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La fuga in Egitto/La fuga in Egitto

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La fuga in Egitto

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La fuga in Egitto
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LA FUGA IN EGITTO






Dopo quaranta anni d’insegnamento nelle scuole elementari, il maestro Giuseppe De Nicola era andato a riposo e si disponeva a fare un viaggio.

L’antefatto è questo: in gioventù egli aveva adottato un ragazzo orfano, con la speranza di farne il suo successore nella scuola del paesetto natìo. Il ragazzo però preferiva la vita avventurosa: così gli era scappato di casa, e dopo tentati tutti i mestieri, da marinaio a facchino di porto, da cacciatore di camosci a guardia di dogana, aveva finito con l’incontrare e sposare la vedova di un padrone di barche, del quale l’eredità consisteva in una villa con strascico di vigne e poderi in riva all’Adriatico.

Trovato finalmente il posto che gli conveniva, il giovine mandò al padre adottivo un pacco di sigari, avanzo del turbinoso passato, chiamò col [p. 2 modifica] nome di lui, Giuseppina Nicola, la sua prima bambina, e infine lo invitò anche a nome della moglie ad andare ad abitare con loro.

E il maestro, laggiù nel paesetto umido sperduto tra valli e montagne, pensava a questa nuova famiglia, in questo sfondo favoloso di paesaggio marino, proponendosi di mettersi in viaggio, per andare a visitarla, come uno dei re Magi verso Betlemme: ma aveva paura della distanza, degli scioperi ferroviari allora frequenti, dei cinque trasbordi necessari per raggiungere quel paese di sogno.

Così passò qualche anno, finchè egli non andò in pensione: rimasto solo, senza più neppure la turbolenta e ingrata famiglia della scuola, si decise al grande viaggio: e partì davvero con gioia religiosa non priva però di un vago terrore.

Era il suo primo viaggio, quello, il suo viaggio di nozze con la vita: neppure il figlio giovinetto, sfuggito al recinto delle mura domestiche in cerca di spazio e di fortuna, aveva fatto il transito così di volo fra la realtà e il sogno. La terra gli sfuggiva di sotto i piedi come il pavimento lucido di una sala da ballo; la natura gli danzava intorno spiegando e ripiegando i veli dei suoi paesaggi sempre diversi, e lo trascinava con sè, in alto sui monti fino a toccare le nuvole, e dentro i loro passaggi fumosi e neri [p. 3 modifica]come tubi di camino, e fuori nella vertigine azzurra dei torrenti, e giù per le verdi chine dove pare di rotolare nudi sull’erba fredda.

Egli stava aggrappato al finestrino del vagone, coi bambini in viaggio; e quando piombava il nero delle gallerie ritirava la testa per paura che un mostro vagante in quel mistero gliela stroncasse: al primo barlume la rimetteva fuori non curandosi se il vento del treno si divertiva a ballare con violenza fra i suoi capelli grigi e a riempirgli di fuliggine il naso.

Due giovani sposi allacciati accanto all’altro finestrino, guardavano uno negli occhi dell’altro la terra fuggente: egli non li invidiava; poichè tutti assieme andavano verso la stessa mèta.

Una prima delusione lo aspettava all’arrivo, quando nella piccola stazione, dove al fermarsi del treno i grandi pioppi ridenti s’inchinarono di qua e di là salutando i viaggiatori, non trovò nessuno.

Ebbe timore di essersi sbagliato: lui solo era sceso dal treno e questo già proseguiva fischiando, come fischiasse per lui; e la quiete [p. 4 modifica]delle vigne, nella improvvisa immobilità della terra, i cespugli che parevano carichi di farfalle addormentate, i fili stessi dell’erba che si piegavano sulle loro ombre lunghe e vive, gli davano uno stordimento di febbre. Fra tutto quel verde non si vede che il tetto rosso della stazione: uscito dalla stazione egli si ferma ad aspettare, dritto fra le sue due valigie come l’asta di una bilancia; ma davanti a lui non vede che un largo viale erboso con in fondo un grande uovo metà azzurro di mare e metà di cielo.

Sopra il viale fra due file di pioppi e di robinie che sembravano coppie di sposi, alti e slanciati i pioppi, basse e tondeggianti le robinie cariche di frangie scintillanti, il cielo è alto è chiaro ma di una tristezza indicibile, tanto più che non se ne spiega la ragione: è la tristezza delle grandi solitudini, che non è nell’aria ma nel cuore dell’uomo che guarda.

E l’uomo con le valigie ha l’impressione di essere sbarcato peggio che in una città sconfinata e sconosciuta, dove nessuno parla la sua lingua: e se cammina dovrà camminare a lungo e arrivare solo ad una spiaggia deserta.

D’un tratto la nostalgia per la sua casetta lontana lo afferra: perchè ha lasciato la sua vecchia casa, il paese dove sono sepolti i suoi parenti, dove qualche amico lo aveva ancora?

Come i giovani e i deboli che non conoscono [p. 5 modifica]la gioia della solitudine, si è lasciato lusingare dall’azzurro delle lontanauze; ed ha creduto di raccogliere solo il necessario per la sua vita in quelle due valigie il cui odore di cuoio nuovo rivela in chi le porta il viaggiatore novellino. Ma la vita si vendica; e quelle valigie adesso gli pesano come piene zeppe di tutto il suo passato.

E mai come adesso ha sentito la distanza insuperabile che lo divide da quella famiglia che infine non è la sua.

La famiglia è creata dall’uomo con l’essenza sua stessa, col suo seme, il suo sangue, il suo sudore: e fra lui e quell’altra famiglia esiste solo un legame sentimentale più fragile di un filo di ragno.

Tanto è vero che nessuno gli è venuto incontro.

Ma neppure pensò di tornare indietro, anzi si mise a camminare tranquillo per il lungo viale confortandosi subito con la speranza di poter il giorno dopo e poi accompagnare la sua alla solitudine di quella passeggiata serena.

— Saremo amici, buona strada: dopo tutto tu [p. 6 modifica]mi accogli bene; tu sola mi sei venuta incontro e mi fai compagnia.

La strada, infatti, si faceva sempre più buona con lui, molle di erba fine, e odorosa; nello sfondo delle arcate fra un albero e l’altro gli lasciava vedere i prati placidi con vacche bianche e neri cavalli al pascolo, e le case dei contadini ritinte di ocra e di rosa, le siepi fiorite e i pergolati lucenti: tutto laccato come nelle cartoline illustrate.

Dietro i tronchi degli alberi qualche fiore di genziana pareva lo aspettasse in agguato e oscillava al suo passare: e anche la voce tenue del mare adesso gli veniva incontro come quella di un amico, sebbene fra lui e il mare, del quale ancora non aveva conoscenza, esistesse un malinteso fatto di paura e di ripugnanza.

Da quel muro turchino, sempre più alto davanti a lui, si staccarono appunto le prime due figure umane che gli fecero sperare di non essersi smarrito, o almeno di aiutarlo a trovare la via giusta; tanto più che gli venivano incontro guardando le sue valigie come oggetti straordinari.

Allora affrettò il passo e il cuore gli si riempì di luce.

Forse era la sua nipotina la bambina bruna vestita di rosso che l’altra figura di giovine donna teneva per mano. [p. 7 modifica]Era proprio la sua nipotina.

— È lei il signor maestro De Nicola? — domandò con voce maschia la donna, fermandosi marzialmente davanti a lui. — Suo figlio è dovuto partire d’improvviso per un affare urgente, e la moglie è a letto con la febbre che le viene ogni tre giorni. Saluta il tuo nonno, Ola. Mi dia le valigie.

Ola guardava dal basso il viso del nonno, dopo che i suoi occhi neri obliqui che sprizzavano raggi d’oro avevano risalita tutta la persona di lui assorbendone ogni particolare; e non pareva disposta a salutare, anzi si tirava indietro afferrando i lembi del suo vestitino; eppure in questo vestitino increspato che si allargava fra le sue mani come un papavero tolto dalla buccia, e nella piccola persona tesa, e sopra tutto nel viso dorato riverso in mezzo al fiore dei riccioli neri, vibrava un’offerta irresistibile.

E il nonno, lasciate andar giù le valigie come un peso ormai morto, la prese fra le braccia, la sentì calda e viva contro di lui; e quando i capelli di lei, che erano salati, e la sua guancia più liscia e morbida del velluto, gli sfiorarono la bocca, trasalì come a un contatto d’amore.

La donna intanto aveva preso le valigie e si avviava dondolandole come due borsette [p. 8 modifica]leggere; tanto era alta e ben costrutta: una giovine Giunone incoronata di treccie gialle.

Il maestro la seguì, col suo nuovo peso.

— Dunque tu ti chiami Ola: io lo sapevo da un pezzo. Ola....

Il dolce nome gli si scioglieva in bocca come un frutto di miele.

Ola si schermiva lievemente, ma si lasciava trasportare volentieri, senza cessare di guardarlo in viso con i suoi occhi mutevoli fatti di sole e di ombra: sguardo di studio, più che altro, che osservava le rughe di quel viso così vicino eppure così ignoto, i punti neri del naso, i capelli che si accompagnavano fitti uno bianco uno nero come il giorno e la notte; e penetrava nella bocca cercando di spiegarsi il mistero dei denti d’oro che vi si nascondevano in fondo come gli anelli della mamma nel cassettone. Ella taceva però, e alle molte domande di lui rispose infine evasivamente:

— Papà mi porta oggi un fucile.

— Un fucile? Ma i fucili sono per i maschi. Io invece sai che cosa ti ho portato? Una bella bambola.

— Le bambole ce le ho, — disse lei, accogliendo la notizia con indifferenza: poi puntò il ditino sulla spilla della cravatta di lui, già prima bene studiata, e gli occhi le brillarono di bramosia. [p. 9 modifica] — Anche papà ce l’ha, con una perlina rossa; ma non me la vuol dare.

— Abbiamo capito: tu vorresti questa: ebbene, se te la dò tu cosa mi dài?

Ola abbassò la testa, la risollevò piano piano e lo baciò sulla guancia.

— Ah, birbona, sai già l’arte. Ebbene, la spilla è tua, ma te la darò quando saremo a casa.

Allora lei, rossa per la gioia, si abbandonò su di lui. E furono subito amici.

Quando arrivarono allo svolto del viale, poichè adesso si apriva una strada meno generosa, anzi un viottolo solcato dal passaggio dei carretti, la donna consigliò il maestro di metter giù la bambina.

— Quella lì, a lasciarla fare, profitta di tutto. Giù, Ola, chè il nonno è stanco.

— Anch’io sono stanca, — ella rispose con voce davvero di stanchezza. E non cessava di toccare il piccolo fiore della spilla: era questa che le premeva.

— Ancora un poco, — disse il nonno raccogliendola di più a sè come per paura di perderla; e fece in modo che quella importuna di ragazzona andasse avanti.

— Chi è quella, — domandò quando gli parve che quella non sentisse. È la serva?

— È Ornella, — disse Ola.

— Ornella, un bel nome. Ma sta con voi? [p. 10 modifica]— Sì, con noi. È la cugina del mio primo papà che è morto, e fa tutto in casa.

— Ho capito. È una parente povera.

Poi parlarono di cose più importanti. Sopra la siepe a destra del viottolo, fra le tamerici cineree appariva l’azzurro intenso del mare; e adesso Ola volgeva da quella parte gli occhi un po’ incantati.

— Chi fa tutta quell’acqua? — domandò sottovoce, presa dal grande mistero.

— Ah, ne avremo del tempo per rispondere; — egli esclamò forte; e d’un tratto vide il vuoto dei suoi giorni disoccupati riempirsi come l’orizzonte del mare.

— Tu, non vai a scuola?

— Io no; ancora sono piccola.

— Bene, la scuola te la farò io. Andremo sulla spiaggia e ti dirò chi fa tutta quell’acqua.

Ma lei già non aveva simpatia per la scuola, e osservò che sulla spiaggia ci sono le conchiglie; meglio che studiare è, certo, raccogliere le conchiglie. Anche i fiorellini le piaceva cogliere, e vedendone una fila tremolante sull’erba del viottolo pregò il nonno di farla scendere. Prima però, toccando ancora la spilla, volle dirgli una cosa in segreto.

— Non dirlo a nessuno, che me la dài.

Mai egli aveva ascoltato un segreto più delizioso; e il soffio di quella bocca [p. 11 modifica]profumata gli sturò le orecchie come una fresca lavanda.

Quanti segreti non sarebbero seguiti a questo?

Un secondo ne seguì infatti subito dopo, avendo egli affermato, per dar maggior valore al suo dono, che la spilla era d’oro.

Ola diede una guardatina alla donna, arricciò il naso con malizia, e mettendo in derisione e in dubbio l’affermazione di lui gli disse sottovoce all’orecchio:

— D’oro? Di quello che caca il moro?

La parolina sporca fu per entrambi la più divertente del mondo. Entrambi risero forte, guardando alle spalle la formidabile serva, complici ormai e compagni.

Ed egli sentì con quella risata disfarsi tutti i suoi anni dopo l’infanzia, e ritornato al punto di partenza della felicità animale dell’uomo, che è la sola vera felicità, i prati e la spiaggia, i viottoli fra le tamerici e tutti i recessi del felice paesaggio gli sorrisero come al bambino che ha finatmente trovato il compagno col quale goderseli. [p. 12 modifica]


Ornella si fermò davanti a un cancello di ferro verniciato di rosso vivo, depose per terra le valigie e aprì.

Il maestro e Ola venivano piano, chiacchierando, lei col viso in aria, lui a testa bassa per sentire meglio; e non si accorgevano di altro; tanto che egli sollevò gli occhi e guardò un poco trasognato la donna e il cancello che gli sembrò dovesse scottare. E forse per contrasto con questo rosso di fuoco, e col rosso dorato di melagrana della villa che si vedeva in fondo al viale d’ingresso, il giardino ove entrarono gli parve piantato sul letto asciutto di un fiume: in realtà il terreno era bianco e sabbioso, e gli alberi pallidi, argentei, avevano come un riflesso d’acqua.

In questo sfondo chiaro, il violetto dei giaggioli e il rosso delle rose spiccavano esasperati con tinte di porcellana.

Due grandi terrazze a colonnine si sporgevano sulla facciata della villa, e sotto quella del primo piano un piccolo portico, col pavimento [p. 13 modifica]stuccato e le colonne rivestite di rose rampicanti, circondava il portoncino d’ingresso: tutto era grazioso e pulito, e il maestro provava un senso misto di soddisfazione e di soggezione pensando che quel dominio signorile apparteneva alla nuora, e quindi anche al figlio: osservava però le finestre tutte chiuse in faccia allo splendore del mare, con l’impressione che l’interno della villa fosse oscuro e disabitato.

Infatti Ornella non si diresse al portico, ma svoltò lungo la facciata laterale, e quando fu dietro la villa spinse una piccola porta nel cui vano apparve lo sfondo di una cucina. Un fitto pergolato di fichi e viti che si appoggiava ai muri della casa ne oscurava tutto il piano terreno: ombra nella cucina dove la serva senza tante scuse introdusse l’ospite; ombra nella stanza che vi si vedeva attigua: onde egli provò una nuova delusione per questa accoglienza umile e fredda della villa appariscente solo di fuori come una bella donna ritinta e sorridente ma senza cuore.

La bambina però lo confortò subito, toccando e battendo con l’unghia la pentola turchina che bolliva e odorava di buono sui fornelli umidi di vapore.

— Qui c’è un pollo. Vuoi guardare?

— Finiscila con le sciocchezze, — disse la donna urtandola col ginocchio; e la fece [p. 14 modifica]andare avanti, tra le due valigie, spingendola un po’ brutalmente.

Questo non piacque al maestro; nè questo nè la penombra della saletta da pranzo, che attraversarono per arrivare ad un’altra stanza, anch’essa piccola, triste e quasi tutta occupata da un grande letto di legno la cui coperta verde accresceva il pallore della donna che vi giaceva. Ella sollevò la testa, fra un’onda di capelli neri crespi, e fissò con occhi lucidi spaventati l’uomo che si piegava per salutarla: pareva non ricordasse ch’egli doveva arrivare, o che fosse lei ad arrivare di lontano presso gente che non conosceva.

La bambina, il cui viso s’era affilato e fatto serio, gridò buttandosi sull’altra sponda del letto:

— Mamma, è il nonno. È il nonno che è arrivato.

— Ma sì, lo so, — disse la donna infastidita; e chiuse e riaprì gli occhi quasi per raccogliere quel suo sguardo stordito e sostituirlo con uno più cosciente: ma era come chi ha un gran sonno e non riesce a restare sveglio.

Chiuse di nuovo gli occhi e tirò fuori dalle lenzuola le braccia nude, bianche, senza vene, tendendo le mani al maestro.

Egli prese quelle mani, stranamente grandi e scure in cima alle braccia esili, e le sentì palpitare forte: ma una era chiusa, con qualche [p. 15 modifica]cosa dentro, ed egli subito l’abbandonò. Il braccio ricadde e dalla mano che si aprì alquanto spuntarono i grani di un piccolo rosario di madreperla.

Questo gli fece piacere.

— Come va? — domandò sottovoce, con accento subito famigliare. — È possibile che queste febbri non si possano rompere?

— Son dieci anni che le ho. È malaria, e non c’è rimedio. Adelmo ha fatto di tutto, per guarirmi. Anche dalle Indie ha fatto venire una polverina. Anche dalla chiromante è andato, Adelmo.

Adelmo era il suo primo marito, e il maestro osservò che la voce di lei aveva un timbro sognante nel pronunziare spiccatamente quel nome come fanno i bambini con le parole nuove che a loro piacciono perchè per loro sono tutto un mondo di misteriose sensazioni. Capì ch’ella durante il suo stato febbrile riviveva nel passato; ed ebbe scrupolo a turbare oltre quella intimità che apparteneva a lei sola.

Ma anche lei indovinò il pensiero di lui, dal modo come egli le rimise la mano sul lenzuolo, e cercò di destarsi meglio; adesso gli occhi si aprirono bene, quasi con malizia, la voce si schiarì.

— Mi scuserà se non sono venuta alla stazione. Domani vedrà che sono un’altra donna [p. 16 modifica]Anche Antonio ha lasciato detto di scusarlo. È tanto buono anche lui. E adesso vada a lavarsi e a mangiare. Vada.

Egli obbedì. Quando furono nella stanzetta da pranzo, dove Ornella aveva deposto le valigie, la bambina aprì il cassetto della credenza cercando di trarre la tovaglia: voleva apparecchiare lei, per il suo nonno, ma anche questa volta la donna la spinse in là col ginocchio.

Allora egli disse un po’ aspro:

— Lasciala fare: bisogna pure che impari.

L’altra non rispose; solo lo guardò d’alto in basso coi suoi placidi occhi verdastri; sguardo tranquillo che tuttavia lo avvertiva che la padrona in quella casa era lei.

— Favorisca nella sua camera, — disse dopo un momento, trasportando le valigie; ed egli vide che la camera assegnata a lui era la più melanconica di tutte. Macchie d’umido decoravano con strani disegni gialli le pareti, e sul pavimento rotto, nella penombra verdiccia, gli parve di vedere correre uno scarafaggio; ma accanto all’uscio Ola guardava, intimidita e curiosa, e la sua vestina rossa illuminava come un fuoco d’inverno la stanza.

— Venga pure avanti, signorina, — egli disse inchinandosi; e con una mano le offrì una scatola, e con l’altra, fra l’indice e il pollice, il fiorellino d’oro della spilla che si era tolta dalla cravatta. [p. 17 modifica]Ola si avvicinò lenta e cauta; prese i doni in silenzio, con indifferenza, tendendosi piuttosto a guardare dentro il caos delle valigie aperte tutto un mondo ancora per lei sconosciuto; e perchè ciò non le fosse proibito, per associazione d’idee promise sottovoce al nonno:

— Ti porterò a vedere le galline e il cavallino piccolo.

Egli avrebbe preferito veder prima la villa; infatti dopo che ebbero mangiato e Ornella andò a lavare i panni nella fontana attigua alla casa dei contadini, domandò se le chiavi appese accanto all’uscio della stanza da pranzo erano quelle dei piani superiori.

— Sì, ma papà non vuole, a toccarle, — disse lei contrariata, poichè lo vedeva staccare le chiavi. Per un attimo l’istinto di proprietà le diede uno sguardo ostile, quasi bieco; poi lei stessa accomodò le cose; — tu puoi comandare a papà, che è tuo figlio, vero? Lui non ti sgrida.

Egli mise l’indice sulla bocca: e andarono. Ella camminava in punta di piedi, con la bambola dai capelli di lana color mattone, ch’egli le aveva portato, abbandonata sull’omero; e lo guidò, gli indicò quale era la chiave del portoncino d’ingresso e quelle degli appartamenti.

Ed ecco si trovarono come in una casa incantata. Il pavimenro era lucido, di mattonelle a rose gialle e turchine; la scala di marmo, le [p. 18 modifica]pareti stuccate e decorate di festoni di fiori e frutta; tutto di cattivo gusto, meraviglioso però agli occhi di Ola e forse anche a quelli del nonno. Ella guardava le cose, poi guardava lui, e vedendolo approvare con cenni della testa e scuotere una mano per significare: — queste sono sciccherie, sì; — stringeva i dentini per non ridere di piacere.

— Accendi, accendi, — disse piano: e lui accese. La luce elettrica rese più lustre le cose; ed ella andò su strofinandosi come un gattino alle pareti, mentre gli occhi di uccello della bambola guardavano anch’essi furtivi e meravigliati tra la frangia della capigliatura barbarica.

— Qui ci viene tutti gli anni un conte; — disse poi Ola davanti alla porta di recente verniciata del primo piano; e si strinse un po’ al nonno, con soggezione, quasi che il nobile inquilino fosse là dentro. Anche là dentro accesero la luce; e i pavimenti, le dorature, faccie di donne dipinte sulle testiere dei letti, s’animavano e si colorivano, poi allo spegnersi della luce si annerivano di nuovo e parevano nascondersi.

Ella aveva piacere di questo giuoco, e pregava il nonno di accendere e spegnere. Sebbene fosse entrata solo poche volte nell'appartamento, ne conosceva minutamente gli oggetti, e glieli indicava sottovoce; non toccava nulla però, e [p. 19 modifica]tentava di non sfiorare i mobili nemmeno con la sua vestina.

L’appartamento era affittato tutto l’anno al conte, che veniva con la famiglia per la stagione balneare, e a volte anche in primavera: il secondo piano, più modesto, con mobili semplici sebbene nuovi, e le materasse rivoltate che puzzavano di naftalina, si affittava solo l’estate.

Eppure a Ola piaceva di più, e ne aveva più confidenza; perchè era sempre ammessa e ben ricevuta nelle famiglie guarnite di bambini che di solito venivano ad abitarlo.

— Qui poi, c’è un’altra cosa! — disse al nonno spingendolo verso l’uscio del salotto.

Giusto nel salotto la luce non funzionava; ella entrò lo stesso, guidata da quella del corridoio, e si tirò appresso il nonno fino all’angolo accanto alla persiana della terrazza.

— Guarda qui, ma non toccare — disse sempre sottovoce.

Egli si piegò per veder meglio; seduta su di una poltroncina stava una bambola di pezza, vestita di azzurro: gli occhi, i capelli biondi, il naso e la bocca erano dipinti sulla tela, eppure risaltavano come veri; anzi al nonno parve che le labbra tirate un po’ in su da un lato si movessero ironicamente, e che tutta la bambola avesse qualche cosa di vivo e di malizioso.

— Ti sei spaventato? — domandò Ola [p. 20 modifica]canzonandolo: poi lo rassicurò: — è una bambola come questa,

Abbassò la sua, fra le mani, con cura materna; l’accostò all’altra, costrinse le due misteriose creature a baciarsi; e tutto questo la divertì talmente che il riso da troppo tempo chiuso in bocca le sprizzò dai dentini stretti come un’acqua sorgiva che rompe anche la roccia. Allora il nonno sentì sciogliersi quella specie d’incanto servile che li spingeva a errare come ladri nella casa che infine era di Ola: e gli parve che questa e le due bambole si beffassero allegramente di lui.

— Questa casa è tua, — disse con voce ribelle; — speriamo che quando sarai grande te la godrai.

Poi aprì d’un botto la persiana sulla terrazza, e il mare riempì la stanza con tutto il suo azzurro e i fuochi delle vele rosse all’orizzonte.



Verso sera la donna malarica si sentì sfebbrare. Era come il rinfrescarsi dell’aria nelle notti estive, e il sudore che le inumidiva la pelle arsa le dava l’impressione della rugiada. Anche i capelli che durante la febbre le pareva pesassero [p. 21 modifica]neri e ardenti, si alleggerivano, quasi svaporavano come una nuvola che il vento spande e discioglie.

Col senso della realtà le tornava quello della gioia di vivere: i due giorni che la separavano dal nuovo assalto della febbre le parevano due anni; e si disponeva a viverli come il convalescente un lungo periodo di salute. Tutto era rinnovato e lieve; anche la sua bambina, che sapeva per istinto quel momento di felicità e ne profittava per folleggiare intorno alla stanza, le sembrava più bella, più viva.

Ricordandosi che il suocero era venuto ad abitare con loro, sentì gioia anche di questo: finalmente aveva con chi sfogarsi.

— Dov’è il nonno? — domandò alla bambina.

— È di là che fuma la pipa.

— Anche lui! — ella si lamentò, poichè sapeva per esperienza che presso gli uomini vecchi e giovani la pipa è un grande rivale delle donne.

— Ma lui non butta la cenere qua e là anche sui piatti come fa il babbo: la mette in uno scartoccino e dice che è buona per ammazzare le formiche.

— Digli che venga qui, per piacere: e tu bada un po’ in cucina che non entri qualcuno finchè non torna Ornella.

La bambina non chiedeva di meglio, perchè [p. 22 modifica]quando era sola in cucina impastava qualche piccola focaccia, o metteva a cuocere una patata tra la cenere calda; quel che avveniva avveniva, poi.

Ancora tutto impregnato d’odore di tabacco forte, il nonno entrò solo nella camera della donna, e alle domande di lei se si era annoiato, se la bambina lo aveva fatto inquietare, rispose con enfasi:

— Questo è uno dei più bei giorni della mia vita!

— Se il primo giorno è stato buono, gli altri saranno migliori, — ella disse cordialmente. — Si metta un po’ a sedere lì, se non le dà noia.

Adesso sto bene: domani non avrò più nulla e baderò io a tutto. Ornella è brava e attenta, ma non è mai come la padrona di casa.

Il maestro sedette accanto al grande letto che con la sua coperta verde, sotto la luce che moriva nella piccola finestra otturata dal fogliame del giardino, dava l’idea di un prato al crepuscolo.

Molte domande egli desiderava rivolgere alla nuora, ed era contento adesso che ella gli venisse incontro spontaneamente; ma la voce di lei, bassa e intensa, e che pure aveva come una sonorità cavernosa, gli destò subito un senso di mistero.

Anche la figura di lei gli appariva strana, [p. 23 modifica]lunga e appena delineata sotto la coperta ov’ella si teneva tutta raccolta fino al mento, con la bella testa bianca e nera così sprofondata nel guanciale che vi pareva dipinta.

— Sono contenta che lei si trovi bene qui, — ella riprese senza guardarlo; — è da tanto che si desiderava averla con noi. Non passa giorno che suo figlio non parli di lei, con affetto e devozione; e continuamente rimpiange i dispiaceri che le ha dato.

— Macchè dispiaceri!

— Sì, le par poco, di non aver seguito il suo desiderio, di studiare, di prendere almeno un diploma? Ha preferito fare tutti i mestieri, mentre con la sua intelligenza chi sa dove poteva arrivare. È vero che allora forse non ci si sarebbe incontrati. — osservò con voce ancora più bassa, — e la nostra bambina non sarebbe al mondo. Io non concepisco più il mondo senza la nostra bella bambina. E quando lui si lamenta e rimpiange di non aver seguito i consigli paterni, io questo glielo dico: allora egli guarda la bambina, e non parla; ma gli occhi gli si fanno lucidi come voglia piangere.

— Del resto siamo felici così, — riprese più forte: — troppo felici forse. Ho persino paura: Antonio è buono, allegro, affettuoso. Ha solo il vizio del fumo; la sua pipa funziona fin dalla mattina presto, e dove passa lui non si fa che [p. 24 modifica]raccogliere cenere e fiammiferi spenti. Ma si sa, i doveri di una buona moglie sono molti. Si fermassero qui! E poi io devo farmi perdonare questo malanno, di stare un giorno su e tre a letto, malanno che riconosco di essermi procurata io col voler troppo bene al mio primo marito. Lei sa che era capitano di lungo corso e padrone di barche, il mio povero Adelmo. Una volta sposati io lo volli seguire dovunque, anche perchè ero gelosissima; così andai con lui fino a Porto Corvo, dove il paese intero è stato distrutto dalla malaria. Ma la mia gelosia non conosceva pericoli, tranne quello di essere fondata. Adelmo mi diceva: è un peccato, il tuo, e Dio ti castigherà. E Dio mi ha castigato. E nei giorni della febbre mi pare che egli sia vivo ancora e mi dica: vedi, adesso se voglio farti torto con qualche altra donna non puoi più corrermi appresso. E ne soffro molto, perchè mi pare ch’egli mi tradisca davvero.

— È morto giovane? — domandò il maestro, un po’ geloso a sua volta, per conto di suo figlio, di questo strano rivale.

— Giovane molto non era, ma lo sembrava. Ma non parliamone più; è una cosa tanto lontana, — ella mormorò chiudendo gli occhi come per non veder più il passato, o meglio per nascondere la sua passione ancora viva. — Per qualche anno, poi, le febbri parvero scomparse: [p. 25 modifica]adesso, dall’estate scorsa, di nuovo mi tormentano. Dicevo, dunque, suo figlio è tanto buono da aver pazienza, e tutti i rimedi cerca per farmi guarire, e oltre la pipa altri vizi non ha. Gli piace solo qualche buon bicchiere, ma a chi non piace un buon bicchiere di vino?

— Io per esempio sono astemio.

La donna lo guardò di sotto le ciglia abbassate, con malizia e compassione.

— Io non ho mai conosciuto un uomo che non bevesse vino, e poche donne anche. Qui tutti lavoriamo, e non abbiamo teatri nè altri divertimenti. La vita è dura e il solo rimedio è un buon bicchiere di vino.

— Ma voi avete una buona rendita.

— A furia di fatica, appunto. La terra è ingrata, il mare infido: e contadini e pescatori tutti d’intesa a pigliarsi la parte più grossa. Il povero Adelmo la conosceva bene, questa gente, e quindi riusciva a dominarla: specialmente la canaglia di mare, come egli la chiamava. Aveva viaggiato fin da bambino, fino alle Indie e all’Australia, e diceva che i porti di mare sono come vasi di latte e di vino; attirano tutte le mosche più infette. Antonio invece, — riprese dopo la breve pausa che invariabilmente divideva il suo ricordo del morto da quello del vivo, come se allo staccarsi dal passato una lacuna si formasse nel suo pensiero, — Antonio [p. 26 modifica]è fatto più alla buona; anche lui ha girato il mondo, ma la gente non l’ha conosciuta, no; ha girato come un ragazzo che scappa con denari in tasca, e si diverte. Nei primi tempi dopo che ci siamo sposati tutti lo raggiravano, o meglio ci raggiravano, perchè poco pratica ero pure io. Dopo, abbiamo imparato a nostre spese. Lui, poi, amava il divertimento; ballava tutte le notti, e di giorno anche. Di lui non sono gelosa, ma, dico la verità, ho passato brutti momenti a causa delle donne.

Il maestro rise, piano piano. Antonio non aveva vizi; vino, tabacco e Venere, sono cose a cui l’uomo di mondo non deve sottrarsi.

— Poi, visto che le cose andavano male, ha messo giudizio. Devo dire però che con me, anche nei momenti più brutti, è stato rispettoso e umile. Quando un uomo confessa i suoi errori e promette di non ricaderci, che si può fare? Magari chiudere un occhio, se non mantiene la promessa, specialmente se c’è di mezzo qualcuno a cui nascondere le debolezze umane.

— Tu parli come una santa, — esclamò il maestro. — E adesso....

— Adesso, — ella interruppe, già pentita di aver parlato troppo, — tutto va bene. Antonio sorveglia i contadini e coi pescatori combatte corpo a corpo. Giusto oggi è andato a Porto Corvo perchè ha saputo che gli uomini delle [p. 27 modifica]nostre barche depongono laggiù del pesce di frodo.

— Quante barche avete?

— Quattro, adesso. Il povero Adelmo è arrivato ad averne sei, come un branco di cavalli. La rendita è buona, ma le spese e le tasse grandi. Così pure per la casa: il vento di mare ha denti di lupo.

— E voi vivete qui, — egli disse guardandosi intorno per la camera terrena piccola e triste; ma la donna non parve neppure capire che si poteva vivere, almeno una parte dell’anno, nelle stanze belle della casa.

— Si sta bene, qui; non c’è da fare le scale. Col povero Adelmo, prima di fabbricare questa villa, si viveva in una cameretta sola, in paese.

— Eppure si era più felici.

— Oh, no. Si era giovani, e quindi più resistenti.

— Ma ancora sei giovane, — disse il maestro guardando il profilo puro di lei che spiccava quasi argenteo fra la macchia nera dei folti capelli: ed ella sorrise, per avvalorare l’affermazione di lui, mostrando i denti intatti; ma era un sorriso lievemente amaro.

— Ho quindici anni più del suo Antonio.... Anche per questo.... non sono più giovane come allora.

Ritirò il sorriso, nascose i denti, come si ritira [p. 28 modifica]e nasconde un gioiello dopo averlo fatto appena vedere. Allora il maestro si piegò verso di lei con le mani giunte e disse sottovoce:

— Inoltre non c’era la bambina, allora.

E tacquero entrambi come pregando.

Lo spirito della bambina aleggiava intorno, spandeva un senso di mistero religioso nella tristezza della camera ove le cose s’annerivano e la finestra diventava cieca.

Un istinto indefinibile avvertiva il maestro che la donna, sotto la superficie della sua voluta e anche creduta felicità, nascondeva un male intimo che non cessava con il cessare della febbre; e lei a sua volta intendeva questo presentimento di lui; ed entrambi desideravano confidarsi ma non potevano.

Lo spirito della bambina tesseva intorno a loro una rete più luminosa e fragile di quella del ragno intorno a un cespuglio: e li univa, ma in pari tempo impediva loro di pronunziare una sola parola che potesse disperdere la sua opera: per lei si doveva tacere, per lei l’atmosfera non doveva essere turbata neppure da un soffio.

— Illusione, forse, — pensò il maestro: ma egli sapeva che l’illusione è il sangue dello spirito umano.

E, poichè il silenzio suo e della donna cominciava a tingersi d’angoscia e le parole [p. 29 modifica]tentavano di sboccare come un elemento che fa violenza, a romperlo e illuminarlo ci pensò lei stessa, la bambina, battendo con le unghie ai vetri fuori della finestra: la sua vestina rossa incendiò e disperse il grigio dell’ombra, e il suo sorriso ridestò le forze della vita.

Era già notte e il padrone della casa non tornava. Il nonno e Ola lo aspettavano seduti accanto alla porta della cucina, mentre Ornella, dopo aver portato da mangiare all’ammalata, friggeva qualche cosa sui fornelli.

Il maestro si volgeva ogni tanto a guardarla, quasi senza volerlo, con uno sguardo d’istinto come quello che la bambina rivolgeva alle cose e alle persone ancora a lei sconosciute. Quella ragazza che aveva già le forme sviluppate di una donna di trent’anni, con le sue treccie bionde un po’ aspre, come di spighe mature, attorcigliate e quasi legate intorno alla testa forte, la pelle bianca lievemente lentigginosa, le avambraccia piene che rassomigliavano a due anfore slanciate col grande fiore delle mani in cima, gli pareva di averla conosciuta altre volte, dove e [p. 30 modifica]quando non riusciva a ricordare. E non gli piaceva, sebbene la vedesse straordinariamente attiva e silenziosa, dedita solo alle faccende della casa: quel suo silenzio stesso, animato da un lieve ansare di benessere fisico, e la pienezza dura della persona di lei, e anche un odore animale che spandeva intorno, gliela presentavano come una bella bestia addomesticata.

Ella cucinava senza mai piegarsi sui fornelli un po’ bassi, e pareva guardare con lieve sdegno, dall’alto, le cose che toccava. Ogni volta che la bambina tentava di avvicinarsi la respingeva forte con la palma della mano destra. Ola tornava a rifugiarsi presso il nonno; e stavano lì tutti e due accanto all’uscio silenziosi anche loro, come si conoscessero da anni e si avessero detto tutto.

La sera, fuori, era fresca ancora, buia sotto il pergolato e più in là grigia con qualche sprazzo di chiarore che arrivava dalla casa dei contadini: di là veniva anche un odore di concime che turbava il profumo del giardino.

Quando Ornella cessava di friggere si sentiva il mormorìo del mare, e su questo sfondo di suono opaco e freddo un grillo ricamava già la trina metallica del suo zirlare.

Ma ecco d’un tratto come un improvviso soffio di vento scosse la quiete esterna; s’udì distinto lo schioccar d’una frusta, fra un grappolo di [p. 31 modifica]note squillanti di campanello; poi una voce che gridava jò, jò, con timbro giovanile, fece tacere ogni altro rumore. Gli occhi della bambina si riempirono di luce.

