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Utente:Xavier121/Prove

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[p. 28 modifica] Possano una volta unirsi tra loro finalmente i Filosofi intorno a questa utilissima scienza, e cedere il luogo alla verità, ed alla ragione, la quale sembrami alcerto esser consentanea alle qui addottate proposizioni, e contraria a quelle, che finaddora riprovate furono, e combattute. [p. 29 modifica]


Felix qui potuit cognoscere caussas

Virg. Georg. Lib. II. [v. 490]

[p. 31 modifica] DISSERTAZIONI METAFISICHE[p. 33 modifica]      Ente è ciò, che esiste, il mondo tutto è un ente, enti pur sono le parti tutte del mondo. S’ode tuttogiorno un tal nome, non così spesso però le sue vere proprietà, le sue generali, e particolari affezioni s’ascoltano in modo consentaneo alla retta ragione. Che anzi inutile da molti vien riputata quella scienza, che i varj principj dimostra intorno agli enti, l’Ontologia. Varie confuse, ed oscure dottrine vengono dai scolastici proposte, e queste si dicono sufficienti alla perfetta cognizione degli esseri. L’argomento, che adducono a prova di ciò egli è esser troppo nota ad ognuno la dottrina degli enti, ed in conseguenza dell’Ontologia. Ma se per mezzo della Logica artificiale i dogmi si spiegano della naturale perchè non si dovrà porre in chiaro per mezzo degli Ontologici artificiali principj ciò, che il lume della [p. 34 modifica]ragione ci fa apertamente conoscere intorno agli enti? Necessarj sono alcerto quei dogmi che i precetti naturali ci additano necessarie sono, per conseguenza le chiare, e distinte nozioni degli esseri. Nè, a mio credere, a troppo umili studj dovrà l’uomo abbassarsi considerando le proprietà, e le varie affezioni dell’universo, di ciò che lo compone, e di se medesimo. Se tutto ciò, che a noi si presenta esiste, non sarà certo difficile all’assiduo contemplatore della verità il ritrovare nella propria quotidiana esperienza le prove di quello, che negli Ontologici principj viene affermato.

Un essere non può sussistere insieme, e non sussistere. È questo un assioma proposto dallo Stagirita Filosofo, e dall’Angelico Dottor delle scuole come principio di cognizione, al quale per mezzo de’ Logici argomenti possano esser ridotti i pertinaci oppugnatori della verità, e costretti, o a dimostrarne la falsità ciò, che impossibile è per se stesso, o a darsi finalmente per vinti. Altri Filosofi, tra’ quali il celeberrimo Cartesio diversi principj propongono ad un tal fine. Quale tra questi debba prescegliersi noi non ci tratterremo a dimostrare non appartenendo ciò in alcun modo alla dottrina degli esseri.

Altro principio dai Filosofi proposto, come necessario alla perfetta cognizione degli enti, egli è che nulla può nell’universo sussistere senza ragion sufficiente della sua esistenza. Questa può ricercarsi in qualsivoglia ente, in qualsivoglia lor pro[p. 35 modifica]prietà, ed in qualsivoglia occasione poiché se ciò non si ammettesse il nulla potrebbe ancor sussistere non essendovi alcuna ragion sufficiente della sua niuna esistenza. Dagli avversarj del sopraddetto principio dimostrar si dovrebbe che alcuna causa non può esservi di quegli esperimenti, di cui la ragione soltanto s’ignora il che dimostrar non potendosi alcerto, resterà sempre ferma, ed inconcussa la verità dell’ac[cen]nata proposizione.

Viene finalmente dai Filosofi annoverato tra le principali sentenze spettanti alla dottrina degli esseri quel principio, il quale afferma, che l’assoluta possibilità delle cose non è soggetta in alcun modo al Divino volere, cioè che l’Ente supremo non può rendere impossibile ciò, che è possibile, e vicendevolmente possibile ciò, che è per se medesimo impossibile, e repugnante. Una matura riflessione toglierà da siffatto principio quell’assurdo apparente, che a prima vista presentasi all’occhio ancora del più sagace indagatore del vero. Sono queste le principali leggi, che regolar debbono la natura, le proprietà, e le dottrine tutte degli esseri. Passeremo noi dunque partitamente ad esaminarle, e quei principali dogmi additeremo, che negli Ontologici studj vengono esposti.

Il nome di ente conviene non solo a ciò che attualmente sussiste ma a ciò ancora la di cui esistenza non ripugna, e non è per se stessa fisicamente impossibile, ossia ciò la di cui essenza [p. 36 modifica]non implica in se medesima alcuna contradizione. L’essenza delle cose possibili, ed impossibili dal chiarissimo P. Francesco Suarez vien definita «primum ac radicale, et intimum principium omnium actionum, et proprietatum, quae rei conveniunt». Se però a tutto ciò, che sussiste attribuir si può il nome di ente non così può l’esistenza attribuirglisi poiché, come afferma il volgare scolastico assioma, dalla possibilità dell’essenza di un ente non può dedursi la sua esistenza, come dalla medesima può dedursi la sua possibilità.

L’esistenza vien definita il compimento della possibilità, ovvero l’attualità di un essere. La possibilità delle cose è, al dir dell’Abate Sauri «estrinseca, ossia rispettiva, ed intrinseca, ossia assoluta, o primitiva. La possibilità intrinseca consiste nella sociabilità degli attributi, oppure consiste in questo, che l’essere considerato in se stesso non richiude veruna contradizione. La vera essenza, e la sociabilità degli attributi sia ella attuale, o possibile costituiscono una sola, e medesima cosa. La possibilità poi estrinseca consiste in questo, che un qualche essere è idoneo a ricevere l’esistenza, e può esistere. Ora dipende dalla volontà Divina che un essere intrinsecamente possibile riceva, o no l’esistenza, e conseguentemente si vede, che la possibilità estrinseca dipende affatto da Dio». Dal Divino volere adunque dipende, che un ente possibile esista, o non esista, non così però, che una cosa [p. 37 modifica]sia possibile, ovvero impossibile, poiché, se ciò fosse, come affermano stoltamente i Cartesiani, Iddio far potrebbe, che un ente possibile fosse ancora impossibile, onde Iddio vorrebbe talvolta, o potrebbe almeno volere ciò, che ripugna, il che è per se stesso un assurdo evidente.

Ciascun ente ha in se medesimo le proprie particolari affezioni, quali se ad esso sieno necessariamente inerenti appellansi essenziali, ed accidentali se l’essere, nulla cangiando di sua natura, può di queste mancare. Il nome di affezione si estende ancora alle proprietà estrinseche di un ente, le quali non esprimono, che la relazione tra due, o più esseri come per cagion d’esempio se dicasi, che un corpo è maggiore, o minore di un altro. Gli enti relativamente agli altri esseri sono o i medesimi, o diversi, o simili. Se due globi sieno dello stesso peso, dello stesso colore, dell’istessa figura, e grandezza l’uno dell’altro, questi dir si possono essere i medesimi. Che se poi, per cagion d’esempio, un fiume abbia i due nomi di Istro, e Danubio, ciò, che può dirsi dell’Istro dir si potrà ancor del Danubio, e perciò e l’Istro, e il Danubio diconsi essere numericamente le cose medesime. Diversi tra loro sono quegli enti, de’ quali l’uno all’altro non può esser sostituito senza sconvolgere in qualche modo l’ordine primitivo. Simili sono finalmente quegli esseri [p. 38 modifica]tra’ quali si scorge una perfetta uguaglianza di proporzione, e figura sebbene sotto diverse grandezze.

L’ente esser può singolare, o universale. L’ente singolare altro non è che ciò, che è intieramente determinato riguardo a tutte le sue proprietà, ed affezioni. Noi diciamo ente universale ciò, che non è determinato se non relativamente a quelle proprietà, che spettano a tutti gli altri esseri del proprio genere.

Se, per cagion d’esempio, noi ci rappresentiamo alla mente un triangolo non considerandolo che come un piano di tre angoli, e linee senza determinarne la misura, la grandezza, e la proporzione, dicesi, che noi lo consideriamo come un ente universale. È però da osservarsi, che quest’ente universale non può sussistere, che nella mente dell’uomo, laddove un essere singolare può, e sussistere in essa, e godere della vera attuale esistenza.

Ciascun ente appellasi supposto purché egli non sussista, che in se medesimo quindi un ramo d’albero non può dirsi un supposto perchè egli non sussiste separatamente in se medesimo, ma sussiste, e forma unitamente all’albero istesso un tutto insieme. Un supposto ragionevole appellasi persona; ciascun supposto irragionevole conserva sempre, ed in qualunque circostanza il nome medesimo. I supposti possono fra loro congiungersi con varie leggi. Una sostanza può unirsi ad un’altra di es[p. 39 modifica]sa più nobile dipendendo quest’ultima dalla prima nelle sue operazioni; in questo caso non verrà formato che un solo supposto di due sostanze, ciascuna delle quali dipende dall’altra, come l’uomo. Se poi la più ignobil sostanza dipende nelle sue operazioni dalla più nobile senza, che questa dipenda in alcun modo dall’altra, la più nobile sarà il solo supposto come avviene nelle due nature umana, e Divina del Verbo. Se finalmente due sostanze di ugual perfezione si uniscano insieme come, per cagion d’esempio due goccie d’acqua cessano in questo caso ambedue di esser supposti per non comporne, che un solo.

Ciascun supposto esser deve, o necessario, o contingente. Una cosa qualunque dicesi necessaria quando la cosa opposta si è affatto impossibile. Perciò il solo supposto necessario è l’Ente supremo poiché di lui solamente può dirsi essere affatto impossibile, che egli non esista. Gli altri esseri diconsi contingenti, ovvero necessarj ipoteticamente. Così un triangolo è un essere contingente poiché non è alcerto impossibile, che egli non esista. Posto però che questo triangolo esista è necessario ancora, che esista la di lui base, la quale dicesi ipoteticamente necessaria, e la cosa opposta ipoteticamente impossibile. Dicesi poi moralmente necessario quello, il di cui opposto può difficilmente avvenire. Così posta l’esistenza di un albero fecondo sarà moralmente necessaria nell’opportuna stagione l’esistenza [p. 40 modifica]delle sue fronde. Tutto ciò che è assolutamente, ipoteticamente, o moralmente necessario, essendo le cose opposte assolutamente, ipoteticamente, o moralmente impossibili, dovrà essere ancora immutabile secondo l’assoluta, ipotetica, o morale sua necessità. Ciò posto l’essenza di un essere contingente, ed i suoi essenziali attributi sono necessaij, immutabili, ed eterni, poiché, come si esprime il prelodato Sauri «Ella è cosa evidente, che Dio conosce da tutta l’eternità l’essenze delle cose, e però le prefate essenze esistono da tutta l’eternità nell’intelletto Divino, considerandolo in questo senso, che Dio da tutta l’eternità conosce ciò, che sarà una qualche cosa allorché averà ella la sua esistenza, ovvero ciò, che sarebbe una qualche cosa se mai dovesse esistere. L’essenza di un circolo deve essere la rotondità, e però è ella una verità eterna, che un circolo non può esistere senza esser rotondo: ed in questo senso l’essenza del circolo e necessaria, ed eterna, non già nel senso, che il circolo esista necessariamente, e da tutta l’eternità. Così parimenti è impossibile, che un triangolo esista senza tre lati, e senza tre angoli; ed una tal cosa è sempre stata, e sarà sempre impossibile. Dunque egli è vero, che da tutta l’eternità il triangolo non può esistere senza i tre lati, e senza i tre angoli. Dunque è fuor di ogni dubbio che le essenze, e gli attributi essenziali degli esseri contingenti sono necessarj, immutabili, ed eterni».

Un ente qualunque esser deve, o semplice, o composto. Noi non intendiamo per essere semplice, che ciò, che non ha parti chiamando essere composto quello che di esse è formato. In conseguenza di ciò un essere semplice non può nascere, che [p. 41 modifica] dal nulla, ed il fine della sua esistenza non può essere che un totale annichilamento. Ed infatti l’essere composto produr non potrà certamente un essere semplice, poiché secondo il volgare assioma nulla è nell’effetto, che non si ritrovi ancor nella causa parlando dell’essenza, e degli essenziali attributi della cosa.

L’essere semplice non potrà neppur egli produrre un essere della stessa natura poiché non avendo egli parti niente può da esso separarsi, onde l’essere semplice nascer non può, che dal nulla. Così non potendo le sue parti disciogliersi per esserne affatto privo egli non può aver fine, che riducendosi al nulla per non esservi altro genere di morte, che possa por termine alla sua esistenza. La sua nascita, e il suo fine esser debbono necessariamente istantanei poiché le sue parti non possono successivamente unirsi, nè disciogliersi essendone egli mancante.

Devesi però osservare che noi non intendiamo per istante che un tratto di tempo affatto indivisibile. Un essere semplice dicesi ancora infinito, e finito un ente composto, il che esprime esservi in un ente semplice ad ogni istante tutti gli attributi essenziali, che possono appartenergli ciò, che avvenir non può in un ente composto.

Così pensa lo spregiudicato Filosofo sopra gli esseri, e sopra quella scienza, che ci apre la via alle altre sublimi Metafisiche dottrine. Parmi alcerto, che dai dogmi finora enunciati abbastanza dimostrisi l’utilità degli Ontologici studj a fronte de’ contrarj argomenti, e degl’insensati avversarj. [p. 42 modifica] [p. 44 modifica] Una luminosa prova dell’Immaterialità dell’anima umana vien somministrata dalla forza della di lei immaginazione. Egli è chiaro infatti, che la materia non può formare alcuna idèa nè concepire alcun pensiero mentre nulla impedirebbe se si ammettesse il contrario, che i tronchi atti fossero a pensare, a ragionare, e ad alzarsi a quelle sublimi cognizioni, di cui sono capaci gli enti dotati di un’anima, la quale essere deve necessariamente immateriale. Dalla sua immaterialità deducesi la di lei immortalità poiché essendo ella un essere semplice, e privo di parti non può perire per alcuna intrinseca causa, qual sarebbe la dissoluzione delle medesime, e d’altronde avendola l’Ente supremo creata a di lui immagine e non essendo i corpi soggetti all’annichilamento assurdo sarebbe il dire, che le anime esser debbano ridotte al nulla. Dai pensieri adunque dell’uomo dedur si possono l’Immaterialità ed Immortalità della sua mente non meno che la di lei libertà. Poiché la quotidiana nostra esperienza, evidentemente ci prova, che gli umani pensieri si determinano a loro agio senza alcuna intrinseca forza, che li [p. 45 modifica]costringa, o li obblighi ad abbracciare alcun partito in pregiudizio di quella libertà, che è connaturale all’umana mente, e che deve annoverarsi tra quelle doti, che formano la natura di una sì sublime sostanza qual’è l’anima dell’uomo, e che l’innalzano al di sopra di tutti gli enti creati, i quali, toltine gli Spiriti celesti sono ad essa inferiori, e soggetti. Quei medesimi pensieri, che in tanti aspetti si offrono allo sguardo del saggio Filosofo sono al presente l’oggetto, e lo scopo delle nostre parole, e noi li presenteremo in quell’aspetto, nel quale essi sembrano avvilir piuttosto la mente dell’uomo di quello che nobilitarla. Noi mostreremo adunque le cause, e le proprietà de’ sogni, e tutto ciò, che ad essi appartiene nel più chiaro lume porremo, che ci sarà possibile.

Noi non intendiamo in questo luogo di parlare che degli effetti dell’immaginazione nel tempo del sonno. Egli è questo quel tempo nel quale gli organi sensorj ed il celabro, in cui possiamo ragionevolmente supporre la sede dell’anima sono come oppressi da un torpore, o da un gravame il quale impedisce ai nervi di portare al celabro le impressioni ricevute, e si oppone più, o meno all’esercizio delle facoltà dell’anima a misura che questa si va avvicinando dalla vigilia al sonno, e dal sonno alla vigilia. Infatti allorché noi siamo in una perfetta veglia le facoltà della nostra anima si esercitano liberamente, e le ricevute impressioni vengono con ogni esattezza portate dai nervi al celabro in modo che, non essendovi alcun sufficiente impe[p. 46 modifica]dimento l’anima resta avvertita, e si accorge di qualunque benché minima impressione fatta negli organi sensorj. Se poi l’uomo entri in qualche leggero assopimento noi vediamo, che le nostre sensazioni sono men vive, e l’attenzione, che fa l’anima alle medesime si minora appoco appoco in modo che quando l’uomo è in procinto di addormentarsi l’anima percepisce appena languidamente gli oggetti delle proprie sensazioni finché le sue operazioni restano totalmente sospese. Noi possiamo affermare quest’ultima proposizione solo sopra la nostra esperienza poiché niuno ci assicura, che realmente sia l’anima in quel tempo affatto priva di sensazioni. Nondimeno noi possiamo supporlo poiché non evvi in ciò alcuna assurdità, e d’altronde la nostra cognizione sembra persuadercelo evidentemente. L’uomo dunque cessando appoco appoco la cagione, che impedisce alla sua mente il libero esercizio delle proprie facoltà torna gradatamente dal sonno alla vigilia, ed in questo tempo egli forma quelle confuse idèe di cui dobbiamo parlare. «La cagione de’ sogni, come esprimesi il celebre Muratori, ad altro verisimilmente non si può attribuire se non al trovarsi la Fantasìa allorché dormiamo come in sua balìa stante il riposo, o il legamento, che allora succede dell’anima o dei sensi. Gli spiriti del sangue circolanti per le cellette del cerebro commuovono allora i Fantasmi confitti ne’ varj strati, e piegature di esso cerebro, onde vengono a formarsi varie scene ora regolate, ma per lo più sregolate, e senza connessione veruna». Io aggiun[p. 47 modifica]gerò, che gli spiriti del sangue, ed il fluido nerveo dovendo per l’avvicinarsi dell’uomo alla vigilia scuotersi, e circolare, i medesimi sogliono determinarsi ad eccitare nel celabro quelle sensazioni, che in esso eccitarono nel tempo della vigilia piuttosto, che a produrne delle nuove. Egli è infatti ben raro che si percepiscano nel sonno delle Idèe che non abbiano alcuna correlazione coi pensieri avuti nel tempo della vigilia, e se sembrano talvolta esser le prime affatto indipendenti dagli ultimi ciò potrà forse avvenire per la confusa unione di più idèe concepite nel tempo della vigilia che non possono discernersi ad una ad una, e formano insieme un oggetto che non sembra esser consentaneo in alcun modo ai pensieri, ed alle sensazioni eccitatesi nella mente umana in tempo della vigilia. Accade bene spesso che i sogni ancora regolati, e tranquilli rappresentino oggetti puerili, e ridicoli alla mente ancora degli uomini più saggi, ed assennati. Ciò avviene perchè essendo l’anima dell’uomo oppressa, ed assopita, ed intercluso essendo l’esercizio delle sue facoltà ella non può fare l’uso adequato della sua ragione, il quale è necessario per conoscere la picciolezza delle sue idèe, e per rigettarle. Nondimeno avverrà talvolta, che per l’abitudine fattane nel tempo della vigilia le medesime vengano dalla mente rigettate, ed inoltre venendo la mente a ricuperare coll’avvicinarsi dell’uomo alla vigilia una parte delle proprie facoltà essa può allora in qualche modo far uso della sua ragione, e delle sue cognizioni come hanno esperimentato quelli, i quali hanno nel sonno immaginati de’ versi, o altre simili cose di cui in niun modo avevano conoscenza nel tempo della vigilia. [p. 48 modifica] Ell’è questione agitata da’ Metafisici se la mente dell’uomo intervenga ed assista alle Idèe concepite nel sonno, ovvero se ella non concorra in modo alcuno alla percezione delle medesime. Sonovi alcuni, i quali sostengono quest’ultima proposizione dicendo per favorire la loro opinione che l’anima dell’uomo essendo ragionevole non può concorrere a quelle idèe che formano la materia dei sogni, le quali non sono per la maggior parte, che mostri informi, ed incoerenti fantasmi degni di una mente priva affatto di ragione. Se ciò fosse bastante a provare che l’anima umana non assiste, e non interviene alle idèe concepite ne’ sogni dovrebbesi altresì affermare che ella non concorre in alcun modo alle operazioni ed ai pensieri dei fanciulli, ed a quelli de’ pazzi, poiché ancor questi degni sono di animali irragionevoli. Egli è evidente che l’anima umana non ha nel sogno il libero esercizio della sua ragione, e per conseguenza essa non conosce la puerilità, o l’assurdità de’ suoi pensieri, ma chi potrà affermare, che l’anima umana non intervenga a quelle idèe che l’uomo concepisce nel tempo del sonno mentre ella si ricorda nel sogno delle passate vicende giudica, crede, e vuole, e fa in somma tutte quelle operazioni che son sue proprie ad esclusione di tutti gli altri esseri? Non credo che alcun sensato Filosofo possa in questa questione opporsi all’interno testimonio della propria esperienza, e cognizione abbracciando la proposizione degli avversarj la di cui falsità viene da più Scrittori dimostrata con incontrastabili ragioni.

Avviene talora, che la mente dell’uomo concepisca nel sogno alcune idèe, delle quali niuna presentossi giammai per l’addietro alla sua immaginazione. La causa di ciò può spiegarsi [p. 49 modifica] per mezzo degli spiriti del sangue, i quali con il Chiarissimo Muratori ammettemmo come causa immediata de’ sogni. Se i medesimi nell’avvicinarsi, che fa l’uomo dal sonno alla vigilia vengano a percorrere delle vìe affatto nuove, ed inusitate essi desteranno nella mente delle idèe non mai conosciute, e che non hanno correlazione alcuna con quelle, che dall’umana mente furono per l’addietro percepite. Egli è però ben raro, che ciò avvenga poiché, come dicemmo, gli spiriti del sangue nell’approssimarsi dell’uomo alla vigilia si determinano d’ordinario a circolare per quelle traccie, per cui scorsero fuori del sonno, e può talvolta accadere, che formandosi dalla confusa unione delle passate idèe un tutto mostruoso sembri, che il sogno non abbia correlazione alcuna con le idèe concepite nel tempo della vigilia.

Nè solo gli spiriti del sangue si determinano a scorrere per le vie già percorse nel tempo della vigilia ma avviene talvolta, che i medesimi seguano quelle traccie che gli additano le idee concepite dalla mente umana ne’ passati sogni sebbene elleno non siano in alcun modo consentanee alle idèe concepite nel tempo della vigilia, il che accade però come dicemmo assai raramente.

Le corporee affezioni stante l’influsso Fisico ossia quella forza che ha l’anima di agire sul corpo, ed il corpo di agire sull’anima nel reciproco loro commercio possono grandemente contribuire a quelle idèe, che nel sonno vengon concepite dalla mente umana. Sogliono infatti gli infermi per il disordine della loro macchina corporea, e della naturale economìa esser soggetti a dei sogni affatto disordinati ciò che diede occasione al Venosino di paragonarli agli scritti di un poeta, ne’ quali

...Velut aegri somnia vanae
Finguntur species, ut nec pes nec caput uni
Reddatur formae... Arte Poe.

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Talora, essendo l’uomo vicino alla vigilia immediatamente, si accorge delle esterne sensazioni le quali fanno impressione nel celabro per mezzo del fluido nerveo, e percepisconsi dalla mente come annesse in qualche modo al sogno, che è in quel tempo presente alla sua immaginazione. Il che accade perchè riacquistando la mente collo svanir del sonno le proprie facoltà viene per mezzo di queste ad avvedersi delle impressioni, che fanno gli oggetti esterni negli organi sensorj, ma per la confusione che regna ancora tra le sue idèe ella non sa distinguerle perfettamente da quelle, che occupano la sua immaginazione.

Verrà qui forse richiesto se possa dai sogni venir predetto il futuro, e se debba prestarsi fede ai presagj fondati sopra i medesimi cotanto decantati dagli antichi Istorici. Un tale argomento esser può il soggetto delle più accese questioni, e delle dispute più ferventi. Noi ci contenteremo di esaminarlo nell’aspetto, che è conveniente ad un Metafisico, e non ad un sottile indagatore delle magiche virtù il che non sarebbe in alcun modo consentaneo al nostro proposito. E noto il sogno avuto da Calpurnia la notte precedente all’uccisione di Giulio Cesare suo consorte, nel quale gli parve di vederlo coperto di ferite, e grondante di sangue per il che gettava ancora dormendo profondi sospiri. Mi sia lecito di affermare che i sogni possono naturalmente predire talvolta il futuro. Ed infatti non era del tutto ignota la congiura che tolse di vita il Dittatore, il quale avvertito di guardarsi dal Console Antonio rispose temere egli più lo sparuto aspetto di Bruto, e Cassio, i quali furono i capi del com[p. 51 modifica]plotto, che la molle, e lussuriosa effeminatezza del Console. Inoltre a niuno in Roma era ignoto il pericolo, in cui era la vita di Cesare essendo egli quasi privo affatto di guardie in balìa di un popolo amante all’eccesso di libertà, la quale eragli tolta dal medesimo. Con queste immagini adunque venendo Calpurnia occupata dal sonno, nulla evvi di meraviglioso in ciò, che gli spiriti animali percorrendo per le usate traccie venissero a rappresentargli il suo Consorte in quello stato, in cui gli parve nel sogno di ravvisarlo. Per conseguenza se l’avvenire abbia una qualche correlazione con ciò che potea congetturarsi può naturalmente venir predetto nel sogno. Se poi il futuro non possa congetturarsi in alcun modo, e nondimeno venga ne’ sogni ad esser predetto ciò avverrà per un’accidentale combinazione ovvero per alcun’altra causa, di cui il trattare non è ora del nostro proposito.

Ciò che finora dicemmo esser può sufficiente a stabilire una perfetta Teorìa dei Sogni, ed a spiegare le cagioni primaria, ed immediata dei medesimi. Quantunque ciò che può dirsi intorno ai pensieri concepiti dalla mente umana nel tempo del sonno sia per la maggior parte fondato sopra l’universale esperienza la dottrina dei medesimi è soggetta nondimeno a delle scabrose difficoltà che non è sì facile l’appianare. Noi ci sforzammo di farlo con la maggior chiarezza possibile. [p. 52 modifica] [p. 55 modifica]
L
a tanto decantata questione circa quegli esseri che più di ogni altra creatura, toltene le Angeliche sostanze, sembrano aver somiglianza con l’uomo, è quella, che a disciogliere intraprendiamo. Diversità di pareri, varietà di sistemi, moltiplicità di obbjezioni, furore dei partiti, tutto contribuisce a renderne lo scioglimento in sommo grado difficoltoso. Con le più forti ragioni contro gli opposti pareri si scagliano il gran Cartesio, ed il dottissimo Cardinale di Polignac nel suo Anti-Lucrezio affermando esser l’anima dei bruti soltanto una macchina per artifizial meccanismo disposta, a quelle operazioni, che tutto giorno nelle bestie si scorgono. Dall’altra parte il celebre Maupertuis si sforza con tutto l’impegno di provare, che l’anime dei bruti sono dotate di ragione, e giunge perfino a dubitare se desse sieno ancora capaci dell’immortalità. Non pochi son quei Filosofi i quali proposero altri sistemi circa i bruti ciascuno dei quali vie ne con il maggior calore sostenuto dai suoi fautori. Oltre questi [p. 56 modifica]da un sensato Scrittore vien proposto un sistema, il quale sembra certamente il più facile a dimostrarsi, e il più concorde con il sentimento comune degli uomini. «Un sistema di mezzo, egli dice, circa l’anima dei Bruti, è quello, che senza ridurla al niente coi Cartesiani, e senza uguagliarla in tutto all’umana, le attribuisce qualche specie di essere spirituale, qualche participazione di ragione, di raziocinio, e di esterna manifestazione dei sentimenti interni con voci, o altri segni». Ciò viene approvato in qualche parte dal celeberrimo Gio: Giacomo Rousseau allorché dice «Tout animal a des idèes puisqu’il a des sens il combine même ses idèes jusqu’à un certain point, et l’Homme ne differe a cet egarde de la bête que du plus au moins. Quelques Philosophes ont même avance qu’il y a plus de difference de tel Homme à tel Homme que de tel Homme à telle bête». Io aggiungerò a queste doti dell’anima delle bestie una imperfetta libertà, la quale non fa, che i bruti possano meritare, o demeritare poi[p. 57 modifica]chè non hanno nè aver possono cognizione alcuna della moralità delle azioni. Per esaminare adunque la proposta questione circa l’anima delle bestie, noi apporteremo in prima le ragioni favorevoli all’enunciato sistema passeremo quindi a quelle, che dai fautori degli opposti pareri sogliono arrecarsi, e concluderemo poscia decidendo qual sia fra questi il più probabile.

Che i bruti abbian l’anima ciò sembra dimostrato dalla stessa natura poiché, come afferma L’Abate Sauri ne’ suoi Elementi di Metafisica «bisogna convenire, che gli uomini hanno un’inclinazione quasi irresistibile, e tanto forte, e tanto naturale a credere, che le bestie sieno animate, che ad onta degli sforzi maggiori di alcuni Filosofi non ci sarà mai fuorché un picciolissimo numero di pensatori, che averanno il coraggio di abbracciare il sentimento contrario». «Direte voi, che l’anima delle bestie è materia? (così si esprime il celebre Can. Alfonso Muzzarelli all’Opuscolo VI del Buon uso della Logica in materia di Religione.) Ma negate se potete, che le bestie abbiano delle idèe, e delle cognizioni dirette. Esse vedono, sentono, e in conseguenza di queste sensazioni agiscono come ognuno esperimenta. O a che valgono gli occhi se non vedono, a che l’orecchie se non sentono? perchè sono prive d’idèe se hanno tutti gli strumenti necessarj per riceverle in se stesse?» La sacra Biblia chiama i Bruti anime viventi allorché nel capitolo II della Genesi al versetto 29.30. così parla «Dixitque Deus ecce dedi vobis omnem herbam afferentem semen super terram ...ut sint vobis in escam et cunctis animantibus terrae, et omni volucri coeli et universis quae moventur in terra, et in quibus est anima vivens». La medesima nel capitolo II della Genesi al versetto 19 così dice «Omne quod [p. 58 modifica] vocavit Adam animae viventis ipsum est nomen ejus». Se dunque si ammetta, che le bestie sieno animate sembra assai consentaneo alla retta ragione il proposto sistema poiché ciò, che tuttogiorno nei bruti ammiriamo chiaramente cel dimostra. Ed infatti chi mai nel vedere il cotanto industrioso governo dell’api, la costruzione delle loro cellette, l’amore verso i proprj parti, l’ingegno nel succhiar dai fiori il mele, e nel fabbricarlo, il rispetto, che tuttora portano al loro Re, chiaramente non comprende, che le bestie sono dotate di un qualche barlume di ragione? So, che mi potrà essere opposto, che tutto ciò avviene per un naturale istinto richiedendomi con le parole del celeberrimo Pope nel Saggio sopra l’uomo «Chi si è incaricato d’insegnare agli abitanti dell’acque e delle foreste a scegliere i loro alimenti, e ad evitare i veleni? Chi gli ha istruiti a fabbricare sopra i flutti, o a formar delle volte sotto la sabbia per resistere alle marèe, o alle tempeste, da cui eglino sarebbono minacciati? Chi ha mostrato al ragno l’arte di tirar senza regola e con maggior giustezza di Moivre (Matematico, e Algebrista Inglese) delle parallele sì esatte? alle cicogne il modo di scoprire come Colombo dei cieli stranieri, e delle terre sconosciute? Chi riunisce questo popolo di ucelli? Chi presiede al consiglio dove si determina il giorno, e l’ora della partenza? Chi forma la falange? Chi gli mostra il cammino?» Io rispondo, che se si vuole ammetter la natura come regolatrice, ed autrice di queste azioni ciò non sarà, che in quella che riguarda la conservazione dei bruti, onde nelle altre loro azioni è necessario un qualche raziocinio, ed un barlume di ragione.

Non trovo poi alcuna difficoltà, che impedir possa di ammettere una imperfetta libertà nei bruti poiché chi mai potrà negare, che un augello sia libero di alzare o no il suo volo, e di [p. 59 modifica]seguire in ciò gl’impulsi della propria volontà? Questo stesso è agli uomini insegnato dalla natura medesima poiché ciascuno evidentemente comprende non esservi alcuna intrinseca forza, che costringa un cavallo a correre, o un agnello a belare. Ed infatti «Vediamo ogni giorno, al dir del Sig.r Collins, gli esempj dell’utilità de’ gastighi in riguardo di qualche essere intelligente, e sensibile... Si gastigano quotidianamente con frutto i cani, i cavalli, egli altri animali». Che se mi si opponesse esservi ne’ bruti un’intrinseca forza, che li costringe e ciò provarsi da varj esempj poiché spinto da essa trema l’Elefante alla vista di un topo, e irresistibilmente è costretto il lupo a fuggire dal fuoco, ed il gatto a fremere contro del cane; io risponderei, che se l’uomo è soggetto a simili pregiudizj così che la sola vista di un lampo, o lo sparo di un cannone può far talvolta innorridire i più savj sebbene nulla da essi siavi a temere; molto più devono essere a tali pregiudizj soggette le bestie, che quella ragione non hanno, di cui gli uomini sono dotati, e che se simili puerilità non tolgono la libertà nell’uomo molto meno la tolgono nei bruti. Nè mi si dica, che un naturale istinto costringe gli animali ad operare, poiché se pur si deve ammettere cotesto istinto, il che è, per mio avviso, il medesimo, che ciò, che appellasi caso, egli è chiaro, che la natura non farà per mezzo di esso, che istruir l’animale nelle differenti azioni, che riguardano la di lui conservazione, ma il medesimo non verrà in modo alcuno costretto ad operare a seconda di questo istinto. Un fanciullo, a cagion d’esempio accarezza con predilezione i proprj genitori sebbene ignori di essere stato da questi generato; dovrà forse dirsi per ciò, che egli [p. 60 modifica] agisca necessariamente? Ciò non può certamente affermarsi, ed in conseguenza dalla accennata obbjezione non può esser tolta la libertà nei bruti. Dalle finquì esposte ragioni abbastanza vien dimostrata la probabilità del sistema, di cui parliamo, onde seguendo il nostro istituto dobbiamo ora esaminare gli opposti sistemi per quindi conoscere quale tra questi a preferenza degli altri ammetter si debba. «Eccoci, al dir d’un sensato Filosofo, all’opinione più celebre, e più stravagante, che sia giammai comparsa nel teatro della Fisica naturale». L’anima delle bestie è un puro meccanismo, esclama arditamente il gran Cartesio, e dietro a lui come al maggior de’ Filosofi corrono tosto i sapienti in gran numero, ed a spada tratta a difender si accingono il suo parere. Il celebre Regiomontano, si suol dire dai Cartesiani seppe costruire un’Aquila, che volando per l’aria indicava ad un Imperatore la via verso Norimberga il medesimo fabbricò una mosca volante. A tutti è noto il capo di creta di Alberto Magno, il quale proferiva alcune parole, e narrasi ancora finalmente, che da un prigione in Marocco lavorassi una statua, la quale dalla carcere recandosi al reale palagio, e quivi piegate d’innanzi al Re le ginocchia, ed in atto supplichevole porgendogli un memoriale impetrò al suo artefice la libertà. Posto tutto ciò evidentemente si dimostra, che l'anime dei bruti non sono, che semplici macchine poiché se egli è possibile agli uomini il far movere parlare, ed operare per mezzo di meccanismo alcuni automi come potrà affermarsi, [p. 61 modifica] che ciò sia impossibile a Dio? Ed infatti, come si esprime il Cardinale di Polignac maggiormente non si deve attribuir l’anima ai Bruti, che alle piante, ed a’ fossili, imperocché chi mai ardirà di dire, che l’erba nomata sensitiva, la quale toccata appena ritira tutte le sue foglie, e come offesa china a terra il capo rattorto chi mai ardirà di dire, che quest’erba sia animata? e chi pur anche affermar potrà, che animata sia la vite la quale s’inerpica per gli olmi frondosi afferra i suoi rami, e a guisa di serpe abbracciando il suo tronco giunge abbarbicandosi sino alla cima? E se l’anima non hanno queste piante non è egli evidente, che ai bruti nemmeno devesi l’anima attribuire? È questa l’eloquente argomentazione di Cartesio, e de’ suoi fautori, i quali avendo così dimostrata la pretesa verità di siffatto sistema nella sua natura passano a dimostrarla in confronto agli altri sistemi. Se si tagli essi dicono in molte parti un lombrico il medesimo torna a vivere moltiplicato in tante parti in quante egli fu diviso. Se si ammetta, che l’anima dei bruti sia un puro meccanismo facilmente si comprende come ciò possa accadere poiché essendo ciascuna di quelle parti sufficientemente organizzata [p. 62 modifica] possono esse operare separatamente come oprarebbono se fossero insiem congiunte. Ma se però si ammetta, che i bruti abbiano un’anima immateriale come può avvenire, che le parti di un lombrico diviso tornino a vivere? Forse dovrà dirsi, che una sostanza immateriale possa dividersi in tante parti in quante vien diviso il lombrico? Ciò sarebbe un assurdo, e se questo non può affermarsi affermar non si deve neppure, che l’anima delle bestie sia immateriale. Inoltre qual sarà la sorte dell’anima dei bruti dopo il fine della lor vita? Forse dir si deve che desse sieno immortali? Forse, che debbano godere, o patire secondo le loro buone, o cattive azioni? Tutto ciò sarebbe un’assurdità. Forse dovrà affermarsi, che da un bruto passi l’anima in un altro così che si ammetta la Metempsicosi soltanto nelle bestie? Ma qual sarà il destino di queste anime alla fine del mondo? Forse si dirà, che Iddio le annichili? ciò sarebbe direttamente opposto alla volgare opinione cioè, che Dio nulla distrugga di ciò, che ha creato. Posta adunque l’immaterialità delle anime dei bruti non si può in alcun modo determinare qual sia il fine, a cui son destinate dopo la loro morte. Questa incertezza vien tolta se si ammetta, che i bruti non operano, che per un semplice meccanismo; poiché sconvolta per qualunque intrinseca, o estrinseca cagione la macchina del loro corpo a lui si rende impossibile l’operare, nel che consiste la vita dei bruti, ed in questo modo essa ha il suo termine.

Ecco il celeberrimo sistema di Cartesio provato con i più [p. 63 modifica] forti argomenti dai suoi seguaci. Nondimeno, al dir dell’Abate Sauri «tutte queste ragioni e molte altre eziandìo non vagliono a fare, che il sistema dei Cartesiani non si consideri come un assurdo». Ed infatti in qual modo potranno mai persuadersi gli uomini savj, che allorché ammirano nei bruti tanti diversi segni di gratitudine, o di odio, di tenerezza, o di furore ciò non sia l’effetto, che di un semplice meccanismo? Chi mai potrà credere, che la tanto sagace providenza delle formiche, le quali con tanta cura si affaticano nell’estate per avere di che sussistere nell’inverno non provenga, che dalla forza di una macchina, che le fa operare? Chi mai ardirà di dire, che in quel Lione, il quale liberato per mezzo di un Cavaliere da un orrido serpente, che minacciava di togliergli la vita, sempre lo seguì in tutti i suoi viaggi difendendolo a guisa di fedelissimo compagno; finché dovendo il Cavaliere imbarcarsi, e ricusando i Naviganti di ricevere nel vascello il lione, tosto che vide allontanarsi dalla riva il suo caro Liberatore oppresso dal duolo gittossi nell’acque, e seguitò a nuoto la nave fino a spirare sopraffatto dall’onde; chi mai ardirà di dire, che un successo sì commovente non avvenisse, che per mezzo dell’intrinseca organizzazione della fiera? E lo stesso Cartesio non opera egli contro l’interno testimonio della propria cognizione allorché afferma, che, benché ciò sembri, [p. 64 modifica] nondimeno non sono i bruti soggetti ad alcun sentimento di dolore, quando chiaramente si scorge dai suoi pietosi latrati, che un cane prova se si percuota quella pena, che noi stessi sperimentiamo? E qual uomo, che abbia una sola tintura di ragione potrà persuadersi, che i palpiti, i gemiti, le strida di un pulcino rapito dall’adunco artiglio di un nibbio crudele non derivino da alcun senso di timore, e d’affanno? Ma a vieppiù dimostrare l’assurdità di questo sistema vedasi quali sieno sopra il medesimo i sentimenti di un sublime moderno Filosofo. Il celebre P. Paulian nel suo Dizionario di Fisica propone la seguente questione:

«Les animauxgardent-ils dans leurs mouvemens les loix de la Me- canique? Egli la scioglie in tal modo.

Pour satisfaire à cette question jeprends deux loix, que les Cartesiens eux-mèmes regardent comme deux regles generales de la Mecanique.

On les exprime en ces termes. Tout corps en mouvement tend a parcourir une ligne droite.

Le changement de mouvement est toujours proportionnel à la force motrice qui l’occasionne.

Je le demande maintenant a tout physicien impartial. Un chien qui revoit son maître, et qui lui temoigne son attachement par des caresses, des transports, des Sauts de toute espece; un cerf qui fuit la poursuite d’un chien, qui fait retentir l’airde ses aboyemens, un singe qui copie avec de grace le ridicule des hommes tous ces animaux gardent-ils exactement la premiere de ces deux loix, ou plutôt ne sont-ils pas aussi indifferents que nous à parcourir une ligne courbe, ou une ligne droite? [p. 65 modifica]

Ils ne sont pas plus fidelles à la seconde loi. Un chien au premier signal de son maître court avec impetuositè vers l’endroit qu’on lui indique, le même signe l’arrète dans sa course quelque rapide que elle soit; je le demande encore y a-t-il quelque proportion entre la cause, et l’effet, entre le changement de mouvement, et la force motrice qui l’a occasionè, et n’eston pas obligè de convenir que les animaux negardent pas dans leurs mouvemens les loix de la mecanique?

Corollaire. Les Animaux ne sont pas de pures machines; pourquoi? parceque une machine dispensèe des loix de la mecanique est une chimere».

E ciò può esser bastante a dimostrare l’assurdità del sistema dei Cartesiani nella sua natura: resta ora il considerare le ragioni apportate da questi per difendere il lor parere, e le obiezioni, che i medesimi far sogliono agli opposti sistemi, e il vedere se vaglian quelle a sostenere il primo, e se sian queste sufficienti ad abbattere i secondi.

La celebre aquila, e la mosca volante di Regiomontano il capo di creta di Alberto Magno l’automa ambulante del prigione di Marocco su cui tanto si fondano i Cartesiani altro provar non potranno se non che esser possibile all’Ente Supremo di dare il moto, e la forza di operare ai bruti per mezzo dell’interna loro organizzazione, il che alcuno non pensò giammai di negare non essendo la materialità dell’anima dei bruti intrinsecamente, e di sua natura impossibile, ma dai medesimi non potrà mai venir dimostrato, che i bruti non sieno realmente, che semplici macchine poiché sebbene con la forza potentissima dell’ingegno giungesse l’uomo a far sì che per mezzo di macchine in una statua si ammirasse l’istessa succession delle azioni, che presentemente ne’ bruti scorgiamo non mai però potrà farsi, [p. 66 modifica] che siffatti simulacri abbiano gli stessi affetti, e le stesse passioni, che le bestie sperimentano; e posto ancora, che ad un artefice impossibil non fosse il fare, che estrinsecamente apparissero in un automa alcuni segni o di dolore, o di piacere; o di allegrezza, o di mestizia ciò non proverebbe in alcun modo, che i bruti non fossero, che semplici statue poiché l’imitare una cosa non potrà mai dimostrare, che dessa sia eguale a ciò, che l’imita. Ed infatti se da un meccanico si costruisse una pianta, la quale nel corso di alcuni mesi, come negli alberi tuttogiorno vediamo, giungesse per mezzo dell’interno lavoro a produrre de’ frutti forse creder si dovrebbe, che in tal modo si producano i medesimi ne’ vegetabili? No certamente, e se si possono in qualche simulacro imitare le azioni dei bruti data la parità concludo, che da ciò non può dedursi in modo alcuno, che le bestie operino come tali automi. Le similitudini poi dell’erba nomata sensitiva, e della vite altro non sono in realtà che semplici poetiche immagini, e non già Filosofiche dimostrazioni poiché se l’erba sensitiva si move, e sfugge d’esser tocca e se la vite s’arrampa a ciò, che a lei si presenta nè in questa nè in quella appariscono gl’istessi affetti, le stesse passioni i medesimi sentimenti che appariscono nei bruti e perciò in verun modo non può da questo dimostrarsi, che le bestie non sieno, che semplici automi. In quanto poi a quella obbjezione, che far sogliono i Cartesiani intorno ad un lombrico il quale diviso in più parti torna in tutte queste parti a rivivere, nulla evvi in ciò, che tanto sia difficile a ribattersi come suppongono i Cartesiani, a ciò bastando le parole di un illustre moderno autore, il quale così si esprime «Se mi venisse richiesto in qual modo allorché si taglia in molte parti un lombrico terrestre ciascheduna di queste parti possano formare un corpo vivente, io risponderei, che essendosi il Supre- [p. 67 modifica] mo Essere determinato fino da tutta l’eternità a creare gli uomini, e gli animali, immediatamente, che i corpi fossero in istato di essere animati egli avrà potuto determinarsi a creare delle nuove anime per le varie parti del lombrico diviso ogni qual volta queste parti, e queste divisioni del lombrico si ritrovino sufficientemente organizzate per ricevere un’anima, e per eseguire i di lei ordini. Infatti poiché queste parti separate, e divise formano dei corpi organizzati per qual ragione il Supremo Essere non congiungerà ad essi un’anima siccome lo fa in riguardo all’uomo dentro l’utero della Madre subito, che il corpo del feto si ritrovi organizzato sufficientemente?» Il medesimo rispondendo all’altra obiezione solita a farsi dai cartesiani così parla «Se mi si chiedesse cosa diverranno l’anime delle bestie dopo la morte del loro corpo, io direi, ch’esse non vedranno Dio, ma che niente ripugna, che questo Supremo Essere le conservi, e le faccia godere di una spezie di felicità. Se mi si chiedesse in qual cosa consista precisamente questa felicità mi sarebbe facile il rispondere che io non ne so cosa alcuna, e che da me non si deve esigere una maggior dottrina di quella che si può ritrovare in tutti gli altri uomini insieme.» Non sembra però che una tal proposizione aver possa gran numero di partigiani. Perciò io direi, che da noi affatto s’ignora qual sia il fine a cui l’anime dei bruti sono destinate, e che se il non sapere qual sia il fine, a cui son dirette le anime di quegl’Infanti, che muojono privi del lavacro Battesimale non toglie la verità di quanto al presente si afferma attorno ad esse; così l’ignorare qual sia per esser la sorte dell’anima dei bruti dopo la fine dalla loro vita non toglie, che desse sieno una sostanza dal proprio corpo diversa. Sonovi alcuni, i quali affermano, che l’anime dei bruti dopo la loro morte venendo dotate di ragione passino ad animare de’ corpi umani; ma ciò non deve certamente ammettersi poiché essendo il numero delle bestie di gran lunga superiore a quello degli uomini qual sarà poi il destino di quelle anime, che ne’ corpi umani non son collocate? ovvero perché piuttosto l’anima di un Leo[p. 68 modifica] ne, che quella di una tigre dovrà passare nell’uomo? E ciò basti intorno al celeberrimo sistema di Cartesio; passiamo ora ad esaminare quello del Maupertuis, il quale non sarà certo difeso se non da quelli che simili sono appunto a quegli Esseri di cui trattano.

Le assurdità dell’opinione di cui parliamo vengon confermate da un recente Scrittore sedicente Filosofo, il quale spacciando buon senso, e dottrina sostiene le più false proposizioni, e i dogmi più pericolosi ch’esser vi possano. Afferma egli, che le bestie sono ragionevoli. Noi gliel concederemo purchè egli cel dimostri ammaestrando prima nella volgar lingua un qualche bruto, e quindi nelle Filosofiche scienze onde possiamo esser convinti che le bestie sono capaci di un perfetto intendimento. «E dove saremmo noi, dice il sopra lodato moderno Autore se le bestie avessero la ragione... come noi e se ne usassero come gli uomini? Il disordine la crudeltà, la devastazione sarebbono stati enormi sopra la terra». Nè certo abbiam noi alcun motivo di credere che le bestie fossero per fare un miglior uso della ragione di quello che ne vien fatto dagli uomini. Inoltre concesso il sistema del Maupertuis gli uomini non sarebbono in alcun modo differenti dai bruti quando tutti ammettono che l’uomo è la più nobil creatura, che sia uscita dalle mani dell’Onnipotente, e che il medesimo è come il sovrano di tutte le altre cose create, il che vien confermato dalle parole stesse di Dio allorchè dice Genesis cap. 1 vers. 26. «Praesit homo piscibus maris, et volatilibus caeli, et bestiis, universaeque terrae, omnique reptili, quod movetur in terra». [p. 69 modifica] In che sarebbe fondato questo dominio dell’uomo sopra gli animali se i medesimi fossero ragionevoli com’esso, e delle stesse doti fossero ornati? Ma noi non potremmo meglio confondere i fautori del presente sistema, che disprezzandolo, e non curando di parlar su di ciò che non può esser fondato se non sopra ingannevoli sofismi, ed artificiosi argomenti.

Come falsa adunque, e come assurda riguardar si deve una siffatta opinione poiché nulla ritrovasi in essa, che non sia contrario alla retta Filosofia, al parer de’ Sapienti, ed a’ santi Dogmi della Cattolica Religione. Varj son quei Filosofi dai quali vengon proposti diversi altri sistemi circa l’anima dei bruti. Evvi tra questi chi afferma che l’anima delle bestie consiste soltanto negli spiriti animali, e nel sangue ciò che di provar si argomenta colle parole della sacra Biblia Deuteronomii cap. XII vers. 23. «Hocsolum cave ne sanguinem comedas, sanguis enim illorum, animalium, pro anima est.» Il chiarissimo Tostato spiega un tal passo nel modo seguente. In idem cap. Quaest. 9. «Videtur esse quaedam species crudelitatis quod quis comedat animatn cum sanguine: nam anima pecoris in sanguine est, scilicet quod sanguis est talis complexionis naturaliter, in quo magis reperitur harmonia requisita ad unionem animae ad corpus, quam in phlegmate, aut cholera, vel aliquo alio humore, nam in sanguine reperiuntur calidum naturale, et humidum radicale temperata quae sunt duo principia vitae, et non reperitur hoc in aliquo alio humore, vel aliqua alla corporis parte». Da ciò si vede, che la sacra Biblia non usa le accennate parole, che per un modo di esprimersi, onde il predetto sistema soggetto essendo alle difficoltà del parer di Cartesio bastar può a dimostrarne la falsità ciò, [p. 70 modifica] che di quest’ultimo si è detto. Le medesime ragioni valer possono ad abbattere il sistema, il quale afferma esser l’anima delle bestie «una sottilissima fiamma, che alimentata, per servirmi delle parole del celebre Abate Chiari, per via di respirazione dai più minuti sostanziali corpuscoli per l’aria sparsi allo sconcertarsi della macchina corporea quasi fiaccola, che si estingua per l’aria insensibilmente disperdesi». Questo sistema afferma necessariamente, che le bestie non abbiano sensazioni, poiché la materia non è di queste capace, ed è per conseguenza soggetto alle difficoltà dell’opinione de’ Cartesiani. Non credo poi che alcuno esser vi possa il quale guidar si lasci dal pazzo sistema, nel quale affermasi, che i bruti non si muovano, e non siano animati che dai cattivi Spiriti proposto dall’Autore dello scritto Amusement Philosophique sur l’ame des bêtes non dovendo egli riguardarsi che come parto di un bizzarro ingegno, e non come frutto di Filosofiche meditazioni. In quanto agli altri sistemi proposti circa l’anima de’ bruti essi son tali, che si distruggono da se medesimi, e non possono certamente avere un gran numero di partigiani poiché la sentenza dei Materialisti, che afferma essere il principio sensitivo dei bruti una semplice materia organica cosicché le bestie sperimentino nel corpo l’istesse sensazioni, che l’uomo per forza soltanto della materia è di sua natura assurda non potendo in alcun modo il principio sensitivo appartenere ad una sostanza corporea; il che vale ancora a confutare il sistema dei Peripatetici i quali ammettono, che questo principio sensitivo nei [p. 71 modifica] bruti sia una forma sostanziale proveniente dalla materia. Nè solo disputano i Filosofi circa il modo, nel quale spiegar si devono i moti, e le azioni dei bruti ma posto ancora che desse avvengano per mezzo di una sostanza immateriale ricercano eglino qual sia la natura di questa sostanza.

Sonovi alcuni i quali affermano che questa sostanza non è spirito nè materia ma tiene tra di esse un luogo di mezzo. Il celebre Magalotti sostiene che l’anima dei bruti è spirituale, il che sembra provato da quelle parole dell’Ecclesiaste cap. 3. vers. 21. cioè «Quis novit si spiritus Filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus jumentorum descendat deorsum?» Se mi è lecito il dichiararmi a favore di uno di questi sistemi io dirò, che sembra più consentanea alla retta Filosofia l’opinione del Magalotti poiché la contraria sentenza propone ciò, che sarà forse molto difficile ad intendersi sembrandomi, che il dire esser l’anima dei Bruti una sostanza né materiale né spirituale sia quasi il medesimo, che affermare esser l’anima dei Bruti un semplice nulla. Inoltre [p. 72 modifica] non trovo altra ragione di ammettere, che l’anima delle bestie non sia né materiale, né spirituale se non che quella, che da fautori di questo principio suol esser proposta cioè, che troppo avvilirebbesi una sostanza spirituale se dessa non fosse creata, che a perseguitare i topi, ad inseguire le lepri, o ad occuparsi in altri simili impieghi. Ma egli è evidente, che questo spirito vien creato per animare, e rendere un corpo organizzato con infinita sapienza capace di senso, e di qualche sorta di affetti. L’impiego poi, e le basse occupazioni degli animali non possono in conto alcuno avvilire la natura, e la sostanza dello spirito, da cui sono, per mio avviso, animati, ciò che mi sembra evidente. E sebbene l’obbjezione suddetta non soffrisse risposta ella sarebbe nondimeno di troppo poco peso per ammettere soltanto in sua considerazione una specie di esseri affatto diversa dagli altri, e di cui l’essenza in niun modo può concepirsi nè aver correlazione con le nostre idèe. Onde parmi di poter decidere, che è almeno assai più probabile, che l’anima delle bestie sia spirituale di quello che la medesima tenga un luogo di mezzo tra lo spirito, e la materia. Quale adunque sia il più verosimile tra i proposti sistemi è già noto abbastanza per le sopraddette ragioni, per il che sembrami di poter concludere con sicurezza, che la sentenza, la quale afferma esser l’anima dei Bruti uno spirito dotato di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile di ogni altra. [p. 73 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESISTENZA DI UN ENTE SUPREMO 99 [p. 74 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE | [p. 75 modifica]ó7|-Csiste un essere supremo. Gli astri, il sole, la terra, il cielo tutto ci predica la sua esistenza. Se in mezzo al dilettevole ar¬ monioso concento degli abitatori dell’aere fra l’ondeggiar del¬ le fronde, il sibilar delle aurette, il mormorar del ruscello volge il Filosofo il passo egli ritroverà in tutto questo un Dio. Se nel placido taciturno orror della notte in mezzo al tranquillo silen¬ zio dell’emisfero alza egli l’avido sguardo, e mira il corso non interrotto degli astri, l’esercito luminoso, che tutte ingombra le azzurre volte del cielo egli udrà da tutto ripetersi, che un Dio esiste. Se allo spirar bramato di aure seconde assiso egli in sicu¬ ro naviglio gira d’intorno le attonite pupille, e mira quasi con¬ giungersi l’ondosa pianura con il vasto spazioso campo del fir¬ mamento egli vedrà in tutto l’impronta scolpita di un essere creatore. Il balenar del lampo, lo scoppiar del tuono, lo scintil¬ lar della folgore l’uomo istesso l’uomo il più nobile di quanto presentasi ai suoi sensi ci addita, e ci mostra un Dio. L’ardito |68| Filosofo, che spinge lo sguardo indagatore fin dentro le cupe viscere della terra, egli, che non ignora come in seno alle rupi indurisi il metallo, come nel fondo dell’oceano le perle vengan prodotte, la cagion qual sia, per cui gravido il Nilo di acque stra¬ niere reca agli Egizj campi quella fecondità, che il cielo ad essi di conceder ricusa, egli stesso allorché giunge al primo invaria- bil principio, da cui tutto dimana è costretto da invincibil forza ad arretrarsi, ed a confessar suo malgrado la picciolezza delle sue cognizioni. Ma se all’uomo non lice il penetrare nel prò- 5 fondo arcano dell’infinita immensità di perfezioni, che l’essen¬ za compongono di questo ente sovrano egli può nondimeno muovere in qualche modo il passo per quelle vie, che la ragio¬ ne ci addita intorno ad una sì sublime sostanza nè tacciar mi si deve di presunzione, e follìa se astraendo totalmente, e per ogni parte da quanto la Cattolica Religione ci mostra circa un 101 [p. 76 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE sì importante oggetto a dimostrare imprendo al presente l’esi¬ stenza di un essere perfettissimo deducendo ogni argomento dalla vista di tutto il creato dall’essenza medesima di |6s>| questo ente supremo, e dall’universal consenso delle genti tutte. Un saggio Filosofo, il quale spaziando ne’ vasti campi della ragione, e spingendo i suoi pensieri a calcar le vie da questa ad¬ ditateci contempli l’ordine immutabile della natura, l’invaria- bil ruotamento degli astri, il continuato succedersi delle stagio¬ ni, il vegetar delle piante, il non mai interrotto corso del globo in cui abbiam vita; non comprende egli la necessità di una mente perfettissima a regger con invariabil consiglio la tanto ammirevol macchina dell’universo? Egregia fu alcerto l’argo¬ mentazione, che il sublime Arpinate Filosofo apportò a dimo¬ strare la necessità di un essere perfettissimo allorché nel primo suo libro de inventione così scrisse «Melius accurantur quae consilio geruntur quam quae sine consilio administratur,... nihil autem omnium rerum melius quam mundus administratur; nam, et signorum ortus, et obitus definitum quemdam ordinem servant, et annuae commutationes non modo quadam ex necessitate semper eodem modo fiunt verum ad utilitates quoque rerum omnium sunt accomodatae, et diurnae, noctur- naeque vicissitudines nulla in re unquam mutatae quidquam nocuerunt. 102 [p. 77 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESISTENZA DI UN ENTE SUPREMO Quae signa sunt omnia non mediocri quodam consilio naturam mundi administrari. » Simile a questa I701 è l’argomentazione del Filoso¬ fo di Stagira, il quale dalla vista dell’universo deduce, e conclu¬ de l’esistenza di un essere supremo. Appresso Cicerone egli così parla «Si essent, qui sub terra semper habitavissent bonis, et illustribus domiciliis... accepissent autem fama, et auditione esse quoddam numen, et vim deorum: deinde aliquo tempore patefactis terrae faucibus ex illis abditis sedibus evadere in haec loca, quae nos incolimus, atque exire po- tuissent cum repente terram, et mare coelumque vidissent... aspexissent- que solem ejusque... efficientiam cognovissent... cum autem terras nox opacasset tum coelum totum cernerent astris distinctum, et ornatum, lu¬ naeque luminum varietatem tum crescentis tum senescentis... haec cum viderentprofecto, et esse deos, et haec tanta opera deorum esse arbitraren- tur. » Nè dalla vista dell’universo dedur si deve soltanto l’esisten¬ za di un essere perfettissimo, ma dalla medesima può ancora ve¬ nir dedotta la necessità del non mai interrotto, invariabil regime, con cui governata viene la mole immensa del tutto, e che consi¬ derar si deve come una perpetua, e sempre continuata creazione. L’universo necessariamente esser dovea per mano dell’Esse¬ re supremo tolto dal nulla, per conseguenza non può in modo alcuno affermarsi, che egli abbia esistito dal principio de’ secoli. Fondati alcuni sopra |7i| le parole dell’Angelico Dottore, cioè «Mundum ab aeterno non extitisse sola fide tenetur, et demonstrative probari nonpotest» sostengono che nulla metafisicamente si op¬ 103 [p. 78 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE pone alla possibilità dell’eterna esistenza del mondo. Una chia¬ rissima argomentazione dimostra evidentemente la falsità di un tal principio. Il mondo è un ente composto: un ente composto non può godere di ciò, che appellasi asseità poiché un ente, che ha in se la cagione della propria esistenza esser deve necessaria¬ mente privo di parti, le quali venendo a disciogliersi darebbero alla sua esistenza quel fine, che è contrario alla di lui essenza: Il mondo perciò è un ente, il quale ha la cagione della propria esi¬ stenza in un essere, che l’ha in se stesso cioè in Dio: egli adun¬ que ha ricevuto dal medesimo la sua esistenza; laonde Iddio deve necessariamente avere esistito prima di esso: Il mondo non è dunque eterno. Inoltre al dir dell’Epicureo Poeta «... Si nulla fuit genitalis origo Terrarum et caeli semperque aeterna fuere Cur supra bellum Thebanum, et funera Trojae Non alias alii quoque res cecinere Poetae?» Lucr. Perchè non avremmo noi libri più antichi de’ Mosaici? Come può mai supporsi, che nel corso d’infiniti secoli \^\ uscito non sia scritto alcuno, che a nostra cognizione sia quindi pervenu¬ to? Ma di ciò basti non essendo il fine prefissoci totalmente consentaneo alla finquì trattata questione. Passiamo al presente 104 [p. 79 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESISTENZA DI UN ENTE SUPREMO a dimostrare la necessità di un Essere Supremo a fronte de’paz- zi seguaci di Epicuro, senza di che inutili sarebbero le finaddora apportate ragioni le quali dimostrano l’esistenza di questo Es¬ sere in contemplazione dell’Universo. Affermano gli Epicurei, che il mondo non è che un composto di atomi ossia di sottilissimi elementi, o primitive particelle, le quali aggirandosi sin da tutta l’eternità nel vacuo spazio per mezzo di un moto, di cui ignorasi la cagione, vennero per un fortuito incontro a combinarsi, ed a comporre l’universo tutto, gli uomini formandosi dipoi dalla feccia del Nilo. «Hic ego non mirer, esclama in tanta assurdità l’Oratore di Arpino, esse quem- quam, qui sibi persuadeat corpora quaedam solida, atque individua vi, et gravitate ferri, mundumque effici ornatissimum, et pulcherrimum ex eorum corporum concursionefortuita?Hoc qui extimatfieripotuisse non intelligo curnon idem putet si innumerabiles unius, et vigintiformae lit- terarum, vel aureae, vel quales libet aliquo conijciantur posse ex his in terram excussis 173 j annales Ennii ut deinceps legi possint effici, quod ne- scio an ne in uno quidem versu possit tantum valere fortuna ». Con queste parole, a cui hanno alcuni attribuita ragionevolmente l’invenzion della stampa dimostra Marco Tullio l’assurdità del sistema degli Epicurei. Inoltre «Se il fortuito, ed accidentale concor¬ so degli atomi ha potuto, come esprimesi l’Abate Sauri, produrre que¬ st’universo per qual ragione non produrrà egli un palazzo, una città, un vascello cose di tanto più facile esecuzione? Poi qual necessità vi ha egli mai, che questi atomi abbiano esistito? Per quale necessità si saranno essi agitati, e posti in moto? In qual maniera questi esseri di tanto poca con¬ seguenza saranno stati necessari? E <luando ancora jossero eglino neces¬ sari, e quando fosse anche stato necessario il lor moto in qual maniera si 105 [p. 80 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE sarà poi egli potuto alterare. Se il moto non fosse stato lor necessario chi mai lo averebbe ad essi communicato? Più ancora. Se la feccia del Nilo avrà potuto altre volte produrre degli uomini, e degli animali per qual ragione questa feccia medesima non ne produce anche al giorno d’oggi? Oltreacchè tutte le combinazioni possibili di atomi, e di elementi non daranno mai altro, che produzioni di quella natura medesima, di cui son compostigli atomi, egli elementi combinati mentre la organizzazione, e la vita non possono mai risultare da un I74I casuale miscuglio di atomi, e di elementi. Un chimico infatti quando combina insieme gli uni con gli altri i varj principj dei corpi non produrrà un misto, il quale sia capace nel suo crociuolo di sentire, e di pensare. » Si fonda inoltre il presente sistema sopra un principio, il quale non è sì facile a dimostrarsi; cioè suppongono essi, che esista fuori del creato un vacuo, nel quale avessero campo di aggirarsi quegli atomi, e quelle parti- celle, che sono il fondamento del sistema di cui parliamo. Un tal principio dette ad alcuni materia ad opporsi all’esistenza di un Essere Supremo, dicendo, che questo vuoto è un ente, che ha in se medesimo la cagione della propria esistenza, e che conseguentemente dalla cognizione deWasseità dedur non si può l’esistenza di un Dio. Benché questa obbjezione non sia di alcuna forza essendo evidente che sebbene questo vuoto esi¬ stesse non dovrebbe considerarsi che come una sostanza passi¬ va senza forza alcuna pensiero, o intendimento, e che conse¬ guentemente in qualunque modo ciò esser si voglia sempre necessaria sarà l’esistenza di un Essere perfettissimo; mi sia nondimeno lecito di riflettere che lo spazio considerar si può 106 [p. 81 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESISTENZA DI UN ENTE SUPREMO come un essere affatto I751 ideale. Non si abbia a sdegno di se¬ guirmi in questa mia qualunque siasi argomentazione. Supponiamo per un poco di ritrovarci nel nulla, noi non me¬ no, che l’universo tutto, e lo stesso Dio. Ciò posto immaginia¬ moci, per cagion d’esempio il num.° 10. Sarà forse questo nu¬ mero una qualche cosa di reale? No certamente. Ma supponia¬ mo di ritrovarci nello stato, in cui al presente ci ritroviamo, cioè godendo della nostra esistenza, e poniamo di nuovo il mi¬ ni.0 10. applicandolo a qualsivoglia oggetto; questo numero esi¬ sterà, ma non in se medesimo nè come un essere reale, ma sol¬ tanto nell’oggetto, a cui viene applicato, e per forza solo dell’u- man pensiero. Ciò posto, sup[po]niamo di nuovo di ritrovarci ancora nel nulla prima della creazione dell’intero universo. Perchè mai ammetter si dovrà uno spazio eterno, increato, infi¬ nito, immenso, incomprensibile, esistente per propria virtù, per propria forza, per cagion di se medesimo? Perchè mai non si dovrà ammettere, che creato l’universo cominciasse allora ad esistere questo spazio non come un ente reale, ma come com¬ posto, e formato dall’ordine delle cose coesistentine? (76) Se mi si opponesse che posto un tal sistema il mondo esister non po¬ trebbe poiché non avrebbe luogo alcuno ove esistere, io ri¬ sponderei, che creando l’ente supremo l’universo creò ancora lo spazio ove il ripose non come un ente reale, ma come com¬ preso nel mondo istesso, e come formato dall’ordine degli es¬ seri coesistenti. Questo è il famoso sistema di Leibnizio, a cui necessariamente si oppone il sistema degli Epicurei ammet¬ 107 [p. 82 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE tendo, che gli atomi si aggirassero sino dal principio de’ secoli in un immenso vuoto. Ma sebbene questo vuoto si ammetta non perciò ammetter si dovrà il sistema degli atomisti, il quale già con altre ragioni dimostrammo essere affatto assurdo. In qualunque modo adunque ciò esser si voglia dovrà necessaria¬ mente ammettersi l’esistenza di un essere supremo in contem¬ plazione dell’universo, il quale esister non potrebbe se non esi¬ stesse un ente perfettissimo. Esiste adunque Iddio poiché tutto ciò, che si offre ai nostri sensi evidentemente cel dimostra, ma non è questo il solo fon¬ te, da cui dimanano le chiarissime prove della sua esistenza. La natura, e l’essenza istessa di un essere perfettissimo ci (77! som- ministra un argomento dei più convincenti a dimostrarne l’esi¬ stenza. Egli è chiaro, che un essere perfettissimo deve possede¬ re tutte le perfezioni possibili in grado sommo diversamente altri esser potrebbe di lui più perfetto. Ciò posto l’assoluta ne¬ cessità di esistere essendo una perfezione, il che è per se stesso evidente esser deve da questo ente posseduta in grado sommo. Ora un essere perfettissimo è di propria natura possibile, non implicando la sua essenza alcuna contraddizione, e per conse¬ guenza egli esiste,poiché una delle sue perfezioni essendo l’as¬ soluta necessità di esistere, e non trovandosi ragione alcuna, che impedisca di ammettere la possibilità della sua esistenza egli dovrà necessariamente goderne. Il comune universale consenso di tutte le nazioni fornisce 108 [p. 83 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESISTENZA DI UN ENTE SUPREMO non meno,che gl’indicati principj una evidentissima prova del¬ l’esistenza di questo supremo Essere poiché, come esprimesi il Console Arpinate « Omni in re consensio omnium gentium lex natu- raeputanda est» e al dir del medesimo «Nullagens est tam imma- nis, neque tamjera, quae non etiamsi ignoret qualem Deum habere de- ceat tamen habendum |78| sciat». Da ciò può dedursi, che la cogni¬ zione dell’Essere Supremo è così altamente impressa nella mente dell’uomo dalla natura medesima, che necessariamente egli è costretto a piegare innanzi ad esso la fronte, e ad onta de¬ gli sforzi degli Atei ostinati, che proccurano con ogni impegno di scancellamela essa resterà fìssa sempre, ed immota nella mente dell’uomo, e necessario sarà per opporsegli il far contra¬ sto alle leggi tutte della natura, la quale altamente ci predica l’esistenza di un Dio.Tacciano gli stolti scellerati awersarj del¬ la verità, ed intendano dalla bocca istessa del più sapiente tra i Pagani Filosofi «Malam, et impiam consuetudinem esse contra Deum

disputando sive ex animo id fit sive simulate». [p. 85 modifica]

DISSERTAZIONI FILOSOFICHE

DI GIACOMO LEOPARDI


PARTE SECONDA


1811

[p. 87 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE Quod tibi judicium est, ea mens

Fior. Art. Poe. [v. [p. 89 modifica]

DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO

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DISSERTAZIONI FISICHE

[p. 91 modifica]5| Il moto di cui ogni corpo è suscettibile, non mai però per propria forza, ha dato soggetto a molte diverse Filosofiche questioni. Egli è, al dir d’Aristotele «Actus entis in potentia, prout in potentia ». Questa definizione sembra però così oscura, che ad onta de’ maggiori sforzi degli ostinati Peripatetici da ogni sensato Filosofo al dì d’oggi vien rifiutata. A simile inconve¬ niente pongon riparo i Cartesiani, affermando essere il moto una successiva applicazione della materia a diverse parti de’ corpi, che a lei immediatamente s’avvicinano. Ma chi non vede l’assurdità d’un tal principio? Ammessa questa proposizione, dovrebbe ammettersi in conseguenza, che una nave rattenuta, dall’ancora in mezzo al flusso dell’acque sia in perpetuo moto poiché ella, è soggetta ad una continua applicazione delle sue parti con l’onde, che ad |6| ogni tempo succedendosi, a lei im¬ mediatamente s’avvicinano: al contrario se un globo si ruoti per mezzo dell’impulsione su qualsivoglia superficie, l’interior parte del globo resterà sempre immobile, e ferma, ad onta della forza impressagli, il che non può affermarsi senza una manife¬ 117 [p. 92 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE sta contradizione. Come falso perciò, e come assurdo deve ri¬ gettarsi un siffatto principio. Qual sarà dunque la vera defini¬ zione del moto? Dovrò io forse con il Bernier, ed altri Filosofi darmi per vinto, e confessare l’impossibilità d’esprimere che cosa è il moto? No: Sarebbe questo un vile timore, che cede ad ogni piccolo ostacolo, e non ardisce d’avanzarsi alla verità. Il moto vien definito dai Gassendisti una continua, e non inter¬ rotta mutazione del luogo, e benché con ridicoli sofismi si sforzino i partigiani di Bernier di sopprimer questa definizione, essa viene approvata dal chiarissimo P.Jacquier nella |7| sua Fisi¬ ca, ed è questa quella, che da me viene abbracciata come più chiara d’ogn’altra, e dimostrata dall’interno testimonio della propria cognizione. Definito adunque il moto, passiamo ad esaminare le sue leg¬ gi, e le sue proprietà. Ogni corpo, come abbiam detto, è suscet- 118 [p. 93 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO ribile del moto; nessun corpo è capace di forza insita motrice. Ciò vien dimostrato dall’esperienza, nè alcun sensato Filosofo potrà dubitarne. Ciò posto adunque, qual sarà la vera cagione del moto? I Cartesiani asseriscono esserne Iddio la prima, ed unica causa. Questa proposizione può, e deve certamente am¬ mettersi, non però così le conseguenze, che da essa deducono i di lei Autori. Pretendon questi, che l’anima sia affatto incapace della forza impellente. Chiamano error fanciullesco il credere che noi siamo gli autori di quei moti, che tuttogiorno in noi sperimentiamo, e di quelli, che ad altri corpi vengon per nostro mezzo |8| communicati. Nondimeno io vorrò piuttosto pensar da fanciullo, e sostener ciò, che la natura c’insegna, che opinar da sapiente, ed oppormi all’interna voce della propria espe¬ rienza. Soffrano dunque i Cartesiani da un Bambino imbevuto ancora, come essi dicono, da grossolani principj, alcune richie¬ ste. Io dimando se è lecito opporsi alla natura colle Filosofiche ipotesi, quando senza alcuna difficoltà posson seguirsi i suoi dogmi: io ricerco se v’è alcuna assurdità nel sistema il quale af¬ ferma che Dio abbia nella sua creazione communicata all’ani¬ ma umana la sua forza motrice de’ corpi: Io chiedo finalmente se ciò sembra ripugnare alla natura più del contrario sistema, e se può mai ricorrersi alla prima causa, quando bastino le secon¬ de a spiegare senza alcuna assurdità gli effetti, che sono in que¬ stione. Ciò posto io concedo, che Dio sia la prima, ed unica |t)j 119 [p. 94 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE causa del moto, non però prossima, e nego in seguito tutte le ridicole conseguenze che da questo principio traggono i Car¬ tesiani. Affermo soltanto essere Iddio la prima, unica, e prossi¬ ma causa del moto primitivo degli astri, de’ Pianeti delle sfere, del sole, ovvero, secondo il sistema Copernicano della terra. In quanto poi ai moti de’ corpi animali, e vegetabili, e di quelli communicati alle materie insensibili per mezzo de’ corpi ani¬ mali, io ammetto l’Ente supremo come causa di essi solamente remota. Ma di ciò abbastanza ragionasi in quella parte di Meta¬ fìsica, in cui si tratta de’ tre famosi sistemi di Eulero, di Carte¬ sio, e di Leibnizio intorno ai moti dell’uomo. Altra legge del moto è, che un corpo qualunque incontran¬ dosi nel suo corso con altro corpo qualsivoglia, tanta forza mo¬ trice riceva il corpo spinto, quanta ne perde quello, che a lui la |io| comunica. Intorno però a questa forza motrice è a sciogliere una questione. Che cosa è ella questa forza? Come possono spiegarsi i suoi effetti? Forse attribuendo ai corpi inanimati le umane sensazioni? Forse astraendo da tutte le nostre idee ed ammettendo per forza motrice un’entità metafìsica, che da noi in alcuna parte non possa concepirsi? La prima di queste pro¬ posizioni è per se stessa un assurdo, la seconda in alcun modo non può dimostrarsi. Dovrò io dunque concludere con il P. Jacquier che questa forza motrice non può spiegarsi se non in¬ 120 [p. 95 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO tendendo sotto questo nome i suoi effetti senza investigarne la causa. La terza legge del moto è, eh’esso continui per tutto quel tempo in cui la forza dell’impulsione trionfa di tutti gli ostaco¬ li, che al medesimo oppongono gli attriti del corpo mobile, e della superficie, su cui esso si muove, e d’ogn’altro impedi¬ mento, |ii[ che dall’umana industria non può esser tolto. La causa di questa continuazione del moto è apportata da Cartesio, ed approvata da tutti quasi i moderni filosofi, cioè quella legge della natura, per cui ogni corpo, tolti gl’inevitabili ostacoli, è costretto a rimaner sempre nello stato medesimo di moto, o di quiete, ciò, che in Fisica s’appella «Forza d’inerzia». Riconosce similmente il Filosofo come altra regola del mo¬ to la progressione in linea retta d’un corpo mobile sopra un piano orizontale. Un tal principio sussiste ancora ad onta del seguente esperimento. In un piano orizontale avviene talvolta, che se si comunichi la forza motrice ad un globo qualunque, esso scorre sulla superficie per qualche tempo in linea retta, e quindi come spontaneamente alla contraria parte si volge, ciò che sembra opporsi al sopraddetto principio. Nondimeno pos¬ sono ammettersi ambedue gli esperimenti |i2| senza alcuna re- pugnanza nè dall’una, nè dall’altra parte. La contraria progres¬ sione del globo avviene, perchè nel suo moto rettilineo egli ri¬ ceve ancora un moto intorno all’asse, il quale persevera anche dopo estinto il primo suo moto, finché esso venga altresì a sva¬ nire per i sopraddetti impedimenti. 121 [p. 96 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE La quinta legge, e proprietà del moto si è, che un corpo il quale ha ricevuto la stessa quantità di moto impresso, che un altro corpo della stessa grandezza scorra nello stesso tempo lo spazio medesimo di quest’ ultimo, ciò che vien dimostrato dal¬ la natura, e dalla commune esperienza, nè d’alcuna prova cer¬ tamente abbisogna. Son queste le principali leggi del moto, per la maggior parte evidenti al primo aspetto, tanto allo sguardo d’un Filosofo, quanto agli occhi d’un semplice villanello. Varie altre regole, e proprietà |i31 del moto accenna Cartesio, le quali però come os¬ serva un sensato Scrittore sono per lo più «o inutili, o dubbiose, o false, o suppongono ciò ch’è incerto, o un altro stato di cose diverso dal presente, e i corpi diversi di natura da quelli, che vergiamo, o finalmente sono contrarie alla esperienza ». Lasceremo adunque di esaminarle, e passeremo a spiegare alcuni fenomeni appartenenti al moto, che ne’ corpi tuttogiorno si scorgono. Le ragioni metafisiche dimostrano, che un corpo qualunque quiescente resiste all’impulsione d’un corpo mobile, e un cor¬ po mobile resiste a colui, che a rattenerlo s’accinge, ciò che l’e¬ sperienza ancora ci fa chiaramente conoscere. Ciò posto qual sarà la cagione d’una tal resistenza? La Forza d’inerzia. Abbiam già detto, che un corpo ripugna alla mutazion dello stato, onde 122 [p. 97 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO apertamente si scorge qual sia la cagione d’una tal resistenza, che vien fisicamente chiamata reazione, e la di cui |i4| contraria forza, che fa un corpo impellente appellasi «azione». Per ciò deducono i Filosofi un corollario dalla Forza d’inerzia, cioè, che la reazione esser deve contraria sempre, ed eguale zìi*azione del corpo impellente, finché la sua massa somministra al corpo percosso la forza necessaria, poiché, se eguale essa non fosse, il corpo non resisterebbe che ad una sola parte della mutazion dello stato, il che è evidentemente falso. In simil modo si spiega il moto retrogrado di qualsivoglia ar¬ ma da fuoco allo scoppiar della polve d’archibugio. Dal soprad¬ detto principio viene altresì spiegato il seguente fenomeno. Se con forza sufficiente si spinga un vaso ripieno d’acqua, o di qualunque altro liquore, l’acqua si muoverà d’un moto diretta- mente contrario a quello del vaso, e poiché essa cedendo al¬ l’impulsione ammise in se lo stesso moto di questo, se subita¬ mente il medesimo venga rattenuto, l’acqua s’innalzerà sopra l’orlo del vaso. [151 Ciò avviene, perchè opponendosi il fluido al moto del vaso si sforza di conservare il suo stato di quiete, e quindi poiché acquistò perfettamente lo stato di moto, tenta di mantenerlo ad onta della forza, che rattiene il suo recipiente. Per la medesima causa vien chiaramente spiegato il modo, in cui avviene, che quelli specialmente, i quali al mar sono ignoti, e su d’una nave allo stesso s’affidano, a molto incomodo, e nausea, e dolor s’assoggettino poiché resistendo al moto gli umori contenuti nel ventricolo, negl’intestini, e negli altri ca¬ 123 [p. 98 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE nali, vengono a produrre ciò, che qui sopra dicemmo. Dalla forza d’inerzia, e dalla reazione proviene ancora, che quelli, che in un cocchio, o in una nave velocemente son trasportati, se subitamente il corso sia rattenuto, i medesimi si sentano co¬ me spinti all’anterior parte del luogo ove si trovano. Ecco adunque per mezzo della Forza d’inerzia, \i6\ e del prin¬ cipio di azione, e reazione, spiegati i principali fenomeni, che in¬ torno al moto si osservano. Nè credo alcerto, che in dubbio possa rivocarsi quanto sopra abbiam detto, poiché dimostrata essendo la Forza d’inerzia, sembrami, che senza alcun dubbio gli accennati fenomeni ammetter si debbano. Nè alcuno si dia a credere, che supposta sia questa forza, poi¬ ché oltre l’essere ella proposta, abbracciata, ed approvata da più sapienti Filosofi, essa vien dimostrata da sì facili, e semplici ar¬ gomenti, che dagli eruditi spiriti non solo, ma ancora da qualsi¬ voglia indotto fanciullo possono esser compresi. Ed infatti, che afferma mai questo principio, se non che esser legge di natura, che ogni corpo tenda a conservare il suo pristino stato? e ciò posto, non è egli dimostrato dalla quotidiana esperienza, che |i7| un corpo ricusa di ammettere in se lo stato di moto, se quie¬ scente, tenta di perseverare nella sua progressione qualunque, se mobile? Suppongasi, che questa Forza d’inerzia, questa resistenza del¬ la materia alla mutazion dello stato non sussista, se non nella mente del volgo, e non sia, che un commun pregiudizio. Am¬ messa una tale ipotesi, noi vedremo al più leggero tocco scuo¬ tersi, e muoversi i smisurati macigni, e similmente fermarsi al più piccolo cenno, ciò, che non sarebbe, a mio credere così di¬ 124 [p. 99 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA IL MOTO sgradevole all’uomo, che non desiderasse l’adempimento di questa ipotesi. Nondimeno io sono obbligato ad affermare non solo, che ciò sarebbe un assurdo, ma a stabilire ancora sopra la falsità di questa proposizione la sede d’un principio, che sarà sempre immobile, ad onta de’ maggiori sforzi degli ostinati av¬ versai]. |i8|Ecco brevemente esposta la dottrina del moto, in cui però non trattasi della discesa de’ gravi, e di quelle altre proprietà, di cui il parlare sembrami appartenere piuttosto ad un ragiona¬ mento intorno alla forza di gravità, e d’attrazione, che ad un breve discorso intorno al moto. Raccogliendo adunque ciò, che finora trattammo; io affer¬ mo doversi abbracciare la definizione del moto proposta dai Gassendisti, ammetto l’Ente Supremo come prima causa di qualsivoglia moto, che avvenga in tutto l’universo, negando però quelle conseguenze che da ciò deducono i Cartesiani, ed opponendo ad esse le acconcie distinzioni, e gli opportuni ar¬ gomenti. Stabilisco, come principali leggi, e proprietà del moto quelle, che di sopra accennai, e rigetto come inutile, o falsa ogn’altra di quelle, che da’ Cartesiani vengon proposte. Affer¬ mo l’esistenza della Forza d’inerzia e ciò, che da essa deducesi, cioè che Vazione esser deve contraria, ed uguale alla '19] reazio¬ ne, ed ammetto finalmente tutto ciò, che già dissi intorno ai varj fenomeni, ed osservazioni concernenti il moto. 125 [p. 100 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE 126 [p. 101 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LATTRAZIONE 127 [p. 102 modifica]j20j -C/lla è l’attrazione quella forza meravigliosa, per mezzo di cui spiegansi facilmente tanti diversi fenomeni, la cagione de’ quali fu ignota perfino ai più sapienti Filosofi de’ secoli trasan¬ dati. Il flusso, e riflusso dell’onde marine sì fatale all’infelice Aristotile, che impiegar non seppe la profonda sua scienza a preservarsi da un fine sì funesto, e al tempo stesso sì poco com¬ passionato spiegasi chiaramente per mezzo dell’attrazione, per mezzo di essa la cagion si dimostra della discesa de’ gravi, e del¬ la tendenza del fuoco alla sfera, per suo mezzo finalmente as- segnansi le regole, e le cause s’additano, del giro interminabile di tutti i pianeti, e degli astri, e del sole, e di quelli innumerevo¬ li globi, che si ruotano incessantemente nel cielo, e compongo¬ no l’ammirevol macchina del mondo intero. Questa forza che di tanto ajuto fu ed è tuttora alla moderna Fisica fu dal celeber¬ rimo 1211 Newton posta in chiaro, ed inserita nelle Fisiche dot¬ trine. Varj Filosofi furonvi prima dello stesso, dai quali si udì pronunziare il nome di attrazione, e con dottissime ricerche, e felicissimo evento parlonne Keplero intorno ai moti de’ corpi celesti, ma a dispetto degl’invidi, ed ostinati calcoli de’ moder¬ ni Scrittori, che si sforzano con ogni loro potere di togliere a Newton la gloria di averla dilucidata, e datogli per la maggior 128 [p. 103 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE parte il suo essere, resterà sempre al medesimo un simile ono¬ re, che per l’andar de’ secoli non potrà essergli giammai rapito. Profittando noi adunque delle dottissime, ed avventurate sue ricerche passeremo ad esaminare le prove, le regole, e le pro¬ prietà dell’attrazione assegnando, e notando quelle principali dottrine che alla sua cognizione son necessarie. Fatalissimo destino di quasi tutte le Filosofiche scoperte egli è quello di esser queste sempre soggette alle contrarie obie¬ zioni de’ stoltissimi, \z2 | ed insensati awersarj, talché uscita ap¬ pena alla pubblica luce qualsivoglia dottrina, o recentemente compilata, o nuovamente tratta dagli antichi principj pongano essi tostamente a tortura il loro esilissimo ingegno onde dimo¬ strare in qualche modo la supposta falsità dei dogmi enunciati. Da siffatte obbjezioni non va esente in conto alcuno il Neuto- niano sistema. Conviene pertanto pria di svolgere, e spiegare le secrete leggi dell’attrazione dimostrarne la sussistenza, e con¬ fondere i pertinaci awersaij della verità. Il continuo, e non interrotto ravvolgersi de’ cinque primarj pianeti intorno al sole, e dei pianeti secondarj ossia dei loro sa¬ telliti intorno ai primarj, che mai dimostra se non che una per¬ petua azione della forza attraente? Ciò viene ancora più chia¬ 129 [p. 104 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE ramente provato dai varj errori dei corpi celesti, che dagli astronomi ci vengono indicati poiché secondo la diversa posi¬ zione, e la maggiore, o minor distanza dei pianeti in rispetto al sole, e scambievolmente a se \2^\ medesimi l’attrazione tra tutti i corpi celesti agisce con maggiore, o minor forza, e da ciò na¬ scono le inegualità de’ loro moti. Io lascio a’ miei awersarj la li¬ bertà di decidere se per mezzo di questa raziocinazione venga¬ no regolarmente, ed evidentemente spiegati i fenomeni de’ corpi celesti, e se debbasi ammettere come loro legittima causa la forza d’attrazione. Nè mai però awenir potrà che per mezzo di questa forza in una sola massa tutti si uniscano i corpi celesti venendo in tal modo a formare una rozza mole infinita, poiché essendo certo, che alcun orbe curvilineo non può da alcun cor¬ po esser descritto che per mezzo della composizion di due for¬ ze cioè, in questo caso centripeta, e tangenziale vien da quest’ulti¬ ma impedito l’accennato inconveniente. Essendo poi dimo¬ strato che gli astri risplendono per propria luce, e sono per con¬ seguenza eguali in tutto al globo solare può senza alcun dub¬ bio ammettersi che intorno ad essi si aggirino altri primarj pia¬ neti stando le stelle immobili [24! nel proprio centro, e spiegan¬ do [p. 105 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE dosi in tal modo la cagione del rimaner queste stabili sempre, e fìsse nel luogo a lor destinato senza soffrire in alcun modo la forza dell’attrazione degli altri corpi celesti oltredichè essi so¬ no tra loro sì distanti che l’accennata forza non può sopra loro in alcun modo operare. Inoltre non solo nei corpi celesti si scorgono tuttogiorno le chiarissime prove della forza attraente ma ancora nei corpi terrestri si appalesa talvolta in modo a cia¬ scuno evidente poiché il dottissimo Bouguer degnissimo Acca¬ demico Parigino, il quale con altri valorosi compagni imprese il viaggio sopra modo diffìcile alle ultime estremità del globo terraqueo per definirne la figura, vide, che il pendolo da lui ap¬ peso nel Perù vicino al monte altissimo detto Chimboraco allon- tanavasi dalla vertical direzione minuti secondi 7.1./2. ciò che egli attribuir non seppe nè può infatti in alcun modo attribuir¬ si, che alla evidentissima I251 attrazione del monte. Sussiste adunque questa attrazione poiché senza di essa non potrebbonsi in alcun modo spiegare gli enunciati fenomeni, e sussiste in conseguenza il celeberrimo sistema del sublime Fi¬ losofo Newton. Liberi adunque dalle opposizioni, che obbjettar si possono alla verità del predetto sistema, e sgombra la via dal¬ le importune molestie degli awersarj passiamo a ragionar fi¬ nalmente delle proprietà, delle leggi, e delle diverse specie di attrazione, che nel prelodato sistema vengon proposte, e dimo¬ strate con i più chiari argomenti. 131 [p. 106 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE Cercasi da’ Fisici che cosa sia ella questa potentissima forza, e qual defìnizion dar si gli debba. «I Filosofi sorpresi dal fenomeno meraviglioso, al dir di un moderno Scrittore, cercano di giustificare la loro ignoranza dicendo ch’essa, è un prodotto del bisogno. Io rispetto i Filosofi e rido di questa lorfrase». Nondimeno non vedesi, che egli stabilisca alcuna definizione della forza attraente, e |2ó| se egli rispettando i Filosofi ride della loro scusa forse i medesimi ri¬ deranno e delle sue parole, e di lui. Varj scrittori considerano questa forza come una qualche entità che si diffonda unifor¬ memente per ogni parte d’intorno al corpo attraente a guisa di raggi, o d’effluvj emananti dal corpo già detto, ciò che avviene nel sole, od altri corpi splendenti la luce de’ quali egualmente si diffonde in orbe curvilineo intorno ai medesimi: ciò che ap¬ provar non deesi certamente poiché quest’attrazione, che dal corpo uscendo si diffonde uniformemente intorno ad esso potrà esser distolta dalla sua direzione per mezzo dell’aere medesimo, in quella guisa appunto, in cui gli effluvj de’ corpi odoriferi si spandono per l’atmosfera rapiti dai venti, o dall’aria stessa, che li circonda, ciò che è evidentemente un assurdo. Più sano consi¬ glio è adunque a mio credere considerare soltanto gli effetti del¬ la forza attraente (27! senza ricercare la qualità che li produce. Legge dell’attrazione universalmente approvata eli’è che ciascun corpo si attragga in ragione diretta della massa, e dupli¬ cata inversa della distanza. Alla seconda parte di questa regola s’oppone in apparenza il seguente esperimento, ma una matu¬ ra riflessione dovrà togliere qualsivoglia difficoltà. Un corpo 132 [p. 107 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE qualunque si appenda nell’estremità d’una bilancia il quale mantenga l’equilibrio tra l’altra estremità della bilancia alla quale un corpo egualmente s’appenda. Quindi da un’alta torre si cali a terra appoco appoco uno di essi corpi per mezzo di un filo il quale pur si comprenda nel peso del medesimo destinato a mantener l’equilibrio si vedrà che la bilancia rimane sempre nella posizione, in cui era prima della discesa di uno de’ corpi. Laonde rimanendo egualmente la medesima forza di |28| gravi¬ tà nelle diverse distanze dalla terra sembra alcerto non doversi ammettere, che ciascun corpo si attragga nella ragione duplica¬ ta inversa della distanza. Nondimeno siffatto principio alcuna alterazione non soffre dall’accennato esperimento; poiché niuna differenza può scorgersi della forza di gravità in una va¬ rietà sì piccola di distanza calcolato essendo inoltre, e dimo¬ strato da’ Fisici, che questa diversità non può nemmeno notarsi se l’esperimento vengane fatto nel monte delle Isole Canarie chiamato Pico di Teneri/, che affermasi esser di tutti il più alto per la cagione medesima, che qui sopra abbiamo apportato. È questa la legge principale dell’attrazione, alla quale rivocar si può in qualche modo ogni altra di quelle, che intorno alla forza attraente vengono dai Fisici stabilite. Non si ferma il Filosofo a dimostrare le proprietà dell’attra¬ zione soltanto nelle grandi, o piccole, maggiori, o minori di¬ stanze, e tra |2g>| corpi diversi, ma passa ancora a considerare 133 [p. 108 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE quell’attrazione, la quale sussiste tra le molecole, che un sol corpo qualsivoglia compongono, ciò che in Chimica nomenclatu¬ ra si appella affinità d’aggregazione. Per mezzo di questa forza at¬ traente vien formata tutta l’ammirevol macchina dell’universo, e la tenace inconcussa compagine di tutti i corpi. Nè in tal mo¬ do s’attraggon soltanto le primitive, minutissime particelle tal¬ ché vengano esse sole per tal mezzo a formare de’ corpi ma i medesimi ancora s’attraggon talvolta per modo, che dalla loro unione risulta un sol corpo come tuttogiorno avvenir si scorge nell’acque, le di cui goccie unendosi insieme spinte dalla forza attraente che tra esse sussiste nel massimo suo vigore vengono uniformemente a comporre una sola goccia. La forza d’attrazione non sussiste soltanto nelle grandi, o picciole, o minime distanze, ma agisce ancora nel contatto stes¬ so de’ I301 corpi. Se per cagion d’esempio una laminetta di vetro si ponga a contatto dell’acqua in modo, che la sua superficie lambisca quella del fluido si vedrà che senza qualche forza non si potrà la medesima separare dall’acqua essendosi le minime colonne di questa appiccate a tutta la superfìcie della laminetta, 134 [p. 109 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ATTRAZIONE le quali poi per il proprio peso ricadono. Devesi notare però, che l’attrazione in questo genere d’esperimenti, è grande nelle minime distanze, e massima nel contatto, ma tosto svanisce se d’un sol punto la distanza venga accresciuta. Ciò è quello, che intorno alla legge d’attrazione fu scritto, e stabilito dagli antichi Filosofi, e dai moderni. Questa legge al dir del Abbate Para du Phanjas «postquam inanibus clamoribus, pu- tidisque ignorantiae derisionibus vexatafuit, quibus inter chimaeras, at- que occultas qualitates rejiciebatur tandem ab astronomis, a naturaestu- diosis, a doctis Physicis passim admittitur (311 tamquam vera generalis naturae lex». Indegno sarebbe alcerto del nome di Filosofo chi ardisse ancora alzar la voce contro un sistema pubblicato da uno de’ maggiori Fisici, e de’ più sagaci, e sottili indagatori del¬ le secrete leggi naturali, approvato dai più colti spiriti e dai più sensati sapienti, e dimostrato dalle più forti ragioni, e dalla co¬ mune quotidiana esperienza. 135 [p. 110 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ 136 [p. 111 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ 137 [p. 112 modifica]1321 v^uella proprietà, che indifferentemente appartiene ad ogni corpo che esiste forma al presente il soggetto delle nostre ri¬ cerche. La luce della verità che finalmente sorse ad illuminarci ha fatto ornai conoscere la falsità dell’antica proposizione, la quale affermava la leggerezza de’ corpi abbracciata da’ vecchj Filosofi assai di questi più lievi. Ogni corpo ha in se medesimo la forza di gravità, la quale non dee però confondersi con il pe¬ so comune anch’esso a tutti i corpi poiché al dir del chiarissimo Brisson «queste due voci gravità, e peso esprimono due cose diversissime. La gravità di un corpo è la forza, che lo sollecita a discendere, e il suo pe¬ so è la somma delle parti pesanti contenute sotto il suo volume». La gravità altro non è, per mio avviso, che un’attrazione del centro della terra relativamente ad ogni corpo, I33I la quale agisce in proporzion della massa, ed i corpi spinge perpendicolarmente 138 [p. 113 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ a discendere. Cartesio ricorre ad un vortice di sottilissime, invi¬ sibili particelle; che si aggira intorno all’asse del globo terra- queo, e spinge a basso ogni corpo che incontra nel velocissimo suo centrifugo corso. Da ciò seguirebbe che « una pietra, al dir d’un sensato Filosofo, solo sotto l’equatore caderebbe direttamente verso il centro della terra, e in ogni altro luogo ella scenderebbe verso i cir¬ coli paralleli all’equatore, e alla jine sotto i poli neppur verrebbe a cadere verso la terra » oltredichè una siffatta proposizione non può esser dimostrata in modo alcuno ugualmente al parer di Gassendo, fa¬ vorito ancora dal celebre Bernier, il quale afferma uscir dalla ter¬ ra degl’invisibili corpuscoli, che a guisa di ami, o di uncini tra¬ passano qualsivoglia corpo, e quindi abbassandosi lo spingono |34| perpendicolarmente verso il centro. Funesto sarebbe alcer- to lo sperimentare in se stesso la forza, e la crudeltà di siffatti corpuscoli. Una tale assurdità merita appena di esser combat¬ tuta. Le qualità occulte, che tanto occuparono lo spirito degli [p. 114 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE antichi Fisici sono finalmente svanite al raggio della moderna Filosofia. Guidati da questa noi ammetteremo esser la forza di gravità una qualità occulta quando perciò non s’intendano, che i suoi effetti senza volerne più oltre ricercar la cagione. Questi congiunti alle loro leggi, e proprietà aprono al curioso, e saggio indagator della natura un largo campo di Fisiche osservazioni. Noi passeremo adunque a considerarli con quella brevità, che dall’ampiezza del soggetto dalla varietà delle proposizioni ci verrà permesso: ozioso certamente non fu questo proemio. La forza di gravità in egual tempo agisce I351 ugualmente; per cagion d’esempio se due corpi del peso medesimo per sola for¬ za di gravità cadano l’uno dalla cima di una torre di sufficiente altezza, e l’altro dalla metà della stessa il corpo, che cade dalla sua sommità impiegherà per giungere al mezzo di questa quel tempo, che l’altro impiega per giungere a terra; benché sem¬ bri che quest’ultimo sia più soggetto all’attrazione del centro essendo alla terra più vicino, e che perciò più veloce esser deb¬ ba la sua discesa. La diversità della distanza è in questo caso sì piccola rimpetto alla mole immensa del globo terracqueo, la quale con accurati calcoli vien dimostrato da’ Fisici contenere 300,000,000,000,000,000,000, piedi solidi, che devesi alcerto considerar come nulla, per il che viene la gravità chiamata co¬ stante. Io non ignoro, che ad alcuni imperitissimi spiriti sem¬ 140 [p. 115 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ brerà forse assurda una siffatta proposizione imperocché di¬ rami’ essi si abbandonino alla |3ó| propria gravità un piccolo gra¬ no d’oro, ed una leggerissima piuma l’uno equivalente al peso dell’altra si vedrà, che in assai minor tempo di quest’ultima percorrerà il primo lo spazio prefisso, e che, per conseguenza molto maggiore sarà la gravità dell’oro di quella della piuma. Con un sì grande apparato di verità errano quelli, che voglion dimostrare la falsità dell’opposta proposizione. Osservino que¬ sti, a quanta maggior resistenza dell’aria è soggetta la piuma, la quale non ha le sue parti come l’oro raggruppate, e raccolte, e non è conseguentemente capace di rompere al par di questo, e con la stessa forza, e velocità l’impeto dell’aria, che per ogni parte l’investe, la penetra, l’obbliga a ritardare non poco il suo corso, e talvolta ancora dalla sua direzion la distoglie. Vedesi in¬ fatti che nel vacuo boyliano liberi dall’accennato impedimento, e l’oro, e la piuma percorrono nello stesso tempo lo spazio me¬ desimo. [37) La gravità è sempre uguale nei luoghi istessi della terra, ma nelle diverse posizioni diversa è ancora la forza di gravità come da Richer Accademico Parigino fu sperimentato nell'Isola Cajenna vicina all’equatore. Osservò egli, che un pendolo il 141 [p. 116 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE quale in Parigi batteva regolarmente i secondi misurava nell’I¬ sola tempi più lunghi. Ciò deve per mio avviso, e per quello de’ più saggi Filosofi spiegarsi in tal modo. La terra aggirandosi in¬ torno al suo centro ciascun punto della propria superfìcie in¬ sieme con tutti i corpi che sopra di essa si trovano vengono da essa portati a ravvolgersi unitamente a tutta la sua mole. Il cir¬ colo dell’equatore è maggiore di tutti quelli, che incontransi andando da questo ai poli maggiore, per conseguenza, esser de¬ ve la velocità della terra nel percorrere questo circolo di quella che impiega per trascorrerne qualunque altro; onde minore sa¬ rà la sua velocità quanto maggiore è la distanza de’ circoli |38| dall’equatore. Ciò posto è evidente, che ogni corpo discenden¬ do al centro della terra sarà ritardato dal moto centrifugo della medesima, e che la resistenza che esso sperimenta tanto sarà minore quanto minore è la velocità del moto centrifugo, e con¬ seguentemente quanto maggiore è la distanza del circolo, in cui esso si trova da quello dell’equatore, e viceversa. Perciò nel¬ l’Isola di Cajenna vicina a questo circolo più tarde esser debbo¬ no le oscillazioni del pendolo, le quali non sono, che un pro¬ dotto della forza di gravità, il che vien dimostrato dal modo medesimo in cui esse avvengono. Poiché s’innalzi un pendolo dal punto di quiete ad un altro punto qualunque di sufficiente altezza, e quivi si abbandoni; egli dovrebbe da questo punto ca¬ dere perpendicolarmente al centro della terra ma essendogli ciò impedito dal filo a cui è appeso la sua gravità non può ope¬ rare che portandolo a descrivere nella sua caduta un arco che 142 [p. 117 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ cominciando dal punto della sua elevazione I39I va sino a quello, in cui egli era in perfetta quiete prima del sofferto innalzamen¬ to. Quivi giunto, e per la forza d’inerzia, che lo costringe a mantenere lo stato di moto, e per quella, che ha acquistata nella sua caduta si porta ad un’altezza orizontale al punto della sua prima elevazione, e quindi ricadendo per la sua gravità s’innal¬ za sempre nel modo istesso, che abbiam detto ai punti medesi¬ mi per delle vibrazioni isocrone cioè dell’istessa durata; onde un pendolo mosso una volta sarà sempre in perpetuo moto; ciò che avvenir dovrebbe se esso non fosse soggetto a verun impe¬ dimento, ma l’aria, che egli è costretto a rompere per aprirsi il passo, e gli attriti del punto di sospensione ritardano a grado a grado il suo moto ed abbreviano le sue vibrazioni sino a ridur¬ lo allo stato di quiete cose tutte, che dalla comune esperienza vengon dimostrate. Ogni corpo allor che discende ad ogni |4o| momento acquista una maggiore accelerazione per mezzo della forza di gravità «poiché, al dir del celeberrimo Poli, non lascia ella giammai di ac¬ compagnare il mobile ne’ varj successivi punti dello spazio, per cui va egli scendendo di mano in mano, e la velocità generata in ciascun istante non si distrugge, ma coopera con quella dell’istante, che segue attesa la Forza d’inerzia, onde non si avrà difficoltà di convenire, che in tempi uguali si aggiungeranno al mobile uguali gradi di velocità. Quindi la velocità ac¬ quistata nel secondo istante sarà doppia della prima quella del terzo sa¬ rà tripla quella del quarto sarà quadrupla, e così in appresso, e conse¬ guentemente il moto di un tal corpo sarà uniformemente accelerato. La velocità poi, che cotesto corpo troverassi avere nel fine della sua caduta sarà come il numero degl’istanti impiegati nel discendere, e quindi sarà la somma di tutte le velocità parziali acquistate in ciascheduno di essi ». Un corpo scagliato verticalmente in alto cessato l’impeto 143 [p. 118 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE della forza projettile ricadrà secondo quella stessa direzione per cui era asceso non essendovi alcuna bastevol causa, che lo co¬ stringa I411 a declinare a dritta, o a sinistra. Se poi la forza projet¬ tile spinga il corpo orizzontalmente, il medesimo descriverà cadendo una linea curva, la quale non è che la composizione della forza centripeta cioè della tendenza al centro, che conser¬ va malgrado la forza projettile, e della forza tangenziale acqui¬ stata per mezzo della projezione. Alla gravità appartiene ancora il centro di equilibrio, ossia cen¬ tro di gravità od anche centro della massa. Altro egli non è, che quel punto, sopra il quale il volume di un corpo si mantiene equilibrato, e il peso tutto, e gravità della massa si trova come accumulata. Questo punto può essere, o inferiore, o superiore al corpo. Suppongasi un perno acuto posto in vertical direzione; quindi un circolo di qualsivoglia solida materia si sovrapponga alla sommità del perno surriferito in modo, che il centro del cir¬ colo, e la cima del perno sieno fra loro esattamente a contatto si vedrà che il circolo resterà perfettamente in equilibrio per es¬ sersi accumulata I42I tutta la sua gravità sopra il proprio centro, 144 [p. 119 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA GRAVITÀ e la cima del perno; in questo caso il punto, o centro dell’equi¬ librio sarà inferiore alla massa del corpo equilibrato. Un tal punto sarà al medesimo superiore se per cagion d’esempio si sospenda un corpo qualunque all’estremità di un filo, nel qual caso il centro di gravità sarà nell’altra estremità del medesimo, la quale viene volgarmente chiamata punto di sospensione. Il centro di gravità può ancora esser comune a due corpi co¬ me tuttogiorno scorgiamo nella volgar bilancia, nella quale due masse del peso medesimo, e poste nella medesima distan¬ za dal centro di gravità opponendo le loro forze, e non poten¬ do l’una prevalere all’altra perchè il centro di gravità agisce egualmente sopra ambedue, ne risulta un perfetto equilibrio. Che se l’una delle due masse opposte giunge a superare ed ele¬ var l’altro corpo per ritornar l’equilibrio converrà dare al cen¬ tro di gravità una maggior forza sopra il corpo I431 preponde¬ rante, ed avvicinarlo, per conseguenza al medesimo sino a quel punto in cui l’altro corpo ritorni ad eguagliarlo, ed a mante¬ nersi col medesimo in orizontal direzione. All’enunciata dottrina del centro di gravità spetta ancora quella della linea di direzione cioè di quella perpendicolare, che dalla sommità di un corpo discender deve alla sua base per mantenerlo in equilibrio. Se per cagion d’esempio un uomo 145 [p. 120 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE s’inchini obbliquamente per linea retta nella parte anterior del suo corpo egli dovrà necessariamente cadere, se ad impedirlo egli non awanza il piede in modo, che sopra di esso cada per¬ pendicolarmente dal capo la linea di direzione, ciò, che la natu¬ ra medesima ci spinge a far tuttogiorno per un moto abituale fatto bene spesso senza saperne la causa. Ciò è quello, che di comune consenso viene ammesso intor¬ no alla forza di gravità, sopra la quale fu ragionato da’ Filosofi fino da’ secoli più remoti, e che posto finalmente in tutto il suo lume è al presente di grandissima I44I utilità alle Fisiche, Mec¬ caniche, e Architettoniche dottrine, e dà anche al dì d’oggi ai moderni Filosofi un aperto vastissimo campo di osservazioni, e scoperte. [p. 121 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI 147 [p. 122 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE [p. 123 modifica]148 |45| J-^ovendosi nelle Fisiche dottrine parlare di tutte le cognite proprietà dei corpi parlasi per conseguenza ancora degli effetti, che da esse vengon prodotti. Di questi, e di quelle additar si de¬ ve la causa, e i varj fenomeni spiegare, che a loro appartengono. Nè il saggio Filosofo si arresta a considerare soltanto quelle pro¬ prietà che si scorgono in ciascun corpo separatamente dagli altri, ma si awanza, e spinge ancora le saggie sue ricerche sino ad in¬ dagare la cagione di quei fenomeni, e di quei varj accidenti che osservansi nelle diverse unioni incontri, o affinità di più corpi. Frutti di siffatte esperienze dir si possono senza alcun dubbio quei dogmi, e quelle dottrine, che dai Fisici vengonci enuncia¬ te intorno all’urto, o conflitto de’ corpi. La verità di quanto af¬ fermasi intorno a ciò vien dimostrata dalla comune esperienza, ed ognuno potrà facilmente farne la prova. Frequentissime so¬ no alcerto quelle |4ó| occasioni, nelle quali evidentemente ap¬ palesami quegli effetti, e quegl’incontri, de’ quali hanno già da gran tempo parlato i Filosofi intorno all’urto de’ corpi. Noi dunque ad esaminarli c’interterremo, ed assegnar le cagioni di tutto ciò che si offrirà ai nostri sguardi, riguardando come il più stabil sostegno, e la più ferma prova di quanto verrà da noi esposto, e dimostrato, la comune universale esperienza. Se due corpi s’incontrino insieme, e si urtino venendo come a combatter fra loro diversi saranno gli effetti di quest’ incontro secondo le diverse circostanze, nelle quali il medesimo accade. Dobbiamo noi adunque per stabilirne la causa, e le leggi consi¬ derar prima di ogni altro le diverse specie dei corpi, che produr possono quegli effetti de’ quali ora a ragionar ci accingiamo. Sono i corpi duri, molli, o elastici. Duri son quelli, che non cedo¬ no all’urto degli altri corpi qualunque sia la forza con cui ven¬ gono urtati. I47I L’ esperienza ci dimostra, che non esiste in na¬ 149 [p. 124 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE tura corpo alcuno a noi noto, che possa chiamarsi perfettamen¬ te duro, poiché niun corpo, è tale che non ceda in conto alcuno ad una forza sufficiente. Appellasi corpo molle quello che resi¬ ste all’urto de’ corpi ed alla mutazione della figura, ossia a quell’affondamento, che in lui producesi dall’impeto degli al¬ tri corpi co’ quali incontrasi; ma che ricevuto in se stesso il pre¬ detto affondamento non si sforza in alcun modo di ricuperare il pristino suo stato. Elastici diconsi finalmente quei corpi, i quali, e resistono alla forza contraria degli altri corpi che l’urta¬ no, e procurano quindi di riacquistare la perduta figura. I corpi elastici o hanno un perfetto elaterio cioè ritornano alla primiti¬ va posizione con la stessa forza, con la quale in lor si produsse l’accennato affondamento, o ciò non fanno, che con forza mi¬ nore. Posto tutto ciò noi passeremo a considerare i diversi ef¬ fetti dell’urto de’ corpi, e allorché il |48[ corpo urtato non può essere smosso, e allorché il medesimo può ed abbandona infat¬ ti lo stato di quiete, accennando quei principali fenomeni che osservansi in tali incontri. Noi distingueremo i corpi in elastici, e non elastici, intendendo per corpi non elastici quelli sola¬ mente, che già dicemmo appellarsi corpi molli poiché non co¬ noscendosi in natura corpo alcuno perfettamente duro noi ci asterremo dal trattarne. Suppongasi per cagion d’esempio una palla di ferro la quale scagliata orizontalmente urti in un muro immobile. Nel primo istante il globo pone in opera tutta la forza che ella possiede in 150 [p. 125 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI proporzione della sua massa, e della sua velocità contro pochis¬ sime parti del muro. A questa compressione esse si arretrano cedono alla forza contraria, e rinculando sopra le parti del mu¬ ro a loro più prossime fanno, che queste altresì vadano di mano in mano sopra le altre producendo in tal modo un leggiero af¬ fondamento alla superfìcie del muro. Da ciò ne siegue che I49I il globo sarà nel secondo istante ritardato del suo moto poiché penetrando egli nell’affondamento prodotto nel primo istante sarà a contatto di più parti del muro, e per conseguenza avrà più parti da rispingere, oltredichè essendo esse nel secondo istante più condensate che nel primo sono in grado di fare una maggior resistenza, volendo ancora tacere dello schiacciamen¬ to sofferto nell’incontro anche dal globo percuziente. Se il corpo urtato sia sensibilmente molle il globo sieguirà a muoversi secondo la sua direzione finché la forza impressa sia affatto svanita, ed allora non trovando corpo alcuno capace di opporgli una vigorosa reazione, o si fermerà nel prodotto af¬ fondamento, o ricadrà per il proprio peso. Se poi il corpo per¬ cosso sia di sufficiente durezza il corpo percuziente dovrà ri¬ tornare indietro trovando egli nel corpo urtato una reazione trionfante, e capace di respingerlo per una direzione contraria a |so| quella, per la quale egli era venuto. Avviene talora, che il corpo percuziente cada dopo l’urto descrivendo una linea cur¬ va. La cagione di un tal fenomeno spiegasi per mezzo della for¬ za di gravità nè è qui del nostro proposito il dimostrarla. 151 [p. 126 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE L’urto, di cui trattiamo può accadere ancora fra i corpi ela¬ stici. Se il corpo percuziente, e il corpo percosso siano di uno stesso elaterio il corpo percuziente dovrà dopo l’urto necessa¬ riamente tornare per la direzione contraria a quella per cui fu lanciato poiché ambedue i corpi cedono nell’incontro, e pro¬ ducono in se stessi un affondamento uguale ciascuno a quello dell’altro corpo. Quindi sforzandosi ambedue di ricuperare il pristino stato con la forza medesima vengono a combattere in modo, che immobile essendo il corpo percosso, il corpo percu¬ ziente e per la propria elasticità e per quella dell’altro dovrà ne¬ cessariamente rimbalzare indietro. La forza impiegata in tali incontri tanto dal corpo mobile quanto da quello immobile sa¬ rà sempre I51J in proporzione della velocità, e della massa del corpo percuziente, poiché è chiaro che egli non può nell’urto avere altra forza, che quella, che acquista per mezzo dell’im¬ pulsione, e della quantità della sua materia, e che l’urto, e tutto ciò che accade dopo di esso non è che un prodotto della forza soprindicata, e deve per conseguenza essere in proporzione della medesima: e in quanto al corpo percosso egli è dimostra¬ to che la reazione esser deve uguale all’azione onde essendo quest’ultima proporzionale alla forza accennata dovrà essere alla medesima proporzionale ancora la prima. Dai varj incontri, e dai varj dogmi che abbiam finora proposto potranno dedursi quelle dottrine che spettano alle diverse altre circostanze nelle quali avvenir può l’urto fra i corpi mobili, ed immobili, di cui finora parlammo. Dobbiamo ora adunque passare ad esamina¬ 152 [p. 153 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI re que’ varj fenomeni ed effetti che produconsi per mezzo del¬ l’incontro de’ corpi mobili onde compire in qualche modo la breve |52| nozione del conflitto de’ corpi che a trattare intra¬ prendemmo. Dovendo un corpo mobile avvicinarsi ad un altro corpo sia egli in istato di moto, o di quiete è necessario che l’uno, o l’al¬ tro dei corpi percorra lo spazio, od intervallo, che passa tra di essi ciò che non può farsi, che in un tempo finito, il quale misu¬ ri la velocità del corpo mobile. Ciò posto supponiamo due glo¬ bi non elastici sopra qualsivoglia superficie. Pongasi che ambe¬ due si muovano in una stessa direzione l’uno innanzi all’altro in modo, che il corpo, che è innanzi debba dall’altro esser rag¬ giunto: si vedrà che dopo l’urto continueranno ambedue a muoversi nella medesima direzione senza declinare nè a dritta nè a sinistra dividendosi il moto, e la velocità del corpo, che ur¬ ta tra ambedue secondo il rapporto delle masse, ciò, che è ab¬ bastanza chiaro per se medesimo. Così ancora avverrà se il cor¬ po urtato sia in istato di quiete; cioè la velocità del corpo, che urta verrà divisa fra esso, e il corpo urtato I53I secondo la quanti¬ tà della materia dell’uno, o dell’altro, e quest’ ultimo si moverà, e scorrerà sopra la superficie nella direzione istessa del corpo, che urta. Se poi questi due corpi si muovano in una medesima linea ma in direzioni contrarie allorché essi vengono ad urtarsi se ritrovinsi avere una stessa velocità non potendo l’uno vince¬ re l’altro dovranno necessariamente ridursi alla quiete; ma se l’uno dei corpi sia di massa maggiore dell’altro, o sia stato avan¬ ti l’urto di maggior velocità la forza che resta ancora dopo l’ur¬ 153 [p. 154 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE to si dividerà fra ambedue i corpi in proporzione della massa, ed i medesimi si muoveranno l’uno nella stessa direzione del¬ l’altro. Noi non ci tratterremo ad esporre alcune leggi spettanti agl’indicati dogmi, ed a quelli, che ancora ci restano a spiegare, sì perchè queste non posson dirsi necessarie alla perfetta no¬ zione delle presenti dottrine sì perchè mi sembra appartener esse piuttosto al moto, I54I che all’urto de’ corpi. «Si vede, come si esprime il Sig.r Brisson, da quel, che abbiamo detto dell’urto de’ corpi non elastici 1. Che quando dopo l’urto le direzioni de’ moti de’ corpi, che si urtano sono nell’istesso senso; esiste allora ne’ due corpi riuniti una quantità di moto eguale a quella che sussisteva nell’uno de’ due, 0 in ambedue avan¬ ti l’urto. 2. Che quando le direzioni de’ moti di questi corpi sono in senso con¬ trario perisce, se non tutto, almeno una parte del moto, e che se ve ne re¬ sta dopo l’urto la quantità, che vi rimane, è eguale alla differenza delle due quantità avanti l’urto». Nell’urto de’ corpi elastici mobili distinguer si possono due specie di moto l’uno cioè primitivo, il quale viene da un corpo all’altro communicato e l’altro di elaterio prodotto dalla reazio¬ ne de’ corpi elastici. Ambedue queste specie di moto si osser¬ vano nei susseguenti fenomeni. Se di due corpi di ugual massa perfettamente elastici posti sopra una superficie qualunque l’uno sia in istato di moto, e l’altro di quiete urtando il mobile in quest’ultimo verrà a I551 communicargli una parte del suo moto in proporzione delle masse. Ambedue i corpi soffriranno allora uno schiacciamento secondo il rapporto della velocità, 154 [p. 155 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’URTO DEI CORPI con la quale venne a formarsi il loro urto. Il corpo in quiete ri¬ cupererà la sua prima figura per mezzo della sua elasticità, ed essendo la reazione uguale all’azione egli verrà in tal modo ad acquistare una velocità uguale a quella, che gli è stata commu- nicata, e per conseguenza egli avrà una quantità di moto dupla di quella, che in uguali circostanze avrebbe acquistato un corpo non elastico. Quello poi, il quale communicagli il suo moto, o resterà perfettamente in istato di quiete, o dovrà moversi in senso contrario se il suo moto di elaterio eccede il restante del¬ la sua prima velocità. Se poi questi due corpi si muovano ambedue per una mede¬ sima linea, ma in direzioni contrarie ambedue si separeranno per mezzo della loro elasticità, e la loro velocità I561 respettiva sarà uguale a quella, che essi avevano prima dell’urto poiché, come si esprime il sopracitato Sig.r Brìsson «Se questi due corpi fossero senza elaterio, o si fermerebbero reciprocamente, o l’un de’ due trasporterebbe l’altro, come abbiamo detto di sopra. Si separano dunque in virtù della loro reazione, ma questa reazione, e eguale alla compres¬ sione cagionata dall’urto, e la compressione e come la velocità respettiva avanti l’urto; la velocità, che ne risulta dopo l’urto deve dunque essere si¬ mile». Da ciò, che finora abbiam detto intorno all’urto de’ corpi elastici potranno dedursi quelle varie dottrine, e potranno co¬ noscersi quei varj effetti che risultano dalle altre circostanze nelle quali può accadere l’urto de’ corpi sopraddetti. Tutto quello che da noi fu esposto circa il conflitto dei corpi essendo come dicemmo fondato principalmente sopra la quotidiana, volgare esperienza, e venendo approvato da tutti i più colti, e sensati Filosofi, non può non essere ammesso, che da quelli, i quali sembrano aver dalla natura sortito \s7\ un odiosissimo spi¬ rito di perpetua contradizione direttamente opposto alle rego¬ 155 [p. 156 modifica]1 DISSERTAZIONI FISICHE le della società, ed alle leggi del buon costume. Da awersarj di tal fatta io credo però esenti le accennate proposizioni intorno all’urto, o conflitto de’ corpi poiché nulla vi è in esse, per mio awiso, che possa in qualche modo oppugnarsi nemmeno dai più sagaci, ed ostinati nemici delle patenti verità. 156 [p. 157 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE 157 [p. 158 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE [p. 159 modifica]158 |58| Varie sono quelle proprietà spettanti alla materia, che appar¬ tengono, e dipendono ancora dall’estensione comune general¬ mente a tutti i corpi. Noi intendiamo per estensione lo spazio, che corre tra i limiti di un corpo qualunque non eccettuato neppure quello, che si scorge tra più corpi, il quale non è occu¬ pato, che dall’aria. A questo punto di Fisica appartiene la cele¬ bre questione intorno al vuoto, di cui l’esistenza vien dai Peri- patetici negata, e la possibilità dai Cartesiani. Il P.Jacquier franca¬ mente afferma la sua esistenza, la quale vien dal medesimo di¬ mostrata con ragioni da lui chiamate validissime, ma che in ef¬ fetto possono senza gran difficoltà essere ribattute. Nondime¬ no dai fautori di questa proposizione apportasi un argomento, il quale può non poco contribuire a determinarne la verità. Lo spazio essi dicono non occupato dai corpi visibili verrà occupa¬ to dall’aria, ma l’aria ha i suoi pori, i quali non potranno essere riempiuti, che da un etere più sottile, ma ancor egli poroso poi¬ ché ciascun [591 corpo in natura ha siffatta proprietà. Onde l’e¬ 159 [p. 160 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE tere avrà sempre i suoi pori, e quantunque essi siano riempiuti da altri Fluidi questi altresì saranno similmente porosi, e così anderebbesi in infinito, il che essendo evidentemente inam¬ missibile deve necessariamente affermarsi l’esistenza del va¬ cuo. A ciò vien risposto dagli awersaij del presente sistema con alcune ragioni, che a dire il vero non soddisfanno perfettamen¬ te, per mio avviso, alla proposta obbjezione onde io reputo più sano consiglio il restare indeciso fra gli opposti pareri circa il vacuo, di quello, che intrigarsi in siffatte questioni, da cui non si potrà finalmente ritrarre il piede, che incerti, e confusi ancor più di quando alle medesime si dette principio poiché per con¬ fessione di ambedue le parti nulla vi è, che possa decidere di siffatta questione in riguardo ai sensi onde sempre dubbiosa sa¬ rà qualsivoglia dottrina vertente sopra un tal punto. Non credo poi, che alcun sensato Filosofo ammetter possa, che il vacuo sia intrinsecamente impossibile poiché nulla certamente ripugna, nè implica contradizione nell’esistenza del vuoto, ed il mede¬ simo è |6o| per conseguenza possibile. Lasciate adunque simili questioni noi passeremo ad esaminare le proprietà dell’esten¬ sione dei corpi con tutto ciò, che ad essa appartiene, il che è co¬ me dicemmo di moltiplice argomento. In tutto ciò, che da noi verrà esposto si avrà sempre per guida il senso comune, e l’opi¬ nion dei Filosofi. Dal modo, nel quale l’estensione vien definita egli è chiaro, che ciascun corpo è esteso. L’estensione è composta di tre di¬ 160 [p. 161 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE mensioni lunghezza, cioè, larghezza, ed altezza, o profondità-, cia¬ scuna delle quali vien contenuta tra i limiti determinati, e lo spazio, che passa tra di essi è quello, che propriamente appella¬ si estensione. Queste tre dimensioni sono comuni universal¬ mente a tutti i corpi poiché, al dir di Brisson, «ciascun corpo per quanto piccolo esso sia ha sempre un di sotto, e un di sopra una parte anteriore, e una parte posteriore, un lato sinistro, ed uno lato destro, e tutto ciò preso insieme Jorma una lunghezza, una larghezza, ed una grossezza ...E vero, che non vediamo queste dimensioni in tutti i corpi; ve ne son di così piccioli, che i nostri occhi non possono scorgerli nè la no¬ stra mano distinguerli, |6i| ma siccome in tutti i corpi che cadono sotto i nostri sensi troviamo quest’estensione possiamo affermare, che ella è pro¬ pria di tutti i corpi in generale». Varie sono come dicemmo quelle proprietà dei corpi, che appartengono alla loro estensione. Di questo numero sono l’impenetrabilità, e penetrabilità dei corpi. Ambedue spettano a qualsivoglia ente materiale, e debbono annoverarsi fra quelle, che formano il carattere della sostanza corporea. La penetrabi¬ lità è quella, per mezzo di cui un corpo dà libero accesso in se medesimo ad altro corpo di lui più sottile. Ciò avviene con l’a- juto dei pori ossia di alcuni tenuissimi forami, che in minima distanza l’uno dall’altro si ritrovano nei corpi ancor più com¬ patti. Il chiarissimo Dufai nei Monumenti Parigini accenna una specie di liquore, col quale se venga delineata alcuna immagine sopra la superficie ancora de’ marmi più duri potrà la medesi¬ ma distinguersi fino sull’altra superficie del marmo, il che non potrebbe avvenire se per mezzo dei pori non fosse il liquore 161 [p. 162 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE disceso per i diversi strati del medesimo. Questo, ed altri mol¬ tissimi esperimenti ci |62| dimostrano, che in ciascun corpo si ri¬ trovano siffatti pori, e che per conseguenza tutti i corpi sono penetrabili. Questi pori son quelli, per mezzo de’ quali accade negli animali la traspirazione chiamata Santoriana perchè prima di ogni altro conosciuta dal celebre Santorio. I medesimi osser¬ vati da Leeuwenoek sotto le picciole squamme dell’ epidemia oc¬ cupano secondo il suo computo in numero di 125 000. lo spazio soltanto di un picciolo granello di arena. Moltissime esperien¬ ze apportar si potrebbero per consolidare la verità della nostra proposizione cioè che ciascun corpo è penetrabile, ma a tal uo¬ po io credo sufficienti le già indicate osservazioni essendo ornai la generale penetrabilità, e porosità dei corpi universal¬ mente ammessa, ed approvata. Altra proprietà generale dei corpi spettante alla loro esten¬ sione eli’è come dicemmo l’impenetrabilità detta ancora Soli¬ dità dai Fisici. Questa proprietà è quella, per mezzo di cui un corpo si sforza di rimanere nel luogo, che egli occupa, il quale non può essere occupato da un altro, se egli non ha forza suffi¬ ciente a spingere il primo, e toglierlo I631 dal luogo ove egli si ri¬ trovava. Un corpo resiste ancora a quello, che vuole impedirgli 162 [p. 163 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE di rimanere nella sua posizione. L’aria medesima, l’acqua, e qualsivoglia fluido sono impenetrabili, e egli è evidente che se vuoisi por nell’acqua alcun corpo, o passare a tramezzo dell’a¬ ria circostante, tutto ciò non potrà farsi che obbligando l’aria, e l’acqua ad abbandonare quel luogo, che vuoisi occupare, e co¬ stringendole a ritirarsi, e lasciar libero lo spazio in questione; esse però resisteranno per quanto è in loro potere alla forza contraria. « Vi sono, al dir del sopracitato Scrittore, certi corpi che sembrano lasciarsi penetrare, ma non è che una penetrazione apparente, e non reale. Per esempio una spugna riceve, e ritiene interiormente una gran quantità d’acqua, ma quest’acqua va a posarsi ne’ vuoti che si tro¬ vano fra le parti della spugna, e non occupa niente affatto il luogo delle parti proprie della spugna. Si può dire lo stesso di un pezzo di zucchero, di una pietra tenera ec. La pietra delle cave di Bourè vicino a Montri- chard nove leghe distanti da Tours ritiene più di venticinque libbre di acqua per piede cubico. Ma quest’acqua va ad occupare gli spazj, |64| che le parti della pietra, o dello zucchero lasciano vuoti della loro propria so¬ stanza nè mai il luogo che occupano quelle medesime parti ». La dottri¬ na dell’impenetrabilità dei corpi spetta in gran parte alla forza d’inerzia essendo la resistenza, che fa il corpo a chi vuol to¬ glierlo dal proprio luogo un prodotto della medesima. Viene altresì annoverata tra le proprietà dei corpi apparte¬ nenti alla loro estensione la Divisibilità. Ciascun corpo è forma¬ to di particelle, e di molecole unite insieme per mezzo dell’af¬ finità d’aggregazione, di cui sono dotate. Essi sono dunque di¬ visibili, cioè le sue particelle possono essere slegate, e scompo¬ [p. 164 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE ste, le quali particelle essendo formate di altre molecole ancor più sottili possono anch’esse per conseguenza esser divise. In¬ fatti noi non possiamo immaginarci un corpo sebben minimo, nel quale non supponiamo due metà, e per conseguenza può senza dubbio affermarsi esser la materia divisibile in infinito numero di parti infinitamente picciole. Deve avvertirsi, che noi non intendiamo di dire che un corpo sia divisibile in infini¬ to fisicamente, ma soltanto \6s\geometricamente, e per mezzo de’ voli astratti dell’umana immaginazione. In conseguenza di ciò un corpo ancor sottilissimo può esser diviso in infinite superfi¬ cie d’infinita sottigliezza. Moltissimi sono quegli esperimenti, con i quali vollero i Fisici dimostrare la Divisibilità dei corpi in modo evidentissimo. Tra questi eli’è utilissima l’osservazione riportata dal celebre Poli circa i raggi della luce, poiché «quan¬ tunque, com’egli si esprime, siffatti lumi non decidano se il campo assegnato alla rapportata Divisione si estenda all’infinito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, che giugne fino a stancare la più vivace imaginazione. Se in una notte serena, segue il mentovato Scrittore, pongasi a cielo aperto una candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla distanza di due miglia ossìa di io mila piedi tutt’ all’intorno. È noto presso de’Matematici, che uno spazio sfe¬ rico, che abbia il semidiametro di io mila piedi in se contiene 4. bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici. Pervia di un agevol sperimen¬ to si può rilevar\66\ di leggeri, che una candela di sego di sei a libbra può 164 [p. 165 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE continuare a bruciare per lo spazio di cinque ore, e quindi che nello spa¬ zio di un secondo viene a consumarsi 1/14 parte di un grano di sego, che però egli è chiaro che le particelle di luce sviluppate da 1/14 di un gra¬ nello di sego illuminano uno spazio sferico che in se contiene 4. bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici per lo continuato intervallo di un secondo. Ciocche a dir vero ci fà rilevare, che la picciolezza delle par¬ ticelle della materia è immensa a segno tale che supera di molto la forza della nostra immaginazione, la quale resterà vie maggiormente imba¬ razzata, e confusa dal riflettere, che essendo la luce lanciata dai corpi lu¬ minosi con indicibile celerità, l’anzidetto spazio sferico viene ad esser riempiuto più migliaja di volte nell'intervallo di un secondo da quella luce che si sviluppa da 1/14 di un granello di sego ». (1) I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel combustibile insieme con il calorico, e con la luce, con cui era unito, e che abbandonando l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco. 1671 A dimostrare la divisibilità della materia può servire la nota esperienza, la quale prova che una piccola porzione di sale può ammettere in se stesso un oceano di acqua, la quale pene¬ trando fra le intime molecole del sale le discioglie, e le separa in altre ancor più picciole, e queste in altre maggiormente sot¬ tili, e così andando in infinito in modo, che l’accennata porzio¬ ne di sale resta distribuita per tutta l’acqua dissolvente, ed ac¬ crescendo ancora quest’ultima essa resterà salata in tutte le sue parti, ciò che può vedersi per mezzo di un agevole esperimen¬ to. È noto ancora presso i Chimici che una piccola parte di aria può occupare un vastissimo spazio, ed essere sempre più dila¬ 165 [p. 166 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE tata per mezzo del calorico, il quale penetrandola per ogni par¬ te ne separa le più minute particelle e la mette in istato di oc¬ cupare uno spazio sempre maggiore a misura che accrescendo¬ si il calorico si accresce la forza, e l’attività del medesimo a se¬ parare disciogliere, e dividere le molecole di quella piccola porzione di aria. Viene ancora riferito dal chiarissimo Abbate Nollet un esperimento, nel |68| quale ponendosi una qualsivo¬ glia sottilissima moneta nel mezzo di una fiamma di zolfo su¬ blimato essa si divide in due laminette secondo il suo piano, e talvolta una delle due laminette essendo più sottile dell’altra lascia in quest’ultima l’impressione del conio in modo che la moneta non sembra sensibilmente diminuita. Ciò avviene per¬ chè al dir del mentovato Scrittore « la parte più sottile dello zolfo che si sviluppa nell’ardere, e che s’insinua quinci, e quindi tra le parti del metallo dilatato dal fuoco forma nell’interiore della moneta, e secondo il suo piano un suolo di materia straniera al metallo, che cagiona la divi¬ sione, e che si ravvisa quando le parti sono separate». Da ciò, che si è detto della divisibilità dei corpi egli è eviden¬ te che ciascuna particella per picciola che ella sia deve sempre terminare in superfìcie; diversamente ella non potrebbe esser divisibile poiché il punto geometrico è affatto indivisibile. Ciò serve a spiegare in qualche modo la natura della Figurabilità dei corpi, la quale viene pure riconosciuta come un attributo della materia spettante |69| alla di lei estensione. Noi intendiamo per figurabilità quella proprietà, che hanno i corpi di possedere una qualche figura. Questa figura deve sempre terminare in superficie per l’anzidetta ragione, e non essendovi corpo alcu¬ no che non abbia qualche superfìcie egli è chiaro, che non vi 166 [p. 167 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESTENSIONE sarà neppure corpo alcuno, che non sia figurato. Ed infatti non 33 possiamo noi concepir la materia se non dandogli qualche fi¬ gura, la quale sarà sempre determinata da alcuna benché mini¬ ma superficie. Da ciò si comprende, che la Figurabilità è un ne¬ cessario attributo della materia, il quale l’accompagna in qua¬ lunque stato ed in qualunque circostanza. Quei corpi ancora di 34 cui la picciolezza impedisce all’occhio di conoscerne la figura debbono nondimeno averne alcuna per l’enunciate ragioni co¬ me facilmente può scorgersi per mezzo d’istrumenti, che soc¬ corrano la debolezza dei nostri sensi. Tali sono i pensieri del saggio Filosofo circa l’estensione, 35 pensieri dalla moderna Fisica dilucidati, e ripuliti dalle mac¬ chie degli antichi errori, di |yo| cui non erano certamente scevri. L’enunciate dottrine intorno all’estensione, ed alle proprietà dei corpi ad essa spettanti sono al presente ammessi dalla mag¬ gior parte dei savj Fisici, i quali se ne resero certi con raddop¬ piate osservazioni, e ripetute esperienze. [p. 168 modifica]167 [p. 169 modifica]DISSERTAZIONI FILOSOFICHE DI GIACOMO LEOPARDI PARTE TERZA [p. 170 modifica]1811 [p. 171 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE ... lottotas animum demittit. in artes Ovid. Met. I. 7 [1. 8, v. 188] [p. 172 modifica] [p. 173 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA 173 [p. 174 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE | [p. 175 modifica]5|-Lj l’Idrodinamica quella parte di Fisica, che considera le ge¬ nerali proprietà dei fluidi, e ne apporta le cause, e le leggi. Noi chiamiamo fluidi quei corpi, le di cui particelle non hanno fra di loro alcun’aderenza sensibile, e per conseguenza si separano facilmente le une dall’altre, e cedono a qualsivoglia urto, o for¬ za, sebben leggerissima. L’Idrostatica, e l’Idraulica sono quelle parti, in cui l’Idrodinamica vien divisa. L’Idrostatica accenna, e dimostra quei varj dogmi, e quelle diverse leggi circa la gravità, e l’equilibrio dei fluidi, che dalla moderna Fisica al presente conosconsi. Deriva la denominazione di questa scienza dalla greca voce « vócop » cioè acqua, e dal vocabolo Statica, per conse¬ guenza Idrostatica vale Statica dell’acqua, ossìa dei fluidi. Per mezzo di questa scienza giunse Archimede a discuoprire il furto di quegli che fabbricata avea la corona di Gerione Re di Siracusa, per il che narrasi, che egli preso da improvisa gioja uscendo dal bagno esclamasse gridando di aver ritrovato quanto bramava. |6| L’Idraulica, che all’Idrostatica succede trae il suo nome dalle Greche voci « vòcop » cioè acqua e « avAóg » cioè tromba. Ella tratta del moto dei fluidi, e delle leggi osservate da questi nella loro progressione. Queste due scienze, che insieme unite pre¬ sentano una perfetta generale Teorìa dei fluidi formano ora il soggetto del nostro discorso. Noi dunque considereremo in prima la natura, e la causa della fluidità dei corpi, passeremo quindi ad esaminare la gravità, ed equilibrio de’ fluidi, e le leggi apporterem finalmente, e le proprietà del moto dei medesimi. Gli antichi ammettevano come causa della fluidità, la figura 175 [p. 176 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE sferica delle particelle fluide, e la forza ripulsiva esistente in da¬ te distanze tra le medesime. Egli è provato dalla moderna Fisi¬ ca, che l’idèa, che gli antichi formavansi della ripulsione è to¬ talmente chimerica, e che questa non è che una forza pura¬ mente passiva. Quella sostanza ora perfettamente conosciuta, che forma in gran parte il fondamento della moderna Chimica è quella, per mezzo di cui spiegasi evidentemente la causa della fluidità dei corpi. Io intendo parlar del calorico. Questa sostanza sussiste nei corpi in diversi stati, vale a dire |7| in istato di libertà, e di combinazione. Allorché egli è in un corpo in istato di li¬ bertà noi facilmente ce ne avvediamo per il senso, che eccita nei nostri organi, ma non così ci vien fatto di conoscere la sua presenza allorché egli è in un corpo in istato soltanto di combi¬ nazione, poiché esso non è allora, che un calorico latente, il quale accresciuto a qualsivoglia grado non potrà giammai es¬ serci sensibile. Questo medesimo si sviluppa bene spesso nella decomposizione di alcun corpo, ed allora ponendosi in istato di libertà eccita in noi il senso del calore. Se egli è in un corpo ad una data quantità in istato di combinazione, il medesimo soffre una continua rarefazione delle sue parti, ed è per conse¬ guenza fluido. A misura, che si accresce, o sminuisce il calorico di un corpo, il che avviene in proporzione dell’affinità, che ha quest’ultimo con il primo egli diverrà successivamente aerifor¬ 176 [p. 177 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA me, liquido, o solido, e la densità delle sue parti sarà in ragione inversa del calorico esistente fra le medesime. Un esempio evi¬ dentissimo di tutti gli accennati effetti del calorico ci vien som- ministrato dall’acqua. Se la medesima venga in un vaso qualun¬ que esposta al fuoco in un dato tempo |8| ponendosi il calorico, sostanza d’impercettibil sottigliezza, tra le molecole dell’ac¬ qua, e queste medesime dividendo, e riducendo in minime particelle, egli renderà il liquore invisibile, ed aeriforme solle¬ vandolo in istato di vapore. Questo medesimo perdendo per un cangiamento di temperatura una parte del suo calorico, si condensa ad un dato punto, e forma le nubi. Sminuendosi il suo calorico egli torna allo stato di liquidità, e cade per il pro¬ prio peso sulla terra. Quivi abbassandosi la temperatura al gra¬ do di gelo, egli perde il calorico necessario a mantenerlo nello stato di liquore, il quale si manifesta rarefacendo l’aria tenuta dall’acqua con se combinata in istato di somma densità, e supe¬ rando tutti gli ostacoli, che si oppongono alla dilatazione della medesima. L’acqua rimane allora in istato di solidità. In tal mo¬ do chiaramente spiegasi la causa della fluidità, e dimostrasi, che ogni fluido è composto di particelle solide, e non è in effetto, che un corpo solido rarefatto. Egli è dimostrato, che i fluidi gravitano verso il centro del globo, sebbene diversamente dai corpi solidi, poiché le di loro molecole esercitano la loro gravità |s>j indipendentemente le une dalle altre, per non aver fra se medesime veruna sensibile coesione. Fuwi un tempo, in cui credeasi, che i fluidi non gra¬ vitassero dentro al proprio elemento, cioè, per cagion d’esem¬ 177 [p. 178 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE pio, che l’aria non fosse grave nel seno dell’atmosfera, l’acqua non esercitasse pressione alcuna sopra gli strati inferiori della propria sostanza, e così di qualsivoglia fluido. La falsità di que¬ sta proposizione vien dimostrata da un agevole esperimento. Ap¬ pendasi al braccio di una bilancia un’ampolla otturata, ed im¬ mersa in qualsivoglia liquore, equilibrandola con un peso qua¬ lunque, posto all’altra parte della bilancia. Ciò fatto disturisi l’ampolla in modo, che il liquore, in cui è immersa, entri libera¬ mente nella medesima. Si vedrà, che l’ampolla prepondera scen¬ dendo al fondo del vaso, e che non può alla bilancia restituirsi l’equilibrio, se non aggiungendo all’altra parte della medesima un peso equivalente a quello del liquore contenuto nell’am¬ polla, il che fatto tornerà il tutto al primo suo stato. Da un tale esperimento dimostrasi la falsità dell’accennato principio, il quale non è al presente ammesso da alcun sensato Filosofo. I Fluidi esercitano la loro pressione in ogni senso, e |io| in qualunque direzione poiché, al dir del celebre Saverio Poli «La gravità, onde i fluidi sono dotati fa sì che le loro parti superiori premano contro le inferiori, e la loro somma mobilità, procedente forse dall’esser el¬ leno di figura sferica, o d’altra, che alla sferica s’accosta, cagiona, che una tal pressione si faccia parimenti verso i lati, e in direzioni obblique. Per virtù della forza d’inerzia le parti inferiori premute, debbono riagire contro le superiori quelle di diritta contro quelle di sinistra, e quelle che sono in direzione obbliqua contro le loro opposte. Per conseguenza la pressione non solamente succederà in essi per ogni verso ma sarà eziandìo uguale verso tutte le parti, ed ecco il principio del loro equilibrio. Qualunque cagione, che lo distrugge, mette il fluido in movimento, nè 178 [p. 179 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA questo cessa fino a che non si restituisca di bel nuovo la pressione uguale dappertutto ». A ciò aggiunge il chiarissimo Sig.r Dandolo nelle sue note ad un tal passo, che «Se una particella non fosse premuta egualmente per ogni direzione, essendo per ipotesi priva d’ogni tenacità, si moverebbe per la seconda legge del moto da quella parte, verso cui la forza è minore, contro l’ipotesi. Dunque nei fluidi per aver l’equilibrio bisogna, che ogni particella sia premuta egualmente per ogni direzione. Così vicendevolmente se v’ha equilibrio sarà premuta ogni particella egualmente per ogni direzione. Se dunque verrà diminuita la pressione in qualche luogo da qualunque\n\ causa si sia il fluido si moverà finche la pressione d’ogni particella riesca eguale per ogni direzione cioè finche si restituisca l’ equilibrio ». Essendo il livello dei fluidi un effetto della gravità delle loro molecole, la qual forza li spinge costan¬ temente verso il centro della terra, avviene, che le superfìcie dei fluidi sieno concentriche alla medesima. Ciò facilmente si scorge in un vasto tratto di mare, nel quale una nave in data di¬ stanza, o del tutto si nasconde ai nostri sguardi, o non lascia scuoprirci, che la sommità del suo albero interrotto essendo il raggio visuale dalla convessità della terra, o del mare. Dalla enunziata dottrina circa l’equilibrio dei fluidi deriva, che un corpo immerso in un fluido, il quale sia di gravità specifica mi¬ nore di quest’ultimo, deve necessariamente restare a galla del medesimo, laddove un corpo di maggior gravità specifica non può mantenersi in tale stato, ma cade al fondo del recipiente 179 [p. 180 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE del fluido, e che un corpo di gravità specifica uguale a quella di quest’ultimo può mantenervisi in qualunque luogo. Ed infatti, come esprimesi il sopralodato Sig.r Poli « Una palla di sughero qualora fosse immersa nell’acqua fino ad una certa profondità, costitui¬ rebbe parte della colonna di fluido, che gli sovrasta, e quindi premerebbe in giù col suo peso unito al peso di quella |i2| contro una egual colonna dello stesso fluido. Questa riagendo premerebbe il sughero, e ’l fluido so¬ vrastante verso su, e siccome questa pressione deriva dalla forza d’iner¬ zia, dev’essere proporzionale alla quantità della materia, ond’è che sarà maggiore nella colonna sottoposta al sughero, che in quella, che vien for¬ mata dal sughero stesso, e dalla colonna sovrastante per essere il sughero specificamente più leggero dell’acqua. Perla qual cosa ne dovrà necessa¬ riamente seguire, che la pressione di siffatta colonna verso giù sarà vinta dalla pressione opposta della colonna che le resiste e quindi verrà il su¬ ghero rispinto in su coll’eccesso di quest’ultima ossìa colla differenza che v’ha tra la pressione delle due indicate colonne». Egli è dimostrato per mezzo di esperimenti, che se si renda nulla la pressione della colonna inferiore un corpo, benché specificamente più leggiero della medesima, può nondimeno mantenersi nel fon¬ do del suo recipiente. In quanto a quei corpi che hanno una maggior gravità specifica di quella del fluido, in cui sono im¬ mersi egli è chiaro, che la sua pressione unita a quella della co¬ lonna superiore vincerà la resistenza della colonna inferiore, e 180 [p. 181 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA che egli per conseguenza scenderà al fondo del vaso. Quei cor¬ pi finalmente, che sono dello stesso peso specifico del fluido, in cui son posti si manterranno in qualunque |i3| luogo del vaso per quella stessa ragione, per cui vi si mantengono le differenti particelle del fluido medesimo. Ogni corpo, e per la pressione, che soffre in tutte le sue parti da quelle del fluido, e per la forza che fa la colonna inferiore dello stesso per rispingerlo in alto, perde nel medesimo tanto del suo peso, quanto è quello del volume di fluido, che egli ha tolto dal suo luogo. E poiché la pressione, e reazione del fluido è in ragione diretta della sua densità perciò il peso perduto dal corpo nell’immersione è an¬ ch’egli in ragione diretta della densità del fluido, in cui è po¬ sto. Tutto ciò vien dimostrato dal seguente esperimento. Ap- pendansi alle braccia di una bilancia due corpi qualunque atti a mantenerla in equilibrio. Quindi uno di questi corpi s’immer¬ ga in qualsivoglia liquore restando l’altro nel primo suo stato. Nel momento dell’immersione quest’ultimo prepondererà al corpo immerso ritornando poi al suo luogo se all’altra parte della bilancia si aggiunga il peso del volume di fluido tolto dal corpo immerso dal suo luogo, il che fatto si restituirà l’equili¬ brio. Noi non potremmo parlando dell’Idrostatica passare sotto silenzio i fenomeni dei tubi capillari. È noto |i4| che se i mede¬ simi s’immergano in un vaso ripieno di liquore, quest’ultimo ascende immediatemente nel tubo ad un’altezza, che è in ra¬ gione inversa del diametro del tubo: che all’opposto il mercu¬ rio discende nel medesimo, e la sua discesa è così in ragione in¬ versa del diametro di quest’ultimo, e che finalmente i liquori 181 [p. 182 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE nell’ascendere non osservano alcuna legge nota rispetto alla di¬ versa loro natura. Questi fenomeni non possono spiegarsi per mezzo dell’etere Cartesiano, poiché in questo sistema non si dà ragione alcuna, per cui i fluidi più gravi ascendono talvolta ad un’altezza maggiore di quella dei più leggeri. Quelli che spiegano i surriferiti esperimenti per mezzo della pressione dell’aria non avvertono, che nel vuoto Boiliano si osservano i medesimi fenomeni con maggiore evidenza. Resta dunque soltanto, che gli enunziati effetti si attribuiscano ad una forza attraente. Egli è chiaro, che alcuni liquori hanno con altri corpi maggiore affinità che colle proprie parti, poiché se una goccia d’acqua, per cagion d’esempio, sia costretta dal proprio peso a separarsi da uno di questi corpi, ella non si distacca dalla super¬ fìcie del medesimo, ma lascia appesa ad essa una parte di se. (15) Superando adunque l’attrazione del tubo quella delle parti stesse del liquore, egli dovrà ascendere nel medesimo ad una data altezza, e questa in ragione inversa del suo diametro poi¬ ché quanto egli è maggiore tanto si accresce la forza di gravità del liquore ascendente, la quale equilibrandosi con la forza di attrazione contraria lo mantiene sospeso in un dato punto, e si oppone alla sua maggiore elevazione. Quanto più il liquore è affine alla materia del tubo tanto maggior peso si richiederà a superare l’attrazione del medesimo e conseguentemente egli 182 [p. 183 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’IDRODINAMICA dovrà ascendere ad una maggiore altezza. Allorché poi l’attra¬ zione delle molecole del fluido supera quella del tubo, come avviene nel mercurio il medesimo dovrà discendere nel tubo in ragione inversa della sua massa, il che è totalmente consen¬ taneo agli esperimenti. Noi non ci fermeremo a contendere se la forza di attrazione venga esercitata successivamente dai di¬ versi anelli del tubo o dall’intera sua superficie, non potendo ciò venir determinato in alcun modo ad onta di tutti gli sforzi, e di tutte le ragioni apportate dai fautori di ambi i sistemi. |i6| Ciò che finora dicemmo esser può sufficiente a spiegare le varie dottrine dell’Idrostatica. Noi non considererem, che di volo le proprietà del moto dei fluidi per non mancare alla bre¬ vità che ci siamo prefìssa. Un fluido sperimenta nel suo moto tutti gli ostacoli, che i solidi sperimentano, i quali son capaci di arrestare il suo corso. Così un fiume verrebbe a fermarsi nel suo letto se la forza comprimente dell’acqua, che non cessa di scaturire dalla sua sorgente con una continua impulsione non lo ponesse in perpetuo moto. Egli può in tal modo ascendere ancora per una direzione verticale, come sperimentò il Sig.r Pi- tot socio dell’Accademia Parigina il quale ponendo in un fiume un tubo piegato rettangolarmente vide, che l’acqua riempendo subitamente il canaletto orizzontale si elevò nel canaletto ver- 183 [p. 184 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE ticale sino ad una convenevole altezza, la quale, com’egli ragio¬ nevolmente asserisce, esser deve in proporzione della velocità del fiume. I fluidi resistono a qualunque forza, che voglia met¬ terli in moto, o cangiare in loro la direzione del medesimo, il che è un prodotto della forza d’inerzia, che opera in essi non meno, che nei solidi. In quanto poi alle leggi del loro moto esse sono in gran |i7|parte quelle medesime, che vengono osservate dai solidi nel loro movimento. Noi ci asterremo dunque dal parlarne, non essendo ciò necessario a stabilire una perfetta Teorìa dellTdrodinamica, i di cui dogmi procurammo finaddo- ra di porre nel suo maggior lume possibile. 