno che si chiamò [p. 311 modifica]Essamio, siccome Eusebio scrive in libro Temporum; e secondochè Pomponio Mela dice nel primo libro della Cosmografia, egli fu d’una città chiamata Mileto, la quale fu in una provincia d’Asia, chiamata Jonia: e siccome santo Agostino dice nel libro VIII, della Città di Dio, egli fu principe de’ filosofi ionii, e fu massimamente ammirabile, in quanto essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche, non solamente conobbe i difetti del sole e della luna, ma ancora gli predisse. E secondochè alcuni vogliono, esso fu il primo che conobbe la immobilità, o brevissimo circuito di moto della stella la qual noi chiamiamo tramontana, e che da essa preso dimostrò l’ordine, il quale ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua opinione che l’acqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti gli altri elementi, ed esso mondo tutto, e quelle cose che in esso si generano, procedessono e fossono, siccome santo Agostino nel preallegato libro dimostra. E perciocchè esso fu de’ primi filosofi di Grecia, e avanti che il nome del filosofo si divulgasse fosse chiamato savio, come sei altri suoi contemporanei e valenti uomini furono, avvenne, che essendo da’ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola d’oro, ed essendo diliberato che al più savio mandata fosse, e per conseguente mandata a lul; fu di tanta e sì discreta umiltà, che ricevere non la volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Ricusò, secondochè alcuni scrivono, d’aver moglie, e ciò dice che faceva, per non avere ad amare i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, perciocchè troppo intenso, e forse [p. 312 modifica]non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri lasciando, essendo già d’età di settantotto anni morì. Ma secondochè scrive Eusebio in libro Temporum, pare che egli vivesse anni novantadue. Fiorì ne’ tempi che Ciro re, per forza trasportò in Persia l’imperio de’ Medi. Empedocles.

Empedocles fu Ateniese, secondo Boezio, del quale, credo più per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, o dalla trascutaggine degli uomini che negligentemente serva le scritture, che perchè egli solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si trova che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano, lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta di melodia, che correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo nemico per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale per avventura allora in quella parte cantava per la quale il giovane seguiva il suo nemico, dimenticato l’odio, si ritenne ad ascoltarla. Costui, secondochè scrive Papia, investigando il luogo della montagna di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco, e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorì regnante Artaserse. Eraclito.

Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli compose, furono con tanta oscurità di parole e di sentenze scritti da lui, che pochi eran coloro li quali potessero de’ suoi testi trar frutto, per la qual cosa fu cognominato tenebroso. Dove vivesse, o quello che egli aoperasse, o [p. 313 modifica]di che età morisse, o dove, non trovai mai; quantunque alcuni dicano, lui essere stato contemporaneo di Democrito: e Zenone.

Furono due eccellenti filosofi de’ quali ciascun fu nominato Zenone; ma perciocchè qui non si può comprendere di quale l’autor si voglia dire, brevemente diremo d’amenduni. Fu adunque l’uno di questi chiamato Zenone Eracleate. Costui potendosi in pace e in quiete riposare in Eraclea sua città, e in sicura libertà vivere, avendo all’altrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti in Cicilia, in que’ tempi da miserabile servitù oppressa, soprastantele la crudel tirannia di Falari; volendo quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il tiranno più per consuetudine di signoreggiare che per salutevol consiglio tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della città infiammò in desiderio di libertà. La qual cosa venuta agli orecchi di Falari, fece di presente prendere Zeno, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio eran partefìci. De’ quali Zenone alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che più col tiranno eran congiunti, e ne’ quali esso più si fidava: e in cotal guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falari, fieramente cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timidità de’ giovani: e quantunque d’età vecchio fosse, riscaldò sì con le sue parole i cuori de’ giovani di Girgenti, che mosso il popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno, e la perduta libertà racquistarono. [p. 314 modifica]E questo ho, senza più, che poter dire del primo Zenone. L’altro Zenone chi si fosse altrimenti nè donde non so; ma quasi una medesima costanza di animo alla precedente ne ho che raccontare. Essendo adunque questo Zenone, secondochè Valerio Massimo scrive nel terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale per forza di tormenti s’ingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcun nominati, disse sè esser disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma essere di necessità che alquanto in disparte si traessero. Perchè così da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per l’orecchia co’ denti, nè mai il lasciò, primachè tronca gliele avesse, comechè egli da’ circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

E vidi ’l buono accoglitor del quale,

cioè della qualità dell’erbe: e che esso intenda dell’erbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: Dioscoride dico.