— È il babbo, — disse alzandosi in punta di piedi come per vederlo di lontano. Poi tutta vibrante si accostò al nonno e gli mormorò all’orecchio:

— Vogliamo fargli una burletta? Ci nascondiamo dietro l’uscio, e quando lui entra gli facciamo paura?

Il nonno acconsentì: e di nuovo fu tutto una cosa con lei, dietro l’uscio sul quale Ola premeva la bocca per frenare il suo riso.

Ma il cane che precedeva il padrone minacciò di guastare la burla, quando balzò dentro ansante con la coda in aria, fra l’allegro e il sospettoso; e ispezionata rapidamente la cucina galoppando come un piccolo cavallo bianco con la sella nera, abbaiò contro l’uomo sconosciuto: si accorse però che Ola gli faceva segno di tacere; stette quindi incerto, con la coda e la testa alte, guardando la scena coi suoi occhi umani.

Anche Ornella si degnò di partecipare alla burla.

— Ola non c’è, è andata a spasso con il nonno, arrivato questa mattina, — disse senza voltarsi quando Antonio entrò: e abituato a questi raggiri, egli finse di crederci. [p. 32 modifica]

— Ah, bravi, se ne sono andati a spasso? E io che avevo portato un uccellino a quella birbona! Adesso lo lascio scappare.

Allora lei non potè resistere e spinse l’uscio gridando:

— Siamo qui! siamo qui!

E i due uomini si abbracciarono, intrecciati a lei in silenzio.

Le parole vennero dopo. Antonio andò da prima a vedere la moglie, poi sollecitò Ornella perchè apparecchiasse, infine portò su dalla cantina due lunghe bottiglie di vino così polverose che pareva provenissero da qualche scavo di antica città; e invitò il padre alla mensa battendogli la mano sulla spalla come per dire:

— Finalmente! Finalmente posso restituirle qualche cosa. Andiamo.

Rientrò anche Tigrino, il gatto vagabondo, che aveva gli occhi glauchi di angelo e nel camminare pareva si allungasse e si restringesse entro le spire delle sue striscie grigie gialle e brune: e d’ammirevole accordo col cane andarono a mettersi tutti e due sotto la tavola. [p. 33 modifica]

La tavola era apparecchiata come per le feste. Ornella, indovinando le intenzioni di Antonio, aveva messo la tovaglia pulita e stirata, i piatti senza incrinature, i cristalli per appoggiare le posate; sollevò poi la lampada perchè la luce, piovendo dall’alto, rendesse più morbide le cose.

E collocò Ola in modo da non molestare i due uomini, avvertendola sottovoce che l’avrebbe servita lei e che stesse zitta.

Ola stava zitta, ma notava benissimo lo sfarzo insolito, e i suoi occhi non cessavano di guardare il padre, poichè anche lui le pareva diverso, apparecchiato meglio degli altri giorni, vale a dire più bello e più buono ma anche più vanitoso del solito; e sentiva aria di festa intorno, come quando si invitava qualcuno e pur costretta a non muoversi e tacere si divertiva più degli altri nell’ascoltare cose e vedere visi nuovi. Trasalì quindi, poichè il padre, dopo aver riempito il piatto del nonno di fette di prosciutto bianche e rosse come piccole bandiere, disse allegro e curioso:

— E dunque, mi racconti.

Ed ecco anche il nonno prendere un altro aspetto: era un uomo che veniva da paesi lontani e parlava al figlio in modo diverso del come parlava a lei; anche Ornella era un’altra, oh bene un’altra di quella delle sere quando la mamma stava a letto. Adesso aveva il grembiale [p. 34 modifica]bianco e per servire a tavola si piegava come i camerieri nella trattoria dello stabilimento balneare. Un alone fantastico circondava la tavola, e lei provava il sentimento di uno spettatore in teatro quando nella scena la realtà è capovolta e pure prende il cuore più che la realtà vera.

Il nonno parlava, interrompendo il suo lento mangiare, con la sua voce sorda e come pietrosa; non erano grandi vicende, ma insomma erano cose ancora non sapute, non sentite mai, e le esclamazioni e le interruzioni del padre, che dimostrava non meno di lei d’interessarsi al racconto, lo colorivano meglio.

Poi cominciò a raccontare anche lui, il padre: erano cose note, queste, ma raccontate da lui parevano nuove, anche perchè realmente avevano particolari e rafforzamenti finora non conosciuti. Una o due volte ella ebbe desiderio di mettere le cose a posto, ma non osò.

Il maestro a sua volta ascoltava, e guardava il figlio come lo vedesse la prima volta: e quel senso di distanza che aveva provato al suo arrivo nel trovarsi solo davanti alla stazione tornava ad attraversargli l’anima: di nuovo però la presenza della bambina colmava questo spazio desolato.

— Ti sei irrobustito, — disse guardando i polsi forti e poi la testa possente del giovane, — ti sei fatto uomo. [p. 35 modifica]

E parve calcare su quest’ultima parola, con una lievissima tinta di rimpianto; poichè non lui, come aveva sperato, ma la vita stessa con le sue forze fatali aveva fatto del giovane un uomo.

Questi intese, e parte con sincerità parte per effetto del buon vino che gli si mescolava al sangue, non trascurando di guardarsi di lontano come un buon attore nello specchio di fronte sulla parete, si mise a declamare.

— Tutto a lei devo! E non dimentico nulla, no: lo stesso stato di benessere in cui attualmente mi trovo, lo devo ai suoi buoni insegnamenti, al suo esempio. Se qualche volta mi sono trovato sull’orlo dell’abisso e tosto ho pensato a lei, mi sono sentito tirare indietro. E può dirlo quella santa donna distesa su quel letto di dolore, quante volte in sogno mi ha sentito pronunziare il suo nome; e questa bella creatura può dire come le ho parlato di lei ancora prima che di Dio; non è vero, Ola?

Ola scoppiò a ridere: riso di contentezza, nel vedere il padre rivolto così solennemente a lei, ma che poteva parere anche di beffa: tanto è vero che Ornella le diede un colpettino sulla testa, mentre ritirava i piatti, senza del resto dimostrare di porre la minima attenzione ai discorsi di quei due.

— Non esageriamo, — disse il maestro, con [p. 36 modifica]quel lievissimo accento di ironia che a volte gli risonava nella voce come a sua insaputa. — Io potevo fare di più, per te; il guaio è che, come i padri veri, sono stato debole. Ma poichè la sorte ti ha aiutato e tu sei contento, ringraziamo pure il Signore. La felicità è con noi.

Si rivolse anche lui alla bambina, facendole un cenno di saluto; ella ascoltava, con gli occhi raggianti, e questa volta non rise, perchè non aveva capito bene, ma con una mossa graziosa della testa rispose un po’ ironica al saluto del nonno.

E il padre bevette ancora sollevando il bicchiere verso di lei.

Rimasti poi soli, i due uomini parlarono con più libertà, fumando la pipa. E anche le loro pipe dimostravano il loro carattere diverso; corta e tutta di un pezzo quella del maestro, di radica annerita dal tempo, col fornello preistorico; lunga e col bocchino guarnito d’argento quella di Antonio. Fumavano anche in modo diverso, il primo tenace e profondamente voluttuoso come un bambino che succhia la mammella materna, [p. 37 modifica]l’altro con violenza, togliendosi ogni momento la pipa di bocca per sputare senza riguardo.

— Se sono proprio contento? Ma proprio contento, sì, — esclamò con enfasi che però sembrava sincera. — Lo sarei di più, certamente, se Marga, mia moglie, non avesse quel malanno. A dirlo in confidenza, anche per il parere del medico, ritengo sia più che altro una cosa nervosa, che spero le passerà col tempo e se lei acconsentirà a cambiar aria. Ma è una donna testarda in quanto a questo: non esce mai di casa e non ama gente estranea.

— Io allora?

— Ah, lei è un’altra cosa. Lo aspettava come il messia. Da tanto tempo lo aspettava; e credo appunto che la sua presenza le farà bene.

— Sì, ho notato anch’io qualche cosa di strano negli occhi e nella voce di tua moglie. Per esempio, parla in modo curioso del marito morto.

Antonio depose la pipa sulla tavola, in modo brusco, e rise: di un riso però falso e teatrale.

— Ci siamo! Questa appunto è la sua fissazione: ricordarsi del suo famoso Adelmo come di un eroe o di un santo. Io credo lo faccia un po’ per ingelosirmi. Questo Adelmo io non l’ho conosciuto, ma ne ho sentite! Già era più vecchio di lei, e da una fotografia che lei tiene nascosta come una reliquia, si vede una brutta [p. 38 modifica]faccia lunga che non finisce mai, con due occhi incavati di arpìa. Dicono, inoltre, che negli ultimi anni, durante la guerra, egli avesse una grande simpatia per i nemici, coi quali comunicava per mezzo delle sue barche.

— Parli troppo male, figlio mio, — osservò bonariamente l’altro. — E tua moglie pare riesca a ingelosirti davvero.

— No, no, — protestò Antonio, riprendendo la pipa che osservò a lungo come non l’avesse mai veduta. — Sarebbe una cosa contro natura. E io, perbacco, sono sano e allegro; senza scrupoli nè pensieri; tanto è vero che questa pipa, la vede? era del bravo Adelmo che l’aveva comprata in Olanda, lo ci fumo dentro con grande piacere.

Infatti se la rimise in bocca con fare spavaldo. Allora il maestro pensò non essere solo della pipa che Antonio profittava; e non seppe perchè sentì come un sapore di ruggine nella sua saliva.

Le mezze confidenze di Marga gli tornarono tutte in mente.

— Ella mi aspettava, — disse quasi fra sè. — È buona, vero?

— Buona e brava. Attivissima, non vive che per la casa, per me, per la bambina. La vedrà domani. Del resto si va pienamente d’accordo su questo: e se la roba è sua io ci metto il lavoro e tutto [p. 39 modifica]il mio sangue per farla fruttare. Oggi, per esempio, sarei dovuto venire incontro a lei; nossignori, ho dovuto correre per tutelare l’interesse della famiglia: ed anzi ho pensato: lui, mio padre, ne sarà contento.

— Hai fatto bene, infatti.

— E la roba frutta perchè io sono così; in mani di un altro tutto sarebbe andato alla malora. Ed io rendo conto a Marga fino dell’ultimo centesimo; e per conto mio, lei stessa lo può dire, vivo come un figlio di famiglia; oh, — riprese alzando la voce e sporgendo il petto: — non è detto che perchè sono scappato di casa e ho fatto del male al mio benefattore, non sia diventato un galantuomo.

Il maestro si sentì punto nei suoi più intimi pensieri; egli però non aveva paura dei suoi giudizi, e se gli altri li indovinavano. Gli piaceva anzi, quando ne valeva la pena, di fare il giudice istruttore, abitudine forse rimastagli dal tempo della scuola quando qualche fanciullo commetteva di nascosto cattive azioni ed egli tentava di strappargli dall’anima la verità e illuminarlo con la stessa rivelazione del male.

Così disse ad Antonio pacatamente:

— Se Marga tenta d’ingelosirti, come tu dici, e si abbandona a questa forma nervosa del suo malessere, avrà qualche ragione. Una donna del tutto felice non pensa a queste cose. [p. 40 modifica]

— Che ne sappiamo noi delle donne? Tutte, più o meno, specialmente in amore, hanno un ramo di pazzia. Marga è stata gelosissima anche con il primo marito, che era anziano e per niente una cima di bellezza; gli andava appresso anche di notte e lei stessa racconta che lo seguì in barca, durante la pesca: il maltempo li sorprese ed ella andò a rischio di lasciarci la pelle e le ossa. Con me, invece, non s’è mai dimostrata gelosa, ma credo lo sia, o almeno lo sia stata, nei primi tempi del matrimonio.

— Il matrimonio è una cosa santa, — disse grave il maestro; — e queste nuvole non devono oscurarlo specialmente quando ci sono i figli. L’uomo che si sposa assume una responsabilità davanti a Dio; è come un coltivatore che prende l’impegno di tirar su, sane e forti, le pianticelle nuove di una terra che gli viene affidata, e le seminagioni che egli farà. I figli sono il fiore della vita.

Antonio fumava, quasi indispettito che si mettessero in dubbio le sue ottime qualità di marito e di padre.

— Il matrimonio è una grande responsabilità, — disse infine, riprendendo quel tono declamatorio che era come un velo sulla sincerità delle sue parole; — ma se anche lei avesse preso moglie e sapesse quanta prudenza e pazienza ci vogliono per vivere d’accordo, non farebbe [p. 41 modifica]colpa a un uomo se qualche volta va a divagarsi innocentemente fuori di casa.

— Ah, ci siamo! Dunque torti gliene fai a tua moglie.

— Ma che torti! Torto è quando un uomo porta via di casa l’amore per la moglie e sopra tutto la roba. Ora io posso giurare che non ho mai speso il becco di un quattrino per le donne, anche perchè non lo meritano. Sono tutte più o meno sgualdrine, — affermò, sputando lontano, — e sono loro che vanno a cercare gli uomini, specialmente quando, via, accidenti alla modestia, sono giovani e forti come il sottoscritto. D’altra parte, appunto perchè si è esuberanti di salute, si ha bisogno di qualche svago. E neppure le mogli buone, come lo è Marga in fondo, fanno grande caso di questo. Non siamo più negli antichi tempi; e anche Salomone, del resto, ha avuto bisogno di più di una donna.

Il maestro smise di fumare; riconosceva ragionevole tutto quello che Antonio diceva; però ne provava dispiacere e quasi disgusto.

— Si va nel campo del vizio, allora, — ribattè, pur con la triste convinzione di non essere inteso; — ed io ammetto la colpa per amore, ma per vizio no. All’uomo deve bastare una donna, e alla donna un uomo, così comanda Dio, e così comandano anche le leggi della vita. So che io, se avessi preso moglie, non l’avrei mai tradita. [p. 42 modifica]

— Appunto per questo s’è guardato bene dal prenderla.

Il maestro non rispose subito, ma il suo viso che era rimasto pallido e chiaro come il suo bicchiere, si colorì di rosa. Sdegno, rimorso, rimpianto, o forse anche dolore, o forse anche vergogna? Forse tutti assieme questi sanguigni fiori di passione avevano percosso l’anima sua.

— Figlio caro, — disse, chiamandolo per la prima volta con quel nome, — tu forse hai ragione: non si può giudicare di quello che non si sa. Ed io e tu, qui, rappresentiamo come la realtà e il sogno. Tu sei vivo, ed io sarei morto se la morte stessa non fosse la grande maestra della vita. Che ne sai tu di me? Che ne sai che io non parli appunto per esperienza, per aver pure io vissuto e peccato, e che i miei insegnamenti non ti vengano dati per metterti in guardia contro il dolore?

Ma l’altro non capiva che l’esteriorità della parola.

— So io con chi ho da fare, — disse quasi brutalmente. — Ho troppo conosciuto il mondo e la gente per lasciarmi maltrattare più oltre. Nessuno può farmi del male.

— Il dolore non viene dagli altri, viene da noi stessi e dalla natura. Tu sei forte, sì, oggi, ma domani?

— Il domani è in mani di Dio, — rispose [p. 43 modifica]l’altro allegramente, versandosi l’ultimo bicchiere, e scosse la bottiglia vuota capovolta quasi volesse spremerla e trarne un vino nascosto nel vetro. Ma non bevette. Gli faceva pena, in fondo, che il padre fosse così malinconico; del resto si capisce, un uomo che non beve è sempre un poco predicatore e noioso; e lui pensava di scuoterlo, di fargli passare almeno qualche ora allegra. Cominciò col dargli del voi.

— Vi voglio raccontare come ho incontrato Marga, poichè si parla di lei.

Prima andò a vedere se Ornella s’era proprio ritirata nella sua cameruccia che comunicava con la cucina. Tornò a sedersi, bevette il suo ultimo bicchiere senza avvedersene.

— È una curiosona, quella ragazza! Sembra che s’infischi di tutto, ma sta sempre con le orecchie tese. Del resto è lei, Marga, che la vuole in casa, appunto perchè era gelosa delle serve, e perchè questa è parente del suo beneamato Adelmo.

— Dunque, — riprese con voce bassa e allegra, — io stavo qui, come ricorderete, appuntato di Dogana, e mi preparavo per l’esame di vice-brigadiere. Avevo idee serie, ambiziose; speravo di passare presto maresciallo e arrivare col tempo al grado di generale: perchè no? Ci sarei arrivato certo, con la buona volontà. Era un periodo nel quale non pensavo a donne. [p. 44 modifica]Avevo chiesto il trasloco in una città dove si poteva studiare meglio: e anche perchè qui c’era la moglie del maresciallo che nelle ore libere ci faceva lavorare, noi dipendenti, nel suo orto, che confina appunto qui con la vigna di Marga.

Marga era vedova da poco e non la si vedeva mai: io non la conoscevo che di nome o meglio di fama, perchè si dicevano tante cose sul marito morto, e cioè che era stato una spia degli austriaci, che aveva pescato un tesoro, che aveva rubato un bel gruzzolo a una sua vecchia zia, dalla quale era stato allevato, facendola così morire di crepacuore. Lavorando nell’orto della signora marescialla io guardavo la vigna il campo e la villa di Marga con una certa curiosità ironica, pensando alla vedova che da un anno non usciva di casa, per piangere quel bel tipo, il quale del resto, dicevano, si era arricchito per lei e le aveva lasciato tutto.

In fondo pensavo che Adelmo doveva aver guadagnato enormemente con la pesca in tempo di guerra, perchè le sue barche pescavano anche quando era proibito: ma la gente trova sempre da ridire, su un individuo che si arricchisce, e allora si parlava male di Adelmo come adesso si parla male di me che ne ho sposato la vedova: e molti dicono che l’ho sposata per interesse, mentre ho fatto una passione per lei. [p. 45 modifica]

L’ho amata ancora prima di conoscerla, ed è stato, si può dire, il mio primo vero amore.

Ero ancora quasi un ragazzo e se il mondo lo conoscevo in lungo e in largo e le donne non mi facevano paura, proprio innamorato cotto non lo ero mai stato.

La signora marescialla, quando scendeva giù nell’orto a sorvegliare il mio lavoro, mi parlava sempre della sua misteriosa vicina, dicendomi che era bellissima, che aveva destato grandi passioni, anche in un fratello di Adelmo andatosene per amore di lei nell’isola di Giava, dove infatti si trova ancora, fortunatamente: e infine che non era possibile neppure vederla perchè non riceveva nessuno, tranne che i più stretti parenti, e mai più sarebbe uscita di casa, fedele alla memoria del marito.

— Quanto scommette che io invece riesco a vederla? — dico alla marescialla, un giorno di ottobre. — Non è poi la casa dell’orco, quella senza porte e senza finestre. Ed io riuscirò a vedere la signora Marga nella sua camera, proprio nella sua camera.

La marescialla era anche lei una bella donna maliziosa, che stava volentieri in mia compagnia, e credo mi facesse lavorare nell’orto appunto per questo, mentre si divertiva a stuzzicarmi parlandomi sempre di amore, di donne, e specialmente di Marga. [p. 46 modifica]

— Tutto si può quando si vuole, — mi dice, con intenzione.

— Qualunque cosa succeda, lei però mi farà testimonianza che la mia intenzione è solo quella di vedere da vicino questa famosa bellezza.

Bisogna confessare che la marescialla mi tenne bordone in questa impresa, permettendomi di aprire un varco nella siepe onde poter penetrare nel campo qui dietro il giardino. Come ho detto era di ottobre e faceva ancora caldo: noi in caserma si dormiva ancora con le finestre aperte, e dalla mia vedevo, attraverso il pergolato, il chiarore di quella della camera di Marga.

Ed ecco che una bella notte penetro nel campo, con le scarpe di feltro di quando si va a sorprendere i contrabbandieri, e avanzo quatto quatto. Oh, dimenticavo di raccontare che mi avevo amicato il cane dei contadini, che spesso veniva verso la siepe, abbaiando contro le nostre galline: gli buttavo da mangiare e, come si sa, il cane, per il boccone, diventa amico dell’uomo. Cominciò ad abbaiare, infatti, appena io fui dentro nel campo, ma quando mi venne incontro e mi riconobbe si chetò; poi anzi mi precedette festevole come conoscesse le mie buone intenzioni e m’indicasse la strada.

Così arrivai accanto al pergolato. La finestra di Marga, voi l’avete veduta, è poco alta dal suolo; io mi piego sulle ginocchia, avvicinandomi [p. 47 modifica]sempre più per veder meglio. E la fortuna mi assiste; anche troppo.

Marga, che io credevo intenta a pregare per l’anima del marito morto, si lavava le braccia e il collo, come usa ancora, prima di andare a letto. Così io la vidi con le spalle e il seno nudi, i capelli tirati e attorcigliati sul sommo della testa: era bella come una statua di marmo. Quando si asciugò strofinandosi forte la pelle con l’asciugamano si fece tutta color di rosa: sollevò e guardò bene, voltandole e rivoltandole, le braccia freschissime, poi esaminò con attenzione un neo in forma di cuore che ha in mezzo al seno. Io mi buttai a terra quasi con spavento. E stetti lì finchè lei non chiuse gli scuri della finestra e tutto fu silenzio.

E non dissi nulla alla marescialla, preferendo perdere la scommessa pur di poter continuare indisturbato il gioco. Finchè una notte il contadino di Marga si accorse di me e per un pelo non mi tirò una fucilata. Io dissi che ero in diritto di entrare dove mi pareva e piaceva, per dovere di ufficio: e poichè ero innamorato cotto e non ne potevo più dal desiderio di parlare con Marga, aggiunsi che anzi dovevo perquisire la casa di lei. La casa fu tutta in subbuglio. Marga, che viveva sola con una servetta, si spaventò in modo che io ebbi rimorso di averla disturbata. La madre e la moglie del contadino [p. 48 modifica]accorsero scarmigliate come due streghe, il cane non ebbe più ritegno e cominciò ad abbaiare ma come protestando contro tutto quell’inutile movimento.

— Signora, — dico a Marga, — io avrei ordine di visitare la terrazza della sua villa perchè pare che, a insaputa di lei, qualcuno riesca a deporvi merce di contrabbando.

Lei non protestò, non oppose resistenza; mi fece dare la chiave della terrazza e ordinò al contadino di accompagnarmi: io dissi che era necessaria la sua presenza ed anche lei venne su con noi. Naturalmente non si trovò nulla; osservai però che sulla terrazza si apriva una porticina della soffitta e pregai Marga di aprirla. Lei mandò giù l’uomo a prendere la chiave. Rimasti soli, io me le inginocchiai davanti e le chiesi perdono.

— È lei il contrabbando che cercavo; ho pensato questo mezzo per vederla perchè non mi riusciva in altro modo.

Lei da prima si scostò impaurita, poi rise forte e disse in dialetto:

— Quanto è scemo e imbecille!

Eppure, quando tornai a cercarla di pieno giorno, mi ricevette, non solo, ma inviò la servetta per una commissione onde restar soli e parlare a nostro agio. [p. 49 modifica]

Marga si alzò all’alba, il giorno dopo; e fu come il sorgere del sole per la casa senza di lei annuvolata.

Quando il maestro, tutto lindo e pettinato, entrò nella cucina, ella aveva già rimesso in ordine le camere, aveva già visitato i contadini e parlato con le vacche, col puledrino e la cavalla, le galline e le anatre, l’acqua del pozzo, le piante e i fiori.

Adesso parlava con gli arnesi di cucina: tutto era buono per ricevere le espressioni della sua gioia di vivere e di muoversi.

Ad Ornella, invece, osservò il maestro, rivolgeva continui rimproveri; e quella li riceveva in silenzio, impassibile come una statua. Del resto Marga si calmava subito e tornava a ridere e rivolgersi alla bambina come ad una persona adulta, e infine a lui, al suocero, chiamandolo a testimonio dei vantaggi ch’ella godeva nella vita.

— Vede? Antonio è già uscito, senza prendere un sorso d’acqua; è già andato per i nostri affari, mentre un altro se ne starebbe a crogiolarsi [p. 50 modifica]nel letto come un signore. E tutto va bene in famiglia quando ci si alza presto e si fa il proprio dovere.

Poi mentre versava nelle tazze il caffè e il latte e tagliava su un vassoio i pezzi di pane avanzati la sera prima, domandò alla bambina:

— Hai detto le tue preghiere? Anche per il tuo grande papà hai pregato? Lei vedrà, nonno, come questa bambina sarà una vera donna, felice per sè e per gli altri. Anche il latino studierà, se Dio vuole, senza trascurare le virtù domestiche. L’esempio dei genitori e adesso anche di lei, le sarà di grande aiuto. E come è bella, questa bambina, e come buona! Non ce n’è un’altra al mondo. Ma che fai, Ola, brutta cattiva? Tu sei la mia disperazione su questa terra.

E senza il riparo del maestro le avrebbe dato un ceffone, poichè lei, approfittando dell’esaltazione materna, s’era piegata e versava un po’ del suo caffè-latte sul dorso del cane. Il cane era rimasto a casa, dovendo il padrone non andare più in là del porto ove si scaricava il pesce; ma pareva fosse rimasto apposta per fare miglior conoscenza con l’ospite, e gli girava intorno fiutandolo per studiarlo bene e farsi bene conoscere da lui. A sua volta il maestro si lasciava commuovere da quell’ansito quasi umano [p. 51 modifica]di essere bisognoso di affetto, e buttava pezzetti di pane che l’animale prendeva a volo con la lingua rossa mentre sulla sua schiena la macchia nera luceva come di velluto e tutto il dorso gli vibrava di gioia e riconoscenza.

Il gatto invece sdegnava di avvicinarsi: amava i cibi forti e aristocratici, lui, e adesso, adagiato su di una sedia, con le zampe e la coda in dentro, immobile come una piccola sfinge di marmo tigrato, aspettava il ritorno di Ornella dalla spesa.

Il maestro amava molto questi quadretti domestici: ci si sentiva dentro come in una atmosfera biblica, e respirava meglio.

La figura agitata di Marga, col vestito scolorito e trasandato che però non nascondeva l’eleganza naturale del bel corpo flessuoso, coi capelli in disordine intorno al viso argenteo mobilissimo, contrastava con l’ambiente ingenuo: ed egli sentiva che la gioia di lei era un po’ come le sue parole; un velo iridescente che ella scuoteva davanti agli altri per ingannarli e ingannarsi.

Quando Ornella tornò dalla spesa e la tavola fu ingombra di cartocci e di verdure ancora umide d’orto, e qualche tazza si rovesciò e il gatto saltò su alla ricerca insistente della carne, ella diventò un po’ nervosa. Respinse Ola che frugava anche lei fra i cartocci e ne faceva [p. 52 modifica]sgorgare il riso e la farina, e ricominciò a rimproverare Ornella.

Allora la proposta del maestro di andare a spasso, lui, la bambina e il cane, fu accolta da tutti con riconoscenza.

Ed ecco che se ne vanno, quei tre, piccoli e soli nella vastità della spiaggia e dell’azzurro del mare.

Il tratto di sabbia nuda ancora vergine di orme umane è preceduto da prati coperti di erba e di fiorellini gialli e viola che sembrano di cristallo; e tutto ha la trasparenza del cristallo e il colore delle gemme, il cielo, l’acqua, le conchiglie, la sabbia stessa là dove l’onda si ritira e il sole vi si rifrange come in uno specchio. Ma sopratutto attira gli sguardi del maestro e di Ola un grande triangolo fiammeggiante disteso sul verde di un prato: è una vela che un vecchio pittore marinaro ha tinto di croco e adesso dipinge con arte religiosa attingendo i colori dai secchi disposti intorno a lui e di tanto in tanto allontanandosi un poco per osservare meglio l’effetto del quadro.

In cima è il sole, rosso con lunghi radi raggi come quando sorge dal mare; più sotto una striscia gialla separa la parte superiore da quella inferiore della vela, e sebbene tutto sia di colore acceso si ha l’impressione che una zona neutra, come quella delle sabbie, divida il paesaggio, [p. 53 modifica]grandioso nella sua lineare semplicità; si ha così, in alto, l’infinito, l’immenso splendore del sole, giù, dove il croco si spegne in un colore di creta, la terra che vive di quella luce.

Sulla zona dorata il pittore finisce di dipingere un gallo, con una tinta di melagrana; e anche questo simbolo richiama all’idea il giorno nuovo esultante di speranza e di amore.

E il maestro si sente nel cuore una gioia superstiziosa; poichè tutto oramai ha per lui del simbolico e favoloso.

Lui e gli altri due stettero quindi un bel poco a guardare: anche Birba, il cane, che però sembrava lento a capire il significato della tela e vi si aggirava intorno, innocentemente abbaiando contro il gallo come avesse timore di vederlo balzare vivo dalla cima del pennello, e contro il pennello stesso; finchè il sopraggiungere di un altro piccolo cane lo distrasse; entrambi si corsero incontro, si aggirarono l’uno intorno all’altro fiutandosi, poi si saltarono scambievolmente addosso e cominciarono a rotolarsi [p. 54 modifica]morsicchiandosi sul tappeto dell’erba, in una lotta molle e giocosa, allegri come bambini da lungo tempo amici.

— Gli uomini invece, — disse il maestro tentando di attaccare discorso col pittore, — quando s’incontrano per la prima volta si considerano come nemici.

Il pittore, infatti, sollevò gli occhi turchini indifferenti, seccato per l’insistente curiosità del forestiero, e respinse la bambina che si accostava troppo alla tela. Allora lei tentò di mischiarsi al gioco dei cani, ma il nonno la condusse via un po’ a forza, e anche Birba, sebbene chiamato e richiamato, non abbandonò il nuovo amico finché questo non si decise a seguirlo.

La spiaggia era completamente deserta. Ola cercava di tirare il nonno a sinistra, verso la palizzata del molo che appariva come un ponte fra la terra e il mare, con su figure nere di persone stampate sullo sfondo turchino; ma il nonno era attirato dal grande silenzio e dalla vasta solitudine a destra dove la linea delle sabbie finisce in uno svaporare azzurro e pare si perda nella lontana montagna dell’orizzonte.

— Laggiù è il tuo paese? — domandò Ola; ed egli quasi trasalì e strinse nella sua la dolce manina calda di lei; poichè ella era penetrata proprio nel suo pensiero.

— No, quello non è il mio paese; il mio [p. 55 modifica]paese è più giù, e io adesso ci pensavo appunto.

— C’è il mare, al tuo paese?

— Oh, no. Ci sono le montagne, che sono, vedi, come queste trincee che i soldati hanno fatto con la sabbia, ma molto più grandi, alte, coperte di alberi e di cespugli.

C’è il gatto mammone? — lei domandò messa un po’ in terrore da tutta quella grandezza sconosciuta.

— Ma no, bella: il gatto mammone non esiste.

Lei si ribella: no, il suo patrimonio di sensazioni forti non dev’essere defraudato: si ferma, s’impunta.

— No, sai, il gatto mammone proprio esiste: l’ho sentito io, di notte, quando tutto era chiuso. Gnauhh! Gnauhh!

E dà anche un lieve morso alla mano del nonno per avvalorare la sua imitazione.

— Brava, brava, — dice lui fingendosi impaurito e lasciandole la manina per soffiarsi sulla sua. — Va via, gatto mammone.

Il riso di lei parve ancora una volta più iridescente del mare e dei prati in fiore: ed egli ebbe quasi paura di quel momento di felicità, sebbene si volgesse in là per non farsi vedere a ridere anche lui.

— Giochiamo ancora, — propose lei riafferrandogli la [p. 56 modifica]

E giocarono come i due cani sulla spiaggia, come i pesciolini nel mare, come le piccole farfalle color lilla che sfioravano le onde.

Finchè lui, poichè Ola si prendeva troppa confidenza e gli morsicava davvero la mano, non si sollevò austero.

— Un bel gioco dura poco; e se molto dura diventa seccatura.


Poi andarono a vedere il ritorno delle paranze dalla pesca. Tornavano a due a due, come coppie di sposi dopo una felice passeggiata: a misura che approdavano, rientrando nel canale con lentezza dignitosa, uno dei loro pescatori si arrampicava come una scimmia sul parapetto del ponte, e di là s’afferrava all’orlo della banchina che scavalcava d’un salto: un compagno gli lanciava la gomena ch’egli annodava agli anelli di ferro infissi fra le pietre del molo; e la barca così legata come una grande placida bestia alata si dondolava alquanto prima di fermarsi immobile sull’acqua che la rifletteva nitidamente.

Una dopo l’altra tutte furono schierate lungo il molo, con le vele fiammeggianti in aria e dentro l’acqua tutte dipinte e alcune come tatuate per i molti rattoppi che ne frastagliavano i disegni: e intorno si diffuse un’aria di festa [p. 57 modifica]come se passasse una processione con stendardi dorati e luccichio di argenti.

Ola infatti faceva notare al nonno le decorazioni di metallo e gl’intagli di alcune barche nuove: striscie turchine, placche argentate e persino vasi di fiori spiccavano fra il nero di pece del legno; ma quello che a lei più piaceva era un grifo tutto d’oro, con gli occhi rossi, che si sporgeva da una prua e scintillava come un idolo al sole. Ella fece vedere al nonno anche le barche del padre, ma non molto orgogliosa di loro. Erano quattro, piuttosto piccole e antiche, sebbene rimesse a nuovo, laccate di bianco: con le vele bianche sarebbero parse due coppie di colombi, tanto si tenevano strette e unite e si baciavano a vicenda: i loro nomi però, San Giorgio e Nicoletta, Gabbiano e Maria Margherita non s’accordavano che nel colore turchino delle grandi lettere tutte contornate di ghirigori.

Le loro vele, poi, erano semplici, tutte di un colore acceso di zafferano, nuove fiammanti, e denotavano il carattere caldo e ardimentoso del nuovo padrone.

Nel loro interno, come nelle altre barche, i pescatori scalzi e silenziosi, coi larghi piedi di palmipedi umidi di acqua marina e la pelle bruciata dalla salsedine, facevano la cernita del pesce con una rapidità fantastica: in pochi [p. 58 modifica]momenti le ceste nere furono colme di larghe sogliole grigie e oleose, di cefali argentei e di triglie grassoccie color carne rosata: i gamberi rossi che ancora agitavano le tenaglie dentate delle loro zampe furono messi da parte con disprezzo, assieme coi mucchi dei pesciolini di scarto nudi e scivolosi come vermi.

Poi le ceste furono caricate sui carretti a mano, spinti dai pescatori che parevano balzati dal mare dopo averne raccolto i pesci come i contadini raccolgono i frutti della terra.

Ola, il nonno e il cane li seguivano. Qua e là sulle pietre luccicanti del molo giaceva qualche pesciolino morto, perduto dalle ceste; il maestro cercava di non metterci su il piede, per un senso di pietà quale i grossi pesci della pesca non gli avevano destato; e Ola, quasi indovinasse di nuovo i pensieri di lui, si piegava, con due ditina prendeva i pesciolini e li buttava nel mare: e l’acqua apriva e chiudeva come una piccola bocca per ingoiarli.

— Torneranno vivi, nonno? No, vero? Quando si è morti non si toma più vivi.

Egli trasalì ancora, nel suo cuore; perchè d’un tratto un ricordo sinistro attraversò la grande luce di quella sua felicità oceanica.


Senza volerlo, intanto, si lasciava condurre da Ola; e Ola andava dietro i pescatori, sicura [p. 59 modifica]del fatto suo. Li conosceva tutti e tutti la conoscevano; anche dei cagnolini e dei gatti delle barche sapeva i nomi, e salutava tutti con vaghi sorrisi e cenni della testa.

Così costrinse il nonno a fermarsi a guardare un pescatore alla lenza, sapendo di offrirgli uno spettacolo interessante. L’uomo, vestito civilmente, sedeva sull’orlo della banchina con in mano una canna dalla quale pendeva il filo che andava a immergersi nell’acqua; stava immobile, a capo chino, e pareva pregasse, «Signore, Dio mio, mandatemi su un bel pesciolone, che io possa portarlo a casa e farlo friggere e mangiarlo in famiglia, amen.»

Altri bambini guardavano, silenziosi, e nel viso di tutti c’era come l’attesa di un grande avvenimento.

Anche il nonno si lasciò prendere dalla curiosità, quasi dall’ansia comune: e pensò che quell’occupazione era buona forse anche per lui.

Un brivido scosse l’onda intorno al filo e questo si immerse meglio, di sua iniziativa, nel buco dell’acqua: l’uomo sollevò subito la canna e la bocca dei bambini si aprì come per ricevervi il pesce già bell’ e cotto: poi un sorriso di delusione e anche di beffa per il pescatore passò sul viso di tutti: poichè in cima al filo si dondolava solo, appiccato all’amo, brillante come [p. 60 modifica]un pendaglio d’orecchino, il piccolo pesce d’esca, morto e triste.


Il pescatore però non si sgomenta, non partecipa all’ansia comune; come non usa far parte della sua pesca a nessuno, così non lascia vedere le sue delusioni e le sue sempre rinnovate speranze.

Con lentezza immerge di nuovo l’esca nella profondità molle dell’acqua, di nuovo si piega e aspetta.

— Ola, andiamo, — dice il nonno, stringendo e scuotendo la mano della bambina; ma lei ha le sue buone ragioni per non muoversi, e lo prega di aspettare.

Infatti il pescatore tira su la canna, con sveltezza sorprendente, e ancora prima che gli astanti si rendano conto di quello che succede, un bel pesce quasi azzurro guizza disperatamente dentro il cestino dove s’è volta la lenza.