184 [p. 185 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI [p. 186 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE 18 6 [p. 187 modifica]j 1811 Fluidi si appellano elastici allorché si sforzano di ricupera¬ re lo stato, in cui erano prima, che da una forza estranea venis- ser costretti ad abbandonarlo. I Fisici ricercano da gran tempo la causa di questa proprietà, e diversi sistemi propongono per dimostrarla. Quelli di Cartesio, di Malebranche, di Newton sono soggetti a grandissime difficoltà che li rendono, o del tutto as¬ surdi, o sommamente difficili ad ammettersi. Afferma il primo che la elasticità di un corpo non provenga, che dalla materia sottile, la quale, ristringendosi i pori in cui essa era contenuta, come avviene nella superficie concava di una verga elastica piegata in modo di arco, si sforza di uscirne, e rende in tal mo¬ do il corpo elastico alla sua prima figura. Oltreché la materia sottile cotanto decantata dai Cartesiani è al presente annovera¬ ta tra quelle ipotesi Filosofiche, che dalla moderna Fisica ven¬ gono totalmente proscritte, è da osservarsi, che allorché si comprime una verga elastica i pori della superficie convessa si dilatano onde la materia sottile può senza alcun impedimento occuparli abbandonando il |i9| corpo che essa riempe allo stato, in cui si ritrova. Inoltre questa materia sottile essendo per ipo¬ tesi in tutti i corpi; elastici per conseguenza esser dovrebbero i corpi tutti, il che è evidentemente falso. Il medesimo principio vale ad abbattere il sistema di Malebranche, il quale suppone, 187 [p. 188 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE che un vortice della sopraddetta materia sottile sia in perpetuo moto entro tutti i corpi, e venga in tal modo a restituirli al loro pristino stato. Il sistema di Newton, che ammette l’attrazione delle molecole di un corpo come causa della sua elasticità non è similmente ammissibile poiché in esso non si rende ragione perchè alcuni corpi perdono, o in parte, o tutta la loro elasticità col mezzo di una compressione di lunga durata. Noi vedremo in progresso qual sia la causa dell’elasticità dell’aria, e degli altri fluidi aeriformi ne’ quali mai vien meno questa proprietà. Ri¬ guardo all’elasticità degli altri corpi noi non ci faremo alcuna difficoltà a confessare, che la cagione ce ne è peranco ignota. I Filosofi commetterebbono assai meno errori se si contentasse¬ ro di esaminare gli effetti di una proprietà senza volerne inutil¬ mente indagar la cagione. Noi passeremo pertanto a parlare |2o| dei Fluidi elastici, e prenderemo con piacere l’occasione di trattare dell’aria, e delle sue proprietà non meno che del suono, di cui essa è il principale instrumento. I Fluidi elastici sono composti ciascuno di una sostanza combinata con il calorico in istato aeriforme. Di essi altri chia- mansi permanenti, ed altri non permanenti. I Fluidi elastici permanenti son quelli, che a qualsivoglia temperatura, o pres¬ sione conservano sempre il loro stato aeriforme al contrario de’ Fluidi elastici non permanenti, i quali non lo conservano, che 188 [p. 189 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI ad un certo grado di pressione; tali sono i vapori. Tutti i fluidi permanenti appellansi gas, e si distinguono dal nome di quella sostanza, che forma la loro base. Per cagion d’esempio l’idro¬ geno combinato con il calorico forma un fluido elastico chia¬ mato gas idrogeno. Un gas acido vien composto da una sostan¬ za combinata con il calorico, e con l’unico principio acidifican¬ te cioè l’ossigeno. I Gas dividonsi in vivificanti, e soffoganti. I Gas vivificanti son quelli, che servono alla respirazione degli animali, e alla combustione dei corpi. Questi si riducono a due, che appellansi arie, e sono (21 j l’aria atmosferica, e l’aria vitale. I Gas soffoganti son quelli, che non servono nè alla respirazione nè alla combustione. Di questi altri hanno sapore e sono disso¬ lubili nell’acqua ed altri non soffrono nella medesima verun discioglimento, e non presentano sapore alcuno. I Fluidi aeri¬ formi della prima specie sono sette cioè 1. il gas acido fluorico, 2. il gas acido muriatico, 3. il gas acido muriatico ossigenato, 4. il gas acido ni¬ troso, 5. il gas acido solforoso, 6. il gas acido carbonico, 7. ed il gas ammo¬ niacale. Quelli della seconda specie son tre vale a dire 1. il gas os¬ sido nitroso, 2. il gas idrogeno, 3. e il gas azoto. L’aria il più importante di tutti i Fluidi elastici per il soccor¬ so, che ella presta all’animale nelle sue maggiori indigenze è composta di 27. parti di ossigeno, e di 73. di azoto, ambedue di¬ sciolti dal calorico, ed in istato di gas. Il gas ossigeno chiamato ancora aria vitale è il solo che serve alla respirazione, e combu¬ 189 [p. 190 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE stione essendo il gas azoto del tutto indifferente a tali opera¬ zioni. I gas acido carbonico, ed idrogeno, che entrano nella composizione dell’aria atmosferica non giungono a formare un sol centesimo della medesima. Le principali proprietà del¬ l’aria sono la Fluidità, l’elasticità, ed il peso. La Fluidità dell’|22| aria, la quale è cagione della di lei cedevolezza, vien causata dal calorico, col quale ella ha sì grande affinità, che non lo abban¬ dona giammai a qualsivoglia temperatura, o pressione. È noto presso i moderni Fisici, e Chimici, che il calorico è l’unica cau¬ sa della Fluidità essendo egli di tal sottigliezza da insinuarsi tra le più picciole particelle de’ corpi dilatarle, e renderle perfino invisibili. Ciò appunto succede nell’aria; il calorico è la causa della sua Fluidità, e cedevolezza non meno che della sua elasti¬ cità. L’aria allorché vien compressa abbandona, o tutto, o in parte il calorico di sopraccomposizione ossìa quello, che è su¬ perfluo a conservarla nello stato aeriforme ritenendo sempre a qualunque pressione il calorico di composizione, il quale, è ne¬ cessario a mantenerla nello stato invisibile. Per cagion d’esem¬ pio se si comprima una palla di cuojo ripiena d’aria la medesi¬ ma si ristringerà sino ad un dato punto abbandonando una par¬ te del suo calorico, la quale ricupererà immediatamente se si tolga la compressione alla palla. Venendo essa a ricuperare il calorico perduto si dilata e rende alla palla la sua prima figura. Così se venga (23! posta entro la campana pneumatica una botti¬ glia ripiena d’aria, ed otturata togliendosi a questa il peso com¬ primente dell’aria esterna, ella eserciterà la sua affinità sopra il calorico esistente ne’ corpi circostanti il quale la dilaterà in mo¬ do, che l’aria ridurrà in pezzi la bottiglia. A questa dottrina cir¬ ca l’elasticità dell’aria potrà opporsi, che ammessi gli enunciati principj gli strati superiori dell’aria non soffrendo quasi alcuna pressione dovrebbero alzarsi dando agio di sollevarsi ancora 190 [p. 191 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI agli strati inferiori, e rendendo per conseguenza la densità del¬ l’aria infinitamente minore. A ciò rispondo con il Sig.r Dandolo per mezzo di alcuni principj stabiliti dalla moderna Fisico-Chi¬ mica cioè «I. Che la dilatazione dell’aria non può seguire, che mercè la sua combinazione col calorico: II. che la dilatabilità dell’aria ossìa la sua affinità, o delle sue basi pel calorico è infinita: III. che quindi la man¬ canza di calorico bastante in un dato punto dell’atmosfera diventa la ca¬ gione perchè l’aria non si possa ulteriormente dilatare quantunque si ri¬ trovino sopra di essa notabilmente minorati i pesi comprimenti: IV. che appunto perciò nell’alto dell’atmosfera la temperatura è sempre freddis¬ sima: V. che appunto perciò le colonne dell’aria equatoriale sono tanto I24! più lunghe delle colonne dell’aria polare sebbene pesino egualmente: VI. che appunto perciò finalmente la densità dell’aria a date altezze va¬ ria nel medesimo paese in proporzione della quantità di calorico, che somministra il sole nelle differenti stagioni ». Ciò, che si è detto circa l’elasticità dell’aria può applicarsi a quella degli altri fluidi aeri¬ formi. L’aria è pesante, ed il suo peso è tale, che se non venga con¬ trabbilanciata, come avviene nella macchina pneumatica, dal¬ l’aria interna, ella preme con tal violenza sopra la campana, che una validissima forza non è capace di distaccarla dal luogo ove ella è posta. Sedici cavalli non furono capaci in Magdeburgo di separare l’uno dall’altro due emisferi entro de’ quali erasi fatto il vuoto. Il peso dell’aria è a un dipresso di un’oncia, e 2/5. per 191 [p. 192 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE piede cubico. Credevasi una volta, che l’aria liberata da tutti i vapori, ed esalazioni, e ridotta alla sua massima purezza non avesse, che un picciolo peso. Ora è noto, che ella è anzi di un peso assai maggiore di quello dell’aria impura, poiché la mede¬ sima alla pressione di 28. pollici del Barometro, e a 10 gradi del termometro di Reaumur pesa 795 grani I2.51 per ciascun piede cubi¬ co. Il modo, con cui l’aria agisce sopra i corpi non è difficile a spiegarsi «qualora si addotti, al dir del sopracitato Sig.r Dandolo, che un corpo qualunque non agisce sopra di un altro, che perforza mec¬ canica, 0 di affinità, e che l’aria è pur anche dessa fra il numero dei corpi, che seguono questa legge universale... Vuoisi dunque riflettere, che se l’a¬ ria non ha alcuna affinità con un corpo essa non agisce, che in forza del suo peso, cedevolezza divisibilità non empie per conseguenza che tutti i pori di questo corpo sino al punto, in cui può essa penetrare. Fatto questo uffizio ella cessa affatto di agire sopra il corpo, rimane equilibrata coll’a¬ ria esterna, e perciò non può essa farsi mai strada entro ad un corpo qua¬ lora non vi abbia affinità, e qualora la sua forza meccanica non sia tale da squarciarne le parti ». Parlando dell’aria non sembra alieno dal nostro proposito il trattare del suono. Il suono, o si considera nel corpo sonoro, o nel mezzo, che lo trasmette, o nell’organo, che lo percepisce. Allorché si percuote un corpo sonoro egli riceve due diversi movimenti l’uno cioè di tutte le sue parti insieme unite chia¬ 192 [p. 193 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI mato moto totale, e l’altro di un certo tremito ossìa oscillazio¬ ne chiamata moto parziale perchè |2ó| le sue parti vengono per mezzo di esso ad urtarsi, e come a combatter fra loro. Per mez¬ zo di questo moto il corpo sonoro mette l’aria eziandìo in mo¬ vimento, la quale per la sua elasticità concepisce anch’essa un moto di oscillazione, il quale communicandosi all’organo del¬ l’udito eccita nell’anima la sensazione del suono. Se l’aria mes¬ sa in movimento dal corpo sonoro s’abbatte in un ostacolo in¬ vincibile, che gl’impedisce di passar oltre rimbalza, e forma ciò, che chiamasi eco. Egli è dimostrato dall’esperienza che i tuoni non possono esser variati, che dalla diversa durata delle vibra¬ zioni concepite dall’aria. Ella non è però, come sembra potersi affermare, il solo mezzo per cui il suono vien trasmesso. L’ac¬ qua ne può essere anch’ella il veicolo, come esperimentarono alcuni, i quali immersi nella medesima sino alla profondità di 12. piedi udirono sensibilmente lo sparo di un cannone. I varj instrumenti per mezzo de’ quali può eccitarsi il moto di oscil¬ lazione nell’aria, e la sensazione del suono nell’udito si riduco¬ no a due generi, vale a dire a quei corpi, che producono il suo¬ no per mezzo di percussione, e a quelli, che lo rendono \rj\ per mezzo d’inspirazione. Riguardo a quelli del primo genere egli è chiaro dai sopraccennati principj, che il suono da essi prodot¬ to non nasce, che dal tremito, e agitazione delle sue parti, ossìa dal suo moto parziale. Il modo poi, in cui il suono vien genera¬ to dagl’instrumenti del secondo genere spiegasi anch’esso fa¬ cilmente per mezzo delle enunciate dottrine. «La colonna d’aria, esempigrazia racchiusa in un flauto, per servirmi delle parole del celebre Saverio Poli, concepisce delle vibrazioni per forza del soffio che tende a condensarla, e son queste più frequenti a misura, che si scema la lunghezza di una tal colonna. Ora siffatta lunghezza vien determinata 193 [p. 194 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE dall’intervallo, che v’ha tra il becco del jlauto, ed uno de’ suoi fori, che densi aperto conciossiachè la colonna di aria racchiusa nel flauto non produce alcun suono se non quando le vibrazioni in essa eccitate si com- municano all’aria esteriore. Ma queste si communicano per vìa del foro aperto, dunque tutto il resto della colonna ch’è al disotto di quel foro non ha veruna influenza per produrre il suono. E siccome una colonna più corta, e più addensata concepisce vibrazioni più frequenti, ciascun vede la ragione, per cui un flauto, o altro simile strumento prò duce |28| un suo¬ no più acuto a proporzione, che ifori aperti son più vicini alla bocca. Per la qual cosa il muover le dita in tali strumenti ad altro non serve se non a determinare la lunghezza della colonna di aria». Dalle dottrine fìnquì stabilite circa gl’instrumenti di ambedue i generi dedu- cesi il modo in cui il suono vien prodotto dall’organo della vo¬ ce. Egli consiste in un canale di forma cilindrica, che dal fondo della bocca entra, e termina nei polmoni. Ella è il veicolo del¬ l’aria nella respirazione, e vien chiamata Trachearteria ovvero Asperarteria. Se voglionsi esprimere i tuoni acuti è necessario al¬ zar la Laringe, la quale non è che un’unione di cartilagini situate nell’estremità della Trachèa, che comunica con la bocca. Esse ven¬ gono in tal modo a tender le corde vocali, da cui son coperti i lo¬ ro lembi superiori, e queste agitate dall’aria, che uscendo dai polmoni passa per la glottide ossìa l’apertura della Trachèa produ¬ cono un suono tanto più acuto quanto più la Laringe è sollevata. Abbassandosi la medesima le corde vocali si allentano, e percos¬ se dall’aria cacciata fuori dai polmoni rendono un suono tanto più grave quanto maggiore è il loro allentamento. U9I Questo è quello, di cui con replicate esperienze accertossi il Sig.r Ferrein. 194 [p. 195 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA I FLUIDI ELASTICI L’aria agitata per mezzo di tutti questi corpi sonori eccita nell’anima la sensazione dell’udito nel modo, che segue. L’aria commossa come dicemmo entra per Vorecchio nel meato uditorio, che ad esso immediatamente comunica, e quindi scuotendo il timpano, ossìa la membrana, che chiude il meato uditorio com- munica il moto al martello, il quale è un ossicino contenuto nel¬ la cavità detta cassa del timpano perchè è posta immediatamente dietro al medesimo. Il martello, che con la sua estremità è at¬ taccato al timpano essendo scosso allenta, o tende questa mem¬ brana a seconda de’ tuoni gravi, o acuti, e con l’altra sua estre¬ mità communica il moto al secondo ossicino contenuto nella cassa del timpano, chiamato incudine, e da questo vien comuni¬ cato al terzo ossicino detto staffa, il quale trasfondendolo alla membrana, che chiude il foro posto nel labirinto, ossìa in quel condotto, che è composto di tre canali semicircolari, e di uno in forma conica detto vestibolo, che va a terminar nella chiocciola lo communica altresì all’acqua di cui son [301 ripiene le cavità del laberinto e per mezzo di questa vengon commosse le papil¬ le, e ramificazioni nervose specialmente quelle della lama spira¬ le ed in tal modo viene la sensazione dell’udito portata al cere- bro, e per conseguenza all’anima, di cui questo è la sede. Egli è dimostrato, che si ode ancor per la bocca allorché le vibrazioni dell’aria esteriore vengon portate alla cassa del timpano per mezzo della Tromba Eustachiana, la quale prendendo la sua ori¬ gine da un foro situato nella cavità sopraddetta va a terminare 195 [p. 196 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE nelle fauci. L’aria contenuta in questa cavità vien portata alla medesima dall’accennato canaletto. Esposta la dottrina del suono non ci resta che l’esaminare la cagione di due fenomeni che tuttogiorno ci son visibili. Perchè mai, si dirà, noi non ascoltiamo, che una sol volta il suono pro¬ dotto dai corpi sonori mentre il medesimo va a percuotere in noi due organi diversi? Di più come possiamo noi udire distin¬ tamente nel tempo stesso de’ suoni di diversa specie, e come le vibrazioni eccitate nell’aria non si riuniscono, e confondono prima di arrivare al nostro orecchio? In quanto alla prima |3i| di queste difficoltà io rispondo con il P. Paulian, che quei nervi, che formano l’organo dell’udito non partendo, che da un sol punto del cerebro non debbono determinare l’anima, che a percepire una sola sensazione, e perciò noi non ascoltiamo che una sola volta quei suoni, che percuotono in noi nello stesso tempo due diversi organi. In quanto alla seconda delle enun¬ ciate questioni non essendo sufficiente a spiegarla l’opinione del Sig.r de Mairan, la quale è tra tutte le ipotesi proposte circa un tal punto la più ammissibile, noi non avremo alcuna diffi¬ coltà a confessare, che fino ad ora ci è affatto ignota la causa dell’accennato fenomeno. E ciò basti circa i Fluidi elastici. Confrontando gli esposti moderni principj con le antiche mas¬ sime potrà chiaramente discernersi da quante assurdità, che una volta riguardavansi come stabili dogmi, sia esente la nuova Fisica, e qual lume ella abbia apportato alle umane cognizioni. 196 [p. 197 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE [p. 198 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE | [p. 199 modifica]32| l^a luce è una delle 33 sostanze semplici note, la quale per la sua affinità con l’ossigeno agisce in modo particolare sopra i corpi. La di lei natura è stato finaddora il soggetto delle più im¬ portanti Filosofiche dispute. Pretende Cartesio che il sole cir¬ condato per ogni parte dalla materia globosa premendola effi¬ cacemente risvegli in noi il senso della vista. Sembra che il Car¬ tesio non sappia in alcuna occasione dimenticare il frivolo si¬ stema del chimerico suo vortice. Per mezzo di esso egli ha pre¬ teso dimostrare l’impossibilità del vuoto; esso ha supposto es¬ ser la cagione della gravità dei corpi, senza darsi in modo alcu¬ no la briga di esaminare la grandissima difficoltà, che incontra¬ si nell’ultimo di questi sistemi, il quale si oppone diametral¬ mente alla prima universalissima, ed evidentissima legge della gravità, la di cui causa cercasi in esso di spiegare. Conoscendo adunque l'Abbate Nollet l’assurdità dell’ipotesi Cartesiana, per l’insussistenza di questo vortice, e di questa materia globosa, cercò di supplirvi ammettendo esser la luce un fuoco I331 ele¬ mentare, il quale benché sia sempre presente nondimeno per eccitare in noi il senso della vista ha bisogno di esser messo in moto dai corpi luminosi. Ma oltre Tesser questo sistema sog¬ getto a gravissime difficoltà, che non è ora del mio instituto l’e¬ sporre convien confessare, che il modo, con cui spiegansi in es- 199 [p. 200 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE so gli effetti della luce è sopra modo difficile ad intendersi poi¬ ché per qual ragione un corpo, che è per ipotesi mobilissimo di sua natura, ed elastico non può esser messo in moto, che dai corpi luminosi? Egli è questo un fenomeno ancor più difficile a spiegarsi di quello, la di cui cagione cercasi di conoscere. A por¬ re in chiaro delle sì intrigate questioni sorse in Inghilterra il Cav. Isacco Newton, e prendendo a dilucidare gli antichi principj di Democrito, e di Epicuro propose l’unico vero sistema circa la luce affermando esser ella una reale continua emanazione de’ corpi luminosi. L’obbjezione più comune, e solita ad op¬ porsi a così fatta proposizione eli’è che il sole per cagion d’e¬ sempio verrebbe appoco appoco a distruggersi dovendo ad ogni momento scagliare una quantità immensa di luce. Questa obbjezione però facilmente vien resa inutile I34I se si osservi che non soffrendo alcuna sensibile diminuzione di peso un picciolissimo corpo odoroso quantunque sparga per mesi, ed anni una grandissima quantità di effluvj, molto meno dovrà soffrirla un corpo, il quale è 1400000 volte più grande del glo¬ bo, che noi abitiamo; oltredichè la luce, che egli diffonde è di una tal sottigliezza, che la nostra immaginazione non può in alcun modo percepirla. Ammessa adunque l’ipotesi Newto¬ niana noi passeremo a conoscere, e spiegare le proprietà, e gli effetti della luce dividendo quanto siam per dire nelle tre parti, in cui l’Ottica vien divisa vale a dire l’Ottica così detta, la quale considera la luce ne’ corpi luminosi, la Diottrica, che n’esamina gli effetti ne’ corpi diafani, e la Catottrica, che la riguarda ne’ 200 [p. 201 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE corpi opachi. Noi daremo infine una breve nozione del fuoco, la quale non sembra lontana dal nostro instituto. I raggi della luce si propagano in linea retta per ogni verso il¬ luminando uno spazio sferico, nel cui centro è posto ciascun punto del corpo luminoso. Da ciò si rileva, che i raggi emanati dai varj punti del corpo luminoso debbono necessariamente I35I intersecarsi fra loro, e decrescere in densità a misura che si al¬ lontanano dal proprio centro. Credevasi una volta, che la pro¬ pagazione della luce fosse instantanea, ma si conobbe la falsità di questo principio per mezzo di un’osservazione, la quale vien riferita dal P. Paulian nel modo, che segue. Ogni qual volta Gio¬ ve si pone tra la terra, e il suo satellite principale questo ne vie¬ ne a nostro riguardo ecclissato, e noi non possiamo vederlo, che dopo seguita la sua emersione la quale ci è visibile 14. mi¬ nuti prima allorché Giove è apogèo, e 14. minuti dopo quando egli è perigèo. La propagazione della luce non è dunque instan¬ tanea. Da questa medesima osservazione vien determinata la velocità della luce, poiché essendo riguardo a noi la diversità della distanza di Giove apogèo e Giove perigèo di circa 66000000 di leghe, ne segue, che la luce scorre 66000000 di leghe nel so¬ lo spazio di 14. minuti. «Dalla forza indicibile onde abbiam veduto esser lanciata la luce da’ corpi luminosi sembra derivare, al dir del Sig.r Saverio Poli, la proprietà cui ella costantemente serba di propagarsi per sentieri rettilinei conciossiachè la veemenza di quell’ impulso fa (361 sì, che le sue particelle si dispongano in serie l’una dopo l’altra, e quindi co¬ 201 [p. 202 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE stituiscano de’ raggi emuli di altrettante linee rette; non potendo la loro gravità distorli da quel retto sentiere per esser ella infinitamente picchia in corrispondenza della loro prodigiosa sottigliezza. In prova di ciò si può far entrare un raggio di sole entro una camera buja per un foro prati¬ cato in una finestra. Vedrassi ella seguire immancabilmente il mentovato retto sentiere, talché facendosi un altro foro nella parte opposta del muro, fino a cui si sporge il detto raggio propagherassi egli al di fuori, e scompa¬ rirà dell’intutto quella sua porzione, che attraversa la stanza senza dif¬ fondere in quella la menoma quantità di luce. Lo provano similmente le ombre de’ corpi, i cui perimetri sono tali, che scorgonsi limitati da’ raggi sporgenti in linea retta dal corpo illuminato sino ai diversi loro punti. Che anzi neppur elleno esisterebbono se la luce si propagasse per curvi sentieri, giacche le ombre vengono cagionate siccome ognun sa da una semplice privazione di luce oppur dall’esser ella debole all’eccesso ». Ed infatti se si ponga d’innanzi a dell’acqua corrente un corpo im¬ mobile si vedrà ella ripiegarsi verso i suoi lati e quindi piegan¬ dosi di nuovo, e riunendosi seguire come prima il suo corso, il che non accadendo nella luce è I37I necessario il dire, che ella non si propaga, che per sentieri rettilinei. La luce allorché passa per i corpi diafani soffre un certo deviamento, il quale chiamasi rifrazione. Egli è tanto maggiore quanto maggiore è la densità del mezzo, per cui la luce è co¬ stretta a passare. Per la Rifrazione ella si accosta tanto più alla linea perpendicolare alla superficie del mezzo quanto egli è più denso del corpo, in cui ella era prima della rifrazione, e tanto più se ne allontana quanto il primo è meno denso del se¬ condo. I vetri convessi sono quelli, i quali riuniscono i raggi, che cadono sopra di essi in un punto tanto meno distante dal proprio foco quanto maggiore è la loro convessità. Così quanto ella è maggiore tanto maggiori appariscono gli oggetti guardati attraverso del vetro, perchè in tal modo questo riunisce i raggi emanati da ciascun punto dell’oggetto più presto, e per conse¬ guenza in un angolo maggiore. Egli è dimostrato dalla leggi dell’Ottica, che quanto maggiore è l’angolo sotto cui ci si pre¬ 202 [p. 203 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE sentano gli oggetti tanto maggiore ci apparisce la loro grandez¬ za. Per ciò i vetri concavi ci mostrano più |38| piccioli gli oggetti guardati a traverso di essi giacché aumentando la divergenza de’ raggi, che partono da questi oggetti ne ritardano la congiunzio¬ ne, e ce li rappresentano conseguentemente sotto un angolo mi¬ nore. La cagione per cui i vetri convessi ci mostrano ad una data distanza gli oggetti rovesciati è che i raggi da essi rifratti dopo es¬ sersi riuniti progrediscono per la loro direzione in modo che quelli, i quali son rifratti nella parte destra del vetro dopo la loro riunione vanno alla parte sinistra, quelli di alto in basso, e così vi¬ ceversa, dal che ne segue che essi ci mostrano l’oggetto in una si¬ tuazione contraria a quella dove egli realmente si trova. Sembra appartenere specialmente a questa parte di Ottica la descrizione della struttura dell’occhio, e del modo, in cui egli percepisce, e vede gli oggetti. I raggi scagliati dai varj punti del¬ l’oggetto entrano per la tonaca detta cornea nell’umore lentico- lare, e convesso chiamato acqueo, il quale riempie le due prime camere, o cavità dell’occhio. Quivi rifratti, e resi gli uni più vici¬ ni agli altri secondo le leggi della Diottrica passano, e sono suc¬ cessivamente, I391 e maggiormente rifratti dall’umor cristallino, e dall’umor vitreo, dopo di che giungono alla membrana detta retina, e dipingendovi l’oggetto ammuovono il nervo ottico, da cui viene la sensazione della vista portata al cerebro. La visione è distinta allorché i raggi giungono alla retina perfettamente riuniti, confusa allorché eglino si riuniscono prima, o dopo di esservi giunti. Un cristallino troppo convesso riunisce assai presto, e più in qua della retina i raggi emanati dagli oggetti lontani per esser eglino paralleli, e rappresenta distintamente 203 [p. 204 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE gli oggetti vicini perchè i raggi emanati da questi sono diver¬ genti, e per conseguenza più tardi vengon raccolti. Perciò un cristallino poco convesso li riunisce più in là della retina, e non congiunge nel suo foco, che i raggi paralleli. Quelli, il di cui cristallino è della prima specie appellansi Miopi, e presbiti quelli, che lo hanno della seconda. Si vede da quanto abbiam detto, che per i primi è necessaria una lente concava, la quale renda divergenti i raggi paralleli, ed una lente convessa per i secondi, la quale renda convergenti i raggi divergenti. Nelle persone di perfetta vista il cristallino j4o| per mezzo di alcuni filamenti detti ligamenti cigliati si rende più, o meno convesso secondo la maggiore, o minore distanza degli oggetti da osservarsi. Egli è dimostrato, che gli oggetti vengono nella retina dipinti rove¬ sciati, poiché i raggi emanati dai varj punti dell’oggetto s’incro¬ cicchiano nella pupilla, ossìa in quel foro, che è nella membra¬ na detta uvea la quale è tra l’umor acqueo, e l’umore cristallino, ma l’anima per la propria esperienza riferisce il raggio, che va a terminare nella parte superiore della retina alla parte inferiore dell’oggetto, e viceversa. Di ciò parla il celebre Algarotti nel suo non men saggio, che elegante Dialogo detto Caritèa posto in appendice agli altri suoi dialoghi sopra l’Ottica Newtoniana. Abbiamo di già parlato delle due prime parti dell’Ottica parleremo ora della Catottrica colla massima brevità. La luce incontrandosi in un corpo il quale gli neghi il passaggio rim¬ balza, e questo rimbalzar, che ella fa chiamasi riflessione. Ecco per qual cagione noi vediamo la nostra immagine allorché ci presentiamo innanzi ad uno specchio poiché i raggi, che parto¬ no dai varj |4i| punti del nostro corpo riflettendo sullo specchio son costretti a tornare ai nostri occhi. Questo effetto non può venir prodotto, che dai corpi assai levigati poiché se un oggetto si presenti ad altri corpi essi ne sparpagliano, e confondono quasi tutti i raggi. Essendo la riflessione un effetto della reazio¬ ne, ed elasticità non men della luce, che de’ corpi, su cui ella ca¬ 204 [p. 205 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE de egli è evidente, che gli specchi concavi debbono rendere i raggi convergenti, e divergenti gli specchi convessi, e che per conseguenza i primi debbono ingrandir l’oggetto, ed impicco¬ lirlo i secondi. Alla Catottrica appartiene la dottrina dei colori. Quelli che diconsi primitivi sono sette vale a dire il 1. rosso, il 2. rancio, il 3. giallo, il 4. verde, il 5. turchino, V 6. indaco, ed il 7. violetto. Questi sono più rifrangibili a misura, che si avvicinano al vio¬ letto, e meno secondo, che si accostano al rosso, il quale è di tutti i colori il meno rifrangibile. La diversa rifrangibilità della luce provenendo secondo il Newton dalla diversa massa, e velo¬ cità delle particelle di luce egli è facile il comprendere come l’anima percepisca le diverse sensazioni dei colori poiché le particelle, che hanno \4i\ maggior velocità, e maggior mole commuovendo più fortemente la retina eccitano nell’anima la sensazione di un colore più vivo quale è il rosso, e così vicever¬ sa. Un corpo poi apparisce di un tal colore allorché, secondo il sistema Newtoniano le sue parti sono disposte in modo da riflettere solamente quelle molecole di luce, che lo compon¬ gono, ed assorbire le altre. Se egli rifletta delle particelle di luce di due, o più specie apparisce di color misto. Se le riflet¬ ta di tutte le specie egli sembra bianco, e nero se non ne riflet¬ ta alcuna. Ed ecco spiegato secondo il sistema Newtoniano la natura, gli effetti, e le proprietà della luce. Altro ora non ci resta che l’esaminare brevemente la natura, e le proprietà del fuoco. Il fuoco non è, che un composto di calorico, e di luce. La combustione non viene in realtà prodotta da alcuna di queste sostanze, ma solamente dalla combinazione del combustibile 205 [p. 206 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE con l’ossigeno. Ed infatti « essendo l’aria vitale, al dir del Sig.r Dan¬ dolo, un composto di ossigeno di calorico, e di luce ne segue, che non può l’ossigeno base di questo gas andare a combinarsi in istato di solidità co’ corpi combustibili, che si bruciano I431 senza perdere il calorico, e la luce, che lo tenevano sotto forma aeriforme. Questa luce, e calorico, che si svol¬ gono in questa decomposizione dell’aria vitale formano ciò, che chiamia¬ mo volgarmente fiamma fuoco ec. La diversa rapidità, con cui i corpi combustibili assorbono quest’ossigeno in istato di solidità, la quantità diversa, che ne assorbono, e lo stato diverso, di solidità con cui lo ricevono in combinazione formano le differenze ch’esistono fra’corpi combustibili, e rendono ragione perchè siano così variate le quantità di calorico, e di luce, che dalle diverse combustioni si svolgono. Ecco dunque perchè le combustioni non hanno luogo, che dove esista aria vitale ossìa gas ossige¬ no, e cessano all’istante qualora vi manchi quest’elemento... Il fine di ogni combustione è sempre quello di convertire il combustibile, che si brucia in un ossido, 0 in un acido, cioè in un corpo incombustibile ossìa bruciato. Quest’ossido, od acido torna per conseguenza combustibile per¬ dendo, in qualsivoglia modo l’ossigeno, con cui si è combinato brucian¬ do ». Vedesi chiaramente, che il fuoco non manifesta alcun pe¬ so sensibile perchè peso sensibile non hanno nè il calorico nè la luce di cui egli è composto. E ciò può esser bastante a forma¬ re una breve Teorìa del fuoco, ed a confutare i sistemi, che a spiegare la causa 144] della combustione de’ corpi publicarono Becher, Macquer, Bergman, Sage, Kirvan, e Stahl. 206 [p. 207 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA LUCE 207 [p. 208 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMÌA 208 [p. 209 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA 209 [p. 210 modifica]I451 òecondo alcuni autori l’astronomìa ebbe la sua origine presso i Babilonesi forse perchè questi popoli possedevano a preferenza delle altre nazioni un’eccellente specola nel Tem¬ pio di Belo, ossìa torre di Babel. Da quest’eminente edificio eglino cominciarono a considerare l’altezza degli astri, a defi¬ nirne i movimenti, e ad indagarne le mutazioni. Talete Milesio, il quale viene annoverato tra i sette sapienti della Grecia fu uno de’ più savj Astronomi dell’antichità, se savio Astronomo può chiamarsi colui, il quale calcolò la grandezza del sole esser solo 720 volte maggiore di quella della luna. Narrasi, che una vec¬ chia vedendolo caduto in una fossa mentre attentamente con¬ templava il moto degli astri gli dicesse « Eh come potrete voi conoscere ciò, che è tanto lungi dal vostro capo se non vedete neppure ciò, che è sì vicino ai vostri piedi? ». Dopo Talete Pita¬ gora, Platone Aristarco, Anassimandro, Anassimene, Aristotele, Filolao Metone, Ipparco, e molti altri diedero un gran lume al¬ 210 [p. 211 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA l’astronomìa. Claudio Ptolommèo nativo di |4ó| Pleusio può dirsi il primo, che dasse una forma regolare al sistema dell’uni¬ verso, e che ponesse in qualche lume i principj universalmente ammessi circa l’Astronomìa. Il suo sistema non è di poco debi¬ tore ad Alfonso IX. Re di Leone, e di Castiglia sopranominato il savio, e l’Astronomo il quale due cieli cristallini aggiunse a quelli che supponevansi nel sistema di Ptolommèo. Questi re¬ gnò con assoluto dominio sopra tutti i letterati fino a che dalla nativa suaThorn sorse l’immortai Copernico, il quale gli tolse lo scettro ingiustamente usurpato, e seguace facendosi di Pitago¬ ra, e di Aristarco diede alla luce il più celebre di tutti i sistemi del mondo dopo un continuato studio di anni trenta impiegati nel fare le più profonde osservazioni per un oggetto sì impor¬ tante. Nè poco contribuì ad illustrare, e maggiormente confer¬ mare la verità di un tal sistema il celebre Galileo Galilei nobile Fiorentino genio veramente sublime, e nato per arrecar luce alle tenebre della Filosofìa di quel tempo, nel quale il maggior pregio de’ sapienti era il non I47I essere intesi. Prima di esso Ti- cone Brahè Signore di Knud-Strup in Danimarca rivendicò alla terra il centro perduto, e diede alla luce un sistema il quale avrebbe forse avuto un numero di partigiani anche maggiore di quelli del sistema di Ptolommèo se nata ancora non fosse quella ipotesi che sopra d’ogni altra dovea venuta appena alla luce otte¬ nere la palma. L’astronomìa che già cominciato aveva a risorgere per le cure di Copernico, di Keplero, e di Galileo, e per l’inven¬ zione del Telescopio fatta da quest’ultimo fu posta finalmente in tutto il suo lume dal celebre Isacco Newton, il quale giunse per mezzo del suo sistema dell’attrazione a spiegare moltissimi fe¬ nomeni celesti di cui ignota era peranche la causa. Ed ecco in breve la Storia dell’Astronomìa. Dopo averne indicate le epoche principali noi passeremo a parlare con la possibile brevità delle sue più importanti dottrine. Esporremo pertanto brevemente i 211 [p. 212 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE diversi sistemi celesti, esamineremo la causa de’ moti supposti ne’ medesimi sistemi, e de’ fenomeni de’ corpi celesti non meno, che la sostanza, di cui questi |48| sono composti, e passeremo infi¬ ne a ricercar la cagione del flusso, e riflusso del mare. Il più antico di tutti i sistemi del mondo è quello, che dal suo principale illustratore Ptolommèo trasse il nome di Ptolemai- co. In questo sistema la terra, è collocata immobile nel centro dell’universo, e intorno ad essa si aggirano in cerchi alla mede¬ sima eccentrici la luna (3) Mercurio ($) Venere (9) il Sole (o) Marte (c?) Giove (^), e Saturno (m). Le orbite di questi corpi ce¬ lesti chiamansi sfere l’ottava, delle quali è il firmamento ossìa cielo stellato, che vien dopo l’orbita di Saturno. Seguono la sfe¬ ra nona, e la decima composte di sodo cristallo, e l’undecima chiamata primo mobile, che aggirandosi intorno al suo asse nello spazio di ore 24. trae seco tutte le altre sfere inferiori. A tutte coteste sfere aggiungono alcuni la duodecima nella quale sup¬ pongono l’abitazione de’ Beati, ed Alfonso Re di Leone, e di Castiglia ne suppose ancora due altre, all’una della quali si at¬ tribuiva il moto di librazione per spiegare il modo in cui awie- 212 [p. 213 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LASTRONOMIA ne, che le stelle (49! fìsse nello spazio di anni 70 sembrino av- vanzar quasi di un grado verso l’oriente, ed all’altra attribuivasi il moto di trepidazione col quale spiegavasi quella specie di mo¬ to oscillatorio, con cui la sfera celeste sembra andar dall’un po¬ lo all’altro. Ma dovendosi in ogni sistema celeste spiegar la ca¬ gione, per cui i pianeti ci appariscono ora diretti ora stazionai]', ed ora retrogradi Ptolommeo fu costretto giusta l’espressione del Sig.r di Brisson ad imbarazzare i cieli di diversi epicicli, e defe¬ renti, che rendon questo sistema tanto diffìcile ad intendersi quanto appunto è difficile il sostituire il falso al vero. E diffatto mille assurdità manifestissime s’incontrano ad ogni passo in questo sistema, giacché le comete, che senza esser trattenute dai cieli cristallini s’innalzano a’ più sublimi spazj celesti in¬ franti avrebbono facilmente, e ridotti in pezzi ben presto que¬ sti chimerici cieli. Inoltre è dimostrato da varie osservazioni Astronomiche, che Venere, e Mercurio girano realmente intor¬ no al sole, e che Marte perigèo è più vicino alla terra del Sole medesimo, il che avvenir non potrebbe se si ammettesse il si¬ stema (501 Ptolemaico, nel quale l’orbita di Marte comprende quella del Sole. La velocità poi colla quale le stelle fisse in que- 213 [p. 214 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE sto sistema percorrono la loro orbita nello spazio di sole ore 24. è affatto inammissibile giacché per scorrere in sì poco tempo uno spazio sì grande, e quasi immensurabile vi abbisognerebbe la velocità maggiore migliaja di millioni di quella di una palla di cannone, la qual velocità è assolutamente incomprensibile ad umano intelletto. Questa stessa ragione oltre molte altre di gran peso vale a di¬ mostrare la falsità del sistema di Ticone, nel quale la terra vien posta immobile nel centro dell’universo, e vicino ad essa è l’or¬ bita della luna compresa da quella del sole, il quale si muove in giro alla terra concentrico, ed è egli medesimo il centro de’ movimenti degli altri pianeti in modo però, che l’orbita di Marte intersechi quella del sole per ispiegare il modo, in cui avviene, che il primo sia talvolta più vicino alla terra del secon¬ do. Ma rimanendo ancora a spiegare in questo sistema la cagio¬ ne per cui i pianeti appariscono ora diretti ora stazionaij, ed ora I511 retrogradi Giovanni Keplero attribuì ai pianeti una specie di moto spirale il quale sebbene spieghi a sufficienza la cagione di tutti questi fenomeni nondimeno da quasi tutti gli Astronomi è rigettata come contraria alle Fisiche leggi. Il più ammissibile fra tutti i sistemi celesti è quello, che dal suo illustratore Copernico prese il nome di Copernicano. In que¬ sto sistema Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, e Saturno, cui vien dopo Urano pianeta recentemente scuoperto da Her- schel, si aggirano all’intorno del Sole, il quale occupando il 214 [p. 215 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA centro dell’universo si avvolge intorno al proprio asse, e trae in virtù di forze centrali tutti i pianeti a percorrere le loro orbite intorno a lui. Egli è assai chiaro in questo sistema come avven¬ ga, che un pianeta ci apparisca ora diretto ora stazionario, ed ora retrogrado, giacche allorquando il pianeta scorre con velocità maggiore di quella della terra egli apparir deve diretto, stazio¬ nario allorquando il pianeta, e la terra camminano quasi con ugual velocità, e retrogrado quando la terra lo awanza |52| nel corso, in quel modo appunto, nel quale allorquando noi siam trasportati in un cocchio retrogradi ci sembrano quei corpi, che ci seguono stazionarj quelli che ci uguaglian nel corso, diretti finalmente quelli che nel corso ci awanzano. Il pianeta Mercu¬ rio, il quale è più vicino d’ogni altro al sole si aggira intorno al medesimo nello spazio di giorni 88. circa. Venere compie il suo giro nel corso di giorni 224. e ore 17. Marte nello spazio di un anno, e 322 giorni circa. Giove impiega per terminare la sua ri¬ voluzione anni undici e giorni 317. Saturno anni 29. e giorni 177. Urano anni 83 e mezzo. La luna compie il suo corso intorno al¬ la terra nello spazio di 27. giorni 7. ore, e 43. minuti, e la Terra medesima gira intorno al sole nel corso di giorni 365, ore 5. e minuti 49. Oltre il moto annuo ha la terra altri due moti l’uno diurno, ossìa vertiginoso col quale si aggira intorno al proprio asse nello spazio di ore 24. andando da occidente in Oriente, e 215 [p. 216 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE l’altro chiamato di trepidazione, col quale nello spazio di mesi 6. si muove dall’un tropico all’altro a I53I maniera di oscillazione. Quest’ultimo serve a spiegare la causa del variar delle stagioni giacché allorquando la parte da noi abitata del globo terrac¬ queo viene per questo moto ad alzarsi noi abbiam necessaria¬ mente il verno per essere allora i raggi del sole meno a noi per¬ pendicolari, e per la cagion contraria abbiam la state allorquan¬ do questa parte di globo viene ad abbassarsi. Il moto vertiginoso serve a spiegare la non mai interrotta successione del giorno al¬ la notte, e della notte al giorno poiché quando l’emisfero da noi abitato viene a volgersi, e come presentarsi in faccia al sole noi abbiam giorno, e notte quando quest’emisfero viene tra¬ sportato dal moto centrifugo nella parte inferiore del globo ri¬ spetto al sole. Ecco in accorcio il Sistema Copernicano, a cui se si opponga esser egli contrario alle parole della Sacra Biblia noi risponderemo, che se bene non manchino dottissimi Interpre¬ ti, che dimostrar proccurino non esser questo sistema opposto in modo alcuno al reale sentimento delle sacre lettere noi non¬ dimeno non lo ammettiamo, che come una ipotesi più di ogni altra I54I idonea a spiegare i celesti fenomeni, il che dalla S. Ro¬ mana Chiesa non venne giammai vietato. Esposti brevemente i diversi sistemi Astronomici passiamo ora a dimostrare la cagione de’ moti, e de’ fenomeni de’ corpi 216 [p. 217 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA celesti. Sembra universalmente ammesso dai Fisici altra non esser la cagione de’ moti celesti, che le forze centripeta, e tangen¬ ziale unite a quella d’inerzia, giacché avendo i pianeti sino dalla lor creazione acquistato quel moto, che hanno al presente essi debbono necessariamente sforzarsi di conservarlo, e conser¬ varlo diffatto quando non vi sia alcun ostacolo sufficiente ad impedirneli. Riguardo ai fenomeni celesti sembra potersi que¬ sti ridurre agli ecclissi, alle comete, a quelli delle macchie sola¬ ri, a quelli finalmente del Pianeta Saturno. Ne parleremo colla possibile brevità. La causa degli ecclissi è assai nota. Essendo la luna, e tutti gli altri pianeti de’ corpi opachi, i quali non risplendono per pro¬ pria luce, ma per quella, che ricevon dal sole egli è assai chiaro, che allorquando la terra s’interpone I551 tra la luna, ed il sole de¬ ve la prima restare oscurata dall’ombra della terra, e questa dal¬ l’ombra della luna allorché questo pianeta s’interpone tra la terra, ed il sole. Da ciò vedesi che impropriamente si dà a que¬ st’ultima ecclissi il nome di ecclissi del sole dovendo piuttosto chiamarsi ecclissi della terra, la quale realmente è la sola che resti oscurata in questo passaggio della luna, non soffrendone il sole veruna alterazione. Le comete sono corpi opachi, come gli altri pianeti, i quali girano intorno al sole con orbite di forma ellittica, ossìa bistonda, in modo che passando vicino al medesimo concepiscono un calor così fatto, che Newton calcolò la cometa del 1680 aver con¬ 217 [p. 218 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE cepito un calore 28000 volte maggiore di quello che sperimen¬ tasi nel più gran fervor della state. Riguardo alla cagione per cui le comete ci appariscono ora circondate ore precedute, ed ora seguite da una chioma, o bar¬ ba, o coda lucida, bisogna confessare che questa ci è peranco ignota. Fra tutti i sistemi, che proposti furono (561 per ispiegarla quello del Sig.r De Mairan è, per mio avviso, il più ammissibile. «Egli è impossibile, dice questo celebre Astronomo presso il P. Paulian, che le comete passino tanto vicino al globo solare siccome fanno senza, che si carichino di una parte dell’atmosfera solare, cui attraversa¬ no. È lo stesso come se una gagliarda calamita si strascinasse per mezzo alle limature di ferro. Infatti se ogni cometa è un pianeta come non si può metter in dubbio, e se vi han luogo le leggi dell’attrazione come ab- biam noi diritto di supporlo non è egli duopo, che la parte dell’atmosfera solare, la qual trovasi rinchiusa nella sfera di attività del peso particola¬ re, che opera verso il centro della cometa, ragunisi intorno al suo globo a quel modo, che le particole elastiche dell’aria nostra si ragunano intorno alla terra, e vi formi un’atmosfera luminosa, ovver aggrandisca quella che avessergià ? Ciò supposto, ecco, soggiunge il P. Paulian, come noi discorriamo collo stesso Fisico. La cometa va ella dietro al sole? dee com¬ parirci codata; e perchè?perchè i raggi di luce, che sono trasmessi con una celerità impercettibile han forza che basta pergittar dietro la cometa la maggior parte dell’atmosfera che trovasi \s7\ tra lei, ed il sole. Per lo con¬ trario la cometa precede ella il sole? dee comparirci allora barbuta; e per¬ chè? perchè gli stessi raggi di luce trasmessi sulla cometa scarnano la maggior parte dell’atmosfera interposta tra essa, e il sole, le quali parti- celle scacciate a quel modo devono necessariamente precedere la cometa 218 [p. 219 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA nella sua marcia; e rappresentarcela con una spezie di barba luminosa. Finalmente la cometa è ella situata in guisa, che l’occhio dell’ osservatore trovisi tra essa, e il Sole? Allora dee parergli intorniata da un’atmosfera luminosa, o per parlare co’ termini dell’arte dee parergli crinita ». È però da avvertirsi che questo sistema non è certamente esente da molti difetti tra quali deve annoverarsi quella supposta forza per cui la luce rispinge le particelle dell’atmosfera solare dietro, o avanti la Cometa. Egli è dimostrato, che nel sole vi sono alcune macchie, le quali nel periodo di 27. giorni compiono il lor giro dalla parte orientale del sole alla parte occidentale. Dal che sembra potersi dedurre, che il sole, nel quale ritrovansi queste macchie si av¬ volga intorno al suo asse nello spazio di giorni 27. Di qual so¬ stanza precisamente |58| sieno queste macchie, e qual sia la ca¬ gione, per cui d’intorno al sole appariscono questo è ciò che dalle osservazioni Astronomiche non si è ancora potuto ritrar¬ re. I fenomeni delle fascie di Giove, le quali altro non sono, che macchie, che per ogni parte circondano questo pianeta, molto somigliano a quelli delle macchie solari. I fenomeni del Pianeta Saturno sono assai singolari. Un anel¬ lo molto di lui maggiore, che lo circonda, in quel modo appun¬ to in cui l’orizonte fascia le nostre sfere, ne è la cagione. Gali¬ leo a cui ignota era del tutto l’esistenza di quest’anello chiama¬ va il Pianeta Saturno triforme, ed Hevelk lo chiamò monosphoeri- cum, trisphoericum, sphoerico - cuspidatum, sphoerico - ansatum, ellip- 219 [p. 220 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE tico - ansatum diminutum, elliptico-ansatum plenum. Noi siamo de¬ bitori ad Huyghens della scoperta dell’anello di Saturno. La sostanza del sole, non meno che quella delle altre stelle, sembra ignea stantechè la sua luce non è immobile, e ferma ma bensì scintillante, e quasi ondeggiante come appunto scorgia¬ mo I591 nel nostro fuoco. In quanto poi alla sostanza de’ pianeti, e de’ loro satelliti sembra potersi affermare esser ella simile al¬ meno in parte a quella della terra per vedersi specialmente nel¬ la luna de’ monti de’ fiumi, de’ mari, e de’ vulcani. Ma egli è ornai tempo di parlare della cagione del flusso, e riflusso del mare, su cui tante questioni furono mosse dagli an¬ tichi Filosofi. Plinio il vecchio nel secondo suo libro di Storia Naturale afferma, che questo fenomeno non è originato, che dall’azione attraente del sole, e della luna, e Newton dilucidò, e dimostrò quest’ipotesi in modo, che sembra non potersi essa porre più in dubbio. E difatto essendo l’attrazione in ragione diretta della distanza egli è evidente che le onde marine deb¬ bono piuttosto deferire all’azione della luna, che a quella del sole, e si scorge in effetto, che allorquando la luna è perigèa è maggiore il flusso e riflusso di quello [che] è quando la medesi¬ ma è apogèa. Da ciò principalmente dimostrasi l’azione della luna sul mare. Quella poi del sole chiaramente si appalesa ve¬ dendosi che la |6o| marèa è maggiore allorquando la luna si ri¬ trova in congiunzione col sole ossìa nelle sigizie, che quando essa è nelle quadrature. Di più la marèa è maggiore similmente nel solstizio d’inverno vale a dire allorché il sole è nella sua 220 [p. 221 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ASTRONOMIA massima vicinanza alla terra, che in quello d’estate, in cui egli ne è assai lontano. Da tutto ciò meritamente deducesi, che il flusso, e riflusso del mare proviene dall’ azione attraente del so¬ le, e della luna. Posto ciò evidentemente si scorge, che allor¬ quando l’attrazione è maggiore, cioè quando la luna si trova sul meridiano debbono i flutti scostarsi dal lido, e ritornarvi quan¬ do sono abbandonati dall’attrazione. Ed ecco in brevissime parole compendiata quella scienza che dalle osservazioni degli astri ritrae le più sublimi matema¬ tiche dottrine, le più certe nautiche leggi, le più utili regole di agricoltura. Noi non possiamo bastantemente esortare i mo¬ derni Filosofi ad impiegarsi con ogni studio nell’indagare ciò che ancora ci è ignoto nell’|6i| Astronomìa riducendola così ad una delle scienze più perfette, che note siano all’umano intel¬ letto. 221 [p. 222 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO 222 [p. 223 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO [ [p. 224 modifica]621 vjli antichi Filosofi d’altro in ordine all’attrazione discor¬ rer non sapeano, che del magnetismo. Nè i singolari suoi feno¬ meni indegni erano alcerto di esser sottoposti al critico esame de’ Fisici. Vedesi difatto, che ogni calamita ha due poli, chiama¬ ti l’uno polo Artico, e l’altro polo Antartico, e talvolta ancor più di due, ne’ quali consiste tutta la forza della sua attrazione. Separata la calamita in più parti ciascuna di queste parti acqui¬ sta i suoi poli. Sospesa la calamita ad un filo essa va tostamente a collocarsi in modo che il suo polo Artico sia rivolto verso set¬ tentrione, e il suo polo Antartico verso mezzodì. Avvicinate l’una all’altra due caiamite i due poli di diverso nome si attrag¬ gono scambievolmente quelli del nome medesimo scambie¬ volmente si fuggono. La meravigliosa affinità della calamita col ferro, la sua quasi dissi prodigiosa tendenza al polo, nella quale puranco si osservano benespesso delle mutazioni tener dovea- no giustamente occupati gli antichi Filosofi nell’indagarne la 224 [p. 225 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO cagione. Ma disperati (631 ornai i Fisici moderni di potere spiega¬ re in modo soddisfacente così ammirabili effetti hanno a miglior senno rivolte le loro cure agli elettrici fenomeni, i quali sebbene grande analogìa abbiano con gli effetti magnetici non sono non¬ dimeno sì impenetrabili, e nascosti all’umano sguardo indagato¬ re. Noi riporterem qui brevemente il frutto delle osservazioni de’ Filosofi intorno a quest’importante oggetto, e parleremo in prima delle proprietà particolari dell’elettricità, e la causa quindi assegneremo dei fenomeni spettanti all’elettricità. Tutti i fenomeni dell’elettricità son prodotti da un fluido, il quale vien chiamato elettrico per la sua speciale proprietà di at¬ trarre i corpi, la qual proprietà osservasi particolarmente nel¬ l’ambra chiamata da’ greci f/AsKTpov. Noi parlando delle pro¬ prietà dell’elettricismo non intendiamo di parlare che di quelle del fluido elettrico il quale è il principale autore di tutti i feno¬ meni spettanti all’elettricità. Questo fluido viene dai Chimici annoverato fra di quelle trentatrè sostanze semplici, di cui tut¬ to l’orbe terracqueo è composto. Egli ha una grandissima ten¬ denza all’equilibrio, ed un’affinità grandissima con il calorico. L’aria |64| calda, ed umida, gli è similmente affine, ma il contra¬ rio avviene dell’aria fredda, e secca. Egli si trova d’ordinario 225 [p. 226 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE combinato con il calorico, e con la luce, e resta come imprigio¬ nato da queste sostanze, ma allorquando egli è costretto a pas¬ sare attraverso di corpi, a lui non affini chiamati non condutto¬ ri egli se ne sprigiona per potere più liberamente aprirsi il pas¬ saggio, ed in tal modo dà luogo a quei fenomeni, che frequen¬ temente si osservano specialmente nella macchina elettrica. Quivi il fluido elettrico sprigionato per il fregamento del disco dai corpi circostanti, e costretto a passare attraverso di un corpo non conduttore quale è il cristallo si libera eziandìo dal calori¬ co, e dalla luce, che seco lo tenean combinato, e produce quei fenomeni, che costantemente in questa macchina appalesansi. Per costringere il fluido elettrico a sprigionarsi, e produrre gli accennati fenomeni conviene isolare un corpo al medesimo af¬ fine, il quale vien chiamato conduttore, vale a dire porlo per ogni parte a contatto di corpi non conduttori come appunto avviene nelle nubi, le quali essendo corpi conduttori, e ritro¬ vandosi isolate nel mezzo dell’atmosfera, la quale |651 è d’ordi¬ nario corpo non conduttore dan luogo a tutte le spaventose meteore elettriche. Il fluido elettrico ha una grandissima affi¬ nità con i metalli e comunica loro benespesso una singolare forza attrattiva, colla quale traggono a se quasi violentemente in ispezialità gli altri metalli. Questa stessa forza egli comunica alla cera lacca allo zolfo alle resine alle gomme etcetera i quali corpi fregati con cottone lana, o altre simili cose concepiscono una forza elettrica capace di attrarre qualsivoglia corpo di sufficien¬ te leggerezza, ma questa forza non è che di breve durata. Le proprietà principali del fluido elettrico possono adunque ri¬ dursi a tre vale a dire alla sua meravigliosa tendenza all’equili¬ brio alla sua particolare affinità con i corpi conduttori ed in ispecie con il calorico, e alla sua quasi dissi avversione con i 226 [p. 227 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO corpi non conduttori. Non è però da supporsi a spiegare que¬ st’ avversione quella chimerica forza ripulsiva su cui tanto fan¬ tasticarono gli antichi Filosofi, giacché se un fulmine per ca¬ gion d’esempio si accosti al vetro ad una certa distanza egli sembra fuggirlo, ma ciò non avviene per forza alcuna rispin¬ gente del vetro, ma bensì per l’attrazione di |66| altri corpi cir¬ costanti, i quali avendo con il fluido elettrico affinità maggiore di quella ne abbia il vetro facilmente da questo l’allontanano per trarlo a se. Poste adunque queste tre più importanti pro¬ prietà del fluido elettrico passiamo ora ad esaminare e spiegare la causa di quei fenomeni, i quali da queste proprietà vengono principalmente occasionati. Tutti i fenomeni spettanti all’elettricità possono ridursi a cinque cioè i. il fulmine, 2. la pioggia, 3. la grandine, 4. il tre- muoto, e 5. la tromba. Parleremo succintamente di tutte queste meteore. Suppongasi nel fervor della state una nuvola sopraccaricata di fluido elettrico nel mezzo dell’atmosfera, e vicino a questa un’altra nube meno carica di elettricismo. Il fluido elettrico per la sua naturai tendenza ad equilibrarsi deve necessariamen¬ te lanciarsi dalla nube, che ne ha maggior quantità all’altra, che è vicina ad essa facendo in modo, che restino tra loro uguaglia¬ te, ed equilibrate le due quantità. Ma dovendo il fluido elettri¬ co per passare all’altra nube vincere la resistenza dell’atmosfe¬ ra la quale è corpo idioelettrico j6y| ossìa non conduttore è co¬ stretto ad abbandonar quella luce, con cui era combinato, la 227 [p. 228 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE quale svolgendosi in quel momento forma il lampo seguito dal tuono, che vien formato dall’oscillazione delle nubi, e dell’aria circostante. Da ciò si vede, che tanto maggiore sarà il tuono quanto maggiore è la quantità e l’impeto del fluido elettrico nel suo passaggio dall’una nube all’altra. Se questo passaggio invece di farsi dall’una nube all’altra si faccia dalla nube alla terra si avrà allora il fulmine il quale sarà tanto più terribile quanto maggiore è la distanza della nuvola dalla terra, e quanto è più secca l’atmosfera tra la nuvola, e la terra interposta. A pre¬ servarsi da un sì tremendo fenomeno sogliono esporsi sulla ci¬ ma de’ più alti edificj delle verghe di ferro, che vanno a termi¬ nare in un’acutissima punta per attrarre più facilmente la sotti¬ lissima colonna di fluido elettrico, che per la sua affinità con i metalli discende quietamente sul ferro, e da questo per una non interrotta successione di fili dello stesso metallo vien paci¬ ficamente nella terra deposto, e con essa equilibrato. Avviene talora che il |68| medesimo ufficio delle verghe di ferro venga esercitato dalle nubi stesse, le quali ridotte per una improvvisa mancanza di calorico dallo stato di fluido aeriforme a quello di liquido traggon seco combinato il fluido elettrico, e tranquilla¬ mente in tal modo l’equilibrano con la terra. Può eziandìo ac¬ cadere talvolta, che sopraccaricandosi la terra medesima di fluido elettrico ella dal suo seno lo scagli in grembo alle nuvole per la stessa cagione per cui le nuvole lo lanciano in seno alla terra. L’osservazione di questo fenomeno diede luogo a Maffei 228 [p. 229 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO di credere, che tutti i fulmini non provenissero, che dalla terra, ed a molti altri Scrittori di sostenere con interi volumi una sif¬ fatta proposizione, ma la sua falsità vien facilmente dimostrata dai fìnquì esposti principj. Dall’ elettriche esplosioni viene talvolta occasionata la piog¬ gia giacché conducendo seco il fluido elettrico per traversar più facilmente l’atmosfera una parte del calorico necessario per mantenere in istato aeriforme i vapori, che formano la nu¬ be questi condensandosi e riducendosi allo stato di liquidità vengono costretti a cadere per essere di |69| gravità specifica maggiore di quella dell’aria. Se per l’esplosione del fluido elet¬ trico venga a togliersi ai vapori aeriformi quel calorico eziandìo, che è lor necessario per porsi in istato di liquidità questi passano immantinente dallo stato di vapori aeriformi a quello di solidi, e si ha conseguentemente la grandine. Altre ca¬ gioni possono contribuire a ridurre la nuvola allo stato di liqui¬ dità, le quali però non appartengono in modo alcuno all’elet¬ tricismo, laonde ci asterremo dal parlarne. Da quanto si è detto intorno alla formazione del fulmine fa¬ cilmente si deduce la cagione del tremuoto giacché sopraccari¬ candosi di fluido elettrico nelle viscere della terra qualche cor¬ po conduttore isolato per la sua tendenza all’equilibrio dovrà il fluido elettrico scagliarsi da questo in altri corpi, che ne abbia¬ no in minore quantità e per tal modo scuotere impetuosamen¬ te la terra, e cagionare tutti quei lacrimevoli effetti che soglio¬ no essere le funeste conseguenze del tremuoto. A riparare una siffatta sciagura saviamente propose un vivente Scrittore di porre sotterra ad una conveniente profondità delle verghe I701 di ferro, le quali per la loro affinità con il fluido elettrico lo at¬ traggano a se, e lo equilibrino con gli altri corpi circostanti in quel modo appunto, in cui i nostri conduttori, e la pioggia me¬ 229 [p. 230 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE desima equilibrano senza alcun disordine il fluido elettrico contenuto nelle nubi con quello, che si contien nella terra. Altro ora non ci rimane intorno ai fenomeni dell’elettricità, che il parlar delle trombe. Abbiam già detto, che dovendo il fluido elettrico contenuto nelle nubi equilibrarsi con quello, che nella terra ritrovasi si apre il passaggio nell’atmosfera per mezzo di un sottilissimo solco da lui fatto nell’aria. Ciò avvie¬ ne però solamente allorché l’atmosfera circostante essendo as¬ sai secca, e per conseguenza corpo non conduttore gli impedi¬ sce di aprirsi per mezzo ad essa una strada più ampia. Se poi venga nell’atmosfera medesima ad occasionarsi un poco di umidità, e la nuvola possa in qualche modo avvicinarsi alla su¬ perfìcie della terra, o del mare il fluido elettrico, che si contie¬ ne nella nube potrà allora aprirsi per l’aria una strada assai maggiore di quella |7i| del fulmine, e strascinando seco una par¬ te de’ vapori chiamati vescicolari, che compongono la nuvola dovrà necessariamente formare un cono occasionato dalla pressione dell’aria esterna, la qual pressione è in ragione inver¬ sa dell’altezza dell’atmosfera. Riguardo agli effetti cagionati da questo terribil fenomeno non farem qui, che riportare le paro¬ le del celebre Sig.r Dandolo poste nel suo Dizionario Filosofico- Chimico all’articolo Tromba. Si vede, egli dice, «che aprendosi come votando un liquido per un inbuto un vuoto nel mezzo del vortice spirale occasionato dalla forza sunnominata (1) [(1) La forza di reazione del¬ l’aria esterna, e la forza di pressione, e di espansione del fluido discen¬ 230 [p. 231 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ELETTRICISMO dente] i corpi tutti dal basso sian solidi, o liquidi perla pressione laterale debbono ascendere nel vortice determinato da questo vuoto; che quei cor¬ pi, che potranno essere trasportati nel vortice saranno tanto più grandi quanto più grande sarà il diametro inferiore del cono: che quindi questi corpi chiudendo più o meno il voto della colonna verticale debbono esse¬ re al vertice del cono lanciati stracciati ec. in mille modi: che questi effetti debbono esser []2\ tanto più grandi lunghi, e terribili quanto maggiore è la quantità di fluido elettrico, e di vapore vescicolare, che si ritrovano nel¬ la nuvola, e quanto più è in giusta proporzione l’umidità onde il diame¬ tro del cono non sia nè soverchiamente grande, nè troppo piccolo: che ap¬ punto per questa cagione, e per queste circostanze debbono le cannonate tirate contro queste trombe distruggerne gli effetti, avvegnaché squarcian¬ dole si fa strada entro ad esse l’aria esterna con cui l’equilibrio si ristabi¬ lisce ». Potrà qui forse richiedersi perchè la maggior parte de’ fìnquì esposti fenomeni non abbia luogo d’ordinario che nell’estate. La soluzione di un tal quesito è assai facile. Vedesi difatto assai chiaramente, che nella fredda stagione non può il fluido elet¬ trico superare la resistenza dell’atmosfera, e sollevarsi dalla ter¬ ra alle nubi per mancanza di calorico il quale seco combinato lo trasporti unito ai vapori acquei, che s’innalzano nell’atmo¬ sfera, e se talvolta si hanno nell’inverno de’ tuoni, e de’ fulmini ciò avviene per una qualche straordinaria sopravvenienza di calorico. In tal modo non fa a noi di mestieri ricorrere al chi¬ merico sotterfugio de’ passati Fisici, i quali voleano 1731 ad ogni patto ingombrar la fredda stagione di tuoni, e fulmini, ed altre spaventose meteore elettriche per non esser costretti a spiegar¬ la cagione, per cui questi fenomeni esser sogliono nel verno as¬ sai rari. Tutto ciò, che abbiam detto contiene in brevi parole l’intera Teorìa dell’elettricità. Non possiamo alcerto bastantemente 231 [p. 232 modifica]DISSERTAZIONI FISICHE encomiare quei Fisici, i quali impiegar seppero i loro lumi nel discuoprire la cagione, e l’origine di sì spaventosi fenomeni per poi dar campo alle ricerche intorno al modo di preservarsi da loro terribili effetti. Non si scorgerebbe certamente nelle Fisi¬ che dottrine un sì gran numero d’inutili questioni se tutti i Fi¬ losofi impiegar sapessero la loro scienza nella ricerca soltanto di quelle cose, che ridondar possono in qualche modo apro del genere umano. 232 [p. 233 modifica]DISSERTAZIONI FILOSOFICHE DI GIACOMO LEOPARDI PARTE QUARTA [p. 234 modifica]1812 [p. 235 modifica]DISSERTAZIONI MORALI Utcumque defecere. mores Dedecorant bene nata culpae. Hor. Car. I. 4 Ode 4. [w. 35[p. 236 modifica] [p. 237 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA FELICITÀ 237 [p. 238 modifica]DISSERTAZIONI MORALI m [p. 239 modifica]238 |5| Ls’ uomo non sembra esser nato, che per la Felicità. Tutte quelle azioni, che in Metafisica appellansi umane non son di¬ rette, che a conseguire una qualche specie di Felicità. L’uomo giugne per acquistarla a violare i patti più sacri, e le leggi dell’e¬ quità, e della giustizia. M. Porcio Catone, di cui Cornelio «• Quoad vixit virtutum laude crevit» non si fè scrupolo di gettare in terra nel mezzo del Senato Romano de’ fichi ancor freschi re¬ centemente giunti dall’Affrica, ed ammirandone i Senatori la bellezza, e la grossezza impareggiabile, sappiate egli disse, che non son, che pochissimi giorni, che queste frutta furon colte dalla pianta medesima, che le ha prodotte per così dimostrare la necessità di distrugger Cartagine. E pure alcuna ragionevol causa non v’era a ciò fare se non quella, che venia suggerita dal¬ la politica, e dalla gelosìa del comando. Anzi allorquando gli ambasciatori dell’infelice città giunti al cospetto del senato al¬ tro non fecero, che por se stessi, i loro beni, |6| e la città loro nel¬ le mani de’ Padri Coscritti, e allorquando il Console Romano in contraccambio di sì umile soggettazione impose agli sventu¬ rati cittadini di Cartagine di consegnar le loro armi, e dopo che ebber ciò fatto di sgombrar tostamente dalle patrie mura, che già condannate erano alle fiamme, cuor bennato non fuwi, che non gemesse alla crudele sciagura degli oppressi Cartaginesi, e frattanto lo spietato Censore non cessava di declamar nelle pubbliche assemblèe per la distruzione dell’innocente Carta¬ gine. Ella era questa il fine di siffatte azioni, e la distruzione della città nemica tenendo nel suo cuore il luogo di una spezie 239 [p. 240 modifica]DISSERTAZIONI MORALI di Felicità, e non lasciandosi in ciò guidar dalla ragione, egli do- vea senza alcun dubbio fare ogni sforzo per conseguirla. Volen¬ do noi dunque analizzare questa specie di passione, o d’incli¬ nazione, per cui l’uomo è spinto a ricercar sempre nelle sue azioni la felicità esamineremo in prima in che precisamente consista questa felicità, e se possa un uomo esser più dell’altro felice, e considereremo in ultimo le varie maniere di beni. |7j Epicuro Filosofo, il di cui solo nome è bastante per iscre- ditare qualsivoglia ipotesi afferma, che la felicità non consiste, che nel piacere. Sembra diffatto, che l’uomo non possa nelle sue azioni tendere ad altro, che a questo, poiché se l’uomo si applica a praticar la virtù, e a fuggire il vizio, egli lo fa per quel¬ l’interno piacere, che ciascuno prova nel seguir le leggi dettate¬ gli dalla natura, il quale è inseparabile dall’azione virtuosa. Se l’uomo si studia di conseguir gloria, e buon nome egli opera per quel piacere, il quale va sempre unito all’acquisto della fa¬ ma, e dell’onore. Se l’uomo procura di rendersi utile alla patria, agli amici, alla società egli è mosso a ciò fare da quel piacere, che ciascuno esperimenta nel rendersi utile ai suoi simili. Così qualunque azione faccia l’uomo, egli non la fa, che per quell’in¬ terno, o esterno piacere, il quale non può mai andar disgiunto dalle umane operazioni. Per quanto speciosa però apparir possa questa ipotesi essa non è in conto alcuno ammissibile, giacché l’uomo virtuoso non pratica la virtù, che per se stessa, e questa medesima è premio |8| sufficientissimo a’ suoi seguaci 240 [p. 241 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA FELICITÀ «Ipsa quidem virtus sibimet pulcherrima merces». Che se nella virtù ritrovasi necessariamente il piacere ciò non fa, che questo sia il fine di chi la pratica, poiché un uom virtuoso pratica la virtù con piacere ma non per il piacere. Così coloro, i quali di buon grado sopportano acerbissimi patimenti, e pene gravissime, o in difesa della Fede, o della verità etc. noi fanno già per alcun piacere sebben piacere in tali azioni ritrovi¬ no, ma per amor solamente di colui, per cui l’uomo venne creato. Può dunque affermarsi senza alcuna tema di errare, che se il piacere forma talvolta, e pur troppo bene spesso il fine del¬ le umane azioni egli non lo forma però sempre, e non può dirsi per conseguenza la felicità esser posta nel solo piacere. Nè meno speciosa dell’opinione di Epicuro si è quella degli Stoici, i quali sostengono la felicità non esser posta, che nella so¬ la virtù. Felice diffatto esser non può secondo il loro parere co¬ lui che la virtù non possiede, e questa sola può render l’uomo j9| perfettamente felice. Cesare Augusto tra le maggiori dolcez¬ ze della Corte mentre sconfìtto Bruto, e Cassio, superato Sesto Pompeo, vinta la resistenza del Senato ai suoi voleri vedeasi ad uno ad uno toglier dal lato i suoi compagni nel governo rima¬ nendo egli solo assoluto padrone quasi dell’intero universo amato da’ domestici, rispettato da’ sudditi temuto da’ nemici, solea dire, che una cosa mancavagli per esser felice, e che seb¬ bene ignorasse qual cosa fosse cotesta pure la mancanza di que¬ sta sola bastava per renderlo infelice. Ciò awenìa solamente 241 [p. 242 modifica]DISSERTAZIONI MORALI perchè essendo la felicità posta nella sola virtù non eran suffi¬ cienti a renderlo felice le dolcezze del governo le Vittorie ri¬ portate sopra i suoi nemici la fedeltà de’ suoi domestici qualora la vera virtù non conseguisse. È questa l’argomentazion degli Stoici, a cui rispondiamo, che se la felicità fosse posta soltanto nella virtù l’uomo dovrebbe sempre determinarsi a praticarla, giacché secondo il principio universalmente ammesso in Me¬ tafisica l’anima umana non può volere se non ciò, che bene per qualche parte gli sembra, e non può |io| non volere se non ciò, che come male vien da lei considerato. Laonde se la felicità non fosse posta, che nella virtù l’uomo non potrebbe giammai determinarsi a praticare il vizio. E qui preghiamo gli Stoici a non allontanarsi dalla proposta questione, giacché noi non ri¬ cerchiamo qual dovrebbe essere il fine di tutte le umane azioni, ma quale realmente egli è, e però essendo certo, che l’uomo non tende nelle sue azioni soltanto all’acquisto della virtù, che anzi bene spesso dirigge le sue operazioni ad un fine del tutto opposto può sicuramente affermarsi, che la felicità, che l’uomo proccura in ogni sua azione di conseguire non è posta nella so¬ la virtù. Più magnifica, sebbene non meno falsa delle precedenti si è l’ipotesi di Platone per intender la quale fa di mestieri rimontar più alto. Platone, il quale s’immaginava, che le nostre anime avessero esistito prima della loro congiunzione col corpo sup¬ poneva, che queste anime avessero contemplate, e vedute assai dawicino le idèe del buono, del bello, del giusto, dell’onesto 242 [p. 243 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA FELICITÀ ec. ed avessero |n| apprese tutte le scienze, che quasi del tutto furon poste da esse in dimenticanza nel momento della loro unione coi corpi. E qui fa d’uopo avvertire che Platone suppo- nea che l’idèe astratte delle cose, come quelle del bello, del buono etc. esistessero ancora fuor dell’anime nostre, e fossero immutabili eterne, e assolutamente necessarie, il che è certa¬ mente ammissibile qualora si considerino queste idèe come esistenti nella mente Divina della qual cosa parlasi assai diffu¬ samente da’ Metafisici nell’ontologìa. Ora considerando Plato¬ ne la bellezza, e grandezza di queste idèe affermò, che l’uomo qualora avesse nel corso di sua vita rettamente operato conse¬ guirebbe dopo morte il bene secondo il suo parere inestimabi¬ le di appressarsi di nuovo all’idèa della bontà, e che conside¬ randola, e come immergendosi nella contemplazione della medesima sarebbe perfettamente felice. Questo genere di ulti¬ mo fine non è certamente ammissibile, giacché se la felicità non fosse posta, che nella contemplazion di un’idèa l’uomo dovrebbe in ogni sua azione tendere a conseguirla eppure tutto l’opposto ci 1121 persuade l’interno testimonio della propria co¬ noscenza. Laonde la contemplazione di queste idèe non può chiamarsi il fine delle operazioni dell’uomo, e per conseguen¬ za la felicità non è posta solamente nella contemplazione so¬ praddetta. Ed infatti come può mai dirsi, che Giulio Cesare al¬ 243 [p. 244 modifica]DISSERTAZIONI MORALI lorquando violati gli ordini della repubblica passato il Rubico¬ ne assalita l’Italia portossi a Roma, e discacciati con minaccie coloro, che contrastar gli voleano l’ingresso al pubblico erario ingiustissimamente se ne impadronì come può mai dirsi che egli in tutto il corso di queste iniquissime azioni ad altro non tendesse, che all’acquisto della contemplazion di un’idèa? Co¬ me può dirsi che Milziade il terror de’ Persiani superate, e scon¬ fìtte a Maratona le loro truppe con un numero dieci volte mi¬ nore di armati, e liberata la Grecia dai barbari, e l’Europa dal terrore apportatogli dai medesimi s’impadronì di moltissime città, ed isole, che prestato aveano ajuto ai Persiani come può dirsi che nel corso di tutte queste valorosissime azioni ad altro egli non tendesse, che a contemplar dawicino l’idèa del |i3| buono? E se questo non può in modo alcuno affermarsi come poi affermarsi potrà, che la felicità non sia posta, che nella con¬ templazion di un’idèa mentre gli uomini a tutt’altro tendono nelle loro operazioni? Nè qui si ricerca quale esser debba l’ulti¬ mo fine delle umane azioni, ed in che sia posta quella felicità, che l’uomo ricercar dee nell’operare, ma quale realmente sia il fine delle azioni umane, ed a che tendano gli uomini in qualsi¬ voglia loro operazione. Che se nel contrario aspetto si riguardi la Platonica ipotesi ella è certamente consentanea in gran parte, a quanto insegnato ci viene dalla Cattolica Fede, la quale ci am¬ maestra, che l’unica vera felicità dell’uomo non è posta, che nel conseguimento dell’eterna Vita, e che tutte le altre sorte di felicità non sono, che chimere, il che però non toglie, che l’uo¬ 244 [p. 245 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA FELICITÀ mo non tenda nelle sue azioni ancora al conseguimento di queste. È dunque da ricercarsi quale precisamente sia il fine delle umane azioni, e questo è ciò, che assai chiaramente vien mostrato da Aristotele Filosofo di Stagira. |i4| Egli afferma adunque, che la felicità civile ossìa di un uo¬ mo, che vive nel consorzio de’ suoi simili è posta nella somma di tutti i beni, che si convengono alla natura dell’uomo. Nulla di più facile a dimostrarsi. La natura dell’uomo si è la ragione¬ volezza, e un essere ragionevole ama la virtù, i piaceri, la gloria, la scienza, la propria comodità, e tutto ciò ricerca nelle sue azioni. Un essere ragionevole ama i proprj simili, gli amici, i congiunti, e proccura nelle sue azioni il loro bene quantunque benespesso al proprio il posponga. Un essere ragionevole co¬ nosce la necessità dell’esistenza di un Essere Supremo, la sua sovranità sopra tutte le creature, il diritto, che egli ha di essere da queste onorato, ed ubbidito, e proccura nelle sue azioni la gloria il culto l’ubbidienza a questo Essere, o in se medesimo, o negli altri. Vero è che l’uomo assai sovente si allontana dalle re¬ gole prescrittegli dalla ragione, e tutt’altro ricerca, che la virtù, il bene de’ suoi simili, la gloria, ed il culto dell’Essere Supremo ma ciò avviene perchè oltre alla ragione appartengono alla |is j natura dell’uomo ancora le passioni, da cui lasciandosi egli gui¬ dare non ascolta le voci della ragione, che gli grida di seguir mai sempre nell’operare le leggi naturali. 245 [p. 246 modifica]DISSERTAZIONI MORALI Posta adunque questa ipotesi egli è assai facile il comprende¬ re come un uomo esser possa più felice di un altro giacche co¬ lui, che è più giusto più temperante, più prudente, e più forte, colui, che meglio segue i dettami della ragione, colui finalmen¬ te, cui meno rimane a desiderare di quei beni, che si convengo¬ no alla natura dell’uomo, e specialmente in quanto egli è crea¬ tura ragionevole sarà più felice di quelli, cui più rimane a desi¬ derare di quei beni, che alla natura dell’uomo si confamio. Nè occorre qui combatter P opinione degli Stoici, i quali afferman¬ do, che felice esser non può se non quello, che pervenne ad un tal grado di virtù, che non può giammai dagli uomini oltrepas¬ sarsi vengono a dedurne, che l’uno non può essere più felice del¬ l’altro. La falsità di questa proposizione viene bastantemente di¬ mostrata dalla falsità del principio medesimo, da cui vien |i6| de¬ dotta essendo assai chiaro, che un uomo può chiamarsi virtuoso, e felice sebbene giunto non sia ad un tal grado di virtù, che giammai non possa dagli uomini oltrepassarsi. Se si ammettesse diffatto l’opinion degli Stoici l’acquisto della Felicità sarebbe non solo difficilissimo ma, quasi dissi, impossibile. Ma di ciò si è detto abbastanza: parleremo ora delle varie maniere di beni. Sonovi alcuni, i quali dividono i beni in dilettevoli, ed onesti. In ciascuno di questi beni ritrovasi il piacere con questa diffe¬ 246 [p. 247 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA FELICITÀ renza però, che ne’ dilettevoli si trova il piacere ricercandolo, laddove negli onesti si ritrova senza cercarlo. Alcuni aggiungo¬ no a questi beni quelli, che essi appellano utili senza avvedersi, che l’utile non è per se medesimo un bene, ma un mezzo per giungere all’acquisto del bene. E riguardo a ciò, che appellasi utile eli’è questione agitata tra i Filosofi se l’azione contraria alle leggi naturali possa giammai chiamarsi utile. Tenendo gli Stoici per fermo principio, che la felicità non sia posta, che nel¬ la virtù affermano, che questa sorta 1171 di azioni non può giam¬ mai chiamarsi utile giacché non conduce anzi allontana l’uo¬ mo dalla felicità allentandolo dalla virtù. Questa opinione però potrebbe facilmente dimostrarsi falsa per esser falso il princi¬ pio su cui ella è fondata: ma in qualunque modo ciò esser si vo¬ glia, è certo, che le azioni opposte alle leggi naturali come an¬ cora alle leggi Divine, e civili non possono giammai chiamarsi veramente utili giacché essendo la felicità civile posta nella somma di tutti i beni che si convengono alla natura dell’uomo, e per conseguenza non meno nel piacere, che nella virtù, utili chiamarsi non possono, che quelli i quali, o all’uno, e all’altra conducono l’uomo, o all’uno soltanto senza allontanarlo dal¬ l’altra, non mai però quelle, che conducendo solo al piacere al¬ lontanano l’uomo dalla virtù. Noi terminiamo coll’affermare, che in questa sola è riposta la vera felicità civile, e naturale, e che questa è il solo mezzo per giungere a quella felicità, cui solo tendere dovrebbono i pensieri, e le operazioni tutte dell’uom Cattolico. Possano |i8j finalmente riconoscer gli uomini questa importantissima veri¬ tà, e indirizzarsi a quel fine, che solo forma lo scopo di tutti i precetti della Moral Filosofia. 247 [p. 248 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE 248 [p. 249 modifica]1191 J-'C verità, che l’uomo conosce, o per mezzo delle scienze, o per mezzo del lume naturale dividonsi in speculative, e prati¬ che. Speculative son quelle, che nulla a far c’impongono qual sarebbe questa: il punto geometrico è indivisibile, ovvero ogni corpo è lungo largo, e profondo, ovvero il piano è composto di più linee etc. Diconsi poi verità pratiche quelle, per cui l’uomo conosce di dovere operare alcuna cosa qual sarebbe questa: l’uomo deve amare i suoi simili, ovvero si debbono scusare gli altrui difetti, oppure l’uomo deve far buon uso della propria li¬ bertà, e simili. Ora tra queste verità ritrovansi di quelle, che bi¬ sogno non hanno di dimostrazione, ed assumonsi anzi a dimo¬ strare le altre. Possono addursi per esempj di verità speculative di un tal genere gli assiomi: Una cosa non può sussistere insie¬ me, e non sussistere, ovvero due quantità uguali ad una terza sono uguali tra loro, ovvero un corpo è uguale alla somma di tutte le parti, nelle quali può venir diviso, ed altri moltissimi. |2oj In quanto poi alle verità pratiche alcune regole, o principj dell’onestà sono affatto simili a quegli assiomi, che apparten¬ gono alle verità speculative, vale a dire la lor verità si manifesta da se medesima senza che faccia mestieri di alcun argomento a dimostrarla. Pirrone, ed Aristippo ne’ passati secoli, e negli ultimi tempi Hobbes, e Spinosa negarono l’esistenza di questa sorta di verità pratiche, nè credo però, che una tal negativa possa ai Fi¬ losofi arrecar grande impaccio giacché se questi tolsero le veri¬ 249 [p. 250 modifica]DISSERTAZIONI MORALI tà pratiche di tal sorta poteano, anzi doveano, giusta il pensar di uno scrittore togliere eziandìo i principj speculativi, mentre questi non da altro vengon dimostrati, che dal lume naturale non altrimenti, che i principj pratici, e per tal modo togliendo i principj reso avrebbono affatto inutile ogni discorso, ed ogni argomento ugualmente, che il loro. Suole qui opporsi, che se si dassero queste azioni la cui onestà non ha bisogno di esser di¬ mostrata, ma bastantemente per se medesima si manifesta cia¬ scuna nazione le avrìa tenute per oneste, e similmente per di¬ soneste avrìa tenute quelle azioni, la di cui (211 disonestà è per se medesima palese ad ognuno, il che non sussistendo sussister non potranno quei principj pratici, di cui parliamo. Noi rispon¬ diamo, che essendovi infinite dissensioni intorno ai dogmi del- l’altre scienze nulla impedisce anzi è assai naturale, che queste sussistano eziandìo circa i dogmi della Moral Filosofìa, e che tra le diverse opinioni concernenti questi medesimi dogmi al¬ cuna da un legislatore venga abbracciata venendo rifiutata da un altro. Nè a noi giammai cadde in pensiero di affermare, che i dogmi della Moral Filosofìa soggetti esser non possono ad al¬ cuna obbjezione ma bensì, che astraendo da alcune regole del¬ l’onesto, che diversamente vengono da’ diversi Filosofi inter¬ pretate, tutti i principj pratici non contengono se non ciò, la di cui onestà non ha mestieri di esser dimostrata. Egli è diffatto evidente, che la parola data è da mantenersi, che debbonsi soc¬ correr gli amici, che la virtù è da praticarsi, che deesi fuggire il vizio, che l’uomo ozioso è inutile alla società, che l’uomo dee ricercare il bene de’ suoi simili non meno, che quello di se [221 250 [p. 251 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE medesimo, e lo stesso può dirsi di altri moltissimi principj, i quali certamente non verranno giammai oppugnati da alcun uom ragionevole. Ed è qui da avvertirsi, che noi intendiam per onesto ciò, che è conforme alle leggi naturali non men, che Di¬ vine, e civili, e per disonesto quello, che a queste si oppone. Po¬ sto adunque tutto ciò noi passeremo a parlare della Virtù Mo¬ rale considerata in tutta la sua estensione senza però raggua¬ gliarne le diverse specie nè dar contezza della loro definizione, il che si opporrebbe a quella brevità, che ci siamo prefissa, e che procureremo mai sempre di mantenere. Parleremo adunque più succintamente, che ci sarà possibile delle leggi dell’azion virtuo¬ sa, della definizione, del soggetto, della materia, delle proprietà, e degli estremi della virtù, e due questioni infine a scioglier pro¬ porremo l’una cioè se le passioni sieno di propria natura cattive, e l’altra se possa alcun’azione chiamarsi indifferente. Le leggi, ossìa quelle ordinanze, le quali prescrivono all’uo¬ mo di fare alcuna cosa, o di astenersi dal (23! farne alcun’altra di- vidonsi in naturali, Divine, e civili. Le leggi naturali son quelle, che ci impongono, o vietano alcuna cosa per mezzo di un certo interno lume, che chiaramente ci mostra qual cosa debba ope¬ rarsi, e qual no. Nè questo lume può mai spegnersi nell’uom ragionevole sicché egli non vegga la deformità, ed empietà di tutte quelle azioni, che alle leggi naturali si oppongono. Le leg¬ gi Divine contengono tutte le leggi naturali, alle quali non ag¬ 251 [p. 252 modifica]DISSERTAZIONI MORALI giungono se non quello, che può contribuire a render l’uomo perfettamente virtuoso. Le leggi Civili obbligan gli uomini ad operare come esse c’impongono in forza soltanto della con¬ venzione degli uomini tra essi se medesimi. Egli è certo, che la Civil legge è necessaria per punire i malvagj, per tenere in fre¬ no il vizio, e il mal costume, e per assicurare, e difendere i buo¬ ni dall’oppressione de’ cattivi. Ma egli è certo altresì, che i Principi debbono assai parcamente usare di questo diritto, che il genere umano ha loro conferito d’imporre cioè agli uomini, o di vietare alcuna cosa. La legge naturale I24J altamente co¬ manda a tutti i Sovrani, o costituiti in pubbliche dignità di non mirare nelle loro leggi, che al comun bene de’ popoli, e di non prefiggersi giammai alcun altro fine nel pubblicarle. Sì impor¬ tante fu da’ Romani creduto un tale oggetto, che in tutto il lor dominio non fu da essi trovato alcuno, che fosse stimato ido¬ neo a prescrivergli delle leggi, che da quelle dell’onesto non si discostassero, e non rinvennero miglior consiglio, che quello di compilare in più tavole le leggi del più sapiente tra’ Greci legi¬ slatori, e queste prescriversi come regola, e norma delle pro¬ prie operazioni. Indegno certamente del nome di uomo sarà colui il quale nelle sue leggi altro fine non si prescriva, che il proprio bene, o piuttosto l’oppressione de’ miseri sudditi, e che a dispetto delle più vive voci dell’umanità della ragione, della giustizia, della natura medesima, che apertamente gli mostra¬ no la sua empietà, disprezzi il bene de’ popoli, conculchi le vite 252 [p. 253 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE de’ cittadini, ed abbia il barbaro piacere di vedere il suo trono stabilito, e fondato sulle mine della pubblica felicità, e sull’|25| ingiustizia la più manifesta, ed irrigata dal sangue di mille, e mille infelici sacrificati alla propria ambizione quasi vittime, che tra la turba oppressa di esseri sventurati egli abbia diritto di sciegliere, e d’immolare. La memoria di un tal mostro degna sarìa di essere in eterna esecrazione, ed orrore, ed il suo nome di esser posto accanto di quello de’ Neroni, de’ Dionigi, de’ Ca- racalla nel numero di coloro che il cielo giudica talvolta espe¬ diente di mandar quai feroci leoni, o quai fulmini distruttori a devastare il genere umano. Ma di tali mostri tolga il cielo, che alcuno debba mai più tra noi comparire. Le leggi civili stabilite soltanto per il pubblico bene saranno sempre di giovamento infinito sì alle arti, e alle scienze, che alla virtù, alla giustizia, e finalmente alla comune felicità in ogni parte qualora da savio giusto, e prudente legislatore esse vengan prescritte. Non sarà qui, per mio avviso, fuor di proposito l’apportar brevemente le più famose leggi degli antichi legislatori, quali appunto da un moderno Scrittore vengon riferite per maggiormente consoli¬ dare quella |2ó| proposizione, cui sin da principio ci attenemmo, cioè, che alcune verità spettanti alle leggi dell’onesto si appale¬ sano da se medesime, e da tutti i savj legislatori sono universal¬ mente ammesse. Leggi del Secondo Zoroastro. Il tempo non ha confini, egli è increato, è Creator del tutto. La parola fu sua figlia, e da questa poi nacquero il Dio del bene Oromaze, e il Dio del male Ariman. Invoca il toro celeste padre dell’erbe, e dell’uomo. L’azione più meritoria d’ogni altra si è ben lavorare il pro¬ prio campo. Prega con integrità di pensieri, di parole, e di opere. 253 [p. 254 modifica]DISSERTAZIONI MORALI Mostra a’ tuoi figli il bene, ed il male allorquando saran giunti al confine di un lustro. La legge sia contro l’ingrato. Muoja colui, che tre volte ha trasgredito i comandi di suo Padre. La donna, che passa al secondo talamo vien dichiarata impu¬ ra dalla legge. Flagella colle verghe il falsario. I27I Disprezza il mentitore. Osserva dieci giorni di festa al principiare, e al terminare dell’anno. Leggi Indiane. Il tutto è Wichnou. Desso è quel, che fu, quel, che è, quel, che sarà. Uomini siate uguali. Amate la virtù per se medesima, e rinunciate a ciò, che pro¬ ducono le sue opere. Sii saggio, e la tua forza uguaglierà quella di dieci mille Ele¬ fanti. L’anima è Dio. Manifesta al sole, e agli uomini le colpe de’ tuoi figliuoli, e purificati nell’acqua del Gange. Leggi Egiziane. Onef Dio del tutto, tenebre sconosciute, oscurità impene¬ trabile. Osiride è il Dio buono, Tiffone il cattivo. Onora i tuoi genitori. Esercita la profession di tuo Padre. Pratica la virtù; le tue azioni saran giudicate dopo la tua morte dai giudici del lago. I281 Lava il proprio corpo due volte il giorno, e due la notte. Vivi sobriamente. Non palesare i misterj. Leggi di Minos. Non giurare nel nome degl’iddii. Giovane non esaminar le leggi. 