Dioscoride nè di che parenti, nè di qual città natio fosse, non lessi giammai: e di lui niuna altra cosa ho che dire, se non che esso compose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo, e come i fiori, e come i frutti di ciascuna, e come il nome, e similmente le virtù di quelle: e vidi Orfeo. [p. 315 modifica]Orfeo, secondochè Lattanzio in libro Divinarum institutionum in Gentiles scrive, fu figliuolo d’Apolline e di Calliope Musa, e a costui scrive Rabano in libro Originum, che Mercurio donò la cetera, la qual poco avanti per suo ingegno aveva composta: la quale esso Orfeo sì dolcemente sonò, secondochè i poeti scrivono, che egli faceva muovere le selvo de’ luoghi loro, e faceva fermare il corso de’ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli diventar mansuete. Di costui nel IV. della Georgica racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amor tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e un giorno andandosi ella diportandosi, insieme con certe fanciulle, su per la riva d’un fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per la quai cosa essa cominciò a fuggire: e fuggendo, pose il pie sopra un serpente, il quale era nascoso nell’erba; perchè sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di che ella si morì. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E conciofossecosachè esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sè, ma ancora facesse all’anime de’ dannati dimenticare la pena de’ lor tormenti; Proserpina reina d’inferno mossasi gli rendè Euridice, ma con questa legge, che egli non si dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; perciocchè se [p. 316 modifica]egli si rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla più riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto desiderio di vederla fu tratto, che essendo già vicino al pervenire sopra la terra, non si potè tenere che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa senza speranza di riaverla, subitamente la perde; laonde egli lungamente pianse: e del tutto si dispose, poichè lei perduta avea, di mai più non volerne alcun’altra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, siccome dice Ovidio, avendo il matrimonio di molt’altre che il domandavano ricusato, cominciò a confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio: e multiplicò in tanto questo odio, che celebrando le femmine quel sacrifìcio a Bacco che si chiama Orgia, allato al fiume chiamato Ebro, co’ marroni; e co’rastri, e con altri strumenti da lavorar la terra l’uccisono e isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nell’Ebro, infino nell’isola di Lesbo furono dall’acque menate: e volendo un serpente divorare la testa, da Apolline fu convertito in pietra: e la sua cetera, secondochè dice Rabano, fu assunta in cielo, e posta tra l’altre imagini celestiali. Ma lasciando le fizion poetiche da parte, certa cosa è, costui essere stato di Tracia, e nato d’una gente chiamata Cicona: e secondochè Solino de mirabilibus mundi afferma, questi cotali Ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria si reputavano, Orfeo esser nato di loro. E fu costui, secondochè molti stimano, di que’ primi sacerdoti che ordinati furono in que’ tempi, che [p. 317 modifica]prima si cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di volgere le menti degli uomini. E secondochè scrive Stazio nel suo Tebaida, egli fu di que’ nobili uomini, li quali furono chiamati Argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi sacrificii, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quelli di Bacco, secondochè Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sagrificii di Libero padre, cioè di Bacco: e fu il primo, che quegli celebrò sopra un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la frequenza del canto della cetera il quale in quello faceva Orfeo. E sono quelli sacrificii ancora chiamati Orfichi, ne’ quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio, che avendo Orfeo primieramente trovati i sacrificii di Bacco: e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifìcii farsi da’cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva fatto, a fine di torle in quel tempo dalle commistion degli uomini; conciosiacosachè, non solamente sia abominabile, ma ancora dannoso agli uomini; ed esse di ciò essendosi accorte, estimando questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo: e lui, che di ciò non si [p. 318 modifica]prendeva guardia, co’ marroni uccisono, e gittarono nel fiume Ebro. Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i Troiani Laomedonte, e appo i Latini Fauno padre di Latino. Nondimeno Leone Tessalo diceva, esserne stato un altro molto più antico di costui: il quale essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnachè Eusebio in libro temporum scriva, questo Museo figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo d’Orfeo. Tullio.