E adesso l’uomo respinge i ragazzi che strillano di gioia come se il pesce appartenga a loro, e sorride fra ironico e compiacente.

— Ride bene chi ride l’ultimo.

Però cessa di sorridere quando il nonno, dopo essersi piegato ad ascoltare all’orecchio un consiglio di Ola, gli domanda se il pesce è da vendere.

È da vendere, sì; poichè per portarli a casa [p. 61 modifica]il pescatore spera di prenderne altri: si contratta, dunque, mentre la vittima continua dentro il cestino la sua danza scintillante e disperata, e i suoi grandi occhi cerchiati di corallo si appannano come quelli di un annegato. Poi piano piano i suoi salti diventano più lenti e brevi; il corpo attorcigliato si distende, cala in fondo al cestino e vi si adagia di traverso, infine, dopo un ultimo guizzo, ricade e giace inerte, col ventre che impallidisce e le pinne che si ripiegano come piccoli ventagli.

— È morto, — annunziano i bambini. Il pescatore lo avvolge nel lenzuolo funebre di un giornale e lo porge al compratore. E così se ne vanno, il nonno e la bambina, lungo il molo pieno di sole: li segue il cane, che ha assistito a tutta la scena senza però interessarsene troppo perchè a lui il pesce non piace nè crudo nè cotto.


La palizzata del molo finiva nella strada che costeggia il canale, e questa d’un tratto si allargava in uno spiazzo circondato d’alberi e ingombro di legnami. Era il cantiere dei marinai e assieme la piazza del mercato del pesce.

Ola tirò il nonno laggiù, e d’improvviso gli scappò di mano per correre verso un gruppo di uomini e donne fermo davanti alle ceste del pesce. Il padre era in mezzo, col cappello sollevato sulla fronte e la cravatta, smagliante come [p. 62 modifica]una farfalla estiva, bene in mostra sulla camicia azzurra; ed ella gli si attaccò ridendo alle gambe.

Egli si volse; vide il maestro e lo salutò con la mano, ma parve contrariato della sua presenza: forse pensava che non era quello il momento di presentarlo ai suoi conoscenti: del resto questi non dimostravano alcun interesse per lo straniero, nè egli aveva desiderio di fare amicizia con nessuno. La compagnia l’aveva bell’e trovata, lui; e quando Ola, respinta dolcemente dal padre, gli tornò accanto, le riprese la manina come una cosa che gli apparteneva esclusivamente, deciso a non lasciarsela sfuggire più.

Così, un po’ a distanza, quasi cercando di nascondersi per non dare noia ad Antonio, assistettero alla vendita del pesce. La quale veniva fatta in un modo originale, colorito di mistero, che spiegava l’attenzione quasi tragica, i visi duri e gli occhi pieni d’egoismo degli interessati.

Da prima fu messa all’asta una bella cesta di triglie che rosseggiava come piena di umidi fiori. Un uomo grande, grosso, con una larga giacchetta nera che gli strapiombava da tutte le parti, personaggio principale del gruppo pittoresco, gridò alcune parole in dialetto, invitando i compratori a fare l’offerta. Allora uno per uno, uomini e donne, gli si fecero appresso, e sollevandosi sulla punta dei piedi, poichè lui non si piegava nè a destra nè a manca, gli [p. 63 modifica]susurravano all’orecchio la somma che intendevano offrire.

Egli ascoltava impassibile, col viso ridanciano illuminato dal sole: non doveva essere soddisfatto, però, perchè ripetè il grido e ricevette di nuovo le offerte segrete: e pareva confessasse tutte quelle persone serie che non scambiavano fra di loro una parola, impegnate in una gara dalla quale sembrava dipendesse il loro destino.

Finalmente la cesta delle triglie fu aggiudicata a una donnona scarmigliata che puzzava di pesce guasto; la sola che riusciva a parlare con comodo all’orecchio del banditore e pareva si misurasse con lui; ed ella si fece largo con le palme delle mani oleose come i pesci, sollevò la cesta sorridendo alle triglie, la depose sul suo carretto a mano e se ne andò senza curarsi d’altro.

Ola premette la mano al nonno ed anche loro se ne andarono, nella scìa di odore di mare che lasciava dietro di sè la grossa pescivendola; così percorsero tutta la strada lungo il canale, dopo la cui striscia, colorata dalle vele delle barche e dal loro riflesso nell’acqua verde, sorgeva la nuvola grigia e luminosa d’una landa di tamerici, e nelle lontananze i pini rendevano più chiaro l’azzurro del cielo: poi, svoltando, quella che si immergeva stretta dritta e lucida come una spada nel cuore del paese. [p. 64 modifica]

E questo cuore, una piccola piazza selciata di sassolini di spiaggia, con a destra la chiesa e a sinistra l’antico palazzo nero del Comune, in mezzo una fontana senz’acqua e sopra un quadrato di cielo simmetrico e intenso come un soffitto turchino, palpitava tutto per il suono delle campane e il brusìo della folla nel mercato centrale.

Le vetrine ben fornite dei negozi di stoffe e di commestibili davano l’impressione di trovarsi in una città: tanto che il nonno si sarebbe trovato un po’ sperduto senza la guida sicura di Ola.

Da prima ella lo attirò nell’angolo più vicino della piazza, davanti alla vetrina da lei preferita, popolata come quella di un museo di oggetti preziosi e interessanti: bambole vestite, amorini porta-fortuna nudi e alati, braccialetti e ninnoli di lacca: egli però fece lo gnorri, poichè un caposaldo della sua pedagogia di antico insegnante era di non coltivare nei bambini l’amore per le cose inutili.

— La bambola che ti ho portato io, — disse per confortarla, — è mille volte più bella di queste, e in pari tempo è anche un porta-fortuna; — e per maggiore consolazione fu poi lui a fermarsi davanti ad un’altra vetrina; — qui almeno c’è roba utile: guarda guarda che belle torte con un rubino di ciliegia in mezzo: guarda [p. 65 modifica]che bei biscottini ancora caldi come le tue ditina; guarda che belle paste alla crema che pare aprano le labbra per lasciarla vedere e dicano: mangiateci, mangiateci, mangiateci. Vogliamo portarne un po’ alla mamma?

Entrarono nella pasticceria tutta odorosa di zucchero, e il primo pasticcino sopra la piramide composta sul vassoio del banco fu staccato come una bella rosa thea dalla cima della pianta, e offerto ad Ola: e lei lo prese senza avidità, ma con premura, e lo guardò intorno intorno; intorno intorno lo tastò con un dito, poi con la lingua, cercando il punto dove meglio assalirlo, e trovatolo vi ficcò i dentini con una mossa feroce, smorzando però a poco a poco l’assalto finchè arrivata all’ultimo pezzetto se lo tolse di bocca, lo riguardò ancora, lo sminuzzò e finì di mangiarlo briciola a briciola: l’ultima le cadde per terra e lei la raccolse.

— E così è della vita, — pensò il maestro, che la teneva d’occhio mentre il pasticciere, con aria melanconica e nauseata, preparava sul vassoio di cartone i dolci da portare a casa. [p. 66 modifica]

Ola a sua volta seguiva la faccenda con viva attenzione: e quando fu pronto il bel pacchetto bianco ben legato col nastrino tricolore e il cappio da metterci dentro il dito per portarlo, tirò il nonno per il lembo della giacchetta e lo costrinse a sentire uno dei suoi segreti.

— Dammene un altro.

Ma lui voleva educarla, e sebbene a malincuore non la esaudì.

— Quando saremo a casa.

Per confortarla ancora le permise di portare lei il pacchettino, e di nuovo uscirono tra la folla, nella piazza dove pareva di essere in un grande cortile in comune: là tutti si conoscevano, e anche Ola ricevette e distribuì sorrisi a manca e a destra, mentre le erbivendole fissavano la loro curiosa attenzione sull’uomo che la accompagnava.

— È il tuo nonno?

— È il mio nonno, sì, — rispondeva lei scuotendolo per la mano, orgogliosa di lui, sebbene per soggezione di lui non accettasse qualche mela o qualche pisello che le donne le offrivano. [p. 67 modifica]Ad una invece rispose con arroganza e tirandosi indietro. Non era però un’erbivendola, questa, ma una vecchia qualunque, piegata su un grosso bastone, coi grandi piedi che parevano morti e un fazzolettone nero legato intorno al piccolo viso della forma e del colore di una pera grinzosa.

— Dio vi benedica, — disse nonostante il malo modo di rispondere di Ola; e ritenendola una mendicante il maestro le offrì una moneta che lei rifiutò senza sdegno scuotendo la testa tremante come volesse dire: «Il denaro è buono, ma ci vuole altro per intendersi». E andò via senz’altro, con un passo lento e silenzioso di tartaruga.

— Chi è? — domandò il maestro.

— È la vecchia della villa degli Ontani: ruba i bambini.

— Non mi pare. Dov’è questa villa?

— Te la insegnerò io; la mamma non vuole, che io vada fino laggiù. Ma con te ci posso andare, non è vero?

E lo tirò con forza, già tutta presa dal piacere proibito. Rasentavano adesso la gradinata della vecchia chiesa che occupava tutto un lato della piazza; e al maestro venne in mente di entrarci, nella chiesa dove Ola era stata battezzata e dove forse si sarebbe sposata; per conto suo egli non praticava nessun culto esterno e [p. 68 modifica]aveva una sua religione speciale, la certezza che Dio è in noi e noi siamo in Dio e ci intendiamo nel suono stesso della nostra voce: ma era convinto che la religione cristiana è il solo punto di partenza, nelle anime grezze, per arrivare a quel grado di perfetta coscienza.

Sollevò dunque il piede sul primo gradino, per salire alla porta della chiesa; Ola però lo trasse indietro e fu per dirgli: — che fai, sei pazzo? — ma già conoscendo le ombre e le luci del viso di lui, con astuzia lusinghiera disse: — Ci andremo domani, vedrai: domani è domenica. Adesso mamma ci aspetta.

Nonostante questa preoccupazione tirò in lungo: ricondusse il nonno al viale della stazione, fino al viottolo che andava verso la loro casa; e invece di avviarsi da quella parte lo costrinse a prendere la parte opposta.

Qui il viottolo s’allargava in una bella strada, fra l’arenile e i giardinetti di alcuni villini nascosti da siepi di tamerici. Verso la spiaggia si alzavano ancora, piccole colline ricoperte d’erba, le trincee fatte durante la guerra; alcune così alte che impedivano la vista del mare; poi la strada saliva, ogni traccia d’abitazione umana spariva, una fila di ontani fittissimi chiudeva a destra l’orizzonte.

Ola aveva riconsegnato il pacchetto al nonno e adesso era lei a stringergli forte la mano; e [p. 69 modifica]ogni tanto si volgeva indietro con paura un poco voluta ma anche sentita: così arrivarono davanti a un cancello di ferro, velato di una rete metallica, che chiudeva il solito viale con in fondo una villetta grigiastra a due piani circondata di alberi. Il luogo pareva disabitato.

— È qui che sta la vecchia, — disse Ola, scuotendo la mano del nonno poichè lui non pareva molto preso dal mistero del luogo.

La villa infatti non aveva nulla di speciale: rassomigliava a tante altre, che si vedono un po’ fuori di mano nei paesi agricoli in riva al mare: un campo con vigna l’accompagnava, vigilato da una casupola di contadini; più in là una smossa zona coltivata a barbabietole completava il fondo.

Ma quello che colpiva l’attenzione di Ola e finì con l’interessare anche il nonno era uno spiazzo erboso a destra della casa, dove tremolavano come in una densa acqua verde le ombre di alti alberi; e fra queste ombre il biancheggiare solitario di alcune panchine di marmo e di due grandi tavole rotonde pure di marmo, la cui nudità fresca, ricamata di foglie cadute dagli alberi, diede al maestro il senso di solitudine e di tristezza che doveva incombere su quella casa abbandonata: e il mistero glielo spiegò Ola, un po’ esitante:

— È una casa maledetta, sai. I figli hanno [p. 70 modifica]ucciso il padre, e sono fuggiti. Ma uno lo hanno preso e messo in prigione, e la casa è dei soldati, adesso. Ma i soldati non ci stanno: ci sta un uomo di un altro paese, e quella vecchia che ruba i bambini.

— E la madre?

— Quale madre? Della vecchia?

— No, la madre dei cattivi figli.

— È morta. Non capisci che è morta! — esclamò lei con vigore, come per dire: se era viva la madre il fatto non succedeva.

— È da molto tempo?

— Che è morta? — disse lei che amava la precisione nel parlare.

— No, che il fatto è accaduto.

Ola sollevò la manina e sporse le labbra.

— Mah! questo non lo so. Forse saranno cento anni; forse due anni, — aggiunse incerta: poichè in fatto di tempo la precisione le veniva a mancare.

— Tu hai ragione: in questi casi qui il tempo non conta. Vieni, vieni, — egli disse ritraendola dal cancello: e andarono a sedersi sulla proda della strada, fra l’erba e i fiori, in vista al mare. Ola avrebbe voluto un po’ giocare, slanciarsi dietro le farfalle color zafferano che s’avvicinavano di preferenza a lei come per invitarla a seguirle; ma aveva paura della vecchia, e non cessava di voltarsi a guardare se veniva; e [p. 71 modifica]insisteva a raccontare il fatto del parricidio, non senza una tinta morbosa, finchè il nonno non cambiò discorso.

— Dimmi una cosa, Ola; è da molto tempo che avete in casa Ornella?

— Eh, da quel dì!

— Ti vuol bene?

— Mi vuol bene, sì, ma mi dà qualche pugno: però faccio da cattiva anch’io; e le metto le patate e le spille nel letto.

— Perchè?

— Così! — disse lei con una smorfia che significava: per il gusto di far del male.

— Non bisogna fare il male a nessuno, — egli cominciò con tono di predica; ma il suono della sua voce gli rinnovò quel senso di angoscia provato sul ponte del molo.

Poi pian pianino se ne tornarono a casa.

A volte Ola gli scappava di mano e nonostante le proteste di lui si arrampicava sui ciglioni del viottolo minacciando di non ridiscendere se non si saliva a prenderla: e poichè le era negata questa soddisfazione veniva giù a precipizio e rimbalzava contro di lui come volesse sfondarlo.

— Tu cominci a prenderti troppa libertà; e sei anche maleducata. Ma penserò io a metterti a posto, penserò.

Era sdegnato sul serio, il nonno; e lei chinò [p. 72 modifica]la testa e andò avanti mortificata. Le sue gambe a metà nude, dritte, eguali, levigate come di marmo rosa, commossero il maestro: ecco le colonne sulle quali oramai si poggiava tutto il suo mondo. Alle ombre di poco prima seguì una grande luce; ed egli ricordò un canto religioso che gli avevano insegnato in un tempo lontano, e del quale ricordava solo due versi e non interi:

    Il marinaio su le onde
ti invoca, o Signore....

Null’altro; ma come dai ruderi s’intravede una metropoli dispersa nel tempo, tutta una sinfonia grandiosa di speranza e d’amore risorgeva dalle poche parole del cantico lontano.

— Io ti ringrazio, Signore; e tu perdonami se dubito ancora di aver ritrovato il porto. Eccomi qui, nel sole, con questa creatura, con Te: ho peccato e, forse, ancora non espiato; ma il mio cuore sarà puro, e pura sarà la mia carne fino all’ora della morte: e tutto ti offro, e tu passa sopra di me con tutte le legioni del dolore purchè il male non sfiori la nuova vita che cammina al mio fianco.

Riprese la manina di Ola e camminarono silenziosi.

All’appressarsi a casa disturbò di nuovo [p. 73 modifica]loro felicità la voce della mamma che sgridava Ornella. Tacque però, l’aspra voce, al loro avanzarsi annunziato dal cane che sempre li precedeva; anche il gatto adesso li ricevette inarcandosi sulla porta, e il maestro, che amava molto i gatti, si consolò. Questo qui aveva un faccino prepotente ma bello, con due occhi quasi azzurri che risaltavano meglio sul velluto biondo e bruno del suo pelo.

Piegatosi a carezzarlo il maestro se lo sentì sgusciare di mano come un’anguilla viva, ma previde che presto sarebbero amici.

Un’altra bella sorpresa li attendeva. Sull’asse bianca per impastare la farina, stesi ad asciugare stavano vari reggimenti di un esercito di pallidi agnellotti; e dai fornelli veniva un profumo di sugo che vinceva quello del giardino.

Marga si aggirava per la cucina, piegandosi e sollevandosi di continuo, sempre con qualche oggetto in mano: ancora scarmigliata e con le vesti in disordine pareva si fosse accapigliata con qualcuno, e quando vide il pacchetto e l’involto col pesce che il maestro deponeva sulla tavola s’irritò alquanto, non per il disturbo ch’egli s’era preso, ma perchè i nuovi acquisti turbavano di nuovo l’ordine della cucina: tuttavia ringraziò calorosamente, e se la prese con Ola.

— Tu non dovevi permettere che il nonno si disturbasse: forse invece sei stata tu a condurlo [p. 74 modifica]in pescheria e in piazza. Ti conosco io, birba, ti conosco. E adesso mi tocca di cuocere il pesce. Via questa carta, via questo pacchetto. E tu hai ringraziato, almeno? No, lo so. Ringrazia.

La bambina aveva adottato, forse per spirito di imitazione, il metodo infallibile di Ornella: non rispondeva mai ai rimbrotti materni, anzi sviava il discorso perchè l’umore della mamma cambiasse.

— Sì, mamma, siamo stati in pescheria, e abbiamo veduto il babbo. E c’era la Gina Bluvin, con un vestito a righe gialle come Tigrino....

Particolari che al nonno erano completamente sfuggiti ritornarono nel resoconto di lei: tutto ella aveva raccolto e portato a casa come le piccole conchiglie che traeva dalla tasca e disponeva in fila sull’orlo della tavola, e il nonno non s’era accorto dove le aveva trovate.

La madre ascoltava infantilmente.

Due settimane passarono così, liete e movimentate nei buoni giorni di salute della mamma, con lunghi pasti che lasciavano i commensali storditi, specialmente alla sera quando le bottiglie salivano una dopo l’altra, polverose e [p. 75 modifica]come ancora irrigidite dal fresco buio della cantina, e Marga e Antonio gareggiavano, invitandosi e incoraggiandosi a vicenda, nel far loro onore, e qualche amicone di casa veniva per rinforzare la buona volontà di quei due.

Dopo che aveva bevuto, Marga si acquietava stranamente, immobile e muta davanti alla tavola, solo di tanto in tanto ravviandosi d’istinto i capelli; i suoi occhi pieni di un languore di sogno e il suo viso fine illuminato come da un riflesso di tramonto, si facevano bellissimi; pareva l’immagine della felicità. Antonio invece, di solito durante la giornata affaccendato taciturno e quasi sgarbato, diveniva espansivo e spaccone. Tutto gli andava bene, nel mondo, secondo lui, e meglio ancora doveva andare in avvenire.

— Quando si ha questa testa e questo cuore e si deve lavorare per questa creatura tutto deve andar bene, per Dio Santo.

Un pugno alla fronte, uno al petto, la mano tesa teatralmente verso Ola, e l’accento mutevole, energico, tenero, minaccioso, davano forza alle sue parole. E il ridere di Ola e i suoi occhi brillanti gioia e malizia, illuminavano la tavola intorno alla quale il maestro, nonostante le liete apparenze, si ostinava a vedere un alone di ombra.

Più quieti, sebbene velati di melanconia, erano [p. 76 modifica]i giorni in cui Marga aveva la febbre. Pareva che ella cadesse abbattuta, più che altro, dalla fatica esasperata e dall’agitazione dei giorni di salute, come chi dopo lunghe veglie cade in un sonno profondo. In quei giorni il maestro s’era fatto il dovere e l’abitudine di non abbandonare la casa e la bambina. A questa insegnava a leggere e scrivere, constatando che mai il còmpito di insegnante, gli era apparso più difficile.

Ola ricorreva a tutti i sotterfugi per sottrarsi al suo dovere: all’ora della lezione diventava sorda e muta e si faceva cercare a lungo prima di decidersi a saltar fuori dai suoi nascondigli; poi aveva sempre qualche malanno, all’ora della lezione: le faceva male la pancia, o un piede, o addirittura la mano che doveva impugnare la penna.

E quando ebbe imparato bene o male l’O, se ne servì per metterci due piccoli occhi, una bocca storta, due zampette sotto, e farlo vedere a Ornella come il ritratto del nonno.

E poichè questi le disse:

— Va là, in fatto di studio sei una zuccona come tuo padre, — prese un pezzetto di zucca e glielo mise sotto il guanciale; e quando lui protestò, rispose:

— È un pezzo della mia testa. [p. 77 modifica]

Nei giorni in cui Antonio era fuori e Marga a letto, un silenzio profondo incrinato appena dai trilli di Ola, regnava nella casa che la primavera inoltrata schiariva e scaldava. Veniva dal mare e dai prati della spiaggia tutti coperti di giunchi e dei fiori del croco, un odore sano che dava al maestro un senso di gioia quasi fisico. Gli pareva di ringiovanire.

Anche la sua cameretta sembrava un’altra. Da sè egli ne aveva tappezzato le pareti con una carta chiara, dorata come se vi battesse il sole, e qualche quadretto e due tappeti di poco valore ma a forti colori le davano un aspetto signorile.

Non mancavano mai i fiori, per lo più campestri, in un boccale paesano adattato a vaso.

Mentre lui scriveva o leggeva, Ola si sdraiava ora sull’uno ora sull’altro tappeto, intenta a decifrarne i disegni seguendoli con la punta del dito e a parlare sottovoce fra sè. Il gatto le contrastava il posto e a sua volta allungava la zampetta verso il dito lei, tentando di graffiarla per giuoco; anche al cane era permesso di entrare, purché non si prendesse confidenza; [p. 78 modifica]e pure le galline allungavano il collo dall’uscio, guardando dentro con un occhio solo.

Un altro visitatore accolto con ambigui segni fra di simpatia e ostilità era Lenin, il maialetto roseo con la coda arricciata in su e gli occhi vivi che di giorno in giorno si affondavano nel grasso. Entrava senza tanti complimenti, fiutando il pavimento e cacciandosi sotto il letto, dove si permetteva di emettere certi suoni poco profumati, finchè il cane, dopo aver guardato in faccia il maestro come per indovinarne i sentimenti, non lo cacciava via perseguitandolo poi anche di fuori per punirlo della sua sporca sfacciataggine.

La meno ben veduta era Ornella: il maestro evitava di trovarsi con lei anche quando si ripuliva la camera. Non che la ragazza non gli dimostrasse il più profondo rispetto, ma la sua presenza lo turbava, d’un turbamento fisico che non era desiderio, anzi ripugnanza. Ella gli sembrava ottusa, incapace di istinti se non animaleschi; e in questi ultimi giorni l’aveva scoperta bugiarda e falsa. Marga, per esempio, le ordinava di far acquisti presso certi rivenditori; ella invece andava da altri, che le davano roba scadente e a maggior prezzo. Un giorno il maestro, per incarico della nuora, andò a protestare presso uno di questi che lo accolse male e finì con l’offenderlo. [p. 79 modifica]

— Marga, — disse allora, bonario ma fermo; — tu non mi darai più di questi incarichi: piuttosto vado a fare la spesa io. E adesso non alzare la voce con Ornella, per colpa mia, te ne prego.

Marga non alzò la voce: pregò solamente il marito d’imporre alla ragazza di non rimettere più piede nella rivendita dell’insolente: e Antonio lo fece con esagerata serietà che parve impressionare insolitamente Ornella.

Il giorno stesso, però, il maestro la vide per caso rientrare a far la spesa nella rivendita proibita: più tardi poi, mentre lui e Ola stavano dietro la siepe del giardino, la si sentì che tornava a casa con un’altra ragazza; e non pareva più lei, tanto parlava e rideva sconciamente, gonfia di un’allegria di bestia a primavera.

— Fa sempre così, quando non c’è la mamma o il babbo, — disse la bambina, accorgendosi della sorpresa ostile del nonno.

Allora fra loro due cominciò una congiura: senza essere interrogata Ola gli riferiva tutte le cattive azioni che poteva sorprendere di Ornella, e le esagerava e coloriva in nero, sempre con la preghiera al nonno di non dir nulla a nessuno.

Egli però si accorgeva che quando era sola con la ragazza e credeva di non essere osservata da nessuno ella le dimostrava uno strano attaccamento: un giorno le vide che giocavano [p. 80 modifica]come i gatti, morsicandosi e maltrattandosi a vicenda.

Ne parlò a Marga, quando Ornella andò fuori.

Col viso acceso da un subito furore la donna chiamò la bambina e cominciò a sgridarla aspramente, quasi lei sola fosse la responsabile; e l’avrebbe percossa, senza l’intervento del nonno.

— Non così, non così, — egli disse con angoscia; e strinse a sè la bambina e lui stesso parve rifugiarsi in lei, mentre Marga impallidiva e gli occhi le si velavano di dolore. Tutti e tre tacquero come sorpresi da un turbine che tentava di portarli via e li atterriva più che per questo per il mistero della sua violenza perversa.

Con la voce assonnata dei giorni di febbre Marga cominciò a scusarsi.

— Che vuole? Le persone ignoranti sono tutte così, come quella ragazza, un po’ bestie: non capiscono e bisogna compatirle perchè sono disgraziate anche loro. Ornella è fra le meno peggio, e vuol bene alla bambina: le vorrà bene a suo modo, ma le vuol bene. Non è vero, Ola? Quando tu eri piccola, — aggiunse, scusandosi anche con lei, — ti ricordi di quell’accidente della Tonina? Ti picchiava se ti sentiva piangere e si beveva il latte destinato alla tua pappa. Ornella al contrario è capace di attraversare un bosco di notte se tu non ti senti bene e c’è bisogno del dottore. [p. 81 modifica]

— E poi mi dà le caramelle di nascosto, — rinforzò Ola.

— Tu però non le devi dare troppa confidenza, hai capito, non fare la sciocca con lei. Se sapesse, — riprese rivolgendosi al maestro, — quante donne di servizio ho provato, una peggiore dell’altra: Ornella, almeno, è fidata; la notte si alza, se le sembra di sentire qualche rumore sospetto ed è capace di affrontare i ladri da sola.

Parole e parole: cadevano nel vuoto e ne accrescevano il buio: e la donna lo sentiva.

— Lo so, — riprese, più viva, — dovrei parlare con Ornella e metterla a posto io. Ma è come parlare al muro: non capisce nulla. Capiscono le bestie? domandò guardando il maestro come fossero d’intesa fra loro a parlare un linguaggio che la bambina non dovesse intendere. — D’altronde io non posso nè voglio abbassarmi a lei. La sgrido spesso, è vero, per cose da niente, e lei prova gusto a questo che sa un semplice giuoco; ma se io tentassi di dirle solo una parola che potesse colpirla sul vivo, ella è capace di saltarmi al collo e strangolarmi.

Il maestro provò un brivido interno: perchè di questa violenza nascosta di Ornella egli ne era sicuro: bastava guardare gli occhi felini di lei.

— E mandala via, — disse sottovoce; e nello stesso tono la donna ripose: [p. 82 modifica]

— Se fosse una semplice serva potrei farlo; ma noi abbiamo anche responsabilità morali verso di lei. Sarebbe come metterla sulla strada, perchè lei non ha dove andare. A meno che non andasse appunto a servizio presso altri, e questo non vogliamo. Del resto, — disse poi con voce accorata, — lei o un’altra è lo stesso.

Il maestro insinuò:

— Non ti converrebbe una donna anziana?

Ma la rassegnazione disperata di Marga non conosceva limiti.

— È lo stesso, è lo stesso; dentro o fuori è lo stesso.

Queste ultime parole, pronunziate come nelle ore di delirio, gettarono un laccio al collo del maestro; gli parve di soffocare.

— Ola, — disse alla bambina che lo stuzzicava alle spalle e già non pigliava più parte al discorso tragico della madre, — mi dài fastidio: non sono il gatto, io. Va, torna a giocare fuori. Va, — impose energico, poichè lei esitava.

— Marga, — disse quando furono soli, — tu hai capito che devi considerarmi come un padre. Tu credi che tuo marito e Ornella....

Il subito spalancarsi e richiudersi degli occhi di Marga, come d’una porta che si apre e tosto viene richiusa per la minaccia di un pericolo, lo fece quasi vergognare della sua supposizione; ma poi il sorriso di lei, quel sorriso rapido [p. 83 modifica]anch’esso che lasciava vedere e subito nascondeva i denti, stranamente giovani e avidi in quel viso sciupato, gli fece grave il cuore; perchè sentì che la peggiore nemica di Ola, in quel cerchio di mistero, era la madre stessa. Domandò quasi aspro:

— Tu credi che Antonio e Ornella non possano avere un relazione colpevole?

— Antonio è giovane; ma se ha da svagarsi lo fa fuori di casa, — lei rispose aggrottando le sopracciglia.

— Nè dentro nè fuori tu dovresti permetterlo, per tua figlia, — egli concluse con durezza.

E poichè lei rideva, quasi beffandosi dell’ingenuità di lui, uscì, prese Ola per mano e la condusse sulla spiaggia, a respirare il grande alito che risana ogni male.

— O mare, — pensava, mentre Ola scavava la sabbia con le sue manine tenaci, — sento che tu sei veramente l’anima della terra, e che stai lì ad insegnarci com’è fatta l’anima nostra. La terra si rinnova lentamente, con le sue stagioni, come il nostro corpo; tu ti rinnovi ad ogni istante, nei tuoi abissi senza fondo, coi mostri e le meraviglie divine delle tue profondità infinite, come l’anima nostra.

E gli parve di aver ritrovato finalmente davvero un amico, un suo simile, col quale poteva intendersi e confidarsi meglio che con gli uomini [p. 84 modifica]

Adesso il mare era calmo, con un anello di smeraldo in lontananza e la scìa del sole entro la quale come in una strada sott’acqua si vedevano i giovani cefali giocare allegramente. Le vele delle paranze, ancora al largo, battute dal riflesso verde e azzurro del mare e del cielo parevano di seta viola, messe lì, come fiori in un giardino, solo per accrescere la bellezza del quadro.

E anche l’uomo, con accanto la bambina che smoveva la sabbia come lui i suoi pensieri, si sentì calmo, pronto ad attingere forza da quella sosta, per il resto del cammino.

In maggio l’inquilino del primo piano avvertì che sarebbe arrivato fra giorni.

Furono quindi spalancate le finestre, sbattute le materasse e lavati i pavimenti. Il maestro si offrì, poichè ce n’era bisogno, di cambiare lui la carta del salottino, come aveva fatto per la sua camera.

Marga protestò, al solito, poi finì con l’acconsentire: egli allora andò dal tappezziere del paese onde acquistare il necessario; e poichè [p. 85 modifica]nella scelta della carta fu aiutato da Ola, che ne consigliava una color mattone con fiori d’oro, lo stesso tappezziere disse che la scelta era ottima: il rosso resiste alla ruggine del mare.

I mobili del salottino, ammucchiati nel centro della stanza, furono ricoperti con una grande tela di vele: poi il maestro si confezionò un berrettino di carta, come usano i pittori di pareti, e se lo mise in testa di traverso, suscitando l’allegria di Ola; anche lei ne volle uno, e così, coi riccioli che le scappavano più neri da quella papalina bianca, divenne l’aiutante non del tutto inutile del nonno.

Fu lei che portò su dalla cucina della mamma a quella del piano di sopra un recipiente per preparare la colla, e al momento opportuno si trovò in tasca, poichè il Maestro ne era sprovvisto, un fiammifero per accendere il fuoco.

Egli dispose due lunghe assi sulla tavola da pranzo, ci distese il rotolo della carta alla rovescia, e cominciò a plasmarvi su la colla: e d’un tratto una voce non troppo alta ma calda e di una sonorità contenuta riempì il silenzio dell’appartamento illuminato dalla luce metallica del mare. Così cantano i giovani operai al lavoro.

Ola lasciò cadere il pennello che teneva in mano e rise follemente: poi ammutolì e guardò il nonno come uno sconosciuto. Era proprio lui [p. 86 modifica]che cantava? Era proprio lui, e si sarebbe detto che da giovane avendo egli fatto il pittore di pareti, adesso tutto il suo passato gaio di lavoro e di spensieratezza rivenisse su con quella voce e quel canto.

Tutte le cose intorno ne erano animate e pareva ascoltassero, anche quelle nascoste sotto la vela: anzi, Ola andò a vedere la sua bambola deposta sul divano e le sembrò che aprisse la bocca per cantare anche lei. Allora la prese in braccio e tornata presso il nonno si mise ad accompagnarlo in falsetto, ripetendo il motivo del suo canto.

Ma come richiamato a sè stesso egli tacque: poi disse:

— Va a chiamare Ornella.

Ornella era nella camera in fondo, che lavava il pavimento: venne subito, in ciabatte e senza calze, con le braccia nude e il sottanino corto come quello di una ballerina. Le sue gambe ricoperte di peluria bionda, nude fino alle ginocchia rosee e lucide, destarono nel maestro un senso di meraviglia: egli non aveva mai veduto gambe di donna così alte e potenti, e ancora una volta pensò a non so quale bestia favolosa rassomigliante alla femmina dell’uomo.

Le fece prendere il lembo della carta tutta umida di colla; l’altro lembo lo prese lui e salì la scaletta a piuoli appoggiata alla parete. Così [p. 87 modifica]cominciò a incollare la carta, aiutato con abbastanza abilità da Ornella. Quando la prima striscia fu attaccata, indietreggiò fino all’altra parete, per vedere che effetto faceva: la bambina e la ragazza lo imitarono; ma d’un tratto questa, come ferita dal rosso della carta, arrossì tutta, poi stralunò gli occhi, impallidì, si piegò da un lato: ed egli fece appena a tempo a sostenerla con tutte le sue forze appoggiandosi alla parete per non cadere anche lui.

Una sedia, sciocca, — gridò alla bambina che rideva nel vederli così abbracciati.

Ola accostò la sedia ed egli vi adagiò Ornella che cadeva da tutte le parti come fosse di straccio: poi ordinò alla bambina di andare a prendere un po’ d’acqua. Intanto sosteneva la donna e la sentiva calda e fiorente fra le sue mani come una cosa vegetale: dalle braccia bianche rasate e venate di verde di sotto, e di sopra ricoperte di peluria dorata, dal seno che s’intravedeva candido come gonfio di latte, e dalle vesti intime di lei esalava appunto quell’odore speciale dell’erba fresca strappata e ammucchiata e che comincia a fermentare. Un attimo: ed egli provò uno stordimento misterioso, come se un gruppo di ricordi di adolescenza gli ingombrasse il cervello: e gli parve di rivivere in un luogo cavernoso, in un tempo lontanissimo, in lotta con un corpo ambigno che gli sfuggiva e [p. 88 modifica]lo attirava e non aveva forma nè sostanza eppure viveva d’una vita intensa; come una medusa in fondo al mare.

— Ecco l’acqua, — disse Ola sottovoce, ansante anche lei per quell’improvviso sonno di Ornella. — Ma è morta? Ornella, svegliati; — gridò poi, pizzicandola al ginocchio.

Più che per gli spruzzi d’acqua sul viso e sul seno, Ornella parve svegliarsi a quel pizzico. Si portò la mano al ginocchio, si sollevò e riaprì gli occhi. E non pareva disposta a dare spiegazioni del suo malessere finchè il maestro stesso non la incoraggiò:

— Su! È la primavera.

— È la primavera, — ripetè lei, pensierosa.

E tutto pareva finito quando ella si alzò di scatto dalla sedia, poi vi ricadde come se le gambe non la sostenessero, si piegò con la faccia fino al grembo e morsicandosi le vesti scoppiò in pianto. Ola le si buttò addosso, d’un tratto pallida e spaventata, e pianse forte anche lei.


Queste cose facevano male al maestro: davanti a quello scoppio di dolore senza ragione, folle tanto nella ragazza come nella bambina, egli si sentiva come davanti a un fenomeno inspiegabile che pure deve avere le sue radici naturali. [p. 89 modifica]

Dolcemente strappò Ola dalla donna, la strinse a sè, e si accorse ch’ella si nascondeva vergognosa contro di lui. A poco a poco i singhiozzi e gli stridi dell’altra cessarono; a poco a poco ella sollevò la testa come ascoltando un rumore lontano; poi si soffiò forte il naso con le vesti, e d’improvviso sgusciò via strisciando un po’ curva lungo la parete.

Il maestro non disse una parola per trattenerla: solo scosse la bambina e la staccò da sè.

— Non vedi che mi sporchi tutto col tuo moccio? — gridò.

E bastò questo per dissipare la tempesta. Poi tutti tornarono al lavoro.


Il giorno dopo era quello della febbre, e Ornella rimase giù a sorvegliare Marga, mentre il maestro rifiniva le decorazioni del salotto. Ecco attaccato in alto il bordo della tappezzeria, rosso a striscie d’oro, che sembrava di broccato; adesso restava da ritingere lo zoccolo giù in fondo alle pareti, e anche a questo s’era provveduto, con un barattolo di vernice che pareva cioccolata sciolta e dentro il quale Ola frugava con delizia ritingendosi per conto suo le dita e la vestina.

A mezzogiorno tutti e due lavoravano ancora quando salì Antonio per chiamarli a colazione; Ola gli corse incontro destando, come sempre, [p. 90 modifica]una lieve gelosia nel nonno: il padre però tese le mani in avanti per difendersi da qualche possibile macchia, poichè indossava il vestito nuovo, quello di lana scura, che gli disegnava bene le spalle slanciate e ravvivava il colorito del suo viso.