254 [p. 255 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE La legge dichiara infame chi è privo di un amico. L’adultera venga coronata di lana, e venduta. Sieno pubblici i vostri pasti, parca la vostra vita, guerriere le vostre danze. Leggi di Solone. Muoja colui, che trascura di seppellire il proprio Padre, e co¬ lui, che non lo difende. Sia vietato all’adultero l’ingresso nel tempio. Il maestrato ubbriaco beva la cicuta. Muoja il soldato vile. La legge permette di uccidere il cittadino, che resta neutrale tra le civili dissensioni. Colui, che vuol morire ne dia contezza all’Arconte, e muoja. Muoja il Sacrilego. (29) Sposa guida il tuo consorte cieco. L’uomo scostumato sarà inabile al governo. Leggi primitive di Roma. Onora le scarse sostanze. L’uomo sia ad un tempo agricoltore, e guerriero. Lascia ai vecchi il vino. Muoja l’agricoltore, che osò mangiar il suo bue. Leggi de’ Galli, o de’ Druidi. L’universo è eterno, l’anima è immortale. Onora la natura. Difendi la tua madre, la tua patria, e la terra. Ammetti la donna ne’ tuoi consigli. Onora l’estranio, e metti la sua porzione a parte della tua messe. L’infame si seppellisca nel fango. Non eriggere alcun tempio; confida l’istoria delle passate vicende soltanto alla tua memoria. Mortale tu sei libero, sii senza proprietà. Onora i vecchj, e sia vietato ai giovani il depor contro di loro. 255 [p. 256 modifica]DISSERTAZIONI MORALI |3o| Il valoroso dopo la morte verrà premiato, e gastigato il vile. Leggi di Pitagora. Onora gli Dei immortali come sono stabiliti dalle leggi. Rispetta i tuoi genitori. Fa ciò, che non sarà per oscurare la tua memoria. Non ti lasciare occupar dal sonno prima di aver per tre volte esaminate nella tua mente le opere della giornata. Richiedi a te medesimo dove sono io stato, che cosa ho fatto, che cosa avrei dovuto fare? Così dopo una santa vita allorquando il tuo corpo ritornerà agli elementi tu diverrai immortale, ed incorruttibile, e sarai esente dal timore di più soggiacere alla morte. Ma ciò basti intorno alle leggi: un altro importantissimo og¬ getto richiama la nostra attenzione. Questo si è l’azion virtuo¬ sa, e la virtù medesima. Perchè un’azione possa veramente dirsi virtuosa |3i| ricer- cansi in essa tre cose vale a dire, che sia fatta per volontà libera, per fine di onestà, e con costanza, e fermezza d’animo. E si ri¬ cerca, che l’azion virtuosa sia fatta per volontà libera cioè non costretta da alcuna necessità, poiché sebbene chi pagasse un debito costretto da forza pubblica farebbe azion volontaria mentre potrebbe ancora non farlo, non farebbe però azion vir¬ tuosa mentre la sua volontà non sarìa libera per ogni parte ma costretta da pressante necessità. Non è però, che azioni di que¬ sta sorta non debbano chiamarsi volontarie poiché al dire de’ Giureconsulti «coacta voluntas voluntas est» e se alcuno in pericolo 256 [p. 257 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE di naufragio gitta in mare le sue merci fa azion volontaria seb¬ bene egli sia tratto ad operare in tal modo dal timor della mor¬ te potendo egli determinarsi a perder la vita piuttosto, che le sue merci. Ricercasi in oltre, che l’azione sia fatta per fine di onestà poiché se alcuno nell’operare onestamente non miri, che al proprio interesse, al proprio comodo, od anco a cose di¬ soneste l’azione non potrà certamente chiamarsi I32I virtuosa. Vuoisi finalmente, che l’azion virtuosa sia fatta con costanza, e fermezza vale a dire è necessario, che l’uomo sia disposto a se¬ guir sempre nelle sue azioni le regole dell’onesto, perciò vir¬ tuosa non potrà chiamarsi l’azione di chi presta volonterosa¬ mente un picciol soccorso a’ suoi genitori disposto a non pre¬ stargliene altrimenti qualora di maggiori essi abbisognino. Ed in ciò consiste l’azion virtuosa, che l’uomo, che opera ami ve¬ ramente l’onesto, ed in modo, che tutto sia disposto a sacrifica¬ re per ubbidire alle sue leggi. Spiegato in che consista l’azion virtuosa fa or di mestieri spiegare, che cosa sia la virtù, quali il suo soggetto, e le sue pro¬ prietà, e quali la sua materia, ed i suoi estremi. E primieramen¬ te attenendoci al parer di Aristotele noi affermeremo essere la virtù un abito ossìa una facilità, e prontezza a seguir le regole dell’onesto acquistata per mezzo dell’uso, e dell’esercizio. E difatto egli è evidente, che un uomo non può chiamarsi virtuo¬ so se un abito, o una facilità I33I non ha acquistata a praticar la virtù, poiché come potrà chiamarsi sobrio colui il quale una so¬ la volta a gran fatica ha vinto la sua gola, o giusto colui, il quale 257 [p. 258 modifica]DISSERTAZIONI MORALI una sola volta ha reso ad altri ciò, che lor conveniva, o ha distri¬ buito i premj, e le pene a seconda dell’altrui merito? Vedesi adunque, che alcuno non può chiamarsi virtuoso se un abito non ha contratto a praticar la virtù, il che viene da Aristotele di¬ mostrato con altri più sottili argomenti, i quali non apportere¬ mo per non mancare alla prefissaci brevità. Posto adunque, che la virtù sia un abito, egli è assai chiaro, che il soggetto della vir¬ tù altri esser non può se non quegli in cui risiede un tal abito e per conseguenza l’uom virtuoso, ma non in quanto egli dorme, o mangia, o parla, ma solo in quanto, egli vuole, o è disposto a volere l’onesto. E quindi ancora si vede, che una delle proprie¬ tà della virtù si è che niuno può mai per natura possederla, giacché essendo la virtù un abito, e non potendo questo acqui¬ starsi se non per l’uso, il che è evidente l’uomo non [34! potrà mai essere per natura virtuoso. Altra proprietà della virtù si è, che essa non può dal virtuoso venir praticata se non con piace¬ re giacche ciascuno fa con piacere un’azione allorché opera per volontà libera, e per conseguenza praticando il virtuoso l’azion virtuosa per volontà libera dee necessariamente risentirne pia¬ cere. Finalmente la virtù non può esser praticata, che virtuosa¬ mente, giacché se per altro fine, che per se medesima venga praticata essa non sarà altrimenti virtù come si è dimostrato parlando dell’azion virtuosa. Può qui venir ricercato qual sia la materia della virtù, e se questa sia posta tra certi limiti ovvero 258 [p. 259 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE in un certo mezzo tra l’eccesso, e il difetto, alchè noi rispondia¬ mo, che materia della virtù esser non possono, che le passioni essendo evidente, che l’uomo abbraccierebbe assai facilmente la virtù qualora non ne fosse impedito dalle passioni, le quali egli vince per mezzo di un abito, o di un uso che egli contrae a far ciò, che gl’impongono le leggi naturali, e a fuggire ciò, che queste gli vietano, (351 laonde la virtù altro non essendo, che questo abito, egli è assai chiaro, che le passioni sono la materia della virtù. E riguardo alla seconda delle proposte questioni noi affermiamo, che la virtù, e per cagion d’esempio la fortezza è posta tra due estremi l’uno de’ quali degenera in audacia l’altro cade in pusillanimità, il che è assai evidente per se medesimo nè ha bisogno di dimostrazione. Non è però da supporsi che la virtù non sia posta, che in un sol punto, avanti, o dopo il quale virtù ritrovarsi non possa come opinarono stoltamente gli Stoi¬ ci, giacché chi negherà, che l’uomo esser possa più, o meno li¬ berale senza degenerare in avaro, o in prodigo, più, o meno clemente senza degenerare in rigoroso, o in ingiusto, più, o meno mansueto senza degenerare in istupido, o in iracondo? Un vento chiamasi da’ naviganti moderato allorquando esso non è nè troppo gagliardo nè troppo debole non allorquando la sua forza è in un punto tale, che non può essere nè maggiore nè minore senza degenerare in troppa violenza, o in troppa fie¬ volezza. Lo stesso deve dirsi delP|36| uom virtuoso, a cui si con¬ verrà un tal nome quando la sua virtù non degenera in eccesso, 259 [p. 260 modifica]DISSERTAZIONI MORALI o in difetto, senza, che faccia di mestieri, che la medesima sia in un certo punto, di cui maggiore, o minore esser non possa sen¬ za trascorrere, e cader negli estremi. Ma egli è ornai tempo di entrare in quelle questioni, di cui sin dal principio favellammo l’una cioè se le passioni sieno di propria natura cattive, e l’altra se possa alcun’azione chiamarsi indifferente. Noi non farem qui, che riportare le ragioni di cia¬ scuno degli opposti partiti senza determinarci in conto alcuno per veruno di essi. E riguardo alla prima delle proposte contro¬ versie coloro i quali sostengono esser le passioni di propria na¬ tura cattive sogliono argomentare in tal modo. Le passioni essi dicono altro non sono, che un certo eccitamento, per cui l’ani¬ ma si muove a giudicare, o ad operare senza attendere l’esame della ragione. Or di qui subito apparisce, che le passioni sono di propria natura cattive giacché spingono I37I l’uomo ad operare senza ragione, e in forza soltanto di un cieco entusiasmo, il che chiaramente vedesi esser naturalmente malvagio. Inoltre chi può negare, che un ente senza passioni sarebbe più perfetto di coloro che le hanno? e se ciò non può negarsi egli è chiaro, che le passioni deformano l’uomo, e sono naturalmente cattive mentre più perfetto si stimerebbe colui, che ne fosse esente. Ad una sì forte argomentazione rispondono i seguaci del con¬ trario partito con il seguente raziocinio. Se malvagio, a dir loro fosse tutto ciò, che spinge l’uomo a determinarsi senza atten¬ 260 [p. 261 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE der l’esame della ragione malvagie dovrebbon dirsi la fame, e la sete, le quali spingon l’uomo a desiderare di mangiare, e di bere senza aspettare il giudicio della ragione il che sarebbe as¬ sai ridicolo affermare. E noi non consideriamo le passioni, che in quanto esse sono inerenti all’uomo, e non ad un essere di lui più perfetto, nè è nostro dovere rispondere a ciò, che dimostra la malvagità delle passioni togliendo all’uomo la sua essenza. Che se ci si opponesse esser le passioni [381 di propria natura cat¬ tive perchè traggono l’uomo a cose disoneste, noi risponde¬ remmo, che esse lo traggono ancora alle oneste, e che per con¬ seguenza la passione ossìa quella inclinazione, che trae l’uomo ad operare senza attendere l’esame della ragione non è di pro¬ pria natura cattiva. Fra cosi grandi difficoltà, e così forti ragioni sì dall’una, che dall’altra parte noi stimiamo miglior consiglio quello di rimanere indecisi ugualmente, che nella seconda del¬ le proposte questioni se possa cioè alcun’azione chiamarsi in¬ differente. Aristotele con non pochi de’ suoi seguaci stabilisce, che al¬ cune azioni posson dirsi indifferenti, il che egli di provar s’ar¬ gomenta in tal modo. Egli è, a suo dire, evidente, che l’azio¬ ne del camminare per cagion d’esempio qualora si spogli di tutte le sue circostanze nè si consideri in colui, che la fa non è nè onesta, nè disonesta, e per conseguenza indifferente. E qui interrompendo per poco il parlar d’Aristotele osserverem di passaggio, che una tal proposizione I39I non può certamente negarsi da alcuno degli awersarj, i quali non contendono sul¬ l’indifferenza di un’azione considerata in astratto ma bensì 261 [p. 262 modifica]DISSERTAZIONI MORALI nell’uom, che la fa, su di che prosegue Aristotele nella seguen¬ te maniera. Sonovi alcune azioni, le quali considerate ancora nell’uom, che le fa non posson chiamarsi nè oneste nè disone¬ ste, come sarebbe per cagion d’esempio il prender medicina per ricever la sanità. Che se qualcuno ci opponesse, che allor¬ quando l’uomo prende la medicina per ricever la sanità obbe¬ disce alla ragione, che l’obbliga a conservarsi in vita perii bene de’ suoi simili, ed in conseguenza fa cosa buona ed onesta, noi risponderemmo, che colui, che prende la medicina fa cosa buona, ed onesta, ma non già per fine di onestà bensì per istar sano, e piuttosto per amor di se stesso, che per amor dell’onesto laonde non fa azione onesta ma non perciò disonesta, e per conseguenza indifferente. A tutto ciò rispondono alcuni Cri¬ stiani Teologi, che l’onestà, o disonestà di un’azione indiffe¬ rente vien determinata dal fine, a cui essa è diretta, e |4o| conse¬ guentemente essendo l’uomo creato sol per Iddio, e dovendo a lui riferire tutte le sue opere, oneste saran quelle azioni, che son dirette al Divin servigio, e al conseguimento della vita eterna, e disoneste quelle, che da questi fini si allontanano, ed in tal modo vengono essi a togliere ogni azione indifferente. Su di che rimanendo noi indecisi come stabilimmo lasceremo allo studioso giovanetto la libertà di appigliarsi a quel partito, che verrà da lui riputato il migliore, e concluderemo riflettendo as¬ sai brevemente sull’utilità della moral Filosofia, delle cui dot¬ trine compilammo fmaddora una delle parti più interessanti all’uman vivere. A gran torto vien dagli studiosi fanciulli tra¬ scurata una tale scienza, la quale a preferenza delle altre che so¬ 262 [p. 263 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LA VIRTÙ MORALE IN GENERALE no bene spesso all’uomo di semplice ornamento non con¬ tiene se non ciò, che è assolutamente necessario al comun bene, alla felicità del genere umano, e alla pratica di quello, che esser può di giovamento infinito alla società, alla giusti¬ zia, ed a se medesimo. 263 [p. 264 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ MORALI IN PARTICOLARE [p. 265 modifica]264 |4ij -La virtù Morale, quella, che sola può render l’uomo per¬ fettamente felice varie specie comprende, nelle quali diversa- mente vien divisa da’ diversi Filosofi. Nè son questi da biasi¬ marsi in conto alcuno se giammai caddero in qualche errore nel divider le virtù, e definirne le diverse specie perciocché vo¬ lendo eglino assumere un tale incarico non poterono gran fatto discostarsi dalle popolari definizioni, e distinzioni diversamen¬ te resi si sarìano affatto inintellegibili. Ora non essendo le vol¬ gari definizioni, e distinzioni totalmente consentanee alla retta Filosofìa come quelle che dettate vengono dal capriccio di uo¬ mini indotti, o di Oratori, o di Poeti, che non molto attendono all’intimo significato, e valore delle divisioni, e de’ vocaboli so¬ no certamente da scusarsi coloro, che grandemente da queste distinzioni, e da queste voci universalmente ammesse non po- teano allontanarsi. Non è però, che volendo i Morali Filosofi prendere a distinguere, e definire le diverse specie della virtù |42| non abbiano con ogni studio proccurato di seguire i dettami della giusta Filosofìa quanto lor permetteva di farlo il comodo, e l’utilità degli Oratori, e de’ Poeti. Noi tra le diverse definizio¬ ni, e distinzioni delle varie specie di Virtù Morali eleggeremo a preferenza delle altre quelle del Filosofo di Stagira, le quali se¬ guendo le volgari opinioni non sembrano assai discostarsi dalle traccie della ragione. Parleremo adunque della Fortezza, della Temperanza, della Liberalità della Magnificenza, della Mansuetudi¬ ne, della Verità della Gentilezza, della Piacevolezza, e della Giusti¬ zia, senza molto curarci delle altre virtù di Aristotele della Ma¬ 265 [p. 266 modifica]DISSERTAZIONI MORALI gnanimità cioè, e di un’altra, che egli stesso non seppe come no¬ minare, le quali non sono certamente di grande importanza al- l’uman vivere, e furono da molti Filosofi escluse dal novero delle virtù. Seguendo mai sempre nel restante le traccie d’Ari¬ stotele noi proporremo la definizione delle diverse specie di virtù Morali, e ne assegneremo gli estremi brevemente trattan¬ do sul fine delle colpe, e de’ vizj. Prima nel novero delle virtù da noi sovraccennato si (43! è la Fortezza. Questa virtù è quella, per cui l’uomo sopporta con animo grande le avversità, e le sventure, ed incontra con forte petto i pericoli, vale a dire non li teme più di quello, che detta¬ gli la ragione. Nè alla virtù della Fortezza si oppone colui, il quale si attrista nelle sventure, ma bensì colui, che troppo si at¬ trista nè cerca di consolarsi, e di animarsi con quei beni, che an¬ cor gli restano, e specialmente con il piacere, che a ciascuno ar¬ reca l’esatta osservanza delle regole dell’ onesto. Scipione Africa¬ no, che accusato dagl’ingrati Cittadini di delitti a lui sconosciuti sopporta con animo invitto le sventure, che da siffatte calunnie derivangli, e cerca di sollevare il suo animo collo studio delle lettere, e colle delizie della villa di Linterno ci somministra un perfetto esempio di uomo forte, e magnanimo. Gli estremi della Fortezza sono come è assai chiaro la pusillanimità, e l’au¬ dacia. Dolone presso Omero, e Corebo presso Virgilio ci presenta¬ 2 66 [p. 267 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ MORALI IN PARTICOLARE no ancor essi degli esempj il primo di pusillanimità con abbas¬ sarsi per vile timor della morte avanti Diomede, ed Ulisse e con isvelar loro i disegni dell’armata Trojana, e l’altro di (44! audacia col lanciarsi egli solo in mezzo a migliaja di nemici per toglier Cassandra dalle loro mani. La temperanza, è quella virtù, per cui l’uomo moderata- mente si astiene da quei piaceri, che appartengono al gusto, ed alla concupiscenza. Molti Filosofi de’ passati secoli ci han som- ministrato degli esempj di temperanza in riguardo ai piaceri spettanti al gusto, e Scipione Africano con la sua continenza con Sofonisba, e con quella donzella, che per la sua beltà attraeva a se gli sguardi di tutto l’esercito Romano ci porge altresì uno de’ più rari esempj di Temperanza in ciò, che risguarda i piaceri spettanti alla concupiscenza. Gli estremi della virtù, di cui par¬ liamo sono assai facili a conoscersi. La liberalità è una virtù, per cui l’uomo dona ad altri mode¬ ratamente, e senza eccesso ciò, che è suo. E si chiama liberale colui, il quale dona danaro, o roba od altro, che venga in com¬ mercio non però quegli, il quale è ad altri cortese della sua pro¬ tezione, o lo ammaestra nelle scienze da lui possedute, o fa al¬ trettali cose, il quale sebbene sia co’ suoi simili cortese, e bene¬ fico non è però considerato come (45! liberale. C. Giulio Cesare Ottaviano Augusto vien da tutti considerato come un perfetto 267 [p. 268 modifica]DISSERTAZIONI MORALI modello di liberalità specialmente verso i letterati. Colui, che dona ad altri il suo smodatamente, ed oltre le proprie forze tra¬ scorre nell’eccesso della liberalità come nel difetto cade colui, che troppo è rattenuto, e ristretto nel far parte ad altri de’ proprj beni. Nè questi due estremi della liberalità possono al¬ trimenti chiamarsi l’uno prodigalità l’altro avarizia come poco ragionevolmente si usa nel volgare discorso giacché può uno esser prodigo solo nello spendere pei passatempi, e pei giuochi, e pure essere nel donare ristrettissimo, e così può uno non es¬ ser liberale ma non perciò avaro, ed anzi esser prodigo. E qui si vede assai chiaramente quanto dalla retta Filosofia si allontani¬ no le popolari opinioni, e quanto poco sien sufficienti ad espri¬ mere i caratteri di una virtù, o di un vizio le definizioni del volgo. La magnificenza fa, che l’uomo adequatamente, e come ra¬ gion vuole faccia le grandi spese, che occorrono, e che sono quasi necessarie al proprio decoro. Ed in ciò differisce la ma¬ gnificenza dalla liberalità, |4ó| che questa consiste nel donare moderatamente, e quella nello spendere come si conviene nel¬ le particolari occorrenze. Presso i Romani la necessità, in cui 268 [p. 269 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ MORALI IN PARTICOLARE erano gli edili curuli di dare al popolo a proprie spese degli spettacoli porgevano ad essi occasione di esercitare la virtù del¬ la magnificenza, e non pochi diffatto in essa si distinsero sebbe¬ ne assai spesso con soverchia profusione. Cadono negli estremi della virtù della magnificenza coloro, che vogliono esercitarla senza, che le loro sostanze sien sufficienti a somministrargli quanto per ciò fa di mestieri, o coloro, i quali per sordido amor del denaro ristringono soverchiamente le spese, o coloro final¬ mente, che con profusione immoderata fanno uso delle loro ricchezze nell’esercitar questa virtù. La mansuetudine è quella virtù, per cui l’uomo non si adira se non quanto ragion vuole, e quanto richiedono le circostanze, in cui si ritrova. Colui, che sfrenatamente si dà in preda al furo¬ re, o colui, che istupidamente sopporta qualsivoglia affronto cade negli estremi della mansuetudine. C. Giulio Cesare, che a’ molti suoi vizj accoppiava molte, I47I e rare virtù fu presso i Ro¬ mani un esempio di mansuetudine perdonando egli bene spes¬ so, e premiando ancora coloro, che le armi portate aveano con¬ tro di lui, ma nondimeno egli seppe usare all’uopo grandissima severità con le truppe a lui ribelli, le quali però con questa seve¬ rità trasse mai sempre alla dovuta soggezione. La verità, che da Aristotele vien posta nel numero delle vir¬ tù si è quella, per cui l’uomo loda talvolta se stesso come, e quando ragion lo richiede. Così Quinto Orazio Fiacco lodò se stesso nell’ode ultima del libro 3. dicendo: 269 [p. 270 modifica]1 DISSERTAZIONI MORALI «Exegi monumentum aere perennius, Regalique situ pyramidum altius... Non omnis moriar multaque pars mei Vitabit Libitinam. Usque ego posterà Crescam laude recens dum Capitolium Scandet cum tacita Virgine Ponti/ex. etc. ed altrove: Libera per vacuum posui vestigia princeps Non aliena meo pressi pede» le quali parole però, sebbene non sia disdicevole |48| ad un poeta lodar talvolta se stesso parran forse ad alcuni soverchio ampollose. Gli estremi di questa virtù facilmente potran cono¬ scersi da quanto abbiam detto. La Gentilezza è quella virtù, per cui l’uomo loda, ed approva le altrui operazioni per solo fine di onestà, e secondo ragione. Colui, che per una specie d’amor proprio non s’induce, che a stento a lodar altri cade nel difetto della virtù, di cui parliamo, come nell’eccesso trascorre colui, che qualsivoglia altrui opera¬ zione loda, ed approva senza ragionevol causa, e per fine d’in¬ teresse, o di propria utilità. Quinto Orazio Fiacco propone nella sua poetica come modello di gentilezza Quintilio, il quale giammai adular non sapea, ma semplicemente esponendo la sua opinione lodar soltanto quanto ragion richiedeva. La piacevolezza si è quella virtù, per cui l’uomo tien lieti i suoi compagni col mezzo di motti arguti, e faceti, la qual virtù se alcun trascurasse essendo per natura disposto ad esercitarla 270 [p. 271 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ MORALI IN PARTICOLARE cadrebbe nel difetto della piacevolezza, mentre nell’eccesso trascorrebbe chi volesse esercitarla senza esservi per natura in¬ clinato, I49I o chi prendesse per soggetto de’ suoi motteggi la santa Religione ovvero cose oscene, e laide, che avviliscono co¬ lui, che le pone in campo. Molti presso gli antichi vi furono, che il vanto si diedero di faceti, e piacevoli, e tra gli altri il Padre della Romana Eloquenza Marco Tullio Cicerone. Decimo Laberio cavaliere romano volendo un giorno dopo aver nel teatro rap¬ presentata una sua opera porsi a sedere nel suo luogo tra i cava¬ lieri, questi si unirono in modo tra di loro, che a Laberio non fu possibile ritrovare il proprio luogo. Vedendo Marco Tullio Cice¬ rone il suo smarrimento io ti darei luogo gli disse ma noi mede¬ simi siamo qui sì ristretti, che ci è impossibile l’ammetter altri tra di noi: alludendo al gran numero di cavalieri creati da Cesa¬ re. Al che Laberio, ciò mi fa meraviglia, rispose, sapendo, che tu sei solito a seder su due sedie volendo con ciò additare la neu¬ tralità mantenuta quasi sempre da Cicerone tra i diversi partiti, che dividevano la Repubblica. Devesi però evitare in questa sorta di motti piacevoli quell’arguzia pungente, e Satirica, nella quale forse degenerano quelli, che al presente accennammo. |so | Ultima nell’indicata divisione della virtù Morale ma pri¬ ma nell’utilità, e nell’eccellenza si è la Giustizia. Questa suol distinguersi in distributiva, e commutativa. La distributiva si è quella, per cui l’uomo distribuisce, ed assegna i premj, e le pe¬ ne a seconda dell’altrui merito. La Giustizia distributiva è po¬ sta in una certa proporzione tra il merito, e il premio, o tra il delitto, e la pena, la qual proporzione se venga tolta sarà tolta ancora la giustizia distributiva. Colui che dà più, o meno di 271 [p. 272 modifica]DISSERTAZIONI MORALI quel, che richiede la proporzione tra il merito, e il premio, o il delitto, e la pena manca alla giustizia distributiva nè tuttavìa è sempre degno di biasimo mentre gastigando men di quel, che richiede la proporzione tra il delitto, e la pena può uno usar clemenza, e non giustizia, ovvero usar liberalità premiando più di ciò, che richiede la suddetta proporzione tra il merito, e il premio. La giustizia commutativa è quella, per cui si fa tra gli uomini cambio di beni, e di roba senza, che l’uno de’ commu¬ tanti resti soverchiato dall’altro. Questa giustizia |5i| consiste nell’eguaglianza tra i beni, che si commutano giacché condu¬ cendo i beni di lor natura alla felicità, e avendo ognuno ugual diritto a conseguirla giusto non sarebbe il cambio di detti beni se tutti ugualmente non conducessero alla felicità. E quei beni, che per se stessi non hanno tra loro alcuna proporzione come sarebbono una casa, ed un podere, un oriuolo, ed una pittura, e simili divengono uguali tra loro per riguardo al denaro, il quale serve a stabilire l’uguaglianza tra cose fra di se dissomigliantis¬ sime. Colui, che dà meno di quel che riceve, o più riceve di quel, che dà, il che in diversi termini esprime la cosa medesima manca alla giustizia commutativa, e da ciò possono intendersi i suoi estremi. Tra tutti gli antichi Greci Aristide fu quello, che più d’ogni altro meritossi il nome di giusto, il quale però fu causa di molte sue sventure. Avendo Temistocle concepito un disegno di grande utilità agli Ateniesi egli richiese in pubblica assemblèa di palesarlo ad un solo a scelta del popolo. Questo elesse tra tutti Aristide a cui, trattolo in disparte, manifestò Temi¬ stocle il suo progetto. \s2\Aristide uditolo disse al popolo, che nul¬ la potea esservi di più utile, ma nel tempo stesso nulla di più in- 272 [p. 273 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ MORALI IN PARTICOLARE giusto di ciò, che Temistocle avea immaginato. Ciò solo fu ba¬ stante a fare, che nulla si effettuasse di quanto Temistocle avea proposto. Pone qui in campo Aristotele una questione, nella quale a sostener prende la parte affermativa, ed è questa: se avendosi una virtù in grado eccellentissimo si abbian tutte. Checche sia dell’opinione d’Aristotele, sopra la quale non istimiamo op¬ portuno il trattenerci, osserverem di passaggio esser la parte af¬ fermativa assai consentanea alla retta ragione giacché colui, che per qualche parte è virtuoso in grado eccellentissimo mostra avere un grande amor per l’onesto, il che fa, che egli sia virtuo¬ so per ogni parte. Che se alcuna virtù egli trovasi inabile ad esercitare come sarebbono la magnificenza la liberalità, e simili ciò non fa, che egli non le possegga, mentre la sua volontà sa¬ rebbe disposta ad esercitarle qualora ne avesse i mezzi. Alle finquì indicate virtù sono opposte le colpe, ed i (53 j vizi. Colpa è tutto quello, che discorda da ciò, che l’onesto ci impo¬ ne, vizio è un abito di commetter colpe. Ed è da avvertirsi, che colpa non è se non ciò, che discorda dall’onesto in quanto egli commanda, e non in quanto egli consiglia, mentre vi sono al¬ cune cose, le quali sono soltanto suggerite dall’onestà, e il di¬ scordar da queste non è colpa. Nè credo qui necessario il dimo¬ strare potere una colpa esser maggiore di un’altra, il che pazza¬ mente secondo il lor solito negaron gli Stoici essendo assai chiaro, che quell’azione, la quale discorda dall’onesto in tutte 273 [p. 274 modifica]DISSERTAZIONI MORALI le sue circostanze sarà colpa maggiore di quella, che dall’one¬ sto discorda soltanto in alcune. Quanto sinaddora abbiam detto contiene in brevi parole compendiata l’opinion d’Aristotele sopra le virtù, la quale a preferenza dell’altre eleggemmo come più consentanea alla sana ragione, e alla retta Filosofìa. 274 [p. 275 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ INTELLETTUALI [p. 276 modifica]275 |54| -L’anima umana in quanto eli’è ragionevole ha in se due potenze, all’una delle quali si dà il nome d’intelletto, all’altra di volontà. Alla prima appartiene il conoscere, e il giudicare alla seconda il volere. Ed in quanto alla prima cioè l’intelletto, comprende questa secondo Aristotele due facoltà, l’una chiama¬ ta contemplativa, e l’altra deliberativa. Per la contemplativa l’uomo non fa che contemplar le cose affine di conoscerle, co¬ me fa colui, il quale considera la struttura di una pianta, le pro¬ prietà della linea, o altre simili cose. Per la facoltà deliberativa l’uomo considera le cose non sol per conoscerle ma ancora per deliberarvi sopra, e determinarsi, come fa appunto colui, il quale considera se il beneficar gl’inimici sia azione onesta, per poi determinarsi su di ciò, ed operare a seconda del giudicio formato dalla facoltà deliberativa. Ora essendo certo che l’uo¬ mo non vuole alcuna cosa se non considerandola sotto l’aspet¬ to di bene, e non ne rigetta alcun’altra se non riguardandola sotto l’aspetto di male, e potendo [551 l’uomo ingannarsi con fa¬ cilità grandissima talché a lui sembri bene ciò, che è male in realtà, e male ciò, che veramente è bene, vedesi quanto sia al- l’uom necessario un abito, contratto per il lungo uso, ed eserci¬ zio, di conoscere rettamente, e rettamente giudicare, il qual abito chiamasi virtù intellettuale perchè risiedente nell’intel¬ letto. Ciò, che dicesi della facoltà deliberativa può, e deve in¬ tendersi ancora della facoltà contemplativa, la quale è soggetta ancor essa alla facilità di commetter degli errori sebbene ella 276 [p. 277 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ INTELLETTUALI non consideri le cose, che in quanto son da conoscersi potendo essa non conoscerle come elleno sono realmente, ed in questo ingannarsi, e rimaner delusa. Vedesi adunque assai chiaramen¬ te, che il soggetto della virtù intellettuale altri non è se non quegli, nel quale risiede l’abito di giudicare, e conoscere retta- mente ma non in quanto egli scherza, o parla, o scrive, o vuole, bensì in quanto egli conosce, e giudica. Così la materia della virtù intellettuale sono le cose medesime, ma solo in quanto esse son da conoscersi. Or volendo noi con la possibile brevità trattare di questa virtù, per cui l’uomo giunge a conoscere ciò, che oprar deve, e ciò, che |5ó| deve fuggire, e vien reso abile a giudicar rettamente su tutto quello, che cade sotto i suoi sensi la divideremo conforme fece Aristotele nell’intelletto, nella scienza nella prudenza, e nell’arte, e parleremo separatamente di tutte queste virtù. Passeremo quindi a parlare di una virtù, cui Aristo¬ tele diè il nome di ocxpia vale a dire sapienza, sulla quale varie questioni furon mosse da’ morali Filosofi, e cercheremo final¬ mente se la virtù intellettuale sia necessaria alla felicità. La facoltà contemplativa comprende due virtù, l’una delle quali versa intorno ai principj, e l’altra intorno alle conseguen¬ ze. Si dà alla prima il nome d’intelletto, ed alla seconda il nome di scienza. L’intelletto è dunque una virtù, che versa intorno ai principj, ossìa intorno a quelle verità, che non han bisogno di dimostrazione. Potrà qui forse richiedersi come possa l’intel- 277 [p. 278 modifica]DISSERTAZIONI MORALI letto porsi nel numero delle virtù mentre egli non si acquista altrimenti per uso alcuno, od esercizio, ma dalla natura mede¬ sima ci vien compartito, il che è direttamente contrario alla de¬ finizione medesima della virtù. A ciò (571 rispondiamo, che l’in¬ telletto non vien da noi considerato come potenza, ma bensì come virtù, il che dee accuratamente osservarsi. Giacché se l’intelletto si consideri come potenza, vale a dire come quella forza, ed attività, che ha ciascuno a distinguere, e conoscere la verità di alcun principio, egli non potrà certamente aver luogo nel numero delle virtù intellettuali, come quella, che non per uso alcuno, od esercizio si acquista, ma ricevesi come in gratuito dono dalla natura medesima. Ed infatti chi dirà, che il comprender la verità di questo principio « se si raddoppj il nu¬ mero 4. si avrà il numero 8 » e di altri somiglianti sia il frutto di una lunga esperienza, e di un abito acquistato con l’uso, e con l’esercizio? Niuno certamente; come niuno altresì ardirà di af¬ fermare, che il discernere con prontezza, e facilità d’animo la verità de’ più astratti principj non sia l’effetto di un abito acqui¬ stato con l’uso, e con l’esercizio di conoscere, il quale non può venirci compartito dalla natura medesima. E in realtà se ad un uomo affatto digiuno di arti, e di scienze si proponga quell’as¬ sioma «le quantità doppie, triple, |58j quadruple di quantità eguali sono eguali tra loro» ovvero quello «Tutto ciò, che si comprende nell’idèa chiara, e distinta di una cosa dee necessa¬ riamente convenirgli » oppure « quelle grandezze, le quali so¬ vrapposte l’una all’altra si addattano perfettamente, e si con¬ fondono in tutte le loro parti sono uguali tra loro » o simili; egli assai stento porrà a comprenderne il significato, e più forse an¬ cora a conoscerne la verità, mentre un matematico, o altri ver¬ 278 [p. 279 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ INTELLETTUALI sato nelle scienze le intenderà, ed approverà a prima giunta senza aver mestieri di affaticarsi per tal cagione in modo alcu¬ no, e ciò per l’abito da lui acquistato di conoscere con prontez¬ za d’animo simili verità. E perciò dunque assai manifesto do¬ versi con ogni possibile accuratezza distinguere la virtù dell’in¬ telletto dalla potenza di tal nome, la quale non può certamente essere ammessa nel novero delle virtù intellettuali. Dalle cose dette finquì può facilmente conoscersi qual sia la materia della virtù dell’intelletto, che da Aristotele vien collocata prima di ogni altra nella accennata divisione delle virtù intellettuali. |59 j Segue la Scienza, cui dà Aristotele il secondo luogo nella divisione sovraindicata, e questa si è quella, per cui l’uomo di¬ mostra con evidenza di ragioni quelle verità, che per se stesse non sono abbastanza chiare, ed hanno mestieri di alcuna dimo¬ strazione. Vedesi adunque come questa virtù versa intorno alle conseguenze, ossìa intorno a quelle verità, che si conoscono per mezzo de’ principj. Essendo adunque, come è manifesto, le proposizioni medesime, che sono da dimostrarsi la materia della virtù della scienza, egli è evidente, che diverse, e di varie specie essendo queste proposizioni, diversi ancora, e di varie specie saranno gli abiti dimostrativi, quali sono appunto la Me¬ tafisica, la Matematica, la Geometrìa, ed altre molte, le quali tutte versano intorno a proposizioni diverse, e di diversa spe¬ cie, che costituiscono l’oggetto, ed il fine della scienza. Fu già detto da Aristotele esser la Scienza una virtù, che si aggira in¬ torno alle cose necessarie immutabili, ed eterne, il che è total- 279 [p. 280 modifica]DISSERTAZIONI MORALI mente consentaneo alla retta ragione; mentre quelle proposizio¬ ni, che si stiman vere al presente dovranno sempre essere state, e sempre |6o| rimaner vere, e la lor verità sarà assolutamente neces¬ saria su di che non credo sia duopo instituire argomento bastan¬ temente ciò dimostrandosi da’ metafìsici, a’ quali sembrami ap¬ partenere un tale assunto assai più, che ai morali Filosofi. Alla seconda classe di virtù intellettuali vale a dire a quella, che spetta alla facoltà deliberativa, appartengono la prudenza, e l’arte. La Prudenza, la più sublime, e più nobile tra tutte le vir¬ tù intellettuali, è quella virtù, per cui l’uomo conosce facil¬ mente ciò, che gli convien di fare, vale a dire quali azioni son per condurlo alla felicità. Ed essendo la felicità posta principal¬ mente nell’esercizio della virtù può dirsi per ciò, che la pru¬ denza sia un abito di discernere prontamente quali siano le azioni virtuose, e quali di queste egli far debba all’occasione. Sono dunque materia della prudenza le azioni, che all’uomo si convien di fare, ed in particolar modo le azioni virtuose, ma so¬ lo in quanto esse son da conoscersi non in quanto sono da farsi, il che spetta alla volontà. Non è però, che la prudenza chiamar non si debba abito pratico giacché \6i\ ordinando ella distin¬ guendo, ed imponendo ancora quelle cose, che stima all’uom convenirsi può in certo modo contarsi tra le virtù pratiche. Su di che aggiungeremo ancora un’altra ragione apportata da un moderno Filosofo, ed è, che due sorte di giudicj debbon consi¬ derarsi nella prudenza, l’uno cioè speculativo, e l’altro pratico. Il primo ha luogo allor quando l’uomo considera se l’azione 280 [p. 281 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ INTELLETTUALI per cagion d’esempio del giuocare sia contraria all’onestà, non riguardando l’azione indicata, che nella sua natura spogliando¬ la di quasi tutte le sue circostanze. Che se poi egli consideri se l’azion del giuocare sia a lui conveniente avendo riguardo alle sue sostanze, al tempo, al luogo, e a tutto quel, che accompagna l’azion del giuocare pronto a determinare la sua volontà a se¬ conda della decisione della sua prudenza il giudicio sarà prati¬ co, e pratica per tal cagione dovrà chiamarsi ancor la prudenza. L’arte, che è la seconda delle virtù intellettuali spettanti alla facoltà deliberativa è un abito, per cui l’uomo facilmente, e prontamente conosce |62| ciò, che può essere idoneo ad abbelli¬ re, e perfezionar quell’azione, che scortato dalla prudenza egli va ad intraprendere. E certo sarà assai debole, per non dire inu¬ tile l’arte qualora la prudenza fatta non le abbia strada mo¬ strando all’uomo quale azione a lui si convenga di fare giacché se egli oprando senza prudenza imprenda a far ciò, che non è a lui convenevole, poco certamente varrà che egli si studj di ab¬ bellire, e perfezionare la sua operazione. Laonde può dirsi, che la prudenza sia all’arte necessaria, e che questa non possa quasi senza quella sussistere. Ma è tempo di passare a quella virtù, cui diè Aristotele il no¬ me di oocpia, vale a dire sapienza, il qual vocabolo da’ diversi morali Filosofi vien diversamente interpretato. Prima di passa¬ re alle loro opinioni apporterem qui brevemente la definizio¬ ne, che ne diede Aristotele. Egli disse adunque esser la sapienza una scienza, e un intelletto di cose per propria natura nobilissi¬ me. Disse ancora che la scienza versa soltanto intorno alle con- 281 [p. 282 modifica]DISSERTAZIONI MORALI seguenze, e non intorno ai principj, ma che la |631 sapienza ver¬ sa sì intorno a questi, che a quelle, e che questi, e quelle sono immutabili, necessarie, eterne, ed universali verità non appar¬ tenenti nè all’arte nè alla prudenza. Certo io desidererei più chiarezza in questa definizione. Sembra che Aristotele abbia in essa voluto proporre come un enigma, a sciorre il quale varie ipotesi furon proposte, ma niuna di queste giunse forse a colpir nel segno. Crederono alcuni, che Aristotele per questa sua sa¬ pienza intender volesse qualunque arte in sommo grado posse¬ duta. Altri argomentando dal pregio, in che egli mostrò sempre di tenere questa sapienza stimarono, che essa altro non fosse che un aggregato di tutte le virtù morali. Fuwi chi disse aver egli inteso parlare di un intelletto, e di una scienza unite insie¬ me in uno stesso soggetto ed ambedue nobilissime, e grandissi¬ me, il che sembra venir comprovato da quel luogo di Aristotele ove egli dice, che la sapienza è una scienza, e intelletto di cose per propria natura nobilissime. Alcuni finalmente riputarono aver voluto Aristotele additare nella sua definizione la metafi¬ sica, la quale versa intorno a cose (641 prestantissime di lor natu¬ ra, e non meno intorno ai principj, che alle conseguenze. Noi stimiamo fare a miglior senno nel non meschiarci in conto al¬ cuno nella soluzione di quest’enigma, e nel lasciare un tale as¬ sunto a degl’interpreti, o più animosi, o più felici di noi. 282 [p. 283 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE VIRTÙ INTELLETTUALI Ad altra questione ora ci chiama l’oggetto medesimo, di cui trattiamo, ed è se le virtù intellettuali dir si debbano necessarie alla felicità. Certo sembrami più convenevole il trattarla dopo di aver già conosciuta la natura, e l’oggetto di tutte le virtù, di cui parliamo di quello sia prima di aver di ciò fatto parola come è paruto ad un moderno Filosofo. Entrando dunque nella que¬ stione diremo esser le virtù intellettuali necessarie alla felicità; del che possono addursi due ragioni. La prima si è che essendo la felicità posta nella somma di tutti i beni, che si convengono alla natura dell’uomo tutto ciò, che questa natura perfeziona, ed abbellisce dovrà esser compreso nella somma accennata laonde perfezionando le virtù intellettuali, e rabbellando la na¬ tura dell’uomo, dovranno queste dirsi necessarie alla [651 sua fe¬ licità. La seconda, e la più convincente si è questa, che essendo necessarie alla felicità dell’uomo le virtù morali necessarie esser debbono ancora quelle, per cui l’uomo conosce quali sieno que¬ ste virtù, e quali a lui convenga di esercitare, il che è ufficio delle virtù intellettuali. Sono adunque queste necessarie alla felicità. E ciò basti intorno alla virtù intellettuale, sulla quale varie altre questioni, ed ipotesi propone Aristotele, quali non ripor¬ tiamo per non esser queste necessarie alla perfetta intelligenza di quanto finquì abbiamo esposto. 283 [p. 284 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA ALCUNE QUALITÀ DELL’ANIMO UMANO, CHE NON SONO NÈ VIZJ NÈ VIRTÙ 284 [p. 285 modifica]1661 òonovi alcune qualità dell’animo umano, che considerate in se stesse non posson chiamarsi nè vizj nè virtù. Di questa specie son tutte quelle, che l’uomo può avere, o non avere, sen¬ za virtù, o colpa. Noi lasciate da banda quelle, che poco, o nulla sembrano atte a condur l’uomo alla felicità parleremo di quelle precipuamente, che o dispongono l’uomo alla virtù, o servono ad accrescere in questa vita mortale il numero dei beni smi¬ nuendo quello de’ mali. Tali sono, secondo Aristotele, la virtù eroica, la tolleranza, la verecondia, lo sdegno, e l’amicizia, la quale di tutte queste qualità può dirsi la più interessante. Ci ar¬ gomenteremo di sciorre nel miglior modo, che fìa possibile le diverse questioni, che furon mosse da’ morali Filosofi intorno all’amicizia, nè dimenticherem di parlare della benevolenza, dell’amore, della concordia, della beneficenza, della\6j\gratitu¬ dine, e dell’amor di se stesso, qualità, che più di qualunque al¬ tra sembrano consentanee alla natura dell’amicizia. Seguendo bene spesso il parer di Aristotele non crederemo di allontanar¬ ci da quello de’ più savj Filosofi. La virtù eroica, che Aristotele esclude dal numero delle vir¬ tù morali è una unione di tutte queste prodotte sino ad un gra¬ do, che oltrepassa gli ordinarj limiti, a cui soglion giungere le forze umane. Essendo però assai difficile per non dire impossi¬ bile all’uomo tutte le virtù possedere in grado eccellentissimo Aristotele non giudicò di porre la virtù eroica nel numero delle 285 [p. 286 modifica]DISSERTAZIONI MORALI virtù morali, ma solo nel novero di quelle qualità dell’animo umano, che non sono nè vizj nè virtù. Certo peccaminoso dir non si può il difetto di questa qualità; come avvenir dovrebbe se ella fosse virtù; altramente ogni uomo dir si dovrebbe reo di tal colpa. Sembra dunque, che la virtù eroica non debba nove¬ rarsi, che tra le qualità dell’animo, di cui trattiamo come fece saggiamente Aristotele. |68| Segue nella enunciata enumerazione delle qualità dell’a¬ nimo umano, che non sono nè vizj, nè virtù, la tolleranza, la quale fa sì, che l’uomo per una certa disposizione alla virtù del¬ la fortezza sostenga con animo quieto, e composto le avversità, e il dolore senza turbarsene più di ciò, che ragion vuole. Nè un uomo intollerante pecca cedendo al dolore, poiché sforzandosi egli di resistergli, e lasciandosi poi vincere dalla sua violenza non può ciò per niun modo ascriversegli a vizio qualora non degeneri in soverchio difetto di fortezza. La verecondia, di cui parla Aristotele non versa intorno alla povertà, all’ignoranza, o ad altre simili cose, ma bensì intorno alla colpa, ed al vizio, ed ha luogo allorquando l’uomo cono¬ scendo di aver operato poco onestamente ne sente, e mostra vergogna, e rossore. Egli è certo, che la verecondia è una delle più pregevoli qualità dell’animo umano mentre chi la possiede mostra pentimento della commessa azione, e sembra 1691 dispo¬ sto a seguir nell’avvenire le leggi dell’onestà, e colui, che di nulla arrossisce mostra gran disposizione al vizio, e sembra co¬ me compiacersi della colpa. Non è però a dirsi esser virtù la ve¬ recondia mentre questa non si acquista per abito, o per eserci¬ 286 [p. 287 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA ALCUNE QUALITÀ DELL’ANIMO zio ma vien dalla natura medesima, il che è contrario alla defi¬ nizione della virtù. Questa qualità dell’animo si appalesa al discuoprir, che fa l’uomo alcun difetto in se stesso; quella, di cui siam per parlare si manifesta al conoscerne, che egli fa alcuno in altrui. Lo sde¬ gno adunque, di cui parla Aristotele si è quella proprietà dell’a¬ nimo, per cui l’uomo si commuove, e si turba al veder premia¬ to, ed esaltato il vizio, ed oltraggiata, e negletta la virtù. E seb¬ bene assai da pregiarsi sia questa qualità mentre colui, che sif¬ fattamente si commuove mostra aver grande amore all’ equità, ed odio al vizio, non può nondimeno chiamarsi virtù, mentre questo eziandio vien da natura, e non per abito, o per esercizio si |7o| acquista, il che è evidente. Egli è però certo, che quegli, il quale questa qualità non possiede avrà l’animo assai disposto al vizio mentre non rincrescendogli per niun modo l’oppression della virtù, mostrasi assai inclinato ad opprimerla egli medesi¬ mo qualora ne abbia occasione. Eccoci alla più interessante delle qualità dell’animo umano, di cui parliamo, ed è questa l’amicizia. Innumerabili poeti, e fi¬ losofi sì de’ passati tempi, che de’ presenti non han lasciato, e non lasciano di deplorare la rarità della vera amicizia. «Vulgare amici nomen sed rara est fides» I.3. f.9. esclama il moral Liberto d’Augusto confermando poi la sua sentenza con un detto del principe, e padre de’ Filosofi morali, che angusta casa essendosi fabbricata « Utinam inquit veris hanc amicis impleam!» ibid. 287 [p. 288 modifica]DISSERTAZIONI MORALI Sembra però, che la rarità medesima della vera amicizia accre¬ scer la faccia di prezzo, e di stima mentre può dirsi che tutti i fi¬ losofi insiem si uniscano ad esaltarla, e magnificarla come il più 1711 prezioso tesoro, che mai rinvenir si possa nel corso di que¬ sta vita mortale. «Haud scio, esclama M. Tullio, an, excepta sapien- tia, quidquam melius (amicitia) homini sit a Diis immortalibus datam. Divitias alii praeponunt, bonam alii valetudinem, alii potentiam, ahi honores, multi edam voluptates. Belluarum hoc quidem extremum est; illa autem superiora caduca, et incerta, posita non tam in nostris consiliis quam in fortunae temeritate». Nè fia da maravigliarsi, che alcuni filosofi abbian preferita alla virtù l’amicizia qualor si consideri, che senza virtù non può darsi vera amicizia, e che quasi le virtù tutte vengono dagli amici scambievolmente esercitate. «Qui in virtute summum bonum ponunt, soggiunge M. Tullio al capo sesto de Amicitia subito dopo le qui sopra accennate parole, praeclare illi quidem, sed haec ipsa virtus amicitiam, etgignit, et continet: nec sine virtute amicitia esse ullo pacto potest». Noi parleremo adunque di questa sì sublime, e sì utile qualità dell’animo umano, e se¬ guendo le traccie del nostro Aristotele daremo in prima la de¬ finizione dell’amicizia, passeremo quindi ad 1721 enumerarne, e 288 [p. 289 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA ALCUNE QUALITÀ DELL’ANIMO definirne le diverse specie, e termineremo in fine coll’accen¬ nar la soluzione di alcune questioni, che soglion proporsi in¬ torno all’amicizia. L’amicizia vien definita una benevolenza manifestata, e scambievole. E qui notar si debbono accuratamente i termini della nostra definizione, mentre se alcun di questi tolto fosse, o cangiato essa non sarebbe sufficiente a spiegar la natura dell’a¬ micizia. E primieramente noi diciam benevolenza, e non amo¬ re, poiché l’amore può volersi ancora a cose insensibili come al vino, alle ricchezze, e a simili cose; non così la benevolenza, la quale esprime doversi desiderar bene all’amico. Diciamo in se¬ condo luogo benevolenza manifestata poiché se alcuno desi¬ deri bene ad alcun altro senza che egli sappia nulla della sua benevolenza, l’uno non potrà dirsi amico dell’altro, il che è evidente. Diciamo finalmente benevolenza scambievole poi¬ ché se ciò non fosse potrebbe alcuno amare, e desiderar bene ad alcun altro, I731 ed in iscambio esser da questo odiato, e con- tuttociò dirsene amico, il che è falso manifestamente. Questa benevolenza dunque scambievole, e scambievol¬ mente manifestata esser può di tre sorte. Della prima si è quel¬ la, che nasce dalla utilità, della seconda quella, che nasce dal piacere, della terza finalmente quella, che nasce dalla virtù. E qui deve avvertirsi, che noi non intendiam di parlare di quella amicizia, che ci viene imposta dalla natura o dalle leggi come è quella, che passar dee tra il padre, e il figlio, o tra il principe, e il suddito, ma di quella solamente, che per pura elezion si con¬ trae, e da niuna legge naturale, o civile ci viene imposta. L’amicizia dunque, che nasce dalla utilità ha luogo, allor¬ 289 [p. 290 modifica]DISSERTAZIONI MORALI quando si ama alcuno perchè a noi ne vien bene, o allorquando si ama solo perchè facendoci egli del bene par giusto, che noi altresì a lui ne desideriamo. Nel primo caso la utilità è il fine dell’amicizia, nel secondo non ne è che il motivo. Egli è evi¬ dente, che quanto I74I lodevole si è l’amicizia della seconda spe¬ cie, la quale è indicio di animo grato, e virtuoso, altrettanto è vile quella della prima, nella quale seppur si dà giammai vera benevolenza essa non è diretta, che al ben proprio, e al proprio interesse, e non ha per cagione che la propria utilità; fine, e motivo ambedue vilissimi, e indegni di costituire la causa, e l’oggetto dell’amicizia. L’amicizia, che nasce dal piacere può dirsi simile in parte a quella, che nasce dalla utilità mentre se il piacere sia il fine del¬ la benevolenza non sarà questa vera amicizia poiché colui, che ama il suo amico sol per trarne un piacer proprio ama piuttosto sè, che l’amico. Se però il piacere sia solo il motivo della bene¬ volenza, così che alcuno ami il suo amico perchè studiandosi egli di dargli piacere par giusto mostrarglisi grato col desiderar¬ gli bene l’amicizia sarà molto onesta come dicemmo parlando di quella, che nasce dalla utilità. La amicizia, che nasce dalla virtù si è la I75I più nobile, e la più magnifica di ogni altra come quella, che non ha per motivo, che la virtù, non ha per fine, che la virtù, e non si mantiene, che per un continuato esercizio di quasi tutte le virtù. Essa ha luogo allorquando avvenendosi alcuno in un uomo ornato di probità, e di onestà questi gli sembra degno della sua benevolenza, ed amandolo ne è scambievolmente riamato. La Liberalità, la genti¬ lezza, la piacevolezza, e le altre virtù vengono d’ordinario scam- 290 [p. 291 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA ALCUNE QUALITÀ DELL’ANIMO bievolmente esercitate da’ veri amici in modo, che l’amicizia, di cui parliamo può dirsi effetto insieme, e causa della virtù. Potrà qui richiedersi se l’amicizia sia un atto, od un abito; se essa sia virtù; come sciolgansi le amicizie; e se finalmente l’uo¬ mo per esser felice abbia in vita bisogno di amici. A queste que¬ stioni noi ci argomenterem di rispondere colla possibile brevi¬ tà. E primieramente par certo, che l’amicizia debba dirsi piut¬ tosto un abito, che un atto, poiché questa non cessa benché di tratto in \-j6\ tratto cessi l’operazione, nè per dormir, che faccia l’amico potrà mai dirsi, che l’amicizia sia sciolta. Non è però che l’amicizia debba dirsi virtù, mentre quest’abito non si ac¬ quista per esercizio, e per uso, come avvenir dovrebbe se virtù realmente contenesse. In riguardo poi all’altra questione, come cioè disciolgansi le amicizie può dirsi, che l’amicizia cessa al cessar della benevolenza, o in ambedue, o in uno solamente degli amici, poiché in tal caso la benevolenza non sarà scam¬ bievole, e però non conterrà amicizia. Può ancora rimanere in ambedue gli amici la benevolenza, e tuttavia per cattivo ufficio di nemiche persone ascondersi per modo, che non essendo questa manifestata non contenga amicizia. E in quanto all’ulti¬ ma questione se l’uomo abbia per esser felice in vita bisogno di amici; noi con Aristotele ci dichiareremo per l’affermativa; giacché riposta essendo la felicità della vita nella somma di tut¬ ti i beni, che si convengono alla natura dell’|77j uomo, l’amici¬ zia, che può chiamarsi uno de’ maggiori beni convenienti alla sua natura dee necessariamente concorrere a formarla. Avendo fìnquì parlato dell’amicizia, par convenevole, che 291 [p. 292 modifica]DISSERTAZIONI MORALI alquanto c’interteniamo ad esaminare alcune qualità, che sem- bran partecipare della sua natura. Di questo numero sono la benevolenza, l’amore, la concordia, la beneficenza, la gratitudi¬ ne, e l’amor di se stesso. Da ciò, che fmaddora abbiam detto, bastantemente può conoscersi la natura della benevolenza, la quale in ciò differisce dall’amore che essa non può esser diretta, che a cose sensibili, laddove l’amore può aver per oggetto, e le sensibili, e le insensibili. Ci asterremo dunque dal parlar più al¬ lungo di queste due qualità. La concordia, di cui parla Aristote¬ le altro non è che un consentimento di volontà, e questa sebbe¬ ne sia necessaria all’amicizia, nondimeno non è sufficiente a formarla mentre due nemici possono unirsi a voler le stesse co¬ se rimanendo tuttavìa inimici, il che è evidente. La |78j benefi¬ cenza altresì, la quale non è, che una consuetudine di far bene¬ fici ad altrui può aver luogo ancor tra nemici, potendo alcuno per grandezza d’animo beneficare il proprio inimico, e perciò appunto la gratitudine differisce dall’amicizia per cagione, che avendo alcuno ricevuto beneficj dal proprio nemico può esser¬ gli grato, e nondimeno rimanergli inimico. Per ciò, che spetta poi l’amor di se stesso, può dirsi, che luogo alcuno non siavi nella moral filosofìa, su cui più questioni abbian mosse i sa¬ pienti, e più abbian tra loro differito in opinioni. L’amor di se stesso adunque altro non è, che un certo naturale instinto, per cui l’uomo è spinto a ricercare ciò, che sembragli bene, ed a fuggire ciò, che sembragli male. E di qui chiaramente si scorge, che qualora la ragione dell’uomo non sia dalle passioni offu¬ scata, egli dall’amor di se stesso sarà tratto alla virtù, e all’onestà 292 [p. 293 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA ALCUNE QUALITÀ DELL’ANIMO essendo in esse riposto il suo vero bene. Potrà qui richiedersi se l’uomo possa dirsi amico di se stesso, al che noi risponderemo, |791 che ricercandosi a formar l’amicizia la scambievolezza, l’uomo non può chiamarsi amico di se medesimo non potendo darsi scambievolezza nell’amor di se stesso. Dalla definizione poi dell’amor di se stesso chiaramente comprendesi, che l’uo¬ mo sebbene amar possa l’amico quanto se stesso, nondimeno ama con più forza se stesso, che l’amico, mentre la forza dell’e¬ lezione, che ci trae ad amar l’amico non può per se medesima equivalere alla forza dell’istinto, che ci spinge ad amar noi stes¬ si. Contuttociò non può dirsi, che l’amor di se stesso si oppon¬ ga all’amicizia giacche l’uomo essendo spinto da questo a ri¬ cercare il proprio bene, ne verrà tratto ancora a ricercar l’ami¬ cizia la quale è uno de’ maggiori beni, che l’uomo in vita pos¬ seder possa. Tali sono i pensieri dello Stagirita Filosofo sopra quelle qua¬ lità dell’animo umano, che considerate in se stesse non posson dirsi nè vizj nè virtù; pensieri che con ogni industria cercam¬ mo ]8o| di brevemente compendiare, ed accuratamente diluci¬ dare. [p. 294 modifica]293 [p. 295 modifica]DISSERTAZIONI FILOSOFICHE DI GIACOMO LEOPARDI PARTE QUINTA [p. 296 modifica]1812 [p. 297 modifica]DISSERTAZIONI FILOSOFICHE DI GIACOMO LEOPARDI PARTE QUINTA [p. 298 modifica]1812 [p. 299 modifica]DISSERTAZIONI AGGIUNTE LOGICA ... Meo citus haec subscribe libello Hor.: Lib. I. Saly. X. [v. 92] DISSERTAZIONE SOPRA LA PERCEZIONE, IL GIU [p. 300 modifica]DIZIO, [p. 301 modifica]E IL RAZIOCINIO 299 [p. 302 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA [p. 303 modifica]300 |5| INulla di più prezioso, nulla di più sublime, e più nobile, che la ragione può l’uomo rinvenire in se stesso. Questa si è quel raggio, che l’illumina nel cammin della vita; questa si è quella voce, che gli serve di guida nel disastroso sentiero della virtù; questa si è quella finalmente, che diradando, e discio¬ gliendo le maligne nebbie dell’errore lo conduce come per mano fino alla vera indefettibile felicità. Nulla dunque di sì importante all’uomo quanto render diritta, e savia questa reg- gitrice del suo vivere mentre se malvagia ella sia, malvagio sarà l’uomo ancora, che da essa dipende. A liberar dunque la ragio¬ ne da ogni macchia di errore sono principalmente dirette quel¬ le scienze, che insieme unite appellansi col nome generico di Filosofia, e sopra tutte quella, che insegnando all’uomo l’arte di conoscer le percezioni, e di rettamente giudicar delle cose per mezzo di un esatto raziocinio \6\ serve di necessario apparec¬ chio alle altre filosofiche scienze. Volendo noi dunque additare i principali fonti, da cui dimanano i dogmi di questa interessan¬ tissima scienza, parleremo della percezione, del giudizio, e del raziocinio parti precipue della medesima. Dovendo qui svolge¬ re i precetti dell’arte di ben servirsi della ragione, ci guardere¬ mo nel nostro discorso di seguire altra guida, che la ragione istessa. La percezione si divide nella sensazione, e nella intellezione. La sensazione si è quella cognizione, che l’uomo acquista per 301 [p. 304 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA mezzo de’ sensi, come la sensazion dell’odore, del gusto, ec. La intellezione si è una percezion di cose non sensibili, come del¬ la spiritualità, del pensiero ec. Queste due specie di percezioni si uniscono sotto il nome d’idea, la qual significa una rappre¬ sentazione alla mente di un oggetto corporeo, o incorporeo, possibile, o impossibile. Le idee posson considerarsi, o nella lo¬ ro origine, o |7| in se medesime, o in relazione all’intelletto, o finalmente ne’ loro oggetti. Le idee considerate nella loro origine esser possono o av¬ ventizie, o fattizie, o innate. Le avventizie son quelle, che ven¬ gono in noi prodotte dai sensi come la idea della luce, del suo¬ no ec. Le fattizie son quelle, che si compongono con l’ajuto delle avventizie, o delle innate, come la idea di un monte for¬ mata da quelle de’ sassi, e degli scogli. Le idee innate finalmen¬ te son quelle, che secondo alcuni Filosofi ha Dio impresse nel¬ la nostra mente per modo, che avanti qualunque sensazione esperienza, o raziocinazione posson sempre concepirsi. Tali a loro dire sono le idee di Dio, dell’ente in generale, della essen¬ za, della esistenza, della unità, dell’ordine, della estensione, 302 [p. 305 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA PERCEZIONE, GIUDIZIO, RAZIOCINIO della bellezza, del pensiero ec. Qual fede debba prestarsi a que¬ sta opinione han già mostrato molti savj Filosofi. Le idee considerate in se stesse sono semplici, o composte, vere, o false. La idea semplice è quella, |8| la quale rappresenta una cosa, che non ha parti, come la idea dell’amore; pel contra¬ rio la idea composta è la rappresentazione di una cosa materia¬ le, e corporea. La idea vera è quella, che è conforme al suo og¬ getto, rappresenta cioè degli attributi, che possono convenirgli. La idea falsa è quella, che non è conforme al suo oggetto rap¬ presentando degli attributi, che non possono convenirgli, o to¬ gliendone di quelli, che formano la sua essenza. Tale sarebbe la idea di un essere perfettissimo ingiusto, o mortale, o mutabile. Se le idee si considerino relativamente all’intelletto, chiare saran queste, od oscure; distinte, o confuse; complete, o in¬ complete; adeguate, o inadeguate: chiare allorché il loro ogget¬ to può dalla mente esser conosciuto per mezzo di sufficienti indicj dalle idee stesse rappresentati: distinte allorché la mente comprende le forme, e i contrassegni dell’oggetto rappresenta¬ to dalle idee. Se l’intelletto può distinguere, e conoscere tutti |9| cotesti contrassegni la idea appellasi completa, in diverso caso 303 [p. 306 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA appellasi incompleta. Finalmente può l’intelletto aver di questi contrassegni medesimi una distinta cognizione, e la idea chia- merassi adeguata, o può soltanto confusamente comprenderli, e la idea dirassi inadeguata. Le idee oscura, e confusa sono op¬ poste alle idee chiara, e distinta, mentre la prima rappresenta l’oggetto in modo, che la mente non può di essa formare alcun giudizio, che dagli altri il distingua, e la seconda non addita al¬ cun contrassegno, o forma dell’oggetto. Le idee considerate in riguardo alla loro materia esser posso¬ no assolute, o relative; reali, o chimeriche; astratte, o concrete; singolari, o universali. La idea assoluta è quella, che rappresen¬ ta il suo oggetto indipendentemente da ogni altro; a questa si oppone la relativa, che lo rappresenta con alcuna relazione, o dipendenza. La idea reale è opposta alla chimerica, che rappre¬ senta un oggetto fittizio, come è appunto la idea de’ ciclopi. La idea |io| astratta è quella, che considera l’oggetto indipendente¬ mente da ciò, a cui dee appartenere, come esser può la idea del¬ la pittura se questa non si consideri sotto alcuna forma. La idea concreta è formata dalla unione di più idee, come è appunto la idea di un fiume di latte composta da quelle del fiume, e del latte. Finalmente la idea singolare è quella, che non contiene se 304 [p. 307 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA PERCEZIONE, GIUDIZIO, RAZIOCINIO non cose proprie di un solo oggetto, e la idea universale è quel¬ la, che ne contiene alcune communi a più oggetti. I segni esprimenti le idee, o pensieri dell’uomo dividonsi in ; naturali, ed arbitrarj. Il pianto, il riso, e simili cose son segni na¬ turali atti ad esprimere dolore, o gioja, od altro. La voce, che per una varia articolazione di parole si manifesta, la scrittura, che non è se non una immagine della voce, e della parola me¬ desima, o volgare sia essa, o simbolica come usavanla gli Egizia¬ ni, e il gesto finalmente, che per mezzo de’ moti del corpo fa noti gli interni sentimenti |ii| senza alcun ajuto di parole, o di scritti sono segni arbitrarj. Ciò che finora dicemmo può essere sufficiente a spiegare la natura della percezione; ciò, che siam per dire varrà a mostrar quella del giudizio. Questo se in se medesimo si consideri non è, che quella operazione dell’intelletto, per cui esso giudica se alcuna cosa convenga o no all’oggetto delle sue idèe. Ciò fa egli considerando la natura della proposizione, che ad esami¬ nar gli si presenta, e cercando di conoscere se il predicato con¬ venga al soggetto. Poniamo per cagion di esempio questa pro- 305 [p. 308 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA posizione « l’uomo è ragionevole» ovvero « l’uomo non è irragionevo¬ le». Nel primo caso la proposizione sarà affermativa, nel secon¬ do negativa. La parola, l’uomo, forma il soggetto della proposi¬ zione, è, o non è, la particola copulativa, o congiuntiva, e l’attri¬ buto, ragionevole, o irragionevole costituisce il predicato, il qual se convenga al soggetto vera sarà la prima proposizione, e falsa la seconda. L’esaminare se l’attributo, o |i2| predicato, con¬ venga al soggetto è ufficio di quella operazione dell’umano in¬ telletto, di cui al presente trattiamo cioè del giudizio. Le proposizioni posson considerarsi, o in rispetto alla quan¬ tità, o in rispetto alla qualità. Se si considerino in rispetto alla quantità saranno esse o universali, o particolari, o singolari, o indefinite. La proposizione universale è quella, il di cui sogget¬ to è di quantità estesa, o a tutto il genere, o a tutti gl’individui della specie, come « Ogni uomo è composto d’anima, e di cor¬ po». La proposizione particolare è quella, il di cui oggetto si estende ad alcune cose soltanto alle quali indeterminatamente si attribuisce il predicato, come « alcun uomo è dotto ». La pro¬ posizione singolare è quella, il di cui soggetto non si estende, che ad una sola cosa. La proposizione indefinita è quella, la di cui quantità non ha alcun segno nè di universalità, nè di parti¬ colarità, nè di singolarità. Tale è, per cagion di esempio, quella proposizione «l’uomo è mortale». 306 [p. 309 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA PERCEZIONE, GIUDIZIO, RAZIOCINIO |i31 Se le proposizioni si considerino in rispetto alla qualità esser possono affermative, o negative, delle quali abbiam già parlato, vere, o false; evidenti, o oscure; certe, o probabili, o dubbie. La proposizion vera è quella, il di cui predicato convie¬ ne al soggetto, come « Dio è onnipotente ». Il contrario dee dir¬ si della falsa. La proposizione evidente è quella, nella quale la unione del predicato con il soggetto chiaramente si manifesta: tale è quella « il giorno è lucido ». Se questa congiunzione non si appalesi manifestamente allo intelletto la proposizione di- rassi oscura. Questa appellasi certa allora quando il predicato è congiunto al soggetto per modo, che ciò non può porsi in dub¬ bio; probabile allora che essa non ha se non un aspetto di cer¬ tezza; dubbia allorquando può dubitarsi se il predicato con¬ venga, o no al soggetto. A conoscer però se la proposizione sia dubbia, o certa, o pro¬ babile, è necessario conoscere la natura del suo soggetto, il che si ottiene per mezzo della definizione, il cui offizio è spiegar brevemente la natura |i4| della cosa definita. Intorno a questa debbe osservarsi precipuamente, i. Che la definizione più chiara sia del definito. ii. Che il definito non si contenga nella definizione medesima. 307 [p. 310 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA in. Che la definizione sia adeguata, e conveniente al definito, iv. Che dessa sia valevole a distinguere il suo oggetto dagli al¬ tri. A maggiormente facilitare il giudizio dello intelletto suole impiegarsi la divisione, la quale non è, che una adeguata distri¬ buzione di alcuna cosa nelle sue parti. Di quattro sorte è la di¬ visione, potenziale cioè, essenziale, accidentale, integrale. La divisione potenziale è quella che si fa del genere nella specie, o della specie in ciò, che ad essa appartiene. La divisione essen¬ ziale è quella che si fa di alcuna cosa nelle sue parti essenziali: se questa si faccia nelle parti astratte dicesi divisione metafisica, e fisica appellasi se |i51 facciasi nelle parti concrete. La divisione accidentale è quella che si fa di alcun oggetto ne’ suoi accidenti, o dello accidente medesimo nelle cose ad esso spettanti. La di¬ visione integrale finalmente è quella, le cui parti se insieme si uniscano una sola cosa vengono a comporre. Intorno alla divi¬ sione debbono osservarsi precipuamente queste regole: i. Che dessa non si faccia in parti nè troppo grandi nè troppo piccole affinchè in cambio di facilitare il giudizio dello in¬ telletto non lo impedisca per soverchia oscurità, e confu¬ sione. ii. Che una parte di essa non venga rinchiusa nell’altra, il che sarebbe uno de’ più grandi errori, che nella divisione po¬ tesse commettersi. 308 [p. 311 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA PERCEZIONE, GIUDIZIO, RAZIOCINIO Non rimane ora a parlare che del raziocinio, il quale formar deve la ultima parte del nostro discorso. Il Raziocinio adunque è un giudizio dedotto da altri previi giudizj. Questa specie di giudizio si ottiene per mezzo del |ió| discorso, o della argomen¬ tazione la quale esser può di molte specie. La più usitata però di ogni altra si è quella, che da due antecedenti chiamati il pri¬ mo la maggiore, e il secondo la minore deduce una conseguenza dipendente da ambedue. Questa specie di argomentazione chiamasi sillogismo. Un esempio di tal raziocinazione esser può il seguente. « Ciò, che è spirituale non può perire; ma l’a¬ nima dell’uomo è spirituale; dunque l’anima dell’uomo non può perire »: ovvero « Un ente perfettissimo è onnipotente; ma Dio è un ente perfettissimo; dunque un ente perfettissimo è onnipotente». Il sillogismo esser può o semplice, o composto. Il sillogismo semplice è quello, che formasi di tre semplici pro¬ posizioni. Il sillogismo composto è quello, in cui uno almeno de’ termini è composto, come « Se la pietra è grave tende alla terra; ma la pietra è grave; dunque la pietra tende alla terra». Ovvero «L’uomo è sapiente se ama la virtù; I17] ma un vero Cristiano ama la virtù; dunque un vero Cristiano è sapiente». Egli è evidente, che ciascuna argomentazione, o dimostra¬ zione di qualunque specie ella sia esser dee o retta, o fallace. La 309 [p. 312 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA dimostrazione retta è quella, che è composta di vere proposi¬ zioni, ciascuna delle quali insieme cospirano a dimostrare la conseguenza. Questa dimostrazione esser può o diretta, o indi¬ retta, o ad hominem. La dimostrazione retta è quella nella qua¬ le dalla cognizione del soggetto si deduce convenirgli il predi¬ cato. Tale è la seguente: « ogni uomo pensa; ma io sono uomo; dunque io penso ». La dimostrazione indiretta è quella nella quale posta come vera la proposizione contraria a quella, che è da dimostrarsi si va per un continuato raziocinio a dedurre una conseguenza, la quale sia contraria o alla nozion del soggetto, o ad alcuna proposizione vera d’onde possa poi conoscersi che delle due proposizioni contradditorie quella è falsa che è con¬ traria alla |i81 detta proposizione vera. Questa dimostrazione chiamasi ancora apagogica, ovvero riduzione all’assurdo, o allo impossibile. La dimostrazione ad hominem è quella, nella qua¬ le gli antecedenti si deducono dalla proposizione degli awer- sarj. La Dimostrazione fallace è quella, nella quale, o falsi sono gli antecendenti, o i termini non cospirano a dimostrare la con¬ seguenza, o da due premesse affermanti si deduce una proposi¬ zione negante, o neganti sono ambedue gli antecedenti, cose tutte, che rendon falsa qualsivoglia argomentazione. Le principali regole della dimostrazione, ed in specie del sil¬ logismo sono racchiuse ne’ seguenti versi. 310 [p. 313 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA PERCEZIONE, GIUDIZIO, RAZIOCINIO i. «Terminus est triplex major, mediusque minorque. il. Latius hunc quam prasmissse conclusio non vult. in. Aut semel, aut iterum medium generaliter esto. iv. Nequaquam medium capiat conclusio oportet. |i9| v. Est parti similis conclusio deteriori. vi. Nil sequitur geminis e particularibus unquam. vii. Ambae affirmantes nequeunt generare negantem. vili. Utraque si praemissa neget nihil inde sequetur». I diversi metodi di esporre, e mettere in chiaro quanto per la percezione il giudizio, e il raziocinio si acquista riduconsi al metodo analitico sintetico, e scolastico. Il metodo analitico è quello, che spiegata la cosa da trattarsi nelle sue parti la divide, tutte poi accuratamente dimostrando ad una ad una. Questo metodo può essere utilissimo a conoscere la verità qualora pro¬ curisi di schivare ogni confusione, e tutte le parti dell’argo¬ mento si espongano con ordine, precisione, e chiarezza. Il me¬ todo sintetico, è quello, che ricompone, ed ordina tutte le parti della questione riducendole ad uno stato nel quale possa que¬ sta essere facilmente posta in |2o| chiaro. Questi due metodi possono in qualche modo paragonarsi a quelli, che in Chimica appellansi di decomposizione, e ricomposizione. Il metodo scolastico è quello, nel quale l’opponente per una catena di ar¬ gomentazioni va a dimostrare la falsità della tesi dell’avversa¬ rio. Sogliono in questo metodo impiegarsi, o sillogismi, od en¬ 311 [p. 314 modifica]DISSERTAZIONE LOGICA timemi, i quali altro non sono, che sillogismi mutilati di uno degli antecedenti, che sia già per se medesimo assai chiaro; co¬ me « ogni bestia è irragionevole; dunque il cavallo è irragione¬ vole »: ovvero « il cavallo è bestia; dunque il cavallo è irragione¬ vole ». Vedesi, che nel primo di questi entimemi si omette la minore delle premesse, e la maggiore nel secondo. Deve intor¬ no a questo metodo principalmente avvertirsi, che la conclu¬ sione del primo argomento dell’opponente sia direttamente contraria alla tesi dell’avversario, e che quella degli altri se¬ guenti rinchiuda la proposizione negata dal [211 medesimo. Ciò è quanto di rimarchevole era a dirsi intorno alla perce¬ zione, al giudizio, e al raziocinio, parti interessantissime di quella scienza, che dà regola, e norma alla nostra mente, ed alla ragione dell’uomo: oggetto, che solo è capace di render l’arte di pensare pregevolissima ad ogni sensato Filosofo. 312 [p. 315 modifica]METAFISICA Fugerunt trepidi vera, et manifesta canentem Juvenalis Saty. II. [v. [p. 316 modifica] [p. 317 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELL’ANIMA UMANA 315 [p. 318 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE 316 [p. 319 modifica]I251 L’anima umana; sostanza nobilissima, ad immagine creata di un Ente perfettissimo, quella, che Regina impera sull’uni¬ verso tutto, quella, che dall’Essere supremo solo per se stesso creata aspirar può ad una inconcepibile felicità, essa appunto forma al presente l’oggetto del nostro discorso. Sembra, che l’uomo colpito al vedere la sublimità di quella sostanza, per cui egli distinguesi da ogni altro esser creato, proccurar non debba, che aggrandir col pensiero immaginoso la nobiltà della sua ani¬ ma, ed ognorpiù attribuirgli di pregevoli doti, e di sublimi qua¬ lità, cercando di sempre accrescer quell’impero, che sebben da limiti circoscritto in estension vastissima dato fugli però dal¬ l’Ente supremo. Eppure, oh forza indicibile delle umane in¬ sensate passioni! sembra anzi, che tutti i sedicenti Filosofi altro non cerchino, che togliere a questa nobilissima sostanza ogni pregio, ed \z6 \ abbassarla perfino a renderla uguale a’ bruti me¬ desimi, de’ quali ebbe il dominio. Quale a sminuire il suo im¬ pero sulle creature si sforza di farci intendere, che altri mondi vi sono infiniti, ed altri esseri forse ancora di noi più sublimi, pe’ quali solo, e non per gli uomini, e stelle create furono, e pia¬ neti: quale vuol dimostrarci, che l’uomo non ha sulle bestie al¬ cun dritto, e che ingiustamente noi aggioghiamo i tori, e addo- miamo i generosi puledri, e tendiamo insidie a’ volatili nell’a¬ ria, ed a’ pesci nell’acqua, e che ingiustamente noi ci pasciam de’ lor prodotti, e le nostre mense cuopriamo delle lor carni barbaramente apprestate da crudel cuoco, il quale non arrossi¬ sce di disegnar le vivande su bestie ancor vive, e giusta la espression di Plutarco « dapes parare, digerereque condimenta certa, 317 [p. 320 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE et quae assanda, et quae apponenda fercula ». Altri con ogni sottilità di malvagio argomento vuol persuaderci a credere non esser la nostra anima che una material sostanza, e mortale, e in nulla I27I però dalle piante, e da’ bruti diversa. Altri compiacesi di toglie¬ re ad essa ogni forza onde agire sul proprio corpo, quale affer¬ mando non esser ella, che la occasione de’ moti di quest’ulti¬ mo, e quale agir facendo questa, e quella sostanza ciascuna in¬ dipendentemente dall’altra, quale come automa spirituale, e quale come automa materiale. Altri finalmente di provar con ogni industria si argomenta non esser l’anima umana libera ad operare, o non operare, ma costretta da indispensabile necessi¬ tà dover ella agir mai sempre a seconda del cieco voler del de¬ stino. Noi non starem qui a contendere se possa, o no ammet¬ tersi la moltiplicità de’ mondi, e quanto da essa deriva; e conce- derem poi volentieri, che coloro, i quali di declamar non cessa¬ no contro l’ecclesiastico digiuno di pochi giorni condanninsi poi, negando all’uomo il diritto di pascersi della carne de’ bruti ad un volontario digiuno perpetuo; ma con ogni studio però tenterem di difendere le |28| altre doti dell’anima umana, che empiamente contrastangli gl’increduli awersarj, la spiritualità cioè, la immortalità; la forza, che ella ha di agire sul corpo, e quella, che ha essa altresì di liberamente determinarsi a secon¬ da del proprio volere. Innumerabili ragioni concorrono a con¬ fermarci nel nostro partito, e ad abbattere le contrarie obie¬ zioni quali ora a sciogliere intraprendiamo. La spiritualità dell’anima umana si fu il primo scopo del¬ l’empio furore de’ nostri awersarj, i quali conoscendo, che am¬ messa una tal dote nell’uomo dovrebbe poi necessariamente 318 [p. 321 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELL’ANIMA UMANA concedersi ancora la immortalità dell’anima, qua hanno rivolti tutti i loro sforzi onde costringere i seguaci della verità a cede¬ re finalmente a’ loro ingannevoli sofismi. Ma le invincibili ra¬ gioni, che a dimostrarla concorrono hanno sempre sostenuto il peso de’ contraij argomenti senza giammai lasciarsi abbattere. Tra queste possono annoverarsi le seguenti. L’uomo pensa, e però |29| ammessa la materialità della sua anima dovrà attribuir¬ si il pensiero alla materia. Ma posto che la materia pensi, o pen¬ serà ciascuna parte del corpo per se medesima, o il corpo tutto insieme. Impossibile è però, che ciascuna parte della materia pensi da se medesima mentre se ciò avvenisse l’uomo pensar dovrebbe eziandìo dopo la dissoluzion del suo corpo, anzi pu¬ re pensar dovrebbono i tronchi, e le piante, nelle quali sia pas¬ sata la materia del corpo medesimo, il che sarebbe un assurdo. Se dunque pensar non possono da se medesime le parti della materia, e se il corpo è composto di particelle non pensanti co¬ me potrà la disposizione, e l’ordine delle particelle suddette far sì, che il corpo atto divenga a pensare? Egli è certo che nulla si trova nell’effetto, che non si ritrovi ancor nella causa, assioma, che può opportunamente applicarsi al nostro caso. Par dunque evidentemente dimostrato, che il pensiero non può convenire alla materia. Di più se il pensiero |3o| appartenesse alla materia esso sarebbe una di lei modificazione intrinseca, giacché il pensiero si è quella azione interna, per cui la sostanza pensante secondo la espressione di un moderno autore «alio modo se ha- bet ad seipsam ». Ma se il pensiero fosse una intrinseca modifica¬ zione della materia esser dovrebbe necessariamente una mate¬ ria modificata, e perciò sarebbe esteso, divisibile, palpabile, il che è un assurdo; dunque il pensiero non può per niun modo appartenere alla materia. Di questa ultima ragione crede però aver trionfato un famoso empio il Sig.r Voltaire colla seguente 319 [p. 322 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE obbjezione. «La matiere, dice egli, a nous d’ailleurs inconnueposse¬ dè des qualitès, qui ne sont pas matèrielles, qui ne sont pas divisibles: elle a la gravita don vers un centre, que Dieu lui a donnèe. Or cette gravita- don n’a point de parties, n’est point divisible. La force motrice des corps organises, leur vie, leur insdnct, ne sont pas non plus des étres à part, des étres divisibles: Vous ne pouvez pas plus couper en deux la vègètadon d’une rose, la vie d’un |3i| Chevai, l’insdnct d’un Chien, que vous ne pouvez couper en deux une sensadon, une negadon, une affirmadon. Votre bel argument tire de l’indivisibilitè de la pensée ne prouve donc rien de tout». Il Sig.r Voltaire va troppo fastoso per un argomento, nel quale ritrovasi in errore sì la sua metafisica, che la sua fìsica. Chi è infatti che ignori accrescersi, o sminuirsi la gravità all’ac¬ crescersi, o sminuirsi della massa, e per conseguenza esser ella realmente divisibile? Chi è, che ignori non essere la forza mo¬ trice per niun modo propria della materia, la quale è per se me¬ desima affatto inerte? Chi è d’altronde, che ignori nella com- municazion del moto perdere il corpo impellente tanta forza quanta ne dona al corpo spinto, e conseguentemente essere il moto propriamente, e veramente divisibile? Chi è, che ignori finalmente, che riducendosi al moto la vegetazione la vita, e l’istinto degli animali, mentre nella proposta obbjezione sol questo può considerarsi in rispetto a’ corpi organizzati, e la ve¬ getazione, e la vita, e I32I l’istinto saran divisibili per la ragione medesima, per cui è divisibile il moto? Nulla certamente di più 320 [p. 323 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELLANIMA UMANA atto a dimostrare l’accecamento de’ nostri awersarj quanto la fol¬ le conchiusione del confutato argomento, nella quale il Sig.r Vol¬ taire francamente afferma la insufficienza del nostro raziocinio. Altra obbjezione oppon qui il Lokio, ed è, che ignorando noi la intima natura della materia conoscer non possiamo per niun conto se il pensiero sia ad essa conveniente. A questa ob¬ bjezione però chiaramente può venir soddisfatto qualor si con¬ siderino gli assurdi, che proverrebbono dalla congiunzione della materia, e del pensiero, i quali abbiamo poc’anzi esposti, e da essi potrà evidentemente comprendersi, che non potendo alla materia convenire i modi contraddittorj quantunque igno¬ risi la di lei natura può nondimeno sicuramente affermarsi, che il pensiero non può appartenergli. Ma ci oppone il principe de’ Materialisti, P|33| antico Epicu¬ ro, che le affezioni del corpo umano passano all’anima dell’uo¬ mo, cosicché l’anima avendo le stesse proprietà, e modificazio¬ ni, che ha il corpo manifestasi essere eziandìo della stessa so¬ stanza, e conseguentemente materiale, e mortale. Noi rispon¬ diamo, che le affezioni del corpo umano passando in qualche modo nell’anima dell’uomo mostrano, che questa è stretta- mente congiunta con quello non però mai, che sì il corpo, che l’anima sono ambedue della natura medesima. «Così, al dir del celeberrimo Porporato il Cardinale Melchiorre di Polignac nel suo Antilucrezio al libro quinto della mente; 321 [p. 324 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE «Così qualunque valoroso in battere Per musica arte la sonora cetra Colle alternanti dita, e in animare Le loquaci minuge, onde addolcirti Col diletico di grata armonìa Gli orecchi, pende dalla stessa cetra, A tal che senza l’accompagnamento D’essa non può sciorre la voce al canto. I34I Poiché se tace infranta, e se disgrazia La scassinò, se in su i bischeri troppo Tese le corde sono, 0 se languiscono Floscie sulla tastiera, e suon non rendesi; O se manchi di quelle una, ovver altra, E se ’l concavo guscio han ragnatele Entro ingombrato sì che resti ottuso Ecco, che affatto professore invano Rimane il Citaredo, e sua perizia A lui nulla giovando, 0 niente, 0 male Citareggia a tal che par l’arte ignori. Porrai la musica arte tu dunque Nella cetra medesma; e l’organista, E l’organo per te saran tutt’uno?» Tali sono le parole del sopralodato Cardinale di Polignac, nelle quali egli giustamente di provare argomentasi non essere la corrispondenza, che passa tra l’anima, ed il corpo dell’uomo capace per niun modo di dimostrare la materialità dell’umana mente. |351 Concessa adunque la spiritualità dell’anima dell’uomo non sarà certo difficile il persuadersi della sua immortalità, 322 [p. 325 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELLANIMA UMANA mentre un essere semplice non può perire per alcuna dissolu¬ zione di parti. Questo si è l’argomento di Marco Tullio, il quale nel primo libro delle Tusculane così si esprime. «In animi cogni- tione dubitare non possumus nisi piane in Physicis plumbei sumus quin nihil sit animis admixtum, nihil concretum, nihil copulatum, nihil coag- mentatum, nihil duplex. Quod cum ita sit, certe nec secerni, nec dividi, nec discerpi, nec distrahi potest: nec interire igitur. Est enim interitus quasi discessus, et secretio, ac direptus earum partium, quae ante interi- tumjunctione aliqua tenebantur». D’altronde sicuri possiam chia¬ marci della nostra immortalità e per la divina promessa, alla quale empiamente mostrano di prestar fede due famosi Mate¬ rialisti Saint-Evremond, e Voltaire protestandosi di arrendersi so¬ lamente ad essa, non potendo la ragione renderli persuasi della immortalità della loro anima, secondo essi si (361 esprimono, e per il premio, e la felicità, che necessariamente conseguir deb¬ bono i giusti, ed il gastigo, a cui soggiacer debbono i malvagj, e per la comune esperienza finalmente la quale ci mostra, che non riducendosi al nulla il corpo non dovrà certamente dal¬ l’Ente supremo esser ridotto al nulla lo spirito sostanza grande¬ mente più nobile del corpo medesimo. Questa verità però di¬ mostrata da sì evidenti ragioni si è quella, che più di ogni altra dispiace ai libertini, e meritamente secondo Lucrezio: 323 [p. 326 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE «Nam si certum finem esse viderent sErumnarum homines aliqua ratione valerent Relligionibus, atque minis obsistere vatum: Nunc ratio nulla est restandi, nulla facultas, yEternas quoniam poenas in morte timendum. Laonde: ... Metus ille foras praeceps Acheruntis agendus Funditus humanam qui vitam turbat ab imo Omnia suffundes mortis nigrore nec ullam |37| Esse voluptatem liquidam, puramque relinquit». Vedendo dunque i nostri avversar] il precipuo argomento a dimostrare la immortalità dell’anima umana quello esser, che deducesi dalla di lei spiritualità, questo han tentato con ogni sforzo di rendere inutile onde farsi certi della corruttibilità del¬ la loro mente. «Tantus, esclama qui il citato Cardinale celeberri¬ mo di Polignac, «Tantus amor nihilil tanta est vecordia! solum hoc Permetuunt caeci, ne mens compage soluta Duret adhuc nimium vivax, bustoque superstes Evolet». Tutte le cure, tutti gli sforzi di uomini creduti sapienti, e Fi¬ losofi son diretti a persuadersi non contener essi, che putredi¬ ne, e fracidume, e non essere in nulla differenti dalle bestie più schifose, e più vili! L’anima de’ bruti, essi dicono, secondo un assai probabil si¬ 324 [p. 327 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELLANIMA UMANA stema, del quale non potrà mai dimostrarsi la falsità è ancor es¬ sa |38| spirituale. Contuttociò le anime de’ bruti non sono nè posson dirsi immortali, laonde dalla cognizione della spiritua¬ lità non può per niun modo dedursi quella della immortalità. Ad un tale argomento, sul quale precipuamente si fondano i nostri awersaij, un moderno prestantissimo Autore il P. Anto¬ nino Vaisecchi validissimo persecutore della incredulità così ri¬ sponde nel libro primo, capo quinto de’ suoi Fondamenti della Religione. Quantunque, dice egli, dalla spiritualità dell’anima de’ bruti dedur si voglia la sua naturale incorruttibilità « dal non essere però essa dotata di quelle facoltà ond’è dotata l’anima umana cioè dal non essere capace d’idee astratte, ma di sole sensazioni, ne segue, che in lei non v’ha nè raziocinio, nè libertà, nè merito, nè reato, nè attività a conoscere la verità, e a goderne: nel che la felicità dell’altra vita è riposta. In conseguenza di ciò le ragioni, che ci persuadono dover eternamente durare l’anima umana separata dal corpo, non hanno I39 j luogo a favor dell’anima de’ bruti, quand’anche dir vogliasi spirituale: la qual perciò giusta i difensori di questo sistema, 0 dirsi può, che compiuto il suo fine, ch’è l’animazione d’un corpo resti annichilata, e jaccia da corpo a corpo passaggio ». E qui mi sia lecito osservare essere la proposta parità assai insufficiente per la ragione, che in essa opponesi l’oscuro all’evidente, il dubbio al certo, ed in tal modo pretendesi di ro¬ vesciare argomenti sodissimi fondati sopra stabilissime basi, quali sono la spiritualità, e la intima natura della mente umana. Noi infatti per l’interno testimonio della nostra propria cogni¬ zione chiaramente comprendiamo esser l’anima umana fisica- mente, e naturalmente incorruttibile, il che posto, non è a noi necessario il disputare sulla natura dell’anima de’ bruti nè la difficoltà di sciorre quelle questioni, che muover si possono su tale intricatissimo oggetto può servir di sufficiente motivo a di¬ struggere, o indebolire la |4o| solidità del nostro argomento. 