Tullio quantunque Roman fosse, nondimeno la sua origine fu d’Arpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di que’ popoli che si chiamarono Volsci: e discese di nobili parenti; perciocchè si legge, li suoi passati essere stati re della sua città. Questi giovanetto venne a Roma: e già in eloquenza valendo molto, avendo, l’animo gentile, sempre s’accostò a’ più nobili uomini di Roma. I suoi studii furon grandi, e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni altro preterito, e per quello che insino a questo dì veder si possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli ancora giovanetto compose in retorica l’arte vecchia e la nuova. Poi più maturo, compose in questa medesima facultà un libro chiamato, De Oratore, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in retorica dirsi puote. Scrisse oltre a ciò molti filosofici libri, siccome quello degli Oficii, delle Quistion Tusculane, de Natura Deorum, [p. 319 modifica]de Divinatione, de Laudibus Philosophiae, de Legibus, de Republica, de Re frumentaria, de Re militari, de Re agraria, de Amicitia, de Senectute, de Paradoxis, de Topicis, ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria: e oltre a ciò scrisse un gran volume di pistole famigliari e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto dell’ordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli Allobrogi, cautamente sentita la congiurazione ordinata da Catilina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano, essendosi già Catilina partito di Roma, da grandissimo pericolo liberò la città. Fu oltre a ciò mandato in esilio da’ Romani, e poi finito l’anno rivocato, e con mirabile onore ricevuto. E sopravvenute le guerre cittadine, seguì le parti dì Pompeo: ed essendo in ogni parte i Pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, nè però fu privato dell’ordine senatorio. Ultimamente fu di quelli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si ritrovò dove Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola de’ proscritti da Antonio triumviro, il quale fieramente l’odiava, se n’andò a Gaeta: dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lanate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio, che gli concedesse di perseguirlo e [p. 320 modifica]d’ucciderlo: ed ottenutolo, lui nel campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise: e tagliatagli la testa, e la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi triunfasse di quella testa che la sua avea liberata da morte. Lino, supple vidi.

Lino fu Tebano, uomo d’altissimo ingegno, e in musica ammaestrato molto: e insieme con Anfione e con Zeto Tebani, e nobilissimi musici concorse. Credesi fosse uno di quelli primi poeti teologi; e secondochè scrive Eusebio, egli fu maestro d’Ercole: e fu a’ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena, e Steleno appo gli Argivi: e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste regnarono in Micena, ed Egeo in Atene: e Seneca Morale.

Seneca Morale. È cognominato questo Seneca, Morale, a differenza d’un altro Seneca, il quale della sua famiglia medesima fu, poco tempo appresso di lui, il quale, essendo il nome di questo Morale Lucio Anneo Seneca, fu chiamato Marco Anneo Seneca: e fu poeta tragedo perciocchè egli scrisse quelle tragedie le quali molti credono che Seneca morale scrivesse. Fu adunque questo Seneca Spagnuolo, della città di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali, dei quali l’un fu chiamato Junio Anneo Gallio, e l’altro Lucio Anneo Mela, padre di Lucano, da Gneo Domizio avolo di Neron Cesare, secondochè alcuni dicono, furono menati a Roma; e quivi furono in onorevole stato, e massimamente questo Seneca, il quale, qual che la cagion si fosse, venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò [p. 321 modifica]