Era stato al funerale di un vecchio marinaio suo dipendente, ma l’impressione che ne riportava era piuttosto di allegria: i suoi begli occhi umidi e lunghi brillavano di gioia e il profilo lucido e la bocca fresca lo ricordavano al maestro adolescente spensierato quando tornava da qualche scorreria coi suoi amici nei boschi della montagna, e riportava a casa, in trionfo, un uccello morto o una manciata di funghi. Poichè Ola lo rincorreva, e tentava di afferrarlo, egli cominciò a balzare e nascondersi qua e là dietro i mobili, poi entrò nella stanza attigua e chiuse l’uscio: ma la bambina fece il giro dell’appartamento e lo raggiunse furtiva: e furono risate e stridi che riempirono come di un garrire di rondini le stanze silenziose.

— È ancora un ragazzo, — pensò il maestro, e diede allegramente gli ultimi tocchi alla parete, illudendosi ancora, come negli antichi giorni felici, che Antonio potesse mettere giudizio e diventare un figlio e uno sposo affezionato e fedele.

Anche a tavola, sebbene ogni tanto egli li pregasse di non dar molestia alla malata, quei [p. 91 modifica]due continuarono a scherzare e ridere. Per dare ragione della sua allegria Antonio disse:

— Se mi va bene un affare che oggi ho cominciato a combinare, oh sì davvero andremo a fare un viaggio a Gerusalemme e ad abitare poi il piano di sopra senza ricevere più in casa questi intrusi d’inquilini che vengono qui per fare economia e si dànno l’aria di baroni.

Si fregò le mani, poi parve ricordarsi di una cosa penosa.

— E farò venire i dottori più famosi d’Italia, per guarire la mamma.

Egli diceva così: la mamma, quando Marga non c’era, con affetto infantile.

— Io credo, — osservò il maestro, — che basti farle cambiare aria: portarla un po’ in montagna, adesso che incomincia il caldo.

— Anche in montagna andremo, nell’Engadina ch’io conosco molto bene e dove ho pure un amico che è padrone di un albergo. Anche lui ha fatto fortuna in modo quasi eguale al mio. Teste matte tutte e due. Serviva con me nella Dogana e faceva l’amore con la figlia di un albergatore, di nascosto dei parenti di lei. Un bel momento è cacciato via dal posto, perchè aveva fatto non so che pasticci. Ebbene, per qualche tempo sparisce, poi si veste da contadina, e si presenta all’albergo offrendosi come donna di fatica. E viene accettato! E per tre [p. 92 modifica]mesi se la gode con la ragazza, finchè lei non confessa al padre di essere incinta. Vengono cacciati via dall’albergo, ma col tempo poi i parenti s’impietosirono e perdonarono. E adesso, morto il padre della ragazza, il mio amico è padrone lui dell’albergo. Gli voglio scrivere, anzi, uno di questi giorni.

— Bravi, bravi ragazzi, — approvava il maestro sebbene a lui queste storielle, raccontate in presenza di Ola, non garbassero molto.

Anche Ornella serviva a tavola imbronciata, ma per qualche cosa che pareva riguardasse lei sola. Del resto nessuno badava a lei, tranne forse il maestro che ogni volta che la vedeva entrare la sbirciava solo per un istinto di curiosità ancora non bene definito da lui.

In fine di colazione Antonio le disse di andare a prendere una bottiglia di vino spumante per festeggiare la riuscita del buon affare. E quando la bottiglia venne egli si alzò e si mise a ridere come già ubbriaco: poichè nel cavo in fondo al vetro c’era un ragno bianco che pareva d’argento.

— Fortuna! Fortuna!

Lasciò che il ragno uscisse frettoloso dal suo nascondiglio e nel vederlo correre smarrito qua e là sul dorso della bottiglia, si piegò e lo aiutò a raggiungere il pavimento.

— Va pure! Tutti abbiamo diritto a vivere! [p. 93 modifica]

Ornella guardava: e sul suo viso il corruccio si scioglieva in un sorriso traversale, beffardo e quasi crudele. Ella infatti, mentre Antonio si rimetteva a sedere, allungò il piede e schiacciò il ragno. Solo il maestro si accorse del delitto e non disse nulla.

La bambina s’era un po’ assonnata, e i racconti di avventure giovanili che il padre continuava a ricordare non la divertivano: ricominciò a ridere solo quando egli, dopo aver bevuto, fece finta di suonare il violino, con la testa reclinata sul braccio che sosteneva l’invisibile strumento, e pizzicandone le non meno invisibili corde ne imitò con la voce il suono. Poi egli finse di deporre sulla tavola lo strumento, e riempì ancora il bicchiere.

— Questo lo porteremo alla mamma; che beva anche lei per il nostro affare.

Allora Ornella scattò.

— Ma non ne vuole, lo sai.

Gli occhi di lui corruscarono feroci.

— Ornella! Portaglielo tu, anzi.

Ella obbedì; ma tornò subito col bicchiere pieno ove ancora tremolava il velo della spuma.

— Bevilo tu, allora.

Lei non beveva mai, almeno in presenza degli altri: tuttavia vuotò il bicchiere, in tre sorsi; e il vino parve diventare fuoco sotto la sua pelle che si tinse violentemente di rosso. [p. 94 modifica]

E anche queste cose dispiacquero al maestro.

— Maestro Giuseppe brontolone, — disse a sè stesso, quando, dopo aver salutato Marga e accompagnato Ola al suo lettuccio ov’ella s’era subito addormentata, anche lui si ritirò nella sua cameretta con l’intenzione di fare un sonnellino prima di rimettersi al lavoro. — Che hai da essere sempre così scontento? Su ogni cosa trovi da ridire e criticare, e non ricordi che pure tu sei stato giovine e hai messo in pratica il proverbio antico: giovinezza non è virtù. Anzi sai bene tu quello che hai fatto! E adesso tu pretendi dagli altri quello che tu non hai dato.

Ma nonostante i suoi pensieri mansueti non si sentiva tranquillo; non aveva voglia di dormire, non aveva voglia di leggere. Forse era effetto anche in lui della primavera, di quella primavera marina che scoppiava violenta come una tempesta.

La terra ringagliardita dall’alito del mare pareva sollevarsi su sè stessa, gonfia d’erba e di fiori; e ogni foglia, ogni fiore s’agitava con un senso di gioia quasi folle. Le rose delle quali era fiammeggiante il giardino di Ola, si sfogliavano o cadevano giù intiere a terra come ubbriache; e il vento del meriggio ne gettava i petali, palpitanti come brani di pelle ancora viva, fin dentro la cameretta del maestro.

Chiuso in questa cameretta più che mai [p. 95 modifica]malinconica nel fasto dell’ora e della stagione, l’uomo si sentiva come un monaco nella sua cella; arriva un momento in cui pure il monaco, dopo i digiuni, i sacrifizi, le astinenze e le estasi, sente la sua carne ridestarsi e ribellarsi, e lo spirito sprofondarsi nella grande disperazione del nulla, quella che vuol dimostrare l’inutilità anche del dolore.

— Maestro Giuseppe, andiamo fuori, andiamo a sperderci anche noi fra i granellini di sabbia sollevati dal vento.

Così pensò, e gli parve di prendere la sua anima per mano, come un bambino che piange senza ragione, e di condurla fuori.

Uscì silenzioso; la cucina era tutta ancora in disordine, poichè Ornella, profittando del riposo degli altri, forse chiacchierava coi contadini. Questa assenza di lei lo urtò, e maggiormente s’indispettì quando vide, nel piccolo portico dell’ingresso, la porta socchiusa. Ed egli era certo di averla chiusa a chiave, dopo essere ridisceso con Ola e Antonio dal piano di sopra. Un istinto che non era nè curiosità nè diffidenza, ma piuttosto paura, lo spinse a entrare e salire cauto le scale: e ricordava con angoscia il giorno dell’escursione con Ola, il modo di lei di sfiorare le pareti, il mistero che li conduceva come esplorassero un tempio sconosciuto.

— Questa casa sarà tua, Ola; tutta la luce del [p. 96 modifica]mare sarà tua, quando sarai grande e conoscerai l’amore.

Tutto gli ritornava su dal cuore agitato, mentre saliva gradino per gradino, e gli pareva, come in certi sogni, di andare su per una scala pericolosa.

Si fermò sul pianerottolo; anche la porta dell’appartamento era socchiusa, e gli diede l’impressione di una bocca aperta per parlare.

Una voce ne usciva infatti; ed egli intese allora il senso d’inquietudine e l’istinto subcosciente che lo avevano incalzato e condotto fin lì.

Era la voce di Ornella.

— Questo è l’affare, questo, La Bulvin. Lo sanno tutti, oramai, che quella sgualdrina sta per mettersi con te.

— Smettila, Ornella, — disse la voce di Antonio; ed era pacata, anche allegra, ancora tinta dal calore leggero del vino spumante; ma come sempre ci si sentiva un fondo di finzione.

Questo doveva irritare maggiormente Ornella perchè la sua voce risonò più forte, rauca e provocante, quale un giorno il maestro gliela aveva [p. 97 modifica]sentita a pronunziare impudiche parole con le sue compagne.

— In bestia non puoi andare, perché bestia tu sei già, porco e traditore. Però questa volta non andrà liscia. Lo sai che sono incinta di nuovo; e questa volta non voglio fare quello che neppure gli animali fanno, e correre il rischio di finire in galera.

— Smettila, Ornella, è meglio per te. Tu farai quello che io ti dirò di fare, per il resto non mi tormentare. Tu sai che sono un galantuomo.

Ornella sghignazzò; ma egli era docile, pronto a tutto, e dovette chiuderle la bocca con un bacio perchè lei tacque d’improvviso e un sinistro silenzio di colpa e di abiezione coprì la loro querela.

Allora il maestro si lasciò scivolar giù per la scala come un ladro ferito a morte; tutto il sangue migliore della sua vita lo lasciava lì.

Andò verso il cancello, poi tornò indietro; ma il solo colore della casa dove Ola dormiva e quei due sopra peccavano, gli fece male agli occhi; si rivolse ancora e camminò, giù giù, fino alle trincee di sabbia dove cadde abbattuto come forse nei giorni della guerra qualche vecchio soldato preso di mira dal nemico.

Egli non era mai stato un uomo impulsivo, e non voleva cominciare ad esserlo da vecchio; ragionava, quindi; il dramma del quale si sentiva [p. 98 modifica]come il personaggio centrale gli appariva nella sua cruda naturalezza, e non gli restava più dubbio che anche Marga sapesse dell’inganno e sopportasse per amor di quiete. Non esiste forse uomo che non commetta adulterio, e in migliaia di famiglie il fatto avviene nella stessa casa e a volte prende anche, come avveniva adesso, il sapore dell’incesto; perchè lui dunque dava un colore così tragico all’avventura che, d’altronde, aveva presentito fin dal primo giorno del suo arrivo?

Egli lo sapeva, il perchè, e tutte le ombre che avevano attraversato quel suo senso di una vita nuova ritrovato nell’amore di Ola, si riaddensavano adesso come un velo che piegato e ripiegato più volte non lascia più penetrare la luce. La nicchia di sabbia nella quale giaceva era la stessa dove un giorno, seduto accanto ad Ola che giocava con le conchiglie e le farfalle, quel senso di una vita tutta da ricominciare gli era apparso quasi insopportabile; e ricordò la sua preghiera.

— Signore, passa pure su di me con tutte le legioni del dolore purchè la creatura nuova che mi accompagna non conosca il male.


Allora si sollevò; riconosceva la volontà di Dio. E le legioni del dolore passavano sopra di lui ma non lo distruggevano. [p. 99 modifica]

Come dalle spighe battute, il grano doveva separarsi dalla pula e uscirne mondo e benefico.

— Sono qui, — disse a sè stesso, — pronto a tutto, anche a sradicarmi dal cuore questa ultima gioia terrena che è l’amore per la bambina, purchè lei sia salva.

Egli era uno di quegli uomini che presa una volta una decisione di coscienza non se la lasciano togliere neppure dalla morte; ma, come arrivato allo svolto di una strada usava guardarsi indietro per misurare la via percorsa e le forze che gli rimanevano per proseguire, così prima di sollevarsi dalla sabbia ripensò al suo passato e al perchè era giunto fino lì.

E da prima si rivide bambino nella casetta degli olivi, all’ombra austera della montagna. Il padre era maestro di scuola, e a tempo perso cacciatore impavido e appassionato; non mangiava mai la selvaggina, ma uccideva le bestie e gli uccelli per istinto primordiale di ferocia. La madre faceva il pane in casa e lavorava la terra come un contadino, potava anche la vite e gli olivi e sapeva l’arte di fare il vino e l’olio; e anche lei nelle ore di ozio coltivava una passione: ricamava piccoli arazzi a punto in croce, meravigliosi per la tinta, le sfumature, le ombre, la precisione dei contorni.

Uno di questi quadretti intorno al quale ella aveva lavorato per anni ed anni, egli lo [p. 100 modifica]conservava ancora nella sua valigia dalla quale non si decideva a toglierlo quasi per un senso di superstizione; aveva paura che glielo rubassero e che questo gli portasse sventura.

La madre era dunque, come del resto anche il padre, un misto di rozzezza e di bontà gentile; egli ricordava che ella non lo baciava mai; ogni sera però lo accompagnava al suo lettuccio e pregava per lui a voce alta. Ed egli sentiva cadergli sulla testa, come stelle e fiori, le parole della preghiera, ma avrebbe preferito dei baci.

Così quando giovine già maturo si trovò circondato dalle cure e dalle carezze di una donna, era caduto fra le braccia di lei come un bambino stordito. Era una parente già anziana; e sebbene non alla sua prima colpa, quando si accorse di essere madre e che fra loro non poteva esistere altro legame, s’era impiccata.

Egli trema ancora al ricordo; non lo caccia però, questo ricordo, anzi chiude gli occhi per fissarlo meglio. Rivede la donna penzoloni da una trave, come una grande marionetta; si è coperta il volto; si è vestita di rosso, con nastri d’oro; i colori che a lui piacevano; si è vestita così per andare a nozze con la morte; e sotto c’è una sedia a terra che pare caduta per il terrore.

Un bambino di tre anni, frutto delle prime colpe di lei, dorme tranquillo nel letto comune; [p. 101 modifica]ella gli ha rimboccato bene le coperte, gli ha disteso un fazzoletto sul viso perché neppure nel sonno veda: e sul guanciale ancora segnato dalla testa affannata di lei, ha messo un ramoscello d’olivo.

— Pace, pace, — singhiozzò ancora l’uomo, riaprendo gli occhi grandi di dolore e di rimorso.

Il figlio della donna egli lo aveva adottato: e gli anni erano passati. Nessuno sapeva della sua colpa, ed egli anzi veniva considerato uomo austero e caritatevole, un mezzo prete, come lo chiamavano i suoi scolari che lo rispettavano ma non lo amavano.

La madre intanto tirava su il ragazzo come un suo vero nipote; lei sola dubitava della verità ed era grata alla parente che con la sua morte volontaria aveva evitato lo scandalo e il disonore della famiglia; il bambino cresceva bello e prepotente: sapendo di non essere figlio del maestro lo chiamava zio e non c’era caso che gli obbedisse una sola volta.

Finite le scuole elementari dichiarò di non voler saperne oltre; e il maestro che desiderava trasmettergli almeno il suo sapere e la sua cattedra, cominciò a soffrire come un vero padre per l’avvenire oscuro del figlio.

Ma aveva accettato questa paternità come un’espiazione della sua colpa, e guardava con [p. 102 modifica]coraggio il suo castigo nella faccia stessa del ragazzo.

Tutta la sua vita era, per questa volontà di espiazione, lineare e casta; sentiva gl’impulsi del male e i bisogni della carne e le rivolte dello spirito, comuni a tutti gli uomini; gli sembrava però di essere a cavallo su un puledro indomito che giorno per giorno frenava e addomesticava.

A volte aveva come delle discussioni con Dio, e sempre ne usciva vittorioso; su un punto solo Dio non cedeva e lui non insisteva: su quel ragazzo che lo faceva soffrire, che non gli dava neppure il compenso di farsi amare.

Anche la vecchia madre dopo aver molto sofferto per la fuga del ragazzo era morta aspettandone il ritorno. Nel suo armadio si trovarono tanti oggetti appartenuti a lui bambino: giocattoli, vestiti, immagini, i primi dentini e i primi riccioli legati con fili di seta; e quando il maestro li vide, finalmente pianse, appoggiato allo sportello aperto dell’armadio come ad una porta che si spalancava su un mondo d’infinito dolore; poi da lontano cominciò a voler bene al giovine, rimproverandosi di averlo allevato senza amore, per solo dovere e quindi per solo egoismo.

Ricominciarono così i colloqui con Dio, finchè un giorno egli si scosse e disse a sè stesso che [p. 103 modifica]tutto era superstizione: si ama quando si può e chi si può amare; ed è un mistero già tanto grande e divino per sè stesso che è un sacrilegio il solo volerlo spiegare.


Si sollevò e andò lungo la strada fra l’arenile e i villini, già percorsa con Ola il giorno dopo il suo arrivo, fra le scapigliate siepi di tamerici che accoglievano e respingevano da tutte le parti, come ci giocassero spensieratamente, i soffi del vento sempre più forti. Anche gli ontani, più in là, tremolavano tutti, riflettendo il movimento e lo scintillìo delle onde laggiù dopo la cornice della spiaggia.

La strada andava a perdersi chi sa dove; egli non era mai riuscito a percorrerla sino in fondo, e aveva l’impressione che costeggiasse tutto l’Adriatico; per questo senso di fantastico e perchè le trincee di sabbia la riparavano dal vento egli la preferiva alle altre; il sole vi si raccoglieva tiepido, di una dolcezza viva, e sul piano erboso, solcato appena dalle ruote dei carretti dei contadini romagnoli, e dove lo sterco stesso dei cavalli era verdastro e pulito, si camminava come su una corsìa vellutata.

Egli la preferiva; lungo quella strada le sue afflizioni si sperdevano acciuffate dai rami capricciosi delle tamerici che giocavano con esse e poi le buttavano al vento; e quei solchi dove [p. 104 modifica]i fiori del croco si risollevavano, ciascuno con una goccia di luce come una lagrima propria, e qualche farfalla solitaria che gli veniva pazzamente incontro e poi lo scansava quasi non riconoscesse in lui quello che cercava, tutto infine gli ridestava il senso di una seconda infanzia.

Ed ecco i villini sono finiti; il mare, dopo essere apparso a intervalli fra le dune, adesso lo si vede tutto come una grande pianura coperta dei fiori del lino: la strada sale dolcemente e una linea di nuvole leggere sopra gli ontani che sovrastano le siepi di tamerici pare ripeta il mormorio delle onde. Sono invece gli alberi che mormorano; egli ricorda ancora una volta i canti religiosi del suo paese, e tenta anche lui di ripeterli:

Il marinaio su le onde
t’invoca, o Signore....

Subito però tacque, impressionato dal suono della sua voce che gli pareva scaturisse di terra, portata subito via dal vento; ma anche l’impressione del marinaio che fra le onde agitate invoca l’aiuto del Signore non lo abbandonò, mentre continuava a camminare un po’ faticosamente per la strada in salita, andando contro il vento come una barca in pericolo. Finchè d’un [p. 105 modifica]tratto si fermò, con un senso di sollievo, quasi fosse giunto a casa sua.

Dietro il velo della rete di un cancello una casa infatti sorgeva davanti a lui, grigia di vecchiaia e di abbandono.

Era la villa degli Ontani, la casa maledetta.

Del resto non era la prima volta che egli si fermava a guardarla; e il pensiero che tutte quelle stanze rimanevano da anni vuote, mentre lui era costretto ad abitare in una cameretta buia e umida come una cantina, lo legava alla rete del cancello con l’incanto che piega i bambini sulla bocca dei pozzi ove appare un cielo sotterraneo mille volte più attraente del cielo vero.

Una piccola vecchia vestita di nero, curva in avanti come a cercare qualche cosa per terra, apparve in fondo allo spiazzo e si avanzò verso il cancello: egli riconobbe la vecchietta «che ruba i bambini» ed ebbe l’impressione che anche lei lo avesse veduto e venisse giù a domandargli qualche cosa: tuttavia si staccò dalla rete e tornò indietro.

Il vento adesso gli batteva alle spalle; egli se lo sentiva scorrere entro tutte le aperture della giacchetta, e sebbene vedesse gli alberi gonfi di verde e le viti azzurre di solfato di rame gli pareva fosse d’inverno.

Tanto, tanto tempo era trascorso dopo la sua uscita dalla villa di Ola! Stanco si abbandonò [p. 106 modifica]di nuovo sulla proda della strada, e gli parve che il sole gli coprisse con un panno caldo le ginocchia. Era ancora un po’ di calore del buon Dio, un po’ di calore nella morte.

Così lo raggiunse la vecchia che uscita dalla casa maledetta si avanzava camminando in modo strano; posava cioè un piede al suolo e trascinava l’altro con solo la punta del pollice entro la ciabatta che ogni tanto le sfuggiva e pareva volesse nascondersi fra l’erba.

Quel piede doveva farle male, perchè un’espressione di sofferenza le solcava il viso: quando però giunse davanti al maestro gli occhi le s’illuminarono e tutta la persona si raddrizzò: pareva fosse lui la cosa ch’ella cercava, il rimedio al suo male. Lo guardò dritto in faccia e domandò, salutandolo:

— Buon giorno. Dov’è la sua bambina?

Il solo poter parlare della bambina dissipò le tenebre e il freddo intorno a lui.

— Dorme, — rispose sottovoce, come per non svegliarla. — Voi la conoscete?

— Chi non la conosce? Non si ricorda che li ho veduti assieme in piazza? Conosco anche il padre, Antonio De Nicola.

A lui venne in mente di domandare che cosa si diceva di Antonio, in paese, e se si conoscevano i suoi stravizi: ma a che pro? non era lui stesso che meglio li conosceva? [p. 107 modifica]

— La bambina è bella e ben piantata. — diceva intanto la vecchia, come per confortarlo: — e deve essere molto buona. A me piacciono molto i bambini e per questo, forse, dicono che io li rubo. Ne ruberei davvero qualcuno, se potessi, e potessi mantenerlo bene. Invece lo dicono in altro senso.

— Lo dicono le mamme, per impedire ai piccoli di venire fin qui, dove il posto è, certo, molto solitario.

La vecchia ebbe un sorriso di derisione per la buona volontà di lui.

— Crede lei? Eppure è vero che ho tentato di rubare un bambino, nei primi tempi che si era qui, perchè mio figlio non vuol prendere moglie, ed io invece amerei tanto la compagnia dei nipotini. Le creature innocenti, — proseguì, mentre il maestro la fissava fra pensieroso e inquieto, — preservano dal male e benedicono il luogo dove vivono. Ed io ho paura a stare in quella casa maledetta dal delitto: anche mio figlio comincia a credere che ci sia un sortilegio. Dacchè siamo qui la tristezza grava su di noi. Di notte si sentono rumori strani, dentro la casa, e pare che ancora i figli ammazzino il padre, poi ci si è ammalato il cane, d’un male che non s’è saputo quale: di notte anch’esso guaiva e stralunava gli occhi come vedesse e sentisse. Ha afferrato mio figlio per il lembo [p. 108 modifica]dei calzoni e lo ha condotto fino al cancello; senza dubbio voleva che ce ne andassimo. Ieri è morto, e mio figlio ha pianto; poi lo ha seppellito in fondo al campo: ed oggi è andato a cercare un suo amico per chiedergli se vuole sostituirlo nella custodia della casa.

Il maestro sollevò vivacemente la testa.

— Perchè non lo cercate qui, il custode?

— E me lo trovi lei. Neppure il cane da sostituire si trova, in questo paese di ebrei.

Egli piegò di nuovo la testa. Conosceva poco il paese, ma sapeva che tutti lavoravano, in mare e in terra, padroni di barche da pesca e piccoli e grandi proprietari; tutti guadagnavano, forse davvero un po’ troppo attaccati ai denari come i mercanti israeliti; e anche il più povero si sarebbe vergognato a fare semplicemente il custode di una casa sotto sequestro.

— E anche laggiù non è facile, — aggiunse la vecchia accennando ad un luogo lontano, — la gente non ama stare in casa altrui, in paese altrui.

— Ed ha ragione, — disse l’altro, senza sollevare la testa: e parve non darle più retta, immerso a fondo nei suoi pensieri, che erano ingarbugliati e strani come i discorsi di lei, ma a poco a poco prendevano forma, si riunivano e si schiarivano in uno solo.

— Che c’è da fare, per la custodia? — domandò finalmente. [p. 109 modifica]

— Poco e niente. Bisogna solo sorvegliare che nessuno, nè i ladri nè i parenti dei parricidi, possano rompere i sigilli o penetrare in altro modo nella casa.

— L’alloggio del custode dov’è?

— È attaccato alla villa; venga a vedere.

Egli fa un moto istintivo per alzarsi; poi scuote forte la testa dicendo:

— Sono troppo vecchio; altrimenti ci verrei io.

— Vecchia sono io, — esclama lei tutta contenta di aver trovato quello che andava cercando. — E mio figlio è sempre malato, eppure gli è riuscito facile custodire la casa.

— Ma i campi chi li coltiva?

— Sono affittati a dei contadini: noi non abbiamo che un pezzetto di terra dietro la casa, poi c’è la paga; poco, sei lire al giorno, ma qualche cosa è. Appena mio figlio torna lo manderò da lei, dunque....

— No, no, vecchia, — dice lui smarrito: — ho scherzato. [p. 110 modifica]

Ma appunto come dopo uno scherzo sia pure involontario che incrina un duro dolore, egli si sentì sollevato. Riprese a camminare.

Sentiva sempre più accanto a sè la presenza di Dio. Non era forse Dio che gli aveva mandato la vecchia incontro per offrirgli un rifugio di penitenza? Prima però bisognava compiere il proprio dovere senza indugio, di fronte ad Antonio: e la casa dalla quale era fuggito con disperazione e ripugnanza adesso lo riattirava come un tempio dove ci si pente e si prega e si sacrifica.

Trovò Antonio che dispondosi ad uscire si aggiustava la cravatta e le falde del cappello davanti allo specchio della saletta da pranzo.

Lo guardò alle spalle e anche quel dorso agile e forte e la nuca potente gli ricordarono, come già le forme di Ornella, non so quale essere vicino più che alla umana alla natura animale. L’uomo superiore di solito ha il corpo debole e imperfetto: la carne pesa in un modo o nell’altro sul suo spirito, onde questo tenta di vincerla e superarla. [p. 111 modifica]

— Antonio, dov’è Ornella? La domanda, sebbene fatta sottovoce e con prudenza, allarmò subito Antonio che si volse tutto d’un pezzo: l’aspetto dell’altro era però così stanco e disfatto, che egli rassicurato rispose con premura:

— Ha bisogno di qualche cosa?

— Ho bisogno di parlarti. Vieni di là, nella mia camera.

Là si poteva parlare con calma. Le cose intorno nella penombra verdastra pareva fingessero di dormire, per non turbare il colloquio, e del resto adesso al maestro tutto appariva semplice, chiaro; ed egli non intendeva perdersi in parole inutili.

— Siedi, — disse scostando la sedia davanti alla tavola sulla quale fra le sue carte serpeggiava un filo di perline lasciato da Ola. E mentre Antonio scostava ancora più in là la sedia, e obbediva come un ragazzo, egli nascose sotto una carta le perline, non per paura di soffrire, ma perchè d’un tratto sentiva che non il solo desiderio di salvare dal marcio intorno la bambina, ma un istinto universale di bene lo guidava.

— Ascolta, — disse, ascoltando anche lui le sue parole, e con l’accento umile di chi non vuole offendere ma difendersi, — contro la mia volontà ho sorpreso oggi il tuo colloquio con Ornella. [p. 112 modifica]

Antonio non parve colpito; anzi il sorriso istintivamente fatuo e beffardo del conquistatore di donne gli sollevò il labbro superiore: e aspettò che il maestro continuasse. Il maestro non continuava: aveva veduto quel sorriso e sentiva l’inutilità del suo combattimento.

— Quella maledetta ragazza, — proruppe infine Antonio, d’improvviso sdegnato, — ha lasciato la porta aperta forse apposta. Per questo, per questo! — ripetè, togliendosi e rimettendosi con rabbia il cappello.

— E tu perchè non l’hai chiusa? Forse era meglio. Sì, meglio ignorare il male che combatterlo inutilmente.

— Ma lei, — disse cinicamente Antonio, — crede che la ragazza sia alle prime armi? E chi è l’uomo che non profitta delle occasioni? Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

E il maestro si sentì davvero come percosso dalla pietra che lui stesso tentava di scagliare: ma non si fermò.

— Tu non devi peccare in casa tua, in casa di tua figlia: nè qui nè altrove, del resto: il peccato è sempre lo stesso, ovunque si commetta. E non devi far soffrire tua moglie, che forse sa tutto e tutto compatisce per la bambina. Può darsi che io non sia in grado di scagliare la prima pietra, ma appunto per questo ti dico che certe cose si pagano, un giorno o l’altro, e a caro prezzo. [p. 113 modifica]

Antonio parve scosso: a testa china lisciava il suo cappello e non reagiva: solo domandò: — È Marga che la fa parlare così?

— Antonio! Tua moglie darebbe la sua vita prima di aprire il suo cuore ad anima viva. Ma la sua pena traspira anche dal suo stesso riso.

— Marga non mi vuol bene, — disse Antonio accigliato. — Non vuol bene che al marito morto.

— Non è vero! Si rifugia nel suo ricordo come il cervo ferito nella sua tana. Ma anche questo non importa: l’essenziale è che qui l’aria deve essere purificata, perchè lo stesso contegno di lei, di Marga, accresce l’infezione. L’aria deve essere purificata, — ripetè sbattendo a ventaglio le mani, — per la bambina, se non per voi. Intendi?

— Che ne sa la bambina?

— La bambina, se continua a respirare quest’aria, si corromperà come voi, e un giorno, quando vedrà nei tuoi occhi il dolore per la sua perdizione, saprà ben risponderti: tu mi hai insegnato il male.

Antonio scattò, come una verga ripiegata a forza.

— No, no. Lei no. Se io sono così è perchè sono nato così. Si nasce.... si nasce.... Mia madre era come Ornella.

Allora una catena di ferro parve avvincere i [p. 114 modifica]due uomini, a tradimento, ribaltandoli in uno stesso abisso di vergogna e di terrore.

Il maestro disse con voce sorda:

— Dunque lo riconosci che fai del male?

— Lo riconosco. Ma non sono io solo. Molti sono peggiori di me.

— Tutti siamo impastati di bene e di male, ma quest’ultimo bisogna vincerlo, Antonio. L’acciaio che è l’acciaio viene temprato e ridotto a spada, da chi vuol vincere il nemico.

Antonio rimaneva in piedi, come un servo che aspetta ordini, tormentando con crudeltà, quasi fosse un animale vivo, il suo cappello di feltro. Disse infine:

— Mi dica lei che cosa devo fare.

— Devi far andar via immediatamente di casa la ragazza, e provvedere poi a lei e alla creatura.

— E poi? — insistè Antonio con tristezza.

— Dio poi ti aiuterà, se hai buone intenzioni, — disse il maestro; ma un senso di smarrimento invase anche lui al pensiero del poi.

E questa nebbia non lo lasciò più: sentiva che Antonio, pur mostrandosi remissivo, gli sfuggiva, gli scivolava di mano come un gatto che per quanto in apparenza docile non può rinunziare ai suoi istinti selvaggi. [p. 115 modifica]

Sul tardi andò a passeggio con Ola: la compagnia di lei, però, anzichè sollevare affinava la sua pena: il suo pensiero correva sempre a casa, dove gli pareva di aver lasciato Antonio gravemente malato.

Ola lo tirava verso il paese, dove c’era gente e rumore, lui invece andava verso i viali solitari dove il passo moriva sul folto dell’erba e il cielo aveva di nuovo per i suoi occhi il riflesso della solitudine mortale che gli vuotava il cuore.

Ola si annoiava: si piegò due o tre volte a cogliere fiorellini e ad osservare qualche insetto, ma non richiamava più il nonno coi suoi stridi di meraviglia, anche lei raccolta in un suo pensiero segreto. Una volta si attardò tanto che lui, andato avanti, si volse a richiamarla. Lei non risponde, non si muove, disobbediente e taciturna, finchè lui non torna indietro e minaccia di darle uno scappellotto.

Ed ecco che sono diventati nemici. Meglio così, pensa lui con durezza, tanto un giorno o l’altro ci dobbiamo lasciare. [p. 116 modifica]

Anche lei, afferrata e trascinata dalla mano di lui, lo guarda di sotto in su, studiandolo bene, come il giorno del loro primo incontro; perchè sente di essere accanto ad un altro uomo, ad un nonno diverso di quello di prima. E d’un tratto gli domanda annoiata e stanca:

— Quali erano le canzonette che sapevi da bambino?

— Tante ne sapevo, — egli risponde burbero; — adesso sono vecchio e non le ricordo più.

— Neppure quella del marinaio sulle onde?

— Neppure quella, — egli dice, duro e ostinato, ma d’improvviso sente un suono d’organo che viene di lontano, di dove? di lontano, di là della pianura, di là del mare: un canto religioso lo accompagna. L’impressione è così forte che egli si ferma ad ascoltare.

— Tu non senti niente? — domanda alla bambina: — non senti una musica lontana?

— Sì, la sento, — dice lei, pronta alla suggestione.

Ed entrambi stanno lì nel viale solitario, in mezzo all’erba ed ai giuochi del sole e delle ombre come in un cerchio magico fra di sogno e di follìa. [p. 117 modifica]

Passavano i giorni e Ornella era sempre in casa, più che mai taciturna e paziente ai rimproveri ingiusti ed esasperanti di Marga. Anche l’umore di Antonio si offuscava, e neppure il vino ambrato delle bottiglie vecchie riusciva a rischiararlo: del resto egli stava sempre fuori di casa e rientrava accigliato come se gli affari gli andassero male: appena mangiato e bevuto usciva di nuovo.

Un giorno tornò con un celebre medico, che aveva il viso barbuto e misterioso di un mago: era il giorno della febbre, e Marga si rassegnò alla visita, ma non rispondeva a tono, alle domande dello scienziato, e quando questi dichiarò che bisognava farle cambiare aria e ambiente e condurla in collina o possibilmente in montagna, volse il viso sul guanciale e chiuse gli occhi, stanca e ostile.

Quando furono di là, nella saletta da pranzo, il grande dottore disse che il caso apparentemente strano era invece semplicissimo: si trattava di antiche febbri di malaria aggravate da una morbosa suggestione d’isterismo. [p. 118 modifica]

— Nei giorni buoni, lavora? — domandò.

— Anche troppo: non si ferma un minuto.

— Male. Ha dispiaceri?

— No, che si sappia, — rispose Antonio, ma i suoi occhi sfuggivano quelli del maestro.

Il medico non lasciò alcuna ricetta, in cambio della bella busta coi denari che Antonio gli consegnò con disinvoltura; insistè solo nel consiglio di condurre Marga fuori di casa, in alto, il più lontano possibile.

Il maestro pensò al suo paese, alla sua casa che forse si poteva riavere ancora, ma quando Antonio disse che sapeva già dove condurre Marga e con lei la bambina, presso certi lontani parenti di lei, piegò la testa e uscì.

Ancora una volta fece la strada verso la casa degli ontani. Quella visita del dottore straniero gli sembrava alquanto misteriosa, come un raggiro combinato da Antonio per mandar via di casa Marga e la bambina. Perchè? I pensieri più torbidi e inconfessabili gli appestavano la mente: ma tant’è, quando si è travolti dal male tutto pare possibile. Ed egli non si sentiva più neppure il coraggio di affrontare di nuovo l’uomo del quale aveva un tempo sperato farsene un figlio: sentiva che una forza ignota gli metteva davanti quel dramma, che era staccato da lui ma come irradiato da lui, e che solo un’altra forza, quella sua interiore, poteva annullarlo. [p. 119 modifica]Insomma, pensava che tutto era per castigo della sua colpa non ancora espiata, e che solo il suo dolore, la sua umiliazione, il sacrifizio della gioia di vivere, potevano sciogliere in bene le cose.

E ancora una volta, come la farfalla notturna attirata dal lume, andò a sbattere contro il cancello della casa maledetta. Il luogo esercitava su lui la stessa suggestione che sui bambini fantasiosi: ma era anche una specie di sfondo alla sua pena segreta ch’egli cercava; uno sfondo scuro e opaco dove le linee del suo sacrifizio potevano staccarsi meglio; così il penitente cerca la caverna dove espiare.

A dire il vero adesso anche là dentro nel giardino solitario la primavera gettava il suo velo di gioia. Gli alberi gonfi di verde risonavano di canti d’uccelli, e le panchine e le tavole, lavate dall’ultima pioggia, parevano nuove.

Ed ecco come a sua volta attirata da un segreto richiamo, la vecchia apparve in fondo al viale: al solito guardava curva per terra, ma quando s’avvide del maestro tentò raddrizzarsi; con un piede sì e un piede no corse giù al cancello e senz’altro aprì.

Egli ricordò allora che aveva promesso di tornare ed entrò: e dopo aver richiuso il cancello, ella lo condusse a vedere la casa del custode. [p. 120 modifica]

Era una lunga stanza addossata alla villa e che un tempo doveva aver servito da rimessa o qualche cosa di simile: metà era alta fino al tetto, del quale attraverso le travi si vedevano gli embrici rossi: l’altra metà era coperta da un soppalco al quale si saliva per mezzo d’una scaletta a piuoli.