325 [p. 328 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE Questa obbjezione esamina accuratamente, e valorosamente combatte il Sig.r Boulier nella Parte Seconda, capitolo decimo- terzo del suo Saggio Filosofico sopra l’anima delle bestie. Sciolta, e dissipata la più abbagliante obbjezione de’ nostri awersarj non ardiranno essi più levar la fronte sicura, ed ol¬ traggiarci, e combattere contro una verità, che da tutti i popoli, e da tutte le nazioni venne universalmente, e in ogni tempo ri¬ conosciuta, talché nel libro primo, capo decimosesto delle Tu- sculane disputazioni non dubita Marco Tullio di affermare, che noi dal consenso di tutte le nazioni precipuamente deduciamo la immortalità della nostra anima. «Permanere animas arbitramur consensu nationum omnium »: il quale universal consenso è da es¬ so lui stimato una prova delle più convincenti a dimostrare qualsivoglia verità. Tutte infatti le più barbare genti ebber sem¬ pre e cognizione di una vita |4i| awenire, e cura de’ funerali onori da rendersi a’ morti corpi, le cui anime esistevano tut¬ tavìa incorrotte, ciò che afferma lo stesso Marco Tullio nel libro secondo delle Tusculane allorché dice « omnibus curae sunt quae post mortem futura sunt». Qual cosa diffatto più necessaria a te¬ nere in freno le umane passioni, ed a por riparo alla sempre crescente moltitudine di vizj formando per tal modo il fonda¬ mento, e il nodo del commercio, e la sicurezza della società? Ed in realtà dalla stessa cognizione dell’Ente supremo noi de¬ duciamo quella della immortalità dell’anima umana non po¬ tendo la Divina giustizia, e prowidenza ammettersi in conto alcuno qualora non si ammetta altresì una tale proprietà della mente dell’uomo. Questo era il sentimento del celeberrimo 326 [p. 329 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELL'ANIMA UMANA Guglielmo Gottifredo Barone di Leibnitz, il quale combattendo la opinione del Pufendoiff non potersi cioè col solo lume naturale acquistare una certa, e distinta cognizione della immortalità dell’anima umana, così si esprime. |42| «Verum enim vero licet tam verum esset, quam Jalsum est, immortalitatis animae plenam demon- strationem a naturali ratione non suppeditari; sujficeret tamen... ec. Neque aut consensus omnium pene Gentium, aut insitum desiderium immortalitatis spemi possunt, sed firmum argumentum, et obvium om¬ nibus, ut cetera nuncpraeteream subtiliora, praebet ipsa divini Numinis agnitio... Neque enim dubitali potest, Rectorem Universi sapientissi- mum, eumdemque potentissimum bonis praemia, malis poenas desti¬ nasse, et exequi destinata in futura vita, quando in hacpraesente plera- que impunita, impensataque transmitti constat». Ad altra questione ora ci chiama l’ordine del nostro discorso, ed è qual sia la legge del commercio, che passa tra l’anima, e il corpo dell’uomo. Tre sistemi furono proposti a disciorla detti l’uno delle cause occasionali, l’altro deìYarmonìa prestabilita, e il terzo dell’ influsso fisico. Il primo sistema escogitato dal gran Cartesio è quello, il quale afferma, che data la occasione dalla volontà dell’anima umana di I431 eccitarsi il moto nel corpo vie¬ ne esso tostamente eccitato ne’ suoi membri dall’Essere Supre¬ 327 [p. 330 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE mo. Un tal sistema ammesso da molti Partigiani, e seguaci di Descartes vien giustamente rigettato da quasi tutti i Filosofi di buon senso, come quello, il quale priva l’anima umana della forza attiva ponendola nel corpo qual tronco immobile incapa¬ ce di muoversi, e di operare meccanicamente, talmentechè quella sostanza, la quale dal supremo Essere ebbe universal do¬ minio sulla terra tutta ammettasi non avere alcuna attiva facol¬ tà di operare neppur sul proprio suo corpo. Di questo sistema si fa beffe uno sensato scrittore il quale trattando della opinio¬ ne stravagante de’ Cartesiani così parla. «È un errore fanciullesco dicono essi (i Cartesiani) il pensar, che facciamo di essere noi gli autori di que’ movimenti, che tuttodì sperimentiamo ne’ nostri corpi quasiché l’anima nostra, la nostra mente fosse capace di farli. Prendete dunque un archibugio, e scaricandolo contro quel vostro nemico stendetelo morto a terra: o pur pigliate I44I un grosso bastone in mano, e scagliatelo sopra il di lui capo. Stimerete senza dubbio d’aver voi ucciso quell’infelice; ma è un errorfanciullesco. Solo Dio fu l’autore del moto della mano, che servì a lui d’istrumento per dare a colui la morte. Spezza quel servidore lo scrigno del suo padrone, e carico d’oro va a mutar aria, e fortuna. Pensa colui d’aver fatta sì bella azione; ed e un error fanciullesco. Solo Dio die¬ de il moto agli spiriti delle sue mani, che servirono d’istrumenti, 0 di oc¬ casione a Dio per ispogliar quel ricco del suo tesoro. Mormora uno, e de¬ trae, 0 per invidia, 0 per altro all’onore di quella persona onorata. Stima colui d’aver egli pronunziato quelle infami parole, ed e un error fanciul¬ lesco; solo Dio fu quello, che diede moto a quella lingua, e articolò quelle voci. Lo stesso diciamo pure d’un Angelo. Che uno spirito maligno entri in un corpo umano, muova in esso e lingua, e mano, e piedi, e tutto final¬ mente quel corpo? È cosa degna di risa, ed è favola appresso di essi da dar 328 [p. 331 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELL’ANIMA UMANA da intendere a semplici vecchiarelle; quindi non è credibile ciò, che 145 j hanno scritto gli Evangelisti di quell’energumeno, che era tormentato, e lacerato da uno spirito diabolico, e fu liberato dal Salvatore. Lo stesso di¬ te di tante azioni fatte dagli Angeli, e narrate dalla Sacra Scrittura; per¬ chè appresso i Cartesiani veruno spirito 0 buono, 0 reo, che sia non è nè può essere principio di moto ». Il sistema di Leibnizio detto dell’armonia prestabilita è quello, il quale afferma, che ciascuna delle due sostanze componenti l’uomo operano l’una indipendentemente dall’altra con una continuata successione di azioni, e di moti già stabilita avanti la congiunzione di queste due sostanze finché compiuta la ordi¬ nata catena di operazioni cessano ambedue di agire in quel modo appunto, in cui un oriuolo cessa di muoversi allo scari¬ carsi delle sue molle. Da questo sistema segue necessariamen¬ te, che l’anima di Virgilio posta nel corpo di Orazio avrebbe escogitata la Eneide nel mentre, che il corpo seguendo la pre¬ scritta I461 armonìa avrebbe vergate le Odi, il che sembra affatto assurdo, e ridicolo. Inoltre in questo sistema l’anima viene del tutto privata della forza attiva non solo in quanto al materiale dell’azione, ma ancora in quanto alla volontà, la quale, ammes¬ sa la ipotesi di Leibnizio, non potrebbe per niun modo deter¬ minarsi a sua posta a muovere il corpo qualora alla sua volontà consentanea non fosse la prestabilita armonìa, dalla quale solo dipender dovrebbono tutte le umane operazioni, ciò che è manifestamente contrario a tutte le metafìsiche leggi. Vaglia fi¬ nalmente per ogni più forte dimostrazione l’autorità dello stesso Leibnizio, il quale conosciute le assurdità provenienti 329 [p. 332 modifica]1 DISSERTAZIONI METAFISICHE dalla sua ipotesi così scrive a Paffio ingenuamente confessando non aver egli inteso dare alla medesima nel proporla il vigor di sistema. «Non debbon sempre i filosofi seriamente disputare, e trattar le questioni, essi, che nel formar le ipotesi fan prova delle forze del loro ingegno ». |47| Più atto di ogni altro a spiegare le leggi del maraviglioso commercio, che passa tra le due sostanze componenti l’uomo si è il sistema chiamato dell’ influsso fisico, in cui l’anima dell’uo¬ mo è posta come causa efficiente de’ moti del corpo, i quali es¬ sa si determina a produrre, e produce in realtà a seconda del proprio volere per mezzo di un fìsico influsso, col quale altresì agisce il corpo sull’anima reciprocamente. La verità di un tal semplicissimo sistema può solamente comprendersi da coloro, i quali non hanno l’animo preoccupato da contrarie opinioni, mentre questi solo che per poco attendano alla intima causa de’ moti del loro corpo, e delle sensazioni della loro anima non potranno non essere naturalmente tratti nel nostro parere; che se poi voglia dirsi affatto vano questo interno sentimento ca¬ gionato dalla testimonianza della natura medesima, dovrà ne¬ cessariamente ammettersi un universal Pirronismo. La più for¬ te obbjezione, che soglia comunemente I481 farsi a questa ipote¬ si è, che non può per niun modo intendersi come una sostanza spirituale influir possa, ed operare sopra una sostanza corporea, e vicendevolmente una sostanza corporea sopra una sostanza spirituale. Ma non potendo per niun modo dimostrarsi la im¬ possibilità di tal reciproco influsso, mentre l’Ente supremo so¬ stanza semplicissima agisce realmente sui corpi per una forza propria della sua essenza, sembra doversi ammettere questo si¬ stema, che dalla natura medesima, e dalla insufficienza di ogni 330 [p. 333 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELLANIMA UMANA altra contraria ipotesi vien comprovato. Noi certamente non conosciamo tutte le qualità dello spirito, e d’altronde sapendo non essere questa forza di agire sui corpi contraddittoria alla sua essenza nulla ci vieta di annoverarla tra le proprietà spet¬ tanti alla mente umana. Può vedersi evidentemente dimostrata una tale attitudine, e sufficienza dello spirito a muovere imme¬ diatamente da se stesso |49| la materia nella prima parte delle Lettere Familiari del Conte Lorenzo Magalotti alla Lettera decima- quinta. Vinti, e debellati per ogni parte i nostri awersarj riduconsi finalmente a contrastare all’uomo il libero arbitrio, e qui è do¬ ve essi credono aver trionfato. A disingannarli, seppur ciò non è un tentar l’impossibile, e a pienamente convincerli del loro er¬ rore noi esporremo in prima la vera nozione della libertà del¬ l’uomo, e dopo aver questa dimostrata passeremo a confutare le contrarie obbjezioni. La libertà viene dall’Angelico Dottore definita una facoltà di eleggere: «Liberum arbitrium nihil aliud est quam vis electiva » poiché «proprium liberi arbitrii est electio. Ex hoc enim liberi arbitrii esse dicimur quodpossumus unum recipere, alio recu- sato: quod est eligere». Questa facoltà di eleggere vienci dimostra¬ ta dall’intimo sentimento naturale, e dalla quotidiana esperien¬ za per modo, che sol coloro, che l’|5o| animo hanno pervertito, e accecato l’intelletto possono rivocarla in dubbio. Eh chi diffat- to potrà mai persuadersi, che egli agisce necessariamente allor¬ ché vede, che è in sua balìa il fare, o il tralasciare qualsivoglia azione, il continuarla, o il sospenderla; l’appigliarsi a questo, o 331 [p. 334 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE a quel partito? Un fanciullino ripreso da’ suoi genitori per qualsiasi mancanza non addurrà mai per sua scusa una forza in¬ tima, che lo costrinse ad operare, alla quale gli fu impossibile l’opporsi eppure sappiamo, che il linguaggio de’ bambini è ap¬ punto il linguaggio della natura. Che se egli oppresso da alcuna malattìa venga punito perchè non attese diligentemente allo studio saprà ben dolersi, ed allegare in sua difesa la cagione, che gl’impedì di adempire a’ suoi doveri. Nulla alcerto mostra la natura più chiaramente all’uomo, che la sua libertà. Ed infat¬ ti «non isperimentiamo noi, al dir del sopralodato P. Antonino Vai¬ secchi, prima di risolvere la nostra |si| indifferenza?E non ci sentiamo in egual potere di far l’azione, e di lasciarla? E non antivediamo noi, e ri¬ solviamo, e prediciamo ciò, che sarem per fare non solo nell’istante, che segue, ma dopo giorni, e mesi, ed anni, a nuli’altro appoggiati, che al li¬ bero nostro volere, cioè alla persuasione, che abbiamo di essere ora, e do¬ verlo pur esser sempre delle azioni nostre padroni? E non siamo consape¬ voli a noi medesimi, che preso abbiam quel partito, perchè lo abbiamo voluto, e lo abbiamo scelto: ma ch’era egualmente in nostra balìa il non isceglierlo, e non volerlo?E d’onde nasce infatti l’amaro rimprovero con cui condanniamo noi stessi per mille intraprese qualor malamente riesco¬ no, se non dal sentir vivamente ch’era in nostra facoltà il tralasciarle, o il dirigerle in altra guisa?» Così egli citando a questo passo quei ver¬ si di Giovenale: «Exemplo quodcumque malo committitur, ipsi Displicet auctori; prima est haec ultio, quod se Indice nemo nocens absolvitur, improba quamvis Gratia fallacis Praetoris vicerit urnam». |52| Qual cosa può dunque esser capace di scancellar dalla 332 [p. 335 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELLANIMA UMANA mente di un sensato filosofo la idea della propria libertà? Per dubitare della verità della nostra proposizione «ci converrebbe, come esprimesi il sopra citato illustre scrittore, cadere in un Pir¬ ronismo universale, e darci a credere, che il nostro Autore ci abbia forma¬ ti in guisa, che sempre erriamo anche in ciò, che sperimentiamo più viva¬ mente, e di cui per qualunque sforzo si adoperi ottener non possiam da noi stessi di vacillare in buonafede. Ma contro un tal timore la sapienza, e bontà infinita del nostro Autore medesimo ci assicura ripugnando al¬ l’idea di questi, e d’altri attributi dell’Essere perfettissimo aver soggettate creature ragionevoli ad un costante sistema, in cui non potessero far uso di lor ragione». Ma questo luminoso argomento tratto dalla intima naturale esperienza tenta il Collins di render vano. Osserva egli la diffe¬ renza, che passa tra le diverse teorìe proposte da’ Filosofi a spiegar la natura della libertà, le questioni I53I insorte sopra un tal punto, le incertezze de’ sapienti circa la vera nozione del li¬ bero arbitrio, e quindi «comment, esclama, tout cela peut-il arrìver dans unfaitsi clair, et qu’ on suppose, que chacun eprouve en lui-meme? quelle difficultè peut-il avoir à ètablir unjait clair, et simple, et à mar- quer ce que chacun sent? Quel besoin y a-t-il de tant philosopher?» Così il Collins nelle sue ricerche sopra la libertà. Ma noi pre- ghiam qui il nostro avversario a riflettere, che le dissensioni, e le dispute in materie di tal fatta non furon giammai capaci di dimostrare la falsità de’ dogmi filosofici. Chi infatti può dubi¬ tar del suo pensare? eppure chi può conoscere in che propria¬ mente consista il pensiere, e qual sia la intima natura di esso? Ma qui i nostri awersaij usurpando per fondamento della 333 [p. 336 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE loro obbjezione una delle più certe proposizioni metafìsiche, cioè, che l’anima dell’uomo nulla brama se non riguardando J541 la cosa bramata sotto l’aspetto di bene, e nulla odia, o rifiuta se non sotto l’aspetto di male, conchiudono che dunque la vo¬ lontà dell’uomo non può determinarsi a seguire il male come male, e che dipendendo essa in tutte le sue operazioni dall’in¬ telletto deve necessariamente seguire, e bramare ciò, che l’in¬ telletto riguarda, e giudica doversi riguardare sotto l’aspetto di bene, e che conseguentemente essa non può dirsi libera. Que¬ sta obbjezione però vedrassi svanire da se medesima qualora si consideri la dottrina del libero arbitrio proposta dall’Angelico Dottore delle scuole 5. Tommaso, del quale per confessione de’ più sapienti scrittori niuno ha meglio trattata questa al sommo ardua, e disastrosa materia. Ritrova egli adunque la radice della libertà dell’uomo nell’intelletto, il quale siccome dal naturale amor di se stesso è tratto a cercar sempre il proprio bene così è poi affatto indifferente in riguardo ai particolari I55I oggetti. Laonde l’intelletto dell’uomo senza alcuna previa violenza, o necessità esamina i diversi partiti, che gli si paran d’innanzi, e dopo aver sopra di questi formato il suo giudizio propone quello, che tra essi vien da lui giudicato il migliore alla volontà con una specie d’impero, il quale però al dir dell’Angelico «est actus rationis praesupposito actu voluntatis in cujus virtute ratio movet perimperium ad exercitium actus». La volontà dunque mossa, e co¬ me accesa dall’amor del bene, ossìa della propria felicità, o ap¬ parente sia questa, o reale si determina finalmente, ed elegge ciò, che l’intelletto giudicò degno di essere eletto. L’uomo è adunque libero per questo appunto perchè «agit judicio quia per vim cognoscitivam judicat aliquid esse fugiendum, vel pròsequendum: sed quia judicium istud non est ex naturali instinctu in particulari ope¬ 334 [p. 337 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA LE DOTI DELL’ANIMA UMANA rabili, sed ex collatione quadam rationis; ideo agit libero judicio potens in diversa ferri. Ratio enim circa contingentia habet viam ad opposita... I561 Particularia antem operabilia sunt quaedam contingentia; et ideo circa eajudicium rationis ad diversa se habet, et non est determinatum ad unum: et prò tanto necesse est, quod homo sit liberi arbitrii ex hoc ip¬ so quod rationalis est». Così l’Angelico. Ed ecco colla scorta del Dottor delle scuole sciolta, e dissipata quella obbjezione, sulla quale principalmente fondati i nostri awersaij osavano contra¬ stare all’uomo la facoltà di liberamente determinarsi, e risolve¬ re. Possano questi finalmente riconoscere le sublimi doti di quella sostanza, mercè la quale, tranne gli Angelici spiriti l’uo¬ mo s’innalza al di sopra di ogni ente creato; e nel tempo stesso por argine alla forza sfrenata delle loro passioni, che sole furon cagione della empia guerra mossa da uomini sedotti, e sedutto¬ ri alla verità. 335 [p. 338 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA GLI ATTRIBUTI, E LA PROVVIDENZA DELL’ESSERE SUPREMO [p. 339 modifica]336 |57ì -La cognizione della esistenza del Supremo Essere ci porta necessariamente a quella de’ suoi attributi, e della sua Provvi¬ denza. Per quanto debole, ed inferma sia la pupilla della ragio¬ ne incapace di sopportare l’abbagliante fulgore delle proprietà del Divino Essere perfettissimo noi possiam però contemplar come da lungi i suoi altissimi attributi convenienti, anzi neces¬ sariamente inerenti alla sua essenza. Nè da questi, vuoisi di¬ sgiungere quella insigne, e felice Provvidenza, colla quale il Su¬ premo Essere modera, e regge tutte le mondane vicende indi¬ rizzandole mai sempre a quel fine, che sommamente è degno della sua essenza, vale a dire alla gloria di se medesimo, Provvi¬ denza, che sola è capace di render l’uomo sicuro, e tranquillo in mezzo alle torbide procelle di questa tempestosa vita morta¬ le. Gli I581 attributi adunque, e la provvidenza dell’Ente supre¬ mo formano al presente gli assunti del nostro discorso. Noi tenterem di manifestare col più esatto raziocinio la convenien¬ za dei primi alla essenza Divina, e di mostrare co’ più forti ar¬ gomenti la realtà della seconda a fronte de’ sofismi ingannevoli de’ non mai abbastanza detestati increduli nemici della verità, la quale sarà mai sempre la guida, la base, e lo scopo di ogni no¬ stro ragionamento. Dio è l’Essere supremo «giacche, al dir di un moderno filoso¬ fo, da ninno dipende chi è da se stesso: e tutto dipende da lui, che ha in se la ragion adeguata dell’essere di ogni cosa. Egli è perfettissimo, ag¬ giunge il citato Autore, poiché perfezione veruna mancar non può a chi, essendo da se medesimo la pienezza dell’essere essenzialmente con¬ tiene, nè da ragione alcuna esser può limitato». Se dunque è Dio un essere sommamente perfetto debbono nella sua I591 essenza contenersi tutte le perfezioni in grado eccellentemente som¬ 337 [p. 340 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE mo, ed infinito. Dio conosce dunque se medesimo, e tutto ciò, che ad esso appartiene, nè questa cognizione è confusa, o succes¬ siva come quella, che ha di se medesima l’anima umana, la quale non può con un atto unico ravvisare, e conoscere tutte insieme le sua proprietà, cosa, che al solo Ente Supremo essenzialmente conviene, ma distinta, e simultanea, cioè capace di distinguere, e conoscere tutti i di lui attributi con un atto unico, e solo. Dio conosce eziandìo tutti gli enti, nè questa cognizione si estende soltanto agli esseri realmente, ed attualmente esistenti, ma ancora agli esseri meramente possibili, ed è ancor essa di¬ stintissima, e simultanea. Dio conosce tutte le verità, la loro unione, il loro seguito, la loro corrispondenza per mezzo di una ragione assolutamente somma, ed infinita, la quale fa, che egli con un atto |6o| unico conosca simultaneamente il principio, e la conseguenza senza far passaggio dall’uno all’altra. Egli è infatti evidente, che la ra¬ gionevolezza è una perfezione dell’anima umana, il che non può mettersi in dubbio, e posto ciò convenendo all’Ente supre¬ mo tutte le perfezioni in grado assolutamente sommo vedesi chiaramente convenire a Dio un eminente perfettissimo razio¬ cinio ad ogni umano intelletto incomprensibile. Dio conosce perfettamente, e prevede il futuro giacché avendone ancor l’uomo qualche benché debole cognizione Dio, che tutte le perfezioni essenzialmente contiene in grado eccellentemente sommo deve questa altresì possedere scevra di ogni imperfezione. Dicesi scienza di visione, o previdenza quella, per cui Dio prevede le cose future, ed appellasi scienza 338 [p. 341 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESSERE SUPREMO di semplice intelligenza, quella per cui Dio conosce le cose meramente possibili. |6i| Chiamasi finalmente scienza media quella, per cui Dio conosce i futuri condizionali, ossìa ciò, che accaderebbe qualora avesse luogo una data circostanza. Quelli, che riguardano i futuri condizionali come cose meramente possibili tolgono la scienza media riducendola a quella di sem¬ plice intelligenza. Dio è un essere pienamente libero per essenza come quello, che le cose tutte liberamente creò, e compose lasciando agli es¬ seri ragionevoli la facoltà di liberamente determinarsi, facoltà, che come essenzial perfezione deve necessariamente ad esso appartenere in grado assolutamente sommo. Dio è immutabile sì nelle sue perfezioni, che ne’ suoi decre¬ ti. Egli diffatto non può nè acquistare, nè perdere alcuna delle prime, mentre se ciò fosse egli mancar potrebbe di qualche per¬ fezione, o perduta, o non peranco acquistata, e per conseguenza non sarebbe sommamente \ 6i\ perfetto. Dio è dunque immuta¬ bile nelle sue perfezioni. Egli lo è ancora ne’ suoi decreti men¬ tre sin da tutta l’eternità conobbe, ed ebbe a se presenti quelle ragioni di volere una cosa, che conosce al dì d’oggi nè può per conseguenza giammai cangiare gl’immutabili suoi decreti. Dio è ne’ suoi voleri sommamente saggio mentre egli non può giammai volere il male, nè proporselo per fine ripugnando ciò alla sua essenza. Nè la moltitudine de’ mali metafìsici, fisici, e morali, che nel mondo ritrovasi si oppone in modo alcuno a 339 [p. 342 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE questa infinita Divina Sapienza, giacche «neque Deus Omnipo- tens ullo modo sineret mali esse aliquid in operibus suis, nisi usque adeo esset omnipotens, et bonus ut bene faceret edam de malo» come il grande S. Agostino esprimesi nel capo n. del suo Enchirìdio. \6i \ Dio è un essere semplicissimo, e spirituale giacche qual¬ sivoglia Ente materiale, e composto involge imperfezione nel¬ le parti ed un essere perfettissimo non può contenere nella sua essenza imperfezione alcuna. Dio possiede in grado eminente e la potenza, e la giustizia, e la veracità, e la clemenza perfezioni, che appartenendo in qual¬ che modo ancora all’uomo debbono secondo lo stabilito prin¬ cipio contenersi nella essenza Divina in grado assolutamente sommo. Dio è beato, giacche, «egli, come esprimesi un moderno scrittore, se stesso comprende, che è infinito vero: se stesso ama, che è in¬ finito bene: da tal conoscenza, ed amore unagioja infinita ridonda: tutto ciò la vera beatitudine costituisce; e tutto ciò è una cosa stessa in Dio, cioè la sua medesima essenza: dunque Iddio è beato, ed essenzialmente beato, e infinitamente beato. 1641 Iddio, segue egli, è la beatitudine delle creature ragionevoli: giacché essendo la beatitudine, 0 sia ultima felicità uno stato perla com¬ prensione di tutti i beni perfetto, e questi beni tutti trovandosi in Dio, ch’è l’Essere perfettissimo, chi giugne a possederlo, veggendolo è piena¬ mente felice; poiché non v’ha più desiderio alcuno in lui, che non sia del tutto satollo: siccome per ciascheduno scorrendo dimostra S. Tommaso. Iddio adunque è la nostra sovrana beatitudine». Dio è immenso, ed esiste in ogni luogo «perciocché, al dir del¬ 340 [p. 343 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESSERE SUPREMO l’Abbate Sauri, se potesse darsi che Dio non fosse in una qualche parte del mondo, si potrebbe supporre eziandio, ch’egli non esistesse nella parte vicina, e così nelle altre. Si potrebbe supporre altresì, ch’egli non esistesse in verun luogo, e conseguentemente, ch’egli non esistesse. Dunque egli esiste per tutto, ed è immenso ». Dio è uno. La importanza di questo attributo (651 è tale, che tolta la unità di Dio non può affermarsi la di lui esistenza. «Deus si unus non est, non est» come esprimesi Tertulliano nel li¬ bro primo contro Marcione. E diffatto se si ammettesse la plu¬ ralità de’ Numi dovrebbon questi necessariamente esser enti imperfetti, giacche, per servirmi delle parole dal chiarissimo P. Paolo Segneri poste nell’aureo suo libro dell’Incredulo senza scusa, «per qual via dovrebbon distinguersi l’un dall’altro? Per via di qualche perfezione diversa, che in loro fosse, 0 d’imperfezione? Pervia d’imperfezione non è possibile perchè il Bene sommo debbe essere Bene esente d’ogni difetto. Dunque converrebbe, che si distinguessero a forza di perfezioni. Ma come ciò se il Bene sommo non può non accorle tutte? Niun di loro in tal caso sarebbe Dio, mentre a ciascun di loro manche¬ rebbe quel pregio, che fosse il proprio, e il preciso del suo consorte. Dun¬ que Iddio non può essere mai più d’uno: Porro nihil summum |66| bo- num, nisi plenis viribus unum... Oltre a che: 0 questa pluralità sarebbe dispiacevole a ciascun Dio, e ne seguirebbe, che ciascun di loro fosse infe¬ lice, mentre dovrebbe fra’ suoi contenti divorare questa amarezza di ha- ver collega, senza poterla mai digerire: 0 non sarebbe dispiacevole punto, e ne seguirebbe, che ciascuno fosse insensato mentre non sentirebbe un di¬ fetto, inevitabile al pari, ed interminabile, che non potrebbe dargli altro 341 [p. 344 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE che confusione: tanto più, che da quelle ingiurie, che Dio riporta ogni giorno da’ peccatori, può cavar qualche gloria, che le compensi. Ma quale gloria potrebbe un Dio ricavare da quei discapiti, che riportasse dall’al¬ tro di Monarchia? Sarebbono di lor genere incompensabili. Adunque tanto è volere multiplicar la Divinità quanto è volere annullarla». «Multitudo Numinum, nullitas Numinum » lo disse già Atanasio, e Tertulliano ci fe’ avvisati di cercar la prova della unità di Dio\67\ nella sua essenza. «Deum ut scias unum esse debere, quare quid sit Deus». Par che, lo stesso Sofocle, conoscesse Iddio uno, e tale lo confessasse in que’ suoi versi: «Un solo invero è Dio, lui, che la terra, E il ciel creò, lui, che del mare ai flutti, E de’ venti diè legge al soffio, all’ira. Ma noi ciechi mortali altari ergemmo A fìnti Numi, e simolacri ergemmo, O d’avorio formati, o bronzo, o marmo: Stolti pietà crediamo in pazze feste Invano ad essi offrir vittime, e sangue ». 342 [p. 345 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESSERE SUPREMO Ma vegliante sempre, ed intento a proteggere il suo Ateismo ci oppon qui il Bayle stoltamente, che il Politeismo è confer¬ mato dal consenso di tutte quasi le nazioni, le quali per gran tempo prestaron fede alla mitologia, dal che vuol egli inferire, che essendo il Politeismo affatto mostruoso, ed irragionevole, e non potendo per niun modo valere a dimostrarlo l’universal consenso delle genti, non potrà questo dimostrar neppure la esistenza |68| dell’Essere Supremo. Noi ci serviremo per ribat¬ tere questa obbjezione di Bayle delle parole di Mr. Bernard, suo famoso avversario, il quale indirizzando al medesimo le sue parole così si esprime. « Voi mi dite, che tutti coloro, i quali han¬ no creduta una Divinità, hanno altresì creduta la pluralità degli Dei: se dunque il sentimento loro prova cosa alcuna, prova, e assai meglio l’esi¬ stenza di più Dei, che un Dio solo. Io rispondo, che se tutti i popoli del mondo si fossero sempre accordati, e oggi pur s’accordassero in credere un certo fisso numero di Divinità; e tali Divinità determinate; sarebbe egli questo un forte argomento per asserire, che tutte esistano coteste Divini¬ tà: ma la cosa non va in tal modo. Dopo che tutti gli uomini detto han¬ no con una voce comune: havvi una Divinità, si dividono in una infini¬ tà di sette differenti, e non si trovan due popoli, che ammettano nè gli stessi, nè il numero stesso di Dei. Quando parlano (69) con un linguaggio medesimo, io gli ascolto, perchè credo essere questa la voce della natura: Ma da che più non s’accordano, e parlano diversamente, io comincio a disaminare chi ha il torto, e chi ’l diritto. Ed in qual foggia potrà provar¬ si, che tutti ipopoli abbiano creduto sempre il Politeismo?Forse col testi¬ monio d’Orfeo, d’Omero, 0 d’Esiodo? Ma facciasi l’onore a Mosè d’ac¬ cordargli tanto d’autorità, quanto a questi tre antichi Poeti. Che se gli può conceder di meno? Or questo antico Legislatore m’insegna essere 343 [p. 346 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE scorsi più di due mill’anni, senza che ipopoli abbian pensato alla plura¬ lità degli Dei: conciòsiacosachè se pensata vi avessero, detta ei ce ne avrebbe alcuna cosa. Evvi di più qualche apparenza di credere, che il Po¬ liteismo più antico non sia della Torre di Babilonia: come dunque potrà ei vantarsi d’un consenso tanto uniforme quanto lo ha il Deismo? (cioè il sistema, che ammette un solo Dio). I Politeisti collo ammetter più Dei, |7o| ne stabiliscono uno: ma tutti i popoli, che non hanno rico¬ nosciuto, che un Dio, non hanno certamente ammesso il Politeismo ...Io non credo, che debba farci impressione ciò, che si dice intorno all’autorità del maggior numero, e intorno all’argomento, che i Pagani quinci pren¬ dono, per rigettare il Cristianesimo. Imperciocché e qual’è mai quella Nazion tra’ Pagani, che abbia potuto mostrare, che la sua opinione in materia di Religione, era allora, ed era stata mai sempre di consenso unanime ricevuta ? Come poteasi far ciò, se sapevan eglino la nascita della maggior parte de’ suoi Dei... e se ciò che adorato era presso d’una nazione, era dalla nazione vicina sagrificato a quegli Dei, eh’essa adora¬ va? Non bisogna lasciarsi abbagliare su questo punto. I Greci sono stati i primi ad ingannarci, indi i Latini, mentre degli altri popoli favellando, detto ci hanno, eh’essi adoravano un Giove, un Marte, una Venere, e tut¬ te le Divinità medesime, che |7i| presso i Greci, e Latini erano adorate. Qualche leggiere somiglianza ha fatto loro soventi fiate prendere per le proprie loro Divinità, Dei onninamente diversi. Non vi ha dunque uni¬ formità nel Politeismo; per la qual cosa la conseguenza, che si può trarre da tutte queste differenti opinioni si è, che tutte le nazioni si sono accor¬ date nel riconoscere, che havvi una Divinità: e questa è appunto la con¬ seguenza, che noi caviamo. Il Politeismo è troppo svariato per poter cosa alcuna in suo favore dedurne». Dio provvede a tutto. Alcun sensato Filosofo dubitar non può di questa verità, qualora la invariata, inconcussa compagi¬ ne contempli di tutti i corpi. « Quis hunc hominem dixerit, escla¬ ma M. Tullio, qui cum tam certos coeli motus, tam ratos astrorum ordi- 344 [p. 347 modifica]DISSERTAZIONE SOPRA L’ESSERE SUPREMO nes, tamque omnia inter se connexa, et apta viderit neget in his ullam inesse rationem, eaque casu fieri dicat, quae quanto consilio gerantur nullo consilio assequi possumus?» ed altrove «Cum videmus speciem primum [72] candoremque coeli; deinde conversionis celeritatem tantam, quantam cogitare non possumus; tum vicissitudines dierum, atque noc- tium, commutationesque temporum quadripartitas, ad maturi[tajtem frugum, et ad temperationem corporum aptas; eorumque omnium mode- ratorem, et ducem Solem; Lunamque accretione, et diminutione luminis, quasi fastorum notantem, et significantem dies; tum in eodem orbe in XII. partes distributo, quinque stellas ferri, eosdem cursus constantissime servantes, disparibus interse motibus; nocturnamque coeliformam undi- que sideribus ornatam; tum globum terrae eminentem e mari,fixum in medio mundi universi loco, duabus oris distantibus habitabilem, et cul- tum: quarum altera, quam nos incolimus, sub axeposita ad stellas sep- tem unde Horrifer Aquilonis stridor gelidas molitur nives: altera Australis, ignota nobis, quam vocant Graeci àvrix&cov coeteras partes incultas, quod aut \t$\ frigore rigeant, aut urantur calore: hic autem, ubi habitamus, non intermittit suo tempore Coelum nitescere, arbores frondescere, Vites letificae pampinis pubescere, Rami baccarum ubertate incurvescere, Segetes largiri fruges, florere omnia, Fontes scatere, herbis prata convestirier tum multitudinem pecudum partim ad vescendum, partim ad cultus agrorum, partim ad vehendum, partim ad corpora vestienda; hominem- que ipsum, quasi contemplatorem coeli, ac deorum, ipsorumque culto- rem; atque hominis utilitati agros omnes, et maria parentia. Haec igitur, et alia innumerabilia cum cernimus, possumusne dubita- 345 [p. 348 modifica]DISSERTAZIONI METAFISICHE re, quin hispraesit aliquis, vel effector, si haec nata sunt, utPlatoni vide- tur: vel, si semperfuerint, ut Aristoteli placet, moderator tanti operis, et muneris?» Ed infatti egli è certo, che Dio le cose tutte conserva con una continuata creazione, poiché non si richiede minor forza a far sì, I74I che la creatura perseveri ad esistere di quella, che è neces¬ saria a fare, che essa cominci ad esistere, nè la esistenza di una cosa nel passato istante esser può sufficiente ragione della sua esistenza nell’istante, che segue, laonde è necessario, che la esi¬ stenza venga continuamente data all’essere da colui, che esiste per se medesimo. D’altronde egli è certo, che Dio non può non diriggere tutti i mondani eventi alla gloria di se medesimo, il che posto egli è evidentemente manifesto, che Dio alle cose tutte universalmente, e perpetuamente provvede. Nè vale l’opporre, esser la Divina Provvidenza contraria alla umana li¬ bertà, la quale non potrebbe, come dicesi, determinarsi giam¬ mai se non a seconda del già prescritto ordine di cose, giacché «Non est consequens ut si certus sit ordo causarum, ideo nihil sit in no- strae voluntatis arbitrio; ipsae quippe voluntates I751 in causarum ordine sunt» come nel decimoquinto libro della Città di Dio si espri¬ me il Santo Dottore Agostino. Ed ecco esposta in brevi parole, e raccolta una gran parte di quelle dottrine, che l’ultimo luogo tener sogliono fra i metafi¬ sici dogmi. Il disputare, e quistionare più sottilmente sopra al¬ cune di esse si appartiene a quella scienza sublime, di cui l’Ente supremo è il principale oggetto, e non a quella, la quale non fa, che ricorrere ai deboli fonti dell’umana [p. 349 modifica] [p. 350 modifica]APPENDICE [p. 351 modifica]I i) Dizionari e testi contenenti notizie bio-bibliografiche - AAVV, Archivio Biografico Italiano (ABI), Miinchen-London- New York-Paris 1993, 5 voli. + supplementi - AAVV, Giornale de’ letterati d’Italia - AAVV, Memorie dell’I. R. Accademia di scienze, lettere ed arti degli Agiati, Rovereto 1901-1905 - AAVV, Notizie istoriche degli Arcadi morti, Roma 1720-1721, 3 voli. - A. D’Ancona-O. Bacci, Manuale della letteratura italiana, Fi¬ renze 1901-1910, 6 voli. - M. Cesarotti-M. Franzoja, Accademici defunti, in: «Saggi scientifici e letterari dell’Accademia di Padova», Padova 1789-1794, 11, 3-34 e in, 9-36 - G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, continuata dal dott. D. A. Sancassani, Venezia 1734-17472, 4 voli. - G. B. Contarini, Menzioni onorifiche de’ defunti scritte nel nostro secolo, ossia raccolta cronologica alfabetica di necrologie, biografie..., Ve¬ nezia 1845-1872, 28 fascicoli - G. B. Corniani, I Secoli della letteratura italiana dopo il suo Ri¬ sorgimento. Commentario colle aggiunte di C. Ugoni e S.Ticozzi e con- 349 [p. 352 modifica]APPENDICE tinuato sino a questi ultimi giorni per cura di F. Predari. (Nuova Biblio¬ teca Popolare), Torino 1854-1856, 8 voli. - G. M. Crescimbeni, Le Vite degli Arcadi illustri scrìtte da diversi autori, Roma 1708-1751, 5 voli. - A. Fabroni, Vita e Italorum doctrinae excellentium qui saeculis XVII et XVIII jloruerunt, Pisis 1778-1805 - C. Frati, Dizionario bio-bibliografico dei Bibliotecari e bibliofili italiani raccolto e pubblicato da Albano Sorbelli. (Biblioteca di bibliogra¬ fia italiana XIII), Firenze 1933 - J. F. Michaud, Biographie Universelle ancienne et moderne, Graz 1967, 45 voli. - J. P. Niceron, Mémoires pour servir à l’histoire des hommes illu- stres dans la République des lettres avec un catalogne raisonné de leurs ou- vrages, Parigi 1729-1745, 44 voli. - G. Provenzal, Profili bio-bibliografici di chimici Italiani (sec. XV- sec. XIX), Roma 1938 - P. A. Saccardo, La Botanica in Italia, materiali per la storia di questa scienza, in Memorie del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1895 e 1901, xxv e xvi - G. G. Sbaraglia, Supplementum et castigatio ad Scrìptores trium Ordinum S. Francisci a Waddingo, aliisve descrìptos. Editio nova. (Bibliot- heca historico-bibliographica, ii-iv), Romae 1908-1936, voli. 3 - Sigismondo da Venezia, Biografia Serafica degli uomini illustri che fiorirono nel Francescano istituto, Venezia 1846 - C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie deJésus, Biblio- graphie, Bruxelles 1890-1909, 10 voli, t. i-ix - D. Sparacio, Frammenti bio-bibliografici di scrittori ed autori mi¬ nori Conventuali dagli ultimi anni del 600 al 1930, Assisi 1931 - E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lette¬ re ed arti del secolo XVIII, e di contemporanei, Venezia 1834-1845, 10 voli. 2) Dizionari a carattere regionale e testi di elogio - AAVV, Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Napoli 1813-1830, 16 voli. - AAVV, Elogi degli uomini illustri toscani, Lucca 1771-1774,4 voli. - G. Brunati, Dizionarietto degli uomini illustri della riviera di Sa¬ lò, Milano 1837 - G. B. Contarini, Notizie storiche circa li pubblici professori nello studio di Padova scelte dall’Ordine di S. Domenico, Venezia 1769 350 [p. 353 modifica]I ■ PREMESSA - G. Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia, Appendice, Venezia 1857 - G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1781-1794 - L. Federici, Elogi istorici de’più illustri ecclesiastici Veronesi, Vero¬ na 1818-1819, 3 voli. - B. Gamba, Galleria dei letterati ed artisti delle Provincie Veneziane nel secolo XVIII, Venezia 1822-1824, 2 voli. - S. Gatti, Elogi d’uomini illustri delleprovincie Napoletane, Napo¬ li 1832-1833, 2 voli. - D. Giusto, Dizionario bio-bibliografico degli scrittori Pugliesi vi¬ venti e dei morti nel presente secolo, Napoli 1893 - L. Grillo, Elogi di Liguri illustri, Genova 1846-18772, 4 voli. - F. Inghirami, Storia della Toscana: Biografia, t. xii-xiv, Fiesole 1843-1844, 3 voli. - M. G. Levi, Ricordi intorno agli incliti Medici, chirurghi e farmacisti, che praticarono loro arte in Venezia dopo il 1740, Venezia 1835 - P. Martorana, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori del dialetto napolitano, Napoli 1874 - S. Mazzetti, Repertorio di tutti i Professori... della Università e dell’Istituto delle scienze di Bologna, Bologna 1848 - R. C. Minieri, Memorie storiche degli scrittori nati nel regno di Na¬ poli, Napoli 1844 - G. M. Mira, Bibliografia siciliana, ovvero gran dizionario biblio¬ grafico delle opere edite ed inedite, antiche e moderne di autori Siciliani, Palermo 1875-1884, 2 voli. - G. Negri, Istoria degli scrittori Fiorentini, Ferrara 1722 - S. Rumor, Gli scrittori vicentini dei secoli decimottavo e decimono. Miscellanea di storia veneta, edita per cura della R. Deputazione ve¬ neta di storia patria, Venezia 1905-1908, voli. 3 - L. Ughi, Dizionario storico degli uomini illustri Ferraresi, Ferrara 1804, 2 voli. - C. Villani, Scrittori ed artisti pugliesi, antichi, moderni, e contempo¬ ranei, Trani 1904 - C. von Wurzbach, Biographisches Lexikon des Kaiserthums Oe- sterreich, Wien 1856-1891, 60 voli. 351 [p. 354 modifica]II RACCOLTA ANTOLOGICA LORENZO ALTIERI Antologia i. Altieri ih, c. iv, § 124, 37 (Astronomia, § 11): 124. Antiquissimum est Mundi systema dictum Ptolomaicum, eo quod Claudius Ptolomeus celeberrimus secundo Ecclesiae saecu- 352 [p. 355 modifica]LORENZO ALTIERI lo Astronomus, ac Geographus illud illustraverit, ac auxerit. Ip- sum ante Ptolomeum Graeci, Chaldaei, ac Arabes colerunt, post Ptolomeum autem omnes Philosophi amplexi sunt. In hac hypothesi (fìg. 6) terra in centro universi quiescit itnmobilis: Terram ambit aquam, postea aer, deinde ignis sphaera. Sequunturplanetae hoc ordine: Luna, Mercurius, Venus, Sol, Mars,Juppiter, Saturnus, quorum singuli proprium habent coelum solidum fìxumque. 2. Altieri iii, c. iv, §§ 124-127, 37-39 (Astronomia, §§ 12-13): Planetas consequitur coelum fixarum, deinde duo coeli cristallini, ac tandem coelum dictum primum mobile, ultra quod agnoscunt Peripate¬ tici Empyreum, sive Beatorum domicilium. 125. Primum mobilepernicissimo motu ab oriente in occasum 24 ho- rarum spatio delatum omnibus inferìoribus sphaeris diurnum motum impertit, eas secum abripiens. Interim vero singulae sphaere proprio motu periodico planetas ex occasu in ortum transferunt. Quia verojuxta Ptolomaicosfixae nunc in orientem, nunc in occidentem per arcum gradum 2, ac minutorum 20 ferri videntur, quem motum li- brationis appellante hinc motum hujuscemodi a primo crystallino, sive a non sphaera oriri ajunt, quae suo circuitu fìxas ad puncta occasus, ac ortus cogit mutare. Decima vero sphaera, sive crystallinus secundus a polo ad polum revolvitur alternatim, propterea fixis motum trepidationis communicat, idest motum, quo fixae per arcum minutorum 24 primo ad boream, deinde ad austrum inclinant. (...) 127. Tandem si in eccentrica planetae orbita AEFG (fìg. 8) in- fertur concipiatur epycyclus, idest orbiculus AB CD, circa cujus centrum S revolvatur pianeta, dum a puncto D procedit ad C, ac B in signa consequentia, apparebis directus: dum a puncto B ascendit versus L, concurret arcus ascensus cum visuale IL, adeoque stationarius apparebit: dum tendit ab L versus M, mo- vebitur in signa antecedenza, sive erit retrogradus. 3. Altieri hi, c. iv, prop. 11, 51-55 (Astronomia, § 26): Possunt Copernicani Sacrae Scripturae testimonia motui telluris, ac Solis quieti adversantia facile negotio explicare. 353 [p. 356 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 4. Altieri hi, c. iv, prop. 111, § 181, 61-63 (Astronomia, § 18): 181. Ex Coperniceo systemate suam concinnavit planetariam theo- riam Tycho de Brahe Danus, ac Astronomus egregius saeculi XVI. Nam loco telluris Solis orbitam statuti circa tellurem in universi centro quiescentem. Solis autem orbita Martis intersecatur; hincque enim fit, ut Mars aliquando telluri fiat proprior Sole. 354 [p. 357 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON 355 [p. 358 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA [p. 359 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON Antologia 1. Brisson i, c. i, § 6, 3-4 (Estensione, §§ 9-10): 6. Quel che prima d’ogni altra cosa si presenta a’ nostri sensi del pari che alle nostre idee, quando si esamina 0 si riflette a un corpo, si è la sua Estensione, cioè una determinata grandezza nella quale ci figu¬ riamo sempre un’aggregazione di parti. L’estensione ha sempre tre dimensioni lunghezza, larghezza, e profondità, 0 grossezza, che i Geo¬ metrici spesso considerano e misurano separatamente, e che i Fisici non separano mai perchè osservano sempre le cose come sono. 2. Brisson 1, c. 1, § 6, 4 (Estensione, § 11): Ma ciascun corpo per quanto piccolo ha sempre un di sotto e un di so¬ pra, una parte anteriore e una parte posteriore, un lato sinistro ed uno destro, e tutto ciò preso insieme forma una lunghezza, una larghezza, ed una grossezza. Ciascun corpo avendo queste tre dimensioni è dunque esteso: è vero che non vediamo queste dimensioni in tutti i corpi; ve ne son di così piccioli che i nostri occhi non possono scorgerli, nè la nostra mano distinguerli, ma siccome in tutti i corpi che cadono sotto i nostri sensi troviamo quest’estensione, possiamo affermare che ella è propria di tutti i corpi in generale. 357 [p. 360 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 3. Brisson i, c. i, § 8, 4 (Estensione, §§ 22-23): 7. Non possiamo aver l’idea d’un corpo, senza concepire una aggrega¬ zione di parti (6); riguardiamo dunque ogni corpo come composto di parti: è facile concepire che queste parti così riunite per forma¬ re un corpo possono essere separate le une dalle altre; in conse¬ guenza tutti i corpi sono divisibili. La Divisibilità è dunque una proprietà generale de’ corpi: e realmente indivisibili non vi so¬ no che gli atomi, nel caso che esistano. 4. Brisson i, c. i, § 9, 9-10 (Estensione, §§ 24-25): 9. Ma quando si è inoltrata quanto ci è possibile la divisione de’ corpi e che ci mancano i mezzi di spingerla più oltre, cosa dobbiamo noi pensare del resto? la materia è ella divisibile al¬ l’infinito, o nò? Questa è una questione a cui è difficile rispon¬ dere, ma per nostra fortuna importa poco. Quanto a noi credia¬ mo di poter riguardar la materia come divisibile all’infinito, o almeno all’indefinito, cioè non conosciamo termine di divisio¬ ne dopo il quale si possa riguardare ciascuna particella della materia così divisa come indivisibile in sè stessa, quantunque ci manchino gli ajuti per suddividere queste piccole masse: perchè ciascheduna di queste molecole è un aggregato diparti (6), ciascuna con¬ tiene due metà riunite che si concepiscono capaci di essere separate; dopo la qual separazione si potrebbe dire altrettanto di ciascheduna di queste metà, e così in seguito all’infinito. Ecco dunque a che si ristringe la questione. La divisibilità ideale, quella che può concepirsi, non ha li¬ miti; la divisibilità Fisica possibile all’infinito 0 no è cosa di sistema, è una questione che non potrà mai risolversi, perchè vi sarà sempre un ter¬ mine dopo il quale saremo privi di mezzi. Finalmente la divisibilità portata a un massimo grado, e in parti ancor più piccole di tutto ciò che possiamo immaginarci di più delicato, è la sola sicura, e che può provarsi coll’esperienza. 5. Brisson i, c. i, § 10, 10-11 (Estensione, §§ 31-34): 10. Sotto la parola Figurabilità s’intende la proprietà che hanno tutti i corpi di aver sempre una qualche figura. In fatti èfacil cosa il concepire 358 [p. 361 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON che non può esistere corpo senza essere figurato, perchè ciascun corpo grande o piccolo è composto di una certa quantità di materia che chiamasi la sua Massa; questa massa occupa maggiore o minore spazio, che chiamasi il suo Volume: questo volume non può essere limitato che da superficie; queste superfìcie hanno neces¬ sariamente fra loro una certa disposizione, un certo ordine; questo ordine o disposizione che prendono fra loro le superfi¬ cie terminanti il volume di un corpo è quello che chiamasi Fi¬ gura. Siccome non vi sono corpi che non sieno terminati da superficie, nè queste fra loro si confondono, ma si distinguono sempre le une dalle altre almeno mediante alcune situazioni relative, è evidente che non vi è cor¬ po che non abbia una qualche figura. Nè si devono eccettuar quelli la di cui piccolezza è causa che la loro figura elude i nostri occhi : se i nostri sensi fossero più delicati, o se gli soccorressimo con un micro¬ scopio, distingueressimo le superficie di questi piccoli corpi, e in conseguenza la loro figura. L’essere figurato è dunque una pro¬ prietà che accompagna i corpi in tutti gli stati; la figurabilità è dunque una proprietà comune a tutti i corpi grandi o piccoli. 6. Brisson i, c. i, § n, 11-12 (Estensione, §§ 18-19): 11. S’intende per Impenetrabilità la proprietà che hanno tutti i corpi di non lasciar prendere tutto il posto che occupano da altri corpi, prima che questi altri corpi non gli abbiano scacciati da di là; questa proprietà si chiama ancora Solidità. In virtù di questa i corpi resistono a quelli che tendono ad occupare il loro posto. Questa resistenza è non solo co¬ mune, ma essenziale a tutti i corpi. (...). Quando si agisce in un’aria tranquilla non si fa attenzione che si deve continua- mente superare la resistenza di un corpo, la cui solidità si op¬ pone ai nostri movimenti. Quando ci moviamo poco, credia¬ mo di non muoverci. Se dunque si prova che l’aria, fluido tanto poco resistente, ha una resistenza, e una solidità reale, con maggior ragione l’accorderemo ad altri corpi più di quella resistenti. (...) Dunque l’a¬ ria oppone una resistenza reale a’ corpi che tendono a farle mutar luogo, ed a ragione i corpi più resistenti possederanno più questa proprietà. 359 [p. 362 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 7. Brisson i, c. i, § 13, 14 (Estensione, § 20): Pure vi sono certi corpi che sembrano lasciarsi penetrare, ma non è che una penetrazione apparente, e non reale. Per esempio una spugna ri¬ ceve e ritiene interiormente una gran quantità d’acqua, ma quest’acqua va a posarsi ne’vuoti che si trovano fra le parti della spugna, e non occu¬ pa niente affatto il luogo delle parti proprie della spugna. Si può dire lo stesso di un pezzo di zucchero, di una pietra tenera ec. La pietra delle ca¬ ve di Bour'e vicino a Montrichard nove leghe distanti da Tours ritengono più di 25. libbre d’acqua per piede cubico. Ma quest’acqua va ad occupa¬ re gli spazj, che le parti della pietra, 0 dello zucchero lasciano vuoti della loro propria sostanza, nè mai il luogo che occupano quelle medesime parti. 8. Brisson i, c. i, § 31, 30-31 (Urto, §§ 8-9) 31. L’Elasticità è lo sforzo, col quale i corpi che sono stati compressi tendono a riacquistare lo stato che avevano prima della compressione; in una parola tendono a ristabilirsi nel loro pristino stato. Un corpo che ha elasticità è dunque quello che dopo essere stato compresso con una forza qualunque, riprende, quando la forza cessa d’agi¬ re, le medesime dimensioni e la stessa figura che aveva prima di esser compresso. 9. Brisson i, c. i, § 32, 32 (Urto, § 9) Parimente, come abbiamo di sopra fatto vedere (25, 26, 27, 28), che tutti i corpi sono compressibili, alcuni più, alcuni me¬ no; nella stessa guisa è facile il concepire che tutti sono elastici, ma in gradi diversi. 10. Brisson i, c. i, § 33, 33 (Urto, § 8) Vi sono altri corpi che non si ristabiliscono quasi punto, ne’ quali gli effetti della elasticità sono quasi insensibili. In questi corpi, quantun¬ que vi sia realmente un poco di elasticità, si suole riguardarla come nulla, e si chiamano corpi molli, corpi non elastici, corpi sen¬ za elaterio, il che vuole solamente dire, corpi privi di una molla così viva per essere valutata. 360 [p. 363 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON 11. Brisson i, c. iii, § 133, 130 (Urto, § 7) Non vi e corpo perfettamente duro, e tutti hanno più o meno ela¬ sticità. 12. Brisson i, c. iii, § 137, 33 (Urto, § 11) 137. Possiamo in questo luogo considerare due sorte di corpi,gli uni molli o senza elaterio o reputati tali (33), e gli altri elastici. 13. Brisson i, c. iii, § 139, 134-135 (Urto, § 23) 139. Quando due corpi vanno ad urtarsi, o uno de’ due è in quiete, o tutti due sono in moto; se si muovono tutti due: o si muovono nel medesimo senso, o in senso contrario, con velo¬ cità eguali, o diseguali. Ma prima che questi due corpi si urtino, vi è fra loro un intervallo che bisogna che sia percorso 0 da uno solo, 0 da tut¬ ti due, senza di che non può aver luogo l’urto. Questo spazio non può es¬ ser percorso che in un tempo finito, e la durata di questo tempo mi¬ sura la respettiva velocità (62) di questi due corpi; (...). 14. Brisson i, c. iii, § 141, 135 (Urto, § 2$) 141.1 regola. Quando un corpo in riposo è urtato da un al¬ tro corpo; la velocità del corpo che urta si divide fra i due corpi, secondo il rapporto delle masse. 15. Brisson i, c. iii, § 144, 138-139 (Urto, § 24) 144.11 regola. Quando due corpi che si muovono nel mede¬ simo senso con velocità diseguali vengono ad urtarsi, o che le loro masse sieno eguali o no, continuano a moversi insieme e nella loro prima direzione con una velocità comune minore di quella del corpo che urta, ma maggiore di quella del corpo urtato, avanti la percossa. 16. Brisson i, c. iii, § 145, 140-141 (Urto, §§ 26-27) 145. iii regola. Se i due corpi che devono urtarsi si muovano in sen¬ so direttamente opposto, il moto perisce nell’uno, e nell’altro-, o almeno 361 [p. 364 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA almeno nell’uno de’ due: se vi resta qualche moto dopo l’urto, i due corpi si muovono nello stesso senso; e la quantità del loro moto comune è eguale all’eccesso dell’uno de’ due sull’altro avanti l’urto. Cioè se i due corpi hanno quantità eguali di moto, il mo¬ to perisce nell’uno e nell’altro, e tutti due si riducono alla quiete, se uno de’ due ha più moto che l’altro, dopo l’urto non rimane altro moto che l’eccesso del più grande sul più piccolo, il che produce il moto comune de’ due corpi. E siccome la quantità del moto di un corpo risulta dal¬ la sua massa moltiplicata per la sua velocità (63), ne segue che se i due corpi vengono ad urtarsi con velocità, le quali sieno in ragione inversa delle masse, si riducono ambidue alla quiete, perchè si urtano con eguali quantità di moto. 17. Brisson i, c. ih, §§ 145-147, 141-142 (Urto, § 29) Si vede da quel che abbiamo detto dell’urto de’ corpi non elastici: 146. I Che quando, dopo l’urto, le direzioni de’ moti de’ corpi che si urtano sono nello istesso senso; esiste allora ne’ due corpi riuniti una quantità di moto eguale a quella che sussisteva nell’uno de’ due 0 in ambidue avanti l’urto. 147. II. Che quando le direzioni de’ moti di questi corpi sono in senso contrario, perisce, se non tutto, almeno una parte del moto: e che se ve ne resta dopo l’urto, la quantità che vi rimane è eguale alla differenza delle due quantità avanti l’urto. 18. Brisson i, c. iii, § 150, 142-143 (Urto, § 30) 150. Distingueremo dunque due sorte di moto-, l’uno indipendente dall’elaterio, e che chiameremo, Moto primitivo; l’altro che na¬ sce dalla reazione delle parti schiacciate o compresse dall’urto, che chiameremo Moto d’elaterio o semplicemente reazione, che comunemente raddoppia il moto comunicato. 19. Brisson i, c. ih, § 151, 143-144 (Urto, §§ 31-34) 151.1. regola. Quando un corpo elastico va a percuotere un altro egualmente elastico in quiete, o che si muove nel senso stesso del primo, quest’ultimo dopo l’urto si muove nella direzione del corpo che 362 [p. 365 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON lo ha percosso con una velocità composta di quella che gli è stata data immediatamente e per comunicazione, e di quella che acquista per la sua reazione dopo l’urto: e il corpo che urta, il di cui elaterio agisce in senso contrario, perde in tutto, o in parte quel che avea conservato della sua prima velocità: e se il suo moto d’elaterio eccede il residuo della sua pri¬ ma velocità; ritorna indietro secondo il valore di questo eccesso. E in tut¬ ti i casi la velocità respettiva dopo l’urto è la stessa che era avanti. Per far bene intendere questa regola supponiamo pri¬ mieramente uno de’ due corpi in quiete: i. Sei due corpi hanno masse eguali, il corpo in quiete acquisterà, mediante l’urto, sì per comuni¬ cazione che per reazione una quantità di moto eguale a quello che aveva l’altro avanti l’urto: e quest’ultimo si ridurrà alla quiete in forza del suo elaterio che distruggerà il resto della velocità primitiva, n. Se le due masse sieno disuguali, e il corpo urtato ne abbia meno, tutti due dopo l’urto si muoveranno nella direzione medesima del corpo che urta, ma quest’ultimo avrà minor velocità dell’altro, ni. Se le due masse saranno pure ineguali, ma ne avrà più il cor¬ po urtato, questo corpo solo si muoverà nella direzione del corpo urtante, e quest’ultimo ritornerà indietro. Supponiamo ora che i due corpi si muovano nel senso istesso: dopo l’urto ambedue continueranno a muoversi nel senso stesso, ma il cor¬ po urtante con minor velocità, quando il corpo urtato non ab¬ bia molta più massa dell’altro, nel qual caso quest’ultimo tor¬ nerà indietro. E in ogni caso la velocità respettiva (62) sarà do¬ po l’urto l’istessa che avanti. 20. Brisson i, c. iii, § 153, 145 (Urto, § 35) 153. 11 regola. Quando due corpi elastici eguali o disuguali di massa vengono ad urtarsi l’uno in senso contrario all’altro, con veloci¬ tà proprie che sieno eguali o disuguali, dopo l’urto si separano, e la loro velocità respettiva è la stessa che avevano prima dell’urto. 21. Brisson i, c. iii, § 153, 145 (Urto, § 36) Se questi due corpi fossero senza elaterio 0 si fermerebbero reciproca¬ mente, 0 l’un de’ due trasporterebbe l’altro come abbiamo detto di sopra 363 [p. 366 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA (145). Si separano dunque in virtù della loro reazione; ma questa rea¬ zione è eguale alla compressione cagionata dall’urto (112); e la compres¬ sione è come la velocità respettiva avanti l’urto; la velocità che ne risulta dopo l’urto deve dunque essere simile. 22. Brisson i, c. vii, § 200, 151 (Gravità, § 3) Non bisogna confondere queste queste due voci gravità, e peso perchè esprimono due cose diversissime. La gravità di un corpo è la forza che lo sollecita a discendere; e il suo peso è la somma delle parti pesanti conte¬ nute sotto il suo volume. 23. Brisson 1, c. vii, § 200, 151 e ssg. (Gravità, § 4) La gravità appartiene egualmente a tutte le parti d’uno stes¬ so corpo. Questa forza non cresce o scema per la loro riunione o separazione; ma il peso d’un corpo cangia come la quantità di materia che lo compone. Si può dunque dire che quantun¬ que un piccolo corpo abbia meno peso che uno grande, pure abbia altrettanto di gravità, perchè l’uno e l’altro tendono a di¬ scendere dall’alto al basso colla stessa velocità. (...)•202- La sua direzione [della gravità] è sempre perpendicolare all’orizonte. Si espri¬ me ancora questa direzione con una tendenza al centro della terra, il che sarebbe precisamente lo stesso se la terra fosse sferica. (...) si può senza errore sensibile riguardare il centro della terra come quello de’ corpi gravi. (...) 2o6.(...) Frattanto se noi, come dobbiamo fare, riguardiamo la gravità come una forza che im¬ prime una velocità comune ed eguale a tutti i corpi, le quantità del moto di due corpi che cominciano a cadere, non possono differire fra loro che per la massa, e devono essere a lei proporzionali. 24. Brisson i, c. vii, § 212, 160-161 (Gravità, §§ 14-17) 212. L’intensità della gravità deve ancora essere diversa ne’ varj climi della terra. Perchè la terra volgendosi sul proprio asse, ciascun punto della sua superficie egualmente che i corpi che vi son posti, prendono una forza centrifuga (174) che diminuisce li effetti della gravità; poi- 364 [p. 367 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON che vi è opposta (176). Ma questa forza centrifuga non diminui¬ sce egualmente per tutto gli effetti della gravità, perchè ella è tanto maggiore in ciascuno de’ corpi che circolano, quanto maggiori sono i cerchi che descrivono in tempi eguali (281), poiché allora hanno più ve¬ locità. Ma quelli che sono sotto l’equatore 0 vicini ad esso descrivono cer¬ chi maggiori, che quei corpi che sono verso i poli; dunque gli effetti della gravità su quelli sono più diminuiti; tanto più che la forza centrifuga è direttamente opposta alla gravità sotto l’equatore, ed obliquamente op¬ posta in ogni altro luogo, e tanto più obliquamente quanto s’avvicinano ai poli: (...) I corpi dunque cadono più lentamente verso l’e¬ quatore che verso i poli. Questo è infatti ciò che è stato provato col¬ l’esperienza fatta a Caienna nel 1672 dal Richer. Osservò che un pendulo di una conveniente lunghezza per battere i secondi a Pa¬ rigi, misurava a Caienna tempi più lunghi, e faremo vedere (258) che il moto d’oscillazione di un pendulo è un effetto della gra¬ vità. 25. Brisson i, c. vii, §§ 258-262, 185-188 (Gravità, §§ 18-20): 258. Questo ci fa strada a parlare del moto d’oscillazione, per¬ chè il corpo che oscilla lo fa in virtù della sua gravità. Si chiama oscillazione o vibrazione di pendulo il moto d’un corpo pesan¬ te attaccato con un filo, o mediante una verga ad un punto fis¬ so, intorno al quale descrive un arco. Tale è il corpo A (fig. 29) attaccato ad un punto fisso C del filo CE, e che descrive l’arco BAD. La vera causa di questo moto è la gravità del corpo A, perchè se si porta questo corpo da A in B, e si abbandona a sé stesso; in virtù della gravità caderebbe secondo la direzione BH perpendicolare al- l’orizonte (202); ma essendo ritenuto dal filo CE ad una distanza sempre eguale dal punto C, non può discendere che descrivendo l’ar¬ co BA. Quando egli è arrivato al punto il più basso in A, ha acquistato per l’accelerazione della sua caduta una velocità eguale a quella che avrebbe acquistato cadendo verticalmente dall’altezza IA (256), la quale è capace di portarlo in un tempo eguale a quello della sua caduta ad una altezza eguale a quella da cui è disceso (255): è portato dunque in D, descrivendo l’arco AD, e ritardando la sua veloci¬ 365 [p. 368 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA tà a ciascuno istante nell’istessa proporzione che quella nella quale è stata accelerata discendendo (253). Arrivato al punto D, non può andare più in là, perchè la sua gravità lo sollecita a di¬ scendere; e siccome è nel medesimo caso in cui era al punto B, ritorna da D in A, e da A in B, e così di seguito per le oscillazio¬ ni seguenti. In maniera che se questo corpo non provasse resi¬ stenza per parte dell’aria, e che non avesse attrito al punto di sospensione C (96), questo moto sarebbe perpetuo. Non cessa dunque che per queste cause, le quali quantunque accidentali sono non ostante inevitabili in natura. (...) 262. Dal che ne segue che un pendulo, la di cui lunghezza è costante, deve fare tutte le sue vi¬ brazionigrandi 0 picciole che sieno isocrone, 0 della stessa durata nel me¬ desimo luogo. 26. Brisson ii, c. viii, § 277, 5 (Idrodinamica, § 1): 277. L’Idrodinamica è una scienza che ha per oggetto la gra¬ vità, l’equilibrio, e il moto de’ fluidi. Mediante questa definizione si vede che l’Idrodinamica comprende l’Idrostatica, e l’Idraulica. L’idro¬ statica considera l’equilibrio de’ fluidi in quiete: distruggendo questo equilibrio ne risulta un moto: ed ecco ove comincia l’I¬ draulica. 27. Brisson ii, c. viii, § 278, 5-6 (Idrodinamica, §§ 2-3.): 278. Si chiama Idrostatica la scienza che ha per oggetto la gravità e l’equilibrio de’fluidi, e il modo con cui si mettono in equilibrio in questi fluidi i corpi che vi sono immersi. Archimede è fra gli an¬ tichi quello che ha fatti maggiori progressi in questa scienza: si onora anche al dì d’oggi per la maniera ingegnosa colla quale conobbe che una corona d’oro non era della bontà a cui doveva essere, pesandola idrostaticamente. 28. Brisson ii, c. viii, §§ 279-280, 6-7. (Idrodinamica, § 13.): 279. Abbiamo detto di sopra (226) che la forza che fa cadere i corpi verso la terra è la sola causa del loro peso, e che medianti 366 [p. 369 modifica]JACQUES MATHURIN BRISSON questi sforzi, che i corpi fanno incessantemente per obbedire a questa forza, gravitano sugli ostacoli che li trattengono. Ifluidi, che come i corpi solidi sono in balìa della gravità, fanno precisamente lo stesso, cioè pesano sopra tutti gli ostacoli che si oppongono alla loro ca¬ duta. Ma a cagione della loro fluidità pesano in diverso modo che i corpi solidi, e ne risultano dei fenomeni affatto particola¬ ri, e che assai importa che si conoscano. 280.1fluidi sono sostan¬ ze, le di cui parti sono mobili fra loro, e non hanno punto 0 quasi punto di coesione, e si muovono indipendentemente le une delle altre. 29. Brisson ii, c. viii, § 588, i73-74.(Idrodinamica, §§ 7-8.): 588. Prima di spiegare quel che significano queste parole, [fluidi permanenti e non permanenti] bisogna sapere che il calo¬ rico (col qual nome si può chiamar la materia del fuoco) è un fluido particolare sparso in tutti i corpi della natura, e che vi esiste in due diversi stati, cioè nello stato di libertà e nello stato di combinazio¬ ne. La materia del calore nello stato di libertà è quella che si trova fra le particelle de’ corpi, che non si può ritenere in un vaso chiuso, che nulla trattiene, e che penetra tutte le sostanze con somma facilità da una superfìce all’altra. Ella sola è capace d’eccita¬ re un calore sensibile a’ nostri organi. Questa stessa materia nello stato di combinazione è quella che costituisce uno de’ principj de’ cor¬ pi. In questo stato ella non è altro che un calore nascosto, un calore latente: in maniera che un corpo che ne contenesse una gran¬ dissima quantità non sarebbe a’ nostri sensi più caldo di quello che non ne contenesse punto. Questa sostanza si sviluppa spesso nella decomposizione de’corpi, ed allora di calore nascosto diviene calore sensibile prendendo lo stato di libertà, e diviene suscettibile d’agire su’corpi situati nell’ammosfera; e il termometro ne può misu¬ rar la forza. Perciò nella decomposizione de’ corpi spesso suc¬ cede che vi si eccita del calore come nella putrefazione. 30. Brisson iv, c. xvi, § 1688, 6 (Astronomia, § 14): 1688. Platone fece in seguito rivivere il sistema dell’immobi¬ lità della terra, e parecchi filosofi seguirono questa opinione, e 367 [p. 370 modifica]1 II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA fra gli altri Tolomeo. Deve far meraviglia che essendo stato sco¬ perto il vero sistema del mondo; l’ipotesi, nella quale si suppo¬ ne che la terra sia il centro de’ moti celesti abbia prevalso; per¬ chè questa ipotesi si accordi colle apparenze, e che paja in prin¬ cipio d’una estrema semplicità, è ben diffìcile render ragione de’ moti celesti: così Tolomeo, e quelli che dopo lui hanno voluto soste¬ nere questa opinione della quiete della terra, sono stati obbligati di im¬ barazzare i cieli di diversi epicicli, e di una quantità grandissima di cerchi diffìcilissimi a concepirsi e adoprarsi, perchè non vi è cosa tanto diffìcile, quanto il porre l’errore nel luogo della ve¬ rità. 368 [p. 371 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE 369 [p. 372 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ★ Antologia i. Del Giudice i, i, c. i, 4 (Percezione, §§ 6-7): 13. Def 1. Simplex perceptio, sive apprehensio est illa mentis actio, qua aliquid cognoscit, absque eo quod de ipso vel affìr- met quidpiam, vel neget. 14. Animadversio. Omnia, quae percipi a nobis, ad duplex velut rerum genus satis accurate rediguntur: alia nimirum sub sensus cadunt, eorumque cognoscuntur sub- sidio, ut lapis; et alia iisdem subducuntur ita, ut immediata sal- tem illorum ope cognosci neutiquam possint, velut spiritus. Hinc in sensationem, et intellectionem dividiprimum soletperceptio. 15. Def. 2. Sensatio est rerum corporearum ope organorum sensoriorum per¬ ceptio, ut lapidis per visum cognitio. 370 [p. 373 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE 2. Del Giudice i, i, c. i, 4 (Percezione, § 8): 17. Def 3. Intelletto est perceptio rei non sensibilis, seu quae sub sensus non cadit, ut virtutis, spiritus, similium cognitio. 3. Del Giudice i, i, c. ii, 4 (Percezione, § 9): 19. Def. Idea derivata a verbo graeco video, quod veteres La¬ tini dicebant speda, unde etiam species appellata fuit, est in corporem quaedam, et spiritualis imago, rem sive existentem sive possibilem, sive corpoream sive incorpoream exprimens, seu repre- sentans. 4. Del Giudice i, i, c. ii, 7 (Percezione, § 10): Omnes, quas habemus, rerum ideae quadruplici sub aspectu con¬ siderati possunt, 1. nempe ex earum origine; 2. in seipsis; 3. ex relatio- ne ad mentem; 4. demum comparate ad objecta, quorum imagines sunt. 5. Del Giudice i, i, c. ii, a. 1, 7 (Percezione, § 11): Ideae ex earum origine inspectae, sunt, aut esse possunt 1. vel adventi- tiae, 2. vel factitiae, 3. denique vel innatae. 6. Del Giudice i, i, c. ii, a. 1, 7 (Percezione, § 12): 22. Def. 1. Adventitiae illae appellantur, quas immediato sen- suum subsidio nobis comparamus, velut ideae soni, coloris, lucis, simi¬ lium. 7. Del Giudice i, i, c. ii, a. 1, 7 (Percezione, § 13): 23. Def. 2. Factitiae, quas mens adventitiarum, vel innatarum, si quae sunt, ope sibi cudit, atque efformat. 24. Schol. Triplici praesertim modo ideas factitias comparare nobis possumus, similitudine, associatione, et ratocinio. (...) Associatione, ut cum ex auri, et montis ideis, montem aureum nobis confìngimus. 371 [p. 374 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 8. Del Giudice i, i, c. ii, a. i, 7 (Percezione, § 14): 25. Def. 3. Ideae tandem innatae sunt illae, quas in mente hominis, quem primum existit, insculpit Deus. 9. Del Giudice 1, i, c. 11, a. 11, 8 (Percezione, § 16): Ideae, ejuscumque demum sint vel esse possint originis, si in seipsis spectentur, vel simplices sunt, vel compositae, verae, vel fal- sae. 10. Del Giudice i, i, c. ii, a. 11, 8 (Percezione, § 17): 26. Def. 1. Idea simplex, quae et incomplexa dicitur, illa est, quae adeo est una, ut nec mente quidem partes in eadem concipi possint. Ta- lis idea doloris, voluptatis, similium. 27. Def. 2. Composita, quae edam complexa appellatur, est illa, quae quamvis in se una sit, plures tamen in eadem distingui possunt partes. Huius gene¬ ris sunt ideae domus, templi, civitatis, hominis docti et prudentis, simi¬ lium. 11. Del Giudice i, i, c. ii, a. 11, 8 (Percezione, § 18): 29. Def. 3. Idea vera dicitur illa, quae cum objecto suo, quod reprae- sentat, conformis est. 12. Del Giudice i, i, c. ii, a. 11, 8 (Percezione, §§ 19-20): 30. Def. 4. Illa autem est falsa, quae cum objecto suo, quod exprimit, conformis non est; ut idea solis bipalmaris (*). (*) Sic non minus est falsa idea solis bipalmaris, quam «Dei » non providi, quam Ethnicorum nonnulli, inter quos Tullius, sibi confingebant. 13. Del Giudice i, i, 8-9 (Percezione, § 3): 8. Def. «Logica» a graeco vocabulo logos, latine sermo seu di¬ scursus, est ars, sivefacultas dirigendi operationes mentis nostrae ad veri¬ tà tem assequendam, eamdemque aliis ordinate, ut pars est, expli- candam (*). 372 [p. 375 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE (*) Facultatem hanc, sive artem adeo « necessariam esse hominibus », ut sine ipsa ni- hil prorsus, de rebus praesertim arcanis, et a primis cognitionum principiis satis remotis, inveniri possit, atque ostendi, Veteribus non minus quam Recentioribus probatissimum est, tantumque interesse, quantum « a falsis vera discernere », ac de utrisque judicium ae¬ qua lanceproferre. Hinc non immerito a Tullio ars veri et falsi disceptatrix, et ab Ari¬ stotele organum scientiarum, appellata fuit. 14. Del Giudice i, i, 9 (Percezione, § 4): 12. Triplicis potissimum sunt generis mentis nostrae operationes, quas dirigit Logica, simplex nimirum apprehensio sive «perceptio », «judicium », ac « ratiocinium ». In totidem igitur partes et ipsa divi- ditur, quibus nonnulli addunt quartam, quae de « methodo » dis- serit. 15. Del Giudice i, i, c. ii, a. in, 9-10 (Percezione, § 21): Ideae relate ad mentem essepossunt clarae vel obscurae, distinctae vel confusae, completae vel incompletae, adaequatae vel inadaequatae, qui¬ bus addi etiam solent comprehensivae. 16. Del Giudice i, i, c. ii, a. 111, 9-10 (Percezione, § 22): 31. Def. 1. Idea clara diciturilla, quae suum ita repraesentat objectum, ut si iterum occurrat menti, haec illud statim dignoscat; ut idea solis. Quae autem objectum suum repraesentat, ut mens illud subin¬ de occurrens nec statim cognoscat, nec tam facile, obscura est; ut idea Jovis iis, qui Planetas contemplari minime solent. Idea clara esse potest distincta, vel confusa. 17. Del Giudice i, i, c. ii, a. 111, 9-10 (Percezione, § 23): 32. Def. 2. Distincta, quae non modo objectum, sed etiam ejusdem no- tas, quibus distinguitur a rebus ceteris, dare repraesentat, talis idea trianguli, si compertum etiam sit, ex tribus linei ipsum consta¬ re. Quod si has notas objecti non repraesentet, esset idea con¬ fusa; qualis idea doloris: quis enim apprehendit ejusdem notas, per quas a voluptate discernitur? Idea distincta vel completa est, vel incompleta. 373 [p. 376 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 18. Del Giudice i, i, c. ii, a. in, 9-10 (Percezione, § 24): 33. Def. 3. Completa, quae notas omnes ad objectum in statu quolibet dare dignoscendum, atque ab aliis omnibus distinguendum repraesentat. (...). At si aliquas quidem, non tamen omnes repraesentet lau- datas notas, incompleta est. (...). Idea completa vel adacquata est vel inadaequata. 19. Del Giudice i, i, c. ii, a. 111, 9-10 (Percezione, § 25): 34. Def 4. Adaequata, quae non modo omnes omnino reprae¬ sentat objecti notas, quibus distinguitur a rebus ceteris, sed etiam omnes, et singulas notas notarum, ita ut distincte exhibeat id omne, per quod una nota differt ab alia. (...). Quae autem non omnes omnino notas notarum repraesentat, inadaequata est; (...). 20. Del Giudice i, i, c. ii, a. iv, 11-13 (Percezione, § 27): Ideae quoad ipsarum objecta spectatae, vel absolutae sunt vel relati- vae, reales vel chimericae, abstractae vel concretae, particulares de- mum, vel singulares, vel universales. 21. Del Giudice i, i, c. ii, a. iv, 11-13 (Percezione, § 28): 44. Def 1. Absoluta, quae objectum suum sine relatione ad quodcum- que aliud repraesentat; ut idea solis. Relativa, quae objectum reprae¬ sentat cum relatione ad aliud; ut idea patris. 22. Del Giudice i, i, c. ii, a. iv, 11-13 (Percezione, § 29): 46. Def. 2. Idea realis est illa, cujus objectum reale est, non confictum a mente; ut idea Lunae. Cujus autem objectum non est reale, sed a mente confinctum, ut idea centauri, chimerica est, non rea¬ lis, seu fictitia. 23. Del Giudice i, 1, c. ii, a. iv, 11-13 (Percezione, § 30): 47. Def 3. Idea abstracta, quae aliquid sine re, cui inest, vel adest, re¬ praesentat; ut idea coloris, si is sine re, cui inhaeret, spectetur. 374 [p. 377 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE 24. Del Giudice i, i, c. ii, a. iv, n-13 (Percezione, § 31): Concreta, quae aliquid, quod alteri rei inest, vel adest exhibet velut eidem rei inexistens\ ut idea corporis colorati: scilicet modum si¬ mul, et ejus subjectum, seu rem modificatam repraesentat idea con¬ creta. 25. Del Giudice i, i, c. 11, a. iv, 11-13 (Percezione, § 32): 50. Def. 5. Singularis, quae unum individuum,ve\ etiam plurea si¬ mul collecta, et omnino determinata repraesentat. (...)• 51- Def 6. Universalis demum, seu communis, quae aliquid repraesentat, quod pluribus convenit, et commune est: ut idea animalitatis. 26. Del Giudice i, i, c. iii, a. 1-11,18-21 (Percezione, §§ 33-34): 84. Schol. Signum, quod rem praeteritam denotat, (...) vel naturale est, vel arbitrarium, sive ad placitum. 85. Def. 2. Naturale est illud, quod ob necessarium, quem cum alio habet, nexum, ex se, et suapse natura hoc alterum indicat; ut est fumus respectus ignis latentis. (...) 87. Def. 3. Arbitrarium illud vocatur, quod sive ex Dei, sive ex hominum placito habet, ut rem altera indicet; (...). 90. Def 1. Voxgeneradm est sonus animalis ore prolatus. Hinc neque sibilus venti, nec campanae sonus proprie dicit possunt vox. Duplex est arti culata, et inarticulata. (...). 93. Def. 3. Scriptura est sensibilis quaedam imago, seu figura, rem aliquam significans. 94. Schol. Duplex est, vulgaris, quam ipsi in scribendo adhibemus, et hyeroglifica, qua utebantur Aegyptii, (...). 9$. Def. 4 Gestus demum est sive totius corporis sive aliquarum ejus partium externa mutatio sensibilis, internas animi cogitationes, et affectus praesertim significans. 27. Del Giudice i, ii, c. i, 27-29 (Percezione, § 36): 108. Def Judicium est illa mentis nostrae aedo, qua, cognita duarum vel plurium idearum convenienda, vel discrepanda, ipsas ideas vel si¬ mul per affirmationem jungit, vel ab invicem separat per nega- tionem: brevius, qua aliquid affìrmamus, vel negamus de alio. (...). in. Monitum. (...) quae de Proposidonibus dicemuspostea, de 375 [p. 378 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA judiciis quoque intelligenda esse; nam illae nil aliud sunt, quam ju- dicia ipsa vocibus, scriptura, aliisve signis expressa. 28. Del Giudice i, ii, c. ii, 29-30 (Percezione, §§ 37-40): 112. Def. Propositio, seu enunciatio est orario, qua aliquid affir- mamus, vel negamus de alio; orario, inquam: ex pluribus enim vocibus, seu terminis ideas significantibus constat propositio. 113. Schol. In qualibet propositione, licet simplicissima, tria occurrunt, duo scilicet nomina, quae termini, materia atque extrema propositio- nis dicuntur; et nexus, seu copula, quae etiam forma appellatur. Nomen, de quo affirmatur aliquid vel negatur, subjectum dici- tur; quod autem affirmatur vel negatur de alio, attributum, seu praedicatum. Utrumque conjungit copula, verbum nempe sub- stantivum sum es est, et assensum exprimit; ut Petrus est sa¬ piens; vel unum ab alio separat, si copulae praefixa sit particula non, et dissensum significar, ut Petrus non est sapiens. Quando- que latet copula, ut, ignis urit, quandoque vero etiam subjectum, ut, amo, quorum primum perinde est ac ignis est urens, alterum idem ac ego sum amans. 29. Del Giudice i, ii, c. ii, a. 111, 35-36 (Percezione, §§ 41-42): Quantitas propositionis est major vel minor subjecti exsten- sio. Hinc respectu quantitatis, propositio esse potest vel universalis, vel particularis, vel singularis, vel demum indefinita. 30. Del Giudice i, ii, c. ii, a. 111, 35-36 (Percezione, § 43): 143. Def 1. Universalis est illa, cujus subjectum sic extenditur, ut omnis complectatur sua inferiora. Universalitatis signa sunt omnis, nullus, similia; ut omnis homo est animai rationale; nullus violentus est prudens. 31. Del Giudice i, ii, c. ii, a. 111, 35-36 (Percezione, § 44): 145. Def 2. Particularis est illa, cujus subjectum prò quibusdam tan¬ tum sumitursuis inferioribus, et quidem omnino indeterminatis. Parti- 376 [p. 379 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE cularitatis signa sunt quidam, aliquis, nonnulli, similia: ut aliquis homo est doctus: nonnulli lapides sunt pretiosissimi. 32. Del Giudice i, ii, c. ii, a. ni, 35-36 (Percezione, § 45): 146. Def. 3. Singularis, cujus subjectum est unum quidpiam, atque determinatimi. 33. Del Giudice i, ii, c. ii, a. in, 35-36 (Percezione, § 46): 147. Def. 4 Indefinita demum est, cujus subjectum nullo ajfectum est quantitatis signo: ut, homo est rationalis. 34. Del Giudice 1, ii, c. ii, a. in, 36-37 (Percezione, § 47): Divisio Propositionum respectu qualitatis. Propositio quad ejus qualitates spedata, ajfirmativa est vel negativa, de quibus paulo su- pra (§ 115.), vera velJalsa, evidens vel obscura, certa aut dubia, aut de¬ mum probabilis. 35. Del Giudice i, ii, c. ii, a. 111, 36-37 (Percezione, §§ 48-49): 149. Def 1 Propositio est vera, si cum objecto suo conformis sit; ut, Deus est bonus; sin autem non sit conformis, est falsa-, ut, Petrus est lapis. 36. Del Giudice i, ii, c. ii, a. ni, 36-37 (Percezione, §§ 50-51): 152. Def. 2 Propositio evidens illa est, cujus veritas perspicue ajfulget menti, ac dicitur per se nota, axioma, principium, si ejusdem veri¬ tas ex ipsis ejus terminis manifeste innotescat. Illa autem, cujus veritas menti non affulget perspicue, obscura est, ac dicitur. 37. Del Giudice i, ii, c. ii, a. in, 36-37 (Percezione, §§ 52-54): 153. Def 3 Certa est illa, de cujus ventate dubitari non potest, sed ipsi mens nostra adhaerescit fìrmissime. Dubia, cujus nec veritas constat, necfalsitas; unde et assensum et dissensum mens cohibet, atque haeret piane suspensa. Probabilis demum, cujus veritas apparet qui- 377 [p. 380 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA dem, non ita tamen, ut omnen omnino excludat de opposito formidinem. 38. Del Giudice i, ii, c. iii, 39-42 (Percezione, §§ 55-56): 164. Def. 1 Definitio est oratio perspicue explicans quod vel obscu- rum est, aut edam prorsum ignotum. (...). Canones. 170. 11 Omni et soli definito convenire debet. (...) 172. iv Definitio esse debet ipso definito clarior (...) 174. vi Definitum ingredi definitionem non debet (...) 39. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 57): De Divisione 176. Def. 1 Divisio est alicujus totius in suas partes distributio. 40. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 58): 177. Schol. (...). Quatruplex porro est divisio, potentialis, essentialis, integralis, et accidentalis. 41. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 59): 178. Def. 2 Potentialis, quae edam logica dicitur, et categori¬ ca, est distributio alicujus universalis, quod adinstar totius concipitur, in sua inferiora, quae velut totidem illius partes spec- tantur. Talis profecto est alicujus generis in suas species divisio, velut animalis in rationale, et irrationale; vel divisio alicujus spe- ciei in sua individua, ut hominis in Petrum, Paulum, Alexan- drum. 42. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 60): 179. Def. 3 Essentialis est totius in suas essentiales partes distribu¬ tio. Si fiat in partes per mentem abstractas, ut esset hominis in ani- malitatem, et rationalitatem, quae per abstractionem mentis concipitur, metaphysica dicitur; physica ver, si fiat in partes concre- 378 [p. 381 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE tas, ut esset divisio ejusdem hominis in corpus, et animam ra- tionalem. 43. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 62): 180. Def 4 Integrafo est alicujus totius in suas partes non essen- tiam, sed unam illius perfectionem, atque integritatem constituen- tes distributio; ut divisio humani corporis in pedes, manus, caput etc. 44. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 61): 181. Def. 5 Accidentalis demum est totius in sua accidentia, quae velut ejusdem partes spectantur, distributio. Duplici praesertim modo fieri potest; 1. Si subjectum in sua distribuatur accidentia, ut homines in albos, et non albos; 2. Si distribuas accidens in alia sua accidentia; ut virtutem in intensiorem, et remissio- rem. 45. Del Giudice i, ii, c. iv, 42-43 (Percezione, § 63): Canones 182.1 Divisio nec in partes nimis parvas, nec in nimis magnas fiat: illa enim mentem fugit: haec non exacte totius parte distin- guit; utraque demum confusionem parit. 184. iii Una divisionispars includi non debet in altera: secus enim haec altera in priorem illam jam divisam dividi rursus deberet. Ut autem hic error vitetur, attendendus est. 46. Del Giudice i, iii, c. i, a. 1, 43-45 (Percezione, § 64): 187. Def. 1 Ratiocinium, seu Discursus est illa mentis nostrae actio, qua judicium aliquod infert ex aliis, seu deducit. 47. Del Giudice i, iii, c. i, a. 1, 43-45 (Percezione, § 65): 189. Def. 2 Argumentatio est oratio, qua ratiocinium sive voce, sive scriptis exprimimus. 190. Corol. Ratiocinium itaque et argumentatio 379 [p. 382 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA unum sunt atque idem (...). 191. Schol. (...). Porro octo sunt argu- mentationes species, Syllogismus, Enthymema, Epycherema, Induc- tio, Sorites, Dilemma, Exemplum, et Analogia. 48. Del Giudice 1, iii, c. i, a. 1, 43-45 (Percezione, §§ 66-67): 192. Def Syllogismus est argumentatio ex tribus constans ter- minis, totidemque propositionibus, quae ita dispositae inter se sint, atque connexae, ut postrema ex prioribus velu effectas ex sua causa in¬ de nascatur, ut si dicas : omnis substantia cogitans est simplex; sed mens humana est substantia cogitans: ergo est simplex. 193. Schol. (...) Materia Syllogismi duplex est, proxima, et remota. Proxima sunt trea ipsae propositiones, quae Syllo¬ gismus constituunt, et quarum prima dicitur major, secunda mi¬ nor, ambae vero praemissae, quae idem sunt ac antecedens, postrema tandem, quam appellavimus consequens (ibid.), con- clusio. 49. Del Giudice i, iii, c. i, a. 11, 45-46 (Percezione, § 68): Syllogismus vel simplex est, vel compositus. De Syllogismo simplici. 198. Def. Syllogismus simplex est ille, qui ex tribus simplicibus terminis, totidemque iisque simplicibus constat propositionibus; (...). 50. Del Giudice i, iii, c. i, a. 11, 46 (Percezione, § 77): 201. Schol. Ut Syllogismus simplex recte construatur, sequen- tes servandae sunt Regulae: (1) Terminus est triplex, major, mediusque minorque. (2) Latius hunc, quam praemissae, conclusio non vult. (3) Aut semel aut iterum medium generaliter esto. (4) Nequaquam medium capiat conclusio oportet. (5) Est parti similis conclusio deteriori. (6) Nil sequitur geminis e particularibus umquam. (7) Ambae affirmantes nequeunt generare negantem. (8) Utraque si praemissa neget, nihil inde sequetur. 380 [p. 383 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE 51. Del Giudice i, iii, c. i, a. 11, 49 (Percezione, § 69): De Syllogismo composito. 217. Def 1 Syllogismus compositus ille est, cujus una saltem ex praemissis est propositio explicite composita. 52. Del Giudice i, iii, c. ii, a. 1, 53-54 (Percezione, §§ 70-71): 240. Def Demonstratio recta est illud probationis genus, quod defì- nitionibus, axiomatibus, experimentis, propositionibus, aliisque cognitionibus sive per se notis, sive ex iisdem evidenter deductis, indubiisque innixum est. 53. Del Giudice i, iii, c. ii, a. 1, 53-54 (Percezione, §§ 72-73): 242. Utraque porro vel directa est seu ostensiva, vel indirecta seu apogogica per absurdum et impossibile, vel demum ad hominem Ha- betur directa, si propositio ex iis ostendatur principiis, ex quibus directe fluiti (•••)• 54. Del Giudice i, iii, c. ii, a. 1, 53-54 (Percezione, § 74): Indirecta, si ex eo demonstretur propositionis veritas, quod si vera ipsa non esset, absurda vel impossibilia vel saltem certo falsa sequerentur; (...). 55. Del Giudice i, iii, c. ii, a. 1, 53-54 (Percezione, § 75): Ad hominem postremo, si nempe ex iis ipsis, quae concedit adver- sarius, probetur controversia propositio; (...)• 56. Del Giudice i, iii, c. ii, a. 11, 55 (Percezione, § 76): 243. Def Demonstratio fallax (cui tamen nec nomen quidem demonstrationis convenit), est argumentatio, quae rationae vel ma- teriae, vel formae, vel utriusque, vel demum alterius cujuscum- que defectus recta non est.244. Schol. (...). Porro ratione materiae recta non est demonstratio, si vel aliqua vel etiam utraque praemis- sarum falsa sit; ratione formae, si terminorum vel propositionum dispo- sitio instituta non sitjuxta approbatas argumentatio nisi regulas. (...) 381 [p. 384 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 57. Del Giudice i, iv, c. i, 57-58 (Percezione, § 78): 259. Schol. Duplex est, analytica seu resolutionis, et synthetica seu compositionis, quibus addi etiam solet methodus studendi ac dispu- tandi. 58. Del Giudice i, iv, c. i, 57-58 (Percezione, § 79): 260. Def. Methodus analytica a verbo graeco analysis, latine re- solutio, est ars, qua, posita quaestione, cujus veritatem investiga- mus, ipsam in suas partes dividimus, usque dum ad principia ven- tum sit, ex quibus componitur. 261. Schol. Hac scilicet methodo sive re sive mente totum in suas partes eo consilio discerpimus, ut ipsas seorsum contemplando, tum singularum, cum etiam ejusdem totius perspicuam assequamur notitiam. (...). Regulae: 262. (...) 111. Si quaestio sit composita, accurate resolvi debet in suas partes, primumque illa expendi, ejus solutio aliarum quoque partium solutioni inservire posse dignoscitur. 59. Del Giudice i, iv, c. ii, 58 (Percezione, § 80): 263. Def Synthetica methodus a verbo graeco Synthesis, latine compositio, est ars, qua, partibus propositae quaestionis examini jam subjectis, in unum velut totum ipsae sic disponuntur, ut ejus¬ dem totius notitia facile ac dilucide insinuari aliorum mentibus possit. 60. Del Giudice i, iv, c. iv, 63 (Percezione, § 82): De Methodo scholastica 272. Hujus Methodi natura ac genium ex iis Regulis, quas tum Opponens cum Defendens servare debent, quasque in tironum gratiam mox subjiciemus, constabit mani¬ festissime. 61. Del Giudice i, iv, c. iv, 63 (Percezione, §§ 83-84): Regulae ab Opponente servandae. 273. 1. Proposita a Defendente propositione, Opponens aut Syllogismus aut enthimema conficiat, cujus consequens sit an- 382 [p. 385 modifica]ODOARDO DEL GIUDICE tithesis, seu propositio, quae Defendentis thesi contradictorie adversetur. Etiam in progressu disputationis curare debet Oppo- nens, ut propositio a Dejendente in priori argumentatione negata, sit semper Syllogismi vel enthymematis ab se ad negatae propositionis de- monstrationem constructi consequens. 383 [p. 386 modifica]GIOVANNI GRANELLI ★ Antologia i. Granelli 1. vm, 53-54 (Bestie, § 52): È certo dunque primieramente, che i Bruti animali non han¬ no un’anima ragionevole, com’è la nostra, cioè un’anima dota¬ ta d’intelletto, e di volontà, (...)• Questa certezza non solamente è fondata su i principj infal¬ libili della Religione, ma non meno su quelli del buon discorso, 384 [p. 387 modifica]GIOVANNI GRANELLI e della buona Filosofia; lo che quantunque per me si voglia suppor piuttosto, che dimostrare, piacemi nondimeno addurne un piano, e popolare argomento, che parrà a molti nuovo, ben¬ ché noi sia, e a tutti sarà picevole ricordare. Molte cose si possono agli Animali insegnare (...). Ma evvi egli mai stato alcuno, il quale sia riuscito a insegnar loro una lingua? Non dico di proferire parole, dico parlare una lingua? (...). Questo, Uditori, nè si è veduto, nè si è potuto veder giammai. 2. Granelli 1. viii, 55 (Bestie, § 63): Ho studiato per soddisfarvi, di saper tutto quello che ne han¬ no detto i Filosofi buoni, e cattivi, nè ignoro il bizzarro sistema (a) di chi, piuttosto poetando scherzevolmente, che seriamente filosofando, i corpi tutti degli Animali fece da diabolici Spiriti condannati, quasi per loro pena, e avvilimento animare. (a) «Bougeant», qui se retracta 3. Granelli 1. vili, 55-56 (Bestie, § 66): Resta dunque che sieno Anime materiali. Nemmeno questo io non ardisco asserire. Ma perchè sapendo per l’una parte, e provando, che Spiriti, come i nostri, non sono, e trovando per l’altra troppa difficultà a concedere alla materia senso, immagi¬ nazione, e memoria, che i Bruti veggiamo avere, noi potremo, e dovrem dire, che Dio onnipossente una sustanza terza creò, che non è quello, che noi diciamo materia, perchè ha senso, immaginazione, e memoria, nè quello, che propriamente diciamo Spirito, perchè non ha nè intelletto, nè volontà. (...). Pensando certo, e ragionando così, e spieghiamo natural¬ mente le divine parole, e ci teniam facilmente d’ogni errore lontani, nè non facciamo violenza alcuna alle idee, che la natu¬ ra medesima generalmente ci forma degli Animali. 385 [p. 388 modifica]FRANCISCUS JACQUIER 386 [p. 389 modifica]FRANCISCUS JACQUIER 387 [p. 390 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 388 [p. 391 modifica]FRANCISCUS JACQUIER 389 [p. 392 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA

Antologia i. Jacquier, Phys. i, Proemium, 4-6 (Moto, §§ 10-13): vi. Quamvis Physica theoretica in effectibus explicandis occu¬ pata sit; cavere tamen maxime debent Physici, ne effectuum cau- sas temerario proferant: igitur, ut totus Physices scopus intelliga- tur, quod causa physica vocabulo significari velim dare expo- nam. Deus est prima, et unica rerum omnium causa; verum antequam ad primam alicujus effectus causam perveniamus, plurimae aliquando percurrendae sunt intermediae causae, ita ut effectus alicujus causa non tam causa dici debeat, quam effectus alius, qui suam quoque habet cau¬ sam, donec tandem perveniamus ad effectum, cui nullam agnoscat cau¬ sam praeterDeum, vel ipsam corporum naturam. Rem exemplo illu- strabimus. Gravium descentium legem accurate demonstrant Physici; hujus descensus causa est gravitas, quam velut effec¬ tum ex alio causa oriundum considerant plurimi Physici. Ita- que licet corporum descensus proxima causa nota sit, gravitas 390 [p. 393 modifica]FRAN CISC US JACQUIER nempe; ignota tamen est causa remota, sive causa gravitatis. Quare ut plurimum sistendum est in causis proximis, nec remotiores causae afferri debent, nisifuerint perspicue cognitae; inde autem fit, ut in rebus physicis multa confusio persaepe oriatur. Quae cum ita sint, jam evidens est, in Physica theoretica confìdenter ostentandas non esse causas ultimas, sed satis esse proximas, vel remotas, quae dare innotescere possunt; et quidem ulterior co- gnitio exiguae admodum esse utilitatis. Si enim descensus le- ges demonstraverit Physicus, si effectus gravitatis aestimare, et ad calculum revocare novit, eadem in humanam societatem re- dundat utilitas, etiamsi gravitatis causa nos lateat. (...)• iugula prima. Effectuum naturalium causae non plures sunt admittenda, quam quae ac vera sunt, ac effectibus explicandis sufficiunt. 2. Jacquier, Phys. i, s. i, c. i, a. i, § i, 14 (Moto, § 25): 1. Vis inertiae dicitur illa proprietas, qua corpora statum suum, vel motus, vel quietis perpetuo tueri conantur. Hujus defìnitioni partes singulas explicabimus. Non solum corpora statum suum quietis perpetuo servant, seclusis viribus quibuslibet impressis, quod quidem a nemine in dubium vocatur, sed edam seclusis omni¬ bus impedimenris, statum motus perpetuo retinent, hoc est, si corpus moventur, moveri perget in mfmitum eadem semper ve¬ locitate, et in linea recta, nisi causa aliqua corporis directionem, et velocitatem turbaverit. Vim illam in corporibus non sentimus, nisi illorum statum mutare conemur; ille autem conatus ad mutan- dum corporis alicujus statum dicitur actio; at conatus, quo corpus ali- quod status mutationi resistit, vocatur resistentia, vel reactio. 3. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 1, a. 1, 18-19 (Moto, §§ 28-31): At si navigii motus subito sistatur, homines stantes in navis antrorsum praecipites ruent, quod facile experiri quisque potest stans in cursu celer¬ rime delato cujus motus statim sistitur, is enim inpartem currus anterio- rem sese raptum sentiet. Si vas aquaeplenum in tabula aliqua collocetur et vi satis magna impellatur, aqua in vase sub initio motus versus partes motui vasis contraria tendere videbitur, non quod revera talis motus 391 [p. 394 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA aquae impressus sit, sed cum aqua in eodem quietis statu perseverare co- netur, vas motuum suum aquae statim imprimere nonpotest, ac proinde aqua, ut ita dicam, a vase derelicta et revera quiescens, locum mutare vi- debitur. Tandem postquam vasis motus in aquam transiit, et aqua una cum vase uniformiter et eadem celeritate progredì ceperit, si vasis motus subito cohibeatur, aqua tamen in eodem motu perseverare conabitur et super vasis latera assurget. Huic causae tribuendum est quod navi turbo¬ lento mari jactata in ipsa sedentes homines, doloribus, nausea et vomitu ajficiantur, praesertim si mari non fuerint assueti; etenim liquores in ventriculo, intestinis, vasis sanguiferis caeterisque canalibus contenti, na- vis jactationibus non statim obediunt; nude in Corpore humano Jluido- rum motus turbabitur et morbi orientur. 4. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 1, a. 1, § 2, 19 (Moto, § 24): 11. Corpora mutationi status resistere demonstrant rationes Meta- physicae. Et quidem si corpora mutationi status non resistant, corpus quodlibet etiam valde magnum e quiete ad motum, vel e motu ad quietem non solum facili manu, sed etiam sine ullo conatu posset reduci; vis etiam minima motum quantumvis magnum posset producere, vel etiam sistere; nullaque foret in¬ ter causam, et effectum proportio, quod repugnat Ontologiae principiis, atque experientiae. 5. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 1, a. 1, § 2, 23-24 (Moto, §§ 15-16): Instabis 2. Si corpus nostrum moveatur, vel in obstaculum aliquod impingat, sensationum nostrarum testimonio acquiri- mus vis cujusdam majoris, vel minoris notionem, quam ex quiete nullatenus comparamus. Et quidem corpus quiescens nullum unquam motum producere poterit, contra autem cor¬ pus incurrens in corpus quiescens, illud movebit. Ex his ergo sic concludere licet: vis illa in corpore quiescente saltem ad- mitti non debet, quae in corporum motu tantum sese manife- stat. Atqui etc. Ergo etc. Resp. concedo maj. nego minorem. Fa¬ cile sibi persuadent homines meditationibus philosophicis non satis assueti in corporibus motis adesse conatum quemdam, 392 [p. 395 modifica]FRANCISCUS JACQUIER quo carent corpora quiescentia; inde autem originem habet er- ror ille, quod inanimatis corporibus ea facilius tribuamus, quae in proprio corpore observamus. Porro dum vis nomen ad inanima¬ ta corpora transferimus, levi etiam attentionepatet, idfieri non posse, ni- si in triplici dumtaxat sensu. 1. Si corpori inanimato propriam sensatio- nem tribuamus, quod est absurdum: 2. Si vis nomine intelligamus meta- physicam quamdam entitatem a nostris sensationibus diversam; quam quidem nulla ratione intelligere, nec proinde definire possumus. (sic). 3. Tandem si vis nomine significemus ejfectum ipsum, velproprietatem ali- quam ejfectu manifestatam, cujus causam non investigamus. Hac autem ultima significatio sola est rationi consona. 6. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 1, a. 11, 26-27 (Moto, § 26): 1. Principium illud ex vi inertiae facile derivatur. Etenim si corpus aliquod certam motus quantitatem in alio corpore producat, id fieri non potest, nisi mutationi status resistat corpus, quod da- tam motus quantitatem accipit. Necessum est igitur, inter corpus agens, et corpus patiens mutuam veluti pugnam excitari; ita ut quan- tum motus accipit corpus patiens, tantum amittat corpus agens. Etenim ponamus, reactionem actioni aequalem non esse; jam corpus pa¬ tiens omni mutationi status non resisteret, sed alicui dumtaxat mutationis parti, quod falsum esse, demonstravimus in prece¬ denti conclusione. Itaque patet, actionis, et reactionis aequalitatem necessarium esse vis inertiae corollarium. 7. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 1, a. 11, 29 (Moto, § 27): Hanc reactionem experiuntur, qui sclopeti caput faciei, vel humero proximius non satis firma manu retineant, validissimum reactionis ic- tum sentient. 8. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 50 (Attrazione, § 8): Circa solem revolvi observantur stellae quinque, planetae sive erraticae ideo appellatae. (...) Illi autem satellitesquiplanetae secun- darii etiam appellantur eadem lege circa planetas primarios revolvuntur, 393 [p. 396 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA areas scilicet circa suos planetas, et circa solem ipsum descri- bunt temporibus proportionales. 9. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 51 (Attrazione, §§ 9-10): hanc autem ratiocinationem quae non satis firma fortasse vide- bitur, confirmant errores in Saturni Jovisque motibus ex mutua il- lorum actione oriundi. Pro varia planetarum illorum distantia a sole et a se invicem, prò diversa illorum mutua et respectu solis positione, multae in illorum motibus observantur inaequalitates quae nulli alteri causae quam mutuae attractioni tribui possunt. 10. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 54 (Attrazione, § 13): Itaque attractionem universalem demonstrant phenomena caelestia atque terrestria, ita ut hanc naturae legem in dubium vocare non possit ingenus philosophus;(...). 11. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 56-57 (Attrazione, § 11): Ex illa mutua attractione sequeretur universi sitematis pla- netarii confusio; Si enim planetae se mutuo attrahant, progressu tem- poris in se mutuo praecipites ruere debent atque tandem in eamdem cum sole massam coalescere. Ergo etc. Resp. Nego. Ant. cujus probatio tota facile evanescit, si attendamus planetas duabus viribus urgeri, una secundum directionem tangentis, altera autem centripeta. (...) Stellae fixae eamdem perpetuo a se invicem distantiam servant, suisque locis immotae manent; Iis ergo nullus impressus est motus ac proinde sola remaneret vis centripeta quae stellae fixae in unum tandem coirent globum. Itaque sic argumentari licet: universam mundi compagem perturbaret attractio illa qua stellae fixae in se mutuo tenderent atque in unicam tandem coalescerent massam, atque etc. ergo etc. 12. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 57 (Attrazione, § 12): Praeterea certissimum est, stellas esse totidem solem proprio lumine fulgentes, circa quos probabilissimum est revolvi non secus ac circa solem 394 [p. 397 modifica]FRANCISCUS JACQUIER nostrum diversa planetarum sistemata. Si autem haec fìat hypothe- sis, jam facile intelligitur stellas singulas in proprio virium centro quiescere vel nihil fere moveri (...). 13. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 1, 58 (Attrazione, § 13): Magna observationum subtilitate hanc attractionem expertus est D. Bouguer unus ex doctissimis parisiensibus academicis qui laboriosum aeternaque fama dignissimum iter agressi sunt ad definiendam telluris figuram. Prope ingentem montem in peruvio qui dicitur « Chimboraco » pendulum constituerat vir clarissimus; observavit autem filum penduti septem minutis secundis cum dimidio a perpendiculo aberrare, ab ipso scilicet monte attractum. Quo autem artifìcio et quanta diligentia usus fuerit D. Bouguer legere est in eximio opere de figura tel¬ luris. 14. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 11, 62 (Attrazione, § 19): Conclusio: Attractionis universalis lex est ut corpora omnia sese attrahant in ratione directa massarum et duplicata inversa distantia- rum. 15. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 11, 67-68 (Attrazione, §§ 20-24): Lex attractionis in ratione distantiarum duplicata decrescen- tis, contraria omnino est gravitatis terrestris legi. Etenim expe- rimentis constat vim gravitatis in eodem terrae loco, et in di- versis a tellure distantiis, eamdem manere; si corpus aliquod manu sustineamus sive in summa turri, sive in ima, eamdem pressionem sentimus; crassior quidem est haec aestimatio; at res accuratius definiri potest, si in summa turri staterae brachiis im- ponantur corpora duo quae sint in aequilibrio, deinde corpus alter utum e lance ipsa filo suspendamus, ac paulatim demittamus, aequilibrium manere experiemur in diversis etiam a terra distantiis. Quare si argu- mentari licet. Attractio illa non decrescit in ratione distantiarum dupli¬ cata quae indiversis a tellure distantiis eadem observatur, atqui etc. er¬ go etc. Resp. distinguo maj. Si distantiarum differentia fuerit 395 [p. 398 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA satis magna, concedo maj. Secus, nego maj. D. M. nego conse- quentiam. Quamvis gravitas terrestris decrescat in rationem distantia- rum duplicata a centro telluris, in exiguis tamen a terra distantiisgravi¬ tateci terrestrem velut constantem et perpetuo eamdem considerare licet. Etenim tantiUa est distantiarum in quibus experimenta sumi pos- sunt differentia ut prò nulla omnino haberi debeat, si cum inte¬ gra telluis semidiametro conferatur, quod exemplo patebit. Po- namus haberi experimentum in vertice montis omnium altissimi insula- rum Canariarum dicti pico de teneri/cujus altitudo sit trium miliarum. Jam vero semidiameter telluris ponatur circiter quatermille milliarum, sumptis quadratis erit gravitas in montis vertice atgravitatis in montem radice ut 16000000 ad 16024009, quae quidem ratio est quam proxime ratio aequalitatis, ita ut gravitatis differentia nullo experimento sentiri possit. Caeterum de gravitate constante illiusque directione tractabimus in capite sequente; quare haec pauca dieta sint. 16. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 11, 69-70 (Attrazione, §§ 17-18): Resp. ad totam hujus argumenti seriem frustra nobis objici praecedentem demonstrationem quam non solum non adhi- bemus, sed contra longe rejicimus; et quidem reprehendi om¬ nino debet talis hujus demonstrationis usus qui tamen in pleris- que philosophicorum libris legitur. Praecedens demonstratio transferri quidem potest adpropagationem luminis cuius intensitas decrescit in ra- tione duplicata distantiarum a puncto radiante; verum procul dubio er- rant phisici qui de omnibus qualitatibus a dato puncto in spheram dif- fusis eadem legem pronuntiant. Et certe id verum non est nisi adda- tur qualitatem illam progredi motu uniformi et nullam ejus partem sisti vel dissipari. Si enim celeritas mutetur, radii qui dato aliquo tempore in orbe uno includuntur, non contine- buntur in orbe altero, sed magis vel minus prout vel retardabi- tur motus vel accelerabitur. A vero igitur aberrant qui ad aesti- mandam quantitatem odoris e dato globo emissi, assumunt odoris intensitatem decrescere in ratione duplicata distantia¬ rum. Neque enim verisimile est motu uniformi recta progredi odoriferas particulas quarum plurimae circa ipsum corpus a 396 [p. 399 modifica]FRANCISCUS JACQUIER quo emanant, haerent ipsi aeri admixtae, aliae autem spirante vento inde avelluntur et longius abeunt. Sed multo minus ad defi- niendam attractionis legem trahi potest praecedens demonstratio; et qui¬ dem attractio considerali non potest qualitas instar per radios diffusae. Praeterea intelligi nequaquam potest quid ad attractionem conferre va- leat illa corpusculorum emissio. Hanc objectionem afferre placuit ut moneantur studiosi adolescentes philosophicis ratiocinatio- nibus temere et non sine examine credendum esse. 17. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 111, 70 (Attrazione, §§ 25-27): Inter minima fluidorum particulas mutuam attractionem exerceri de- monstrant ipsa guttarum fluidarum tenacitas atque rotunditas\ duae guttae fluidae in minima distantia sese attrahunt et in majorem gut- tam coalescunt; Eamdem mutuam attractionem inter corpora dura et fluida ostendunt etiam experimenta. Si lamella vitrea... 18. Jacquier, Phys. 1, s. 1, c. 11, a. 111, 70-71 (Attrazione, §§ 28-30): In praecedenti articulo illam dumtaxat consideravimus at¬ tractionem quae inter magna corpora et ad distantias satis ma- gnas exercetur; at inter minimas corporum particulas in ipso contactu et in minimis intervallis viget potentissima attractio cujus legem investigabimus. Sed praemittenda sunt experi¬ menta aliqua. (...) Si lamella vitrea supeificiei aquaeadmoveatur, ita ut ipsam aquam lambat, non sine conatu aliquo lamellam ab aqua di- strahi posse sentiemus, nempe per totam lamellae superficiem minimae aquae columnae adhaerescunt quae tandem, aucta vel tantisper distantia, proprio pondere relabuntur. (...) Probe notari debent haec experimenta illorumque conditiones; in omni corporum specie inter corpora quaelibet haec attractio exercetur, sed ea conditione ut in contactu et prope contactum sit maxima, in distantiis autem etiam valde exiguis evanescat. 19. Jacquier, Phys. 1, s. 11, c. 11, a. 1,221-222 (Estensione, §§ 13-17): 11. Praecedens demonstratio satis quidem esset; sed afferre non abs re erit experimenta nonnulla quae utilissima esse pos- 397 [p. 400 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA sunt. Durissima etiam marmora a fluidisplurimis penetrantur, a spiri¬ ta vini, a spirita terebinthinae. Parare docuit clariss. Dufaius in mon. Paris, an.1728.1732 liquores plurimos qui compactissimos quo¬ que lapides, facile pervadunt suaque reliquunt vestigia. Hinc si liquores illi variis tingantur coloribus, atque in aliqua superficie ducantur linea- menta, per varia lapidis strata ad oppositam usque superficiem, liquo- rum vi transmitti poterit imago quaelibet suis pietà coloribus. Notissima est Physicis perspiratio insensibilis quae a primo observatore Sanctorio, nomen Sanctorianae retinuit; ex octo alimentorum libris quas ali- quis uno die sumeret quinque, circiter hic apud nos, aetate ve¬ geta, vita commoda, vieta moderato, per transpirationem ela- buntar; hujus tamen transpirationis copia major vel minor est prò regionum varietate diversaque caeli temperie. Omnium animalium cutis scatet vasis innumeris quorum aliqua asorben- tia, alia exhalantia vocantur; Haec vascula, quae sub squamulis epi- dermidis oblique parent, tantae sunt subtilitatis ut computante Leenv- venhockio in spatio unius arenae globulo non majori hient plusquam 125000 hujusmodi meatusf...) Ex descriptis experimentis patet innu¬ meris poris pertusa esse dura cujuslibet speciei corpora. 20. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 1, 53 (Fluidi elastici, §§ 2-3): 1. Vim elasticam, variosque elasticitatis gradusjam defìnivi- mus in Physica generali; at de elasticitatis causa plures sunt Physico- rum opiniones, quarum aliquae falsae demonstrantar; nulla au¬ tem vera ostenditar. Cartesiani rem ita explicant; dum comprimitur; vel tenditur corpus aliquod elasticum, et in modum arcus flectitur, a se invicem recedunt particulae in superficie convexa, et ad se invicem acce- dunt in superficie concava. Hinc in parte concava angustiores fiunt pori, et ex rotandis V. G. ovales fiunt. His autem positis, fieri, ajunt, ut materia subtilis ex angustioribus poris, in quibus compressa latet, elabi conetur, atque hoc conatu corpus ad pristinum statum compellat. 21. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 1,53-54 (Fluidi elastici, §§ 4-5): Nemo non videt hypothesies illas vagas omnino esse, nul- lamque genuinam elasticitatis notione nobis ingerere. Et qui- 398 [p. 401 modifica]FRANCIS CUSJACQ UIER dem si pori ex parte convexafiant amplioresjam materia subtilis, quae formam quamlibet induere potest, eosdem poros statim jacilius occupa- bit, ac proinde corpus in statu compressionis manebit. 22. Jacquier, Phys. n, s. i, c. n, a. i, 54 (Fluidi elastici, § 6): Quod spectat Malebranchii vorticulos, tale figmentum haudfirmiori nititurfundamento, quam magnorum vorticum hypothesis jam antea profligata. Praeterea si vorticuli illi per intimas corporum om¬ nium cellulas sint disseminati, corpora omnia debent esse elastica. 23. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 1, 54 (Fluidi elastici, § 7): Elasticitatis causam ex attractionemprobabilius repetunt Newtonia¬ ni. Si corpus aliquodpercutiatiur, vel comprimatur, ita ut moleculae e lo- cis suis dimoveantur, non tamen ultra attractionis limites excurrant, ces¬ sante vi extrinseca, mutua attrazione adpristinum statum redire debent moleculae. Si autem Newtonianos quis interrogaverit, cur attrac- tio mutua in certis dumtaxat corporibus elasticitatem produ¬ cati id fieri reponent ob diversam molecularum naturarti, va- riumque illarum ordinem, ac proinde et variam attractionem. Hinc si corpus fuerit compositum ex moleculis heterogeneis, quae diversam habeant figuram, diversaque polleant vi attrac- tiva, exclusis e tota corporis massa certis particulis, aliisve sub- stitutis, jam alia diversae naturae orietur massa. Ita si lamella calybea liquefiat, hoc est, si in datam calybis massam, et inter varias illius moleculas aliud molecularum systema intrudatur ex ignis aerisque particulis compositum; debiliorfiet, atque etiam omnino evanescere poterit vis elastica. 24. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 1, 55 (Fluidi elastici, § 8): Quamquam haec explicatio, universalis attractionis lege inni- xa videatur; eam tamen nimis vagam esse, et ad dare explican- dos elasticitatis effectus superfluam, ingenue fatemur. Id ergo studiosis adolescentibus assidue inculcandum, ut de ignotis ejfectuum causis dubitare discant;praecipites enim opiniones, et ejfectuum explica- tiones non satis determinatae, Physices progressum maxime retardant. 399 [p. 402 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA in. His de elasticitate generatim explicatis, jam de fluidis elasticis pauca adjungemus. (...) Fluidorum elasticorum pressionem dumtaxat considerabimus; illorum enim motum accurate explicare res est diffìcilior, et ad explicandas aeris proprietas nullius fere utilitatis. 25. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 111, 77 (Fluidi elastici, §§ 31-33): in. Quidquid minimas aeris particulas ita commovere valet, ut mo¬ tum tremulum admittant, id sonum producent. Duo autem potissimum considerabimus sonorum genera. Primum est eorum qui a corpore tremu¬ lo oriuntur, cujusmodi sunt chordarum, campanarumque soni. Alterum vero sonorum genus eorum est, qui inflatis instrumentis prò du- cuntur, sic tibiae, fìstulae, aliaque id genus instrumenta ore in¬ filata tinniunt. 26. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. ni, 88-89 (Fluidi elastici, §§ 35- 40): vii. Duplicem jam consideravimus instrumentorum spe¬ ciem; at praetermitendum non est vocis instrumentum, quod ad utrumque instrumentorum genus pertinere videtur. Precla¬ rissima referemus experimenta, quae paucis ab hinc annis de ani- malium voce habuit vir clariss. D. Ferrein. Ex Anatome notum est, tracheam, sive asperam arteriam esse canalem, qui propefauces per anteriora colli ad pectus descendit, et in multos ramos, branchia ap- pellatos, per universam pulmonum substantiam disseminatur, ut omnibus eorum cellulis, aut vesiculis possit aerem suppedi- tare; hujus canalis caput, quod laryngem vocant, media rimula per- tusum est, quae rimula glottis dicitur, et sistulae peristomium imitatur. Circumglottidis labia conspiciunturfibrae tendinosae, quas chordas vo- cales ob illarum officium appellare laudato viro placuit. (...) His po- sitis, totum vocis artificium ita explicatur. Dum aer e pulmonibus per tracheam ejicitur, glottidis fibrillas vellicat, motuque tremulo agitat. Illae autem fibrillae, prò tonorum varietate, majoris, vel minoris tensio- nis capaces sunt, atque ad illam tensionis varietatem producendam la- ryngis cartilaginibus aptatos musculos deprehendit D. Ferrein. Ex his 400 [p. 403 modifica]FRANCISCUS JACQUIER omnibus jam suspicio oriri potest, vocis organum ad chordas sonoras, atque etiam ad instrumenta pneumatica pertine- re;(...). Hanc conjecturam ita confìrmant experimenta, ut ex¬ tra omnem dubitationem posita videatur. 27. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 111, 91-94 (Fluidi elastici, §§ 41- 43): viii. Soni doctrinam in aere, et in instrumentis sonoris hacte- nus consideravimus; ultima jam superest hujus articuli pars, quae est de ipso auditus organo. Praecipuas ejusdem organi partes, quantum officii nostri est, ordine describemus, illarum- que usum exponemus. Externa auris pars oculis subjecta dici¬ tur auricula, quae est cartilago, sive membrana capitis cuti fìrmiter annexa, hinc inde prominens, et in modum conchae expansa ad aerem majori copia excipiendum. Hinc ii, quibus resecta est auricula, minus distincte audiunt, et manu instar cornu inflexa uri solent. Conchae adiacet meatus auditorius partim cartilagineus, partim osseus, qui variis flexibus velut spiris contorquetur, ut reflexionum numerus, ideoque et sonus augeatur. In fine meatus auditorii occurrit membrana quaedam subtilis annulo osseo imposi- ta, nullo foramine pertusa, versus meatum auditorium tanti- sper cava, versus interiora auris convexa; haec membrana Tympa- ni appellatur. Quandoquidem vero variis aeris motibus exci- piendis haec eadem tympani membrana modo laxari, modo tendi debuerat, huic operi ossicula quatuor a sapientissimo, di- vinoque artifice destinata conspiciuntur, malleolus, nempe, incus, stapes, et os orbiculare. Malleolus sua cauda tympano nectitur, capite in- cudi, cui subjectus est stapes, hic autem cum ossiculo orbiculari conjungi- tur; illa autem quatuor ossicula sic inter se conjunguntur, et adjunctis musculis trahuntur, ut tympani membranam modo laxiorem, modo ten- siorem reddi oporteat. Itaque dum extrema stapedis pars contrahi- tur, annexa illis incus impelli debet, eademque contractio dif¬ fondi in malleoulum, qui cum altera sui parte tympano adhae- reat, tympanum ipsum debet contrahere, ejusque membranam duriorem reddere. Praedicta ossicula continentur in cavitate, 401 [p. 404 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA quae tympani cavitas appellatur. In cavitatem tympani hiat tuba Eustachiana, quae est canalis longior partim osseus, partim cartilagi- neus, perpalatum protensus, communicans curn aere externo, qui ore, et naribus hauritur. In eamdem cavitatem hiant quoque orifìcia cel- lularum maistoidearum, et fenestrae duae; ovalis, quam tegit stapes, et rotunda, quae tenui membrana tegitur. Jam conside- ravimus meatum auditorium, et cavitatem tympani; contem- planda super est spelunca alia, ut dicunt, quae ossis petrosi cavi- tates continet, et labyrinthus vocatur. Media labyrinthi cavitas ap¬ pellatur vestibulum, ad quod ducit fenestra ovalis. Ad cavitates la¬ byrinthi pertinet etiam cochlea, cui opponuntur tres canales semi- circulares dicti: illi autem canales per quinque foraminula hiant in vestibulum. Maxime autem considerali debet admirabilis cochleae structura, hoc nomine appellata, eo quod cochleae figuram imi- tetur, in varios gyros, sinusque inflexa; hujus quidem spirae ini- tio latiores sunt, et ampliores, deinde vero sensim contrahun- tur. Huic autem ossi lege admirabili contorto subtiliores, atque molliores nervorum fìbrae a septimo pari diffusae superex- stensae conspiciuntur. Ad labyrithum quoque referre potest processus mastoideus, qui cellulas plurimas intus continet; quarum quidem cellularum benefìcio sonus admodum multi- plicatur. Tandem ultima cavitas est aquae ductus Fallopii, qui est canalis longior e labyrintho protensus in osse petroso in- sculptus, nervum acusticum, seu auditorium continens. Ner- vus autem ille in duos ramos dividitur, et mollem scilicet, et durum; mollis per labyrinthum distribuitur, durior autem per varios ramulos tendit ad tympanum, aurem externam, aliasque vicinas partes. Ex his licet brevius explicatis jam intelligere est, qua ra- tione in nobis excitetur sensatio soni. Sonus, qui in aere externo prò duci- tur, in auriculam incidit, et concham ingreditur; unde in meatum audi¬ torium defertur; hinc transmittitur in tympani membranam, quae sic concussa ad modum aeris incidentis contremiscere incipit. Hujus mem- branae fremitus communicatur aeri in tympani cavitate contento, qui per Tubam Eustachianam illue advenit, atque in eodem aere pulsus exci- tantur. Hic motus perfenestras propagatur ad fibrillas nerveas, quae in- ternas supetficies vestibuli, et trium canalium semicircularium vestiunt, 402 [p. 405 modifica]FRANCISCUS JACQUIER agitantur etiam ad modum aeris diversa, atque consona, quae per co- chleam secundum harmoniae leges eatenduntur nervi acustici filamenta, et inde motus per nervum acusticum ad cerebrum usque transfertur, et anima sonum percipit. 28. Jacquier, Phys. 11, s. 1, c. 11, a. 111, 94-95 (Fluidi elastici, § 46): ix. Unum jam superesset investigandum, qua scilicet ratione fieri possit, ut diversi peraerem tremores sine ulla tonorum confusione eodem tempore ad aures propagentur, variasque excitent soni sensationes. Et quidem in concentu musico soni tam graves, quam acuti eo¬ dem tempore distincte audientur. Tanta est propositi phaenomeni dijficultas, ut merae hactenus habeantur conjecturae, et vix aliquid amplius unquam sperandum fìt. Ingeniosissima sane est hypothesis viri dottissimi D. DeMairan, qui in aeris particulis diversos admit- tit elasticitatis, atque tensionis gradus, et diverso veluti tonos, ita ut aliae particulae tardius, aliae velocius suas vibrationes perficiant, atque ita diversas sensationes producant. 29. Jacquier, Phys. 11, s. 11, c. 11, a. 1, 211 (Idrodinamica, § 6): Alii Physici extimant, ignem ex corpusculis tenuissimis, rotundis, maxime mobilibus componi, ac sese infinita celeritate moveantur, et in singuas partes velocissime abripiantur; non solum obvia cor¬ pora pervadere, agitare, et comminuere possunt, sed etiam in nervorum fìbrillis, quas celeri vibratione percellunt, lucis, et caloris sensum imprimere valeant. 30. Jacquier, Phys. 11, s. iv, c. 11, a. 1, 437 (Elettricismo, § 4): Etenim si magnetem ex filo libere suspendas, sponte sua in hunc se disponit situm, utpolus septentrionalis septentrionem, australis austrum respiciat, etsi non accurate nec aequaliter ubivis locorum. 31.Jacquier, Phys. 11, s. iv, c. 11, a. 1,437-438 (Elettricismo, §§ 2-3): Magneticis polis idem impositum fuit nomen, quod globi nostri polis; unus nempe septentrionalis sive borealis, alter meridionalis sive au- 403 [p. 406 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA stralis dicitur. (...). Si magnes per medium axem leni manu secetur, qualibet pars duos acquirit polos; partes quae erant sub aequatore contiguae ante sectionem, et quae poli non erant, polorum vim habent; imo pars quaelibet polus borealis vel australis fieri pos- set, sectione facta majoris magnetis polo australi vel boreali proprius. 32. Jacquier, Phys. 11, s. iv, c. 11, a. 1, 438 (Elettricismo, § 5): Phaenomenon autem piane singulare praebent magnetis poli, nempe duorum magnetum poli, sifuerint diversi nominis, sese mutuo attrahunt; secus autem, si ejusdem nominis fuerint; nimirum polus septentrionalis trahit australem, sed non vicissim duo septentrio- nales vel australes sese mutuo attrahunt, imo sesefugiunt, sive repellunt. 33. Jacquier, Phys. 11, s. iv, c. 11, a. 1, 440-441 (Elettricismo, § 6): m. Virtute alia donatur magnes, ob quam fit, ut magnes polos suos praeter propter ad mundi polos convertat. (...). At dolendum est, quod ad majorem nauticae artis utilitatem acus magnetica ad mundi po¬ los sese non componat accuratae, variationibusque plurimis fit obnoxia. (...). Talis aberratio acus magneticae a meridiano appellatur declinatio. 34. Jacquier, Ethica gen., c. 111, a. 1, § 4, 139 (Felicità, § 11): Dolendum est maxime, veteres Philosophos magis perfec- tam virtutis notionem tradidisse, quam fecerint recentiores nonnulli, qui verae virtutis jucunditatem negant. «Ipsa quidem virtus sibimet pulcherrima merces»: ut canit Poeta. Ex hactenus de- monstrati nemo non intelligit, formalem hominis beatitudi- nem in vera virtute positam esse. 35. Jacquier, Logica 1, c. 1, 38-39 (Percezione, § 15): Tales, esse dicunt ideas Dei, entis generatim, essentiae, existentiae, unitatis, pulchritudinis, durationis, ordinis, cogitationis, extensionis, etc. (...). Verum quod ideas innatas spectat, quaestionis status 404 [p. 407 modifica]FRANCISCUS JACQUIER non satis dare exponi solet. (...). Et re quidem ipsa idearum innatarum vocabulo nullam aliam notionem subjid posse fate- buntur qui gravissimam quaestionem hanc, non ex disputationis aestu, aut definitionis ambiguitate, sed ex proprio conscientiae testimonio ex- pendent. 36. Jacquier, Logica 1, c. 111, 86-87 (Percezione, §§ 33-34): Sic dolorem gemitus et suspiria saepe consequuntur, laetitiam risus et cachinni, timorem pallor, pudorem rubor in facie, iram ardor in oculis etc. 37. Jacquier, Logica 1, c. 111, a. 11, 107 (Percezione, § 56): In omni definitione rei id maxime curandum est, ut res definita a quacumque alia re peijecte distinguatur (...). 38. Jacquier, Logica 111, c. 11, a. 1, 177 (Percezione, § 74): Quoniam in demonstratione apogogica, seu indirecta expo¬ sito contradictorio ejus, quod probari debet, tanquam vero, id colligitur quod propositioni verae, vel notioni subjecti contradicit; propo- sitionem aliquam ad absurdum vel impossibile reducturus sumit propo- sitionem contradictoriam tanquam veram, eaque utitur tanquam defi¬ nitione vel hypothesi in demonstratione ostensiva. Reliqua autem ratiocinationum series absolvitur ut ante, donec perveniatur ad conclu- sionem quae vel definitione, vel hypothesi, vel propositioni ali- cui verae contradicit. 39. Jacquier, Met. 1, 2 (Ente, § 2): Sterilisfuit a plerisque Scholasticis usurpata hujus Scientiae tractan- dae methodus; etenim ad methodi demonstrativae formam non satis attendentes, confusas tantum, obscurasque notiones reliquerunt. 40. Jacquier, Met. 1, 2 (Ente, § 5) : Etenim definitiones, ac propositiones ontologicae ad entia quaecumque in dato quolibet entis transferri possunt, ac proin¬ 405 [p. 408 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA de, si definitiones sint accuratae, et propositiones dare determinatae, Ontologiae usus est maximus. 41. Jacquier, Met. 1, 2 (Ente, § 4): Quemadmodum ergo Logica artificialis est distincta explicatio Logi- cae naturalis, ita explicatio distincta Ontologiae naturalis dici potest Ontologia artificialis, nempe notiones confusas, quae sunt Ontologiae naturalis, ad distinctas revocat Ontologia artificialis, et propositiones vagas ad determinatas reduci. 42. Jacquier, Met. 1, c. 1, a. 1, 3-4 (Ente, § 7): « Fieri non potest, ut idem simul sit, ac non sit: » Propositio hanc dici¬ tur: «principium contradictionis »; nimirum contradicere sibime- tipsi dicitur, qui idem simul esse, et non esse pronuntiat. Princi¬ pium illud Aristoteles, et deinde Scholastici omnes adhibuerunt instar axiomatis maxime generalis. Propositionum contradictoriarum naturam in Logica jam explicavi, quae ad Metaphysicam perti- nent hic adjungam.(... ). De veritatis criterio jam sermonem ha- bui in Logica, et quaestionis statum dare exposui. 5. Thomas Aristotelem secutus primum principium statuit axioma istud: «Impos¬ sibile est, idem simul esse, ac non esse.» 43. Jacquier, Met. 1, c. 1, a. 1, 4 (Ente, § 8): Cartesiani fere omnes primum cognitionis principium cum ipso, quae ab ipsi statuitur, veritatis criteri confundunt, primumque om¬ nium principium esse affirmant propositionem hanc: Quid- quid in idea clara rei alicujus comprehenditur, id de ea re potest affir- mari. 44. Jacquier, Met. 1, c. 1, a. 11, 13 (Ente, §§ 9-10): Nihil est in mundo materiali sine ratione sufficiente, cur potius sit, quam non sit; id est, si aliquid esse ponitur, ponendum est etiam aliquid, cur potius sit, quam non sit. (...). Patet autem exemplum illud generaliter accipi posse, cum de ente quocun- 406 [p. 409 modifica]FRANCISCUS JACQUIER que eadem ratiocinatio instimi possit. Et certe principium rationis sufficientis reipsa omnes nitro concedere videntur, cum in omni casu, ni¬ hil admittamus sine ratione sufficiente. 45. Jacquier, Met. 1, c. 1, a. 11, 14 (Ente, § 11): Etenim si sumatur aliquod phaenomenum, atque inquiratur ratio suffìciens, cur fit, aut rationem illam deprehendemus, aut saltem demonstrare nunquam poterimus, nullam adesse: si au¬ tem exemplum nullum afferri possit, in quo nullam rationem adesse de- monstretur, affirmari non potest, principium rationis sufficientis expe- rientiae repugnare. 46. Jacquier, Met. 1, c. 11, a. 1, 16 (Ente, § 15): Ens dicitur id omne, quod existere potest, seu cui existentia non repu- gnat.(...). Ens fictum appellatur id, cui existentiam non repugnare ponimus, quam vis reverat repugnat, idque fit ex eo, quod non ad- vertamus contradictionem in fallace, et deceptrice notione laten- tem. 47. Jacquier, Met. 1, c. 11, a. 1, 19-20 (Ente, § 16): Essentia igitur definiri potest id, quod primum de ente conci¬ pitur, et in quo continetur ratio suffìciens, cur caetera vel actu insint, vel inesse possint; et haec essentiae notio est notionis Philosophorum conformis. Etenim Franciscus Suarez e Socie- tate Jesu Tom. I. Dist. 2. Sect. 4. «essentiam rei id esse», dicit, « quod est primum, ac radicale, et intimum principium omnium actio- num, et proprietatum, quae rei conveniunt;» et paulo post addit: 48. Jacquier, Met. 1, c. 11, a. 1, 20-21 (Ente, § 17): Quod existit, id est possibile: principium illud Scholasticorum verbis enuntiabimus: «Ab esse ad posse valet consequentia », seu quod perinde est: «Ab existentia adpossibilitatem valet consequentiam »: Sed non vi¬ ceversa: a posse ad esse valet consequentia. (...). Quare patet, 407 [p. 410 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA possibilitatem non esse rationem suffìcientem existentiae, ac proinde ex eo, quod aliquid possibile sit a priori, non tamen in- telligitur, cur existat. 49. Jacquier, Met. 1, c. 11, a. 1, 22 (Ente, §§ 12-14): Possibilitas rerum absoluta, et primaria est indipendens a voluntate divina. (...) Prob. 2. Si possibilitas rerum absoluta penderet a voluntate Dei, rerum possibilium ideae potuissent esse in mente Divina ideae re¬ rum impossibilium, ergo essent mutabiles ideae, quae sunt in mente Divina, ac proinde non essent necessariae; ergo non es¬ sent essentiales Deo, ideoque Deus posset concipi sine ideis re¬ rum possibilium. Sed si Deus concipi possit sine ideis rerum possibilium, possibile est, ut Deus sit aliquando sine cognitione rerum possibilium, quod repugnat. 50. Jacquier, Met. 1, c. iv, a. 1, 51-53 (Ente, §§ 46-47): Ex nihilo oriri dicitur aliquod, dum ita existere incipit, ut nihil ejus antea existerit. Contra autem annihilari dicitur aliquid, dum ita existere defìnit, ut nihil ejus postea supersit. (...)• Hinc patet, composita oriri posse, licet non educantur ex nihilo (...). Similiter composita inferire possunt, licet non redigantur in nihilum (...). Ens simplex ex composito oriri nequit. Etenim ponamus, si fieri potest, ens simplex ex composito oriri. Quoniam compositum constat ex pluribus partibus distinctis, quidquid ex composit oritur, hoc est, quidquid existere incipit, illud oriri debet, vel facta partium dissolutione, vel nova partium dissolutarum facta connexione, et quidem, nihil aliud hi partibus accidere posse, evidens est. Si partes dissolutae novo quodam modo conjun- gantur, prodit ens compositum, non simplex. Si facta partium dissolutione aliquid prodit, vel existere incipit ens composi¬ tum, quod antea non existebat, vel si ens simplex prodit, nul- lum ens existere incipit, quod antea non extiterit; ac proinde ens simplex ex composito oriri non potest. 408 [p. 411 modifica]FRANCISCUS JACQUIER 51. Jacquier, Met. 1, c. iv, a. 1, 52 (Ente, §§ 48-49): Similites ex ente sitnplici ens simplex oriri nequit. Etenim ens sim¬ plex caret partibus, ideoque est indivisibile, ac proinde nihil ab eo sepa¬ rati potest, quod extra ipsum existerepossit. (...). Superest ergo, utpro- ducantur ex nihilo. 52. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1,200-202 (Ente Supremo, § 12): Ens ab alio est illud, quod rationem sufficientem existentiae suae in essentia sua non habet, sed in ente alio a se diverso, ideoque indiget vi alterius ad existendum, et idem est, ac ens con- tingens. Igitur aseitas est indipendentia existentiae ab alio, seu est id, quo ens est a se. Ens a se non est compositum, sed sim¬ plex. Etenim ens a se per essentiam suam nullum habet exi- stendi initium, nullumque fìnem; sed ens omne compositum oriri, ac inferire potest, existendi initium, ac finem potest habe- re, ut demonstratum est in Ontologia. Igitur ens a se compositum esse nequit, ideoque nulla habet partes, ac proinde simplex est. Hinc cum omne exstensum partes habeat, quarum unaquaeque ex¬ tra alteram existit; ens a se extensum esse nequit, et quod ex- tensum est, a se esse non potest. Mundus aspectabilis non est ens a se, sed ab alio,(...). Est enim ens compositum: mundus ergo indiget vi alterius ad existendum. conclusio, Prima Demonstratio: Dei nomine hic intelligimus ens a se, in quo continetur ratio sufficiens existentiae mundi hujus aspec¬ tabilis; (...). 53. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1,205-206 (Ente Supremo, §§ 31- 33): Altera demonstratio ex notione entis perfectissimi: Nomine Dei hic intelligimus ens perfectissimum; sed existit ens perfec- tissimum; ergo existit Deus. Prob. Min.i. Ens perfectissimum possibile est, seu nullam contradictionem involvit; cum enim ens perfectissimum fit, quod omnes perfectiones possibiles continet ingra- du absolute summo; (...) 2. Ens perfectissimum necessario existit, 409 [p. 412 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA estque proinde ens a se. Etenim ens perfectissimum continet omnes peifectionespossibiles ingradu absolute summo; existentia autem neces¬ saria, et aseitas sunt perfectiones in gradu absolute summo; enti igiturperfettissimo competit existentia necessaria, ideoque necessario exi- stit, estque ens a se. Ergo existit Deus. 54. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1,206-207 (Ente Supremo, §§ 34- 35): Duabus praecedentibus demonstrationibus tertia addi po¬ test, quae ex Philosophorum, et gentium omnium consensu desumitur. Praeclare, sapienterque observavit Cicero: quod nulla gens sit tam immanis, neque tam fera, quae non, etiamsi ignoret, qualem Deum habere deceat, tamen habendum sciat. Quiae vero, ut ait idem Cicero, omni in re consensio omnium gentium lex naturae putanda est, supremi Numinis, primae causae cognitio ita est a natura impressa, ut a nemine in dubium vocari possit. 55. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1,216-217 (Ente Supremo, §§ 21- 22): Inst.4. Maxima Philosophorum pars admittit vacuum, sive spa- tium immensum, infìnitum, aeternum, increatum, immuta¬ bile, ac proinde spatium est ens a se; ergo ex aseitas notione non colli- gitur existentia Dei, sive entis perfectissimi, ideoque nulla est prima demonstratio. Respond. varias explicando de natura spatii Philosophorum opiniones. De hac quaestione acriter in scholis disputatur, eamque in Physica nos iterum revocabi- mus. 56. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1,218 (Ente Supremo, §§ 24-25): Si res diversae considerante tamquam multitudinem ali- quam constituentes, omissis per abstractionem re rum illarum qualitatibus, vel determinationibus, jam formatur idea numeri. At nisi foret realis entium multitudo, nullus existeret realis numerus, sed numeri forent dumtaxat possibiles. 410 [p. 413 modifica]FRANCISCUS JACQ UIER 57. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1, 218 (Ente Supremo, § 2ó): Quia vero res utcunque multas imaginari possumus, et ab illa- rum determinationibus abstrahere; hinc nascitur idea spatii infini¬ ti, immutahilis, immobilis, quod quidem spatium omnino est imagina- rium. 58. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 1, 219 (Ente Supremo, § 23): Quod ultimam partem spectat, eam negare, ac refellere pos- sem. Verum cum ea a Philosophis illibatae, minimaeque su- spectae fidei propugnetur; alia mihi ineunda est via, et in quali- bet philosophica hypothesi totum manere demonstrationis ro- bur, facile ostendam. Itaque dum in prima demonstratione aseitatis notionem adhibuimus, per ens a se intelligimus ens omnino indipendens, quod continet rationem non solum suae existentiae, sed etiam totius mundi hujus aspectabilis. Porro ra¬ tio illa tribui non potest spatio quantumvis infinito, et aeterno. Hujus opinionis spectatores spatio intelligentiam nullam, vim nullam tribuunt, nec tribuere possunt. Spatium considerant velut substantiam merepassi- vam. 59. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 11 a. 11, 221 (Provvidenza, § ó): Deus semetipsum, et omnia, quae ipsi insunt, distinctissime, et unico actu, seu simul cognoscit. Nam anima humana semetipsam cogno- scit, et haec sui ipsius cognitio est perfectio, quae animae hu- manae vere inest; sed Deo tribuendae sunt perfectiones, quae insunt animae nostrae, et quidem in gradu absolute summo; ergo cognitio sui ipsius Deo tribuenda est in gradu absolute summo, adeoque sine ulla imperfectione. Porro experimur in nobis, animae nostrae cognitionem in eo impeifectam esse, quod omnia, quae animae insunt, quaeque in eadem contingunt, nec dare distinguere, nec simul cognoscere valeamus; necesse est igitur, ut Deus, in quo nulla dari potest imperfectio, semetipsum et omnia, quae ipsi insunt, di¬ stinctissime, atcque simul cognoscat. 411 [p. 414 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 60. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 11, 221 (Provvidenza, § 7): Deus non solum mundum hunc aspectabilem, sed edam omnes mun- dos possibiles disdncdssime et simul cognoscit. 61. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 11, 244 (Provvidenza, § 13): Neque mala physica, et moralia obstant, quominus mundus bonus sit, et fini ultimo, quem sapienda Dei rebus omnibus praescripsit, omni- no conveniat. Ea enim, quae mala nobis videntur, a sapientissima causa permitti poterant, cum exinde plurima bonorum genera oriantur. Nam ut observat Sanctus Augusdnus in Enchirid. c. 11. « Ne¬ que» enim «Deus omnipotens nullo modo sineret, mali esse aliquid in operibus suis, nisi usque adeo esset omnipotens, et bonus, ut bene faceret edam de malo». 62. Jacquier, Met. 11, s. 11, c. 1, a. 11, 244 (Provvidenza, § 31): Et quidem cum Deus per mundi creadonem manifestare volueri gloriam suam, ideoque et suam summam bonitatem; dubitan- dum non est, quin unicuique creaturae tantumdem boni con¬ ferai quantum ad consequendos fìnes Uberrimo arbitrio sibi praefìxos permitdt divina illius sapientia bonitasque infinita. 412 [p. 415 modifica]JACQUIER-LE SEUR ★ Antologia 1. Jacquier-Le Seur i, Def. n, 3 (Moto, § 5) Quantitas Motus est mensura ejusdem orta ex Velocitate et Quantitate Materiae conjunctim. [E in nota, da parte di Jacquier (Nota n. 4,3)]: Locus corporis est pars spatii, quam corpus occupat. Motus est continua loci muta- tio.(...) 2. Jacquier-Le Seur i, Def. 111, 4 (Moto, §§ 19-21) Materiae vis insita est potentia resistendi, qua corpus unumquod- cumque, quantum in se est, perseverat in statu suo vel quie- scendi vel movendi uniformiter in directum. 413 [p. 416 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA [Ed ecco le leggi del moto esposte da Newton nel luogo so¬ praccitato, 20-23]: Lex 1: Corpus omne perseverare in statu suo quiescendi vel movendi uniformiter in directum, nisi quatenus a viribus impressis cogiturstatum illum mutare.(...) Lex 11: Mutationem motusproportionalem esse vi motrici impressae, et fieri secundum lineam rectam qua vis illa impri¬ mitura ... ) Lex 111: Actioni contrariam semper et aequalem esse reac- tionem: sive corporum duorum actiones in se mutuo semper es¬ se aequales et in partes contrarias dirigi. 414 [p. 417 modifica]LORENZO MAGALOTTI 415 [p. 418 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ★ Antologia i. Magalotti, Lett. erudite, xi, 174-175 (Bestie, § 38): Non così di quell’altro leone, che in Sorèa a tempo delle Cro¬ ciate, assalito in un bosco da un serpe di smisurata grandezza, awitichiatosegli al collo lo soffogava, abbattutosi a passare in quella vicinanza a cavallo un Ufiziale Franzese, che se ne torna¬ va al Campo, accorso al rumore, e inteneritosi sopra di quella povera bestia, ammazzò il serpe, e la liberò. Tanto servì all’onorato leone per affilarsi dietro inseparabilmente da quel punto al suo libera¬ tore, non più leone, ma come cane fedelissimo a lui, e amorevo¬ lissimo a tutti gli altri, divenuto a tal conto la maraviglia, l’amo¬ re, e lo spasso di tutta l’Armata Cristiana. Convenuto di lì a qualche tempo all’Ufiziale di ritornarsene in Francia, e imbar¬ cato, ricusatosi dal Capitano di Nave il suo Camerata, non si può di¬ re quel che il povero sconsolato leone rimaso in terra, non fece, e non disse in significazione del suo dolore, finché vedendo comin¬ ciare a discostarsi la nave, e che il suo ruggire non gli valeva, lanciatosi a un tratto in mare, in vista tuttavia dell’afflitto Padrone, dopo lungo annaspare per seguitarlo, affogò. 416 [p. 419 modifica]ALFONSO MUZZARELLI ★ Antologia i. Muzzarelli ii, op. vii, 91 (Bestie, § 11): Direte voi, che l’anima delle bestie è materia? Ma negate se potete, che le bestie abbiano delle idee, e delle cognizioni dirette. Esse vedono, sentono, e in conseguenza di queste sensazioni agiscono come ognuno sperimenta. O a che valgono gli occhi se non vedono, a che l’orecchie se 417 [p. 420 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA non sentono? perchè son prive d’idee se hanno tutti gli strumenti neces¬ sari Per riaverle in se stessi? 2. Muzzarelli ii, op. vii, 131 (Bestie, §§ 68-70): Resta che diciate, che l’anima delle bestie è uno spirito. Ma uno spirito destinato a perseguitare i sorci e nulla più, com’è il gatto; a divorare gli uccelli, come il nibbio; ad inseguire le lepri, come il cane, è un’idea che avvilisce lo spirito, e quasi accusa di superflua ricchez¬ za la natura. E poi se il gatto perseguita i sorci, egli lo fa per una guerra dichiarata, ma necessaria. A che serve dunque la spiri¬ tualità e l’intelligenza? [p. 421 modifica]JEAN-ANTOINE NOLLET 419 [p. 422 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ★ Antologia i. Nollet i, 1. i, s. i, 9-10 (Estensione, § 29): Prima Esperienza (...) Spiegazioni: Un corpo è diviso, quando la legatura delle sue parti viene interrotta da una mate¬ ria straniera, e che non è atta ad unirsi con esse: così una lama 420 [p. 423 modifica]JEAN-ANTOINE NOLLET di coltello separa un pezzo di legno in due. La parte più sottile dello zolfo che si sviluppa nell’ardere, e che s’insinua quinci, e quindi tra le parti del metallo dilatato dal fuoco forma nell’interiore della moneta, e secondo il suo piano un suolo di materia straniera al metallo, che ca¬ giona la divisione, e che si ravvisa quando le parti sono separate. 2. Nollet i, 1. iv, s. n, 173 (Urto, § 12) Per fissare le nostre idee, rappresentiamoci una palla d’acciajo lanciata contro un muro, e per più di semplicità, consideriamo il corpo, che percuote, come duro perfettamente; e non badia¬ mo, che alla flessibilità del corpo percosso. Nel primo instante del contatto la palla esercita contro un piccolissimo spazio della pietra, che incontra, uno sforzo, che è, come la sua massa, e la sua velocità attuale. Queste poche parti così daU’acciajo compresse, cedono al suo moto, rincu¬ lano sopra le parti più vicine; e queste vanno a ridosso d’altre: la pietra si condensa in cotesto sito, e si fa un piccolo affondamento', ma questo effetto non si produce con una velocità eguale a quella, che aveva il mobile nel momento, che ha cominciato a toccare. Imperocché ciò, che è stato smosso, ha resistito; ed ogni resi¬ stenza (tuttoché vinta) distrugge una parte della forza, che la fa cedere; perciò al fine del primo istante la palla d’acciajo trovasi ritardata; ed il suo sforzo nel principio del secondo istante è minore che non era in prima. 3. Nollet i, 1. iv, s. 11, 174 (Urto, § 13) Ma però che le parti urtate nel primo istante hanno ceduto indietro, la loro intro cessione, 0 affondamento ha fatto, che la palla d’acciajo toc¬ chi la pietra per una supefizie più grande. Il mobile perderà dunque più della sua velocità nel secondo istante, che nel primo: 1. perchè vi saranno più parti da rispignere: 2. perchè quelle del mezzo, che sono state spro¬ fondate precedentemente, resistono più, che non han potuto farlo nel pri¬ mo istante; imperocché allora la materia urtata era meno condensata, ed il corpo percuziente aveva più di moto. Si vede dall’esame di questi due primi istanti, che la palla d’acciajo, formando uno sprofondamento nella prima, dee diminuire la sua velocità a 421 [p. 424 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA quantità, che van[n]o sempre crescendo; poiché le parti, che ri¬ cevono il suo sforzo, si moltiplicano ad ogni istante; e trovan¬ dosi sempre più sostenute da quelle di dietro, la loro resistenza comune cresce per lo meno in ragione di queste due cagioni. 4. Nollet i, 1. iv, s. 11, 174-175 (Urto, § 14) La velocità del mobile, sia quanto si voglia ritardata unifor¬ memente, o no, egli nulladimeno persevera nella sua prima di¬ rezione, fin che gli resta del moto; e perciò lo sprofondamento, che si fa nella pietra, non è finito, se non quando la palla cessa di muoversi; e reciprocamente si può conchiudere, ch’ella è ri¬ dotta alla quiete, quando le parti della pietra non cedono più, di ma¬ niera che se allora non si trova qualche nuova cagione, che ri¬ metta nella palla il moto, avendo ella consumato intieramente quello, che avea ricevuto nella sua prima determinazione, non si vede che possa muoversi d’avantaggio; ed in fatti l’esperienza dimostra, ch’ella più non si move; imperocché se in luogo della muraglia, ch’è esposto alla percossa, è pietra tenera, 0 gesso, la palla rimane nel bu¬ co, che ha fatto; ovvero pel suo proprio peso ricade, se niente la ferma. 5. Nollet i, 1. iv, s. 11, 175 (Urto, § 15) Non è poi così, se il mobile incontra per ostacolo una pietra dura: lo vediamo rimbalzare dopo l’urto, e per un verso contrario alla sua pri¬ ma direzione: un cotal moto si chiama riflesso. 422 [p. 425 modifica]STEFANO PACE 423 [p. 426 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ★ Antologia i. Pace i, ii, c. viii, §§ 1-2, 140 (Moto, § 1): Siam arrivati al moto, che da’ moderni a ragione è chiamato l’istrumento principale, di cui si serve la natura; ma per dire il vero io ritrovo, che tutti coloro c’hanno tentato di darcene no¬ tizia ed hanno voluto definirlo, hanno resa più oscura la cosa, e 424 [p. 427 modifica]STEFANO PACE si sono impegnati in tante difficultà, eh’è loro impossibile di sbrigarsene. Cominciamo da Aristotele, e scorgeremo infatti se sia vero ciò, che or ora vi dissi. Il Moto, dice egli, è un atto d’un Ente, in potenza, in quanto egli è in potenza: (a)Ejus, quod po- tentia existit actus, quatenus hujusmodi motus est; o come pu¬ re altri dicono: Motus est actus entis in potentia, prout in potentia. Che cosa mai si può dir di più oscuro? E gli insegna nella sua Logica che la definizione, se debbe esser perfetta, debbe essere altresì più chiara della cosa da lei definita; or vi pare ch’egli abbia pra¬ ticato questo precetto? Non s’intende assai più che cosa sia il movimento con questa sola parola: moto, o movimento; che dicendo: l’atto di un’entità, che è in potenza, in quanto è in po¬ tenza? Possono per verità i Peripatetici sbracciarsi per difendere, e soste¬ nere chiarissima la definizione del lor Maestro; ma è vano ogni loro sfor¬ zo; quindi meritamente è rifiutata da tutti i moderni. 2. Pace i, ii, c. viii, § 3, 140-141 (Moto, §§ 2-3): Ma veggiamo di grazia ciò, che dicono essi per dare una per¬ fetta distinzione del movimento. Il moto, dicono i Cartesiani, si è un’applicazione successiva di un mobile a diverse parti de’ corpi, che a lui si avvicinano immediatamente: motus est applicatio successiva mobilis diversis partibus corporum propinquorum. Questa de¬ finizione è chiarissima, non può negarsi; ma osservate in che strano inconveniente precipitano i suoi autori. S’ella fosse vera, sarebbe altresì vero che un pesce trattenuto fisso, ed immobile nel mezzo della corrente di un fiume, sarebbe in un perpetuo moto; perchè sarebbe successivamente applicato a diverse parti dell’acqua, che lo toccassero im¬ mediatamente: all’opposito un pesce rappreso in un pezzo di ghiaccio, eh’è portato allo ’ngiù dalla corrente dell’acqua, sta¬ rebbe quieto, ed immobile, nè punto si muoverebbe. Or avvi cosa più stravagante, e più capace di mettere in ridicolo e la Filoso¬ fia, e i Filosofi medesimi? 3. Pace i, ii, c. viii, § 4, 141 (Moto, § 5): In altra guisa lo definiscono i Gassendisti. Egli è, dicono, un passag¬ gio del mobile da luogo a luogo con un continuo flusso: motus est tran- 425 [p. 428 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA situs mobilis a loco in locum fluxu continuo; cioè un’applicazio¬ ne successiva del mobile a diverse parti fisse, ed immobili dello spazio. Non cadono, è vero, costoro nell’inconveniente de’ Cartesiani pigliandosi il luogo in questo senso; ma chi ben considera, che per isfuggirlo, e per rendere il luogo immobile convien loro far ricorso allo spazio; cioè ad un esser eterno, incorporeo, im¬ menso, indipendente: ad un essere, che essendo incorporeo ha parti fìsse, ed immobili: ad un essere, che sussiste per se mede¬ simo, che non è sustanza, nè accidente; che non è ed è tutto; per verità ben vede, che il rimedio è assai peggiore del male. 4. Pace i, ii, c. viii, § 5, 142-143 (Moto, § 4): Qual dunque sarà, dite voi, la vera definizione? Io dico col Bernier, che il moto nè si può, nè si deve definire. Che altro è il moto se non un modo di essere della cosa? or essendo inutile, e ridicolo il voler definire se non tutti, almeno la maggior parte de’ modi, è inutile altresì e ridicolo, non che pericoloso, il definire il moto. La ragione si è; perchè i modi sono la piegazione medesima della cosa per esser eglino stimati chiari, ed evidenti da loro medesi¬ mi, in guisa che quando si vuole spiegare la natura d’una cosa, si recano le sue diverse maniere di essere, e si dice che ella ra¬ giona, per esempio, che ella senta, che ella vegeta, che è qua¬ drata, retta, curva, unita, contigua, lontana, tesa, etc. e se si vuol definire questi modi, d’ordinario si fa un circolo vizioso, o si apportano solo termini sinonimi ed equivalenti, che non reca¬ no maggior lume, e sovente cagionano maggior oscurità. Infatti se si dice che un uomo ragiona, che una verga è curva, che due mura son distanti, che un uomo è disteso per terra, che cosa si può dir di più chiaro, o che altro si può rispondere se non che ragionare è ragionare, che esser curvo è esser curvo, che esser disteso si è esser disteso? oppure facendo un circolo vizioso di¬ re che esser ragionevole è non essere irragionevole, che l’esser curvo è non esser retto, che l’essere due muraglie distanti è non essere indistanti? o apportando termini equivalenti dire, che Tesser distanti è non esser contigue, o non toccarsi? così 426 [p. 429 modifica]STEFANO PACE andate discorrendo d’altri termini, che non son più chiari de’ primi. 5. Pace i, ii, c. viii, § 6, 143 (Moto, § 22): Lo stesso dir si debbe della quiete, e del moto. Sono modi della cosa sì chiari ed evidenti, che basta aprir gli occhj per sa¬ per ciò, che sono, nè fa mestieri, che rizzarsi, e camminare, co¬ me fece Diogene nella Scuola di Zenone, e convincer i più ostinati; in guisa che un semplice villanelle) ne ha una conoscenza tanto perfetta, quanto è quella di un gran Filosofo. 6. Pace i, ii, c. x, § 1-9, 149-154 (Moto, §§ 6-8): Cartesio co’ suoi seguaci espressamente dice, che la cagion effettiva del moto è solo Dio. Questa per essi è una verità evidente; e si per¬ suadono di provarla altresì con evidenza. Primieramente, dico¬ no, non vi ha mutazione alcuna ne’ corpi, che non riconosca questo esterno principio; mentre si vede, che ognuno di essi non si muta mai, nè passa da una figura all’altra, nè dalla quiete al moto, se non vien mosso da qualche agente straniero. Or que¬ sto agente non può essere un corpo;perchè nel suo concetto non apparisce questa forza di muovere gli altri corpi, molto meno di muovere se stesso: nè pur può essere spirito limitato, e finito; perchè se l’Angelo, o l’anima ragionevole avessero la potenza di dar l’essere al mo¬ to, averebbono altresì la facoltà di dar l’essere a se stessi, e di co¬ municare a se medesimi tutte le perfezioni; adunque ne segue che l’unico Autore del moto sia solo Dio. E un errore imbevuto fin da’ janciulli, seguono a dire, che noi fermamente pensiamo di essere gli autori di que’ movimenti, che tuttodì sperimentiamo ne’ nostri corpi, quasiché l’anima nostra, la nostra mente, la nostra volontà fosser capaci di farlo. 7. Pace i, ii, c. x, §§ 9-10, 154 (Moto, §§ 9-13): Prima però convien qui distinguere il vero dal falso. Certo è che nulla si fa nel mondo a cui Iddio immediatamente non 427 [p. 430 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA concorra; quindi non cade una foglia d’albero che a quel moto immmediatamente Dio non concorra; ma questo concorso immediato di Dio non toglie alle cagioni seconde 1‘esser cagioni, molto meno Vesser cagioni principali de’ loro effetti. Questa è una verità asserita ed abbrac¬ ciata da tutti i Teologi, e Filosofi cattolici. 8. Pace i, ii, c. x, § io, 154-156 (Anima, § 48): È un errore fanciullesco, dicono essi, come notai di sopra, il pensar, che facciamo di essere noi gli autori di quei movimenti, che tuttodì speri¬ mentiamo ne’nostri corpi, quasiché l’anima nostra, la nostra menteJosse capace di farli. Prendete dunque un archibugio, e scaricandolo contro quel vostro nemico stendetelo morto a terra: 0 pur pigliate un grosso ba¬ stone in mano, e scagliatelo sopra il di lui capo. Stimerete senza dubbio d’aver voi ucciso quell’infelice; ma è un error fanciullesco. Solo Dio fu l’Autore del moto della mano, che servì a lui d’istrumento per dare a co¬ lui la morte. Spezza quel servidore lo scrigno del suo padrone, e carico d’oro va a mutar aria, e fortuna. Pensa colui d’aver fatta sì bella azione; ed è un errorfanciullesco. Solo Dio diede il moto agli spiriti delle sue ma¬ ni, che servirono d’istrumenti, 0 di occasione a Dio per ispogliar quel ricco del suo tesoro. Mormora uno, e detrae 0 per invidia, 0 per altro all’onore di quella persona onorata. Stima colui d’aver egli pronunziato quelle in¬ fami parole, ed è un error fanciullesco; solo Dio fu quello, che diede moto a quella lingua, e articolò quelle voci. Lo stesso diciamo pure d’un Ange¬ lo. Che uno spirito maligno entri in un corpo umano, muova in esso e lingua, e mano, e piedi, e tutto finalmente quel corpo? È cosa degna di ri¬ sa ed èjavola appresso di essi da dar da intendere a semplici vecchiarelle; quindi non è credibile ciò, che hanno scrittogli Evangelisti di quell’ener¬ gumeno, che era tormentato, e lacerato da uno spirito diabolico, e fu libe¬ rato dal Salvatore. Lo stesso dite di tante azioni fatte dagli Angeli, e narrate dalla Sacra Scrittura; perchè appresso i Cartesiani veruno spiri¬ to 0 buono, 0 reo che sia, non è, nè può essere principio di moto. 9. Pace i, ii, c. xii, § 1, 173 (Moto, § 18): 2. La prima legge di natura si è che tutte le cose si mantengano in quello stato, in cui sono, finche qualche cagione, o esterno incon¬ 428 [p. 431 modifica]STEFANO PACE tro non le muti: così una cosa quadrata ritien la sua figura finat- tanto che da alcun’altra ne sia spogliata: chi si muove non ripo¬ sa; e chi è in riposo non si muove finché qualche altra cosa o fermi il moto, o lo imprima. 10. Pace i, ii, c. xiii, § 12, 176 (Moto, § 23): Solo dico, che queste regole sono la maggior parte 0 inutili, 0 dubbiose, 0 false, 0 suppongono ciò, che è incerto, 0 un altro stato di cose diverso dal presente, e i corpi diversi di natura da quegli, che veggiamo, 0 finalmente sono contrarie alla sperìenza. 11. Pace i, ii, c. xvi, §§ 9-10, 192 (Gravità, § 7): 9. Altri [seguaci di Gassendo] più generosi, come il Bernier, sup- pongon che la terra trasmetta sempre mai corpuscoli, che escano a guisa di raggi; alcuni dei quali entrano perpendicolarmente ne’pori del mobile e lo trapassano, altri penetrano in esso obliquamente spezzandosi ognu¬ no di essi verso la perpendicolare in quella guisa che fa la luce in en¬ trando in un vetro, o nell’acqua; quindi piegando verso la per¬ pendicolare con un piccol urto spingono il mobile verso il cen¬ tro. 10. Ingegnosa sì è questa risposta; ma non vera (...). 12. Pace i, ii, c. xvi, § 12, 194-195 (Gravità, § 5): 12. Passiamo dunque a vedere il sistema della Gravità de’ Cartesiani. Primieramente suppongono col loro Maestro Car¬ tesio che tutti i corpi sieno assolutamente leggieri movendo¬ si tutti dal centro alla circonferenza; riconoscono altresì due spezie di leggierezza; una assoluta, che consiste in quella for¬ za, per cui si scostan dal centro; l’altra relativa, o rispettiva, che è la medesima forza paragonata colla forza degli altri corpi. In¬ di vogliono che l’etere, 0 sia quella loro sottilissima sustanza giri circa l’asse del mondo dall’Occidente all’Oriente con un velocissimo e na¬ turai moto, traendo seco in giro la medesima terra, che nuota immersa in quella fluidissima e mobilissima sustanza. Questa 429 [p. 432 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA materia eterea in girando intorno per allontanarsi il più che sia possibi¬ le dal centro, caccia verso di esso tutti i corpi, che incontra meno atti al moto, sostituendoli in suo luogo. (...) Quindi chiamano gravi quei cor¬ pi, che dalla forza dell’etere, che si muove, sono cacciati al centro della terra. 13. Pace i, ii, c. xvi, § 14, 197 (Gravità, § 6): Finalmente una pietra solo sotto l’equatore caderebbe direttamente verso il centro della terra, e in ogni altro luogo ella scenderebbe secondo i circoli paralleli all’equatore, e alla fine sotto i poli nè pur verrebbe a ca¬ dere verso la terra. 14. Pace i, ii, c. xix, § 2, 219 (Estensione, § 2): [il vuoto] è impugnato da Aristotele, e da Cartesio, che lo stima assolutamente impossibile. 15. Pace i, ii, c. xix, § 3, 219 (Estensione, § 4): 3. Fanno però ogni sforzo alcuni de’ Filosofi per mostrare con esperienze l’evidenza del voto; ma si è sempre mai facile, e pronta la risposta, perchè dove essi asseriscono il voto, sempre almeno vi si ritrova l’etere sustanza sottilissima, o qualche altra mestura di effluvj, che di leggieri penetrano, e passano per i pori de’ corpi. 16. Pace i, ii, c. xix, § 9, 222 (Estensione, § 5): 9. (...) L’etere, da cui empionsi i voti degli altri corpi, ha pure anch’egli i suoi voti; or chi gli riempie? Non altro etere più sotti¬ le; perchè di questo medesimo si può dimandare chi riempia i suoi vani; e così anderemmo in infinito; dunque necessariamente deb- bonsi ammettere i voti. 17. Pace, Fis. 111, t. v, c. 11, 211 (Bestie, § 24): Eccoci all’opinione più celebre, e più stravagante che sia giammai comparsa nel teatro della fisica naturale. 430 [p. 433 modifica]STEFANO PACE 18. Pace, Fis. iii, t. v, c. u, 233 (Bestie, § 22): Un fanciullo di due, molto più di tre anni sorrìde alle carezze del padre, e della madre, e fa atti digioja alla loro presenza; il che non fa al¬ la presenza di altre persone; adunque convien dire che li conosca; o pure bisogna negare che egli abbia senso, come un cane, che accarezza il suo padrone, e non altri. Ora se li conosce con qual cognizione li conosce? Spirituale non già; perchè egli non consi¬ dera d’aver ricevuto da essi la vita, né pensa all’obbligazione c’ha un figlio alii suoi genitori, etc. 431 [p. 434 modifica]AIMÉ-HENRY PAULIAN [p. 435 modifica]AIMÉ-HENRY PA ULIAN ★ Antologia 1. Paulian i, Comete, 221-222 (Astronomia, §§ 33-36): Egli è impossibile che le comete passino tanto vicino al globo solare, siccome fanno, senza che si carichino di una parte dell’atmosfera solare, cui attraversano. È lo stesso, come se una gagliarda calamita si strasci¬ nasse per mezzo alle limature di ferro. Infatti se ogni cometa è un piane¬ ta, come non si può metter in dubbio, e se vi han luogo le leggi dell’attra¬ zione, come abbiamo noi diritto di supporlo, non è egli duopo, che la parte dell’atomosfera solare, la qual trovasi rinchiusa nella sfera di atti¬ vità del peso particolare; che opera verso il centro della cometa, ragunisi intorno al suo globo, a quel modo che le particole elastiche dell’aria no¬ stra si ragunano intorno alla terra, e vi formi un atmosfera luminosa, ov- ver aggrandisca quella, che av esser già? Ciò supposto, ecco come noi di¬ scorriamo collo stesso Fisico. La cometa va ella dietro al Sole? dee com¬ parirci codata; e perchè?perchè i raggi di luce, che sono trasmessi con una celerità impercettibile, han forza che basta pergittar dietro la cometa la maggior parte dell’atmosfera, che trovasi tra lei e il Sole. Per lo contrario la cometa precede ella il Sole? dee comparirci allora barbuta; e perchè? perchè gli stessi raggi di luce trasmessi sulla cometa scacciano la maggior parte dell’atmosfera interposta tra essa e il Sole, le quali particelle scac¬ ciate a quel modo devono necessariamente precedere la cometa nella sua marcia, e rappresentarcela con una spezie di barba luminosa. Finalmen¬ te la cometa è ella situata in guisa, che l’occhio dell’osservatore trovisi tra essa e il Sole? Allora dee parergli intorniata da un’atmosfera luminosa, 0 per parlare co’ termini dell’arte, dee parergli crinita. 2. Paulian ii, Suono, 390-392 (Fluidi elastici, §§ 44-46): Ma, si dirà, come può darsi, che noi sentiamo nel tempo stesso distin¬ tamente de’suoni di vario genere, sovente opposti tra loro diametralmen¬ te? Questi suoni non dovrebbon eglino riunirsi e confondersi prima di arrivare al nostro orecchio? riuniti e confusi non dovrebbono ecci¬ tare in noi le più increscevoli sensazioni? Confesso ingenua¬ 433 [p. 436 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA mente ch’io non farei gran caso di questa obbiezione, se io non vedessi, che gli uomini più valenti trattano questo punto di Fi¬ sica con tutta serietà. Infatti non è egli certissimo, che c’è una vera analogia tra la retina, che veste il fondo dell’occhio, e le papille nervose, che vestono il labirinto, e la lumacca? Non è egli certissimo inoltre, che i colori sono per lo meno tanto sva¬ riati, quanto son varj i suoni? Ciò supposto, ecco com’io ragio¬ no. Quando io dimando a un Fisico, come può darsi, che noi ri¬ leviamo nel tempo stesso distintissimamente de’ colori di spe¬ zie diversa, bene spesso diametralmente opposti tra loro; mi ri¬ sponde senza esitare ch’io non deggio restarne sorpreso, poi¬ ché questi colori diversi vanno a ferire diverse parti della reti¬ na; questa risposta io l’approvo, e ad una ragione sì fisica mi ar¬ rendo. Ma i suoni di vario genere non vann’ eglino a ferire di¬ verse papille nervose nel labirinto, e nella lumacca, dopo di aver urtato nell’aria delle mollecule varie di massa, di figura, e in grado di velocità? ec. (imperciocché noi portiamo opinione col Sig. de Mairan, che due suoni specificamente diversi, agitano nell’aria delle particelle specificamente diverse) perchè dunque non dovrem noi sentire senza confusione due suoni prodotti nell’istesso istante, uno de’ quali fosse acuto, e l’altro grave? Rimane intorno alla propagazione del suono un’altra difficoltà, che non sarà inutile metter in tutto il suo lume. Eccola in poche parole: ogni suono che produce il corpo sonoro, fa impressione sopra due organi diver¬ si, vaidire, sull’orecchio destro, e sull’orecchio sinistro; par dunque, che noi dovremmo sentir due volte lo stesso suono; la sperien- za c’insegna nullaostante il contrario; e quando mi chiamate una sola volta per nome, se non c’è eco che ripeta le vostre parole, io non intendo, che un semplice suono, e non un suono dop¬ pio: donde avviene, che non succede il contrario? Per rispondere a questa quistione in una maniera, che appa¬ ghi, risovveniamoci dell’analogia, che c’è tra l’organo della vi¬ sta e dell’udito. Perchè, dimandasi a un Fisico, l’oggetto A, ch’io guardo attentamente, e con occhi ben disposti, non mi sembra egli doppio, quantunque la sua immagine si dipinta in ambe¬ due le mie retine? Perchè, mi risponde, i raggi di luce inviati da 434 [p. 437 modifica]AIMÉ-HENRY PA ULIAN questi oggetti, vengono a ferir nelle due retine due fibre sim¬ patiche, ower omologhe, cioè due fibre, che partono dallo stesso punto del cervello; allora l’oggetto A semplice in se stesso, non dee parermi doppio, perchè due impressioni fatte sopra due fi¬ bre simpatiche non sono sensibilmente, che una sola impres¬ sione, e determinano l’anima a percepire un solo oggetto. Adotto con piacere una risposta, che da ogni Fisico dee riguardarsi come una vera dimostrazione, e l’applico al proposito nostro. I nervi uditivi hanno anch’essi, al par dei nervi ottici, delle fibre simpatiche, ov- ver omologhe; su queste fibre si fa l’impressione del suono nelle due orec¬ chie; io non devo dunque udir due volte lo stesso suono, quantunque l’impressione facciasi sopra due organi diversi. 3. Paulian ii, Luce, 163-164 (Luce, §§ 10-14): Certe particelle di materia infinitamente sciolte, e quasi infini¬ tamente piccole, che i corpi luminosi trasmettono in linea retta con una celerità incomprensibile, tal’è presso a poco l’idea che i Newtoniani si formano della luce; e con ragione. (■■•)■ Giove è un pianeta circondato da quattro spezie di lune, che chia¬ mami «satelliti», e lontano dal Sole 143 milioni incirca di leghe. Questo pianeta trovasi or Apogeo ed or Perigeo, vaidire che ora si tro¬ va nella sua maggiore, or nella sua minor distanza dalla Terra. La differenza, che v’è rispetto a noi, tra Giove apogeo, e Giove perigeo è considerabilissima, perchè di 66 milioni di leghe in¬ circa. Ciò supposto, ecco ciò che l’esperienza coti diana c’inse¬ gna. Tutte le volte che Giove trovasi tra il suo primo Satellite e la Terra, questo satellite rispetto a noi riman ecclissato, e non riceviamo la sua lu¬ cere non quand’egli è uscito dall’ombra del suo pianeta principale. Gio¬ ve è egli perigeo? Noi riceviam la luce di quel Satellite 14 minuti prima; è egli apogeo? Noi la riceviamo 14 minuti più tardi; dunque la luce per¬ corre in 14 minuti 66 milioni di leghe incirca. 435 [p. 438 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO [p. 439 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO 437 [p. 440 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 438 [p. 441 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO ★ Antologia i. Poli-Dandolo i, i, a. 11, §§ 7-8, 5-6 (Estensione, § 26): 7. Lasciamo dunque da parte le dimensioni astratte che fan l’oggetto della Matematica, e non c’imbarazziamo co’ voli del¬ l’immaginazione, che ci faran sempre rimanere nell’incertez¬ za; ma osserviamo quello che la natura e l’arte ci offrono in realtà su tal punto: conciossiachè quantunque siffatti lumi non de¬ cidano se il campo assegnato alla rapportata divisione si estenda all’in¬ finito, nulladimeno ci mostrano ad evidenza, che la materia è capace di esser divisa in un numero di parti così immenso, chegiugne fino a stan¬ care la più vivace imaginazione. 8. Se in una notte serena pongasi a cielo aperto una candela accesa, diffonderà questa tanta luce, che si potrà agevolmente scorgere fino alla distanza di due miglia, ossia di 10 mila piedi tutt’all’intorno. Egli è noto presso de’ Matematici, che uno spazio sferico, che abbia il semidiametro di 10 mila piedi, in se contiene 4 bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici (...). Per via di un agevole sperimento si può rilevar di leg¬ geri, che una candela di sego di sei a libbra può continuare a bruciare per lo spazio di cinque ore, e quindi che nello spazio di un secondo viene a consumarsi 1/14 parte di un grano di sego; Che però egli è chiaro, che le particelle di luce sviluppate da 1/14 di un granello di sego illuminano uno spazio sferico che in se contiene 4 bilioni 190 mila 40 e più milioni di piedi cubici, per lo continuato intervallo di un secondo (...). Ciocche a dir vero ci fà rilevare, che la picciolezza delle particelle della materia è immensa a segno tale, che supera di molto la forza della nostra immagi¬ nazione; la quale resterà vie maggiormente imbarazzata e confusa dal riflettere, che essendo la luce lanciata da’ corpi luminosi con una indici¬ bile celerità, l’anzidetto spazio sferico viene ad esser riempiuto più mi¬ gliaia di volte nell’intervallo di un secondo (1) da quella luce che si svi¬ luppa da 1/14 di un granello di sego (...). (1) I principj della moderna Chimica dimostrano che la luce, e la fiamma non si sviluppano dal corpo che brucia ma bensì dall’aria vitale allorché l’ossigeno passa nel combustibile insieme con il calorico, e con la 439 [p. 442 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA luce, con cui era unito, e che abbandonando l’aria vitale, si svolgono, e formano il fuoco. 2. Poli-Dandolo i, 1. in, a. 11, § 147, 127 (Astronomia, § 20): Stabilì egli [Copernico] adunque, che il Sole collocato immobil¬ mente nel centro sensibile dell’Universo, ed aggirandosi soltanto con moto vertiginoso intorno al suo asse, facesse rivolgere intorno a se, in virtù di forze centrali, tutti i pianeti con ordine tale, che imme¬ diatamente gli si aggirasse intorno Mercurio, indi Venere, la Terra, Marte, Giove, e Saturno; a cui poscia sovrasta il Pianeta Herschel recen¬ temente scoperto. 3. Poli-Dandolo i, 1. 111, a. 11, § 147, 127 (Astronomia, § 26): Ecco dunque qual è in accorcio il Sistema Copernicano', da cui ve¬ dete essersi del tutto bandite le solide volte immaginate da To- lommeo, ossia i cieli di cristallo. 4. Poli-Dandolo i, 1. 111, a. 11, § 149, 128 (Astronomia, § 16): Converrebbe unire le dottrine fìsiche alle più sublimi del¬ l’Astronomia per iscorgere a chiaro giorno la ragionevolezza del sistema copernicano, e quindi la gran superiorità di esso su tutti gli altri finora immaginati. Tuttavolta (...) basterà qui accennare i°, che i sistemi di Tolommeo e di Ticone non so¬ lamente non sono valevoli a spiegare tutt’i fenomeni del Cielo, ma si oppongono eziandio direttamente alle osservazioni celesti. Per rammentarne qui una sola che possa servir di esempio, di¬ remo, che nè Mercurio, nè Venere veggonsi giammai in opposizione col Sole; che vai quanto dire, che tra essi, e il Sole, non vedesigiammai frapposta la Terra. Or ciò non potrebbe addivenire se la Terra occupasse il centro del sistema, e se i due mentovati pianeti fossero avvolti ne’ loro giri dall’orbe del Sole. Nella qual supposizione neppur potrebbe¬ ro essi celarsi dietro al Sole, siccome scorgesi talvolta addive¬ nire. 440 [p. 443 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO 5. Poli-Dandolo 1,1. iii, a. 111, § 157,143 (Astronomia, §§ 30-31): Se l’orbita lunare non intersecasse quella della Terra, che vai quan¬ to dire l’ecclittica, dovrebbesi ella immancabilmente ecclissare in ogni plenilunio; imperciocché essendo ella in quel tempo in opposizione col Sole, il corpo opaco della Terra, che si trova frammezzo, intercetterebbe il lume di quello; e gettando la sua ombra sopra la Luna, andrebbe ad oscurarla; ch’è quel che dicesi ecclisse. Così d’altra parte verrebbesi ad ecclissare il Sole in ogni novilunio, a motivo che la Luna ri¬ trovandosi allora in mezzo fra la Terra e il Sole, intercetterebbe i raggi solari, e cuoprirebbe colla sua ombra lajaccia della Terra, ch’è quella che in realtà si ecclissa qualor diciamo ecclissarsi il Sole, ch’è il fonte della luce. 6. Poli-Dandolo 1, 1. in, a. 11, § 149, 129 (Astronomia, § 17): 2°. La supposizione del giro diurno de’ pianeti, giusta i due sistemi tolemmaico e ticonico, è così lontana dal vero, che se ciò fosse, le stelle fis¬ se, per esempio, le più prossime alla Terra dovrebbero descrivere un’orbita così enorme nello spazio di 24 ore, che quand’anche la loro ve¬ locità si supponesse uguale a quella d’una palla di cannone, che scorresse 600 piedi in ogni secondo di tempo, pure dovrebbero impiegarci undici milioni, trecento, quarantanovemila anni per iscorrerla. Ciocché in¬ tender si dee a proporzione ancor de’ pianeti; laddove nel siste¬ ma copernicano spiegansi benissimo siffatte apparenze mercè del solo giro della Terra intorno al suo asse, di cui fra poco ra¬ gioneremo. 7. Poli-Dandolo 1, 1. in, a. 111, § 151, 134 (Astronomia, § 32): Sono elleno [le comete] però corpi opachi al par de’ pianeti, illu¬ strati dal Sole, e soggetti a fasi ugualmente: quella che apparve nel 1680, essendo passata nel mese di dicembre 166 volte più dawi- cino al Sole di quel che la è la nostra Terra, concepì un calore così smisurato, che riputossi da Newton 28 mila volte maggiore di quello cui sogliam provare nel cuor della state. (...). Sono le loro orbite [delle come¬ te] ellissi molto eccentriche, ossia allungate di molto. 441 [p. 444 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 8. Poli-Dandolo i, 1. ni, a. iii, § 162, 148 (Astronomia, § 22): Tavola Ove sono registrati i diametri, le grandezze, le di¬ stanze, e i tempi periodici de’ pianeti. Tempi periodici Distanza media dalla Terra in leghe Sole 34357480 Terra 365 gior. 5 or. 49’ Luna 27 gior. 7 or. 43’ 86324 Mercurio 87 gior. 23 ore 34357480 Venere 224 gior. 17 ore 34357480 Marte 1 anno, 321 gior. 23 ore 52350240 Giove 11 anni, 317 giorni 178692550 Saturno 29 anni, 177 giorni 327748720 Urano 83 anni e mezzo 655602600 9. Poli-Dandolo i, 1. iv, a. 11, § 196,181 (Astronomia, §§ 44-45): Cotal portentoso fenomeno ha destata in tutt’i tempi la cu- riostà e l’attenzione de’ filosofi, la maggior parte de’ quali si so¬ no ritrovati oltremodo imbarazzati nel volerne dare una spie¬ gazione soddisfacente. Non v’ha però alcuno fra gli antichi, che ne abbia ragionato con maggior precisione ed aggiustatezza, quanto Plinio il vecchio, il quale nel secondo libro della sua Storia naturale rammen¬ tandone distintamente le più minute circostanze, lo fa franca¬ mente derivare dalla forza attrattiva del Sole e della Luna sulla acque marine. (...). E Newton dopo di aver rintracciate le leggi di siffatta pro¬ digiosa forza seppe adattarle così bene alla spiegazione delle maree, e corroborò la sua teoria con tali dimostrazioni, che può essa giustamente riputarsi tutta sua. Aggiuntesi le specolazioni e le fatiche di Hal- ley, Bernoulli, Eulero, Maclaurin, e D’Alembert, si è renduta la cosa così manifesta, che pare non esser più soggetta a veruna sorta di dubbio. 442 [p. 445 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO 10. Poli-Dandolo i, 1. iv, a. 11, §§ 197-198,182-183 (Astronomia, §§ 46-47): In terzo luogo egli è cosa costantissima che le maree sono più considerevoli e più forti in tempo delle sigizie, ossia in tempo della nuova Luna e della Luna piena, che durante le quadrature. Inoltre avviene generalmente, nè si pone affatto in dubbio, che le maree, di cui si ragiona, sono assai più sensibili in tempo che la Luna èperigea, ovvero nella sua massima vicinanza alla Terra, che quand’ella è apogea, ossia nella sua massima distanza dalla Terra medesima. {■■■)■ Dall’osser- varsi costantemente, che le maree sono maggiori in tempo del¬ le sigizie, manifestamente si deduce, che ove l’azione lunare trovasi congiunta a quella del Sole, viensi ad aumentare notabilmente il loro ef¬ fetto: per conseguenza non è da mettersi in dubbio, che il Sole abbia parimente qualche influenza sulla produzione delle ma¬ ree: tanto vieppiù, che costa dalle osservazioni rapportate dal Si¬ gnor Cassini nelle Memorie dell’Accademia delle Scienze di Parigi, che le maree del solstizio d’inverno sono maggiori di quelle del solstizio estivo. 11. Poli-Dandolo ii, vii, a. 1, § 312, 1 (Gravità, §§ 10-11): Ragionando della gravità nel § 78, si ebbe l’avvertenza di far osservare, che quantunque la medesima si vada scemando nella ragione che si aumentano i quadrati delle distanze, tuttavolta però, attesa la notabilissima sproporzione che v’ha fra il semidiametro terrestre e le altezze; da cui possiam noi far discendere un grave, cotesta differenza di peso riguardasi come nulla senza veruna tema di errore. Per la qual cosa egli è ragionevole il riguardar questa forza come se operasse ugualmente, ossia collo stesso grado d’intensità in cia¬ scheduno istante della caduta. (...); non si avrà difficoltà di convenire, che in tempi uguali si aggiungeranno al mobile uguali gradi di velocità. 12. Poli-Dandolo ii, vii, a. 4 e a. 5, 36-38 (Gravità, § 21): (...) poiché non lascia ella giammai di accompagnare il mobile ne’ varj successivi punti dello spazio, per cui va egli scendendo di mano in 443 [p. 446 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA mano, e la velocità generata in ciascun istante non si distrugge, ma coo¬ pera con quella dell’istante, che segue attesa la Forza d’inerzia, onde non si avrà difficoltà di convenire, che in tempi uguali si aggiungeranno al mobile uguali gradi di velocità. Quindi la velocità acquistata nel se¬ condo istante sarà doppia della prima quella del terzo sarà tripla quella del quarto sarà quadrupla, e così in appresso, e conseguentemente il moto di un tal corpo sarà uniformemente accelerato. La velocità poi, che cote¬ sto corpo troverassi avere nel fine della sua caduta sarà come il numero degli istanti impiegati nel discendere, e quindi sarà la somma di tutte le velocità parziali acquistate in ciascheduno di essi. 13. Poli-Dandolo ii, viii, a. 1, § 382, 66 (Gravità, § 22): 382. Se altri lanciasse un grave perpendicolarmente in alto, sia col mezzo della mano, che perla forza d’un pezzo d’artiglieria, co- testo mobile sarebbe spinto nel tempo stesso da due forze op¬ poste per diametro; conciossiachè la forza di projezione, ossia quella che viene impressa dalla mano, o dal pezzo d’artiglieria, lo sollecita a salire verticalmente in alto, nell’atto che la forza di gravità lo trae verso giù nella stessa perpendicolar direzione. Ma poiché la forza di projezione è determinata, che vai quanto dire ch’ella ha certi limiti; e quella di gravità è costante, nè ces¬ sa di operare sul corpo fino a tanto che il medesimo non sia giunto al suo centro; vi dovrà necessariamente esser un punto, in cui siffatta forza di projezione vinta e distrutta interamente da quella di gravità che abbiam detto operare in direzione affatto contraria, lascerà cotesto corpo in balìa di questa sola forza che lo farà discendere libera¬ mente, ed a perpendicolo verso il centro; non essendoci ragione, per cui debba egli rivolgersi a destra, oppure a sinistra, qualor si prescinda dal moto della terra. Dunque un grave che sia lanciato perpendico¬ larmente in alto, scende giù di bel nuovo secondo la medesima direzione. 14. Poli-Dandolo 11, viii, a. 1, § 383, 67 (Gravità, § 23): 383. Ma se per lo contrario la forza di projezione spignesse cotesto grave in direzione orizzontale, oppure in qualunque altra direzio¬ 444 [p. 447 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO ne obbliqua all’orizzonte? In tal caso è vero che siffatto corpo sarebbe tratto giù similmente dalla forza di gravità; ma ci sa¬ rebbe il divario che queste due forze in vece di essere opposte come nella supposizione di prima, sarebbero in qualche modo cospiranti. Su tal proposito vi gioverà il rammentarvi che ra¬ gionando noi nel primo volume del moto composto nell’Arti¬ colo ii della v Lezione; facemmo vedere che da coteste due forze ne risulterebbe in quel corpo un moto composto, mercè di cui sarebbe portato a descrivere la diagonale del parallelogrammo, i cui lati verrebbero espressi dalla direzione e dalla intensità delle ac¬ cennate due forze. Nell’Articolo iii delTindicata Lezione di¬ mostrammo eziandio che qualora una delle due forze in vece di produrre un moto equabile, lo generasse ugualmente acce¬ lerato, come in fatti lo produce la forza di gravità; il mobile de¬ scriverebbe una curva. 15. Poli-Dandolo ii, ix, a. 1, § 400, 82 (Gravità, § 24): 400. Comecché nel § 68 si sia francamente dichiarato che la gravità ne’ corpi è ugualmente distribuita in tutte le minime lor particelle; nulladimeno però facendoci l’esperienza vedere d’esservi in ogni corpo un punto, su cui l’intera massa del corpo medesimo mantiensi equilibrata; si concepisce quello da’ meccanici come il sito, in cui l’intera gravità di quel corpo si ritrova accumulata. Quindi è che si denomina egli generalmente centro di gravità; od anche centro della massa; oppur centro d’inerzia-, per esser questa proporzionale alla massa al pari della gravità (§ 45). 16. Poli-Dandolo ii, ix, a. 1, § 401, 82-83 (Gravità, § 25): 401. Prendasi un cubo, per ragion d’esempio, di qualunque ma¬ teria; e si abbia un perno aguzzo collocato fermamente in posizione af¬ fatto verticale. Facendo de’ tentativi si troverà agevolmente che non vi è faccia di esso, la quale non abbia un punto, a cui sottopendo l’e¬ stremità aguzza del perno suddetto, il cubo rimanga perfettamente equi¬ librato, (...). 445 [p. 448 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 17. Poli-Dandolo ii, ix, a. 1, § 402, 83 (Gravità, § 27): 402. Se da un tal centro [di gravità] si faccia cadere una retta perpen¬ dicolare all’orizzonte, dicesi questa propriamente linea di direzione del centro di gravità; e la ragione per cui così si denomina, si è, che qualora si togliesse qualunque sorta d’impedimento, dimodo¬ ché quel tal corpo potesse liberamente discendere verso il cen¬ tro della terra; il centro di gravità descriverebbe quella linea nell’atto della sua caduta. 18. Poli-Dandolo ii, ix, a. 1, § 423, 93-94 (Gravità, § 26): 423. Siccome v’ha in ogni corpo un punto, il quale tende al centro della terra colla somma di tutte le forze di gravità che competono a tutte le particelle, ond’è composto quel corpo; così anche nella retta che insiem congiunge i centri di gravità di uno; 0 più corpi, evvi un punto, il quale essendo sostenuto in qualunque modo, si fà sì che i mentovati corpi rimangano in equilibrio; siccome scorgesi ne’ pesi d’una bilancia qualora trovansi equilibrati intorno al punto di so¬ spensione. Al mentovato punto dassi la denominazione di centro comu¬ ne di gravità. 19. Poli-Dandolo ii, ix, a. 3, §§ 429-434, 96-98 (Gravità, 28): 429. Non è da passarsi sotto silenzio che v’ha eziandio un centro di gravità nelle macchine animali; e che nel corpo del¬ l’uomo, qualor stia ritto in piedi, si è ritrovato giacere nella di¬ rezione di una retta perpendicolare all’orizzonte, la quale pas¬ sando fra le natiche e il pube, va poscia a cadere fra i suoi piedi; e propriamente in quel punto di siffatta linea che corrisponde un poco al di sotto dell’ombelico. (...). 431. Reca per verità infini¬ ta meraviglia il riflettere alla scrupolosa attenzione che sogliam prestar di continuo a siffatto centro per forza d’un abito inveterato, non che al¬ l’ingegnoso artifizio, onde sogliam regolarne la direzione ne’ varj movimenti della nostra macchina, sia nel camminare, sia nello star seduti; nell’alzarci, nell’abbassarci nel saltare, nel portar addosso, nel tirare, o rispignere; ed in tante altre azioni 446 [p. 449 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO di simigliante natura. (...). Come injatti per poter dare un passo, uopo è alzare, per esempio, la gamba diritta e chinare alquanto il corpo, oppur portarlo in avanti, acciocché la linea di direzione cada fuori della base: ma siccome ciò facendo andremmo inevitabilmente a cadere, ap- poggiam subito a terra il detto piede; poiché così l’indicata linea viene a ritrovarsi fra la pianta di questo piede e quella del sini¬ stro ch’è rimasta un poco indietro. Per poter dare il secondo passo è necessario di portare un po’ innanzi il piede sinistro; e nell’atto ch’egli è ancora in aria, chinare il nostro corpo verso la stessa parte per ispigner la linea di direzione fuori del piede diritto che costituisce per allora la no¬ stra base: e poiché andremmo a cadere, appoggiamo a terra immantinen¬ te l’altro piede ch’è sospeso; e facciam sì che la base venga costituita da ambedue le piante: e questo stesso artifizio si ripete esattamente in tutti gli altri passi successivi. 20. Poli-Dandolo ii, 1. xii, a. ii, § 549,154-55 (Idrodinamica, § 16): La gravità, onde ifluidi son dotati, fa sì che le loro parti superiori pre¬ mano contro le inferiori: e la loro somma mobilità, procedente forse dal- l’esser elleno di figura sferica, 0 d’altra, che alla sferica s’accosta, come al¬ tresì dalla lieve lor aderenza, cagiona, che una tal pressione si faccia pa¬ rimente verso i lati, e in direzioni obblique. Per virtù della forza d’iner¬ zia, le parti inferiori premute debbono riagire contro le superiori; quelle di diritta contro quelle di sinistra; e quelle, che sono in direzione obbli- qua, contro le loro opposte. Per conseguenza la pressione non solamente succederà in essi per ogni verso, ma sarà eziandio uguale verso tutte le parti: ed ecco il principio del loro equilibrio. Qualunque cagione, che lo distrugge, mette il fluido in movimento; nè questo cessa fino a che non si restituisca di bel nuovo la pressione uguale dappertutto. 21. Poli-Dandolo 11,1. xii, a. 11, nota al § 549,155 (Idrodinamica, § 17): Se una particella non fosse premuta egualmente per ogni direzione, essendo per ipotesi priva d’ogni tenacità, si moverebbe per la seconda leg¬ ge del moto da quella parte verso cui la forza è minore, contro l’ipotesi. 447 [p. 450 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA Dunque nei fluidi, per aver l’equilibrio, bisogna che ogni particella sia premuta egualmente per ogni direzione. Così vicendevolmente, se v’ha equilibrio sarà premuta ogni particella egualmente per ogni direzione. Se dunque verrà diminuita la pressione in qualche luogo da qualunque causa si sia, il fluido si moverà finché la pressione di ogni particella riesca eguale per ogni direzione, cioè, finché si restituisca l’equilibrio. 22. Poli-Dandolo ii, 1. xn, a. v, § 573,169 (Idrodinamica, § 20): Imperocché quel tal corpo, che supporremo essere una palla di sughe¬ ro qualora fosse immersa nell’acqua fino ad una certa profondità, co¬ stituirebbe parte della colonna di fluido, che gli sovrasta; e quindi pre¬ merebbe in giù col suo peso unito al peso di quella, contro una ugual colonna dello stesso fluido. Questa riagendo, premerebbe il sughero, e ’l fluido sovrastante verso sù: e siccome questa pressione deriva dalla forza d’inerzia (§ 543), dev’essere proporzionale alla quantità della materia; ond’è, che sarà maggiore nella colonna sottoposta al sughero, che in quella, che vien formata dal sughero stesso, e dalla colonna sovra¬ stante; per esser il sughero specificamente più leggiero dell’acqua. Per la qual cosa ne dovrà necessariamente seguire, che alla pressione di siffatta colonna verso giù, sarà vinta dalla pressione opposta della colonna, che le resiste; e quindi verrà il sughero rispinto in su coll’eccesso di quest’ulti¬ ma; ossìa colla differenza, che v’ha tra la pressione delle due indicate co¬ lonne. 23. Poli-Dandolo iii, 1. xiv, a. 111, nota al § 681,28 (Fluidi elasti¬ ci, § 21): I. Che la dilatazione dell’aria non può seguire che mercè la sua com¬ binazione col calorico: II. che la dilatabilità dell’aria ossia la sua affini¬ tà, 0 delle sue basi pel calorico, è, come rileveremo in seguito, infinita: III. che quindi la mancanza di calorico bastante, in un dato punto nell’at¬ mosfera, diventa la cagione perchè l’aria non si possa ulteriormente dila¬ tare, quantunque si ritrovino sopra di essa notabilmente minorati i pesi comprimenti: IV. che appunto perciò nell’alto dell’atmosfera la tempe¬ ratura è sempre freddissima: V. che appunto perciò le colonne dell’aria equatoriale sono tanto più lunghe delle colonne dell’aria polare, sebbene 448 [p. 451 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO pesino egualmente: VI. che appunto perciò finalmente la densità dell’a¬ ria a date altezze varia nel medesimo paese in proporzione della quan¬ tità di calorico che somministra il sole nelle differenti stagioni. 24. Poli-Dandolo iii, 1. xiv, a. 111, nota al § 687,32 (Fluidi elasti¬ ci, § 26): Qualora si adotti che un corpo qualunque non agisce sopra d’un altro che per forza meccanica 0 di affinità, e che l’aria è pur anche dessafra il numero dei corpi che sieguono questa legge universale, allora nulla vi sarà nè di oscuro, nè di straordinario rapporto al modo con cui l’aria agisce sopra i corpi e particolarmente sopra quelli che ri¬ porta l’autore. Vuoisi dunque riflettere:! Che, se l’aria non ha alcuna affinità con un corpo, essa non agisce che in forza del suo peso, cedevolez¬ za, divisibilità, ec., non empie per conseguenza che tutti i pori di questo corpo fino al punto in cui può essa penetrare. Fatto quest’uffizio, ella ces¬ sa affatto di agire sopra il corpo, rimane equilibrata coll’aria esterna, e perciò non può essa farsi mai strada entro ad un corpo, qualora non vi abbia affinità, 0 qualora la sua forza meccanica non sia tale da squar¬ ciarne le parti. 25. Poli-Dandolo iii, 1. xvm, a. 111, § 960,295-96 (Fluidi elastici, §34): La colonna d’aria racchiusa, esempigrazia, in un flauto, concepisce delle vibrazioni perforza del soffio, che tende a condensarla; e son que¬ ste più frequenti a misura che si scema la lunghezza di una tal colon¬ na. Ora siffatta lunghezza vien determinata dall’intervallo, che v’ha tra il becco del flauto, ed uno de’ suoi Jori laterali, che densi aperto; conciossiachè la colonna d’aria racchiusa nel flauto non produce alcun suono, se non quando le vibrazioni in essa eccitate si comunicano al¬ l’aria esteriore. Ma queste si communicano per via del foro aperto; dunque tutto il resto della colonna, ch’è al di sotto di quel foro, non ha vera influenza per produrre il suono. E siccome una colonna più corta, e più addensata concepisce vibrazioni più frequenti come si è detto delle corde (§ 954), ciascun vede la ragione, per cui un flauto, 0 altro simile stromento, produce un tuono più acuto a proporzione, che ifori aperti 449 [p. 452 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA son più vicini alla bocca. Per la qual cosa il muover le dita in tali stro- menti ad altro non serve, se non se a determinar la lunghezza della co¬ lonna d’aria. 26. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 11, § 1197, 198 (Luce, § 15): Dalla forza indicibile onde abbiam veduto esser lanciata la luce da’ corpi luminosi sembra derivare la proprietà, cui ella costantemente serba, di propagarsi per sentieri rettilinei; conciossiachè la veemenza di quel¬ l’impulso fa sì, che le sue particelle si dispongano in serie l’una dopo l’al¬ tra, e quindi costituiscano de’ raggi, come si è detto nel § 1392, emuli di altrettante linee rette; non potendo la loro gravità distorli da quel retto sentiere, per esser ella infinitamente picchia in corrispondenza della loro prodigiosa sottigliezza. In pruova di ciò si può far entrare un raggio di Sole entro una camera bujaperun foro praticato in una finestra. Vedras- si egli seguire immancabilmente il mentovato retto sentiere: talché facen¬ dosi un altro foro nella parte opposta del muro, fino a cui si sporge il det¬ to raggio, propagherassi egli al di juori, e scomparirà dell’intutto quella sua porzione, che attraversa la stanza, senza diffonder in quella la me¬ noma quantità di luce. Lo provano similmente le ombre de’ corpi, i cui perimetri sono tali, chescorgonsi limitati da’raggi, sporgenti in linea ret¬ ta dal corpo illuminato sino a’ diversi loro punti. Che anzi neppur elle¬ no esisterebbero, se la luce si propagasse per curvi sentieri; giacché le om¬ bre vengono cagionate, siccome ognun sa, da una semplice privazione di luce, oppur dall’esser ella debole all’eccesso. 27. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 1, § 1481, 232 (Luce, § 9): Una tal distinzione forma il soggetto di tre rami particolari di scien¬ za: intendo dire dell’Ottica, che considera la luce diretta nello stato, ch’ella si diffonde da’ corpi luminosi; della Diottrica, la quale esamina la luce rifratta ossia traviata dalla sua direzione nell’attraversare i corpi diafani; efinalmente della Catottrica, la quale riguarda la luce riflessa, 0 vogliam dir rimbalzata da’corpi opachi. E poiché coteste tre scienze prese insieme comprendono in se tutta la dottrina della luce, a cui si dà in termini generali la denominazione di Ottica; uopo è, che rivolgiamo le nostre mire a considerarle partitamente, 450 [p. 453 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO col dar principio dalla prima, siccome par che richiegga la stes¬ sa natura della cosa. 28. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 1, § 1484, 233-234 (Luce, § 2): 1484. Per la qual cosa si appigliarono a miglior partito que’ Fisici, i quali riguardaron la luce come sostanza corporea. Pure ad onta di un tale accordo tengono essi diversa opinione intor¬ no all’origine, o per meglio dire, intorno al fonte della medesi¬ ma. Fassi avanti Renato delle Carte e pretende di farci credere che la luce non venga cacciata da’ corpi luminosi, ma che consista unicamente in una pressione, che essi fanno sulla materia del suo preteso secondo elemento (§ 17). Il Sole adunque,giusta il suo pensare, collocato nel centro di un gran vortice, premendo colla sua effica¬ cia la materia globosa, che lo circonda da per tutto, dà alla medesima un certo movimento, il quale risveglia in noi la sensazion della luce, in quella guisa appunto, che una campana, od altro corpo sonoro, non caccia il suono da sè, ma lo produce soltanto coll’imprime¬ re all’aria, che gli è intorno, un certo moto di vibrazione, il quale propagandosi sino all’orecchio, genera in noi la sensazio¬ ne del suono (§ 927)- 29. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 1, § 1485,234-235 (Luce, §§ 3-5): 1485. Il detto Abate Nollet riflettendo, che l’ipotesi cartesiana non era punto sostenibile, perocché appoggiata sulle chimeriche sue idee intorno alla generazione del Mondo (§ 17), ove si trova l’ori¬ gine della pretesa materia globosa, nell’atto che la caratterizzò come erronea, ritenne il fondo del sistema, e s’indusse a credere al par di Cartesio esser la luce sempre presente anche in assenza di corpi luminosi, ed in seno al bujo più profondo: altro ella non essendo, salvochè il fuoco elementare, o vogliam dire calorico sparso sempre in tutto l’Universo; il qual fuoco per altro ha biso¬ gno di esser messo in un certo movimento per potersi manifestare sotto l’aspetto di luce e che siffatto uffìzio è riserbato unicamente dalla Natura ai corpi luminosi. 451 [p. 454 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 30. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 1, § 1487, 236-238 (Luce, § 6): 1487. A vista dunque di siffatte cose egli è assai più ragionevole il credere con Newton, seguace in ciò di Democrito, e di Epicuro, che la luce sia una vera, e reale emanazione del corpo luminoso, cosicché il Sole, le stelle fisse, e tutti gli altri corpi lucidi, lanciano da se continuamente raggi della propria sostanza, i quali propagan¬ dosi con una indicibile rapidità, estendonsi poscia nell’immen¬ so spazio del Mondo. 31. Poli-Dandolo iv, 1. xxm, a. 1, § 1487,236-238 (Luce, §§ 7-8): Nè v’ha ragion di temere, che la sostanza del Sole, per esempio, a- vrebbesi dovuto sensibilmente scemare per aver da se scagliata la luce dal momento di sua creazione fino a’ dì nostri, ossia durante lo spazio di quasi 6000 anni. (...) Qual prodigiosa copia di effluvj non si diffonde dal muschio, dall’ambra grigia, e da altri corpi odorosi, durante lo spazio di mesi, e di anni, senza che soffrano essi la menoma diminu¬ zione di peso! Laonde qual diminuzione sensibile volete ch’abbia a sof¬ frire un corpo così vasto, ed immenso com’è il Sole (il quale supera in grandezza d’un milione, e 400 mila volte il nostro Globo terraqueo), collo scagliare da se una sostanza così tenue; com’è quella della luce? 32. Poli-Dandolo iv, 1. xxvi, a. 1, 278 (Elettricismo, § 9): Niuno ignora ai dì nostri esserci alcune specie di corpi, le cui parti agitate, o stropicciate nel modo conveniente, acquista¬ no la virtù di trarre a se i corpicciuoli leggeri, e talora anche quella di dar scintille di fuoco. La anzidetta facoltà di attrarre, es¬ sendo stata fin dai tempi i più rimoti conosciuta nell’ambra, che dai Greci dicesi, fjAexzpov,fece sì, che in progresso di tempo se le attribuisce il nome di «Elettricità» e che si denominano «elettrici» quei corpi che ne sono forniti. Diz. 1. Poli-Dandolo, Fluidi aeriformi-Gas (Fluidi elastici, § 9): La combinazione di un corpo liquido, 0 solido col calorico in modo che il composto che ne risulta sia invisibile, grave, elastico e 452 [p. 455 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO molto cedevole, dicesi fluido aeriforme. Se questa combinazione, ov¬ vero se questo fluido aeriforme non perde la suajorma invisibile a qua¬ lunque pressione e fredda temperatura venga esposto, chiamasi fluido aeriforme permanente; se perde poi questa forma invisibile mercè la pressione, o fredda temperatura, e quindi se ne separi condensata la base, chiamasi allora fluido aeriforme non permanente. I primi di questi fluidi, per esempio, formano la nostra permanente at¬ mosfera; ed i secondi formano i vapori. Diz. 2. Poli-Dandolo, Fluidi aeriformi-Gas (Fluidi elastici, §§ 11-12): Ifluidi aeriformi permanenti si dividono in due classi; 0 sono respira¬ bili e serventi alla combustione, ed allora si chiamano arie; 0 non servo¬ no alla respirazione e combustione, e si chiamano gas. Diz. 3. Poli-Dandolo, Fluidi aeriformi permanenti (Fluidi elasti¬ ci, §§ 11-12): Iprimi si chiamano arie, e sono l’aria atmosferica; e l’aria vitale (gas ossigeno). (...) Fluidi aeriformi non respirabili, non serventi alla combustione, che hanno sapore, e sono più 0 meno dissolubili nell’acqua: Questi fluidi ae¬ riformi si riducono a sette; 1. il gas ammoniacale; 2. il gas acido nitroso; 3. il gas acido carbonico; 4. il gas acido fluorico; 5. il gas acido muriatico; 6. il gas acido muriatico ossigenato; 7. il gas acido solforoso. Fluidi aerifor¬ mi non respirabili, non serventi alla combustione, che non hanno sapore, e non sono dissolubili nell’acqua: Questi fluidi aeriformi si riducono a tre: 1. gas azoto; 2. gas ossido nitroso; 3. idrogeno. Diz. 4. Poli-Dandolo, Aria (Fluidi elastici, § 13): Aria: fluido aeriforme permanente, invisibile, senza odore e sapore, composto di 27 parti di aria vitale, e di 73 di gas azoto. Diz. 5. Poli-Dandolo, Combustione, (Luce, § 4i): Essendo l’aria vitale un corpo composto di ossigeno, di calorico, e di luce (vedi Gas) ne segue, che non può l’ossigeno, base di questo gas, an¬ 453 [p. 456 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA dare a combinarsi in istato di solidità co’ corpi combustibili, che si bru¬ ciano, senza perdere il calorico, e la luce, che lo tenevano sotto forma aeri¬ forme. Questa luce, e calorico, che si svolgono in questa decomposizione dell’aria vitale, formano ciò, che chiamiamo volgarmente fiamma, fuoco, ec. La diversa rapidità, con cui i corpi combustibili assorbono quest’ossi¬ geno in istato di solidità, la quantità diversa, che ne assorbono, e lo stato diverso, di solidità con cui lo ricevono in combinazione, formano le diffe¬ renze ch’esistono fra’ corpi combustibili, e rendono ragione perchè sieno così variate le quantità di calorico, e di luce, che dalle diverse combustioni si svolgono. Ecco dunque perchè le combustioni non hanno luogo, che do¬ ve esista aria vitale ossia gas ossigeno, e cessano all’istante qualora vi manchi questo elemento, come cessa la respirazione degli animali, che altro non è che una combustione lenta d’idrogeno e di car¬ bonio, principj del loro sangue, che fassi appunto all’aria aper¬ ta. Il fine di ogni combustione è sempre quello di convertire il combusti- bile che si brucia in un ossido, o in un acido, cioè in un corpo incombusti¬ bile ossia bruciato. Quest’ossido, od acido torna per conseguenza combu¬ stibile, perdendo, in qualsivoglia modo l’ossigeno, con cui si è combinato bruciando. Diz. 6. Poli-Dandolo, Trombe, (Elettricismo, §§ 32-35): Quel movimento terribile e vorticoso discendente da una nuvola alla terra, o da una nuvola al mare, occasionato dal pas¬ saggio del fluido elettrico dall’alto al basso, dicesi tromba. Le trombe dunque non si originano che ristabilendosi l’equilibrio fra una nuvola altamente caricata, e la terra 0 il mare. Tutto il resto che si opera in questo fenomeno è occasionato da pure forze mecca¬ niche. Se l’equilibrio del fluido elettrico fra una nuvola e la ter¬ ra, o il mare si fa attraverso ad un’aria secca, allora questo fluido non iscappa che per un dato punto della nuvola, onde ritrovare per parte dell’aria circostante, corpo non conduttore, la minor resistenza possibile. (...). Il fulmine dunque, venendo alla terra, non presenta che una specie di solco 0 filone sottilissimo che si apre fra la nu¬ vola e la terra, attravero l’atmosfera, e ch’è tanto più sottile, quanto più l’estensione dell’aria che percorre, è dappertutto secca. Valutato che tu abbia in modo conveniente tutto ciò che ha rapporto col ful¬ 454 [p. 457 modifica]SAVERIO POLI E VINCENZO DANDOLO mine, vedi tosto la formazion delle trombe, supponendo solamen¬ te: i. che una nuvola altamente caricata di fluido elettrico si ri¬ trovi o sopra il mare, o sopra la terra: 2. che possa questa nuvola avvicinarsi alla superficie del mare, o della terra: 3. che nell’atmo¬ sfera possa avvenire un cangiamento un poco in umido dell’atmosfera: 4. che allora il fluido elettrico possa aprirsi fra la nuvola e la terra una co¬ municazione molto maggiore di quella del fulmine: 5. che possa allora strascinarsi seco per la sua vicinanza al mare, o alla terra una quan¬ tità di vapore acqueo con cui è già naturalmente combinato: 6. che questa corrente di vapore e di fluido elettrico d’alto in bas¬ so segua la stessa legge de’ fluidi che cadono in un imbuto, giacché si sa che la pressione dell’aria essendo maggiore abbasso che in alto, deve dare appunto a questa tromba una forma conica: 7. che quindi questo cono viene formato dalla reazione dell’aria esterna e dalla forza di pressione, 0 di espansione del fluido discendente: (...) Diz. 7. Poli-Dandolo, Trombe, (Elettricismo, § 36): 8. che quindi aprendosi, come votando un liquido per un imbuto, un vuoto nel mezzo del vortice spirale occasionato dalla forza sunnominata, i corpi tutti dal basso, sian solidi, 0 liquidi, per la pressione laterale deb¬ bono ascendere nel vortice determinato da questo voto: 9. che que corpi che potranno essere trasportati nel vortice, saranno tanto più grandi, quanto più grande sarà il diametro inferiore del cono: 10. che quindi questi corpi chiudendo più, 0 meno il voto della colonna verticale, debbo¬ no essere al vertice del cono lanciati, stracciati, ec. in mille modi: 11. che questi effetti debbono essere tanto più grandi, lunghi e terribili, quanto maggiore è la quantità di fluido elettrico e di vapore vescicolare, che si ri¬ trovano nella nuvola, e quanto più è in giusta proporzione l’umidità, onde il diametro del cono non sia nè soverchiamente grande, nè troppo picciolo: 12. che appunto per questa cagione e per queste circostanze deb¬ bono le cannonate tirate contro quester trombe, distruggerne gli effetti; avvegnaché, squarciandole, si fa strada entro ad esse l’aria esterna con cui l’equilibrio si ristabilisce». 455 [p. 458 modifica]CHARLES ROLLIN ★ Antologia i. Rollin xxv, p. ii, 115-124 (Felicità, § 1): [Catone] al suo ritorno (l’Africa, aveva già esposto energica¬ mente di aver trovato Cartagine non nello stato in cui la crede¬ vano i Romani, esausta di uomini e di ricchezze, indebolita ed 456 [p. 459 modifica]CHARLES ROLLIN avvilita; ma ripiena all’opposto di una florida gioventù, d’u- n’immensa copia d’oro e d’argento, di un prodigioso ammasso d’ogni sorta d’armi, e tanto altera e presuntuosa per tutti questi grandi apprestamenti, che niente vi era di elevato, cui non por¬ tasse la sua ambizione e le sue speranze. Si dice eziandio che dopo aver tenuto quel discorso, abbia pittato in mezzo al senato alcuni fichi dAfrica ch’aveva in un lembo della sua toga; e che ammirandone i senatori la beltà e la grossezza, abbia detto: Sappiate, che da tre soli giorni queste frutta sono state colte. Tale è la distanza che ci separa dal nimico. (Plin. 1. 15. c. 18). E da quel tempo, qualunque affare si deliberasse in senato, Catone aggiungeva sempre: e io con¬ chiudo inoltre, che è d’uopo distrugger Cartagine. (...) l’arrivo dei deputati di Utica, i quali venivano a dare se stessi, i beni, le terre, e la città loro ai Romani. (...) Il Console Censorino, il quale parlava, dopo aver lodato la buona disposizione e la ubidienza loro, ordinò che senza frode, e senza indugio consegnassero le armi. (...). Quest’ordine fu immantinente eseguito. (...). Il console si rizzò per un istante al loro arrivo con alcuni contrassegni di bontà e di dolcezza: quindi ripigliando ad un tratto un’aria grave e severa: Non posso, disse, non lodare la vostra prontezza nell’eseguire gli or¬ dini del senato. Esso mi ordina di dichiararvi, che la sua ultima volontà è che usciate di Cartagine, che ha determinato di di¬ struggere. (...) non vi fu altro per tutta la città che urli, dispera¬ zione, rabbia, e furore. (...) Mi sia permesso di fermarmi per un istante a considerare la condotta dei Romani. (...) Non si riconosce più a mio parere l’antico loro carattere. (...). Oh quanto è pericoloso l’esser potente abbastanza per commettere impune¬ mente l’ingiustizia, e sperarne eziandio grandi vantaggi! L’esperienza di tutti gli imperi ci dimostra, che non si tralascia di commet¬ terla, quando la si reputa utile. 2. Rollin xlvi, 88-89 (Virtù in particolare, §§ 33-36): Laberio dunque nell’uscir dalla scena si dispose d’andar a prender posto tra’ cavalieri romani. Questi che riguardavano come un doppio disonore per se stessi, che dopo esser stato co¬ 457 [p. 460 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA stretto a calcare la scena ritornar egli volesse a sedere fra loro, si disposero in modo che per lui non vi era luogo. Laberio passa¬ va a traverso i sedili de’ senatori per arrivare a quelli de’ cavalie¬ ri. Cicerone, a cui si trovò da presso, veggendolo un poco imba¬ razzato, gli disse: Io ti darei luogo, se non fossi tanto stretto. Egli voleva e farsi beffe di Laberio, e motteggiare sulla moltitu¬ dine de’ novelli senatori creati da Cesare senza scelta, e senz’ al¬ cuna cura delle leggi e delle convenienze. Il poeta adontato diede a Cicerone una risposta assai mordace: tu mi fai traseco¬ lare, gli disse, poiché sei avvezzo a seder sempre su due scanni ad un tempo; adagio che significava presso i Romani ciò che noi diciamo nuotare tra due acque, ondeggiar tra due partiti. Così Laberio rinfacciava a Cicerone, che stando in bilico fra Pompeo e Cesare, non era stato fedele amico nè all’uno, nè al¬ l’altro. (Sen. Controv., I.7, c.3 / Macrob. Sat., I.2). 3. Rollin xlvii, 172-173 (Sogni, §§ 36-37): Tutti questi intrighi non si poterono con tal segretezza ma¬ neggiare, che non ne traspirasse alcuna cosa. Cesare sapeva che si tenevano notturne combriccole, e Bruto e Cassio gli erano sospetti sino ad un certo segno. Un giorno che da Antonio e Dolabella fu avvertito di guardarsi bene: non sono già, rispose, questi uomin tarchiati, grassotti, e ricciuti, che mi sembrano oggetti di ti¬ more, ma i macilenti ed i pallidi. Egli indicava con queste ultime parole Bruto e Cassio. 4. Rollin xlvii, 173 (Sogni, § 34): Sognando erale paruto di tener Cesare tra le braccia, tutto fe¬ rito, e grondante di sangue, e quindi mettea dormendo sospiri e sin¬ ghiozzi che Cesare stesso udì. 458 [p. 461 modifica]JEAN SAURI 459 [p. 462 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 460 [p. 463 modifica]JEAN SAURI ★ Antologia 1. Sauri, Fis. i, s. n, § 3, 143 (Idrodinamica, § 6): Da tali osservazioni parecchi fisici han conchiuso, che le parti ele¬ mentari de’fluidi fossero sferoidali, e che la fluidità dipendesse da tal fi¬ gura, e che tanto più i corpi erano fluidi, quanto maggiormente le lor particelle erano sferiche. Altri poi considerando, che il fuoco inter¬ posto tra le parti de’ metalli, loro comunica la fluidità, dissero, che siffatta proprietà dipende da un fluido igneo, il qual tien divise le particelle de’ fluidi. 2. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 4, 143-144 (Idrodinamica, §§ 14-15): Per una legge di natura, che è un effetto di quella causa, che sospinge i corpi verso il centro della terra, le parti superiori dei fluidi gravitano sulle inferiori, che premono col lor peso. Tutta¬ via gli antichi Scolastici s’erano imaginati, che i fluidi non pesavano, co¬ me essi diceano, ne’ lorproprj elementi; che l’olio, per esempio, non pesa¬ va nell’olio, nè il mercurio nel mercurio. Se però prendasi un fiasco di metallo vuoto, ben chiuso, e che avendolo sospeso al braccio d’una bilan¬ cia, si faccia poscia immergere nell’acqua, per metterlo allora in equi¬ librio col peso sostenuto dall’altro braccio della stessa bilancia; e in appresso si conceda all’acqua d’entrare nel fiasco; il braccio della bi¬ lancia, a cui è sospeso, prevalerà, ed eleverà l’altro peso. 3. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 5, 144-145 (Idrodinamica, § 18): È una pura conseguenza della legge [di gravità], di cui parlammo, che i fluidi si mettano in equilibrio attorno alla terra; che la lor superficie sia a livello, ed egualmente distante in tutti i suoi punti dal centro del nostro globo, che noi qui consideriamo come immobile, e perfetta¬ mente sferico. Imperciocché se supponiam per un momento, che la terra sia tutta coperta d’acqua, e che alcune colonne d’un tal fluido sieno più elevate dell’altre; siccome le lor molecule devono cedere ad ogni menoma forza, le superiori si spande¬ 461 [p. 464 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ranno sulle inferiori, fino a che la superfìcie venga ad esser per tutto egualmente elevata, ed a livello. Ma quando trattasi d’una superficie d’acqua di non grande estensione, può essa considerarsi, come piana;perchè allora la sua curvatura non è a noi sensibile, ed è appun¬ to da una tal proprietà, che dipende l’arte del livellare, di cui abbiam trattato nel nostro Compendio di Matematica. 4. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 7, 146 (Idrodinamica, § 23): vii. Se noi concepiamo un corpo p m n q (Fig. 64) immerso in un’acqua che non sia agitata, la sua superficie inferiore sarà so¬ spinta in alto dall’azione del liquore, che è di sotto; ma la su¬ perficie sua superiore sarà premuta dal liquor superiore. Frattanto se tal corpo pesa precisamente tanto, quanto un egual vo¬ lume del fluido, ei rimarrà tranquillo nel luogo, ove fu locato; perchè oc¬ cuperà il luogo del fluido rimosso il quale era in equilibrio col rimanente del fluido. E di là ne siegue, che le pressioni laterali, e che s’eser¬ citano parallelamente all’orizzonte sulla superficie d’un corpo immerso in un fluido sono opposte, eguali, e reciprocamente distruggonsi: altrimenti il corpo immerso non potrebbe rima¬ nersi in quiete. 5. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 7, 147 (Idrodinamica, § 22): Se il corpo immerso è specificamente più pesante del fluido, cioè se un egual volume di fluido pesa meno di tal corpo, allora il fluido posto in mn sarà premuto più del fluido posto in t, ed s, il quale è compresso da una colonna, ch’è formata di solo fluido; mentre la colonna bmna, che preme il fluido mn, è composta di due parti, l’una delle quali bpqa è di fluido, mentre l’altra parte pmnq è più pesante di quel che sarebbe, sefosse fluida, e perciò il fluido mn deve cedere, e il cor¬ po pmnq deve discendere fino al fondo del vaso. 6. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 9, 148-149. (Idrodinamica, §§ 24-25): ix. Supponiamo frattanto, che un corpo a abbia una gravità specifica 28 volte più grande di quella dell’acqua, e che pesi 28 libbre: egli è chiaro, che se si tenga sospeso un tal fluido per mezzo d’un filo attac¬ 462 [p. 465 modifica]JEAN SAURI cato al braccio d’una bilancia (Fig. 66), non converrà sospendere all’altro braccio, che un peso p di 27 libbre per tenerlo in equili¬ brio; perchè un tal corpo sarà sospinto in alto dal fluido ab col¬ la forza d’una libbra; e la sua forza respettiva nell’acqua sarà solo di 27 libbre. Ma se esso sia immerso nel mercurio, la cui gravità specifica è 14 volte più grande di quella dell’acqua, egli vi perderà un pe¬ so 14 volte più grande, cosicché un corpo p di 14 libbre potrà tener¬ lo in equilibrio. Da tai principj conchiudono i Fisici, che le gravità specifiche de’fluidi sono tra di esse come le perdite di peso, che fa un me¬ desimo corpo immerso successivamente in tai liquidi. 7. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 63, 341-344 (Idrodinamica, § 26): I Fenomeni de’ tubi capillari sono assaissimo noti, nè noi possiamo passarli sotto silenzio. Nella Sezione seconda di quest’opera ab¬ biamo veduto, che un liquore racchiuso in tubi comunicanti mettesi a livello, e sale alla stessa altezza: questa legge però non ha luogo ne’ tubi assai angusti, i quali per la picciolezza del loro diametro, comunemente si chiamano capillari. In siffatti tubi i più de’liquori s’innalzano sopra il livello,producendo una maravigliosa varietà di fenomeni (...). Ne’ tubi angustissimi l’acqua tanto più s’in¬ nalza, quanto minore è il diametro d’essi, purché tai tubi sieno net¬ ti^...). Tuttavia tutti i fluidi non si elevano alla stessa altezza. [Segue una tabella con le indicazioni delle altezze raggiunte dai fluidi nei tubi capillari in rapporto alla loro densità, che permette a Leopardi di affermare che non c’è rapporto tra la diversa natura dei liquidi e la loro ascesa nei capillari]. 8. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 65, 345 (Idrodinamica, § 27): (...) I Fisici, che seguirono le insegne di Descartes, hanno inventato un gran numero d’ipotesi per ispiegare tai sorte di fenomeni. I più d’es¬ si sostengono, che a produrli concorrono molte cagioni. Ci as¬ sicurano spezialmente, che non potendo l’aria interna libera¬ mente scorrere nel tubo per la picciolezza del suo diametro, non può perciò far equilibrio coll’aria esterna; ma tale ipotesi non può più sostenersi, quando facciasi attenzione, che l’aria è 463 [p. 466 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA un fluido sottilissimo, e in conseguenza atto a passar liberamen¬ te in un tubo capillare. D’altronde dovrebbe l’acqua salire, alme¬ no per poco, in un tubo chiuso al di sopra finché il peso dell’ac¬ qua unito alla molla dell’aria facesse equilibrio colla pressione dell’aria esterna; il che tuttavia non avviene. A ciò aggiungiamo, che allora i fluidi più leggeri dell’acqua, come per esempio, lo spirito di vino, dovrebbero elevarsi a un’altezza maggiore; ciò che è contrario al¬ l’osservazione. Inoltre, come potrebbe egli avvenire, che i liquori s’alzassero alla medesima altezza nel vuoto di Boyle, e nell’aria libera, se l’azione dell’aria fosse la causa di tai fenomeni? 9. Sauri, Fis. 1, s. 11, § 66, 346 (Idrodinamica, § 28): lxvi. Altri pensano, eh’essendo minore nell’interno d’un tu¬ bo capillare la pressione dell’aria dell’atmosfera, l’aria contenuta ne’ pori del fluido dilatasi, e collo sprigionarsi produce l’ascensione del liquido. Ma i fenomeni avvengono alla stessa maniera nel vuoto di Boyle, anche adoperando acqua che sia stata purgata dall’aria. 10. Sauri, Fis. 1, s. 11, §§ 67-68, 346-348 (Idrodinamica, §§ 29-31): Ma lasciamo da canto le finzioni, e passiamo alla vera teoria. lxvii. Non si può per verun modo dubitare dell’attrazione, ch’esercita il vetro sull’acqua, (...). lxviii. L’acqua è più attratta dal vetro, che da se medesima; poiché essa inumidisce il vetro, nè il proprio suo peso può staccamela: Il mercu¬ rio al contrario, non inumidisce punto il vetro, essendo attratto dalle proprie parti più di quello che sia da quelle del vetro. 11. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 1, 10 (Ente, §§ 18-20): La esistenza si è il compimento della possibilità, ovvero l’esistenza si è l’attualità di una cosa. Vi son due spezie di possibilità: l’una estrinseca, osia rispettiva; l’altra intrinseca, osia assoluta, 0 primitiva. La possibilità intrinseca consiste nella sociabilità degli attributi; oppure consiste in questo, che l’essere considerato in se stesso, non rinchiude veru¬ na contraddizione. La vera essenza, e la sociabilità degli attributi, sia el¬ la attuale, 0 possibile, costituiscono una sola e medesima cosa. La possi¬ 464 [p. 467 modifica]JEAN SAURI bilità poi estrìnseca consiste in questo, che un qualche essere è idoneo a ricevere la esistenza, e può esistere. Ora, dipende dalla volontà divina, che un essere intrinsecamente possibile riceva, o no, la esistenza; e conse¬ guentemente si vede, che la possibilità estrìnseca dipende affatto da Dio. 12. Sauri, Met. i, i, c. i, p. n (Ente, § 21): Proposizione. La possibilità intrinseca è indipendente da Dio. In¬ fatti se ciò non fosse, Dio medesimo potrebbe fare, che gli attributi di una qualche cosa fossero insieme, e non fossero contraddittorj : ma questo è impossibile; altrimenti Dio potrebbe fare, che un circolo quadrato fosse possibile, e che la quadratura e la roton¬ dità si fossero una sola e medesima cosa; vale a dire, che Dio potrebbe fare, che una sola e medesima cosa fosse in un tempo stesso, e non fosse rotonda: il che e un assurdo. Quindi si deve conchiudere, che Dio non può fare se non quello, che realmente è possibile, il che niente diminuisce la di lui onnipotenza; perciocché un Essere onnipotente si e quello, che può fare tutto il possibile, e non quelle cose, che ripugnano alla possibilità. 13. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 12 (Ente, § 22): Col nome di affezioni di un essere noi qui intendiamo tutti i suoi pre¬ dicati, la ragione dei quali ritrovasi nella essenza, o nelle altre cose tanto estrinseche, quanto intrinseche, differenti dalla essenza dello stesso essere; e però il nome di affezione è più esteso del nome di modi, o di attributi. Infatti col nome di modi, o di at¬ tributi altro non s’intendono, che unicamente le proprietà ine¬ renti ad un essere. Se queste proprietà sono elleno necessariamente inerenti ad un essere, in tal caso i modi, o gli attributi si chiamano essenziali: che se poi queste medesime proprietà possono esistere 0 man¬ care in un dato soggetto, nulla cambiandosi la natura dell’essere, allora i modi, o gli attributi vengono detti accidentali. 14. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 12 (Ente, § 23): Ma la denominazion di affezione si estende a dei predicati estrìnseci all’essere, i quali contraddistinguono una qualche relazione tra un essere 465 [p. 468 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA e l’altro; come per esempio, quando si dice, che la tal cosa e maggiore, o minore di un’altra. 15. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 12 (Ente, § 24): Se si abbiano due pesi uguali di oro, A e B, in modo tale, che la loro configurazione, il color loro niente differiscano l’uno dall’altro, ella è cosa evidente, che questi due pesi si equilibreranno, metten¬ doli nei bacili di una bilancia. (...) di maniera che due cose, le quali son simili rispettivamente alla loro figura, alla loro grandezza, al lor peso, si chiamano le medesime cose. 16. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 13 (Ente, § 25): Si dice, una cosa essere la medesima numericamente, allor¬ ché si può dare di essa un’affermazion singolare. Se per esempio un uomo ha i due nomi di Pietro, e di Giovanni, si potrà dire, che Pietro è il medesimo, che Giovanni, e reciprocamente: di modo che Pietro numericamente si è la cosa medesima, che Giovanni. 17. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 14 (Ente, § 26): Dicesi, che due cose sono differenti, allorché hanno elleno delle pro¬ prietà non uguali. Perciò son differenti tra loro un circolo, ed un triangolo (...). 18. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 11, 14 (Ente, § 27): Due esseri estesi son simili, allorché l’uno sia in grande lo stesso, che un altro lo è in picciolo; e non sono eglino simili nel caso op¬ posto. 19. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 111, 14 (Ente, § 28): Un essere singolare, 0 sia un essere individuo, si è quello, che è intiera¬ mente determinato; e perciò un triangolo, il quale esista, è egli de¬ terminato intieramente, quanto ai suoi lati, ai suoi angoli, alla sua superfìcie. 466 [p. 469 modifica]JEAN SAURI 20. Sauri, Met. i, p. i, c. in, 15 (Ente, § 29): Noi chiamiamo essere universale quell’essere, il quale non è intiera¬ mente determinato, ovvero il quale contiene solamente le proprietà in¬ trinseche, che sono comuni a parecchj esseri singolari, alla esclusione di quelli, che son differenti negl’individui. 21. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 111, 15 (Ente, § 30): Quindi per esempio, allorché ci facciamo a considerare un triango¬ lo siccome una figura di tre lati, e di tre angoli, senza determinare la grandezza degli angoli, e dei lati medesimi, noi abbiamo l’idea di essere universale. 22. Sauri, Met. 1, p. 1, c. 111, 15 (Ente, § 31): Per conseguenza ciocché si chiama col nome di essere universale non è, che una proprietà comune a parecchj individui, e rappresentata da una idea astratta di tal maniera, che volendo parlare con rigore di termi¬ ni, non vi può essere alcun universale, giacche tutto quello, ch’esiste, o che può avere esistenza, esiste, o può esistere singolarmente, ed è conseguentemente, 0 può essere un essere singolare e determinato. 23. Sauri, Met. 1, p. 1, c. iv, 16 (Ente, § 32): Chiamasi supposto una cosa, la quale ordinariamente vien detta col nome di sussistenza; e perciò suol dirsi, che i supposti sussistono. Al contrario, gli esseri incompleti, i quali non sono supposti, mancano di sussistenza propria-, e quindi il piede di un qualche animale non sussiste in se stesso, ma sussiste nell’animale me¬ desimo, il quale ha una sussistenza sua propria. 24. Sauri, Met. 1, p. 1, c. iv, 16-17 (Ente, § 33): Se i supposti sono ragionevoli, vengon chiamati persone; ma i suppo¬ sti irragionevoli conservano lo stesso nome di supposti. 25. Sauri, Met. 1, p. 1, c. iv, 16-17 (Ente, § 34): Se nella unione di due sostanze la più nobile dipende nelle sue ope- 467 [p. 470 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA razioni dalla meno nobile, siccome l’anima dell’uomo dipende dal corpo, ne risulta un supposto di due sostanze, come Pietro, o la persona di Pietro. 26. Sauri, Met. i, p. i, c. iv, 16-17 (Ente, § 36): Se una sostanza è unita ad un’altra sostanza ugualmente perfetta, l’una e l’altra cessano di essere supposti, e ne risulta un supposto, di cui ciascheduna ne è una parte, come succede in due goccie di acqua, le quali si uniscono insieme. 27. Sauri, Met. 1, p. 1, c. iv, 17 (Ente, § 35): Se la sostanza più nobile, quando si è unita ad una sostanza meno nobile, non dipende nelle sue operazioni dalla seconda, ancorché questa dipenda dalla prima, in tal caso la sola sostanza più nobile sarà il sup¬ posto; e se questa sarà una sostanza ragionevole, ella sarà una persona, (a). (a) In Gesù Cristo la natura umana non è una persona, per¬ chè nelle sue operazioni dipende dalla natura Divina, che le si è unita. Tutto quello, che si opera dalla umanità di Gesù Cristo, viene operato dalla di lui divinità; di modo che la divinità stes¬ sa è il principio intiero e totale delle operazioni di Gesù Cristo medesimo, e si possono quindi chiamare col nome di opera¬ zioni umano-divine. Dunque in Gesù Cristo si riconoscono due nature; ma non vi ha, che la sola persona Divina. 28. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, p. 18 e 20 (Ente, § 37): Chiamasi necessaria una cosa, la di cui cosa opposta sia affatto im¬ possibile. (...) Un essere necessario si è quello, la di cui esisten¬ za è necessaria. Tale appunto si è Dio, che è l’unico essere necessario. 29. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 18 (Ente, § 41): Ciocche è necessario, è anche immutabile; e così reciprocamente. 30. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 19-20 (Ente, §§ 38-39): Chiamasi contingente una cosa, la di cui opposta non è impossibile, 468 [p. 471 modifica]JEAN SAURI nè contraddittoria. Quindi è chiaro che la rotondità della cera è contingente, potendo la cera esistere senza esser rotonda. Dicesi necessità ipotetica quella, per cui una cosa, la quale non è assolutamente necessaria, diventa poi tale in vigore di una qualche data supposizione. Così per esempio, non è necessario, ch’esista un palla di cera; ma supponendo, che Dio voglia la esistenza di una tal palla, egli è necessario, che la cera sia fatta rotonda. Quindi in siffatta ipote¬ si la rotondità della cera è di necessità di supposizione, vale a dire di necessità ipotetica. 31. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 20 (Ente, § 40): Una cosa è moralmente necessaria, quando il contrario può esistere dijficimente, quantunque senza miracolo. 32. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 20-21 (Ente, § 42-44): Si può interrogare, se le essenze delle cose contingenti, ed i loro at¬ tributi essenziali, siano eglino necessarj, eterni, ed immutabili?Ella è co¬ sa evidente, che Dio conosce da tutta la eternità le essenze delle cose; e però le prefate essenze esistono da tutta la eternità nell’intelletto divino, considerandolo in questo senso, che Dio da tutta la eternità conosce cioc¬ ché sarà una qualche cosa, allorché averà ella la sua esistenza, ovvero ciocché sarebbe una qualche cosa, se mai dovesse esistere. La essenza di un circolo deve essere la rotondità; e però è ella una verità eterna, che un circolo non può esistere senza esser rotondo: ed in questo senso la essenza del circolo è necessaria, ed eterna, non già nel senso, che il circolo esista necessariamente, e da tutta la eternità. Così parimenti è impossibile, che un triangolo esista senza tre lati, e senza tre angoli; ed una tal cosa è sempre stata, e sarà sempre impossibile. Dunque egli è vero, che le essen¬ ze, egli attributi essenziali degli esseri contingenti sono necessarj, immu¬ tabili, ed eterni. 33. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 26-27 (Ente, § 45): L’Essere semplice è quello, che non ha parte alcuna. L’Essere compo¬ sto al contrario si è quello, che risulta dalla unione di parti fra loro di- 469 [p. 472 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA stinte: dal che ne siegue, che l’essere composto è divisibile, lad¬ dove l’essere semplice non può venir mai diviso. 34. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 26-27 (Ente, §§ 50-51): Un essere semplice, il quale di non esistente diviene esistente, passa dalla non esistenza alla esistenza in un subito indivisibile; perciocché un essere semplice non può esister per parti. Per conseguenza, dacché incomincia egli ad esistere, esiste tutto ad un tratto. Chiamasi istante quel limite, che divide il tempo passato dal tempo futuro; ma non si deve confondere l’istante medesimo col momento, il quale comprende uno spazio di tempo assai breve. 35. Sauri, Met. 1, p. 1, c. v, 26-27 (Ente, § 52): L’essere finito si è quello, in cui non si può avere in un tempo istesso tutto ciò che attualmente vi si può rinvenire: laddove al contrario l’esse¬ re infinito si è quello, in cui trovasi tutto ciò, che attualmente vi si può ri¬ trovare. 36. Sauri, Met. 1, p. 11, c. 111, 69 (Anima, § 50): Conseguentemente in un tal sistema, il quale però dal Si¬ gnor Leibnitz non fu mai proposto con aria grave, le volizioni dell’anima, ed i movimenti del corpo sarebbono necessaria¬ mente tali, quali sono in realtà, di maniera, che l’anima non averebbe libertà alcuna; e quando Virgilio componeva le sue Enei- di, l’anima di Virgilio era quella, che ne faceva i versi, che si scriveva¬ no di sua mano; anzi l’anima stessa di Virgilio averebbe scritti que’ versi medesimi, se anche avesse animato un corpo, a cui non si fosse mai data la notizia di verso alcuno. 37. Sauri, Met. 1, p. 11, c. vi, 81 (Sogni, § 8): Il sonno sembra dipendere da un gravame, da una compres- sion del sensorio, o sia del corpo calloso: il sonno sospende le fun¬ zioni, ed impedisce più 0 meno le facoltà dell’anima, a misura, che il sonno più 0 meno si approssima allo stato della vigilia. 470 [p. 473 modifica]JEAN SAURI 38. Sauri, Met. 1, p. 11, c. vi, 81 (Sogni, § 9): Nel tempo della vigilia le impressioni, che fanno gli oggetti esterni, passano agevolmente al sensorio: l’anima acquista le idee degli og¬ getti medesimi, ed esercita l’impero suo sopra il corpo, al quale si trova unita. 39. Sauri, Met. 1, p. 11, c. vi, 81 (Sogni, § 10): Il sonno è uno stato contrario: l’anima non rimarca gli og¬ getti presenti, e non esercita nessun impero sopra la macchina. Allorché siam prossimi ad addormentarci, noi ci accorgiamo, che l’anima nostra è occupata da idee, e da sensazioni vive, e di¬ stinte: poco dopo l’attezion si minora, ed appena l’anima getta qual¬ che languido sguardo sopra gli oggetti delle sue cognizioni. 40. Sauri, Met. 1, p. 11, c. vi, 81-82 (Sogni, §§ 11-12): A questo stato ne succede poi un altro, che noi chiamiam sonno, ed in cui e malagevole sapere; se abbia l’anima continuamente delle idee, perchè non possiamo risovvenirci di tutto quello, che in questo stato sperimentiamo. (...) Io intendo per sogno, quel tempo del sonno in cui l’anima nostra si rappresenta degli oggetti rimoti, ed assenti, (a), e dei quali possiamo ricordarci, almeno in confuso, quando siamo svegliati. (a) Noi non possiam ragionare sui sogni, che per esperienza; e perciò, quantunque possa avvenire, che l’anima nostra continuamente sia in so¬ gno, allorché dormiamo, noi non chiamiamo sogno, se non quel tempo, durante il quale l’anima si rappresenta degli oggetti assenti, che si posso¬ no rammentare anche in tempo della vigilia. Il principale carattere, che distingue il sogno dalla vigilia, si é la riflessione più languida nel primo stato, che nel secondo. Nel sogno fa l’anima poca attenzione, ed alle volte nessuna sulla serie delle modificazioni, che prova; ma in tempo della vi¬ gilia quest’attenzione è sempre assai più vivace. 41. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 316 (Bestie, §§ 8-9): Io aggiungerei, che le bestie hanno un’anima dotata di libertà, ma che questa libertà è altrettanto imperfetta, quanto l’intelletto, che 471 [p. 474 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA la dirige; ch’esse non possono meritare, nè demeritare, perchè non han¬ no veruna cognizione della moralità delle azioni. 42. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 316-318 (Bestie, § 32): Dirassi forse, che queste anime sono immortali? Cosa ne avver¬ rà egli poi dopo la morte dell’animale? Saranno elleno felici, 0 infelici? Siccome le bestie non hanno cognizione veruna del bene o del mal morale, così non possono meritare, 0 demeritare, e non si può mai supporre, che le anime delle bestie abbiano ad essere infelici dopo la morte dell’animale. Dirassi forse, che sono elleno destinate a goder Dio? Questo sarebbe un as¬ surdo. 43. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 316-318 (Bestie, § 33): Dirassi, ch’elleno animano successivamente varj corpi, che passano dall’uno all’altro, che per esempio, l’anima del cavallo di Ales¬ sandro è passata per successione in altri cavalli, che oggi anima il cavallo di un Principe, e che solamente per rapporto alle bestie sia necessario ammettere il sistema della metempsicosi? Questo sistema non è appoggiato (a) ad alcuna buona ragione, e non può far colpo alcuno in un uomo di buon senso. (a) Il sistema della Metempsicosi è quello, in cui si suppone, che le anime degli uomini, e degli animali passino successiva¬ mente da un corpo nell’altro. 44. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 317 (Bestie, §§ 47-48): Se mi venisse richiesto in qual modo, allorché si taglia in molte parti un lombrico terrestre, ciascheduna di queste parti possano formare un corpo vivente, io risponderei, che essendosi il Supremo Essere determina¬ to fino da tutta la eternità a creare gli uomini, egli animali, immediata¬ mente che i corpi fossero in istato di essere animati, egli avrà potuto de¬ terminarsi a creare delle nuove anime per le varie parti del lombrico divi¬ so, ogni qual volta queste parti, e queste divisioni del lombrico si ritrovi¬ no sufficientemente organizzate per ricevere un’anima, e per eseguire i di 472 [p. 475 modifica]JEAN SAURI lei ordini. Infatti, poiché queste parti separate, e divise formano dei cor¬ pi organizzati, per qual ragione il Supremo Essere non congiungerà ad essi un’anima, siccome lo fa in riguardo all’uomo dentro all’utero del¬ la madre, subito che il corpo del feto si ritrovi organizzato sufficiente- mente? Se poi mi si chiedesse cosa diverranno le anime delle bestie dopo la morte del loro corpo, io direi, ch’esse non vedranno Dio, ma che niente ri¬ pugna, che questo Supremo Essere le conservi, e le faccia godere di una spezie di felicità. Se mi si chiedesse in qual cosa consista precisamente questa felicità, mi sarebbe facile il rispondere, che io non ne so cosa alcu¬ na, e che da me non si deve esigere maggior dottrina di quella, che si può ritrovare in tutti gli altri uomini insieme. 45. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 317 (Bestie, § 53): E dove saremmo noi, se le bestie avessero la ragione, e la libertà come noi, e se ne usassero come gli uomini? Il disordine, la crudeltà, la devasta¬ zione sarebbono state enormi sopra la terra. 46. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 318-319 (Bestie, §§ 25-27): Pretendono i Cartesiani, che i bruti non pensino, che non senta¬ no, che non abbiano un’anima distinta dal loro corpo, e che tutto in essi venga operato macchinalmente. Proccurano di convalidare la loro ipotesi cogli esempj di varie macchine maravigliose. Si dice che Regiomontano avea fatta un’aquila, la quale volando segnava il cammino all’Imperatore, che andavasi a Norimberga. Si pre¬ tende, che il medesimo Regiomontano avesse fatta una mosca, la quale volasse Ognuno avrà inteso parlare della testa parlante costrutta da Alberto Magno. Si sa parimenti la storia di una statua di ferro fabbricata da un carcerato, la quale con molti inchini si portò nel palaz¬ zo del Re di Marocco, gli presentò una supplica, e ritornò alla prigio¬ ne d’onde si era partita. (...) Se l’arte degli uomini può far delle cose tanto sorprendenti, perchè non potrà Dio aver costrutte, delle macchine tanto perfette che possano eseguire tutti que’ moti, che noi ve¬ diamo farsi dalle bestie? 473 [p. 476 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 47. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 322-323 (Bestie, § 10): Malgrado però tutte codeste sottigliezze bisogna convenire•, che gli uo¬ mini hanno una inclinazione quasi irresistibile, e tanto forte, e tanto na¬ turale a credere, che le bestie siano animate, che ad onta degli sforzi mag¬ giori di alcuni Filosofi non vi sarà mai, fuorché un piccolissimo numero di pensatori, che averanno il coraggio di abbracciare il sentimento con¬ trario. 48. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 319 (Bestie, §§ 30-31): Si può aggiungere anche qualche altro argomento. Se si taglia un lombrico in molte parti, ciascheduna di queste parti formerà un ani¬ mai vivo. Si dirà forse, che l’anima si divide in altrettante parti e, in quante si divide il corpo? Questo sarebbe un assurdo. 49. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 320 (Bestie, § 37): Si loda per esempio la previdenza delleformiche, le quali in tempo di estate raccolgono il loro vitto per l’inverno: (...). 50. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 321 (Bestie, § 35): Tutte queste ragioni, e molte altre eziandio, non vagliono a fare, che il sistema dei Cartesiani non si consideri come un assurdo. 51. Sauri, Met. 1, p. 11, c. xxvm, 322 (Bestie, § 39): Quando si percuote un cane, l’animale, se avesse l’anima, si la¬ gnerebbe. (...) Si vede adunque, che in questo sistema [cartesia¬ no] le bestie non hanno anima, e che nonostante devono ope¬ rare come se effettivamente la avessero. 52. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 1, § 2, 6 (Ente Supremo, §§ 13-14): Il mondo non è eterno, poiché l’acconsentimento unanime degli Storici, e dei Poeti, anche nelle loro finzioni medesime, ce lo comprovano. Grazio, ed Huezio lo hanno già dimostrato; e sappiamo altresì dalla storia, in qual tempo abbiano comin- 474 [p. 477 modifica]JEAN SAURI ciato a popolarsi molte contrade da alcune Colonie venute da al¬ tri paesi, in qual tempo siano state inventate alcune arti utilissi¬ me per uso della vita: e da tutto questo si può concludere, che il mondo non è tanto antico, poiché altrimenti le nazioni degli uo¬ mini illustri, i quali avrebbono esistito da tutta l’eternità, sareb- bono presentemente sepolte in una profondissima dimentican¬ za. Perchè non avremmo noi qualche libro più antico dei Mosaici? Per qual ragione i Poeti non averebbon cantate le gesta di tanti Eroi, i quali avessero esistito innanzi all’assedio di Troja, ed alla guerra Tebana? (a) Il mondo adunque ha incominciato ad esistere, e non da tempo lunghissimo. Dunque il mondo ha ricevuta la sua esistenza da quell’essere, che noi chiamiam Dio. Dunque Dio esiste. (a) Praeterea si nulla fuit genitalis origo Terrarum, et Coeli, semperque aeterna juere, Cur supra bellum Thebanum, et funera Trojae Non alias alii quoque res cecinere Poetae? Lucretius 53. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 1, § 5, 8 (Ente Supremo, § 6): L’ammirabile ordine, che noi rimarchiamo nel mondo, la re¬ golarità dei movimenti degli astri, il ritorno periodico delle stagioni, la fe¬ condità della terra, la generazione degli animali, la maravigliosa fabbri¬ ca del corpo umano, la struttura dell’occhio, dell’orecchio ecc. la unione dell’anima col corpo, e tutta l’altra prodigiosa quantità di stupende cose, che si potrebbono qui riferire, dimostrano chiaramente la esistenza di una Divinità. I Cieli, e la terra ci annunziano la gloria, la onnipotenza, la intelligenza di Dio; e però per sentimento di Cicerone non vi ha gente cosi barbara, e rozza; che non sappia esservi un Dio (...). 54. Sauri, Met. 11, s. 111 c. 1, 12 (Ente Supremo, §§ 19-20): È ella assurdissima una tale opinione, perciocché se il fortuito, ed accidentale concorso degli atomi ha potuto produrre quest’universo per qual ragione non produrrà egli un palazzo, una città, un vascello co¬ se di tanto più facile esecuzione? Poi qual necessità vi ha egli mai, che 475 [p. 478 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA questi atomi abbiano esistito? Per quale necessità si saranno essi agitati, e posti in moto? In quale maniera questi esseri di tanto poca conseguen¬ za saranno stati necessatj? E quando ancora fosser eglino necessarj e quando fosse anche stato necessario il loro moto in qual maniera si sarà poi egli potuto alterare. Se il moto non fosse stato a loro necessario chi mai lo avrebbe ad essi comunicato? Più ancora. Se la feccia del Nilo avrà potuto altre volte produrre degli uomini, e degli animali per qual ragione questa feccia medesima non ne produce anche al giorno d’oggi? Oltreac- chè tutte le combinazioni possibili di atomi, e di elementi, non daranno mai altro, che produzioni di quella natura medesima, di cui son compo¬ stigli atomi, egli elementi combinati, mentre la organizzazione, e la vi¬ ta non possono mai risultare da un casuale miscuglio di atomi, e di ele¬ menti. Un chimico infatti quando combina insieme gli uni con gli altri i varj principj dei corpi non produrrà un misto, il quale sia capace nel suo crociuolo di sentire, e di pensare. 55. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 1, 16 (Ente Supremo, §§ 21-22): Parecchi filosofi ammettono il vacuo, cioè uno spazio immenso, infinito, eterno, increato, immutabile. Per conseguenza si può dire da alcuni, che lo spazio è un essere, il quale esiste per una forza sua propria, quantunque lo spazio medesimo non sia un essere perfetto (...). Altri filosofi dicono, che lo spazio non è una sostanza, ma solamente un essere privativo, o negativo, il quale esiste nella maniera medesima presso a poco, con cui avrebbono esistito le tenebre, se Dio non avesse prodotta la lu¬ ce. Altri pretendono che lo spazio sia stato creato: ma in tutte queste tre opinioni riferite la obiezione proposta vi è nulla. Vi sono per verità dei Filosofi, la fede dei quali non può essere per verun conto sospetta, siccome lo nota il P. Jacquier nella sua Metafisica, i quali sostengono, che lo spazio è infinito, ed in¬ creato; ma essi riguardan lo spazio come una sostanza passiva, senza forza, senza pensiero, senza intelligenza. 56. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 22 (Provvidenza, § 8): Dio conosce tutte le verità, e ne conosce il legame, ed il seguito. Egli le conosce tutte in una volta, e non successivamente, come gli 476 [p. 479 modifica]JEAN SAURI uomini; di modo che la ragione, che nell’uomo consiste nella facoltà di conoscere il seguito, ed il legame delle verità eterne, è ella infinitamente perfetta in Dio, e limitatissima nel l’uomo, il quale abbisogna di passare successivamente dai principj alle conseguen¬ ze, ed il quale non procede neppure molto lontano: laddove Dio vede in un tempo istesso il principio, la conseguenza, e la unione di tutte le verità l’una coll’altra, (a) Quindi ha Dio eminentemente il raziocinio dell’uomo, vale a dire, che il nostro raziocinio si trova in Dio senza veru¬ na imperfezione. (a) Io qui intendo per conseguenza una proposizione, che segue da un’altra necessariamente. 57. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 22-23 (Provvidenza, § 9): Dio conosce il futuro: perciocché anche l’uomo medesimo co¬ nosce alcune cose future. Gli Astronomi, per esempio, possono preveder facilmente alcune eclissi: e però Dio deve tanto mag¬ giormente conoscere l’avvenire. Egli parimente conosce ciocché potrebbe accadere, se avesse luogo una data condizione: egli conosce per esempio cosa succederebbe, se un’armata di Cine¬ si venisse in Europa. Conseguentemente egli conosce le cose avvenire anche sotto condizione. Chiamasi scienza di visione, 0 sia previdenza quella, per cui Dio conosce le cose future; e chiamasi scienza di semplice intelligenza quella, per cui Dio medesimo conosce le cose pu¬ ramente possibili.Vi sono dei Teologi, i quali distinguono le cose puramente possibili dalle cose, che accaderebbono, se avvenisse una data condizione qualunque; e chiamano essi col nome di scienza media quella, per cui Dio conosce i futuri condizionali. (...) Ma coloro, che risguardano i futuri condizionali come cose puramente possibili, ri¬ gettano la scienza media. 58. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 23 (Provvidenza, § 11): Dio è immutabile quanto alla sua sostanza, che non può essere alterata in riguardo alle sue perfezioni. Difatti egli non può acqui¬ starne alcuna di nuova, nè perderne alcuna delle sue proprie-, percioc¬ ché da tutta la eternità egli ha avute le sue medesime ragioni di volere 477 [p. 480 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA una cosa, come le ha oggi Quindi non può egli avere alcuna nuova ra¬ gione di cambiarsi di decreto. Dio ha dunque veduto da tutta la eternità ciocché era possibile. Dunque ha egli decretato da tut¬ ta la eternità. Dunque da tutta la eternità ha egli conosciuto ciocché dovrebbe avvenire. Dunque egli è immutabile. 59. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 23-24 (Provvidenza, § 10): Se l’uomo è libero, dunque Dio tanto più deve esserlo; per¬ ciocché colui, che ha dato all’uomo la intelligenza, e la libertà, deve possedere queste medesime perfezioni in un grado infinito. (...). Da tutta la eternità Dio ha risolto di creare il mondo; ma il suo de¬ creto non è men libero, perchè poteva determinare il contrario. 60. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 25 (Provvidenza, § 12): Dio è infinitamente saggio nei suoi decreti. Noi qui per sapienza intendiamo la scienza di prescrivere alle azioni libere dei con¬ venienti fini alla loro natura, di eleggere i mezzi proprj per ot¬ tener questi fini, e di subordinare gli uni agli altri, i fini partico¬ lari al fine principale. Ora non si può negare a Dio una tale scienza in un grado infinitamente perfetto, scienza, la quale si trova in Dio sotto la forma di un atto, mentre si trova in noi so¬ lamente in potenza, ed anche limitatissima. Dio non può volere il male, nè proporselo per fine; perciocché in Dio la volontà è otti¬ ma e perfettissima. 61. Sauri, Met. 11, s. 11, c. 11, 28 (Provvidenza, § 18): (...) perciocché se potesse darsi che Dio non fosse in una qualche parte del mondo, si potrebbe supporre eziandio, ch’egli non esistesse nella parte vicina, e così nelle altre. Si potrebbe supporre altresì, ch’egli non esistesse in verun luogo, e conseguentemente, ch’egli non esistesse. Dun¬ que egli esiste per tutto, ed è immenso. 478 [p. 481 modifica]PAOLO SEGNERI ★ Antologia i. Segneri, Incredulo, c. xvm, § 3 e § 5, 54 (Provvidenza, § 20): Conciossiachè rappresentatevi al pensiero questo impossibile, che si trovasser più Dei: per qual via dovrebbon distinguersi l’un dall’altro? 479 [p. 482 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA Pervia di qualche perfezione diversa, che in loro fosse, o d’imperfezione? Pervia d’imperfezione non è possibile, perchè il Bene sommo debbe esse¬ re Bene esente da ogni difetto. Dunque converrebbe che si distinguessero a forza di perfezioni. Ma come ciò se il Bene sommo non può non accorle tutte? Niun di loro in tal caso sarebbe Dio, mentre a ciascuno manche¬ rebbe quel pregio, che fosse il proprio, e il preciso del suo consorte. Dun¬ que Iddio non può essere mai più d’uno. «Porro nihil summum bonum, nisi plenis viribus unum. » Di poi, chi non vede, che l’essere il su¬ premo di tutti gli enti possibili, senza eguale, senza equivalen¬ te, è di sicuro un vantaggio il più riguardevole che si truovi? Adunque non si può contrastare a Dio, cui conviene ogni pre¬ minenza. Una gioja unica al Mondo, quanto ha di stima! Un fiore unico! Un frutto unico! Un libro unico! Anche i figliuoli restano commendati da una tal dote, più forse che da alcun’al¬ tra, perchè li fa in loro genere senza pari. Oltre a che: o questa pluralità sarebbe dispiacevole a ciascun Dio, e ne seguirebbe, che ciascun di lorojosse infelice, mentre dovrebbe fra’ suoi contenti divorare questa amarezza di haver collega, senza poterla mai digerire: o non sarebbe di- spiacevole punto, e ne seguirebbe, che ciascuno fosse insensato mentre non sentirebbe un difetto, inevitabile al pari, ed interminabile, che non potrebbe dargli altro che confusione: tanto più, che da quelle ingiurie, che Dio riporta ogni giorno da’ peccatori, può cavar qualche gloria, che le compensi. Ma quale gloria potrebbe un Dio ricavare da quei discapiti, che riportasse dall’altro di Monarchia? Sarebbono di lor genere incom¬ pensabili. Adunque tanto è volere multiplicar la Divinità quanto è vole¬ re annullarla. 480 [p. 483 modifica]WILLEM JACOB S’GRAVESANDE [p. 484 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ★ Antologia i. S’Gravesande i, i, 3 (Moto, § io) In Investigatone autem Naturae legum, sequentes Regulae Newtonianae observandae veniunt: regula i. Causas rerum Na- turalium non plures admitti debere, quam quae ac verae sunt, ac earum Phaenomenis explicandis sufficiant. 482 [p. 485 modifica]ANTONINO VALSECCHI [p. 486 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA

Antologia i. Valsecchi i, c. ii, § 4, 42 (Ente Supremo, § 8): Quale adunque, dirassi, è egli questo argomento? Quel me¬ desimo, che già accennammo. Il Cielo, io dico, la Terra, e le co¬ se tutte, che sono in essi, la cui anche leggiera contemplazione basta ad iscoprirci la sapienza, ed onnipotenza d’un Facitore sovrano. E in vero fu egli pensiero saggissimo di Aristotile, illustrato poscia da Cicerone (a), che se uomini vi fossero, nati, e nudriti per lunga pezza sotterra; indi repente su questa superfìcie da noi abitata saliti, volgessero eglino qua, e là gli sguardi: la Terra, il Mare, e il Cielo vedessero; osservassero la beltà, e grandezza del Sole, e le vicende da esso cagionate del giorno, e della notte mirassero; lo splendor delle Stelle, della Luna le fasi, la mole delle nubi, e la forza de’ venti, ed i costanti, e perenni giri di que’ grand’Orbi riconoscessero: costoro al certo tali cose veg- gendo, e giudicherebbero esservi Iddio, ed essere questa mole fattura di Lui. (a) Si essent, qui sub terra semper habitavissent bonis, et illustribus domiciliis quae essent ornata signis atque picturis instructaque rebus iis omnibus, quibus, abundant ii, qui beati putantur, nec tamen exissent umquam supra terram, accepissent autem jama, et 484 [p. 487 modifica]ANTONINO VALSECCHI auditione esse quoddam numen, et vim deorum deinde aliquo tempore patefactis terrae faucibus ex illis abditis sedibus evadere in haec loca, quae nos incolimus, atque exire potuissent cum repente terram, et maria coelumque vidissent nubium magnitudinem ventorum que vim cognovissent aspexissentque solem ejusque cum magnitudinem pul- chritudinemque, tum etiam efficientiam cognovissent, quod is diem ef- flceret toto caelo luce diffusa; cum autem terras nox opacasset tum coelum totum cernerent astris distinctum, et ornatum, lunaeque lumi- num varietatem tum crescentis, tum senescentis eorumque omnium ortus et occasus atque in omni aeternitate ratos immutabiles- que cursus; haec cum viderent, profecto, et esse deos, et haec tanta opera. 2. Valsecchi i, c. ii, § 12, 46 (Provvidenza, § 4): Dio è l’Essere Supremo:giacche da niuno dipende chi è da se stesso: e tutto dipende da lui, che ha in se la ragion adeguata dell’essere di ogni cosa (c).Egli è perfettissimo, poiché perfezione veruna mancar non può a chi, essendo da se medesimo, la pienezza dell’essere essenzialmente con¬ viene, nè da ragione alcuna esser può limitato (d). [Dove (c) e (d) cor¬ rispondono a due citazioni di S. Tommaso poste in nota al testo] 3. Valsecchi i, c. ii, § 12, 46 (Provvidenza, § 14): Iddio è un essere semplicissimo:giacché ogni composto involve imper¬ fezione nelle parti, e dipendenza nel tutto. Ciò ripugna all’Essere perfettissimo, e supremo: dunque Dio è semplicissimo (e) [do¬ ve (e) è una citazione di S. Tommaso]. 4. Valsecchi i, c. ii, § 12, 49 (Provvidenza, §§ 16-17): Iddio è Beato: egli se stesso comprende, che è infinito vero; se stesso ama, che è infinito bene: da tal conoscenza, ed amore una gioja infinita ridonda: tutto ciò la vera beatitudine costituisce; e tutto ciò è una cosa stessa in Dio, cioè la sua medesima essenza: dunque Iddio è beato, ed es¬ senzialmente beato, e infinitamente beato, (b) Iddio è la beatitudine del¬ le creature ragionevoli:giacché essendo la beatitudine, 0 sia ultima felici¬ 485 [p. 488 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA tà uno stato per la comprensione di tutti i beni perfetto, e questi beni tut¬ ti trovandosi in Dio, ch’è l’Essere perfettissimo, chi giugne a possederlo, veggendolo è pienamente felice; poiché non v’ha più desiderio alcuno in lui, che non sia del tutto satollo: siccome per ciascheduno scorrendo dimo¬ stra S. Tommaso (c). Iddio adunque è la nostra sovrana beatitudine. [Dove (b) e (c) corrispondono a due citazioni di S. Tommaso poste in nota al testo]. 5. Valsecchi i, c. iv, § 3, 54-33 (Anima, § 49): Dicono altri essere il corpo e l’anima quasi due Automati, o macchi¬ ne se moventi, montate in guisa, che nell’uno, cioè nel corpo si sviluppi successivamente una serie di movimenti, e nell’altro, cioè nell’anima si sviluppi una serie di modificazioni, cioè pensieri ed effetti. La macchina spirituale non ha un minimo influsso sulla corporea, nè questa su quella; ma l’unione loro consiste nell’a- ver l’Artefice onnipotente col suo sovrano volere accoppiati que’ due Automati, l’uno de’ quai fosse rappresentativo dello stato dell’altro: sviluppandosi in quel corpo una serie di moti analoghi, e armonici alle serie delle modificazioni, che sviluppar do- vean in quell’anima; e successivamente in questa sviluppando¬ si tai pensieri ed effetti, che ai movimenti di quello fossero cor¬ rispondenti, senza esservi tra loro altro legame e commercio, che la mano dell’Autore, il quale in tal guisa gli costrusse, e gli unì. Non altrimenti, dicono questi Filosofi, che due Oriuoli con per¬ fetta uniformità costrutti, si muovono, e l’ore indicano di con¬ certo, ancorché infiisso veruno tra di loro non sia. E questo è il Sistema in iscorcio dell’armonia prestablita del rinomato Leibnizio. 6. Valsecchi i, c. iv, §§ 4-5, 58-59 (Anima, § 22): Ma sopra tante rovine cose innalza egli [Voltaire] poi? Il tro¬ feo di Locke. Questi, die’egli, fa l’analisi delle nostre cognizioni, questi fa vedere, che non sempre si pensa (in fatti per alcuni si crede, che Voltaire non abbia pensato mai), egli rigetta le idee innate, distingue le semplici dalle composte, fa vedere, che le lingue sono imperfette, e che ad ogni momento abuso faccia¬ 486 [p. 489 modifica]ANTONINO VALSECCHI mo de’ termini nell’esprimere in nostri pensieri. Io rispondo, che anche prima di Locke, si sapevano e s’insegnavano o nel- l’una, o nell’altra Scuola queste dottrine. Ma si dia pur a lui tut¬ to il pregio d’avere in tal guisa formata modestamente la storia del¬ l’Anima umana. Che c’è di più? Eccolo soggiugne Voltaire, «egli (...) ardisce pronunziare modestamente queste parole. Noi non saremo forse mai capaci di conoscere, se un essere puramente materiale pensi, o no». (...). In tanto senza acerbezza appunto, ma con sincerità, e buona fede facciamoci a vedere se ci riesce di persuaderci che la materia possa pensare. (...) In corto dire io conosco per intimo senso il pensiero: io conosco con chiara idea l’estensione: e non solo non trovo quello in questa; ma confrontando l’uno coll’al¬ tra, vedo che c’è tale discrepanza, diversità, allontanamento, che per qualunque sforzo io faccia a me medesimo, nè men fingere me li posso tra se congiunti. 7. Valsecchi 1, c. iv, § 10, 66-67 (Anima, § 17): Dopo scritte queste cose, anzi dopo la prima edizione di questo Libro, ci è pervenuto alle mani certo Dizionario Filoso¬ fico Portatile, cui la pubblica voce attribuisce al Signor di Voltaire. Egli merita in fatti d’esserne riconosciuto per Autore; giacché l’Opera porta il suo carattere, ed è veramente tutta degna di lui. Nell’Articolo pertanto dell’Anima, dopo aver ripetuti molti di que’ pensieri, che aveva egli sparsi altrove, e che poco prima abbia¬ mo noi confutati, si accigne questo Filosofo ad un’impresa novella, che è di abbattere l’argomento della spiritualità dell’Anima da noi testé il¬ lustrato: e col suo tuono franco, e vittorioso si lusinga riuscirvi in poche voci felicemente. Riportiamo le sue parole (a): [segue la versione ita¬ liana del brano di Voltaire]. (a) « Nous savons qu’une nègation, et une affirmation ne sont point divisibles, ne sont point de parties de la matière; je suis de votre avis. Mais la matière, à nous d’ailleurs inconnue, possède des qualitès, qui ne sont pas matèrielles, qui ne sont pas divisibles; elle a la gravitation vers un centre que Dieu lui a donnèe. Or cette gravitation n’a point de par¬ ties, n’est point divisible. La force motrice des corps organisès, leur vie, 487 [p. 490 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA leur instinct, ne sont pas non plus des ètres à part, des ètres divisibles: Vous ne pouvez pas plus couper en deux la vègètation d’une rose, la vie d’un chevai, l’instinct d’un chien, que vous ne pouvez couper en deux une sensation, une negation, une affirmation. Votre bel argument tire de l’indivisibilitè de la pensee ne prouve donc rien de tout. » 8. Valsecchi i, c. iv, § io, 66-67 (Anima, § 18): Fin qui il Voltaire. Parrebbe in vero naturai cosa il pensare, che quanto più l’uomo negli anni e negli studj s’innoltra, tanto più dotto divenir dovesse e più saggio: contuttociò credon molti, che in cotesto Poeta la cosa sia esattamente proceduta in ragion inversa. Basta infatti questo ragionamento di lui a recarcene pruova ben luminosa: giacché (se chiamar debbo le cose coi lo¬ ro nomi) esso contien tanti sbagli, quante quasi parole; ed è un mise- rabil sofisma, che l’argomento nostro non iscuote per verun modo, anzi lo conferma. Dimostriamelo [sic] a parte a parte. Noi sappiamo (egli dice) che un’affermazione, e una negazione non son divisibili, non sono parti di materia: io son del vostro parere. Ed io per ora non chiederò di più per inferirne, che dunque la nega¬ zione, e l’affermazione, il pensiero importando essenzialmen¬ te unità, esser non possono proprietà di sostanza estesa, e divisi¬ bile, quale è la materia: e che in conseguenza l’Anima di tali af¬ fezioni dotata non è materia, ma spirito. Ma no (egli ripiglia): poiché la materia possiede delle qualità, che non son materiali, che non son divisibili. Orsù accennatele: «Eli’ha la gravitazione verso un centro, che Dio le ha dato: or questa gravitazione non ha parti, e non è divisibile». Ma dove siam noi, mio Signore? La gravitazione non ha parti, e non è divisibile? Ignorate voi per ventura quel teorema celebre de’Filosofi, che la gravità è proporzionale alla massa: e all’accre¬ scere, allo scemare, al dividersi della massa, e si accresce, ed iscema, e divi- desi la gravità ? Ma senza chiamar Filosofi a dimostrarcelo, qua- l’è il bifolco, che ignori, che un peso di dodici libre, si divide in sei, e sei: e che ciascuna di queste parti in tanti minori pesi sot¬ to dividesi, quanto a lui piace. Dunque la gravità ha parti, ed è divi¬ sibile, e il vostro primo argomento è uno sbaglio. 488 [p. 491 modifica]ANTONINO VALSECCHI 9. Valsecchi i, c. iv, § 10, 66-67 (Anima, § 19): Passiamo al secondo. La forza motrice de’ corpi non è un essere composto di parti. Ottimamente. Ma e chi ha detto a Voi, mio Signore, che la forza motrice de1 corpi sia proprietà della materia? Noi dimostrato abbiamo altrove, che la materia è «inerte»; e che il principio del moto non può originariamente trovarsi se non se in un Essere superiore e diverso da tutto il sistema corporeo: e questi è Dio. Ora la forza motrice in Dio è il suo onnipotente volere, spiri¬ tuale, e semplicissimo, quale è egli stesso. Che se pur voi di quella forza motrice parlaste, per cui un corpo spigne altro corpo e lo muove; ba¬ sti perora il dirvi, che lo spignente corpo tanto perde di cotesta virtù mo¬ trice, quanto altrui ne comunica; perchè quinci riconosciate, che tal forza è divisibile, e che cotesto vostro secondo esempio in ogni senso è tutto affatto contrario a Voi, e anzi che scotere il mio argomento, sempre più lo conferma. 10. Valsecchi i, c. iv, § 10, 66-67 (Anima, § 20): Diciam degli altri. La vegetazione de’ corpi organici, la loro vita, il loro istinto non sono esseri che abbian parti. Non è ella punto più divisi¬ bile in due parti la vegetazion d’una rosa, la vita d’un Cavallo, l’istinto d’un Cane, di quel che lo sia una sensazione, una negazione, un1affer¬ mazione. Tutte pure parole atte soltanto ad abbagliar gl’imperiti, non chi è iniziato anche leggiermente in questo genere di dot¬ trine. In fatti vi si concede, che la vegetazione, l’istinto, la vita de’ Corpi organici non sono esseri composti di parti: egli è però certissimo, che son modi, 0 affezioni, 0 proprietà di esseri appunto di parti composti, quali sono i corpi organici: siccome pur egli è certo, che tutti poi in sostanza co- testi modi, 0 affezioni si riducono al moto. Ed in che sta la vegetazion d’una Rosa, se non che nello sviluppo, e dilatazione, e ingros¬ samento delle sue parti? E che significa l’istinto d’un Cane (per quanto spetta al corpo organico, o sia alla materia, di cui solamente Voi qui potete parlare)? Non altro in vero se non se un tenore costante, ed invariabile, di operazioni o di moti a norma delle leggi stabilite dall’Autore della natura. Ed in che è riposta di questi medesimi organici corpi la vita: se non se nel 489 [p. 492 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA moto equabile e perenne de’ solidi, e fluidi, che li compongo¬ no? Or ella è cosa fuor d’ogni dubbio, che il moto ha la sua quantità, le sue misure, le sue parti, e che in esse è divisibile, e si divide. Sicché cosa evidente ella è, che le affezioni da Voi accennate (salvo la originaria forza motrice) son proprietà essenzialmente materiale [sic]; giacche alla materia spettano in guisa, che senza di lei, e fuor di lei concepir non si possono: e sono proprietà divisibili, come lo è pur la materia, che n’è il suggetto. 11. Valsecchi i, c. iv, § io, 66-67 (Anima, § 21): Es’ella è così, voi da Filosofo ingenuo dar dovete onoralla verità; e in vece di quella vostra magistral conseguenza: dunque il vostro bell’argo¬ mento preso dall’indivisibilità del pensiero non pruova niente affatto, raccor dovete e pronunciare quest’altra: «dunque il mio ragionamento tratto dalla gravità della materia, dalla forza motrice, dalla vegetazion, dall’istinto, e dalla vita de’ corpi organici è un tessuto di sbagli, e un mi- serabil sofisma, che la pruova della spiritualità dell’Anima non sol non abbatte, ma per la ragion de’ contrarj e stabilisce, e conferma ». Confes¬ so sinceramente al discreto Lettore, che io arrossisco d’essermi trattenuto a rifiutar tali inezie. Vaglia però questo saggio a far conoscere il carattere de’ due ultimi Libricciuoli (Dizionario Portatile, e Filosofia della Storia) fratelli gemelli, e parti per quanto si crede, del nostro Poeta: i quali quanto pieni sono di fiele, e di veleno contra Iddio, e contro alla Religione; altret¬ tanto sono vuoti di raziocinio, e di buon senso. Le obbiezioni contra i nostri dettati, che ne formano tutto il corpo, sono più o meno dello stesso valore; siccome quanto noiosa, altrettanto agevol cosa sarebbeci il dimostrarlo. Ma ritorniamo in cam¬ mino. 12. Valsecchi i, c. v, § 1, 74-75 (Anima, §§ 30-32): Un’anima, la quale sia una sustanza dal corpo diversa, alle vicende del corpo non va soggetta: onde se quello, siccome di parti composto, si discioglie, e si corrompe; questa, siccome di parti priva, perchè semplice, e spirituale, nello sciorsi alla morte quel 490 [p. 493 modifica]ANTONINO VALSECCHI nodo, che alla materia la strigne, incorruttibile serbasi, ed immortale. Questa è la verità più odiata, e più nemica dei Libertini: agli altri teore¬ mi di Religione si accheterebbero agevolmente, o almeno non vi si oppor¬ rebbero con tanta sfacciatezza, e d’impegno se non portassero in con¬ seguenza la durazione eterna dell’Anima (...) Egli [il Liberti¬ no] esser dee, dice Lucrezio, in un estremo spavento, (a): E con ra¬ gion: poiché se certo il fine...(b) [segue il testo di Lucrezio in italiano] (a) Et merito; nani si certum fine esse viderent Aerumnarum homines, aliqua ratione valerent Religionibus, atque minis obsistere vatum. Nunc ratio nulla est restandi, nulla jacultas, Aeternas quoniam poenas in morte timendum. (b) Et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus, Funditus, humanam qui vitam turbat ab imo Omnia suffundens mortis nigrore nec ullam Esse voluptatem liquidam, puramque relinquit. 13. Valsecchi i, c. v, § 2, 76-77 (Anima, § 29): Il Signor di Sant’Evremondo, che ricalcò le tracce segnate già da Montagna, tien per cosa certa che la ragione umana provar non possa l’immortalità dell’Anima, anzi condanna una tale intrapresa (...). Ma di qual carattere fosse la Fede, ch’egli a cotesta divina paro¬ la prestava, e qual fosse la sicurezza, onde, rigettate le dimo¬ strazioni della ragione, assoggettavasi alle decisioni della Religione intorno all’immortalità dell’Anima, ce lo dà ben chiaro a conoscere nel- VOpere sue. (...). Ma ascoltiamo il Signor di Voltaire, il quale succede molto ac¬ conciamente al Signor di Sant’Evremondo. La ragione umana (scriv’egli nella lettera sovrallodata [XIII]) è si poco capace di di¬ mostrare da per se stessa l’immortalità dell’Anima, che «la Religione è stata obbligata a rivelarcela.il ben comune di tutti gli Uomini, che si cre¬ da l’Anima immortale, la Fede ce l’ordina, non ci vuol altro: la cosa è de¬ cisa. » 491 [p. 494 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA moto equabile e perenne de’ solidi, e fluidi, che li compongo¬ no? Or ella è cosa fuor d’ogni dubbio, che il moto ha la sua quantità, le sue misure, le sue parti, e che in esse è divisibile, e si divide. Sicché cosa evidente ella è, che le affezioni da Voi accennate (salvo la originaria forza motrice) son proprietà essenzialmente materiale [sic]; giacche alla materia spettano in guisa, che senza di lei, e fuor di lei concepir non si possono: e sono proprietà divisibili, come lo è pur la materia, che n’è il suggetto. 11. Valsecchi i, c. iv, § io, 66-67 (Anima, § 21): E s’ella è così, voi da Filosofo ingenuo dar dovete onoralla verità; e in vece di quella vostra magistral conseguenza: dunque il vostro bell’argo¬ mento preso dall’indivisibilità del pensiero non pruova niente affatto, raccor dovete e pronunciare quest’altra: «dunque il mio ragionamento tratto dalla gravità della materia, dalla forza motrice, dalla vegetazion, dall’istinto, e dalla vita de’ corpi organici è un tessuto di sbagli, e un mi- serabil sofisma, che la pruova della spiritualità dell’Anima non sol non abbatte, ma per la ragion de’ contrarj e stabilisce, e conferma ». Confes¬ so sinceramente al discreto Lettore, che io arrossisco d’essermi trattenuto a rifiutar tali inezie. Vaglia però questo saggio a far conoscere il carattere de’ due ultimi Libricciuoli (Dizionario Portatile, e Filosofia della Storia) fratelli gemelli, e parti per quanto si crede, del nostro Poeta: i quali quanto pieni sono di fiele, e di veleno contra Iddio, e contro alla Religione; altret¬ tanto sono vuoti di raziocinio, e di buon senso. Le obbiezioni contra i nostri dettati, che ne formano tutto il corpo, sono più o meno dello stesso valore; siccome quanto noiosa, altrettanto agevol cosa sarebbeci il dimostrarlo. Ma ritorniamo in cam¬ mino. 12. Valsecchi i, c. v, § 1, 74-75 (Anima, §§ 30-32): Un’anima, la quale sia una sustanza dal corpo diversa, alle vicende del corpo non va soggetta: onde se quello, siccome di parti composto, si discioglie, e si corrompe; questa, siccome di parti priva, perchè semplice, e spirituale, nello sciorsi alla morte quel 490 [p. 495 modifica]ANTONINO VALSECCHI nodo, che alla materia la strigne, incorruttibile serbasi, ed immortale. Questa è la verità più odiata, e più nemica dei Libertini: agli altri teore¬ mi di Religione si accheterebbero agevolmente, o almeno non vi si oppor¬ rebbero con tanta sfacciatezza, e d’impegno se non portassero in con¬ seguenza la durazione eterna dell’Anima (...) Egli [il Liberti¬ no] esser dee, dice Lucrezio, in un estremo spavento, (a): E con ra¬ gion: poiché se certo il fine...(b) [segue il testo di Lucrezio in italiano] (a) Et merito; nani si certum fine esse viderent Aerumnarum homines, aliqua ratione valerent Religionibus, atque minis obsistere vatum. Nunc ratio nulla est restandi, nulla facultas, Aeternas quoniam poenas in morte timendum. (b) Et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus, Funditus, humanam qui vitam turbat ab imo Omnia suffundens mortis nigrore nec ullam Esse voluptatem liquidam, puramque relinquit. 13. Valsecchi i, c. v, § 2, 76-77 (Anima, § 29): Il Signor di Sant’Evremondo, che ricalcò le tracce segnate già da Montagna, tien per cosa certa che la ragione umana provar non possa l’immortalità dell’Anima, anzi condanna una tale intrapresa (...). Ma di qual carattere fosse la Fede, ch’egli a cotesta divina paro¬ la prestava, e qual fosse la sicurezza, onde, rigettate le dimo¬ strazioni della ragione, assoggettavasi alle decisioni della Religione intorno all’immortalità dell’Anima, ce lo dà ben chiaro a conoscere nel- l’Opere sue. (...). Ma ascoltiamo il Signor di Voltaire, il quale succede molto ac¬ conciamente al Signor di Sant’Evremondo. La ragione umana (scriv’egli nella lettera sovrallodata [XIII]) è si poco capace di di¬ mostrare da per se stessa l’immortalità dell’Anima, che «la Religione è stata obbligata a rivelarcela. Il ben comune di tutti gli Uomini, che si cre¬ da l’Anima immortale, la Fede ce l’ordina, non ci vuol altro: la cosa è de¬ cisa. » 491 [p. 496 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA 14. Valsecchi i, c. v, § 3, 79 (Anima, §§ 33-34): Ma quale mostruosa stupenda cosa non è ella questa, dice il dottissimo Carditi, di Polignac, veder gli uomini adoperar tanto di sforzo per giugnere a persuadersi, che nulla tengoti in se di mi¬ gliore della putredine, e che tutti hanno a sciogliersi in cenere, e fracidume? Tanto dunque gli accende l’amor del nulla... (a). (a) «Tantus amor nihil! tanta est vecordia! solum hoc Permetuunt caeci, ne mens compage soluta Duret adhuc nimium vivens, bustoque superstes Evolet. » 15. Valsecchi i, c. v, § 4, 80 (Anima, §§ 27-28): Essa [l’anima], come sopra vedemmo, non è cosa estesa: dunque non è composta di parti: dunque non può sciorsi in parti, nè per conseguenza corrompersi. Essa è sustanza «semplice», su- stanza « una »: ciò ch’è « uno », è indivisibile, giacche nulla si divide da se medesimo, in ciò ch’è «semplice» non v’è mistura, 0 doppiezza: dunque in essa separazione non cade. L’anima dunque a scioglimento e a corruzione non essendo suggetta, di sua natura è immortale. L’argo¬ mento egli è questo, che Cicerone nel Libro I. delle Tusculane repu¬ ta evidentissimo. Se noi, die’egli (b), nelle cose Fisiche... [segue la versione italiana del brano di Cicerone]. (b) In animi autem cognitione dubitare non possumus, nisi piane in Physicis plumbei sumus, quin nihil sit animis admixtum, nihil concre- tum, nihil copulatum, nihil coagmentatum, nihil duplex. Quod cum ita sit, certe nec secerni nec dividi nec discerpi nec distrahi potest nec interne igitur. Est enim interitus quasi discessus et secretio ac diremptus eorum partium, quae ante interitum junctione aliqua tenebantur. 16. Valsecchi i, c. v, § 8, 83 (Anima, §§ 35-39): E qui da se scorge il saggio Lettore, a fronte di tale argomen¬ to preso un tutto il suo complesso, rimanere dileguata l’obbiezio- ne, che trarsi potrebbe dal sistema di coloro, che dicono esser l’anima de’ bruti una sostanza spirituale. Conciossiacosaché, quantunque 492 [p. 497 modifica]ANTONINO VALSECCHI quindi ne nasca, esser essa di sua natura incorruttibile; dal non esser però essa dotata di quelle facoltà ond’è dotata l’anima umana cioè dal non essere capace d’idee astratte, ma di sole sensazioni, ne segue, che in lei non v’ha nè raziocinio, nè libertà, nè merito, nè reato, nè attività a co¬ noscere l’attività, e a goderne: nel che la felicità dell’altra vita è riposta. In conseguenza di ciò le ragioni, che ci persuadono dover eternamente durare l’anima umana separata dal corpo, non hanno luogo a favor del¬ l’anima de’ bruti, quand’anche dir vogliasi spirituale: la qual perciò giu¬ sta i difensori di questo sistema, dirsi può, che compiuto il suo fine, ch’è l’animazione di un corpo resti annichilata, e faccia da corpo a corpo pas¬ saggio. Si può vedere esaminata a lungo, e ribattuta questa ob¬ biezione de’ Libertini dal Boulier nel Saggio Filosofico sopra l’Ani¬ ma delle Bestie (a) (a) «Par. II, Cap. 13.» 17. Valsecchi i, c. v, § 9, 83-84 (Anima, §§ 40-42): Al qual argomento però peso massimo si concilia dal consenso delle Genti, che per mille maniere ci hanno fatto conoscere co- testa lor persuasione dell’eterna durata dell’anima umana nel¬ l’altra vita. Questo consenso sarà da noi posto altrove nel suo più chiaro lume. Ci basti perora udir Cicerone, il quale assicura non potersi additare il principio, in cui nata sia quest’opinione, ma essere sta¬ ta da tutta l’antichità, «la qual», dic’egli (b), «quanto più vicina era al nascimento, e alla divina origine delle cose, tanto meglio per avventura ciò ch’era vero discerneva ». Da quel primo fonte per tanto della umana gente sparsa si è, siccome dell’esistenza della Divinità, così l’opinione dell’immortalità dell’anima: si è sparsa, dico, come da centro a circonferenza per le Nazioni tutte, che han popolata la terra: onde dice lo stesso Tullio (c), «noi andiamo per¬ suasi della durazione eterna dell’Anima appoggiati al consenso di tutte le nazioni. Il consenso poi », siegu’egli a dire (d), « delle Genti tutte in¬ torno a qualche cosa, stimarsi dee legge di Natura. »Ese ciò è vero, come non può dubitarsene, ecco mercè di una tale testimonianza universale e perpetua, unita ai descritti argomenti, posta questa verità nella maggior certezza, che col natio lume aver si possa d’un fatto. 493 [p. 498 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA (c) permanere animas arbitramur consensu nationum omnium (d) omnibus curae sunt quae post mortem futura sunt. 18. Valsecchi i, c. v, § io, 84-85 (Anima, §§ 43-44): Diverso per tanto da questo nostro parlare sembra quello del Pufendotfio nella Prefazione all’Opera dell’Uffizio dell’uomo e del Cittadino, dove dice, che quantunque (a) l’anima umana ardentemente brami la sua immortalità, e abbona la distruzione, e quinci presso molti Gentili sia stata ricevuta l’opinione della durazio- ne dell’anima separta per ricevere premj egastighi; contuttociò dalla so¬ la parola di Dio si può trarre intorno a queste cose quella persuasione, in cui l’animo dell’uomo possa del tutto e jermamente acquietarsi. Questa foggia di parlare del Pufendorfio viene condannata dal Leibnizio in una lettera al Molano, dove osserva: Dalla ragion na¬ turale (b)... (b) « Verum enim vero licet tam verum esset, quam falsum est, immor- talitatis animae plenam demonstrationem a naturali ratione non sup- peditari; sufficeret tamen ...ec. Neque aut consensus omnium pene Gen¬ tium, aut insitum desiderium immortalitatis spemi possunt, sed firmum argumentum, et obvium omnibus, ut cetera nunc praeteream subtiliora, praebet ipsa divini Numinis agnitio... Neque enim dubitari potest, Rectorem Universi sapientissimum, eumdemque potentissimum bonis praemia, malis poenas destinasse, et essequi destinata in futura vita, quando in hac praesente pleraque impunita, impensataque transmitti constai » 19. Valsecchi i, c. vi, §§ 3-6, 85 (Anima, § 59): iii. Vera nozione della libertà, che si manifesta coll’interna spe- rienza. iv. Riflessione sopra il valore di questa prova, tratta dall’/«ri¬ mo senso. Sofisma di Collins disciolto. v. Niuno ha trattato meglio della libertà, che S. Tommaso d’Aquino. Sue dottrine sublimi, onde si forma la teoria di questa dote del¬ l’uomo. vi. S. Tommaso ha prevenute le obbiezioni de’ Fatalisti mo- 494 [p. 499 modifica]ANTONINO VALSECCHI derni. Primo argomento di Obbes proposto, e dissipato da S. Tommaso. 20. Valsecchi i, c. vi, § 3, 87 (Anima, §§ 60-62): In fatti qual cosa mai ad un uomo più vivamente si fa sentire, che la propria sua libertà, la quale consiste nella facoltà di scegliere; o sia nel potere di abbracciar l’uno, lasciando l’altro de’ due partiti (e)? (...). Che meccanismo, che fatalità, che necessità può spingersi mai in tal procedere? (...) Disaminate le ragioni, e trovati tutti i motivi, che spediente un de’ due partiti mi mostrano, io (...) o da quel partito m’astengo, o all’opposto ancora m’appiglio. Quale indizio brami tu più evidente di libertà? (e) «Proprium liberi arbitrii est electio. Ex hoc enim liberi arbitrii es¬ se dicimur quodpossumus unum recipere, alio recusato: quod est eligere. » S. Thom. I. p. q. 83. art. 3 &art. 4. ait. «Liberum arbitrium nihil aliud est quam vis electiva» 21. Valsecchi i, c. vi, § 3, 88 (Anima, §§ 64-65): E non isperimentiamo noi prima di risolvere la nostra indifferenza? E non ci sentiamo in egualpotere di jar l’azione, e di lasciarla?E non antiveggiamo noi, e prediciamo ciò, che sarem per fare non solo nell’i¬ stante, che segue, ma dopo giorni, e mesi, ed anni, a null’altro appoggiati, che al libero nostro volere cioè alla persuasione, che abbiamo di essere ora, e doverlo pur esser sempre delle azioni nostre padroni? E non siamo consapevoli a noi medesimi, che preso abbiam quel partito, perchè lo ab¬ biamo voluto, e lo abbiamo scelto: ma ch’era egualmente in nostra balia il non isceglierlo, e non volerlo?E d’onde nasce infatti l’amaro rimprove¬ ro, con cui condanniamo noi (b) stessi per mille intraprese qualor mala¬ mente riescono, se non dal sentir vivamente ch’era in nostra facoltà il tra¬ lasciarle, 0 il dirigerle in altra guisa? (b) «Exemplo quodcumque malo committitur, ipsi Displicet auctori; prima est haec ultio, quod se Iudice nemo nocens absolvitur, improba quamvis Gratia fallacis Praetoris vicerit urnam. » Juvenal. Satyr. 13. v. 1. 495 [p. 500 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 22. Valsecchi i, c. vi, § 4, 89 (Anima, § 66): Il fingimento di cause occulte, e impercettibili, che sieno va¬ levoli a determinarci necessariamente, mentre sentiamo inti¬ mamente di determinarci e di scegliere da noi stessi: questo fingimento, io dico, o questa immaginata possibilità non avrà mai forza di tener sospeso un uomo saggio a fronte dell’intimo vivace senso, che lo rapisce: (...). Per dubitare adunque di que¬ sto fatto ci converrebbe cadere in un Pirronismo universale, e darci a credere, che il nostro Autore ci abbia jormati in guisa, che sempre erriamo anche in ciò, che sperimentiamo più vivamente, e di cui per qualunque sforzo si adoperi ottener non possiam da noi stessi di vacillare in buona jede. Ma contro un tal timore la sapienza, e bontà infinita del nostro Autore medesimo ci assicura ripugnando all’idea di questi, e d’altri at¬ tributi dell’Essere perfettissimo aver soggettate creature ragionevoli ad un costante sistema, in cui non potessero far uso di lor ragione. 23. Valsecchi i, c. vi, § 4, 89 (Anima, § 67): Sopra quest’intima luminosa sperienza, che ha ognuno della propria libertà, tenta il Collins di sparger tenebre, e coll’accen¬ nare la diversità delle opinioni, in cui per ispiegar la natura e teoria della medesima divisi si sono gli autori stessi, che la di¬ fendono; e coll’osservare il loro consentimento nel confessarla un nodo de’ più difficili a sciorsi, che abbia la Filosofia. Per le quali cose ei così al suo intendimento ragiona: E come mai pote¬ va ciò (c) addivenire... [segue la versione italiana del brano ri¬ portato in nota]. (c) Mais « comment tout cela peut-il arriver dans un fait si clair, et qu’on suppose, que chacun èprouve en lui-mème? quelle dijficultèpeut- il avoir à ètablir un fait clair; et simple, et à marquer ce que chacun sent? Quel besoin y a-t-il de tant philosopher?» Recherches sur la liberté pag. 262. 24. Valsecchi i, c. vi, § 4, 90 (Anima, § 68): Chi di noi non è persuaso per intimo senso del suo pensare? e pu¬ re chi può vantarsi di avere una chiara contezza di ciò, in che ei consista 496 [p. 501 modifica]ANTONINO VALSECCHI precisamentéì (...) Ancorché adunque nello spiegar la natura e teoria della libertà umana varie opinioni, ed anche erronee seguite ab- bian gli Autori (...), ciò non infievolisce punto quella fermissi¬ ma persuasione, che e i Filosofi, e i dotti, e gl’gnoranti hanno per intimo senso della propria lor libertà. 25. Valsecchi i, c. vi, § 5, 90-91 (Anima, §§ 69-73): Ma ritorniamo in cammino, ed esponiamo con S. Tommaso la teoria della Libertà. Trova egli l’intima radice di questa dote nella natura della sostanza spirituale capace di raziocinio, qual’è la no- str’anima (...). Stabilisce egli adunque come termine insieme, e fondamento della libertà il necessario amore del bene (...) o sia della nostra felicità, a cui siamo inclinati per impression di na¬ tura, ed inclinati, per guisa, che c’è impossibile amare altro che il be¬ ne, ed altro schifar che il male. Su questo amore necessario sta fon¬ data la libertà; giacché quinci prende cominciamento la volon¬ tà di muoversi, e di determinare se stessa all’amore di quegli oggetti particolari, in cui si trovi quel ben, al quale per impeto di natura è portata. Servesi ad un tal uopo dell’esame, e giudi¬ zio dell’intelletto (c). (...) Scorre dunque l’intelletto per ogni lato (...) e finalmente giudica, che tale oggetto sia buono. Indi alla volontà con una spezie d’impero (d), o con un giudizio pratico, come suol chiamarsi, lo propone come degno di essere amato. La volontà dell’amor del bene, o sia della propria felicità già ac¬ cesa, lo elegge, e lo ama. Questo è il metodo, col quale in tutte le azioni (...) procedono gli uomini. (c) Homo «agit judicio quia per vim cognoscitivam juducat aliquid esse fugiendum, vel persequendum sed quia judicium istud non est ex naturali instinctu in particulari operabili, sed ex collatione quadam ra- tionis; ideo agit libero judicio potens in diversa jerri. Ratio enim circa contingentia habet viam ad opposita... Particularia autem operabilia sunt quaedam contingentia; et ideo circa ea judicium rationis ad diversa se habet, et non est determinatum ad unum: et prò tanto necesse est, quod homo sit liberi arbitrii ex hoc ipso quod rationalis est. » 1. P. q. 83. art. 1. 497 [p. 502 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA (d) Imperare « est actus rationis praesuppositio actu voluntatis in cu¬ jus virtute ratio movetper imperium ad exercitium actus». i. 2. q. 1.17, art. 1. 26. Valsecchi i, c. ix, 143 (Provvidenza, §§ 23-26): Uno in ver egli è Dio, Che fece ’l Ciel, e la spaziosa terra, I bei flutti del Mar, de’ venti ’l soffio: Ma troppo in cor errando noi mortali Per conforto de’ mali Statue femmo agli Dei di sasso e bronzo, O immagini dorate, O d’avorio formate. L’offrir vittime a loro, e vane feste Celebrare, crediam, che sia pietate. 27. Valsecchi i, c. ix, p. 143 (Provvidenza, §§ 23-26): Essa però l’idea della Divinità, siccome de’ colori la luce, è il fondamento di tutte le favole, ed è la base, a cui levate le stra¬ niere e capricciose giunte, l’idolatria si riduce, e sovra di essa s’appoggia. Sia pur così, ripiglia il Bayle: ma essendo appunto le gen¬ ti tutte corse dietro a coteste mito logiche fole, e di esse adombrata avendo l’idea della Divinità; se il loro consenso esser ci dovesse di qualche peso, tal sarebbe a favore del Politeismo. Noi abbiamo già accennata di sopra la risposta a cotesto sofisma riflettendo sopra un passo di Luciano: perchè però il Bayle si compiace assai d’un tal pensa¬ mento, non sia discaro al Lettore udir la nostra risposta medesima più ampiamente e con maggior forza spiegata dal celebre Mr. Bernardo, grande Antagonista di Bayle, e ch’ebbe con lui anche su questo punto singolare contrasto. « Voi mi dite, (parla egli col Bayle), che tutti coloro (c), i quali hanno creduta una Divinità, hanno altresì credu¬ ta la pluralità degli Dei: se dunque il sentimento loro prova cosa alcuna, prova, e assai meglio l’esistenza di più Dei, che un Dio solo. Io rispondo, che se tutti i Popoli del Mondo si fossero sempre accordati, e oggi pur s’ac¬ cordassero in credere un certo fisso numero di Divinità, e tali Divinità determinate; sarebbe egli questo un forte argomento per asserire, che tutte 498 [p. 503 modifica]ANTONINO VALSECCHI esistano coteste Divinità: ma la cosa non va in tal modo. Dopo che tutti gli uomini detto hanno con una voce comune: havvi una Divinità, si di¬ vidono in una infinità di sette differenti, e non si trovan due popoli, che ammettano negli stessi, nè il numero stesso di Dei. Quando parlano con un linguaggio medesimo, io gli ascolto, poiché credo essere questa la voce della natura: Ma da che più non s’accordano, e parlano diversamente, io comincio a disaminare chi ha il torto, e chi ’l diritto. Ed in qual foggia potrà provarsi, che tutti i popoli abbiano creduto sempre il Politeismo? Forse col testimonio d’Oifeo, d’Omero, o d’Esiodo? Ma facciasi l’onore a Mosè di accordargli tanto d’autorità, quanto a questi tre antichi Poeti. Che se gli può conceder di meno? Or questo antico Legislatore m’inse¬ gna, essere scorsi più di due mila anni, senza che ipopoli abbian pensato alla pluralità degli Dei: conciosiacosachè se pensato vi avessero, detta ei ce ne avrebbe alcuna cosa. Ci è di più qualche apparenza di credere, che il Politeismo più antico non sia della Torre di Babilonia: come dunque potrà ei vantarsi d’un consenso tanto uniforme quanto lo ha il Dei¬ smo?» (voce qui adoperata ad esprimere in iscorcio il sistema d’un Dio solo). «I Politeisti collo ammetter più Dei, ne stabiliscono uno: ma tutti i popoli, che non hanno riconosciuto, che un Dio, non hanno certamente ammesso il Politeismo. Io non credo » (segue a dir poco dopo il dotto Scrittore), «che debba farci impressione ciò, che si dice intorno all’autorità del maggior numero, e intorno all’argomento, che i Pagani quinci prendono per rigettare il Cristianesimo » (Che è un al¬ tro pensiero del Bayle per indebolir la prova nostra presa dal consenso delle Genti). «Imperciocché e qual’è mai quella Nazion tra’Pagani, che abbia potuto mostrare, che la sua opinione in materia di Religione, era allora, ed era stata mai sempre di consenso unanime rice¬ vuta? Come poteasi far ciò, se sapevan eglino la nascita della maggior parte de’ suoi Dei... e se ciò che adorato era presso d’una nazione, era dalla nazione vicina sagrificato a quegli Dei, eh’essa adorava? Non bi¬ sogna lasciarsi abbagliare su questo punto. I Greci sono stati i primi ad ingannarci, indi i Latini, mentre degli altri popoli favellando, detto ci hanno, eh’essi adoravano un Giove, un Marte, una Venere, e tutte le Di¬ vinità medesime, che presso i Greci e Latini erano adorate. Qualche leg¬ giera somiglianza ha fatto loro soventi fiate prendere per le proprie loro Divinità, Dei onninamente diversi» (Le contese accadute negli an¬ 499 [p. 504 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA ni passati tra gli Antiquarj per occasione di spiegare i monu¬ menti Etruschi a Religione spettanti, confermano un tal pen¬ siero). «Non vi ha dunque uniformità nel Politeismo: per la qual cosa la conseguenza, che si può trarre da tutte queste differenti opinioni si è, che tutte le nazioni si sono accordate nel riconoscere, che havvi una Divi¬ nità: e questa è appunto la conseguenza, che noi caviamo. Il Politeismo è troppo svariato per poter cosa alcuna in suo favore dedurne. » 500 [p. 505 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 501 [p. 506 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 502 [p. 507 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI [p. 508 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA [p. 509 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI ★ Antologia 1. Zanotti i, c. i, 16-17 (Felicità, § 1): A spiegare, come la felicità si dica essere il fine ultimo delle azioni, cominceremo di qui. Le azioni, che l’uomo fa, sono di due maniere: perciocché altre si fanno senza deliberazione, e senza consiglio, come il batter del cuore, il correr del sangue, il dige¬ rire i cibi, e queste si chiamano azioni dell’uomo; ed altresi fan¬ no per consiglio, e deliberazione, come quando uno ajuta l’amico, 0 man- tien fede nel contratto; e queste si chiamano azioni umane. La scienza fìsica tratta delle prime, delle seconde la morale. (...). Cosi tutto quello, che l’uom si propone come ultimo fine in qualunque azione, va a riporsi sotto il nome di felicità; del qual nome gli uomini son tanto vaghi, che non par loro di star bene, se non possono esser chiamati felici. E dun¬ que la felicità posta nell’ultimo fine delle azioni, e dei desideri degli uo¬ mini. 2. Zanotti i, c. ii, 18 (Felicità, § 7): E quindi son nate varie opinioni molto tra loro diverse. Epi¬ curo, che fiorì ai tempi di Aristotele, volle, che la felicità fosse posta nel solo piacere, parendogli, che l’uomo non potesse in ultimo voler’ altro. 3. Zanotti i, c. hi, 19 (Felicità, § 8): Se la felicità fosse posta nel solo piacere, ne seguirebbe, che oltre il piacere nient’altro restasse all’uomo da desiderare. (...). 505 [p. 510 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA Ma, dirà alcuno, le azioni virtuose non per altro si fanno, che per quel piacere che nasce dalla virtù; par dunque che tutte le azioni si facciano pel piacere. 4. Zanotti i, c. iii, 19 (Felicità, § 12-14): E io rispondo, che gli uomini costumati e gentili fanno bensì le azioni virtuose con piacere, ma non per lo piacere. (...) e certo colui, che si offre alla morte 0 per la patria, 0 per l’amico, non pare, che cerchi a se stesso niun piacere; non è dunque da credere, che sia riposta nel piacere tutta la felicità; et Epicuro, et Aristippo, che se l’credet¬ tero, si ingannarono. (...) Siccome dunque noi concediamo lo¬ ro, che la felicità non è posta nella sola virtù, così dovrebbono essi concederci, che non è posta nel piacer solo. 5. Zanotti i, c. iii, 20 (Felicità, § 11): Pur, diranno gli Epicurei, si vuole il piacere, non per altro fi¬ ne, ma per se stesso; dunque esso contiene la felicità. Al che ri¬ spondo, che potrebbe similmente dirsi della virtù, la qual si vuole non per altro fine, ma per se stessa. 6. Zanotti i, c. iv, 20 (Felicità, §§ 19-21): Se la felicità fosse posta nella sola virtù, come vollerli Stoici, ne segui¬ rebbe, che bastar dovesse all’uomo la virtù sola, e questa avendo non al¬ tro gli restasse da desiderare; e pure gli resterebbe da desiderar la sanità, che è cosa distintissima dalla virtù, e similmente la robu¬ stezza, e la bellezza, (...). 7. Zanotti i, c. v, 22 (Felicità, § 22): Platone distolse gli uomini da tutte le cose terrene, e gl’invitò alla contemplazion d’un’idea, nella quale se avesserpotuto mirare una volta, disse, che sarebbon felici. Pochi s’invogliarono d’una felicità così astratta. Noi però dichiareremo l’opinione di quel grand’uomo, e comin¬ ceremo da più alti principii a questo modo. 506 [p. 511 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 8. Zanotti i, c. v, 23 (Felicità, § 24): Platone (...) ha voluto, che le nature astratte sieno e sussistano non negli animi nostri, ma fuori; e fossero anche prima, che si concepis¬ sero; e queste eterne ed immutabili, non ristrette da luogo, nè da tempo. 9. Zanotti i, c. v, 23-24 (Felicità, § 23): Ora accostandoci al proposito, è da sapere, essere stata simil¬ mente opinion di Platone, sostenuta da lui con molte ragioni, che le anime nostre fossero prima, che noi nascessimo; e che a quel tempo, essendo libere e sciolte da’ legami col corpo, vedessero molto chiaramente le idee, che abbiamo detto, nè in altro si esercitassero, che nella con- templazion di esse; per le quali appresero fin d’allora tutte le scienze; benché immerse poscia ne’ corpi appena se ne ricordino. 10. Zanotti i, c. v, 24 (Felicità, § 25): E come volle, che le anime nostre fossero prima, che noi na¬ scessimo, così anche sostenne con molte ragioni, che, noi morti, doves¬ sero l’anime rimanere; le quali, se nel corso di questa vita avessero retta- mente operato, e con virtù, sarebbono ricevute di nuovo tra le idee; et ap¬ pressandosi massimamente all’idea della bontà, e contemplandola, e go¬ dendosela, sarian contente, e felici. 11. Zanotti i, c. vi, 25 (Felicità, § 35): Ma prima di stabilire quai sieno i beni, che convengono alla natura dell’uomo par che debba stabilirsi, qual sia questa natura: ciò che fece con assai bell’ordine Aristotele. (...). E ciò posto chi non vede (...) convenirglisi le scienze, le virtù morali, la sanità, la bellezza, gli onori, le ricchezze, e gli altri doni della fortuna? 12. Zanotti i, c. vii, 27 (Felicità, § 34): Essendo la civile felicità posta nella somma di molti beni, come so¬ pra è stato detto, potrebbe alcuno voler sapere, in qual di essi 507 [p. 512 modifica]II - RACCOLTA ANTOLOGICA sia posta principalmente; et io rispondo, esser posta principalmente nell’azion ragionevole, e virtuosa; essendo questa quella che principal¬ mente si convien alla natura dell’uomo. Nel che mi servirò dell’ar¬ gomento di Aristotele. 13. Zanotti i, c. vii, 29 (Felicità, §§ 37-38): E similmente se l’uomo, in quanto è uomo, non fosse altro che ragionevole, niente altro gli si converrebbe, se non l’azion virtuosa; ma essendo egli ancora composto d’anima e di corpo, e però nato alla società, e chiamato agli ufficii del cittadino, non è da maravigliarsi, se oltre l’azion virtuosa gli convengano eziandio altri beni, sanità, bellezza, onori, senza cui star non po¬ trebbe la felicità, alla quale ricercasi principalmente la virtù, ma non basta. 14. Zanotti i, c. viii, 30 (Felicità, § 40): Li Stoici, i quali ponevano la felicità nella sola virtù, uguagliando tutti i virtuosi uguagliarono eziandio tutti i felici. E ciò fecero, perchè avendosi immaginata una certa virtù pefettissima e somma, di cui niuna potesse essere maggiore, vollero chiamar virtuoso, e felice, sola¬ mente colui, che questa avesse acquistata; e quelli, che noi chiamia¬ mo virtuosi, e felici, e che non giungono a quell’altissimo gra¬ do, gli chiamavano essi non virtuosi, ma vicini alla virtù, nè fe¬ lici, ma vicini alla felicità. E questo modo non dovea certo parer loro, che uno potesse essere 0 più virtuoso, 0 più felice d’un altro. 15. Zanotti i, c. viii, 30-31 (Felicità, § 41): I Peripatetici ragionarono d’una maniera più popolare, e se¬ guendo Aristotele si risero degli Stoici; imperocché avendo constituito la felicità nella somma di molti beni, vollero, che do¬ vesse chiamarsi felice non solamente colui, che tutti gli avesse, e in grado sommo, il qual veramente felicissimo dovrebbe dirsi, ma anche colui, che ne avesse molti, e in grado eccellente, benché alcuni gliene man¬ cassero. 508 [p. 513 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 16. Zanotti i, c. ix, 31 (Felicità, § 47): Consistendo dunque la vera felicità nella virtù e nel piacere congiunti insieme, pare, che debba dirsi utile tutto ciò, che ne condu¬ ce 0 al piacere, 0 alla virtù; ma non già ciò, che scorgendoci all’uno ci al¬ lontana dall’altra. 17. Zanotti i, c. viii, 31 (Felicità, § 39): Potendo dunque uno aver più beni, che un altro, e quegli stessi beni, che ha l’altro, avergli in grado maggiore, perciocché può uno esser più for¬ te, e più temperante, e più liberale, e più mansueto, e più cortese, e più sano, e più robusto, e più bello, che un altro; quindi è, se¬ condo i Peripatetici, che l’uno possa dirsi più felice dell’altro. 18. Zanotti i, c. viii, 32 (Felicità, § 42): Però veggan li Stoici, proponendo agli uomini una felicità perfettissi¬ ma, di non propor loro una felicità impossibile. 19. Zanotti i, c. ix, 33 (Felicità, § 43): E poi un’altra divisione alquanto più sottile, per cui dividon- si i beni in dilettevoli, et onesti. Nei dilettevoli si cerca il piacere; negli onesti si trova il piacere senza cercarlo. 20. Zanotti i, c. ix, 33 (Felicità, § 44): Il popolo, che non è avvezzo gran fatto a pensar bene, e ret¬ tamente, suole aggiungere una terza classe di beni, che egli chiama uti¬ li, e far la divisione in tre parti. Ma non s’accorge, che quella cosa, che noi chiamiamo utile, non è bene in se stessa, ma, è più tosto un mezzo, che ne conduce a qualche bene, o sia questo il piacere, o la virtù. 21. Zanotti i, c. ix, 33 (Felicità, §§ 45-46): È stata quistione tra i filosofi, se l’azion disonesta possa esser mai u- tile. E certo se ascolteremo li Stoici, non può. Imperocché utile è 509 [p. 514 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA quello, che ne conduce in qualche modo alla felicità. Ora essen¬ do, secondo essi, la felicità posta nella sola virtù, a cui senza dubbio non può mai condurne l’azion disonesta, ne segue di necessità, che l’azion disonesta non possa giammai esserutile. Ma questa ragio¬ ne sarà nulla, qualor si neghi, che la felicità consista nella sola virtù. 22. Zanotti ii, c. i, 35 (Virtù in generale, § 1): Tra le molte verità, che si paran dinanzi alla mente, n’ha al¬ cune, che si chiamano speculative, et altre, che si chiamano pra¬ tiche. 23. Zanotti ii, c. i, 35 (Virtù in generale, §§ 2-3): Le speculative son quelle, che ci mostrano una certa cosa essere in un certo modo, e niente impongono, che per noi far si debba: come que¬ sta: i pianeti girano intorno al sole, e questa: l’aria è grave; e questa: ogni triangolo ha tre angoli eguali a due retti, che tutte sono verità speculative. Le verità pratiche sono quelle, che ci impongono di far qualche cosa, come questa: bisogna dare aju- to a gli amici; e questa: la parola data è da mantenersi; ed altre. 24. Zanotti ii, c. i, 35-36 (Virtù in generale, §§ 4-6): Siccome tra le verità speculative n’ha di quelle, che si conoscono perse stesse, e si tengon per vere, quantunque non se ne adduca prova niuna, anzi si assumono esse a provar le altre; onde principj si chiamano; così parimente tra le verità pratiche n’ha di quelle, [che] si manifestano perse medesime, senza aver bisogno di dimostrazione niu¬ na, anzi da esse argomentando si raccolgon tutte le altre, onde prime verità pratiche posson dirsi. Queste prime verità pratiche con tutte le altre, che da esse argomentando si raccolgono, so¬ no ciò, che comunemente si chiama onestà; e tutte si dicon re¬ gole dell’onesto; e quelle prime principj dell’onesto, et anche principj della morale. 510 [p. 515 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 25. Zanotti ii, c. i, 36 (Virtù in generale, § 7): Pirrone, che visse circa i tempi d’Aristotele, e Aristippo, che fiorì alquanto prima, negarono, che si dessero queste prime verità pra¬ tiche, le quali si manifestino da se medesime. Così togliendo i principj levaron via tutto l’onesto. Lo stesso hanno fatto a questi ultimi secoli due famosi empj, non del tutto ignoranti, Hobbes, e Spinoza; i quali siccome hanno levato i principj della morale, così pote¬ vano per la stessa ragione tor di mezzo anche i principj speculativi, e in questo modo render vano ogni umano discorso, anche il loro. 26. Zanotti ii, c. i, 36 (Virtù in generale, § 8): Ma dirà alcuno. Se si desse questo onesto, che voi dite, do- vrebbono le medesime cose tenersi per oneste in tutti i tempi, e da tutte le nazioni; e pure altre cose sono state tenute per oneste in un tempo; ed altre in un altro; et anche diverse nazioni giudicano diver¬ samente (...)• 27. Zanotti ii, c. i, 36-37 (Virtù in generale, § 9): Et io rispondo a questo modo. Benché tante e tanto varie sieno le opinioni intorno alle regole dell’onesto, non per questo vuol dirsi, che esse regole dipendano dal capriccio de gli uomini, e non sieno per se stesse; perchè anche delle verità naturali potrebbe similmente dirsi, che dipendano dal capriccio de gli uomini, considerando le infinite dissensioni de i fisici. E i metafisici quante dis¬ sensioni hanno? ne però credono, che le loro proposizioni dipendano dal capriccio. E lo stesso avviene in tutte le scienze. 28. Zanotti ii, c. i, 37 (Virtù in generale, § 10): Ne diremo per questo, che le verità non sussistan per lor medesime, e che possano cangiarsi a piacere, mutando e principj, e conse¬ guenze a voglia nostra. Che se ciò non si dice nell’altre scienze, perchè dovrà dirsi nella morale? la quale se ha alcun principio non ben noto a tutti, come hanno anche le scienze speculative, ne ha però molti notissimi, e che niuno ardirebbe negare. [p. 516 modifica]511