nell’isola di Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi avendo Claudio fatta uccidere Messalina sua moglie, per li manifesti suoi adulterii, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico, e sorella di Gaio Caligula imperadore, e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; a’ preghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma, e restituito ne’suoi onori: e oltre a ciò dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne, e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore d’un famoso filosofo in que’ tempi chiamato Focione, della setta degli stoici: e quantunque in molte facultà solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta istoica, divenne mirabile uomo: e in tanto più commendabile in quanto i suoi costumi, quanto più esser potessono, furon conformi alla sua dottrina. E perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, siccome il libro de’ Beneficj, quello de Ira, quello de Clementia a Nerone, quello de Tranquillitate animi, quello de Remidiis fortuitorum, quello de Quaestionibus naturalibus, quello de iv Virtutibus, quello de Consolatione ad Elviam, e altri più. Ma sopra tutti fu quello delle Pistole a Lucillo, nel quale senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente vivere in quel si contiene: e quello ancora che si chiama le Declamazioni. Compose oltre a questi un altro, secondochè alcuni vogliono, il quale è molto più poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello descrive, come Claudio Cesare fosse cacciato [p. 322 modifica]di paradiso, e menatone da Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno alquanta di fede vi presto, perciocchè egli ebbe fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui, e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua poco laudevole vita. Ma poichè Claudio, per l’inganno d’Agrippina sua moglie, fu morto di veleno, datogli mangiare ne’ boleti, e per l’astuzia di lei posposto Brittannico, figliuolo legittimo e naturale di Claudio, Nerone, figliuolo adottivo del detta Claudio e d’Agrippina, e discepolo di questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; senza alcun dubbio muItiplicò molto la grandezza di Seneca, la quale meno che felice uscita ebbe; perciocchè avendo Nerone fatto morire Brittannico di veleno, e oltre a ciò avendo fatta uccidere Agrippina sua madre, e Ottavia sirocchia carnale di Brittannico; e sua moglie rifiutata, e mandatalane in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, ed ultimamente fattala uccidere; e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la quale più anni aveva per amica tenuta; e fatto morire una Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano, e suo maestro Insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad instanzia di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino: ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non co’ suoi consigli l’animo di Nerone volgesse, e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare l’invidia [p. 323 modifica]portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e in privato stato: le quali Nerone non volle ricevere, ma postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nell’animo non avea, ciò che egli rifiutava ritenere gli fece. Nondimeno Seneca auspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le vicitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia de’clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea. Ultimamente essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti de’ senatori, e da più altri dell’ordine equestre, e da’ centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone, venne in animo a Nerone di farlo morire, non perchè in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagità, e come uomo che era desideroso d’adoperare crudelmente la sua potenza co’ ferri. Ed essendo por ventura di que’ dì, secondochè scrive Cornelio Tacito nel XV. libro delle sue storie, tornato Seneca da campagna, s’era rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino a Roma, alla quale Slllano tribuno d’una coorte pretoria, approssimandosi già l’ora tarda, andò, e quella intorniò d’uomini d’arme: e lui entrato in casa, trovò lui che con Pompeia Paulina sua moglie, e con due de’ suoi amici mangiare: e mangiando egli, gli manifestò il comandamento fattogli dall’imperadore, cioè uno chiamato Natale essere stalo mandato a lui pèt parte di Pisone, ed esso essersi in nome di Pisone [p. 324 modifica]rammaricato, perchè da poterlo visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispose, sè essersi da ciò scusato, che fatto l’avea per cagione della sua infermità, e per desiderio di riposo; e che esso non aveva avuta alcuna cagione per la quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanità: e che il suo ingegno non era pronto nè inchinevole a dovere lusingare alcuno: e che di questo non era alcuno più consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata più la libertà di Seneca che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone il quale Nerone domandò, se Seneca s’apprestava a volontaria morte. Rispose, ninno segno di paura aver veduto in lui, e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli s’eleggesse la morte. Il quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno de’ centurioni, che gli dicesse l’ultima necessità: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne: e perciò Seneca voltosi a’ suoi amici, molte cose disse, poichè negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sè lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva più bella, e ciò era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti, e della costante loro amistà. E oltre a questo, ora con parole e ora con più intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a [p. 325 modifica]rivocare in fermezza d’animo: domandógli7 dove i comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltà di Nerone: e che niuna altra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ’l fratello uccisi, se non d’uccidere il suo maestro, e colui che allevato l’avea. E quinci abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con forte animo portasse questa ingiuria. E avendo già il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, perciocchè il sangue lentamente usciva del corpo, similemente si fece aprir le vene delle gambe e delle ginocchia: e mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire scrittori, più cose degne di laude in sua fama, e in bene di coloro che dopo la sua morte le dovevano vedere fece scrivere. Ma prolungandosi troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti s’aveva apparecchiato. Il quale preso, nè d’alcuna cosa offendendolo, per li membri che erano già freddi, e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore trapassare, si fece alla fine mettere in un bagno d’acqua molto calda, nel quale entrando, con le mani, que’ servi che più prossimani gli erano, presa dell’acqua, risperse: da’ quali fu udita questa voce, che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore: e poco appresso dal vapore caldo [p. 326 modifica]del1’acqua fu ucciso: e senza alcuna pompa o solennità di funebre uficio fu, secondo il costume antico, arso il corpo suo. Fu nondimeno fama, secondochè il predetto Cornelio scrive, che Rubrio Flavio aveva co’ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo, che poichè Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similemente ucciso fosse, e che l’imperio fosse dato a Seneca; quasi non colpevole, per ragione delle sue virtù fosse stato eletto all’altezza del principato. Ma comechè, l’autore in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai certo, se questa opinione s’è da seguire o no. Conciosiacosachè si leggano più epistole mandate da Seneca a san Paolo, e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistà: e quantunque occulta fosse, ed in quelle, o almeno nell’ultima di quelle, essere parole scritte da San Paolo, le quali bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui avere per cristiano. E se esso fu cristiano, e di continentissima e santa vita, perchè tra’ dannati annoverar si debba non veggio: senzachè a confermazion di questa mia pietosa opinione vengano le parole scritte di lui da san Girolamo in libro virorum illustrium, nel quale scrive così: Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Socionis Stoici discipulus, et patruus Lucani poetae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem in catalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam, et Senecae ad Paulum, in quibus cum esset Neronis magister, et illius [p. 327 modifica]temporis potentissimus, optare se dicit, ejus esse loci apud suos, cujus sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium, quam Petrus, et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est. E oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua salute qui l’ultimo atto della vita sua, quando eziandio nel più caldo bagno, disse, sè sacrificare quella acqua a Giove liberatore; parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere che esso, il quale, in quanto che si sappia, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi chiamano Flaminis non essendo rigenerato secondo il comune uso de’ cristiani nel battesimo dell’acqua e dello Spirito santo, quell’acqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Gesù Cristo, il quale veramente fu liberatore dell’umana generazione nella sua morte, e nella resurrezione. Nè osta il nome di Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a lui, e non ad alcuna creatura. E così consecratala, in questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile, come con la mente era. Ora di questo è a ciascun licito quello crederne che gli piace: Euclide geometra, supple vidi.