— Lassù dorme mio figlio, — spiegò la vecchia. — Ci sono pure le lenzuola, che ci furono consegnate col mobilio.

— Bel mobilio, — pensò il maestro, guardandosi intorno.

Nell’angolo sotto il soppalco il giaciglio della vecchia era ricoperto di un drappo che pareva un sacco: mucchi di vecchie patate in germoglio e di foglie secche di granone accompagnavano gli altri pochi mobili luridi e sciancati che testimoniavano essere quella un’abitazione di cristiani. Le pareti, poi, grezze affumicate, avrebbero ricordato le cucine primitive dei contadini benestanti, senza la sporcizia, il disordine e il tanfo di stalla che davano a tutto l’ambiente un colore inumano: solo compenso a tanta miseria [p. 121 modifica]un grande camino, e un fornello sotto la stessa cappa, e il fuoco acceso che creava alla stamberga come uno sfondo di speranza e di possibilità di vivere.

Sul fornello bolliva una pentola nera col coperchio danzante che lasciava esalare un odore di fagiuoli conditi con aglio: odore umile e onesto che tuttavia ricordò all’uomo i saporiti profumi della cucina di Marga e il ditino di Ola che batteva l’unghia sullo smalto lucente della pentola annunziando il lieto desinare: ed egli non scacciò il ricordo, sebbene ne soffrisse; poichè la penitenza non è tale se non intessuta di grandi e piccole rinunzie.

Verso sera entrò a vedere Marga. Era senza febbre, ma più sfinita del solito, col viso di un pallore azzurrognolo di cadavere reso più sinistro dal chiarore rossigno del crepuscolo.

— Quel dottore, — ella domandò con la sua voce assonnata, — che ha detto? —

Ha detto che si tratta anche di nervi e che devi riposarti e curare lo spirito.

Questo lo diceva lui, che credeva di saperne [p. 122 modifica]più del dottore, ma il sorriso spettrale di Marga, che lasciava vedere i denti come in un teschio di giovane donna, lo scoraggiò subito.

Anche da quella parte lì non c’era niente da fare, con le parole; tornò tuttavia a sperare quando lei disse:

— Ma io non ci ho niente allo spirito. E voglio, sì, seguire i consigli del dottore. Se si andasse al suo paese, babbo? Da tanto lo desidero.

— Perchè non lo hai desiderato prima? Adesso è tardi. Ho venduto la casa e non saprei dove andare.

— Non importa, babbo, — disse lei, subito di nuovo rassegnata. — Andrò dove Antonio mi conduce. Lei, babbo, non verrebbe con noi? Così Antonio resterebbe poi sempre a badare qui la casa con Ornella, fino al nostro ritorno.

Il maestro la guardò: ella teneva le palpebre abbassate, come per sfuggirgli, ed egli ebbe desiderio di sollevarle con le sue dita, quelle palpebre grevi come le pietre dei sepolcri, e di gridare in modo che tutti lo sentissero:

— Alzati, donna, e cammina.

— Marga, — disse con durezza, — io non verrò con voi: io andrò via presto di qui.

— Perchè? Perchè?

Fra i due piccoli gridi sinceri e accorati di lei vi fu un breve spazio di silenzio durante [p. 123 modifica] il quale il chiarore che illuminava il guanciale parve muoversi e salire verso la parete: e il viso di lei si fece nero di ombra.

— È morta, è morta nell’anima, — pensò il maestro.

Tuttavia sentì il bisogno violento di confessarsi a lei, come appunto ad un morto da lui offeso in vita. Chiuse a sua volta gli occhi e parlò. Il suono della sua voce gli pareva oscuro eppure a volte risonante d’una nota come di oboe, tremula di pianto.

— Marga, io ero venuto qui con la speranza di passare il resto dei miei giorni con voi e forse di rinnovare la mia vita. Così una vecchia barca sgangherata, dopo tante traversie spera di rientrare in porto e di essere riattata. Ma vedo che la cosa non è possibile. La colpa forse è mia: mi accorgo ogni giorno di più che fra me e voi, fra il mio modo di pensare e di vivere e il vostro, c’è un contrasto insuperabile. E quindi io non posso che disturbarvi e, a mia volta, inquietarmi e soffrire inutilmente.

— Ti prego di non parlare, — aggiunse, poichè la sentiva agitarsi. — Altre volte ti ho detto che sei intelligente e che capisci quanto io voglio dire. Io pure so tutto di te, anche se tu taci: ricorda, Marga, quella prima sera del mio arrivo: fin d’allora ho inteso tutto ciò che di torbido si agita nella vita tua e di Antonio. Adesso, poi, [p. 124 modifica]le cose peggiorano. Per amore di voi stessi e per mancanza di religione, voi siete tutti sul limite del peggiore dei delitti, quello di uccidere una creatura prima che sia nata. Io, però, non intendo più di mettermi in mezzo a voi, neppure per riguardo alla bambina che respira quest’aria corrotta e finirà per perdersi anche lei.

Marga aveva rivolto il viso contro il guanciale, e singhiozzava: d’un tratto lo rivolse, scuotendo la testa per liberarsi dal velo dei capelli, e tentò di parlare; ma solo un gemito le uscì dalle labbra.

— È inutile che tu parli, Marga: sarà molto meglio che tu operi. Del resto non credere che io sia qui solo per predicarvi inutilmente la morale. Ho peccato anch’io, ho commesso pure io un delitto simile a quello che adesso vorrei evitare: una donna, la madre di tuo marito, si è uccisa per colpa mia: era incinta e sapeva che io non intendevo sposarla. Io ho preso con me il suo primo bambino, che non era mio, ma del quale volevo farmene un figlio. Con questo credevo di espiare: invece non era che il seme della mia vera espiazione. La vera espiazione comincia adesso, ed io l’accetto intera, purchè voi tutti siate salvi. Non piangere, Marga, non piangere. Piuttosto alzati, come disse Cristo a Lazzaro: alzati e cammina.

La donna piangeva, silenziosamente adesso, [p. 125 modifica]nascondendosi il viso col sudario nero dei suoi capelli.

— Il tuo pianto mi piace, — egli disse, alzandosi senza riaprire gli occhi. — È come la prima pioggia dopo una lunga siccità. E tu ti alzerai e insegnerai a tua figlia quello che io speravo d’insegnarle: che per essere veramente felici bisogna vivere puri e seguire le leggi di Cristo. Tu lo farai; se non oggi, domani lo farai.

Il giorno dopo Marga e Ola, accompagnate da Antonio, partirono per un paese sull’Appennino, dove certi loro parenti possedevano una casa in mezzo a un bosco di castagni. Il maestro andò con loro fino alla stazione, e lungo il viale tenne in braccio Ola, che al pensiero del viaggio e delle nuove cose da vedere non soffriva molto per la loro separazione.

— Ti scriverò, — diceva seria, per consolarlo. — Poi ti porterò tante castagne grosse così, come il mio pugno. E coi ricci anche. Senti come pungono.

Lo pizzicò sul viso: e un’ultima volta risero assieme. [p. 126 modifica]

Anche lui, del resto, era quasi contento. Aveva risolto il suo problema interno, e superstiziosamente credeva che sulla bilancia della vita il dolore si sarebbe equilibrato col bene che poteva derivarne.

Tornò a casa e rimase tre giorni solo con Ornella, senza mai rivolgerle una sola parola di quanto li riguardava tutti. Aveva una paura misteriosa di lei, come di un essere ambiguo che al minimo urto poteva trasformarsi in un mostro: la notte si chiudeva a chiave nella sua cameretta, e di giorno andava a mangiar fuori per il timore che lei lo avvelenasse.

La sera del terzo giorno preparò la sua valigia, e pochi minuti prima che Antonio tornasse, gli lasciò scritto un biglietto dove diceva d’essere costretto a partire. Salutò i giocattoli di Ola, salutò il cane, che gli si aggirava intorno inquieto, forse indovinando i propositi di lui: infine cercò il gatto; lo trovò finalmente che dormiva arrotolato nell’angolo del sofà in camera di Marga, e si fermò a contemplarlo.

Delle zampe si vedeva solo quella che avvolgeva la parte inferiore della faccia, e dalla quale spuntavano i fili d’argento del baffo destro: l’orechio roseo, rovesciato, pareva una conchiglia piena di alghe bionde; e la coda ad anelli bruni e giallognoli, ben disposta intorno sul davanti del corpo tutto raccolto in sè ne [p. 127 modifica]completava il cerchio armonioso. Il fianco respirava, e quando il pelo in quel punto bruno alla superficie e chiaro sotto si apriva e biancheggiava pareva ne uscisse davvero l’alito; e quel sollevarsi e abbassarsi ritmico del bel corpo tigrato dava l’idea dell’ondulazione del mare.

Le pratiche per la sostituzione del custode della casa sequestrata erano già esaurite: il maestro quindi si recò direttamente là per ricevere la consegna.

La vecchia gli vendette, a prezzo di usura, gli avanzi delle sue provviste, quattro galline che facevano le uova e un gallo che pensava solo a godersi la vita: in compenso gli regalò un po’ di carbone e gli insegnò come tenere il fuoco sempre vivo: bastava seppellirne nella cenere calda il seme, cioè una brace bene accesa. Quando lei e il figlio se ne andarono, zoppicando sotto i loro fardelli, tutti e due piccoli e deformi come gnomi del crepuscolo, egli chiuse il cancello e attraverso la rete guardò, di là della strada erbosa, l’orizzonte già grigio che gli parve il muro di una grande prigione. [p. 128 modifica]

Era solo oramai: e provò un senso di smarrimento come quando si pensa alla morte col terrore che con essa tutto finisca. Ebbe voglia di piangere, di appoggiarsi al cancello e baciare la rete dove le ditina di Ola s’erano allacciate: poi pensò che la vecchia gli aveva davvero rubato la bambina, e si pentì della sua fuga, che gli apparve inutile e vile.

— La vera forza dell’uomo sta nel combattere di fronte il male, anche con la violenza: e avrei dovuto parlare meglio a Marga e Antonio e imporre loro di compiere il proprio dovere.

Poi rabbrividì e ritornò verso la triste tana dove s’era rifugiato come un animale ferito. Fece il giro della villa, nera e opaca sul cielo già scintillante di stelle. Nella sua stanza il fuoco era acceso, e quel chiarore gli ridestò il senso della vita: gli parve di aver l’obbligo di non lasciar mai spegnere il fuoco, di averlo promesso a qualcuno; e vi aggiunse legna.

La speranza gli ritornò nel cuore: lo stesso disordine e la sporcizia intorno lo consolarono: poichè gli sembrava di essere custode di un mondo morto, la casa dove i figli avevano ucciso il padre, e di avere intorno a sè tutto un mondo da riordinare e ripulire. [p. 129 modifica]

La sera stessa, mentre credeva di essere completamente solo sulla terra, ricevette una visita. Era il contadino anziano che aveva in affitto il campo della villa. Si presentò rispettoso, col cappello di paglia in mano, e dopo aver domandato timidamente se poteva essere utile in qualche cosa, cominciò anche lui a lamentarsi per la maledizione che pareva gravasse davvero su quella terra.

— Siamo venuti in quattro, io e mio fratello, mia moglie e un suo cugino: si andava tutti d’accordo, e le cose in principio prosperavano. Poi mia moglie è morta, il cugino andò via perchè non gli conveniva più di stare con noi. Siamo rimasti io e mio fratello Gesuino e lavoriamo come cani riuscendo appena, adesso, a ricavare il fitto del campo. Tutto va male; persino le galline non fanno più uova. Inoltre io e mio fratello litighiamo di continuo: anzi lei, che è una persona per bene, ci compatirà se ci vedrà anche a bastonarci.

— Bravi! E perchè lo fate?

— Così, per il gusto di farlo. Prima non [p. 130 modifica]capitava mai. Gesuino è buono, fin troppo, religioso e taciturno: ha il petto foderato d’immagini sacre, prega sempre, e crede agli spiriti, ai folletti e a tante altre diavolerie. Ma quando si tratta di parlar male ha la lingua come uno spiedo. E anch’io non sono cattivo: e ci vogliamo bene: eppure litighiamo sempre. Lui dice che si tratta di stregoneria.

— Non avete donne, in casa?

L’uomo fece un gesto di scongiuro.

— Dopo la morte di mia moglie si è presa in casa una parente. La parente ci ha svaligiato la casa, ed è lei che ha cominciato a metterci in discordia, finchè non l’ho cacciata via a colpi di randello: poi si è presa una specie di serva; questa non rubava e non s’impicciava nei fatti nostri, ma stava tutto il giorno fuori con uomini, era infine una sgualdrina, anche sporca di una malattia che l’educazione non mi permette di nominare. Allora disperati, Gesuino ed io, ci siamo decisi a vivere senza donne. Si vive male, ma si vive meglio che con donne straniere. E lui d’altronde, Gesuino, ha imparato a far di tutto; cucisce persino, ma questo porta via molto tempo.

— Perchè non riprendete moglie?

Il contadino lo guardò di sotto in su, coi suoi occhietti verdi già affondati fra le rughe, tristi eppure maliziosi. [p. 131 modifica]

— La vorrei riprendere, sì, ma la vorrei giovane e con qualche cosa; ma ho paura di queste, salvo ognuno.

Fece le corna e rise: e all’altro parve che lo pigliasse un po’ in giro.

— E vostro fratello?

— Ah, quello poi ha fatto voto di castità. Odia le donne e fugge quando le vede: del resto fugge anche gli uomini; questa sera non è voluto venire con me a salutarla, e, vedrà, non le riuscirà di parlargli due volte in un anno.

— Bene, così saremo più amici.

— Non creda che anch’io ami le chiacchiere, — assicurò subito il contadino; — ma qualche volta bisogna sfogarsi. E se non ci si sfoga con gli uomini con chi lo si fa? Lei dicono che è stato maestro, e quindi sa molte cose. Molte cose.... — ripetè pensieroso. — La vecchia ch’era qui mi disse: quando hai bisogno di consiglio va da lui perchè è un sapientone.

— Che ne sa la vecchia di me? E se fossi stato un uomo sapiente non sarei qui. Ad ogni modo, però, se mi chiedete un consiglio ve lo posso dare, come voi potete darlo a me.

— E se lei ha bisogno di qualche cosa, — riprese l’altro incoraggiato e riconfortato, — comandi pure. La vecchia forse le ha parlato male di noi, perchè con Gesuino appunto non andava d’accordo, e il figlio pretendeva che si [p. 132 modifica]facesse la guardia noi, quando lui era in giro, ed era sempre in giro. Negli ultimi tempi, poi, erano tutti e due divenuti strambi. Vedevano, vale a dire credevano di vedere il fantasma del padre ucciso dai figli: e noi si rideva, sebbene anche mio fratello creda un poco a queste sciocchezze. Lei, però, non ci crederà certo.

— I morti son morti, — disse il maestro; — e quelli da temersi sono i fantasmi dei vivi.

— Ben detto! Ma adesso le tolgo il disturbo e le chiedo scusa. Domani mattina presto vado in paese, se lei ha bisogno di qualche cosa comandi pure liberamente. Ero venuto anche per questo.

— Ebbene, compratemi un pane. E di un’altra cosa vi prego: non parlate di me, non dite che io sono qui.

Il contadino si strinse con due dita le labbra, e i suoi occhi ricordarono al maestro quelli del cane di Ola quando gli si faceva una carezza: si sentì quindi consolato poichè gli parve che la provvidenza gli mandasse, con l’aiuto materiale di quell’uomo semplice, anche il conforto che la vicinanza di un’anima dà a un’altra anima.

Fin dalla prima notte fece il suo dovere: gli parve di sentire rumore e andò a vedere intorno alla villa. Tutto era quieto, e il chiarore della luna dava anzi una luce spettrale al luogo silenzioso e morto. Solo davanti ad una delle [p. 133 modifica]tavole di marmo parve al maestro di vedere un’ombra: era l’ombra di un cespuglio, egli lo vedeva bene, eppure un brivido di mistero gli tremò nel sangue. Ricordò la manina di Ola stretta alla sua, e pensò che la giustizia degli uomini non basta a cancellare il male. Ritornò al suo giaciglio ma non potè riprendere sonno. Sentiva i cani abbaiare lontano e i topi passeggiare sul tetto; anche le galline raccolte sopra una pertica in fondo alla stanza, di tanto in tanto pigolavano; un flebile pigolìo di sogno: egli accese il lume e tentò di leggere, ma la luce era scarsa, gli occhi si affaticavano e la lettura non gli penetrava come altre volte nell’anima. Allora spense di nuovo e si abbandonò ai ricordi, a quelli sopratutto che voleva sfuggire: così la madre nella notte offre il seno al bambino inquieto, sebbene sappia che ciò può fargli male.

Ma l’insonnia era lunga, insistente; e solo all’alba, quando egli contava di alzarsi, un sonno violento e torbido di cattivi sogni si buttò su di lui come un incubo. [p. 134 modifica]

Quando si svegliò vide che il contadino aveva già deposto il pane sul davanzale della finestra; e accanto un secchio d’acqua fresca. Quest’attenzione lo commosse.

— E loro che penseranno di me? Che sono venuto qui per dormire solamente?

Cominciò a lavorare. Diede da mangiare alle galline e si mise a ripulire la stanza, fatica improba, poichè la vecchia non aveva lasciato che un mozzicone di granata, e neppure uno straccio: ma egli ricordò le offerte del contadino e andò a chiedere in prestito una scopa. I due fratelli, che si rassomigliavano in modo straordinario, piccoli e tarchiati e di pelo rossiccio entrambi, lavoravano nel campo davanti alla casa; l’anziano estraeva dalla terra già un po’ indurita dai primi calori le patate rotonde e liscie come uova di marmo giallo. Il maestro si fermò a guardare: e quel balzare del nutrimento umano dal segreto della terra gli apparve come un miracolo. Il contadino però si lamentava:

— Sono scarse e piccole; neppure il seme se ne ricava. [p. 135 modifica]

Tuttavia lo pregò di accettarne alquante, ed egli le prese, guardando verso Gesuino che gli aveva appena restituito il saluto. Gesuino non parve badare a lui, ma quando si fu allontanato con la scopa e le patate, il maestro sentì che i due fratelli questionavano.

Il lavoro gli fece parer breve e quasi allegra la mattina. Portò fuori nel concimaio dei contadini le foglie di granone, le patate marcie, tutti gli oggetti inutili o rotti che ingombravano la stanza; portò fuori anche i mobili, per lavarli e disinfettarli al sole, e la materassa e le coperte del giaciglio. Con meraviglia vide che le lenzuola, cambiate il giorno prima dalla vecchia, erano pulite; in compenso trovò, nel soppalco, fin dove si arrampicò con un’agilità strabiliante per lui, un mucchio di lenzuola sporche.

Anche questo soppalco formava una piccola stanza, con un giaciglio e una cassa buona per tavola e per sedia: da una specie di feritoia entrava la luce e si vedeva il campo dei contadini. Quando ebbe pulito anche lassù, il maestro scese e diede una prima scopatura alla stanza: la polvere e la lanuggine del pavimento gli danzavano intorno quasi irridendolo; più scopava più ne veniva fuori; e ogni tanto egli usciva sulla porta per sputare e soffiarsi il naso. Pensava ad Ola: fosse stata lì a ridersi di lui ed aiutarlo! Via, via; egli ringoiava con la polvere il suo [p. 136 modifica] turbamento, e tornava alla fatica come un galeotto che per un momento s’è affacciato alla soglia del suo carcere e vede il cielo lontano. Quando ebbe finito di ripulire il pavimento e le pareti, dalle quali le ragnatele piovevano ancora piene di mosche morte fin dagli anni passati, pensò di mangiare qualche cosa. Andò a vedere nella gabbia a metà piena di paglia dove le galline, secondo la vecchia, facevano quattro uova al giorno; ma di uova non ne trovò che due, uno tutto picchiettato di nero, che era l’uovo di richiamo, l’altro bianco e caldo come già cotto.

Si contentò di questo, e vi inzuppò dentro il pane, come Ola inzuppava i biscotti nella crema, con gioia voluttuosa.

Poi riprese la sua faccenda: e quando i mobili furono lavati e rimessi a posto, e il lettuccio rifatto, gli parve di essere approdato, dopo una faticosa traversata, a un nuovo porto: e come tutti quelli che arrivano, riaprì la sua valigia.

La prima cosa che ne trasse fu l’orologio a sveglia, che lo aveva seguito fin dal paesetto natìo: camminava ancora, indifferente a tutto quello che non fosse il suo dovere, di battere il tempo, e messo in mezzo alla tavola ancora umida continuò imperterrito, padrone subito del luogo e dello spazio intorno.

Il maestro si sentì rianimato: come avesse ritrovato un compagno nella sua solitudine. Ma [p. 137 modifica] quello che più lo riconfortò fu il rotolo di canavaccio ingiallito nei margini, che durante il soggiorno nella casa di Marga egli non aveva mai tolto dalla valigia. Era il piccolo arazzo ricamato dalla madre. Lo svolse sulla tavola, tenendolo fermo con le dita, e si sollevò per guardarlo meglio a distanza.

Il quadretto rappresentava una spiaggia arida: la sabbia, ricamata con la seta grezza, segnava il primo piano; dopo veniva la striscia verdastra del mare, sullo sfondo grigio-azzurro del cielo. Su questo paesaggio, che con sole tre linee segnava una immensità ariosa e profonda, due figure camminavano. Sì, pareva proprio di vederle camminare, coi piedi sollevati, e dietro di loro le orme sulla sabbia: una rappresentava un uomo calvo, con un lungo camice stretto alla cintura e i sandali di corda: aveva in mano un fardello e precedeva una donna più alta di lui, che teneva in braccio un bambino (doveva essere un bambino dal modo come lei lo reggeva) tutto ricoperto di un drappo scuro. Lei era vestita di rosso, coi sandali di corda, la testa avviluppata di treccie mirabilmente imitate con la seta giallo-oro.

Sotto, sul margine ancora vuoto del canavaccio, ricamato con la seta nera, si leggeva il titolo:

La fuga in Egitto.

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Con quattro chiodetti il piccolo arazzo fu attaccato alla parete sopra il lettuccio, e tutta la stanza parve illuminarsene.

La sopracoperta del giaciglio, quella che pareva un sacco, fu distesa come tappeto, e sopra le lenzuola lasciata solo la coperta bianca a frangie, abbastanza pulita, che la vecchia teneva ripiegata sotto il guanciale.

Quando tutto fu in ordine, il maestro ritornò dai contadini per riportare la scopa: neppure a farlo apposta, li sentì che si scambiavano male parole come se durante tutta la giornata non avessero fatto altro; e gli venne da ridere. Accorgendosi di lui essi tacquero e l’anziano si sollevò per salutarlo con rispetto.

— Ecco la scopa, — egli disse appoggiandovisi, — e grazie. E grazie anche per le vostre patate, che erano buone come il burro.

— Noi non le abbiamo ancora assaggiate. Il cuoco oggi, — disse il contadino strizzando l’occhio verso il fratello, — è di cattivo umore.

— Lo so. Siete arrabbiato con me, Gesuino? Avete ragione; perchè vengo troppo a [p. 139 modifica] molestarvi e farvi perdere il tempo; ma in cambio potrò anch’io esservi utile: venite stasera a mangiare con me: ho poco, in casa, ma quel poco saprò moltiplicarlo come faceva Gesù. Bisogna però che voi mi procuriate il vino.

— Il vino ce l’abbiamo, — disse l’anziano, mentre il fratello continuava a zappare accigliato e silenzioso: — è leggerino, ma buono.

— Niente, niente: voglio del vino generoso, che rinforzi il sangue. C’è, mi pare, un’osteria qui al crocicchio. Se non vi disturba andrete a prenderne due fiaschi.

— Gesù Maria! Lei vuole mandarci all’altro mondo!

— Ci andremo assieme, se mai, — egli disse, e diede all’uomo i denari per il vino. — Che dite, Gesuino; rispondete, per piacere. Verrete o no?

— Ma sì! — brontolò Gesuino, senza voltarsi.

— Oh, finalmente abbiamo sentito il suono della vostra voce. E adesso andiamo a preparare il banchetto. [p. 140 modifica]

L’invito, improvviso, non lo sgomentò: fra le altre cose la vecchia gli aveva venduto un intero prosciutto di montagna, farina, conserve e formaggio: per non sfigurare occorrevano la buona volontà e la competenza, e se questa faceva difetto la prima sovrabbondava.

Egli mise dunque l’acqua a bollire e intanto tirò giù il prosciutto che, al riparo dei topi, pendeva come una lampada attaccato a una corda in mezzo alla stanza: lo depose sulla tavola, lo guardò, lo girò e rigirò in cerca del punto buono da attaccare. Gli parve buono il fianco destro, ma subito si accorse ch’era troppo magro, e a lui occorreva il grasso per varie ragioni: quindi tentò la parte opposta e infatti dopo la prima scorza ruvida di sale apparvero il bianco e il rosso del lardo e della carne.

Il coltello però è pigro, non vuol tagliare sottile; ed egli lo affila con un altro coltello piccolo: le due lame lampeggiano e stridono in duello selvaggio, ma con slanci di gioia. Ed ecco il coltello grande, ardente della sua vittoria, s’introduce di nuovo, con silenziosa [p. 141 modifica]ferocia, nel paziente prosciutto: e adesso le fette si staccano diafane e larghe. Il maestro le guarda contro luce, come lembi di stoffa preziosa: il grasso gli sembra velluto bianco, il magro damasco color mogano.

Disposta una grande rosa di queste fette su un vassoio rotondo, egli tagliò ancora dalla parte del grasso, e su queste disgraziate fette, gettate alla rinfusa sull’asse per il battuto, il coltello infierì rumorosamente fino a ridurle in poltiglia. La pentola già calda fu scostata sull’orlo del fornello, per dar posto alla padellina nera con dentro il lardo battuto, al quale erano dati per compagni di consolazione pezzetti di burro, di cipolla e d’aglio: e tutto cominciò a friggere, a lamentarsi, prima piano, poi forte, finchè la conserva del pomodoro non vi mischiò il suo sangue denso e parve mutare il dolore in gioia.

Rimessa l’acqua a bollire, il maestro tirò giù l’asse grande per la pasta, pulita e quasi vergine nella sua nudità di legno bianco; e ricordando i gesti delle donne quando eseguiscono questa faccenda, vi versò una piccola montagna di farina in mezzo alla quale fece col dito un buco come il cratere di un vulcano. Un vulcano parve davvero, la piccola montagna, quando egli versò nel buco l’acqua bollente: si sollevò il fumo, il cumulo franò, ed egli vi immerse le mani come a volerlo sostenere e ricostruire. [p. 142 modifica]

La farina però scappava da tutte le parti, e quella già intrisa d’acqua gli si appiccicava alle dita, dispettosa e vendicativa. In breve le sue mani parvero coperte di guanti di lana bianca, e la farina che disperata sfuggiva anche dall’asse gli si versò sul davanti del vestito.

Fu un momento difficile: egli si guardava desolato la giacchetta, senza osare di toccarsi con quelle sue dita mostruose; poi ricordò che di nulla oramai aveva più paura nella vita, e piano piano con una mano liberò l’altra dall’involucro della pasta; con tutte e due raccolse nel centro dell’asse l’esercito sbandato della farina, versò altra acqua e le sue dita strinsero fieramente e costrinsero alla compattezza la materia ribelle.

E a furia di sospiri e di forza, e di dolore della palma della mano destra, la pasta dura e legnosa fu ridotta elastica: tirata e ripiegata, arrotolata e distesa di nuovo, a poco a poco si abbandonò, divenne calda e infine rotonda e morbida come un seno di donna.

Allora egli riprese il coltello piccolo e raschiò l’asse dalla patina che vi era rimasta; tagliò una fetta della pasta e arrotolandola e tirandola la ridusse a una lunga biscia bianca che il coltello si affrettò a tagliare in piccoli pezzi come si trattasse davvero di una bestia pericolosa. Poi i piccoli pezzi scavati con l’indice come lunghe conchiglie formarono gli gnocchi: e il loro [p. 143 modifica]esercito ben schierato sull’asse e ricoperto dalla tenda di una salvietta aspettò che la pentola bollisse.

All’ora stabilita i due invitati arrivarono. Mentre il più anziano entrava nella dimora del maestro e offriva il suo aiuto, l’altro girò curioso e sospettoso intorno alla tavola apparecchiata di fuori sotto gli alberi, fiutando forte come per assicurarsi che non c’erano cibi avvelenati.

La rosa del prosciutto, il pane e il vino giallo, e sopratutto l’odore del sugo che usciva dalla casa lo rassicurarono. Sedette sulla panchina davanti alla tavola e trasse con forza dalla grande saccoccia interna della sua giacchetta un piccolo cacio giallino e lucido come d’avorio: lo depose con cautela accanto al piatto del prosciutto, fra le due torri panciute dei fiaschi pieni, e stette a guardare ogni cosa con l’estasi di un amatore davanti a un bel quadro di natura morta. Ma quando dalla porta della casetta vennero fuori il fratello che reggeva religiosamente fra le mani come un vaso sacro la zuppiera con gli gnocchi, e dietro il maestro col [p. 144 modifica]mestolino imbrandito, si alzò di scatto e ricordò la posizione d’attenti di quando era soldato e passava un generale.

Sulle prime, come sempre avviene, un silenzio misterioso accompagnò il mangiare dei tre, intorno ai quali s’era riunita una coorte di non invitati, cioè il gatto e i gattini e il cane dei contadini, e le galline di casa. Questa compagnia ricordava al maestro un’altra casa, un’altra famiglia, e gli gnocchi gli sembravano duri.

Duri un poco lo erano, ma il sugo sposato al formaggio abbondante era come il vestito colorato e squisito che rende belle anche le donne mature. Lo stesso Gesuino, anzi lui più degli altri, si abbandonava alla voluttà di mandarli giù uno dopo l’altro dopo averli succhiati come confetti; e mentre la forchetta afferrava l’uno gli occhi guardavano l’altro, finchè il piatto fu vuoto; allora egli prese un pezzo di pane per finire lo sgombro, ma l’anfitrione fu pronto a rifornirlo con abbondanza.

Gesuino sospirò, di troppa felicità; riprese la forchetta con un gesto rassegnato e ricominciò [p. 145 modifica]la faccenda; adesso però aveva coscienza di quel che avveniva attorno, e poichè il cane lo guardava fisso movendo la coda dritta come un dito implorante, gli buttò uno gnocco: ma un gattino fu lesto ad afferrarselo lui.

L’altro fratello mangiava con più furberia, nascondendo il suo piacere: i suoi occhi però sorridevano ai fiaschi, e quando il maestro ebbe riempito i primi due bicchieri e nel proprio versò l’acqua che non ha colore nè consistenza, quegli occhi ebbero un luccichio fra di compassione e di gioia: compassione per l’acqua, gioia per la speranza che i fiaschi rimanessero a disposizione dei soli invitati; ma la stessa bontà del vino vinse l’egoismo.

— E lei non beve?

— Non bevo. Il medico me lo ha proibito.

Queste parole furono accolte come una truce notizia: lo stesso taciturno Gesuino sollevò la forchetta come un tridente minaccioso.

— Accidenti ai medici e alle medicine.

E così cominciarono i discorsi.

— Una volta anche a me il medico ordinò [p. 146 modifica]di non bere vino, di non mangiare carne nè pasta nè fagiuoli. Mia moglie, che era una donna come poche se ne trovano, non fa osservazioni al dottore, ma andato via lui mi dice: Proto, non ti resta che raccomandarti l’anima a Dio.

— Ricordo, adesso, — gridò Gesuino. — E tua moglie mise subito a cuocere i fagiuoli e andò a comprare il vino. Il giorno dopo ti sentivi meglio.

— E allora bevete, alla salute del medico.

— Un’altra volta....

Ma troppo a lungo sarebbe riferire tutti i pericoli di morte ricordati specialmente da Proto, e sfuggiti col disobbedire al medico: finchè Gesuino ne raccontò una bella.

— Una volta mi sono slogato un piede. La moglie di Proto sbattè un uovo con olio e mi unse la caviglia, poi la fasciò forte: in tre giorni sono guarito. Scommetto che se si chiamava il medico mi si doveva amputare il piede.

Il maestro sorrise compiacente: poi si parlò di cose più allegre.

Si parlò anche dei mezzi per combattere le formiche, e come bisogna lasciare sulla pianta finchè si seccano completamente, i fagiuoli e i piselli da seme: solo verso la fine del pasto, quando il bel cacio rotondo fu tagliato a spicchi e parve sudare per il dolore ma poi si offrì [p. 147 modifica]con piacere alla bocca dei convitati, i discorsi ripresero una piega seria.

Fu lo stesso Gesuino a imbastire la questione: perchè l’uomo anche il più tranquillo si crea continuamente dei grattacapi?

Il suo viso, sotto la corona dei ricciolini rossi, s’era fatto di un bel colore arancione e gli occhietti azzurrognoli brillavano velati di lagrime. Poichè gli altri due lo guardavano un po’ incerti, battè la mano aperta sulla tavola e accennò col capo la villa.

— Dico, corpo del diavolo, perchè quella gente lì, alla quale non mancava nulla, si è rovinata in quel modo?

Proto guardò il maestro, strizzando gli occhi per scusare la semplicità del fratello, e spiegò subito, filosoficamente, la ragione della tragedia.

— Perchè erano tutti matti da legare.

E per conto suo attaccò il secondo fiasco del vino.

— Già, — domandò il maestro, — come è andata la storia?

— È andata che stavano troppo bene, padre e figli; i denari però li teneva il vecchio, mentre i figli volevano divertirsi: di lì questioni e liti continue; finchè i figli ammazzarono il padre.

— Pazzi? — riflettè Gesuino, già irritato per la spiegazione del fratello. — Malvagi erano; e Dio li ha castigati. [p. 148 modifica]

— Ma che Dio; Dio non s’impiccia in queste cose, altrimenti sarebbe malvagio anche lui.

Gesuino si fece paonazzo.

— Tu parli così perchè non hai religione.

— E invece forse ne ho più di te, se lo vuoi sentire.

E già parve scoppiare una delle solite questioni, quando il maestro intervenne:

— Il fatto sta che l’uomo ha bisogno di agitarsi. Si comincia da appena nati. La vita è movimento, e anche gli astri e il mare non stanno mai fermi. Dio però ha dato all’uomo il giudizio, e tocca all’uomo convertire in bene la sua facoltà di azione. Lavorare e vivere in pace con sè e con gli altri. Questo può farlo chiunque, se vuole.

— Si vuole, si vuole, ma non ci si riesce — ribattè Gesuino. — Eppoi sono gli altri, che provocano.

— Chi, io? — dice Proto, agitandosi. — Ma se io sono l’uomo più pacifico del mondo.

— Adesso non si tratta di voi due, — riprende il maestro, versando loro da bere. — Oh sì, anche di voi. Vi volete bene eppure questionate sempre. Perchè, sentiamo.

— È lui, è lui, — esclama Gesuino, puntando il dito contro il fratello. — Trova tutto mal fatto quello che faccio io, critica tutto, o peggio [p. 149 modifica]ancora deride; mi tratta insomma come un ragazzo o un idiota; perchè si crede da più di me. Invece....

— Invece voi vi credete da più di lui: tutti siamo così! Il fatto è che abbiamo dimenticato le leggi divine. Umiliati, che sarai esaltato. E poi abbiamo dimenticato i Comandamenti. Scommetto che neppure voi, Gesuino, li ricordate. E neppure voi, Proto.

— Io no, di certo, — risponde Proto con un lieve sorriso di derisione, non per sè nè per il maestro, ma per il fratello; e questo se ne accorge e dentro si sente ancora smuovere la bile, ma si fa forza, si vince e umilmente confessa che i Comandamenti neppure lui li ricorda bene.

Allora il maestro cavò di tasca la pipa, e poichè Proto lo imitava gli offrì del tabacco.

Gesuino non fumava.

— Io non ho vizi, — disse un po’ dispettoso; intanto attirò piano piano a sè il fiasco e profittando dell’estasi di quei due continuò a bere. Il maestro però vedeva tutto, e ricordava le affermazioni di Marga che Antonio non aveva vizi: e mentre Proto fra uno sputo e l’altro continuava a filosofare, egli fumava forte guardando in alto verso l’azzurro del cielo già inargentato dal primo velo del crepuscolo, e vi si smarriva con dolore e con gioia. [p. 150 modifica]

Quella seconda notte fu più tranquillo. Sentiva di non essere più solo in quel recinto di tristezza e di maledizione, e che la sua giornata non era trascorsa invano. I due fratelli, dopo che l’anziano l’aveva aiutato a rimettere a posto le cose di cucina, se n’erano andati allegri e finalmente d’accordo; anche il cane scodinzolava guardandolo, e il gatto, mentre i gattini giocavano fra di loro sotto la tavola, aveva fatto un silenzioso giro d’esplorazione nella stanza; gli pareva infine di essersi creata una nuova famiglia, e sperava nell’aiuto del tempo.

La mattina dopo, nello svegliarsi presto, sentì infatti che già qualche cosa in lui, nella carne e nello spirito, si rinnovava. Balzò agile dal letto, pieno di coraggio: non aveva più paura di incontrare i suoi simili. Decise quindi di recarsi lui a fare le sue spese; e si ripulì come quando andava a spasso con Ola: seguì il loro viale, e gli pareva di sentire i passettini silenziosi di lei sull’erba fresca della brezza marina.