II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 29. Zanotti ii, c. i, 37 (Virtù in generale, §§ 11-12): Chi dirà, che la parola data non è da mantenersi? Chi negherà questa verità, che convenga all’uomo di dire il vero; se quegli stessi, che la negano, intendono di dire il vero, negandola; e per questo appunto la negano? Tanta è la forza della verità, e del¬ l’onesto. 30. Zanotti ii, c. i, 38 (Virtù in generale, § 15): Legge altro non è, che un ordinanza, la quale prescrive agli uomini qualche cosa da fare, e che essi son tenuti di osservare; così che osservandola fanno bene, e meritan lode e approvazione, e non osservandola si rendon colpevoli, e sono degni di biasimo e di castigo. La legge poi si divide in naturale, e civile, sebben la civile nasce e proviene dalla naturale. 31. Zanotti ii, c. i, 39 (Virtù in generale, § 16): La legge naturale consiste nelle regole dell’onesto-, nè solamente in quelle prime, che si chiaman principj, ma anche in quelle altre, che da principj per argomentazione si raccolgono. E tali regole sono veramente leggi; poiché manifestandosi per esse e dichiarandosi, che la tale, 0 la tal cosa deefarsi degli uomini, inducon negli uomini obbliga¬ zione di farla, egli condannano, come colpevoli, se non la fanno. E per¬ chè sentonsi per una certa voce della natura, che le bandisce per così dire e le promulga nell’animo di ciascheduno, perciò di- consi leggi naturali. 32. Zanotti ii, c. i, 39 (Virtù in generale, § 17): La legge civile poi è un’ordinanza di qualche uomo, la quale ha forza di obbligar gli altri a far ciò, che ella ordina. 33. Zanotti ii, c. i, 39-40 (Virtù in generale, §§ 18-19): E dunque da avvertire, che l’onesto, 0, vogliam dire, la legge natu¬ rale obliga gli uomini a mantenere quello, di che son convenuti, e, dove possano, a fardo, che è necessario al ben comune. (...) E tanta è l’au- 512 [p. 517 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI torità dell’onesto, che comanda a gli stessi Magistrati, imponen¬ do altamente al Principe di intender sempre nelle sue leggi alla pubblica felicità. 34. Zanotti ii, c. iii, 40 (Virtù in generale, §§ 33-34): Un’azione fatta secondo le regole dell’onesto chiamasi vir¬ tuosa, così veramente, che queste tre condizioni non le manchi¬ no, prima che sia jatta per volontà libera, poi a fine d’onestà, in terzo luogo con fermezza d’animo, e costanza. Spieghiamo queste tre con¬ dizioni ad una ad una. 35. Zanotti ii, c. iii, 40 (Virtù in generale, § 35): E prima bisogna, che l’azion virtuosa sia fatta per volontà li¬ bera; poiché le cose, che si muovono non per volontà, ma per altro principio, quantunque facciano operazion buona, non si dice però, che facciano operazion virtuosa. 36. Zanotti ii, c. iii, 41 (Virtù in generale, § 37): Vuoisi in secondo luogo, che l’azion virtuosa sia fatta perfine d’onestà, il che se non fosse, non potrebbe nè men dirsi fatta secondo l’o¬ nesto; perchè colui, che fa un’azione, per altro onesta, ma non col fine di operare onestamente, anzi riguardando solo, e in¬ tendendo al suo comodo, par certo, che adatti l’operazione più tosto al comodo, che all’onesto, e più operi secondo quello, che secondo questo. 37. Zanotti ii, c. iii, 42 (Virtù in generale, §§ 38-39): Ricercasi in terzo luogo, che l’azion virtuosa sia fatta con fermezza d’a¬ nimo, e costanza, il che vuol dire, che colui, che la fa, dee esser disposto a farla, qualunque volta ragion lo chiegga. Così non si stimerà azione molto virtuosa quella, che fa colui, il quale paga il debito, che è piccolo, disposto di non pagarlo, se fosse maggiore; perchè costui mostra di non volere gran fatto scomodarsi per l’onestà; e s’egli l’ama, gli manca quella fermezza, che nell’amor si richiede. 513 [p. 518 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 38. Zanotti ii, c. iv, 42-43 (Virtù in generale, § 36): Le azioni dunque, che si fanno per timore, affin di sfuggire qualche grave sciagura, che ne soprastia, non lasciano per ciò di essere volontarie; imperocché partono da principio intrinseco, e si fanno con pie¬ nissima cognizione di ciò, che si fa; come colui, che getta le merci per timor del naufragio, il qual le getta movendosi da se stesso, e conoscendo benissimo ciò, ch’egli fa. La volontà dunque eccitata dal timore non lascia di essere volontà. Però ben dissero i Giuristi: coacta vo- luntas voluntas est\ e il famoso Paolo: coactus volui. 39. Zanotti ii, c. vi, 47 (Virtù in generale, §§ 40-41): Spiegata avendo fìnquì l’azion virtuosa, sarà facile intendere cosa sia la virtù, non essendo ella altro, che un abito di far le azioni vir¬ tuose; e quando dico un abito, intendo una prontezza, e una facilità di operare acquistata con l’esercizio, e con l’uso. 40. Zanotti ii, c. vi, 47 (Virtù in generale, § 42): E certo non pare, che la virtù debba essere altro, che un abito, perchè siccome non si dirà aver la scienza del danzare, ne si chiamerà danzatore colui, che una volta sola, e stantatamente fa un passo simile a quelli, che fanno i danzatori; ma sì colui, il quale essendosi in quell’arte lungamente esercitato, ne sa far molti, e speditamente, e con facilità, e con scioltura, e con gra¬ zia; così parimente non si dirà avere la mansuetudine, nè mansueto si chiamerà colui, che una volta sola, e a gran fatica abbia compresso l’ira sua; ma sè colui, che avendolfatto molte volte, ilfa oggimai facilmente, e quasi senza volerlo. E così può dirsi di ogni virtù. È dunque la virtù un abito. Nè altro certamente, che un abito, intendon gli uo¬ mini nel ragionar comune, qualora usano il nome della virtù. Il che da solo basta a provar quello, che abbiamo proposto. 41. Zanotti ii, c. vii, 49 (Virtù in generale, § 44): Non è alcun dubbio, che il soggetto della virtù si è il virtuoso-, poiché il soggetto di un abito è quello, in cui risiede tale abito; 514 [p. 519 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI e l’abito della virtù risiede nel virtuoso. Ma (...) il virtuoso non è soggetto di virtù, nè virtuoso, inquanto corre, o scrive, o dorme; ma solo inquanto vuole, o è disposto a volere le cose buone. 42. Zanotti ii, c. vii, 49 (Virtù in generale, § 45): Ma dichiariamo oramai alcune proprietà del virtuoso. E pri¬ mamente dico, che niuno è virtuoso per natura. La ragione è questa. La virtù è un abito, e però dee acquistarsi con l’uso: ma quello, che dee acquistarsi con l’uso, non si ha da natura; (...) dunque niuno è per natura virtuoso. 43. Zanotti ii, c. vii, 49-50 (Virtù in generale, § 46): In secondo luogo. Il virtuoso fa l’azion virtuosa con piacere. La ragione è questa. Il virtuoso vuole l’azion virtuosa, e la fa; ora niuno può far quello, che vuole, senza sentirne piacere; dun¬ que il virtuoso fa l’azion virtuosa con piacere. 44. Zanotti ii, c. vii, 50 (Virtù in generale, § 47): Interzo luogo .Il virtuoso ja l’azion virtuosa virtuosamente; che va¬ le a dire fa l’azion virtuosa, e la fa con virtù. (...); perchè può uno fare l’azion virtuosa esternamente, et aver l’animo contrario, come chi donasse al compagno per poterlo più comodamente tradire. 45. Zanotti ii, c. viii, 50-51 (Virtù in generale, § 48): La volontà, quanto a se, seguirebbe facilissimamente e per suo naturale istinto l’onesto, a cui l’intelletto e la ragione l’in¬ vitano, se per seguirlo non dovesse vincere la forza delle pas¬ sioni, che lo traggono bene spesso in contrario. Pur lo segue talvolta, vincendo le passioni, prima stentatamente, e con fatica, indi con maggior facilità, finché vi abbia fatto l’abito; fatto il quale le vince poi facilissimamente qualunque volta faccia me¬ stieri. E tale abito è la virtù. Si vede dunque, che la virtù s’adopra im¬ mediatamente, e si esercita intorno alle passioni; onde può dirsi, che le passioni sieno la materia prossima della virtù. 515 [p. 520 modifica]Il ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 46. Zanotti ii, c. viii, 52 (Virtù in generale, § 57): Tu dirai. Se si desse un uomo senza passioni, egli certamente sarebbe più perfetto de gli altri uomini, e però dovrebbe avere senza dubbio la virtù. 47. Zanotti ii, c. viii, 53-54 (Virtù in generale, § 60): (...) la virtù è perfezione, ma è perfezione dell’uomo, che vale a dire di un soggetto ragionevole capace delle passioni. Che se noi suppon- ghiamo un uomo incapace delle passioni, noi lo supponghia- mo più che uomo, e lo facciam quasi un Dio; e ad esso si conver¬ ranno più presto le perfezioni divine, che le umane. 48. Zanotti ii, c. ix, 54 (Virtù in generale, §§ 55-56): Prima di entrare in una quistione tanto profonda, par neces¬ sario definir bene, che cosa sia la passione; e vedere in quante maniere possa voler dirsi cattiva. Io dico dunque, che la passione al¬ tro non è, che un movimento dell’animo, il quale, per l’apparenza d’al- cun piacere, 0 dispiacere, si eccita a inclinare la volontà, senza aspettare l’esame della ragione. 49. Zanotti ii, c. ix, 55 (Virtù in generale, § 57): Nè vale il dire, che esso [l’animo] non aspetta l’esame della ra¬ gione, e il non aspettarlo è malvagità. 50. Zanotti ii, c. ix, 55 (Virtù in generale, §§ 58-59): Perchè a questo modo malvagità sarebbe anche il digerire i cibi, e il batter del cuore, cento altre operazioni, che nell’uomo si fanno senza aspettar la ragione; (...). Altrimenti malvagia dovrebbe dirsi ancor la fame, e la sete, e l’inclinazione al dormire, e qualunque altro ap¬ petito. 51. Zanotti ii, c. ix, 55-56 (Virtù in generale, § 61): Ma non si dice tutto dì, che la passione trae l’uomo alle cose diso¬ neste? Et io rispondo: talvolta anche alle oneste. (...). Non è dunque da 516 [p. 521 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI dire, che le passioni sieno di lor natura cattive, spingendo talvolta l’uomo alle cose disoneste; poiché lo spingon talvolta anche al¬ le oneste. 52. Zanotti ii, c. x, 57 (Virtù in generale, § 49): Che la virtù, e similmente l’azion virtuosa, consista in mediocrità, cioè a dire in un certo mezzo posto fra due estremi, l’un de’ quali cade in difetto, l’altro trascorre in eccesso, è stata senza dubio opinion fer¬ missima d’Aristotele. 53. Zanotti ii, c. x, 58 (Virtù in generale, §§ 51-52): Aristotele dunque argomentava così. Tutte le cose bene e retta- mente constituite stanno in mezzo tra l’eccesso, e il difetto: la fatica ret¬ tamente presa non dee essere nè troppa, nè poca: l’asta non dee essere nè troppo lunga, nè troppo corta; il vento al navigante non si vuole nè troppo gagliardo, nè troppo debole; e così avviene di mille altre cose. Perchè non diremo lo stesso della virtù?La quale essendo ot¬ tima fra tutte, par bene, che debba fra tutte essere sgombra d’ogni eccesso, e d’ogni difetto. 54. Zanotti ii, c. xii, 60-61 (Virtù in generale, §§ 63-64): E quistione assai sottile, e degna della considerazion de i filosofi, se possa essere un’azione indifferente, la qual non sia nè onesta, nè disone¬ sta. E primamente considerando l’azione in astratto par, che tutti s’ac¬ cordino a dire, che possa ella essere indifferente, cioè nè onesta, nè di¬ sonesta. In fatti chi dirà, che l’azion del passeggiare, sia onesta? E nè meno però si dirà, che sia disonesta. (...) onde pare indiffe¬ rente. 55. Zanotti ii, c. xii, 61 (Virtù in generale, § 65): Ma se poi si consideri l’azione in chi la fa, secondo le circostanze tutte, è gran quistione, se indifferente esser possa; (...). 517 [p. 522 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 56. Zanotti ii, c. xii, 61 (Virtù in generale, § 68): (...); e quantunque i filosofi poco di ciò abbiano scritto, ne hanno però trattato molto sottilmente i Teologi Cristiani, i quali se¬ guendo i principj altissimi di quella loro divina filosofia sono stati tratti in contrarie opinioni. Ipiù sottili, parendo loro, che ogni azione riferita a Dio sia onesta, riferita ad altro disonesta, hanno stabi¬ lito con molto giudicio, niuna azione poter essere indifferente. Ma essi seguono i principj loro. Noi non aspiriamo ora a quella tanta sublimità. 57. Zanotti ii, c. xii, 61-62 (Virtù in generale, §§ 66-67): Però seguendo le tracce, che Aristotele, non da altro condot¬ to, che dall’umana ragione, ci ha mostrate, diremo poter benissimo alcuna azione essere indifferente. Il che proveremo in tal modo. Compo¬ nendosi la felicità di molte parti, delle virtù, de i piaceri, de i como¬ di, e potendo farsi alcuna azione per fin di virtù, può anche farsene alcu¬ na perfin di piacere e di comodo; come quando uno prende la medicina non per altro, che per riavere la sanità, il quale allora pensa al como¬ do, non alla virtù. Or tale azione non è nè onesta, nè disonesta, (...). Dunque non essendo nè onesta, nè disonesta, sarà indifferente. 58. Zanotti iii, c. i, 63 (Virtù in particolare, § 1): Essendo la virtù generalmente un abito di far le azioni vir¬ tuose, subito si vede, che potendo dividersi le azioni virtuose in più modi, potrà anche in più modi dividersi la virtù. 59. Zanotti iii, c. i, 63-65 (Virtù in particolare, §§ 2-5): Che se il popolo, dividendo a modo suo le virtù, non avesse prevenuto i filosofi, avrebbon questi forse potuto fare una divi¬ sione più esatta, e più commoda, e da piacere a i dialettici. (...). Ma quando i filosofi entrarono in queste cose, le trovarono già occupate dal popolo, il quale avea divise le virtù a senno suo, (...). La qual divi¬ sione miraeoi sarebbe, se fosse stata, non dirò compiuta, e perfetta, ma costante appresso tutti, e sempre la medesima; perciocché il 518 [p. 523 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI popolo segue piuttosto il caso, che la ragione. Nè perciò i filosofi credettero di doverla mutare gran fatto, o correggere; imperocché sarebbe bisognato sconvolgere le popolari idee, e introdur nuovi nomi, e i già in¬ trodotti torcere dall’antica lor significazione, con gran disturbo degli ora¬ tori, e dei poeti, e di tutti quelli, che parlano alla moltitudine, ai quali, non che fastidio e noja, con questa filosofia, anzi comodo et ajuto recar voleasi. (...). Già gli oratori, e i poeti, e quelli, che parlano al popolo, e commendano la virtù, o proponendola in altrui, o jacendo sembiante di averla in lor medesimi, vana cosa sarebbe et inutile, anzi nociva ed im¬ portuna il voler distorli da gl’instituti popolari. Il perchè bene fecero i filosofi a seguir più tosto le divisioni utili, et imperfette del popolo, trattando di quelle virtù, che già il popolo conoscea, che rintracciarne delle perfette et inutili. Comunque ciò sia, se¬ guendo noi ora Aristotele proporremo quelle stesse undici virtù, che egli propose, o contengano esse una perfetta divisione, o non la con¬ tengano. 60. Zanotti iii, c. ii, 68 (Virtù in particolare, § 7): Seguendo dunque un tale instituto, e venendo a ciascuna delle virtù particolari, proporremo in primo luogo la definizione di essa, indi noteremo i suoi estremi, i quali però non vogliamo, che sieno esaminati troppo sottilmente, perciocché i vizj non meritano tanto studio. 61. Zanotti iii, c. iii, 68 (Virtù in particolare, § 8): La fortezza è una virtù, per cui l’uomo incontra i pericoli, e soffre i mali della vita con grande animo. E dico, che incontra i pericoli con grande animo, quando gl’incontra, niente più temendogli di quello, che ragion vuole; e usate le cautele, che può usare e dee, non cura il restante. 62. Zanotti iii, c. iii, 68 (Virtù in particolare, §§ 9-11): Dico poi, che soffre con grande animo i mali della vita, quando gli soffre senza troppo attristarsene, e prendendo quel 519 [p. 524 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA conforto, che può, dai beni, che gli rimangono, e massime dal piacere del¬ l’onestà. (...) Gli estremi della fortezza, almeno in quanto riguarda i pericoli, sono l’audacia, e il timore. 63. Zanotti iii, c. iv, 70 (Virtù in particolare, § 12): La temperanza è una virtù, per cui l’uomo si astiene moderatamente, cioè quanto ragion vuole, dai piaceri-, nè dico da tutti i piaceri, ma da quelli, che consistono nel mangiare, e nel bere; e da quelli, che apparten¬ gono al sentimento del tatto. 64. Zanotti iii, c. iv, 70 (Virtù in particolare, § 14): Gli estremi della temperanza diconsi essere l’intemperanza, e l’insensibilità. 65. Zanotti iii, c. v, 71 (Virtù in particolare, § 15): La liberalità è una virtù, per cui l’uomo dona del suo ad altri mode¬ ratamente, secondo la retta ragione. Onde si vede subito, la materia di questa virtù essere, tutto ciò che può chiamarsi dono, come il danaro, la roba, e tutti i beni, che vengono in commercio. Però colui, che fa ot¬ tenere la dignità ad un altro, o gli è cortese di un titolo, o mo¬ stra la via al passaggiero, si chiama egli bensì gentile, e benefico, ma non donatore, nè liberale. 66. Zanotti iii, c. v, 71 (Virtù in particolare, § 17): Cade nell’estremo della liberalità per eccesso colui, che dona oltre il convenevole, e per difetto colui, che dona meno del convenevole. 67. Zanotti iii, c. v, 71-72 (Virtù in particolare, § 18): Il primo di questi estremi suol chiamarsi per un certo uso prodigalità; sebben prodigo il più delle volte si dice anche colui, che dissipa le sue fa¬ coltà, eziandio che nulla doni ad altrui; potendo dissiparle o nella crapola, o nel gioco, o in altra guisa: l’altro estremo si chiama 520 [p. 525 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI da molti avarizia (...); ma non pertanto può uno cadere in questo estre¬ mo, e tuttavia non dirsi avaro; come sarebbe uno, il quale essendo stret¬ tissimo nei donativi, fosse larghissimo nelle spese, e consumasse tutto il suo in passatempi; il quale non si direbbe avaro; e tutta via mancherebbe alla liberalità, lasciando di donare, quanto con¬ viene. 68. Zanotti iii, c. v, 72 (Virtù in particolare, § 19): Può dunque chi è prodigo non eccedere nella liberalità; e chi manca di liberalità non è sempre avaro. Onde apparisce, ciò che vedrassi anche altrove, quanta confusion sia ne’ nomi popolari: e quanto bisogno abbiano di studiar bene la natura delle virtù, tutti quelli, che debbono parlarne al popolo, per non confon¬ der le cose, essendo i nomi così confusi. 69. Zanotti iii, c. vi, 72 (Virtù in particolare, § 20): La magnificenza è una virtù, per cui l’uomo fa le spese grandi mode¬ ratamente, cioè quando e come conviene. 70. Zanotti iii, c. vi, 72-73 (Virtù in particolare, § 21): Ben’è vero, che non dovendo le spese eccedere la facoltà di chi le fa poiché se eccedessero, non sarebbono convenienti, quindi segue, che nè i poveri, nè le persone mezzanamente como¬ de potranno aver magnificenza; imperocché o non fanno le spese grandi, ciò che alla magnificenza richedesi, o se le fan¬ no, non sono convenienti, il che ripugna alla virtù. Nè questo dee recar maraviglia; sapendosi, che non tutte le virtù son di tutti .Ha anche di quegli, che per mancanza d’averi non posson’essere li¬ berali. 71. Zanotti iii, c. vi, 73 (Virtù in particolare, § 21): Gli estremi della magnificenza assai si possono intendere per le cose dette. 521 [p. 526 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 72. Zanotti iii, c. ix, 78 (Virtù in particolare, § 23) La mansuetudine, che da i latini si chiama ancor lenità, è una virtù, per cui l’uomo trattien l’ira per modo, che stia dentro i termini del convenevole. Onde facilmente si vede, che colui, il qual mai non s’a¬ dirasse, eziandio che l’adirarsi talvolta gli stesse bene, non sarebbe man¬ sueto; anzi peccherebbe contro la mansuetudine, e incorrerebbe in un estremo, che potrebbe chiamarsi lentezza, non avendo altro no¬ me, ch’io sappia. (...)• L’altro estremo, che consiste nell’adirarsi oltre il convenevole, può dirsi ira viziosa, o smodata. E questo vizio è il più frequente, et è massimamente dei grandi, e dei potenti. 73. Zanotti iii, c. x, 79 (Virtù in particolare, § 25): Il commendare, e lodar se stesso, esponendo le proprie virtù, ove si fac¬ cia secondo ragione, mezzanamente, e con bel modo, mettesi a luogo d’u¬ na virtù, la quale Aristotele chiamò cdf|ùeia però gli altri la di¬ cono verità; forse perchè il lodar se stesso non può mai essere azion virtuosa, ove la lode non sia vera. 74. Zanotti iii, c. x, 79 (Virtù in particolare, §§ 26-28): E quindi è che il lodar se stesso, e le azioni sue conviene massima- mente al virtuoso, il qual però non dee farlo, se non che rare volte, e sol quando vi è astretto da necessità; di che abbiamo molti esempi in Cicerone, che ad alcuni paiono anche troppi. (...) Gli estremi di questa virtù facilmente s’intendono. 75. Zanotti iii, c. xi, 80 (Virtù in particolare, § 29): È anche un’altra virtù lodare et approvare i detti, e le azioni altrui, purché si faccia a buon fine, e convenientemente, e secondo ragione. La qual virtù se noi chiameremo gentilezza, non credo, che molto ci al¬ lontaneremo dal parlar popolare. 76. Zanotti iii, c. xi, 80-81 (Virtù in particolare, § 30): Un estremo di questa virtù consiste nel lodar troppo, e quando, e come, e per quel fine, che non conviene. Nel che mancano gli adulatori, che 522 [p. 527 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI per fin di guadagno, o per rendersi aggradevoli, lodano ezian¬ dio le cose, che son da biasimarsi. (...). L’altro estremo della genti¬ lezza è di quelli, che nell’altrui lode sono più scarsi di quel che conviene-, 77. Zanotti iii, c. xii, 81-82 (Virtù in particolare, § 32): Noi chiameremo piacevolezza quella virtù, che Aristotele chiamò eut peone Àia, e che consiste nel rallegrare e tenere in festa le compagnie con ragionamenti graziosi, e leggiadri motti-, il che facendosi mode¬ ratamente, e secondo che alle persone conviene, et al luogo, et al tempo, e alle circostanze tutte, contiene virtù morale. Che se uno eccede in ciò, tra in un vizio, che potremo dire buffoneria; come quel¬ li, che per far ridere usano motti osceni, et avviliscon se stessi, e raccontano cose sporche, e laide-, il qual costume è massimamente de i comici, e de i poeti italiani, tra quali non è mancato chi faccia la lauda- zione dell’orinale. E similmente sono colpevoli tutti quelli, che scher¬ zano con poca riverenza della religione, e delle cose sacre. L’altro estremo della piacevolezza è di quelli, che nell’uso delle facezie son più scarsi, che non conviene. E in alcuni veramente è da riprendere una certa rozzezza d’animo, che emendarpotrebbono, e non vogliono; i più però (...) han¬ no difetto di natura (...). E per ciò siccome mal farebbe il povero a voler usare la magnificenza, così mal farebbe colui, che voles¬ se usar la piacevolezza, non essendovi da natura disposto. 78. Zanotti iii, c. xiii, 82 (Virtù in particolare, § 37): (...) nascono due maniere di giustizia. La distributiva, per cui si assegnano i premj e le pene secondo il merito; e la commutativa, per cui si cambiano i beni, non secondo il merito di ciascuno, ma se¬ condo il convenuto. 79. Zanotti iii, c. xiii, 83 (Virtù in particolare, §§ 39-39): La giustizia distributiva dunque va dietro a una certa proporzione, inquanto che distribuendosi i premj e le pene secondo il merito, biso¬ gna, che qual’è la proporzione, che passa tra il merito d’uno, e il merito di un altro, tal sia quella, che passa tra il premio o la 523 [p. 528 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA pena, che si dà all’uno, e il premio o la pena, che vuol darsi al¬ l’altro. Levandosi via questa proporzione levasi via la giustizia distri¬ butiva. 80. Zanotti iii, c. xiii, 83 (Virtù in particolare, § 40): E quindi si vede, che in due maniere può mancarsi alla giustizia distributiva, 0 dando più di quello, che la suddetta proporzione richiede; 0 dando meno; e questi sono gli estremi d’essa giustizia, benché ne’ premii il dar più di quello che la proporzione richede, e nelle pene il dar meno, non è sempre atto vizioso, quantunque sia fuori del giusto. Perciocché l’uomo non è obbligato a esercitar giustizia ad ogni tempo; e fa ben e talvolta a esercitar più tosto qualch’altra virtù; come colui, che castiga meno del giusto, e in questo adopra clemenza; e colui, che premia oltre il merito, e in questo adopra liberalità. 81. Zanotti iii, c. xiii, 83 (Virtù in particolare, § 41): La giustizia commutativa poi va dietro all’egualità, inquanto che cambiandosi per essa i beni, non è giusto il cambio, se non è eguale, e se l’uno non dà tanto all’altro, quanto ne riceve. 82. Zanotti iii, c. xiii, 83-84 (Virtù in particolare, § 43): E benché nelle occorrenze della vita sogliano cambiarsi certi beni, che per se stessi non hanno proporzione alcuna, nè eguali¬ tà (...) questi tuttavia si rendono eguali per rispetto del danaro, che è come una misura comune. 83. Zanotti iii, c. xiii, 84 (Virtù in particolare, § 42): Imperocché se tutte le azioni umane alla felicità son dirette; nè al¬ tro si cerca dagli uomini, nè si vuole, se non la felicità sola; che fanno essi dunque nelle lor compre, e nelle lor vendite, e nei lor mu¬ tui, e in tutti i loro contratti, se non che trafficare quando una parte, e quando un’altra delle loro felicità? Nel qual traffico per questo ancora ricercasi l’eguaglianza, avendo tutti gli uomini per natura loro alla felicità egual diritto. 524 [p. 529 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 84. Zanotti iii, c. xiii, 84 (Virtù in particolare, § 44): Intanto per le cose dette si vede, poter uno mancare in due modi alla giustizia commutativa, 0 dando più di quello, che l’uguaglianza ri¬ chiede, 0 dando meno; benché chi dà di più, non commette colpa, ma è in errore; colui che dà meno, offende la giustizia, et opera disonestamente. E di qui può conoscersi, quali sieno gli estremi della giustizia commutativa. 85. Zanotti iii, c. xiv, 89 (Virtù in particolare, § 48): Aristotele insegnò, che avendosi una virtù in grado eccellentissimo si hanno tutte. Li Stoici confermaron lo stesso, levando via quelle parole: in grado eccellentissimo, (•■•)• 86. Zanotti iii, c. xiv, 89 (Virtù in particolare, § 49): Prima di dimostrare l’opinion d’Aristotele piacemi premetter due cose. La prima e, che ogni virtù nasce dall’amor dell’onesto, e per amor del¬ l’onesto si pone in opera, e si esercita; e non può esser, nè dirsi, grandissima, se l’amor dell’onesto, onde nasce, e per cui si eser¬ cita, non è grandissimo. Perla qual cosa colui, che ha una grandissi¬ ma virtù, avrà eziandio un grandissimo amore dell’onestà. 87. Zanotti iii, c. xiv, 90 e 92 (Virtù in particolare, § 50): La seconda si è, che quanto maggior’amore sentirà l’uomo in se dell’onesto, tanto maggior prontezza avrà egli a tutte le azioni virtuose, eziandio a quelle, alle quali sarà meno avvezzo, supplendo in lui alla forza dell’uso la grandezza dell’amore; avrà dunque prontezza grandissima a qualunque azion virtuosa colui, in cui l’amor dell’onesto sarà grandissimo. 88. Zanotti iii, c. xv, 92-93 (Virtù in particolare, § 52): Avendo noi detto delle azioni virtuose, e delle virtù, ragion vuole, che dicasi ancora delle colpe e de’ vizj. Diciamone dun¬ que brevemente. È da avvertire, che l’onestà ci prescrive et ordina 525 [p. 530 modifica]II • RACCOLTA ANTOLOGICA alcune azioni; alcune altre non le prescrive, ma solo le propone, e quasi le raccomanda; e quelle siamo obbligati di fare, queste non già; sebbene an¬ che queste ben sarebbe di farle. 89. Zanotti iii, c. xv, 93 (Virtù in particolare, § 51): Il contravvenire al prescritto, et all’ordine dell’onestà è col¬ pa, la quale può diffinirsi azione discordante dall’onesto. Il vizio poi non è altro, che abito di commetter colpe; (...). 90. Zanotti iii, c. xv, 94 (Virtù in particolare, § 53): E stata quistione tra li Stoici, e li altri fdosofì, se possa una colpa esser maggiore di un’altra, dicendo li Stoici, tutte le colpe essere eguali, il che negavano i Peripatetici; la ragion de’ quali può esser questa. Essendo la colpa non altro, che un’azion malvagia, inquanto è discordante dall’onesto, quella potrà dirsi colpa maggiore, che più dall’onesto discorda, e quella minore, che meno. Ora può un’azio¬ ne discordar più dall’onesto, e un’altra meno. Potrà dunque una colpa dirsi maggiore di un’altra. Infatti chi negherà, che se due azioni discorderanno dall’onesto, l’una in tutte le sue circostanze, l’altra in una sola, non sia quella più discordante di questa? 91. Zanotti iv, c. i, 96 (Virtù intellettuali, § 1): Conciossiacosaché la parte ragionevole dell’animo, che chiamasi ancora superiore, contenga due potenze, intelletto, e volontà, avendo noi detto abbastanza della seconda, in cui, come nel soggetto loro, riseggono tutte le virtù morali, resta che diciamo ancora della prima. E per cominicare dalla dijfinizione diremo, che l’intelletto è quella potenza, che riguarda le cose, inquanto sono da conoscersi, che è lo stesso che dire, inquanto sono vere; siccome la volontà è quella potenza, che riguarda le cose, inquanto son da volersi, che è lo stesso che dire, inquanto son buone. 92. Zanotti iv, c. i, 96 (Virtù intellettuali, § 2): E parato ad Aristotele, nè senza ragione, che l’intelletto debba 526 [p. 531 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI distinguersi in due facoltà; l’una delle quali può chiamarsi contemplati¬ va; l’altra consultativa, ovvero deliberativa. 93. Zanotti iv, c. i, 96 (Virtù intellettuali, § 3): La contemplativa è quella, che considera le cose non peraltro, che per conoscerle, come fa il matematico allorché considera il rivolgi¬ mento delle sfere. 94. Zanotti iv, c. i, 96 (Virtù intellettuali, § 4): La consultativa è quella, che considera le cose non sol per cono¬ scerle, ma per prender consiglio sopra di esse, e deliberare; (...). 95. Zanotti iv, c. i, 97 (Virtù intellettuali, § 5): Ora potendo l’uomo di leggieri ingannarsi, e trascorrere in errore tanto nel contemplar le cose, che solo vuol conoscere, quanto ancora nel deliberare, è certissimo, che egli può con lo studio, e con l’industria, e col lungo esercizio acquistarsi un abito di giudicar ret¬ tamente, e conoscer le cose, come sono in se, e di vedere alle oc¬ casioni, qual consiglio sia da prendersi, e qual no; nè può ne¬ garsi, che questo abito non sia un compimento, e una perfezio¬ ne delle sopraddette due facoltà. Laonde non senza ragione si chiama virtù, e dicesi intellettuale, perciocché appartiene all’intel¬ letto; (...). 96. Zanotti iv, c. i, 97 (Virtù intellettuali, §§ 7-8): E di qui può vedersi, qual sia il soggetto della virtù intellettuale, e qual la materia; imperocché il soggetto si è l’intelletto medesimo, in cui essa virtù risiede; e la materia sono le cose istesse, che si considerano, inquanto son da conoscersi. 97. Zanotti iv, c. ii, 97 (Virtù intellettuali, § 42): Che la virtù intellettuale sia necessaria alla felicità, può dimostrarsi con molte ragioni. 527 [p. 532 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 98. Zanotti iv, c. ii, 97-98 (Virtù intellettuali, § 43): Noi ne diremo alcune; e la prima sia questa. Essendo non altro la felicità, che la somma di tutti i beni, che perfezionano la natura del¬ l’uomo, ne vien per conseguente, che tutto ciò, che perfeziona la natura dell’uomo, sia necessario alla felicità. Ora la virtù intellettuale, per¬ feziona senza alcun dubbio la natura dell’uomo; dunque senza alcun dubbio è necessaria alla felicità. 99. Zanotti iv, c. ii, 98 (Virtù intellettuali, § 44): Un’altra ragione si è questa. Non può alcuno esercitare le virtù mora¬ li, come conviensi, senza eleggere rettamente; nè può eleggere ret¬ tamente senza conoscer rettamente le cose, che ha da eleggere; dunque all’esercizio delle virtù morali è necessaria la virtù intellettuale; ma quello è necessario alla felicità, dunque anche questa. (...) Par dunque anche per questo, che la virtù intellettuale sia necessaria al¬ la felicità. 100. Zanotti iv, c. iii, 99-100 (Virtù intellettuali, § 11): La facoltà contemplativa comprende due parti, l’una delle quali versa intorno ai principj, e l’altra intorno alle conseguenze, che da principii pervia di discorso si raccolgono. (...) La prima di que¬ ste due virtù Aristotele la chiamò voùc,; e noi, seguendo gli altri, la chiameremo intelletto; la seconda fu detta da Aristotele émoTf||ir|, la diremo scienza. 101. Zanotti iv, c. iv, 103 (Virtù intellettuali, § 12): Sopra abbiamo detto essere l’intelletto un abito di conosce¬ re certamente e indubitatamente principj certi e indubitati; che vale a dire alcune proposizioni, la cui verità si manifesta, ed è chiara da per se stessa senza aver bisogno di alcuna dimostrazione. 102. Zanotti iv, c. iv, 103 (Virtù intellettuali, § 18): Di qui si vide, che la materia, intorno a cui versa la virtù dell’in¬ telletto, sono i principj di tutte le discipline, che procedono 528 [p. 533 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI con evidenza, come fanno la geometria, e l’algebra, e alcune altre. 103. Zanotti iv, c. iv, 105 (Virtù intellettuali, § 13): Finquì abbiamo spiegato la materia della virtù dell’intellet¬ to. Prima di passar più oltre; bisogna rispondere ad alcuni, i quali nega¬ no del tutto, che si dia una tal virtù. E questi invero vorrebbon confon¬ dere la potenza dell’intelletto con quella virtù, che ha lo stesso nome; e ragionano in tal modo. La potenza dell’intelletto non è certamente virtù, nè abito, poiché non si acquista per assuefazione, ma si ha da natura. 104. Zanotti iv, c. iv, 105-106 (Virtù intellettuali, § 14): Si conoscono dunque i principj non per alcuna virtù, che si acquisti esercitandovisi, ma per una naturai potenza, che non ha bisogno d’e¬ sercizio. A guisa che gli uomini respirano, non per assuefazione, ma per quella naturai potenza, che hanno di respirare; (...). E così i principj della scienza si intendono egualmente da tutti; nè più da i dotti, che da gl’indotti. 105. Zanotti iv, c. iv, 106 (Virtù intellettuali, § 15): A tutto questo rispondo, essere veramente in noi una natu¬ rai potenza, che chiamasi intelletto, e per la quale conosciamo i principj; ma altro è conoscere i principj, altro è conoscerli speditamen¬ te, et avvertirli subito, et averli pronti al bisogno. E quanto al conoscerli ciò spetta a quella naturai potenza, che abbiamo detto; il conoscerli poi speditamente, et averli pronti al bisogno vien da abito. 106. Zanotti iv, c. iv, 106 (Virtù intellettuali, § 16): Quindi è, che un geometra espertissimo condurrà facilmente a fine la sua dimostrazione avendo alla mano tutti i principj della sua dottrina, laddove un altro meno esercitato vi stenterebbe sopra, non avendo così in pronto i principj medesimi. 529 [p. 534 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 107. Zanotti iv, c. iv, 106 (Virtù intellettuali, § 17): La forza dunque, per cui conosconsi i principj, è naturai po¬ tenza, e chiamasi intelletto; ma la forza di conoscerli spedita- mente, et avvertirli qualor d’uopo, è un abito, et è virtù; la qual benché chiamisi essa pure intelletto, non è però da confondersi con la po¬ tenza. 108. Zanotti iv, c. v, 107 (Virtù intellettuali, §§ 19-20): La scienza è un abito dimostrativo, per cui si provano e dimostra¬ no con evidenza le proposizioni per li loro principj; perciò dice¬ si l’uomo aver scienza di quelle cose, che per argomentazio¬ ne dimostrativa conosce; (...). La materia poi della scienza so¬ no le proposizioni istesse, che si dimostrano, inquanto si dimo¬ strano. 109. Zanotti iv, c. v, 108 (Virtù intellettuali, § 21): Potendo la materia della scienza dividersi in più maniere po¬ trà dividersi similmente anche l’abito. Quindi è, che molte scienze esser si dicono, la geometria, l’aritmetica, la logica, la metafìsica, et al¬ tre, le quali tutte sono abiti dimostrativi; ma la materia egli oggetti so¬ no diversi, (...). no. Zanotti iv, c. v, 108 (Virtù intellettuali, § 22): E stato detto da Aristotele, che la scienza versa intorno alle cose ne¬ cessarie, incommutabili, ed eterne; il che dimostra esser vero a que¬ sto modo. (...) Mostra dunque, che [le cose che si conoscono] sieno necessarie, e incommutabili; e se tali sono, sono anche eterne; per¬ chè quello, che necessariamente è, nè può cangiarsi, sempre è; anzi è da per tutto, e ha una certa maniera di immensità. Di fat¬ ti qual luogo è, in cui non ritrovinsi le verità degli aritmetici, e dei geometri? Sono dunque in tutti i luoghi, e in tutti i tempi; o più tosto, essendo fuor d’ogni luogo, e d’ogni tempo, non al¬ trove poste e locate, che in se medesime, risplendono, e si ma¬ nifestano a i tempi e a i luoghi tutti; e perciò sono eterne ed immen- 530 [p. 535 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI se, e par che abbiano una certa sembianza di divinità. Ma lasciamo que¬ ste sottigliezze a i metafisici. 111. Zanotti iv, c. vi, 109 (Virtù intellettuali, § 23): Finquì è detto delle virtù intellettuali, che appartengono alla parte contemplativa. Passiamo ora a quelle, che appartengono alla consultativa; e prima diciamo della prudenza. 112. Zanotti iv, c. vi, 109 (Virtù intellettuali, § 24): La prudenza è un abito di conoscere e distinguere rettamente, quali azioni si convengan di jare, e quali non si convengano; e diciamo, che si convien di fare un’azione, quando il farla conduce al fine ulti¬ mo, cioè a dire alla felicità di chi la fa', e perchè tali sono princi¬ palmente le azioni virtuose, però può dirsi, che la prudenza sia un abito di distinguere principalmente quali sieno le azioni virtuose, e quali no. 113. Zanotti iv, c. vi, 109 (Virtù intellettuali, § 25): Di qui si vede, quale sia la materia, intorno a cui versa la pruden¬ za; ed e non altro, che le azioni convenienti, massimamente le virtuose. Ed è ufficio della prudenza il conoscerle, non il farle; essendo che il farle appartiene alle altre virtù, (...). 114. Zanotti iv, c. vi, no (Virtù intellettuali, § 26): Nè per questo, che siasi detto, essere la prudenza un abito di co¬ noscere, non di operare, vuoisi conchiudere, che la prudenza non sia una virtù pratica; che anzi Aristotele la definisce s£iv npaxzixijv, abito pratico; e altrove chiaramente r\ Se (ppóvrjoiCnpaxTixJj. (...) Par certamente, che tutto quello, che appartiene alle azioni da farsi, scorgendole all’ultimo fine, e imponendole talvolta, et ordinan¬ dole, debba dirsi pratico. Ora la prudenza dirige le azioni, mostran¬ do qual sia da farsi, e qual no, e le scorge all’ultimo fine, e le impone talvolta e le ordina, onde anche dicesi da Aristotele èmxaxxixf\; par dunque, che la prudenza debba dirsi virtù pratica. 531 [p. 536 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 115. Zanotti iv, c. vi, ho (Virtù intellettuali, § 27): La qual ragione [della classificazione della prudenza tra le virtù pratiche] si intenderà più chiaramente, se noi spieghere¬ mo la differenza, che passa tra il giudicio pratico, e il giudicio speculati¬ vo, potendosi formare intorno alle azioni così l’uno come l’al¬ tro. 116. Zanotti iv, c. vi, iio-iii (Virtù intellettuali, §§ 28-29): Allora dunque si forma un giudicio speculativo sopra un’azione, quando si giudica di essa considerandola, non secondo tutte le circostan¬ ze, che l’accompagnano, ma solo secondo alcune. All’ incontrario ilgiu¬ dicio, che si forma è pratico, qualorsi considerano in qualche partico¬ lare, e determinata azione tutte le circostanze, che l’accompagna¬ no. (...). E se questi giudicj si chiamano pratici, perchè non si chiamerà pratica la prudenza, che gli forma? 117. Zanotti iv, c. vii, 113 (Virtù intellettuali, § 30): Dico dunque, che l’arte è un abito di conoscere e distinguere retta- mente tutto ciò, che si ricerca a render bella, e perfetta l’opera, che si fa; 118. Zanotti iv, c. vii, 115 (Virtù intellettuali, § 31): Di qui alcuni hanno tratto una bellissima differenza, che passa tra la prudenza e l’arte-, ed è, che contra la prudenza non può mai peccarsi senza biasimo, contra l’arte può peccarsi anche con lo¬ de. E la ragione si è, perchè colui, che pecca contro l’arte, può aver giusto motivo di farlo, pensando più tosto a perfezionar se stesso, che il suo lavoro; laddove colui, che pecca contro la pru¬ denza, non può avere niun giusto motivo di farlo; poiché se l’a¬ vesse non peccherebbe più contro la prudenza. 119. Zanotti iv, c. viii, 116 (Virtù intellettuali, §§ 32-34): Il nome greco oocpi'a, che per noi vale sapienza, è stato preso da molti in molte maniere; (...). Aristotele in qual maniere abbia 532 [p. 537 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI preso lo stesso nome, è gran quistione, (...). E già dalla pruden¬ za, e dall’arte la distingue senza alcun dubbio, volendo, che la sapienza versi intorno alle cose necessarie, eterne, immutabili, universali, intorno a cui non versano nè l’arte, nè la prudenza. E pare ancora, che ab¬ bia voluto distinguerla dalla scienza, avendo detto, che la scienza versa non già intorno ai principj, ma solo intorno alle conseguenze, e che la sa¬ pienza versa intorno all’une, et agli altri; (...). 120. Zanotti iv, c. viii, ii6 (Virtù intellettuali, §§ 36-37): (...); alcuni l’hanno attribuito [il nome oocpìa] a qualunque arte 0 scienza, che si possegga in grado sommo, onde sapienti son chiamati anche gli scultori. Altri sotto questo nome hanno inteso la coorte di tutte le morali virtù. 121. Zanotti iv, c. viii, 117 (Virtù intellettuali, § 38): E quindi potrebbe alcuno argomentare, che secondo Aristo¬ tele la sapienza dovesse confondersi con l’intelletto e con la scienza presi insieme; come fosse la sapienza non altro, che un intelletto pre¬ stantissimo congiunto ad una scienza prestantissima, (...). 122. Zanotti iv, c. viii, 117 (Virtù intellettuali, § 39): Io dico pertanto, tale sapienza non altro essere, che la metafisica, la qual certo versa intorno alle cose prestantissime, e nobilissime; versando intorno alle verità, che sono eterne, et immutabili; onde subito si vede distinguersi essa dalla prudenza, e dall’arte. E perchè la metafisica salendo più in alto, che le altre scienze, cerca le ra¬ gioni de iprincipj, egli dimostra; per ciò pare, che si distingua an¬ che dall’intelletto, e dalla scienza; poiché l’intelletto considera i principj, e la scienza gli segue, senza dimostrarli. 123. Zanotti v, c. i, 119 (Qualità dell’animo, § 1): Molte e molto varie sono le qualità dell’animo, le quali quantun¬ que belle e pregevoli, non si vogliono tuttavia porre tra le virtù, come nè meno tra vizj i loro contrarj. 533 [p. 538 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA 124. Zanotti v, c. i, 119 (Qualità dell’animo, § 2): Nè noi però tratteremo ora di tutte, ma solamente ne tocchere¬ mo alcune, che sono state notate da Aristotele. 125. Zanotti v, c. ii, 120 (Qualità dell’animo, §§ 5-6): (...) così nè pure può l’uomo conseguir tutti i gradi della tem¬ peranza, e della fortezza, e delle altre virtù morali; ma si riman d’ordinario dentro a certo limiti, oltre i quali chi passasse si stime¬ rebbe avere una virtù più che umana. Questa virtù dunque grande, straordinaria, maravigliosa, più che umana, chiamasi virtù eroica; la qual non si dice semplicemente virtù, perciocché non par propria dell’uomo, ma d’altra cosa, che sia dell’uom più eccellente', e noi siamo soliti chiamar virtù solamente quegli abiti, che son dell’uomo. 126. Zanotti v, c. iv, 127 (Qualità dell’animo, § 9): La tolleranza, che da altri è stata detta costanza, e da Aristote¬ le xapxepia è una disposizion d’animo, per cui l’uomo sostien la noja e il dolore senza turbarsene più di quello, che gli convenga. 127. Zanotti v, c. iv, 127 (Qualità dell’animo, § 10): Alla tolleranza opponsi una qualità, che noi potremo dire in¬ tolleranza, o mollezza d’animo, e da Aristotele fu detta p.aÀaxia et è una disposizione, per cui l’uomo resistendo al dolore, e contra¬ stando per sostenersi, pur cede, e si abbandona di tanto in tanto a una soverchia tristezza; nel che non è nè effemminatezza, nè vizio-, per¬ chè l’effemminato, e il vizioso cede subito al dolore, e si turba senza contrasto. 128. Zanotti v, c. v, 128 (Qualità dell’animo, § n): La verecondia è una disposizione, che ha l’uomo a vergognarsi del mal jatto, temendo a cagion di questo non esser tenuto cattivo da gli altri. Onde, si vede, che la verecondia non è qualunque vergogna, ma quella sola, che nasce dall’azione poco onesta. Perchè quando gli uomini si vergognano 0 della povertà, 0 dell’ignoranza, 534 [p. 539 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI o dell’esser nati in basso luogo, quella si chiama piuttosto ver¬ gogna, che verecondia. 129. Zanotti v, c. v, 128 (Qualità dell’animo, § 13): Benché la verecondia sia una qualità molto commendabile, essendo indicio di gentile animo, e costumato, e inducendo l’uomo a pentirsi del mal fatto, non per questo vuol numerarsi tra le virtù; essendo più tosto una perturbazion d’animo, et una passione, che vien da natura, che un abito. 130. Zanotti v, c. v, 129 (Qualità dell’animo, § 12): Siccome poi la verecondia è disposizione alla virtù, e però molto è commendata; (almeno dovrebbe essere, e certo gli antichi ne fecer gran conto) così l’inverecondia, o vogliam dire la sfacciatag¬ gine, la qual consiste nel non vergognarsi di comparir cattivo alla presenza de gli altri, è grandissima disposizione al vizio, et è de¬ gna di grandissimo biasimo, nè posson servirle di scusa i costu¬ mi presenti. 131. Zanotti v, c. vi, 129 (Qualità dell’animo, § 14): Ha una certa disposizion d’animo, che da Greci fu detta vé- (ieoic;, noi la diremo sdegno; et è quella, per cui l’uom si turba, qualor vede onorarsi et innalzarsi gl’immeritevoli. 132. Zanotti v, c. vi, 129 (Qualità dell’animo, § 15): E questa è piuttosto perturbazione e passione, che virtù; perciocché niuno si sdegna per avere contratto abito di sdegnarsi, ma solo perchè così è fatto da natura; e la virtù, come abbiamo detto in più luoghi, è abito. Però ben fece Aristotele nella sua rettorica a porre tó ve(ieoàv, lo sdegnarsi, tra gli affetti. 133. Zanotti v, c. vi, 130 (Qualità dell’animo, § 16): Allo sdegno opponsi una disposizion d’animo, (...) molto vicina alla malvagità; perchè colui, cui non dispiace di vedere la virtù 535 [p. 540 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA oppressa, si indurrà di leggeri a opprimerla egli; nè curerà molto di essere virtuoso. È dunque assai vicino ad esser malvagio colui, che non è punto sdegnoso. 134. Zanotti v, c. vii, 131 (Qualità dell’animo, §§ 24-27): Io dico dunque, che l’amicizia è una scambievole benevolenza scambievolmente manifestata; e dico benevolenza, perchè senza questa non può essere amicizia; e bisogna, che sia scambievole, perchè se Cesare vorrà bene a Lentulo, non per ciò si diranno amici, quando Lentulo anch’egli non voglia bene a Cesare; nè tam¬ poco si diranno amici, se volendo bene l’uno all’altro, l’uno però non sappia della benevolenza dell’altro. Par dunque, che nell’amicizia debba essere la benevolenza non solo scambievo¬ le, ma anche manifesta. 135. Zanotti v, c. vii, 132-133 (Qualità dell’animo, § 29): Dico dunque, che altre amicizie ci si impongono dalla natura, al¬ tre si contraggono per elezione. Della prima maniera può dirsi esse¬ re l’amicizia, che passa tra il padre e i figliuoli, e lega insieme tutti quelli, che sono d’un’istessa famiglia; (...). Alle amicizie, che ci si impongono dalla natura, io riduco anche quelle, che si stabili¬ scono dalle leggi, come quella che passa tra il principe e i sudditti, (...). Più tosto amicizie si chiaman quelle, che si contraggono per elezio¬ ne, benché di queste ancora n’ha alcune, che poco meritano sì illustre nome. 136. Zanotti v, c. vii, 133-134 (Qualità dell’animo, § 28): Venendo dunque alle amicizie, che si contraggono per ele¬ zione, noi le divideremo, come anche Aristotele, in tre. La prima sarà l’amicizia, che nasce dall’utilità; la seconda quella, che nasce dal piacere; la terza quella, che nasce dalla virtù. 137. Zanotti v, c. vii, 134 (Qualità dell’animo, § 30): L’amicizia, che nasce dall’utilità, si vuol distinguere in due parti-, perchè sebbene la distinzione parrà alquanto sottile, è però ne¬ 536 [p. 541 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI cessario, acciocché due amicizie tra loro diversissime non si confondano. È dunque da avvertire, che altro è voler bene a uno, perchè ne venga bene a noi; altro è voler bene a uno, perchè facendo egli bene a noi, par convenevole, che noi ne vogliamo a lui. 138. Zanotti v, c. viii, 134 (Qualità dell’animo, § 31): Nel primo caso il fine della benevolenza è l’utile proprio, il qual si segue, e non altro; nel secondo caso l’utile non è il fine della benevo¬ lenza, benché ne sia il motivo, (...). Quindi è, che questa amicizia [del secondo tipo] è più onesta, e contiene virtù; quella prima non è pur degna di esser chiamata amicizia; (...) et essendo diretta ai proprj comodi non è degna di niuna lode. 139. Zanotti v, c. ix, 136 (Qualità dell’animo, § 32): Dell’amicizia, che nasce dal piacere, si posson dire quasi le istesse co¬ se; perchè se il piacere è fine della benevolenza, come se uno vuol bene ad un altro, non perchè questi abbia alcun bene, ma per trarne egli un piacer suo, questa non sarà vera amicizia; perciocché colui, che vuol bene a questo modo piuttosto vuol bene a se stesso, che al¬ l’amico. 140. Zanotti v, c. ix, 136 (Qualità dell’animo, § 33): Ma se il piacere è motivo della benevolenza, e non fine, come se noi vogliam bene a uno, perchè, ponendo egli studio in piacere a noi, par convenevole, che noi altresì ponghiam qualche studio al ben di lui, l’amicizia è senza dubbio molto onesta, essendo ragionevole cosa il voler bene a coloro, che procurandoci alcun diletto ne rendon la vita men nojosa. 141. Zanotti v, c. x, 137-138 (Qualità dell’animo, § 35): L’Amicizia si dice nascere dalla virtù, allora quando uno avve¬ nendosi in un altro, e trovandolo cortese, piacevole, mansueto, et ornato di scienza, e di virtù, e di molte altre qualità belle, e prestanti,gli par de¬ 537 [p. 542 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA gno di essere ben voluto, e per ciò si muove a volergli bene; poiché se tale benevolenza sarà scambievole, e scambievolmente si manifeste¬ rà, sarà quella rara amicizia, che si dice nascer da virtù, et è il più ricco tesoro, che aver possa l’uomo in questa vita. (...) Seb¬ bene non potendo il virtuoso non essere e piacevole, e liberale, e cortese, e magnanimo, non può non essere ancora cosa molto utile, e mol¬ to gioconda; e chi l’ama, inquanto è virtuoso, viene per con¬ seguente ad amarlo anche inquanto è utile, e inquanto è gio¬ condo. 142. Zanotti v, c. x, 138 (Qualità dell’animo, § 34): Non è alcun dubbio, che tale amicizia non siafra tutte la più gentile, e la più nobile; sì perchè è posta in virtù, sì ancora perchè non ha altro fine, che il ben dell’amico, essendo disgustata dall’in¬ teresse, e dal piacere. (...) E pare ancora, che debba essere du¬ revolissima, imperocché non ricercando negli amici se non la virtù, niente commette al caso e alla fortuna. 143. Zanotti v, c. xii, 145-146 (Qualità dell’animo, § 37): Quistione Prima. Se l’amicizia sia un atto, 0 più tosto un abito. (...). Ora può facilmente vedersi, che l’amicizia è più tosto un abito, che un atto; perciocché l’amicizia non cessa, benché cessi di tanto in tanto l’operazione; e se Lelio vedrà dormir Scipione, non dirà già, che Scipione non sia suo amico; dirà più tosto che Scipione suo amico dorme. 144. Zanotti v, c. xii, 146 (Qualità dell’animo, § 38): Quistione Seconda. Se l’amicizia sia virtù. E par veramente, che non debba essere per due ragioni, delle quali la prima è questa: La virtù è un abito, che si fa con l’esercizio, e per uso; ma la benevolenza, e l’amicizia non si fanno a questo modo; non dicen¬ dosi mai, che uno voglia bene all’amico, perchè vi si è eserci¬ tato, e vi ha fatto uso, ma per altro; dunque l’amicizia non è virtù. 538 [p. 543 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 145. Zanotti v, c. xii, 148 (Qualità dell’animo, § 39): Quistione Quarta. Come sciolgami le amicizie. Essendo l’amicizia una benevolenza scambievole, come questa cessa nell’un degli amici, così tosto cessa e rompesi l’amicizia; nè vale, che la benevolenza si con¬ servi nell’altro; perchè questo all’amicizia non basta. (...) Può anche sciogliersi l’amicizia, restando in amenduegli amici la scambievo¬ le benevolenza. E ciò avviene, quando 0 per malizia di alcuno, o per qual’altro siasi inganno, viene la scambievole benevolenza a nascon¬ dersi per modo, che l’un degli amici non crede più di essere ben voluto dall’altro; perchè allora quantunque benevoli si possan dire, non però si diranno amici; essendo l’amicizia una benevolen¬ za, non solo scambievole, ma (...) palese, e manifesta. 146. Zanotti v, c. xii, 149 (Qualità dell’animo, § 40): Quistione Quinta. Se l’uomo felice abbia bisogno d’amici. Noi, se¬ guendo Aristotele, diremo, che ne ha bisogno, non perchè alla felicità debbasi aggiungere altra cosa; essendo essa contenta di se me¬ desima; ma perchè a formarla e comporla richieggonsi tutti i beni, che alla natura dell’uomo convengono, e però anche l’amicizia. 147. Zanotti v, c. xiii, 149 (Qualità dell’animo, § 41): Ha molte qualità, che veramente non sono amicizia, ma però all’a¬ micizia si accostano, e le appartengono; a noi basterà dire di queste sei: della benevolenza, dell’amore, della concordia, della beneficenza, della gratitudine, dell’amor di se stesso. 148. Zanotti v, c. xiii, 150 (Qualità dell’animo, § 42): Della benevolenza. Per le cose finquì dette assai può inten¬ dersi cosa sia la benevolenza, la quale in vero non è altro, che un desi¬ derio del bene altrui. (...) Dell’amore. (...) l’amore non è benevo¬ lenza, (...). E benché il volgo, e col volgo i poeti (a quali hanno voluto accostarsi gli oratori, forse più ancora, che non conveni¬ va) confondano bene spesso queste due cose, chiamando amore la be¬ nevolenza, e benevolenza l’amore; non è però, che anche tal- 539 [p. 544 modifica]II ■ RACCOLTA ANTOLOGICA volta non la distinguano; laonde acutamente disse Catullo amantem iniuria talis Cogit amare magis, sed bene velie minus. E il popolo dirà facilmente, che Lentulo ama il vino, ma che voglia be¬ ne al vino, non lo dirà così facilmente; è dunque manifesto altro essere l’amore, altro benevolenza. 149. Zanotti v, c. xiii, 151-152 (Qualità dell’animo, § 43): Della concordia. La concordia altro non è, che un comune con¬ sentimento a volere le stesse cose; (...). Nè è però da dirsi, che l’amicizia sia lo stesso, che la concordia; poiché per esser concordi basta vole¬ re le istesse cose; ma per essere amici bisogna, che l’uno le vo¬ glia per ben dell’altro. Ond’è, che due, i quai si convengono di fare la stessa cosa per ben di un terzo, si diranno concordi, ma non per questo si diranno amici; anzi potrebbon’essere anche nemici, potendo due nimici concordarsi insieme a volere il ben d’un ter¬ zo. Gli amici dunque son sempre concordi, almeno in ciò, che appartiene alla felicità loro; ma i concordi non son sempre amici. 150. Zanotti v, c. xiii, 153-154 (Qualità dell’animo, § 44): Della beneficenza. La beneficenza è una consuetudine di far bene ad altri, (...). Laonde si vede, che nell’amicizia non molto ri¬ splende la beneficenza; perchè sebbene colui, che fa benefìcio all’amico, si chiama benefico, ed è; più benefico però si stima esser quello, che fa beneficio all’estraneo; (...). Della gratitudine. (...). È poi anche un’altra ragione,perchè l’amicizia debba credersi diversa dalla gratitudine; e ciò è perchè l’a¬ micizia non può aversi con un nemico, ma la gratitudine può aversi; potendo un nemico, mosso da grandezza d’animo, averci fatto al¬ cun beneficio, di cui noi gli siamo grati. Altro è dunque l’amicizia, altro la gratitudine. 151. Zanotti v, c. xiii, 154 (Qualità dell’animo, § 45): Dell’amor di se stesso. Io non so, se in tutta la filosofia sia parte alcuna, 0 più oscura, 0 più importante di questa. (...) L’uomo è tratto per certo naturale istinto a voler ciò, che è buono a lui. 540 [p. 545 modifica]FRANCESCO MARIA ZANOTTI 152. Zanotti v, c. xiii, 155 (Qualità dell’animo, § 46): (...) chi ama se stesso come conviene, non cerca il piacere se non quanto virtù gliel consente, e noi cerca di modo alcuno proponen¬ dogli la virtù; nel che segue le cose, che a lui son buone, se¬ guendo l’amor di se stesso rettissimamente. 153. Zanotti v, c. xiii, 156 (Qualità dell’animo, § 49): Quanto alla prima, seguendo Aristotele, dico che l’amor di se stesso tanto non si oppone all’amicizia, che anzi la ricerca, e la vuole. E la ragione è questa: l’uomo tratto dall’amor di se stesso vuole tutte le cose, che a lui son buone; ora l’amicizia è a lui buona, dunque dee es¬ sere tratto dall’amor di se stesso a volerla. 154. Zanotti v, c. xiii, 156 (Qualità dell’animo, § 48): Quanto alla seconda quistione; dico che l’uno amico più ama se stesso, che l’altro amico. E la ragione si è. Benché l’uomo voglia la felicità sua, e la felicità dell’amico, senza riferire nè questa nè quella ad altro fine; v’ha però questa differenza, eh’e’ vuole la felicità sua per certo istinto impressogli dalla natura, a cui non po¬ trebbe resistere, quand’anche volesse; ma la felicità dell’amico la vuole per elezione; e non è alcun dubbio, che più forte è l’impulso dell’i¬ stinto, che quello dell’elezione. 155. Zanotti v, c. xiii, 157 (Qualità dell’animo, § 47): Quanto alla terza quistione, spero, che i Peripatetici non do¬ vranno di me dolersi, se, avendo io seguito Aristotele in tante altre opinioni, da lui mi scosto in una; e dico, che quantunque l’uomo ami se stesso, non dee però poter dirsi propriamente amico di se stesso; perciocché l’amicizia vuole necessariamente scambievolezza, la qual non ritrovasi in un soggetto solo. [p. 546 modifica]541 [p. 547 modifica]BIBLIOGRAFIA E INDICI [p. 548 modifica] [p. 549 modifica]BIBLIOGRAFIA I. 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