Euclide geometra, onde si fosse, nè di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo nel suo VIII, libro, capitolo XII., lui essere stato contemporaneo di Platone. E perciocchè insino ne’ nostri dì è perseverata la fama sua, puotesi assai esser manifesto, lui avere in geometria ogni altro filosofo trapassato. Esso adunque compose il [p. 328 modifica]libro delle Teoremate in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio ottimamenie scritto: e Tolomeo.

Tolomeo, cognominato da alcuno Pelusiese, secondochè opinione è di molti fu Egiziaco: ed alcuni estimano, lui essere stato di que’ re d’Egitto, perciocchè molti ve n’ebbe con questo nome: e altri credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E perciocchè alcuno scrive, lui essere stato nel torno di centoventinove anni dopo la incarnazione di nostro Signore, cioè a’ tempi di Adriano imperadore, sono io di quegli che credo, lui non essere stato re; perciocchè in que’ tempi non si legge Egitto avere avuto re, conciofossecosachè esso in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrologo. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venire doveano, esso più libri compose, tra’ quali fu l’Almagesto, il Quadripartito, e ’l Centiloquio, e molte tavole a dovere con le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi de’ pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi: e poichè vivuto fu ottantotto anni, finio la vita sua: Ippocrate.

Ippocrate, secondochè Rabano in libro XVIII Originum scrive, fu figliuolo d’Asclepio, e regnante Artaserse re di Persia, nacque nell’isola di Coo: e per assiduo studio divenne gran filosofo, e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni, che essendo egli da un fisonomo veduto, il fisonomo dire luì dovere essere di natura lussuriosissimo uomo, e oltre [p. 329 modifica]a ciò di grossissimo ingegno: la qual cosa egli confessò esser vera; ma che l’astinenza l’avea fatto casto, e l’assiduità dello studio l’avea fatto ingegnoso. E veramente fu egli ingegnoso, perciocchè esso fu colui il quale per forza d’ingegno ritrovò la medicina, la quale del tutto era perduta. È adunque da sapere, che Apollo appo i Greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui investigate le virtù dell’erbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio divenuto iscienziatissimo quella ampliò molto: ed essendo avvenuto il caso d’Ipolito figliuolo di Teseo re di Atene, che fuggendo la sua ira da’ cavalli che il suo carro tiravano, spaventati da’ pesci chiamati vitelli marini, i quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, pe’ luoghi pietrosi strascinando, aveano tutto lacerato, e in sì fatta maniera concio, che ciascuno giudicava lui morto, per l’arte e sollicitudine di questo Esculapio fu a sanità ritornato, Ed avvenendo non guari poi, che Esculapio percosso da una folgore morisse, diceva ogn’uomo, lui essere stato fulminato da Giove, perciocchè Giove s’era turbato che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama delli sciocchi, fu del tutto interdetta l’arte della medicina: e secondochè Plinio nel libro XXIX. de Historia naturali scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nascosa insino al tempo della guerra peloponnesiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice [p. 330 modifica]Rabano nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento anni: e così costui, d’arte così opportuna all’umana generazione si può dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle quistioni del Genesi, che avendo una femmina partorito un bel figliuolo, il quale nè lei nè il padre somigliava, era per essere punita, siccome adultera: il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile la qual trovandosi, liberò la innocente femmina dalla sospezlone avuta di lei. Egli fu piccolo di corpo, e di forma fu bello: ebbe gran capo: fu di movimento ed eziandio di parlare tardo: e fa di molta meditazione, e di piccol cibo; e quando si riposava guardava la terra. Visse novantacinque anni: Avicenna.

Avicenna, secondochè io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni, lui essere stato chiarissimo principe, e d’alta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro non ne so: e Galeno.

Galeno fu per origine di Pergamo in Asia, laddove primieramente fu ritrovato il fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo dove primieramente fatte furono, e chiamansi pergamene. Ed in medicina fu iscienziatissimo uomo secondochè appare. Costui primieramente fiorì ad Atene, e poi in Alessandria fu di grandissimo nome: e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicono, al tempo di Antonino Pio imperadore. Altri [p. 331 modifica]il fanno più antico, e dicono che egll vìsse al tempo di Nerone, e degli altri imperadori che appresso lui furono infino a Domiziano. Esso, poichè finiti ebbe anni ottantasette, finio la vita sua: Averrois.