Ma oramai la sua nuova pena si stemperava sul colore delle pene passate, ed egli si [p. 151 modifica]sforzava a credere che Ola fosse cresciuta; non era più una bambina; era cresciuta, s’era staccata da lui come giorno per giorno anche i figli si staccano dai genitori.

Nella piazza del mercato le donne lo guardarono come la prima mattina dopo il suo arrivo: così solo, senza Ola, pareva anche a loro un altro uomo. Una di esse, dalla quale a volte comprava qualche frutto per la bambina, gli domandò di lei.

— È fuori con la mamma.

— Già, anche Ornella è due giorni che non la si vede. Dov’è andata quell’accidente?

Egli non rispose, intento a scegliere un po’ di frutta. La donna vendeva anche i piccoli formaggi come quello portato da Gesuino, ed egli ne fece provvista: poi andò dal fornaio.

Il fornaio era amico di Antonio.

— E dunque torna oggi, il nostro ragazzone, — disse al maestro, mentre pesava il pane che odorava ancora di forno. — Mi ha mandato una cartolina, con su una bella donna, — aggiunse ammiccando.

Il maestro prese il pane avvolto nella carta velina e lo sentì caldo come vivo.

Ah, dunque Antonio non era tornato ancora; questo spiegava la quiete di quei due giorni. Ed egli ebbe scrupolo di aver lasciato la casa sola, in balìa di Ornella: ma oramai era fatta. [p. 152 modifica]Rientrato nella sua dimora ricominciò la sua vita; in fondo però aspettava qualche cosa di nuovo e quest’attesa tornava a turbarlo; nel pomeriggio poi divenne angosciosa. Forse ne era causa il tempo, poichè il cielo s’era fatto scuro e i tuoni salivano dal mare agitato: lampi e lampi passavano come fiamme spinte dal vento, lambendo i vetri della finestra che pareva rabbrividissero di paura.

Anche lui, chiuso nella stanza, sentiva una paura indefinibile; il sangue gli affluiva alle ginocchia tumultuoso come una folla allo svolto di una strada troppo stretta, e un presentimento angoscioso, di qualche cosa di terribile che in quei momenti doveva accadere, lo dominava tutto.

Un tenue velo di pioggia offuscò d’improvviso il sinistro chiarore dell’aria: il vento e i lampi cessarono; gli alberi immobili parvero offrirsi all’acqua con voluttà gelosa; e l’acqua vi si fermava e diveniva una cosa stessa con le foglie.

Più forti i fulmini irruppero di nuovo; la pioggia cessò, come spaventata; e il vento si prese il gusto selvaggio di scuotere l’acqua dalle foglie; finchè un occhio di cielo s’aprì fra gli alberi, spiando quello che succedeva sulla terra: poi anche il sole sbattè via intorno a sè il mantello greve delle nuvole; e i lampi [p. 153 modifica]i tuoni il vento a loro volta cominciarono la ritirata.

Tutto ritornò sereno: l’uomo però non si chetava, come se il temporale si fosse rifugiato entro di lui.

Ed ecco verso sera quando fece il solito giro della villa per assicurarsi che tutto era in ordine, vide una figura appoggiata alle sbarre del cancello, con le braccia aperte come vi fosse inchiodata in croce: dalla cima del viale non poteva riconoscerla, eppure sentì subito che era lei, Ornella. Pensò di nascondersi; ma gli parve ch’ella fosse lì da molto tempo e decisa ad aspettarlo per l’eternità: la sua figura rosseggiante nel vuoto dello sfondo incolore gli ricordò quell’altra. Ebbe paura e s’avvicinò.

— Che vuoi? — domandò rudemente.

Ella invece rispose tranquilla:

— Apra.

— Che vuoi?

Era deciso a non aprire: poichè ancora una volta sentiva l’odore e il calore animale di lei, e aveva l’impressione che una bestia nociva, un grande gatto arrabbiato che fingeva calma per poter penetrare nel recinto, abbrancasse il cancello; e ricordava le paroline di Ola:

— Il gatto mammone esiste: l’ho sentito io.

— Le devo parlare, — ella disse fissandolo coi suoi occhi verdi cattivi. [p. 154 modifica]

— Puoi parlare lo stesso. Ti ascolto.

— Ebbene, — ella esclamò allora con prepotenza, — peggio per lei se mi sentono. Suo figlio è tornato oggi, e quando ha letto la sua lettera mi ha mandato via di casa; e poichè io non volevo andarmene mi ha cacciato via a staffilate, minacciando di uccidermi. Ho i segni qui, sulle braccia e sulle spalle. E io non so dove andare. Bisogna che lei adesso vada a dirgli che provveda a me. Altrimenti...

— Altrimenti?

— Altrimenti succede qualche cosa di grosso. Sono come una bestia arrabbiata, lo sente? Sono capace di tutto. Di tutto, — gridò, scuotendo con furore il cancello: e i suoi occhi luccicavano come quelli di una tigre in gabbia.

Egli pensò ad Ola; Ornella era capace di vendicarsi su lei. Allora si sentì come in punto di morte, al limite fra il mistero terribile della vita, intessuto di errori, di dolore e di castigo, e il mistero ancora più terribile, perchè inspiegabile, dell’al di là.

Aprì il cancello e fece entrare la donna.

Quest’atto parve subito, se non placarla, piegarla. Senza più parlare lo seguì fino alla stanza, e si abbandonò, stremata di forze, sulla sedia che egli le porgeva.

Al chiarore del piccolo lume deposto sulla tavola, egli osservò che il viso di lei era stravolto [p. 155 modifica]e improvvisamente invecchiato; anche sui capelli pareva fosse passata una fiamma e sul collo bianco il fiore violetto e rosso d’una ecchimosi rivelava le percosse ricevute. Sapendo che il parlare è lo sfogo più efficace per una donna, egli domandò:

— Raccontami com’è andata.

Ma Ornella era diversa dalle altre donne; il dolore ella non poteva esprimerlo se non con grida, come gli esseri inferiori; e infatti piegò la testa, si morsicò il braccio e cominciò a gemere con stridi selvaggi; ed egli sentì di essere davvero davanti a un animale ferito: le parole erano inutili; bisognava cercare qualche altro rimedio per aiutarla.

— Non gridare, Ornella; oramai è fatta. Egli ti ha colpito in un momento di rabbia, ma si pentirà e provvederà certamente a te. Ci penserò io, a convincerlo. Prendi intanto qualche cosa. Vuoi mangiare? Vuoi un po’ di vino? È inutile che tu continui a stridere, Ornella: vedrai che tutto si aggiusta. Intanto, dimmi, — insinuò con voce tenue, falsamente umile, — non hai proprio davvero nessuno dove poter andare?

Ella aveva alcuni parenti, nel paese, ma non voleva andarci; voleva tornare nel nido tiepido donde era stata scacciata come la cornacchia dal nido dei colombi; l’impossibilità di questo ritorno esasperava la sua disperazione. [p. 156 modifica]

Neppure l’ospitalità che egli le offrì per quella notte, dicendo che su nel soppalco c’era un lettino pulito, parve calmarla; a lungo singhiozzò, scuotendo la testa sul braccio, e solo quando fu stanca sollevò il viso rosso e disse con voce rauca:

— Lei non può andare subito a parlare con suo figlio?

— È troppo presto; non capisci che anche lui sarà ancora arrabbiato?

Ella tornò a nascondere il viso; lo sollevò ancora, fissò di nuovo gli occhi del maestro coi suoi occhi selvaggi pieni di odio e di follìa.

— E lei non può tornare ad abitare con loro? Solo questo lo placherebbe: solo questo....

— Anche questo faremo, se occorre, — egli disse impaurito; poi uscì, perchè soffocava: passando davanti alla finestra vide che Ornella beveva il vino che egli le aveva versato: questo forse la calmerebbe: chi non poteva calmarsi era lui.

Rifece il giro intorno alla villa: non era stato mai superstizioso e non voleva diventarlo; eppure gli sembrava di esser travolto dall’influsso malefico che raggiava da quella casa morta come da un cadavere.

Il suo istinto era di fuggire, lontano, dove il male degli altri non poteva più raggiungerlo. Si ribellava anche a Dio, anche alla sua [p. 157 modifica]coscienza: che si voleva da lui? Non aveva tutto dato?

Andò a sedersi davanti alla tavola di marmo, dove aveva mangiato coi contadini, e gli parve di sentire l’eco delle sue parole. Così a misura che il tumulto del suo sangue cessava, gli tornava lucido il pensiero e il giudizio di sé stesso: e una luce chiara e fredda come quella della luna gli regnava intorno, con l’ombra delle cose più viva delle cose stesse. Tutto era tranquillo e fermo, oramai, come nel riposo eterno della morte.

— Bisogna rinunziare anche a me stesso, — pensò. E decise di tenere Ornella con sé, di incaricarsi della creatura. Bisognava lottare per questo, anzitutto colla forza brutale della donna stessa, e poi con altre contrarietà: ma il pensiero appunto della lotta lo rianimò.

— Forza, forza, — disse sottovoce, parlando alla sua ombra. — Dio ci aiuterà.

Ed ecco si alza e va verso la siepe sembrandogli di aver sentito rumore. Tutto è tranquillo, sotto la luna, di un colore fantastico che non è più colore ma neppure è nero: alcune foglie attraversate dalla luce lunare sembrano di vetro dorato, altre di alabastro.

Il cane dei contadini comincia ad abbaiare; la voce di Gesuino lo richiama e non sa perchè anche il maestro chiama: [p. 158 modifica]

— Oh, Gesuì?

Gesuino non risponde, ma s’avvicina alla siepe, dove questa ha un varco, chiuso solo da un ramo, che permette ai contadini di comunicare col custode della casa. Anche il maestro ci si avvicina: e sono come due esploratori di una terra sconosciuta che si sentono attraverso il fitto della selva e tentano di incontrarsi.

S’incontrano infatti davanti al varco: il ramo nero trasparente li separa ancora, ma già possono vedersi e parlarsi.

Gesuino è a testa nuda: i suoi riccioli rossastri sembrano di erba secca, e il bianco degli occhi brilla come di porcellana.

Dietro è il cane con la sua ombra lunga; è inquieto e si morde con un guaito sotto la coscia, come abbia le pulci, poi solleva la testa nel sentir parlare il padrone.

— C’è qualcuno da lei? — domandò Gesuino. — Il cane abbaia verso la sua casa.

Un attimo di silenzio; e al maestro parve di sentire una grande ala passare nella solitudine del firmamento e ravvivare le cose morte. Era l’aiuto aspettato da Dio. [p. 159 modifica]

— C’è una donna da me, — disse con voce tranquilla. — Una disgraziata che non sa dove andare ed è venuta a sbattersi qui come un uccello ferito.

Ma il paragone non ebbe presa su Gesuino.

— Lei la conosce?

— La conosco, sì. È la serva che stava da mio figlio Antonio.

Gesuino, che usciva raramente dal podere e non si occupava dei fatti degli altri, non conosceva Antonio nè la sua serva: ma la sua malizia istintiva gli rivelava confusamente il dramma di quella gente.

— Suo figlio ha moglie?

— Moglie e figlia.

— Ma questa serva l’hanno dunque cacciata via? Perchè?

Il maestro sentì di essere sottoposto a un interrogatorio: era giusto: l’uomo è giudice dell’uomo.

— Veramente l’ha cacciata via mio figlio, perchè la moglie e la figlia sono fuori di casa. E l’ha cacciata via perchè è incinta.

— Oh bravi! E lei se la tiene in casa?

— Gesuino, — disse allora il maestro, afferrandosi alla siepe, — vi prego di non fare cattivi giudizi. Siete un uomo di Dio e di coscienza e dovete anzi aiutarmi e consigliarmi. Che cosa devo fare? La ragazza è disperata; può fare del [p. 160 modifica]male a sè e agli altri. Certo che non mi fa piacere tenermela in casa, anzi ho quasi paura a passare la notte con lei. Che devo fare?

Anche Gesuino s’afferrò alla siepe: la sua mente era confusa.

— Domandiamo a Proto. Lui è uomo di mondo e può dire qualche cosa.

— No, no, dovete dirmelo voi, secondo la vostra coscienza.

— Ma chi è l’uomo che l’ha ingravidata?

— Io non lo so, e questo non importa: importa tenere la ragazza a bada perchè non commetta sciocchezze; e poi aiutarla e sistemare la sua creatura.

— Mio fratello Proto direbbe di lasciarla che s’impicchi. Queste femmine prima fanno il loro piacere poi mettono gli altri negli impicci.

— È vero, ma Gesù ha teso la mano anche a Maria Maddalena. Lasciamo stare Proto, Gesuino; consigliatemi voi.

L’altro era restìo a dar consigli; piuttosto investigava.

— Non sarà per caso suo figlio?

— Io non lo so; ma pure ammesso che sia lui il fatto è che l’ha cacciata fuori di casa, ed io quindi sarei doppiamente obbligato a salvarla e salvare la creatura.

— Quel porco.... — mormorò Gesuino: e il maestro non difese Antonio, ma disse: [p. 161 modifica]

— La gente fa il male senza saperlo e senza volerlo; tocca agli uomini di coscienza metter riparo. Quando il fiume straripa che colpa ne ha? Ma gli uomini fanno gli argini e il disastro è riparato. Così dobbiamo fare noi.

Gesuino chinò la testa, in modo che la luna gl’illuminò i capelli come un campo di stoppia; anche lui guardava e pareva consultasse la sua ombra nascosta fra la siepe. Vi fu un intervallo di silenzio, finchè il cane abbaiò, a testa in aria, per avvertire i vicini e i lontani che la quiete era apparente, che si vigilava e si era pronti a sventare gli agguati. Allora il padrone sollevò pure lui la faccia e disse:

— Lei è un galantuomo. Sono sicuro che anche mio fratello Proto lo aiuterà. Cosa dobbiamo fare?

— Ecco, intanto, non far sapere a nessuno che la donna è qui. È meglio evitare le chiacchiere. Inoltre, se la vedete, non accennarle al suo stato, non farvi meraviglia di niente. Posso ben tenere una serva anch’io, come sempre l’ho tenuta. È vero, — aggiunse sarcasticamente, — che non si dormiva nella stessa stamberga; ma insomma è lo stesso. Infine, quando io sarò costretto ad uscire, anche per occuparmi dei fatti di lei e veder di aggiustare le cose, voi dovete vigilarla e vigilare qui intorno. Vi chiedo troppo? [p. 162 modifica]

— Ma nulla! — esclamò l’altro scrollando le spalle: e parve tornato l’uomo burbero di prima.

Anche la breve e calma notte di giugno fu di aiuto al maestro. Dopo essere stato a conferire con l’altro contadino, che intese subito tutto e non fece commenti, egli ritornò sui suoi passi, rifacendo il giro del giardino e della casa. Tutto era quieto: e anche le tavole di marmo, nell’ombra lunare degli alberi, e le fresche panchine, pareva s’offrissero a lui, se voleva distendersi e lasciarvi un po’ della sua pena. Ma la sua pena egli se la sentiva dentro come un’asta che lo sorreggeva dal calcagno alla nuca, e non voleva cederla a nessuno.

Il lume ardeva ancora nella stanza: la donna però era andata a coricarsi sul giaciglio del soppalco, lasciando sul pavimento sotto la scaletta le pianelle rosse polverose che usava solo per casa e con le quali era fuggita sotto i colpi di Antonio.

Il maestro guardò fisso le pianelle, con l’impressione che dovessero muoversi e parlare. [p. 163 modifica]Gli rivelavano infatti la violenza della scena avvenuta fra quei due: l’ira dell’uomo doveva essere stata bestiale se Ornella era scappata così. Eppure quei segni non gli dispiacevano: forse significavano la rivolta di Antonio contro i suoi stessi istinti perversi: e staffilando la donna egli aveva colpito anche la propria coscienza.

O erano tutte illusioni, le sue? Ad ogni modo si sentiva relativamente tranquillo: andò a letto, spense il lume e chiuse gli occhi; e gli parve di aver quel giorno camminato a lungo e di potersi finalmente riposare.

Ed ecco di nuovo un lontano suono d’organo nel tempio di cristallo del mare, e un canto che illumina la notte:

Il marinaio su le onde
ti invoca, o Signore....

Ola gioca nel prato, fiore tra i fiori, con un braccialetto di giunco, e dentro il piccolo pugno liscio una cosa che vuol dare al nonno.

— Nonno, chiudi gli occhi e apri la mano. Egli aprì la mano, poi riaprì gli occhi per vedere se davvero c’era qualche cosa. Un filo di luna penetrava dalla finestra e finiva proprio su la palma della sua mano, segnandola di una stimmate di luce. Illusione anche [p. 164 modifica] questa? Ad ogni modo egli richiuse subito gli occhi, e strinse il pugno con dentro quella perla di gioia.

Ornella si alzò prima di lui, all’alba. Egli la sentì muoversi con cautela per non svegliarlo, poi scendere silenziosa la scaletta, infilare le pianelle e uscire richiudendo la porta lievemente.

Questi modi lo rassicurarono: si alzò anche lui e quando aprì la finestra vide che ella dopo essersi lavata al pozzo, si asciugava coi lembi della sottana. Gli voltava le spalle, e le sue linee erano sempre quelle, forti, il dorso solcato e le braccia che vi si staccavano come rami potenti; ma quell’esuberanza quasi violenta di corpo umano non gli faceva più paura: era davanti a lui, in suo dominio: così l’albero selvaggio davanti al potatore.

Nel sentire la presenza di lui, ella infatti riprese da prima, per istinto, l’antico aspetto: finse di non vederlo; scopò intorno al pozzo e andò a guardare le galline; come se ancora si trovassero , nel luogo della colpa e della finzione; ma quando egli la chiamò dalla porta accorse, a testa bassa, umile e triste. [p. 165 modifica]

— Ornella, — egli disse con voce paterna, — tu sai fare le faccende meglio di me. Prepara il caffè e ripulisci un po’ qui; io intanto andrò dai contadini, coi quali devo parlare; poi in paese. Ouarda, Ornella, qui c’è il caffè, qui la caffettiera.

Ella lo seguiva docile: il pensiero ch’egli usciva forse per cercare di Antonio e tentare una conciliazione le rendeva un senso di speranza e quindi di bontà. Con uno sguardo si impadronì di tutta la stanza e capì subito quello che c’era da fare. Si piegò e prese con le mani il carbone, con le mani lo collocò nel fornello e sotto vi accese un pezzo di carta: in un attimo il fuoco fu acceso, mentre il maestro, quando la brace fra la cenere si spegneva, penava a lungo prima che tale miracolo gli riuscisse.

Anche il caffè parve farsi da solo, sotto lo sguardo di Ornella, ed egli lo trovò eccellente. Col buon sapore aromatico in bocca andò dai contadini per avvertirli che usciva. Anche Gesuino si lavava al pozzo, scamiciato, col petto velloso scintillante di goccioline d’acqua, mentre Proto, già al lavoro, rinforzava il manico di un badile.

I due fratelli discutevano già, a proposito di Ornella: Gesuino brontolava qualche parola grossa, contro di lei e le femmine in genere: [p. 166 modifica] Proto, tanto per contrariarlo, ce l’aveva con i maschiacci che le seducono. Ma l’aria del mattino e i lunghi raggi del sole ancora basso sul mare disperdevano le inutili parole degli uomini.

Il maestro rifece la strada che oramai gli sembrava la strada stessa della vita. Si va, si viene, si crede di non poter più ritornare sui propri passi, di lasciare dietro di noi tutto il passato; e tutto invece ricomincia, e si cammina, si cammina sempre sulle proprie orme, seguiti o preceduti dalla nostra ombra.

— Ma è tempo di operare, non di filosofare, — dice a sè stesso il maestro: poi sorride, con l’impressione che il suo viso rifletta le rughe azzurre del mare increspato. — E si può sapere dove vado? Da Antonio? Che può fare Antonio a sua volta? Che rimedio può inventare? Oramai il male è circoscritto, è nel lazzaretto, e tocca a me non lasciarlo diffondersi.

Eppure andava, e sempre l’immagine luminosa di Ola lo accompagnava come l’angelo di Tobia cieco: più di una volta si chinò, d’istinto, a raccogliere fra i solchi dorati del viottolo qualche [p. 167 modifica] foglia o qualche fiorellino: lei faceva così, ed egli si rivedeva bambino quando andava in cerca di erbe medicinali sui ciglioni del suo paese.

Una dopo l’altra rifece tutte le strade già note. Antonio non era in casa; la contadina, assunta momentaneamente anche al grado di serva, lo squadrò con malizia e gli domandò se aveva fatto buon viaggio. Egli non rispose: si attardò piuttosto a dar retta al cane che gli faceva festa e lo seguì fino al cancello con l’intenzione di uscire con lui.

No, buono, adesso no, — egli dice, confidandosi con la bestia meglio che con la donna. — Devi stare qui perchè non c’è nessuno. Quando tornerà Ola verrò a prendervi tutti e due, eh?

Il cane abbassa le orecchie in segno di consentimento, e dopo che il maestro è fuori ed ha tirato dietro di sè il cancello, abbaia all’aria per indicare che è lì a fare il proprio dovere. L’uomo se ne va, anche lui per proseguire a fare il proprio dovere, ma gli sembra di farlo nel vuoto, [p. 168 modifica] come il cane: e segue la strada verso il molo, poi verso il mercato del pesce. Antonio non si vede ed egli è quasi contento di non incontrarlo: tuttavia continua nella sua ricerca; risale tutta la strada lungo il canale, volge a sinistra, entra nel cuore del paese. Antonio non si vede: ma all’angolo della piazza, fra la bottega del fornaio e la rivendita di vino e liquori, dove il marciapiede è mobiliato di tavolini e sedie e ornato di vasi con foglie verdi, un gruppo di amici suoi chiacchiera e osserva i passanti. Il maestro è subito preso di mira: egli vorrebbe tornare indietro e nascondersi allo svolto della strada; ma oramai si sente assoluto padrone di sè e controlla ogni suo istinto: va avanti, quindi, saluta chi lo saluta, continua per la sua strada.

Le donne che vendono le erbe e le frutta lo chiamano: egli si ferma presso quella dalla quale di solito si serve, e compra un po’ di ciliegie, col pensiero di far piacere a Ornella: ed ecco, d’un tratto trasalisce, nel più profondo mistero della sua umanità, accorgendosi che già un sentimento nuovo, che non è paura, non riguardo, non pietà, ma amore e quasi istinto di paternità, lo unisce alla donna, o meglio alla creatura che è dentro di lei. [p. 169 modifica]

Poi fece le altre spese necessarie, e infine piano piano scese la grande strada erbosa, la strada loro; sedette un momento sul paracarri, e ancora rivide Ola accanto a lui, con i doppi orecchini di ciliegie scintillanti fra i riccioli di seta nera; ma perchè oramai il cuore non gli doleva più nel ricordarla? Anzi quel canto di organo che lo sollevava sulle sue ali di luce, diventava adesso come il motivo che accompagnava il riapparire di lei nel suo pensiero: ed egli si sentiva già ripreso dalla bontà infinita di Dio.

Nel rientrare si accorse subito che qualche cosa di nuovo ravvivava anche la sua dimora: la mano di una donna, sia pure meccanicamente, era passata sugli oggetti, sulle pareti, per terra; l’acqua aveva rinfrescato e ripulito le cose sporche, e alcune così bene che sembravano nuove: [p. 170 modifica] l’anima della casa, il fuoco, ardeva vivissima: e infine egli osservò che anche sul soppalco tutto era ripulito: segno che Ornella non intendeva andarsene.

E lei, china sulla tinozza accanto al pozzo, lavava la camicia di lui. Nel vederlo rientrare s’era sollevata di scatto, con gli occhi in colore delle foglie intorno; poi s’era piegata più di prima, nascondendosi: adesso, mentre deponeva sulla tavola le provviste, egli la sentiva sbattere con rabbia il panno contro l’asse del lavatoio.

— Sbatti, sbatti: ne avrai da sbattere, — pensò: poi le disse dalla finestra: — Ornella, ti ho portato le ciliegie. Le vuoi?

Ella tornò a sollevarsi, dominandosi fieramente; le labbra però le tremavano, pallide di angoscia ma anche di scherno.

— Mi ha portato almeno le scarpe? — domandò con la sua voce selvaggia.

Il maestro non aveva più paura.

— A che fare le scarpe? Tanto, per oggi non esci. E poi Antonio non l’ho trovato, nè in casa nè in paese.

Ella si mise a torcere con ferocia il povero panno che teneva fra le mani.

— Lo sapevo che si nascondeva, lo sapevo. Mascalzone, vigliacco, figlio di un porco....

Una filza di parole turpi le uscì di bocca; [p. 171 modifica] caddero nell’acqua livida della tinozza; e il maestro lasciò ch’ella vomitasse tutto il suo veleno: meglio fuori che dentro.

Eppure le ciliegie produssero un certo effetto: quando ella ebbe steso la camicia, e con le braccia ancora bagnate rientrò nella stanza, parve subito attirata da quel mazzolino di grosse goccia di sangue: piano piano ne prese una, la guardò, se la mise in bocca, staccandone lentamente il gambo; poi sputò il nocciolo entro il pugno e lo tenne lì come non volesse buttarlo più via.

E d’improvviso anche lei pensò ad Ola, col desiderio selvaggio di averla ancora con lei, di sentirne il fresco viso di frutto sul suo arso dalla rabbia e dal dolore, di mangiare assieme le ciliegie e scherzare coi gambi e i noccioli di esse. Mai più, mai più questo sarebbe accaduto: e gli occhi finalmente le si inumidirono di lagrime.

Mise le ciliegie in un piatto e si accostò alla finestra per lavarle: ed ecco vide due occhi che rassomigliavano stranamente ai suoi e le [p. 172 modifica] parvero quelli di un gatto che aspetta gli si butti qualche cosa da mangiare. Per un attimo si fissarono, i quattro occhi verdi, con una luce di curiosità animalesca, poi ella rise e tornò l’Ornella di una volta.

Gesuino, sotto, pareva abbagliato: era venuto per vederla, e il vederla così, con quei suoi vivi colori di carne, col giallo dei capelli e il rosso delle ciliegie e del vestito, appagava pienamente la sua curiosità: il riso di lei fu poi come un laccio che lo prese al collo e gli diede un senso di soffocamento. Tuttavia il suo viso conservava un’aria severa.

— C’è il signor maestro? — domandò per significarle che non era lì per lei.

— Che non ce li avete gli occhi? È lì, dietro il pozzo.

Ella aveva messo la mano sulle ciliegie e scolava fuori della finestra l’acqua del piatto.

— Che hai intenzione di farmi piovere addosso? — egli gridò, balzando indietro. — Proprio questa intenzione?

— E tu scansati, — gridò lei con insolenza: e gli schizzò addosso le ultime goccie del piatto. Egli indietreggiava, ma sempre con gli occhi fissi in quelli di lei: e lei sosteneva con gioia conquistatrice quello sguardo affascinato. Così si fissano i gatti prima del barbarico scontro di amore. [p. 173 modifica]Il maestro se ne accorse, e un raggio di speranza gli attraversò l’anima. Se Gesuino si innamorasse di Ornella e la sposasse?

Ma il raggio subito si spense. E il figlio? Non si poteva dare il figlio di Antonio ai contadini, come un cagnolino da allevare; e d’altronde non si deve togliere il figlio alla madre: e sopratutto non bisogna rallentare i freni alla fantasia, e non permettere giochi pericolosi a gente come quella.

Battè la mano sulla spalla di Gesuino, che al colpo abbassò la testa come un colpevole, e disse seccamente:

— Mi pare che vi piace, la mia cameriera. Badate però che quella è una vera pagana, mentre voi siete un uomo di Dio. E poi ricordatevi le chiacchiere di ieri sera.

Anche Ornella s’era ritirata dalla finestra, ricaduta d’un subito nel senso della sua scura realtà. Nel sentire le parole del maestro pensò che i contadini sapevano già tutto di lei: e d’improvviso un impeto di vergogna la investì e la spinse a nascondersi. [p. 174 modifica]

Anche Proto desiderava conoscere Ornella; ma mentre in Gesuino operava un torbido subbuglio sensuale, quasi di adolescente, che lo spingeva verso la femmina, in lui era un istinto pratico, di uomo che già conosce bene la donna e da lei, oltre che la soddisfazione carnale, vuole l’aiuto al lavoro e possibilmente la servilità.

Calcoli ancora non ben definiti gli vagavano in mente; e lo stato fisico di Ornella anzichè preoccuparlo gli dava buone speranze. Ma si guardava bene dall’andare dal maestro, e aveva proibito a Gesuino di andarci.

Quando tornò a casa dal paese si accorse però che Gesuino c’era già stato: nonchè questi parlasse, anzi, più taciturno che mai, con le sopracciglia rosse aggrottate, lavorava già, con tale forza che il sudore gli stillava dalla fronte e attraverso quella siepe messa a riparo degli occhi cadeva fino a terra: ma quella stessa esasperazione di fatica, quel suo modo di svellere le erbe cattive e di smuovere la terra intorno alle barbabietole, rivelavano il nuovo vigore di vita che lo animava. [p. 175 modifica]

Tuttavia Proto non disse parola; e per la prima volta da lungo tempo, quel giorno non questionarono. Era come un’intesa fra loro, di non farsi sentire; e quando il cane si allungava e tendeva le orecchie verso la casa del maestro gl’imponevano di non abbaiare: ma a loro volta ascoltavano, entrambi con un senso di curiosità e di attesa acuito dal silenzio intorno e sopratutto da quella grande serenità di giugno che faceva tacere anche il mare e stendeva le foglie della vite in modo che il sole le attraversasse meglio per arrivare ai grappoli in maturazione.

Nel vedere i due fratelli al lavoro e sicuro che l’uno sarebbe di controllo all’altro e assieme sorveglierebbero Ornella e la casa, il maestro andò ancora a cercare Antonio.

Adesso però si sentiva guidato quasi da un senso di gioia: voleva domandare notizie di Marga e di Ola e farsi dare le vesti di Ornella; e gli pareva di camminare, fantasma anche lui, in un luogo fantastico dove i vivi colori del paesaggio, dall’azzurro del cielo e del mare al verde smeraldo degli alberi e dei prati, s’erano come immobilizzati e non dovevano sbiadirsi mai più.

Anche nel giardino di Ola si sentiva il profumo delle rose sfogliate, e regnava quest’incantesimo. Un alito di purificazione era passato [p. 176 modifica]anche là: o era tutto un sogno, un riflesso della luce interna che irradiava il cuore del maestro?

Nel sentire dei passi Antonio balzò fuori dalla cucina e arrossì come una donna sorpresa a fare del male.

— Finalmente ti trovo, — disse il maestro, toccandosi il cappello in segno di saluto. — È tutto il giorno che ti cerco. Come sta tua moglie? E Ola?

La sua calma rassicurò Antonio.

— Stanno bene. Ola ha trovato altri bambini e si diverte con loro. Si figuri che si è messa subito a far loro la scuola!

— E Marga?

— Anche Marga sta meglio. Avantieri ha avuto ancora il solito accesso di febbre, ma meno violento, tanto che alla sera s’è alzata: è però molto nervosa. Venga qui a sedersi, — invitò poi, rientrando nella cucina.

La cucina era alquanto in disordine, e ancora ci si vedevano le vestigia di Ornella, il suo grembiale turchino appeso accanto agli [p. 177 modifica]strofinacci, le scarpe sotto la tavola. Il gatto riconobbe il maestro e gli si strofinò alle gambe; anche il cane accorse di lontano, gli si piantò davanti fissandolo negli occhi, con le orecchie tese ad ascoltare; e ogni volta che si pronunziava il nome di Ola quelle orecchie, molli come di pasta, si abbandonavano un po’ giù per subito risollevarsi. E tanto l’una come l’altra, le due bestie erano dimagrite, o per lo meno affamate.

In mezzo a quei segni di disordine chi non sembrava cambiato, dopo il primo momento di sorpresa, era Antonio; vestiva con accuratezza, con la camicia pulita e la cravatta di seta arancione bene annodata: non solo, ma aveva le scarpe nuove fiammanti, dello stesso colore della cravatta, e spiegò che la sua assenza del mattino derivava da quelle scarpe, poichè per trovarle di suo gusto era andato a comprarle nella città vicina.

I suoi dolci occhi limpidi, che le lunghe ciglia pudicamente velavano, erano i più innocenti di tutti quelli intorno: tanto che il maestro ancora una volta se ne sentiva intenerito, pure irritandosi della sua bontà.

Nonostante questa reazione domandò, anche lui involontariamente ingenuo:

— Tu sei solo, qui?

— Sì, solo. Ho cacciato via a calci quella sgualdrina. [p. 178 modifica]

— Lo so, — disse il maestro, riprendendo il senso della realtà: — e sono qui per chiedertene il perchè.

— Lei lo sa meglio di me. L’ho cacciata via perchè lei se ne è andato.

— E se io non me ne andavo, tu la tenevi ancora?

— Non so. So che mi ha dato la sua lettera sbeffeggiandomi: allora ho perduto il lume degli occhi e l’ho trattata come si conveniva.

— Ma tu sai lo stato in cui si trova?

— Uff! — sbuffò l’altro. — Lei prende le cose troppo sul serio. Quella è una ragazza perduta fin dall’infanzia: è lei che va addosso agli uomini, e non c’è da usarle gentilezze.

— Tu però, Antonio, non la trattavi male, quando ti faceva comodo, e volere o volare la creatura che ha in corpo è tua. Lasciamo andare, del resto: parlare con te è come parlare non dico con questo cane che è più sensibile di te, ma col muro. E io sono qui per chiederti solo di darmi almeno le vesti della disgraziata.

— Ah, è venuta da lei? Ha rubato il cuore anche a lei? Stia attento.

Gelosia, scherno, stupore e curiosità e anche malvagità vibravano nel suono della sua voce: il maestro era pronto a tutti i colpi, anzi quasi ne godeva e ci si divertiva. [p. 179 modifica]

— Sto attento, sì. Ma chi sa che non finisca di sposarla proprio io? Ad ogni modo, poichè ho pochi denari per farle il corredo, dammi, ti ripeto, le sue vesti e le sue scarpe.

Antonio si accigliò, guardò ai suoi piedi.

— Dov’è quella ragazza?

— Che t’importa? — M’importa, invece. Si parla in un modo ma si pensa in un altro.

— È presso di me, — disse allora il maestro, con voce ferma e triste.

D’un colpo l’altro sollevò il viso, con la rabbia e l’umiliazione di uno che è stato vinto e burlato.

— E lei dove sta?

— Che t’importa anche di questo? Se t’importava venivi a cercarmi: invece sei andato a comprarti le scarpe nuove.

Antonio balzò in piedi stringendo i pugni quasi volesse percuotere il maestro; andò fino alla porta per respirare meglio; poi tornò a sedersi e prese un atteggiamento rigido.

— Lei ha ragione: sono peggio delle bestie, rinnegato da Dio. Ho fatto sempre di mia testa, spinto sempre dal diavolo: ma adesso voglio rimettermi a lei, come avrei dovuto farlo da bambino. Mi dica lei cosa devo fare.

— Tu devi proporti di non riavvicinare mai più quella donna. Quando il figlio sarà nato penseremo a lui. [p. 180 modifica]

— Penserò io, a lui, - disse Antonio tragicamente. — Lo metterò in collegio.

— Appena nato? Forse non l’accettano.

Scherzava, il maestro, o a sua volta lo scherniva? Antonio lo guardò corrucciato, poi rise. E il suo riso ricordò talmente quello di Ola che l’ombra del colloquio si mutò in luce.

Fu stabilita allora una linea da seguirsi, nei riguardi di tutti. La contadina s’era incaricata di trovare, prima che Marga tornasse, una donna di servizio fidata e seria: quindi il maestro consigliò Antonio di non far sapere nulla alla moglie fino a che non si risolveva la cosa: e di imporre silenzio ai suoi contadini.

Egli intendeva di tenere Ornella con sè. Dove andava a finire questo sacrificio non si sapeva, ma egli confidava in Dio. Intanto accettò senza esitare il sussidio mensile che Antonio offriva alla donna: poichè egli era povero e la sua piccola pensione di maestro e gl’interessi della somma ricavata dalla vendila della sua casa gli bastavano appena per vivere.

Antonio al contrario era ricco: tanto che [p. 181 modifica]invece di trarre il portafogli dalla tasca interna della giacchetta, come usano quelli che sanno di quanti quattrini posseggono, tirò fuori della saccoccia dei calzoni una manciata di biglietti di banca arrotolati, confusi i grandi coi piccoli; e poichè due gli caddero per terra lasciò che a raccoglierli si chinasse il maestro. Il maestro accettò proprio quei due, li piegò uno dopo l’altro, li ripose pensieroso e attento nel suo vecchio portafogli liso ma ancora intatto, nello scompartimento dove teneva la fotografia di Antonio bambino e una pietruzza rossa in forma di cuore che Ola aveva trovato e regalato a lui in riva al mare.

Portò lui stesso a casa il fagotto di Ornella, con dentro anche le scarpe: e non per il peso, ma per certi suoi pensieri, camminava meno lieve che nell’andare.