Averrois dicono alcuni che fu Arabo, ed abitò in Ispagna, altri dicono che egli fu Spagnuolo, uomo d’eccellente ingegno, intanto che egli commentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e metafisica composto avea: e tanto chiara rendè la scienza sua, che quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella d’ogni altro filosofo preposta: Che ’l gran comento feo: ed è intra lo scritto e ’l comento, che sopra l’opera d’alcuni autor si fanno, questa differenza, che lo scritto procede per divisioni, e particolarmente ogni cosa del testo dichiara, il comento prende solo le conclusioni, e senza alcuna divisione quelle apre e dilucida: e cosi è fatto quello d’Averrois. Ma poichè finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particola, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può muovere, e dico, che in questo canto pare che l’autore a sè medesimo contradica, in quanto di sopra ragionandogli Virgilio, quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice essere tali che non peccaro: e se egli hanno mercedi, non basta, ec. E poi ne nomina l’autore alquanti, che di questi cotali sono, siccome nelle raccontate istorie è assai manifestato, li quali assai apertamente appare loro essere stati peccatori, siccome Ovidio, il quale quantunque assai cose [p. 332 modifica]buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il quale è intitolato sine titulo, assai chiaro può vedere, lui essere stato quasi più che alcun altro effemminato e lascivo uomo. E oltre a questo, nel libro il quale egli compose de Arte amandi dà egli pessima e disonesta dottrina a’ lettori. Appresso è ancora di questi Lucano, il quale come mostrato è, fu nella congiurazione pisouiana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e quantunque iniquo uomo fosse, e niuna (secondochè Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue tragedie) è più accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi del signor suo. Dentro al castello pone Enea, il quale, secondochè Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e oltre a ciò credono i più, che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento d’Ilione sua città: il che oltre alla turpe operazione è gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale come mostrato è, fu incestuoso uomo, e di più donne vituperevolmente contaminò l’onestà: rubò e votò l’erario pubblico de’ Romani; e oltre a ciò tirannicamente occupò la libertà pubblica, e quella mentre visse tenne occupata. Appresso vi descrive Lucrezia, la quale quantunque onestissima donna fosse, nondimeno sè medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è lecito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale come noi sappiamo, in quanto potè fu nemico del nome di Cristo, adoperando e procacciando con ogni istanza il disfacimooto [p. 333 modifica]di quello. E questi peccati, li quali io dico che ne’ predetti furono, mostra l’autore sotto intollerabili supplicii, e in dannazion perpetua essere appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, ’l autore a sè medesimo contradire. Ma a questo dubbio mi pare si possa in così fatta maniera rispondere: essere di necessità i meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi descrivere, acciocchè più pienamente si possan comprendere: e queste non per ogni autore, perciocchè assai ne sono di sì piccola fama, che non essendo conosciuti non sarebbono intese, ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò e qui e per tutto il suo libro 1’autore quasi altra gente non pone, se non quelli cotali per li quali crede più essere conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda, che egli alcun de’ nominati vedesse, nè in inferno nè altrove, ma vuole, che per gli nominati s’intenda, essere in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtù o vizii stati sono. E oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio, e Lucrezia e gli altri detti stati peccatori, qui discritti dall’autore, intende esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per virtuosi in quelle virtù che loro qui attribuite sono, e le colpe, quasi non sute, si lascino stare. E così prenderemo quivi chiunque fu in opere simili a Giulio, in quanto virtuoso, e non battezzato, e così di Lucrezia e degli altri, e non inquanto in alcune cose peccarono; e in questa maniera si conviene sostener questo [p. 334 modifica]testo. Io non posso ritrar, cioè raccontare, di tutti, quegli valenti uomini, che io vidi in quel luogo, appieno, cioè pienamente; perciocchè molti erano e soggiugne la ragione, perchè di tutti ritrarre non può, dicendo: Perciocchè sì mi caccia, cioè sospigne a procedere avanti, il lungo tema, di dover descrivere l’universale stato degli spiriti dannati, di que’ che si purgano e de’ beati, Che molte volte, non solamente pur qui, ma ancora altrove, al fatto, cioè alle cose che vedute ho, le quali sono in fatto, il dir, cioè il raccontare, vien meno: e ciò non è maraviglia, perciocchè volendo appieno raccontare la particularità di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia, si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno. La sesta compagnia. In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale della suddivisione del presente canto, dimostra 1’autore come partiti da’ quattro poeti procedettero avanti: e dice, La sesta compagnia in duo, cioè de’ sei poeti, d’Omero, e di Orazio, e degli altri, cioè poeti, in Virgilio e nell’autore, si scema, cioè rimane scema. Per altra via, che per quella per la quale venuti eravamo, mi mena ’l savio Duca, Virgilio, Fuor della cheta, aura perciocchè; come assai è nelle precedenti cose apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio, nell’aura che trema, siccome ripercossa da impetuoso spirito di vento, e da pianti e da dolori. E vengo in luogo, ove non e, nè sole, nè stella, nè lumiera che luca, cioè faccia lume.

  1. Tragedo.
  2. Commiptione.
  3. Frondea.
  4. Manca nel MS. della metà:
  5. instractione.
  6. Facundio.
  7. Domandógli che dove.