— Adesso che si vede definitivamente respinta, Dio sa che scena farà, — pensava. Aprì con cautela il cancello, del quale solo lui possedeva la chiave, e avanzò quasi timidamente, deponendo il fagotto in un angolo dietro [p. 182 modifica]la casa: voleva prima esplorare l’umore di Ornella. Ma per quanto la cercasse, Ornella non era in casa nè fuori. Per la porta spalancata si vedevano le galline spadroneggiare entro la stanza: due galletti gialli e bruni, irti come aragoste crude, si beccavano ferocemente sotto la tavola, e il gallo fiammante e una giovine pollastra bianca come una colomba facevano il comodo loro.

— Ma bravi! — egli disse battendo le mani come ad applaudirli.

E quando riuscì a cacciar via anche i duellanti ciechi e sordi ad altro che non fosse il loro odio, andò a vedere presso i contadini. Ornella era proprio lì, nel gran sole placido, con l’alta figura campeggiante sullo sfondo verde e azzurro: il cerchio spigato delle sue treccie pareva toccasse il cielo. I due fratelli la guatavano, piccoli davanti a lei, un po’ ancora piegati sul loro lavoro, un po’ protesi verso di lei: e tutti e tre ridevano e parlavano sboccato, avvinti dallo stesso incanto bestiale. Ed egli disperò della misericordia di Dio. [p. 183 modifica]

Questo stato di cose durò parecchie settimane, anzi si aggravò col sopravvenire del caldo.

Il maestro sentiva di giorno in giorno crescere sopra di sè la sua miseria: invano tentava liberarsene: ci si può liberare dall’incubo del caldo? Bisogna fuggire, salire sulle cime dei monti o sull’alto orrizzonte del mare, dove l’atmosfera è pura; ed egli non poteva muoversi; non poteva e non voleva, poichè sapeva che anche il fuggire verso luoghi più freschi non gli avrebbe procurato sollievo. Accettava dunque la sua pena come accettava il caldo fermo e basso di quella pianura dove tutto come dentro l’anima sua si bruciava, e dove il soffio buono del mare non riusciva a distruggere quello malefico delle risaie e delle saline.

Anche Ornella pareva rassegnata; andava a fare le spese e lavorava nell’orto, profittando della vicinanza dei contadini per ridere e litigare con loro; e fra di loro anch’essi avevano ricominciato a questionare in apparenza per altri motivi, in realtà per lei. Gesuino adesso si recava tutte le mattine a messa, per aver occasione [p. 184 modifica]di incontrarla quando ella usciva per la spesa, ma anche perchè era tormentato da scrupoli e tentava di spegnere il suo ardore demoniaco con le preghiere e le pratiche religiose.

Una sera che stava solo in casa, il maestro sentì Proto che con voce untuosa domandava il permesso di entrare.

— Avanti, — disse: e subito sentì che c’era qualche cosa di nuovo. Ripiegò con cura il giornale che leggeva, si tolse i piccoli occhiali da presbite, li rimise con cura nel loro astuccio nero.

— Come, — domandò Proto con voce falsa; — la sua donna non è ancora rientrata?

— Pare di no. È andata a comprare il latte in paese.

— E lei le permette di star fuori così tardi?

— Che posso farci? È così.

Proto si fece serio, quasi triste.

— È così, — sospirò. — Le donne sono tutte eguali. Gesuino giura che non ce n’è una onesta. Veramente mia moglie lo era, questo lo posso garantire io: in gioventù anche lei amava molto il divertimento; io però sono del parere che il buon marito fa la buona moglie: sopratutto con l’aiuto del bastone. Una volta un mio amico....

Il maestro non pareva disposto a sentire i fatti dimostrativi coi quali Proto puntellava [p. 185 modifica]sempre le sue opinioni: lo fissò quindi in viso e disse:

— Proto, voi avete da dirmi qualche cosa?

Proto capisce che con quell’uomo lì bisogna sfrondare i discorsi e venire al fatto nudo e secco.

— Il fatto è questo, — dice, irrigidendosi; — lei forse lo ha indovinato. Quella ragazza fa al fatto mio. È sana e robusta, e con me, e con la vigilanza anche di Gesuino, filerebbe dritta.

— Ma se Gesuino è più cotto di voi?

— Non importa; gli passerà, e se no gliela faccio passare io: lo mando via, ecco tutto, che meni vita da sè; ma questo non accadrà, perchè noi ci vogliamo troppo bene. Lei sa il proverbio: dove ci si mangia ci si lagna.

— La ragazza è incinta in cinque mesi, voi lo sapete, e già lo si vede, del resto.

— Non importa: si aspetta che sgravi, che allatti, che le cose vadano tutte a posto. Il figlio, oh, s’intende, lo piglio io, lo legittimo io.

Davanti a questa serenità di pietra il maestro rimane scosso: tutto gli appare come un [p. 186 modifica]fenomeno naturale, e si domanda se non è lui, lui solo, ad essere fuori della normalità degli uomini: ma in fondo sente che così non è, e invece di rallegrarsi per quel ritorno della misericordia di Dio che gli appiana intorno le onde agitate e spinge la sua barca a riva, se ne rattrista nelle radici dell’anima.

— La ragazza sa niente?

— Ma, per dire la verità, qualche cosa le ho accennato. E lei non ha risposto, ma mi sono accorto che ha guardato bene la casa, le bestie, il campo, valutando tutto e osservando quel che c’è da avere e dare. È una ragazza pratica, e questo anche mi piace. È svelta nei mestieri: poche ne conosco, di così svelte. È vero?

— È vero, — afferma il maestro, e si guarda attorno, e lo sguardo del contadino segue il suo. La dimora infatti sembra un’altra, col lettuccio pulito, il raggiante quadretto della Fuga, il cassettone lucidato col petrolio e sopra tutti gli oggetti in ordine.

Sulla cappa del fornello pende un merletto di carta verde; il pavimento è sgombro di ogni altra cosa che non siano i piedi dei mobili, e sulla parete in fondo gli oggetti di cucina sembrano borchie decorative.

Ma intanto l’orologio a sveglia che batte il tempo in cima al cassettone, segna le otto e tre quarti, e lei non si vede. [p. 187 modifica]

— È questo, — dice Proto, lievemente preoccupato, — le piace troppo andare in giro e fermarsi con gli uomini. Ma è una malattia comune a tutte le donne e la si fa passare. Solo....

Qui c’è una pausa grigia, nel cui silenzio il battito dell’orologio pare il grido del cuculo in un deserto: l’uomo non prosegue, il maestro non l’interroga; entrambi avvertono un senso di pericolo.

Finalmente Proto, che di solito quando parla fissa gli occhi negli occhi del suo interlocutore, abbassa lo sguardo e dice:

— La ragazza è ancora in relazione con la persona che lei sa, e bisognerebbe che lei s’interponesse perchè tutto finisca.

Il maestro non batte palpebra, e ricorda il gioco di Ola quando essa gli si buttava sull’omero e gli diceva: — vediamo a chi tiene più gli occhi aperti, — investendogli il viso col soffio della sua bocca ridente. E quel ricordo lo sostiene ancora una volta nel momento del pericolo. [p. 188 modifica]

— Chi vi ha detto che Ornella è ancora in relazione con Antonio? — domandò con voce ferma.

Proto sollevò gli occhi, quasi sorpreso che il maestro sapesse che «quella persona» della quale mai s’era fatto il nome fra loro due fosse precisamente Antonio.

— L’ho veduto io. Da prima li ho veduti a confabulare nel viale, poi l’ho pedinata e veduta andare in casa di lui; del resto glielo può affermare anche Gesuino.

Il maestro si rimise gli occhiali, ma automaticamente, come quando voleva veder bene una cosa da vicino, poi se li tolse e con essi fra le dita, tese la mano vibrante di sdegno.

— E voi volete sposare una donna simile? Voi, Gesuino, lei.... Un bel porcile....

Si frenò, ma tardi. Proto era offeso; più dignitoso di lui, però, disse:

— La mia casa è stata sempre pulita. Povera ma pulita. E le garantisco che, sia quella o altra donna che ci entri, lo sarà sempre.

— Ma se quella inganna anche Dio?

— Dio è una cosa, io sono un’altra,

— affermò Proto, senza ombra di ironia; e il maestro, che a volte aveva il grandioso presupposto [p. 189 modifica]di credersi lui stesso una parte di Dio, si sentì davvero infinitamente diverso del contadino.

Ad ogni modo domandò tempo per riflettere.

Ai primi di settembre tornò Marga. La sua salute era molto migliorata: la febbre, divenuta intermittente, l’assaliva solo nel pomeriggio e svaniva col cadere del sole, sempre più tenue e breve. E poichè il maestro non si lasciava più vedere, neppure per ritirare il mensile stabilito con Antonio, un giorno lei e la bambina andarono a cercarlo nel suo rifugio. Oramai tutti sapevano ch’egli viveva laggiù con Ornella che si diceva incinta per opera di lui. La gente mormorava e rideva ma senza meraviglia nè sdegno: sono cose che succedono nel mondo. E anche lui non si sdegnava più: il dolore antico gli era tornato indivisibile compagno, confortato però da una misteriosa speranza di giorni migliori. Qualche cosa doveva succedere, sia pure la morte, e mettere fine alla vicenda triste che lo travolgeva. Ed egli aspettava, come la foglia sull’albero, che deve pure un giorno sottrarsi al vento e al sole e ricadere nel seno della terra.

Intanto viveva appunto in mezzo agli alberi e [p. 190 modifica]ai cespugli del giardino illudendosi di coltivare la terra: in realtà cercava un ultimo conforto, col confondersi o tentare di confondersi con la natura.

E gli pareva di essere felice quando questa corrispondeva con lui, quando il pesco gli buttava sui piedi i frutti maturi, gl’insetti si prendevano confidenza coi suoi capelli e i suoi vestiti, il ragno verde gli correva sulla mano come sopra una foglia, e la goccia di sangue della coccinella si posava sul suo dito bruno di terra.

Illusioni: il suo cuore, dentro, era solo, e la gioia effimera volava via come la coccinella arrivata al limite dell’unghia di lui.

Solo l’anima che soffre in silenzio può confortare l’anima che soffre in silenzio. E la visita di Marga, ancora più che quella di Ola, lo sollevò da quel suo piegarsi sepolcrale verso la terra. Ella finse di niente. Salutò Ornella come una semplice sua antica serva passata ad altro servizio, e lasciò che Ola l’abbracciasse forte.

— Accidenti che forza! E come pesi, Ola! E come sei cresciuta!

Era cresciuta infatti, e alcune crosticine e graffiature recenti sulle braccia di velluto, rivelavano [p. 191 modifica]gli ultimi combattimenti coi bambini della montagna.

L’incontro col nonno fu un po’ come quello di due innamorati che si rivedono dopo lunga assenza. Qualche cosa di estraneo era già fra loro; e lei specialmente aveva dimenticato e tradito. Lasciò ch’egli la baciasse, che l’accarezzasse, ma gli scivolava di mano come al loro primo incontro, e per di più adesso non lo osservava più. Lo conosceva già e non trovava nulla di nuovo in lui, tanto più che egli aveva gli stessi vestiti e la stessa cravatta dell’altra volta.

Piuttosto l’attirava il luogo, il luogo misterioso dove finalmente era penetrata; e con uno sguardo osservò tutto, gli alberi, le tavole, il pozzo, manovrando finchè potè penetrare nella casetta. Vide subito la scaletta che conduceva al soppalco, e i suoi occhi s’illuminarono di gioia selvaggia. Lassù era il mistero, l’odore della vecchia che rubava i bambini; forse lassù ce n’era ancora qualcuno nascosto.... E mentre lei saliva la scaletta, sorvegliata da Ornella che pareva non si interessasse ad altro, il maestro e Marga sedettero fuori, davanti alla tavola di marmo. Anche lui era calmo, quasi freddo. Guardò bene in viso la donna e le disse che la trovava ringiovanita; poi domandò di Antonio e come andavano le faccende di casa. [p. 192 modifica]— Ma bene, — esclamò lei, — Antonio mi ha procurato la sorpresa di farmi trovare in casa una nuova serva, e poi mi ha raccontato di questa, che egli ha licenziato non so perchè. Ma anche questa che abbiamo adesso è bravina, e poi io sto meglio e faccio tutto da me. Se guarisco completamente ne posso fare anche a meno.

Egli non cessava di guardarla; e quel viso fino, chiaro, gli occhi limpidi, la bocca pura di fanciulla, e sopratutto la voce, tenue e sognante, gli destavano ancora una volta un senso di ammirazione profonda. Aveva l’impressione di trovarsi davanti a una statua parlante, e si domandava: perchè parla così? Per non farsi sentire da Ornella, o perchè realmente quel bel mobile di Antonio, quell’esimio commediante, riesce a nasconderle la verità?

Ma ricordando il loro colloquio dopo il suo arrivo sentiva che la stessa atmosfera li avvolgeva ancora: e non toccava a lui turbarla.

— Voglio farti vedere il giardino; vieni, — disse alzandosi. — Ella lo seguì, docile. Ammirò le galline e la chioccia col suo gran fiore di pulcini gialli, in verità curati molto da Ornella; ammirò l’uva abbondante del pergolato e domandò dei contadini e dei tristi padroni della casa.

— Fra non molto si farà il dibattimento, e il [p. 193 modifica]latitante sarà condannato in contumacia: l’altro giorno è venuto qui un agente per verificare se tutto è in ordine.

— Tutto è in ordine dove c’è chiuso e la morte governa, — egli riprese più forte, guardando la casa e poi lei. — Così è, Marga.

Marga non rispose: solo quando furono giù, verso la siepe, disse come dopo averci pensato bene:

— E quando lei dovrà cedere la custodia, speriamo torni da noi. Quando sarà? Forse in ottobre?

— Non so: l’avvenire è in mani di Dio, — egli rispose, e senza volerlo imitò il modo di parlare di lei.

Giorni dopo fu Ornella a domandargli perchè non andava a restituire la visita a Marga. Egli da prima si stupì di questa domanda, poi studiò che cosa poteva esservi nascosto sotto. Di solito Ornella taceva, ansando lievemente come se il suo alito fosse raddoppiato da quello della sua creatura: taceva e faticava, trovando sempre da fare: egli la guardava alle spalle, come un tempo; [p. 194 modifica]gli sembrava di vederla crescere, ingrossata realmente dalla gravidanza, e sebbene gli destasse di nuovo un’istinto di ripugnanza e di timore, la osservava con un senso, spesso voluto, di religione. Dopo tutto era l’eterno mistero della vita che si maturava in lei, e quando l’albero fiorisce non si guarda alla terra sotto ma al cielo sopra.

La domanda di lei nascondeva certo un’insidia, ma egli si sentiva stanco e non voleva approfondire più nulla.

La solitudine, dopo la visita di Marga, lo riprendeva a succhiare, come la tartaruga la terra; e lo purificava, certo, gli levava dal sangue le particelle oscure; egli sentiva però che quando quel succhio gli sarebbe arrivato al cuore, sarebbe morto. Poichè non è vero che l’uomo superiore possa vivere solo con la natura e con gli esseri inferiori a lui: il suo cuore ha bisogno del cuore del suo simile come una colonna ha bisogno dell’altra per sorreggere il tempio.

Un giorno, dunque, egli tornò da Ola. Ola stava sotto il pergolato, scalza, con un corto vestitino verde che la faceva parere uno di quegli uccellini che prendono il colore delle foreste tropicali dove vivono. Giocava col gatto, stuzzicandolo col piede, e dopo che l’animale le era rimbalzato intorno sporgendo e ritirando le unghie, ella gli abbandonava fra le zampe il [p. 195 modifica]piedino nudo e glielo premeva sul ventre; eppure non si facevano male, tutti e due impassibili nel gusto del giuoco in apparenza crudele.

Una farfalla rossa svolazzava intorno a loro; a volte si avvicinava al piede e al gattino come presa dal desiderio di mischiarsi alla loro lotta, ma subito volava via lontana pentita. E le foglie mormoravano, in un ondeggiamento armonioso che pareva prodotto dal loro stesso mormorìo.

Il maestro si avanzava lieve per non distruggere la scena; ma appena la sua ombra fu sul limite del pergolato il gatto fuggì e Ola rimase a guardarsi il piede, anzi lo sollevò, lo appoggiò al ginocchio e lo rivolse in su con la mano esaminandolo bene.

— Ti ha graffiato? — disse il nonno: — ben ti sta. Non sono giuochi da farsi, questi.

Ola sollevò gli occhi di tra i capelli selvaggi, ed egli li vide, come due lumi che si accendono la notte nel bosco, farsi rossi e luccicare: poi ella si rivolse verso il muro e cominciò a piangere disperata e spaurita. Egli la prese, la rivolse a sè, la consolò, pentito e addolorato più di lei: e quando la bufera di singhiozzi e di lagrime cominciò a placarsi le domandò anche scusa.

— Non l’ho fatto per male a sgridarti.

— Non è per questo, — dice lei rasserenata; — è perchè credevo mi avesse graffiato davvero. [p. 196 modifica]

Qualche mattina andavano ancora a spasso lungo la spiaggia, col cane fedele. La spiaggia era sfollata dei bagnanti, ma ancora violata dalle loro orme; e bisognava passare alla larga dalle piccole dune perchè luride di sterco e di carta sporca.

— Bisogna che l’inverno passi qui con la sua scopa di vento e l’inaffiatoio a lungo tiro, per purificare il luogo, — diceva lui ad Ola, e Ola rideva per quest’immagine dell’inverno spazzino del buon Dio; e voleva che il nonno ripetesse la frase.

Egli la ripeteva, pensando alle sue vicende; e gli pareva che tutta quella folla di borghesi e contadini, che aveva riempito il mare e la sabbia del suo sudore malaticcio, fosse passata su di lui come appunto le legioni del dolore invocate da Dio.

— C’è anche la neve, però, — osservò Ola, pensierosa. — A me la neve non piace, perchè non si può uscire di casa.

— E se si potesse uscire?

— Oh allora sì, ma loro non vogliono. [p. 197 modifica]

— Ben venga la neve, purificherà meglio, ammazzerà anche le pulci, e il cane sarà contento.

Ed ecco che lei ride di nuovo perchè il cane per dar valore alle parole del nonno solleva una zampa e si morsica l’inguine con un gemito di fastidio e di dolore.

— Vedi, adesso invece lui deve morsicarsi da sè e vorrebbe anche mangiare le pulci.

Lei ride; tutto è buono per farla ridere, mentre da ogni sua stessa parola egli ricava un terribile significato per sè.

Poi col rinascere dell’erba e il sollevarsi dei giunchi sulle dune, dopo che la scopa formidabile del garbino1 ebbe dato una prima mondatura alla spiaggia, il fiore della speranza rinacque pure in lui.

Ornella si faceva di giorno in giorno più grossa e taciturna, ed egli osservava in lei qualche cosa di nuovo, un riflesso di pensiero nei suoi occhi, che divenivano chiari e, come l’acqua [p. 198 modifica]limpida, lasciavano vedere nel fondo; e in questo fondo brillava un risveglio di luce. Ella non voleva più uscire di casa: non andava neppure dai contadini, e i contadini non s’avvicinavano se non invitati dal maestro. La domanda di Proto, rimasta in sospeso, teneva tutti inquieti: tutti però aspettavano che il tempo risolvesse le cose, come se il parto di Ornella dovesse segnare il principio di una nuova vita. Ma ciò che dava più speranza al maestro era quel senso di coscienza che egli credeva di veder nascere in lei. Era la maternità che operava? Anche le bestie la sentono, però; ed egli non voleva illudersi troppo.

Che qualche riordinamento avvenisse in lei lo dimostrava anche una sua improvvisa decisione di economia. Mentre prima sciupava i suoi guadagni leciti ed illeciti, adesso non spendeva più un soldo e teneva nascosti i suoi denari nel soppalco.

Alla fine di ogni mese Antonio, che a sua volta evitava d’incontrarsi col maestro, mandava il mensile stabilito, per mezzo di lettere [p. 199 modifica]assicurate: il biglietto di cento lire, segnato ancora dai buchi della cucitura con la quale era fermato alla busta, passava nelle mani di lei che lo metteva in tasca senza guardarlo; poi non lo si rivedeva più. Ella lo riceveva come compenso per il servizio al maestro, ma ne conosceva la provenienza, e in realtà la vera padrona era lei. Adesso andava lui a fare la spesa, e lei brontolava se non la faceva bene. Le donne del mercato gli chiedevano di lei come fosse sua moglie, e gli amici di Antonio, sempre impalati all’angolo della piazza, sogghignavano nel vederlo passare; egli non si sdegnava più, ma gli pareva di essere come uno che cammina sulla corda e per quanto abilissimo può da un momento all’altro precipitare.

Fu contento quando la cattiva stagione si scagliò furibonda contro la terra: così, fra le nebbie, i venti e le pioggie che non finivano mai, egli aveva meno occasione d’incontrarsi coi propri simili ed essere giudicato da loro. [p. 200 modifica]

Un giorno tornò a casa tutto zuppo di pioggia: il vento gli aveva portato via il cappello ed egli provava l’impressione di essere diventato calvo. Ornella fu premurosa con lui; lo costrinse a cambiarsi il vestito, gli levò le scarpe e gli fece bere una tazza di latte caldo: e a sua volta si bagnò di pioggia con l’andar fuori a prendere legna per rattizzare il fuoco.

Egli sedette accanto al camino e gli sembrò di essere tornato ragazzo, quando la madre si curava di lui e nelle brutte giornate lo costringeva a star dentro casa. Uno stordimento piacevole, come di ubriachezza, gli travolgeva i pensieri. Dopo tutto è buono avere una donna in casa, che si occupa della parte materiale della vita, e vi lascia vivere dentro a modo vostro. E questa Ornella....

— Ornella, — la chiamò, volgendosi a vedere che cosa faceva. Faceva le solite cose; metteva ad asciugare le vesti di lui e poi dritta davanti alla tavola, sotto la luce torbida della finestra flagellata dalla pioggia, sbucciava le patate per la minestra: e lo faceva con cura, in modo che [p. 201 modifica]la buccia ne veniva via sottile tutta di un pezzo attortigliata come un nastro giallo e bruno.

— Ornella, ho fatto un sogno buffo, stanotte: mi pareva che un usciere fosse venuto qui per notificarmi la fine della custodia. Il dibattimento dei parricidi era finito, e l’autorità confiscava i loro beni per le spese di giustizia. Ma il curioso è questo: la carta della notifica proveniva dal mio paese; ed era della persona alla quale ho venduto la mia casa. E mi si imponeva di ricomprare la casa, pena la confisca.

Ornella non era abituata a queste confidenze di lui; e non capiva che spesso si raccontano dei pretesi sogni per aver modo di rivelare i propri desideri; tuttavia ci si interessava, e osservò seria, come si trattasse di cosa reale:

— E che gliene importava a lei, della confisca?

— È questo: non me ne doveva importare, eppure ci provavo un’angoscia profonda. E l’usciere s’era ficcato qui e non intendeva di andarsene se prima non pronunziavo una decisione. Era un uomo alto, con la barba, e mentre faceva il personaggio dell’usciere, come succede nei sogni, era uno dei parricidi, quello latitante: sedette lì, dietro la porta, e non si mosse più. Io guardavo la carta, e pensavo al modo di risolvere la faccenda: pensavo: Marga potrà aiutarmi.... [p. 202 modifica]Al nome di Marga, Ornella piegò la testa, guardando bene la patata che aveva in mano: e sottovoce domandò:

— Ma i denari ricavati dalla vendita della casa, lei cosa ne ha fatto?

Egli non rispose: questo era un affare che col sogno non ci entrava. D’altronde in quel momento il fragore del vento e della pioggia risonava così forte ch’egli poteva non aver sentito le parole di lei.

— Marga potrà aiutarmi, — riprese, rivolgendosi verso il camino. — E allora le cose si mettono bene: ricompro la casa e ritorno laggiù. Laggiù posso ricominciare a guadagnare: posso dare lezioni e aprire una scuola privata: tutti hanno stima di me, laggiù, e forse ho fatto male ad andarmene. La casa è bellina, al sole: non ha orto nè giardino ma è un po’ fuori e guarda sulla strada provinciale, sopra una china verde con grandi olivi che va a perdersi nella vallata. E sopra la casa e il paese c’è la montagna, coi boschi di cerri e la foresta dove solo i cacciatori possono avventurarsi.

Ornella adesso aveva sollevato la testa: nella stanza grigia tremolava come nei crepuscoli d’inverno il velo rosso del chiarore del fuoco: di fuori la musica disperata della bufera accompagnava il racconto nostalgico del maestro: e a lei pareva di sentire una fiaba. [p. 203 modifica]

Fu il principio di una specie di seduzione. Come il serpente al suono del flauto del selvaggio che lo vuol prendere, ella s’avvicinava al maestro nel sentire i racconti di quel paese lontano.

Sopratutto la interessavano i cacciatori che d’estate e d’inverno penetrano la foresta e ne scovano le bestie quasi feroci, come il cinghiale e il lupo, non senza il pericolo di diventare a loro volta selvaggina.

— Ci sarà anche il lupo mannaro, quello che si trasforma in uomo, — disse una volta; e il maestro ricordò che anche Ola credeva all’esistenza di questi animali misteriosi con i quali le mentalità primitive si spiegano ancora la ferocia dell’uomo.

— È l’uomo che spesso si trasforma in lupo, — spiegò non senza ironia; ma lei non capiva neppure lontanamente certe cose, e al simbolo sovrapponeva sempre la realtà.

— Ma come fa a trasformarsi? Io poco ci credo, a queste cose. [p. 204 modifica]

Eppure aveva paura dei morti, e anche lei affermava di sentire qualche rumore strano dentro la casa maledetta; una sera che qualcuno venne a bussare alla porta non volle aprire perchè, disse sottovoce avvicinandosi spaurita al maestro, doveva essere lo spirito del padre ucciso dai figli.

— Ma sarà Proto o Gesuino, altri non può entrare, — egli disse infastidito.

D’altronde non poteva aprire lui, perchè s’era già messo a letto e sudava: poichè dal giorno della gran pioggia un po’ di febbre e dolori reumatici lo tormentavano.

Dopo aver bussato alla porta, la persona, di fuori, picchiava un po’ timida un po’ insistente, ai vetri della finestra.

Ornella si fece coraggio: domandò con voce grossa:

— Chi è?

E il maestro non le diede torto, di non voler aprire, quando una voce sconosciuta rispose:

— Amici.

— Amici, chi? — gridò allora lui, mettendo la testa fuori delle coperte. L’uomo fuori esitò; poi rispose anche lui con voce forte:

— Sono Adelmo Bianchi.

E tutto, per un momento, fu silenzio: anche gli alberi avevano cessato di stormire: uno di [p. 205 modifica]quei momenti scuri che sono come il punto fermo fra un atto e l’altro dei grandi drammi.

Adelmo Bianchi era il parricida.

— Apri, — disse il maestro a Ornella, e poichè lei, col viso bianco spaventato, non poteva muoversi, egli fece atto di alzarsi.

La voce di fuori riprese: — Se la disturba non apra. Ero venuto così, per vedere la casa, perchè fra un’ora parto e non tornerò mai più.

Era una di quelle voci passionali, dolci e calde, come se ne sentono solo in teatro; il terrore di Ornella si sciolse quindi in un tremito di commozione indefinibile, come se quella voce l’accarezzasse tutta, disperatamente.

Anche il maestro, per quanto si dominasse, sentiva il suo sudore aumentare e raffreddarsi; non per paura del parricida, ma degli impicci che potevano derivargli dalla sua visita; tuttavia ripetè:

— Apri.

E Ornella aprì, nascondendosi dietro la porta fino a che il terribile visitatore non fu in mezzo alla stanza: poi richiuse, piano, e lo guardò alle spalle, delusa e quasi sdegnata.

Era un giovine piccolissimo, magro, mal vestito: sembrava un ragazzo vagabondo, e non gli mancava neppure il sacco, ch’era poi un vecchio zaino da soldato: anche in testa aveva [p. 206 modifica]un berretto da soldato, e se lo tolse per salutare il maestro.

Adesso Ornella gli andava dietro, alta più di lui di tutta la testa, e pensava che se quello moveva un dito per far del male, lei lo avrebbe potuto stritolare fra le sue braccia.

A sua volta il maestro pensava ad una mistificazione, a una qualche malvagia burla degli amici di Antonio; ma sebbene con la mente annebbiata dal suo malessere, non si lasciava vincere nè dal turbamento nè dall’ira.

Quando però il giovine gli fu davanti, rispettoso ed umile, ed egli lo potè bene vedere in viso non dubitò più: era un viso come scolpito in legno scuro e rosicchiato dai tarli; la bocca circondata di peluria, i grandi occhi, e tutti i lineamenti vi segnavano profondi scavi neri. Era il viso stesso del castigo.

— Sto già a letto perchè mi sento poco bene, — disse il maestro per scusarsi. — Ornella, dà qui una sedia.

Il giovine si volse per vedere questa Ornella, e arrossì nel sentirsela quasi addosso, bella e gigantesca. [p. 207 modifica]

— È sua moglie? — domandò stupidamente; e spalancò gli occhi perchè lei rideva: quel riso sguaiato e compiacente col quale un tempo ella usava accogliere i complimenti e le insolenze maschili.

— È la mia dama di compagnia, — disse il maestro, preso anche lui da una insolita e maliziosa gaiezza. — Sedete.

Il giovine sedette, deponendo per terra lo zaino e il berretto, senza smettere di fissare Ornella che s’appoggiava al dappiede del lettuccio quasi per difendere il suo padrone da ogni possibile pericolo.

Ma la presenza di lei dava fastidio al maestro. — Prepara una tazza di vino caldo, — le disse, poi si rivolse al giovine. — O avete bisogno di mangiare? Senza complimenti.

— Grazie, grazie, non voglio nulla. Sono venuto solo per vedere la casa. Ho finalmente un passaporto e voglio andarmene lontano, nei paesi più sconosciuti del mondo: così mi parrà di essere un risuscitato. E può darsi che faccia anche fortuna.

— Può darsi, — ammise il maestro; — ma non sarebbe meglio, anche nell’interesse del vostro fratello, di costituirvi?

— Costituirmi? E perchè? Per essere condannato all’ergastolo? E a mio fratello che gioverebbe? Potrò aiutarlo in altro modo, e [p. 208 modifica]meglio, col rimanere in libertà. — E aggiunse con amarezza: — se può chiamarsi libertà il vivere in paesi lontani, fra gente sconosciuta, senza amici nè parenti nè conoscenti. Sarà libero il corpo, ma l’anima sarà eternamente prigioniera in questo mondo e nell’altro.

— E allora perchè andare?

— E allora perchè vivere? Si va, si va, spinti dalla sorte, come la sabbia dal vento. Quando stavo qui, cento anni fa mi pare, suonavo l’ocarina, e fra le altre un’arietta i cui versidicevano appunto:

Come la sabbia dal vento,

ci spinge il destino così....

E per dar corpo alle sue parole si mise a fischiare l’arietta.

Ornella, che preparava il vino caldo, si volse a guardarlo. Avrebbe voluto ridere ancora, ma di nuovo la voce dello strano individuo le incantava il cuore. Pareva che tutto quello che egli diceva fosse una canzone. Anche il maestro cominciava a interessarsi e incuriosirsi, sebbene gli occhi del giovine, con la grande pupilla fissa e l’iride opaca circondata di troppo bianco, rivelassero la demenza. E ricordava le parole di Proto: la pazzia essere la ragione di molti delitti.

— Dove siete stato in tutto questo tempo? [p. 209 modifica]— Non lo so neppure io: ho tutta una confusione in mente. Dapprima sono stato giù, verso le Isole Rosse, in una specie di grotta marina che pochi conoscono. Per tre giorni e tre notti non ho preso cibo: i pipistrelli mi svolazzavano intorno nel buio come mosche; e io ne avevo tanta paura, finchè per la rabbia non ne chiappai uno e lo sentii molle e caldo nella mia mano come un topolino spaurito. Allora feci amicizia con loro: mi parevano i miei stessi pensieri, neri, affannati, senza sonno.

— Avete studiato? — interruppe il maestro, sorpreso anche lui delle immagini letterarie del giovine.

— E come no? Questo è stato il nostro guaio, mio e di mio fratello: abbiamo studiato fino alla quinta ginnasiale: facevamo le stesse scuole, sebbene lui sia maggiore di me di due anni: dopo si dovette troncare. La mamma, che ci sosteneva, era morta: lui, mio padre, dopo questa disgrazia divenne bisbetico, avaro e dispettoso. Ci costrinse a lavorare la terra. Mio fratello scappò di casa, ma poi tornò: e qui cominciarono le liti, le botte di mio padre contro di lui. Una mattina lo bastonò mentre dormiva: l’urlo e il pianto del suo risveglio li ho sempre dentro la testa, dentro il sangue. Perchè, perchè, Signore, permetti questi orrori?

Si strinse la testa fra le mani e chiuse gli [p. 210 modifica]occhi, come ascoltando ancora i lamenti selvaggi del fratello: poi lasciò cadere le braccia e piegò la testa sul petto.

— Tante volte, — riprese come parlando fra di sè, — io vengo a discorsi con Dio, e chiedo a lui ragione del misfatto. Io ero buono: ero incapace di far male a un insetto: lasciavo che le formiche rovinassero il seminato piuttosto che distruggerle, perchè ero e sono convinto che anche gli animali hanno un’anima e il diritto alla vita: altrimenti come si spiegherebbe Dio e la creazione del mondo? Ma questo Dio, questo Dio che ci ha creato tutti per farci soffrire? Che ci fa continuamente soverchiare dal male?

— Dio è in noi: e sta in noi vincere il male, — disse il maestro.

Il giovine sollevò gli occhi, pur tenendo bassa la testa, e il bianco della sclerotica brillò come di porcellana.

— Parole! — esclamò. — È facile pronunziarle ma difficile metterle in pratica. Anch’io pensavo così, da ragazzo, quando andavo a scuola e leggevo le belle Antologie fiorite. Poi dopo invece....

— Si è sempre in tempo a vincere il demonio. E Dio forse predilige gli uomini che una volta tanto si sono lasciati soverchiare dal male, se permette loro di sollevarsi più in alto degli altri [p. 211 modifica]e vivere per la sola ricerca del bene. Voi stesso non vi sentite tale?

— È vero; e appunto per questo non voglio andare in carcere. Voglio vivere, lavorare, fare del bene. Ma la disperazione troppo spesso mi vince: sono solo e maledetto: non avrò più amore, non avrò più nessuno con me. Anche se incontrassi una donna che mi volesse bene non potrei possederla perchè lo spirito di mio padre starebbe fra me e lei, e il figlio mio sconterebbe il mio delitto.

— Ubbie, figliuolo mio, — disse il maestro con accento di pietà. — Finchè voi penserete così sarete forse soggetto allo spirito del male, ed è questo, non l’ombra del padre vostro, a oscurarvi l’anima. Laggiù, dove contate di andare, e dove vi auguro di arrivare presto e bene, nessuno sa del vostro passato: cancellatelo pure voi dal vostro cuore e tutto rinascerà.

— No, no, invece! Io voglio ricordare e nutrirmi del mio dolore. E se incontrerò una donna che vorrà dividere la mia sorte le dirò chi sono, che mi prenda come sono, come io prenderei lei anche se disgraziata più di me. Ma lasciamo l’avvenire. Io intanto dovrò lavorare anche per mio fratello. Fosse rimasto libero anche lui! Assieme ci sarebbe parso di essere ancora felici, di poter ridare ancora la vita al nostro padre. A volte tutto mi sembra un sogno, e cerco di [p. 212 modifica]svegliarmi e non posso. Anche adesso mi pare di sognare. Quello è il muro della nostra casa: di là tutto è ancora come prima: ancora la mamma lavora per noi; mio fratello fa il suo compito di latino, ed io suono l’ocarina. Sente? Sente?

Si sentiva solo il fruscìo del vento, sopra il tetto; ma pareva davvero che gli spiriti famigliari si fossero dato convegno nella notte intorno alla casa del loro antico amore.

Ornella, con la tazza del vino caldo fra le mani, ascoltava smarrita; la sua ombra enorme riempiva la parete e pareva volesse sfondare con la testa il soffitto per vedere di fuori gli spiriti mormoranti.

Bevuto il vino il giovane parve dapprima accasciarsi come preso da una invincibile sonnolenza: poi il suo viso si colorì; le mani, lunghe e femminee, che stringevano la tazza per scaldarsi, si fecero rosee, e anche la voce divenne più calda e modulata.

— Quello che più mi fa paura è il freddo; non lo resisto, e vorrei passare l’inverno come [p. 213 modifica]le talpe sotterra a dormire. Il caldo invece è il mio elemento: e perciò me ne vado nei paesi del sole, in Australia o nell’interno dell’America del Sud; voglio vivere come un serpente, al sole; o nelle foreste dove le foglie sono così grandi che un uomo ci si può coricare come in una culla, e i tronchi scavati degli alberi servono da capanne. Vivere di pesca e di caccia, ritrovarsi nudi a contatto con la natura vergine, questo sarebbe il mio sogno; ma io devo pur lavorare, per mio fratello, e forse la sorte mi spingerà invece nelle grandi città industriali, nelle bolgie dove col sudore della fatica si fabbrica l’oro. Basta; Dio mi aiuterà. Se permette le manderò mie notizie, e lei, che è così buono, mi darà notizie di qui, — disse poi guardandosi attorno: i suoi occhi ingranditi si fermarono ancora su Ornella, e poichè lei lo fissava affascinata i loro sguardi s’incontrarono e si fusero perdutamente come quelli di due amanti.

Il maestro si accorgeva di tutto e ne provava dispetto. Ecco che quella sgualdrina affilava le sue armi, anche con uno di passaggio per un’ora, con l’ultimo dei delinquenti che fra un’ora il vento della sorte portava via per sempre. Ma pure lui aveva l’impressione di sognare. Il polso gli batteva forte, e il calore e il ronzìo delle orecchie gli rivelavano la febbre. I discorsi del [p. 214 modifica]giovine gli sembravano sempre più sconclusionati e gli davano noia: chiuse gli occhi per dimostrare la sua stanchezza, ma quello si volse di fianco sulla sedia e continuò a parlare rivolto a Ornella.

— Io credo di aver una volta ballato con te, due o tre anni fa, al veglione. Me ne ricordo perchè tu eri già alta così, se non così grassa, mentre io era più piccolo ancora. Quanti anni mi dai? Ancora non ho compiuto i diciannove anni, ma già mi sembra di averne cento. L’anno venturo, poi, oltre il resto, mi dichiareranno disertore, mentre il mio ideale, da ragazzo, era di studiare anche per seguire la carriera militare e servire degnamente la patria. Dio non vuole: ma non importa. Laggiù dove voglio andare potrò forse anche arrolarmi nelle milizie coloniali, e poichè il fegato non mi manca potrò anche distinguermi e diventare ufficiale. Hai mai veduto un ufficiale delle milizie coloniali?

Ella non ne aveva mai veduto; ma subito lo immaginò vestito di rosso e d’oro, con le piume verdognole dei nostri bersaglieri, le armi lampeggianti al sole del tropico. E non rispondeva, anche per non farsi sentire dal maestro, ma passo passo, gira di qua gira di là, si riavvicinava al giovine, come s’egli la tirasse con un filo invisibile: e a misura ch’ella si accostava, egli a sua volta pareva riconoscerla meglio. [p. 215 modifica]

— È proprio con te che ho ballato al veglione, due anni fa. Eri vestita di verde, con altre tue amiche e un uomo mascherato; si o no? Chi era?

Ornella alzò le spalle: era certa di non essere stata al veglione, due anni prima, anzi ricordava che Antonio le aveva proibito di andarci; ma le piaceva che il giovine credesse di aver realmente ballato con lei.

— È l’ultimo ballo che io ho fatto; anzi, ricordo, quella notte appunto uscendo dal veglione mi sono buscata una bronchite che poi è degenerata in otite secca e questa in meningite. Tre mesi sono stato tra la vita e la morte, e guarito non fui più io. Tutto mi dava ai nervi, e le liti continue fra mio padre e mio fratello mi destavano l’impressione di essere morto e condannato all’inferno. Se io potessi scrivere i sogni che ho fatto in quel tempo sarebbe un libro terribile, più terribile della Divina Commedia. E ancora faccio di questi sogni: mi sembra sempre di camminare o nel deserto tra le sabbie che si muovono e sono esseri viventi tormentati dal vento che li trasforma di continuo; o nel mare, dove le onde fanno lo stesso giuoco, ma sono esseri più allegri, sebbene di una cattiva allegria; oppure vado su, su, per una scala di macigni, dalle cui fessure escono uccelli e serpi, e un bel momento mi trovo [p. 216 modifica]incassato fra due pietre, col capo sopra un abisso senza fondo. Sono i sogni del sangue agitato, lo so, eppure mi fanno soffrire terribilmente: però io non li sfuggo, anzi quasi li amo, perchè soffrire è espiare, ed io voglio espiare; soffrire fino a che il dolore purificherà il mio sangue e la mia carne e mi rinnoverà come un bambino innocente.

— Per questo non voglio andare in carcere, — riprese, rivolgersi verso il maestro, come per sfuggire alla tentazione della donna. — Nel carcere mi acquieterei, diverrei come gli altri, tranquilli nel loro castigo, anime già morte. Io voglio vivere; vado nel mondo non in cerca di libertà ma in cerca di dolore. Non sono, come sembrerebbe, un delirante: sono un uomo, sono l’uomo che passa attraverso la vita come la nuvola nel cielo: vengo dalla tempesta, tornerò nella tempesta. E se la nuvola caccia giù la grandine che rovina il raccolto e uccide gli uccelli, che colpa ne ha? Così io ho ucciso mio padre perchè la sorte mi spingeva: se volessi costituirmi troverei l’avvocato che potrebbe farmi anche assolvere dimostrando che io ero malato di mente nell’atto di compiere il delitto: ma io non voglio: voglio compiere il mio ciclo, seguendo la mia sorte. Se mi pigliano vuol dire che così deve essere. Ma non mi piglieranno. In tutti questi ultimi mesi ho vissuto come le [p. 217 modifica]bestie selvatiche, sotto terra, fra le pietre e i cespugli, e mi sono nutrito di erbe e di frutta. Non conosco più il sapore del pane, e il vino che questa donna mi ha dato ha acceso la mia testa, e sento che ho chiacchierato abbastanza: giuro che non berrò più una goccia di vino.

Poi guardò l’orologio a sveglia che in cima al cassettone, bianco e impassibile come la luna, continuava a girare le sue lancette. Nel silenzio il maestro riaprì gli occhi e vide che Ornella si era di nuovo affacciata al dappiede del lettuccio ma con la testa bassa mortificata.

— Ancora cinque minuti, — riprese il giovine, sempre guardando l’orologio. — A dire la verità ero venuto qui con cattive intenzioni. Sapevo che il custode della casa era un uomo debole, disarmato; che non c’è neppure il cane. Ero venuto qui con l’idea di penetrare nella casa a tutti i costi. A tutti i costi, intende? Volevo rivedere la nostra dimora, e prenderci qualche cosa, almeno l’ocarina e l’anello di sposa di mia madre. Dicono che l’anello di sposa della mamma porta fortuna. Io volevo pigliarmelo, prima del fatto, ma guai a toccare nulla in casa: di qui nascevano le questioni terribili fra di noi. Vuol dire che ne farò a meno anche adesso: porterò via un po’ di terra sulla suola delle scarpe!

E finalmente sorrise: un sorriso che gli scavò [p. 218 modifica]due fossette nelle guancie e gli circondò gli occhi di rughe, eppure lo ringiovanì e fece bello: ma che tosto si spense: e fu come s’egli si fosse levato per un’attimo la sua maschera tragica per mostrare il suo vero viso di adolescente.

— Se vi piace qualche oggetto qui, — disse allora il maestro, — pigliatelo pure.

Il giovine si guardò intorno come per scegliere davvero l’oggetto; i suoi occhi si fermarono di nuovo su Ornella, di nuovo il sorriso apparve e scomparve.

— Mi porto via questa ragazza, col suo bagaglio e tutto.

Ma lei abbassò ancor di più la testa, punta mortalmente da quelle ultime parole: e anche il maestro non rispose allo scherzo; piuttosto insistè:

— Se vi occorre qualche cosa ditelo pure: almeno un po’ di pane e di prosciutto per il viaggio. Ornella....

Ornella si sollevò pronta; il giovine si alzò anche lui, tirando su il suo zaino: stette un momento in silenzio, poi disse:

— Grazie, non mi occorre nulla. Solo, se mi permette, le dò un bacio.

E poichè il maestro metteva fuori la testa dal lenzuolo, egli si piegò e lo baciò sulla fronte umida di sudore. Poi Ornella aprì la porta ed egli se ne andò. [p. 219 modifica]

La mattina dopo, di buon’ora, Ornella andò dai contadini per pregarli che si recassero a chiamare il dottore: nella notte la febbre era cresciuta al maestro e adesso egli respirava con affanno.

— Chi c’è stato da voi ieri sera? Il cane era inquieto, sebbene non abbaiasse.

— Nessuno c’è stato, — affermò lei recisamente.

Il dottore arrivò solo verso mezzogiorno, in bicicletta, col cappotto di stoffa impermeabile tutto lucido e sgocciolante di pioggia.

La sua figura incappucciata e nera, parve di cattivo augurio al malato; al quale questo presentimento della morte non dispiacque. Era stanco: forse Dio voleva riprenderselo e sciogliere così i problemi della sua povera vita: ed egli si abbandonava al suo male con la tristezza che il male dà alla carne ma con una luce di speranza nell’anima pronta al grande viaggio.

Il dottore però lo incoraggiò. Era un uomo anche lui già quasi vecchio, stanco e timido, che non credeva alla sua scienza e andava dritto al cuore del malato. Anzi la prima cosa che faceva era di ascoltare questo cuore e se lo trovava fisicamente forte dava per salvo anche un moribondo.

— È tutta questione del cuore, — disse al maestro, ricoprendolo dopo averlo esaminato [p. 220 modifica]accuratamente. — L’uomo soffre più o meno, e fa più o meno soffrire a seconda della costituzione del suo cuore. È inutile cercare l’origine dei nostri mali, fisici o morali, negli altri organi: quando il cuore è ben piantato in mezzo al corpo, e dà ordini precisi al sangue, tutto va bene; è come il comandante di un esercito. Il suo cuore è buono: non si preoccupi dunque se un po’ di bronchite le dà quest’affanno. Cerchi di sudare: latte caldo e coperte di lana: basta.

Nel pomeriggio la febbre e l’affanno aumentarono: se si avvicinava al lettuccio, Ornella aveva l’impressione di essere davanti ai fornelli quando la pentola vi brontola su. Il malato taceva, non si lamentava neppure quando la tosse rantolosa lo costringeva a sollevarsi e spasimare: e lei lo guardava spaurita, incerta se doveva mandare o no ad avvertire i parenti di lui.

Questo stato di cose fece dimenticare ad entrambi la strana visita della sera prima; anzi, nei momenti di requie, quando il pensiero si salvava dall’oppressione del male, il maestro confondeva la figura del parricida con le altre che l’incubo della febbre gli faceva passare in mente. Tutto era stato un sogno; tutto era un sogno, e la sua vita stessa che si dileguava come quella triste giornata di pioggia non era che un sogno. [p. 221 modifica]

I contadini furono in quell’occasione più che mai servizievoli e premurosi: ogni tanto venivano a domandare notizie, e Gesuino accese una lampadina davanti ad un’immagine sacra che egli teneva inchiodata accanto al suo giaciglio. Proto ricordò che la moglie guariva tutti i mali con una infusione di fiori secchi di tiglio: l’usava anche lui, e pensò bene di prepararla per il maestro: calda calda entro una tazza gliela portò e gliela fece bere: poi si offrì di passare la notte a vegliarlo.

— No, no, — disse il malato, — domani starò meglio.

Il giorno dopo stava peggio.

Così i giorni passano ed egli si sente andar giù, giù, come se la materassa macerata dal suo male sprofondi e diventi una buca. Fuori il tempo è anch’esso malato; dal cielo sempre nero cade continua la pioggia, e il rombo del mare e del [p. 222 modifica]vento l’accompagnano. Anche Ornella s’è fatta pallida e i suoi capelli umidi sembrano scuri. Per fortuna i contadini si prestano a tutto: riparato dal grande ombrello turchino di famiglia Proto va al paese a fare le spese e quando torna le sue scarpe sembrano due barche appena uscite dal mare in burrasca.

Una sera portò una bottiglietta bene avvolta nella carta bianca odorosa di farmacia e disse ingenuemente che era stato a consultare l’altro dottore del paese.

— Ho mio fratello Gesuino con la bronchite; mi ordini qualche cosa, gli faccio; e lui mi ha ordinato questa medicina: è buona per l’espettorazione; un cucchiaio ogni ora. Ecco.

Trasse la bottiglietta e la depose sul cassettone; poi domandò a Ornella un cucchiaio.

— Bravo, — disse il maestro. — E voi dite di non credere ai medici e alle medicine.

— Quello che viene qui fa morire la gente perchè non vuol dare medicine, — ribattè Proto per non contradirsi.

E costrinse il malato a prendere un cucchiaio della medicina, che d’altronde era l’innocente sciroppo per la tosse dei bambini.

Da quella sera cominciò il miglioramento. [p. 223 modifica]

Allora il maestro permise si avvertisse del suo stato la famiglia, anche perchè il tempo s’era schiarito e Marga quindi forse sarebbe venuta a visitarlo.

Andò Gesuino, e tornò alquanto impacciato per la risposta.

— La sua nuora verrà a momenti, e porterà anche la bambina: ma....

— Ma?

Gesuino fece una smorfia con la bocca, accennando Ornella. Sì, era meglio che la bambina non vedesse Ornella, in quello stato. Ma perchè? si domandò il maestro. Ola era troppo innocente per capire lo stato di Ornella. Sono i grandi che attribuiscono la loro malizia ai piccoli, e la destano loro. Ma Ornella stessa aveva già capito, e non voleva farsi vedere, sopratutto da Marga. Pensò anche di vendicarsi di Gesuino.

— Se permetti, Gesuino, mentre tu stai quì un momento, vado a lavare un po’ di roba al vostro pozzo, perchè lì c’è ancora il sole.

E andò anche senza il permesso di lui, che [p. 224 modifica]la seguì con uno sguardo cattivo, provocato dal pensiero che ella andasse a confabulare con Proto.

— Che vi ha detto Marga? — domandò il maestro, con la voce divenuta gracile e tremula: ma neppure questa povera voce valse a frenare lo sdegno di Gesuino. Col suo pastrano giallognolo guarnito di pelo, un berretto pure di pelo calato come una cuffia intorno al viso rosso, così corrucciato com’era, egli dava l’idea di un esquimese selvaggio.

Agitato andò su e giù per la stanza, poi si piantò a gambe larghe davanti al letto.

— Che mi ha detto sua nuora? Nulla, mi ha detto. Pare che caschi dal mondo della luna. Pare che non sappia neppure nulla dello stato di quella ragazza.

E poichè il maestro lo guardava mite e silenzioso, scattò:

— Però sa che è sfacciata, quella ragazza? Che è andata adesso a fare al pozzo? Il sole non c’è più. È lei che vuol parlare con Proto.

— E lasciate che parlino. Che male c’è?

— Niente male. La gente mormora, però: e, infine, sarebbe meglio che quella ragazza stesse ritirata in casa.

— Ma se adesso siete stato voi a farle intendere che doveva uscire.

— Poteva ritirarsi su nel soppalco, — disse [p. 225 modifica]Gesuino, guardando tragicamente in su. E il maestro sorrise, ma per poco, poichè l’altro domandò con ingenuità brutale: — dove la farà partorire?

— Gesù è nato in una stalla. Provvederà Iddio. Gesuino si fece pavonazzo in viso e fin sulla nuca: brontolò:

— Dio.... Dio.... — poi parve cambiare discorso: — sua nuora mi disse che il marito è fuori fin dalla scorsa settimana, per affari, ecco perchè non si è lasciato vedere.

— Non importa. E ditemi, Gesuino, è lei che vi ha consigliato di far allontanare Ornella?

— Ma se le dico che quella non sa o finge di non sapere niente? Eppure tutti lo sanno, — aggiunse con impazienza; e ancora colpito dal pensiero di un possibile colloquio fra Proto e Ornella, andò a guardare fuori della porta.

— E lasciate correre, — insistè il maestro: — tanto un giorno o l’altro si sposeranno: che ne dite voi? Acconsentite?

— Faccia Dio quello che vuole, — disse il contadino, tornando indietro rassegnato.

Allora il maestro espresse il pensiero già appena accennato da Gesuino.

— Dio, Dio, sì, va bene, ma noi carichiamo su Dio tutte le responsabilità che possono darci fastidio. [p. 226 modifica]

— È proprio vero. È proprio così.

— E insomma, uno di voi deve sposare Ornella. Sarà Proto? Sarete voi?

— La carne di cervo non mi è mai piaciuta, — disse Gesuino con una smorfia di disgusto; e parve pentito di aver parlato già troppo, e deciso a non proseguire: ma dopo che andò a sedersi accanto al fuoco e si chinò per rattizzarlo, sentì il bisogno prepotente di dichiarare un suo proposito: — se mio fratello commette quella corbelleria, le assicuro però che quella ragazza filerà dritto. Ci penserò io, porco mondo cane!

L’arrivo di Marga e di Ola impedì al maestro di fare le sue considerazioni. Del resto tutti i mali del mondo venivano dimenticati quando la presenza di Ola illuminava l’aria intorno: e realmente la sua vestina di lana rossa irradiava un senso di luce e di calore.

Le sue manine, invece, che il nonno prese entro le sue, erano fredde come state sepolte nel ghiaccio; e anche la punta del nasino, che sfiorò il viso di lui, dava l’impressione di un frutto gelato; ma dalla bocca rossa usciva un vapore tiepido come dalla terra nelle albe di primavera, e i suoi occhi ricordavano il sole nascente.

— Non ti bacio per non attaccarti la malattia, — disse il nonno, respingendola suo [p. 227 modifica]malgrado, — va a sederti e scaldarti accanto al camino.

Ola però guardava con diffidenza l’omaccio giallastro e peloso piegato ancora a soffiare sul fuoco.

— Non è l’orco, no, Ola, va.

— Chi è, allora? — disse lei con la sua candida insolenza. E bastò questo perchè il nonno, dopo tanto tempo, ridesse: le rughe che il dolore e il male gli avevano scavato sul viso brillarono come i solchi dopo la pioggia al ritornare del sole.

Marga guardava ora l’uno ora l’altro, senza curiosità, placida e fredda: il vestito d’inverno, di velluto nero, guarnito di una goffa trina dorata, le dava un’aria di antica dama; e anche il suo viso liscio, insolitamente arrossato dal freddo, e intorno al quale ella s’era sciolta la sciarpa di lana bianca, pareva laccato e dipinto.

— Perchè non ha mandato a chiamare subito? — rimproverò con dolcezza. — Antonio è via dalla settimana scorsa, perchè vorrebbe tentare la spedizione diretta del pesce ai grossisti di provincia: anch’io sono stata poco bene e nessuno mi ha dato notizie di lei.

— Non importa — egli disse sollevandosi un poco per veder meglio Ola. — Adesso la barca è salva e tutto va meglio. Cosa hai portato in [p. 228 modifica]quel pacco? Ricordati, Marga, che io non ho bisogno di nulla.

— È stata Ola. È vero che sei stata tu, Ola, a voler portare qualche cosa al nonno? Volgiti un po’ in qua e sta ferma, disperazione mia.

Ola tentava di salire sul soppalco, e poichè non glielo permisero domandò dov’era Ornella, e sentito ch’era dai contadini a lavare i panni chiese di poter andare a raggiungerla; allora Gesuino si sollevò, proponendo di accompagnarla lui.

— Oh Gesuino! — esclamò il maestro minacciandolo con la mano. — Devi sapere, Marga, il nostro Gesuino è innamorato di Ornella.

Marga non rise, non parlò, ma dal modo con cui ella si volse a guardare il contadino, come lo vedesse per la prima volta e in circostanze straordinarie, il maestro capì che col suo scherzo aveva destato in lei una speranza profonda.

Gesuino non lo smentì: rimase però lì fermo impalato davanti al camino, deciso a non tradire più la sua smania interna. [p. 229 modifica]

La sera stessa il portalettere, che si vedeva di rado in quei paraggi, portò dai contadini, che lo fecero passare dal maestro, una lettera raccomandata per Ornella. La prese lei e la guardò bene da tutte le parti; con un gesto quasi rapace ne sbranò la busta, aprì il foglio per vedere la firma e lesse rapidamente qua e là ciò che v’era scritto; poi rilesse, lentamente, troppo lentamente, quasi non riuscisse a decifrare le parole, fermandosi di tanto in tanto come uno che studia la via da percorrere; infine disse:

— È quell’imbecille di mio cugino che fa il soldato e scrive a me perchè dice che da casa sua son due mesi che non gli scrivono più.

Lasciò la lettera sulla tavola, come non le premesse; e il maestro non domandò di leggerla e non fece osservazioni; non credette però ad una sola parola di lei. Chi le scriveva? Forse Antonio, sotto un altro nome.

Anche lei non parlò oltre; ma ogni suo movimento rivelava la sua nascosta agitazione. Anzitutto si guardò nello specchietto che [p. 230 modifica]serviva al maestro per farsi la barba, e si lisciò i capelli con tutte e due le mani: poi cominciò ad aggirarsi per la stanza, senza scopo, spostando e rimettendo a posto oggetti che non toccava mai, fermandosi ogni tanto davanti alla finestra, stordita come la mosca che s’illude di poter volare attraverso i vetri; infine salì sul soppalco, ridiscese subito, e il suo primo sguardo fu per la lettera.

— Bisogna che domani vada ad avvertire in casa di lui, — disse, ripiegandola e riponendola nella sua tasca profonda: e aggrottò le ciglia fingendo di essere annoiata.

Più tardi, quando fu andata a chiudere il cancello, tornò con un viso ridente e beffardo e con gli occhi scintillanti di cattiva malizia.

— Quei due mammalucchi litigano, e come! Non li ho mai sentiti così arrabbiati. C’è Gesuino che sembra un toro.

— Perchè litigano?

— Non lo so: sente? Arriva la voce fin qui. Questa sera si ammazzano.

E poichè sapeva che la causa era lei, rise, piegandosi un po’ sul fianco come dovesse stroncarsi per la sua perversa ilarità.

Dal lettuccio ove l’ombra indorata dal fuoco già stendeva il suo velo, il maestro la osservava e indovinava tutto. I due fratelli si azzuffavano per un lontano possesso di lei, e lei rideva [p. 231 modifica]perchè non avrebbe mai appartenuto a nessuno dei due. La lettera che teneva in tasca, e sulla quale appoggiava la mano, doveva assicurarle un avvenire diverso e migliore: ma chi glielo offriva? Il mistero pungeva il maestro: egli taceva però e si nascondeva, per arrivare a scoprirlo.

Ella rimase alzata fino a tarda ora; pareva tranquilla, adesso, seduta accanto alla tavola a lavorare. Faceva un paio di calze di lana per lui; e l’idea era stata sua, perchè di tanto in tanto si dimostrava veramente premurosa, e queste calze le lavorava con una certa passione, misurandole una sull’altra perchè venissero uguali e precise. Quella sera invece andava avanti meccanicamente, senza altra premura che di finirle.

— Ornella, — egli disse a un tratto, seguendo un suo pensiero, — dovresti piuttosto pensare a fare il corredo alla creatura.

— Ci pensavo, — rispose lei senza sollevare la testa: domani quando vado a portare la lettera di mio cugino comprerò un po’ di tela in piazza.

Ci pensava: pensava ad uscire, per andare dove? Ella non aveva mai parlato di questo suo cugino nè dei suoi parenti.

E quando fu nel soppalco non spense subito il lume come di solito faceva; allora il maestro, ch’ella credeva assopito, riaccese il suo, e si [p. 232 modifica]accorse che dalla tavola mancavano il calamaio e la penna.

La mattina dopo, quando Proto venne a domandare notizie, egli mandò Ornella a fare la spesa e pregò il contadino di fermarsi un momento con lui. L’uomo non domandava di meglio: era accigliato e con gli occhi gonfi, come uno che ha passato una brutta notte, e desiderava sfogarsi.

— Ha sentito ieri sera, che baccano? Io comincio a credere che Gesuino mio fratello sia posseduto dal demonio: lo dico sul serio. Io non sono superstizioso, ma ricordo le storielle che raccontava mia moglie. Lei diceva che le anime dannate girano per il mondo ed entrano nel corpo degli uomini semplici. E così credo che Gesuino sia posseduto dall’anima del padre ucciso qui dai figli.

— Va bene: ma e voi che gli rispondete? Siete invasato anche voi?

— È vero, — disse Proto; — è proprio vero.

— Questo di buono avete, tutti e due fratelli; mi date sempre ragione, salvo poi a farvi continuamente del male. Perchè ieri sera avete litigato?

— Chi lo sa? Gesuino è tornato di qui con un umore feroce: ha cominciato col bastonare il cane, ed io naturalmente ho protestato. Di lì la questione. [p. 233 modifica]

— Sentite, Proto, — disse dopo un momento di silenzio il maestro; — io ho ancora bisogno di voi. Ornella ha ricevuto ieri sera una lettera raccomandata e ieri notte ha risposto. Io avrei bisogno di sapere di chi è la lettera.

— Io l’ho veduta: viene da Genova, e la scrittura è di persona istruita. E lei perchè non gliel’ha chiesta?

— Non voglio premere su lei: è peggio.

— Ma la lasci andare, che vada all’inferno donde è venuta.

— C’è di mezzo la creatura: bisogna salvare la creatura.

— Ma vada al diavolo anche la creatura, — rinforzò Proto, battendo un pugno sulla tavola. — Lei è troppo all’antica: vedrà che cosa le capiterà un giorno, vedrà.

Il maestro non aveva paura di nulla: neppure della filza di bestemmie e di vituperi che il contadino brontolava contro Ornella, contro Gesuino, contro Dio e gli uomini tutti: seguiva piuttosto un suo pensiero nuovo: la lettera viene da Genova, e la scrittura è di persona civile? Che sia di Adelmo Bianchi? Tutto c’è da aspettarsi da quella testa piena di vento.

Ricostruì la scena di quella prima sera della sua malattia: rivide il parricida che guardava Ornella coi suoi occhi allucinati, e non dubitò oltre. [p. 234 modifica]

— Proto, — disse sottovoce, — è necessario sorvegliare la ragazza. Io desidero sapere dove va, e cosa fa, questa mattina.

Il contadino è vinto a sua volta da un senso di curiosità, e il suo stesso rancore lo spinge a spiare Ornella e possibilmente a vendicarsi di lei.

— Non dubiti: a mezzogiorno le saprò dire ogni cosa. Allora vado.

A mezzogiorno il maestro sapeva già che Ornella era stata realmente in casa di certi parenti: poi aveva comprato un po’ di tela da un mercante della piazza, e infine era entrata nell’ufficio della posta.

Quel giorno stesso ricominciò il cattivo tempo. Come un esercito che dopo un breve riposo si scaglia con rinnovato vigore contro il nemico, la pioggia il vento il freddo e anche la neve infierirono intorno alla casa maledetta.

Tuttavia il maestro si alzò: le calze fatte da Ornella, uno scialle che Marga gli aveva regalato a nome di Ola, e un suo vecchio berretto di lana, gli furono di molto giovamento per [p. 235 modifica]completare la sua toeletta invernale. Così camuffato si guardò nello specchietto e gli parve di essere l’inverno in persona: eppure dentro si sentiva tutto rinnovato, con propositi fermi per l’avvenire.

Sedette accanto al fuoco e lesse i giornali arretrati: ma non perdeva mai d’occhio Ornella, aspettando il momento opportuno per tentare di salvarla dal nuovo pericolo al quale ella andava ciecamente incontro.

Ornella non si avvicinava mai al fuoco: quando aveva finito le sue faccende sedeva accanto alla tavola e cuciva il corredino per la sua creatura: egli ne sentiva il respiro pesante, e ancora non era convinto ch’ella tramasse in silenzio qualche cosa di oscuro.

A momenti si domandava se non era meglio, come Proto consigliava, abbandonarla a sè stessa e al suo istinto che dopo tutto, in un animale egoista quale era lei, non poteva che giovarle. Dopo tutto nessun vincolo di sangue li legava, e se egli l’aveva tenuta con sè per paura che si rinnovasse l’antico dramma, e per espiazione [p. 236 modifica]di questo, se lei adesso aveva un mezzo di salvarsi e vivere meglio in un altro posto, non c’era ragione di trattenerla.

Ma no, non è questo. In fondo egli sente che la ragione è un’altra, che il vincolo c’è, più forte di quello del sangue, che egli vuole avere la creatura di lei perchè è una derivazione della creatura che egli ha generato e ucciso, e quindi il proseguimento della sua vita stessa. E la vuole per infonderle la vera vita, che è quella del bene, mentre se Ornella se la porta via non le darà che insegnamenti di male.

Stabilito questo punto, egli è deciso a lottare, per avere lui stesso una ragione di vivere, e la forza di salvare dentro di sè la fiamma del bene.

Allora ricominciò a tentare di sedurre moralmente Ornella col descriverle la vita semplice e pittoresca del paesetto lontano: quadro antico, povero e scrostato, che egli restaurava coi colori e la vernice della sua fantasia.

— Di questi tempi anche da noi c’è freddo e neve: ma è altra cosa. Il freddo è asciutto, la neve s’indurisce e scintilla come l’alabastro: tutto è puro e vivo. E dentro quella mia casetta che spero di ricuperare presto, si vive magnificamente. C’è la cucina con un camino che ci si può riparare sotto in dieci; la saletta da pranzo guarda sulla vallata, mentre le camere di sopra hanno le finestre verso la montagna; [p. 237 modifica]nelle belle giornate si vedono i cacciatori coraggiosi salire i sentieri fra le roccie: sono vestiti di pelli e sembrano i padroni della foresta. Appartengono alle più ricche famiglie del paese, e gareggiano in sveltezza e ardire. Ce n’è uno, mio discepolo, che neppure tocca la bestia che colpisce; la fa ritirare da un battitore suo servo e, se la carne è buona, come per esempio quella del daino o del cinghiale, la manda in regalo agli amici, come fa il re. Spesso, alla sera, egli veniva a trovarmi, e allora erano racconti meravigliosi, di bestie che egli aveva sentito parlare, di uccelli che rubano e nascondono gioielli e monete d’oro, di lupi che un tempo erano uomini. Una volta....

Egli si provava a ripetere i racconti straordinari del giovine cacciatore, suggestionandosi col suono delle sue parole e mescolando gli scarsi ricordi della realtà alle vicende di caccia lette nei libri di avventure. Era l’unico modo di prendere l’anima barbarica della donna, ed egli aveva cura di fermarsi a tempo, sul punto culminante, e lasciarla colpita e sospesa, per riprendere poi con maggior sicurezza: così fa la tartaruga, quando prende, pungendolo con cautela, il ragno velenoso.

Qualche volta, alla sera, venivano i contadini, e Gesuino portava le castagne appena arrostite, entro un fazzoletto che scottava. [p. 238 modifica]

— Senti, senti, — diceva accostandolo al collo di Ornella; ma lei si piegava e sfuggiva sdegnosa. Dopo che aveva ricevuto la lettera raccomandata non permetteva che i contadini scherzassero con lei: senza parlare metteva le castagne in un piatto, versava il vino come il maestro ordinava, poi riprendeva il suo posto accanto alla tavola e cuciva, cuciva, fermandosi solo per infilare l’ago contro luce o per disfare, aiutandosi coi denti, i nodi che il filo dispettoso formava per conto suo.

Quando c’erano quei due il maestro non riprendeva i suoi racconti: sentiva che era fatica sprecata perchè lei non stava attenta, ripresa anzi dalla potenza opposta che le parlava dentro: lo stesso suo modo di trattare i contadini, indifferente e sprezzante di contatto, rivelava il suo isolamento. E anch’essi parevano intenti solo ai loro discorsi; egli però osservava che Gesuino ogni tanto guardava Ornella con la coda dell’occhio, come pronto a gettarle un laccio se lei tentava di fuggire.

— Va a finire che se la sposa lui, — pensava il maestro; e il pensiero che la vicenda andasse a finire così lo divertiva: ma il fondo della sua anima rimaneva triste, perchè triste, qualunque cosa accadesse, era la vicenda stessa. [p. 239 modifica]

Ora una di quelle sere, mentre Gesuino si piegava a buttare sul fuoco le scorze nere delle castagne, e Proto beveva a lenti sorsi beati il secondo bicchiere di vino, si sentì picchiare alla porta.

Ornella tremò tutta, come svegliandosi spaventata di soprassalto, ma non si alzò per aprire. Si alzò Gesuino; andò verso la porta con un cipiglio come se là dietro ci fosse il lupo, e aprì senza domandare chi c’era.

Come sospinta dal soffio del vento entrò una figura alta incappucciata, con un cappotto impermeabile nero luccicante d’acqua. Sulle prime il maestro credette fosse il dottore, poi subito s’accorse che era Antonio.

— La mia visita non l’aspettavate, — questi disse, fra l’allegro e il tragico, ma sempre con accento studiato. — E voi scusate, signori contadini, se sono passato per il vostro cancello che era semplicemente aperto.

— È vero, è proprio vero, — ammise Proto; — ma il nostro cancello è sempre aperto.

Gesuino aprì la bocca per parlare; ma non [p. 240 modifica]ne fece niente: e rimesso dalla prima sorpresa guatò alle spalle Antonio, che si levava con disinvoltura il cappotto; poi guardò Ornella che si era fatta rossa fin sulle unghie, infine riprese il suo posto.

Seguì un momento di silenzio.

Fuori il vento attraversava e rompeva la rete della pioggia, sbattendola con un rumore metallico sui muri della casa; e il maestro aveva l’impressione che l’acqua penetrasse fino alla stanza.

Antonio cercò con gli occhi dove mettere il cappotto: non trovando altro lo buttò sulla scaletta del soppalco: e nella penombra l’indumento parve un fantasma caduto.

Proto intanto aveva finito di bere il suo vino: si alzò per deporre il bicchiere sulla tavola e diede anche lui un rapido sguardo ad Ornella. La vide così raccolta e lontana nel suo smarrimento che disse a sè stesso:

— Ohè, compare, qui tu e tuo fratello Gesuino siete di troppo. Filate via.

Si riavvicinò al camino e premette un dito sulla spalla del fratello.

— Andiamo, Gesuino; è tardi.

E poichè nessuno li tratteneva, dopo aver salutato tutti con un certo imbarazzo, i due fratelli se ne andarono.

Come durante la visita del parricida, il maestro aveva l’impresione di sognare: eppure [p. 241 modifica]sentiva che Antonio portava un soffio di realtà crudele: i sogni oramai dovevano cadere come quel fantasma di tela nera sulla scaletta del soppalco.

— Marga e Ola vi salutano, — disse Antonio, prendendo il posto di Gesuino: e allungò le gambe strette da lunghi gambali di cuoio.

Quei nomi e quel saluto raddolcirono il cuore del maestro: il suo sguardo si schiarì; il suo spirito si sollevò, dominò ancora gli eventi.

Allora si accorse che Antonio era fisicamente mutato, come uno che ha sofferto una malattia od è stato a lungo in paese straniero: il suo viso s’era indurito, aveva preso, pur conservando i suoi lineamenti classici, un’altra espressione, come quello di una statua che lo scultore scontento ha ritoccato; i capelli, prima divisi da una scriminatura femminea, adesso erano dritti, compatti, rasi sulla nuca vigorosa; e anche gli occhi sebbene fissi sul fuoco, non luccicavano più, fermi sotto le sopracciglia che si aggrottavano e si spianavano come seguendo il movimento ora alto ora basso delle fiamme.

La sua voce, andati via i contadini, nell’annunziare i saluti di Marga e di Ola, s’era pure essa smascherata del solito accento teatrale, e quando egli, dopo essersi adagiato bene davanti al camino, con le braccia conserte, disse ruvidamente:

— Sono venuto per definire questa faccenda [p. 242 modifica]di Ornella, — ogni parola parve cadere a piombo e spaccarsi a terra come certi frutti duri quando la scorza è matura.

Nessuno dei due rispose: anzi Ornella piegò meglio la testa, e si sentì non più una persona ma una cosa nelle mani di lui.

Egli riprese:

— Siamo divenuti la favola del paese; tutti, a cominciare da mia moglie, sanno la verità e fingono d’ignorarla, non per rispetto ma per paura di me, dei miei pugni eh, s’intende; ma tutti ne ridono; ridono perchè sono invidiosi, s’intende anche questo, e s’io fossi un poveraccio o se mia moglie mi tormentasse non si occuperebbero di me e dei fatti miei. Le cose fortunatamente non vanno così, cioè io sono quello che sono e mia moglie è una donna prudente: ma so che soffre anche lei, che anche lei ha diritto al rispetto, non alla compassione finta e alla derisione nascosta del prossimo, e voglio che lo scandalo cessi.

— Te ne sei accorto solo adesso, di tutte queste cose? — domandò il maestro.

— Sissignore! Se me ne fossi accorto prima avrei riparato prima.

— Era meglio evitare, non riparare.

— Non si nasce coi denti. Anzi, dicono, la saggezza si acquista col cadere dei denti, quello definitivo s’intende. [p. 243 modifica]

— Sentiamo allora cosa avresti intenzione di fare.

— Una cosa semplicissima: portare Ornella in una casa per gestanti, lontana di qui, e dove ho già impegnato un posto, e aspettare che nasca la creatura.

— E poi?

— E poi provvedere a loro: chi ha rotto paga.

— E così avrai due famiglie.

— E se occorre avrò due famiglie e lavorerò per tutte e due: non sarò il primo nè l’ultimo.

— Tua moglie sa di questa tua decisione?

— La saprà, forse, perchè indovina maledettamente anche le mie più nascoste intenzioni, ma come al solito tace e lascia fare a me, sicura in fondo che io non sono quel grande mascalzone che mi si crede. Solo mi ha parlato di lei, pregandomi di far di tutto perchè ritorni in famiglia; ed io ho promesso e spero di mantenere la promessa.

Il maestro non rispose subito: parve cercare ancora una volta la risoluzione migliore dell’avventura e ancora una volta non ne trovò che una.

— Io ritornerò al mio paese, dove sono già in trattative per il ricupero della casa. Ornella verrà con me e, se occorrerà, darò il mio nome a lei e alla creatura.

Antonio cominciò a ridere, ma subito si [p. 244 modifica] strinse e torse un po’ le mani come per stroncare la sua cattiva allegria, e si rifece triste.

— Questi sono romanzi bell’e buoni, che da queste parti non usano.

— Usano ancora dalle nostre, — insistè il maestro riprendendo forza.

— Non usano più neppure là: oramai la gente è pratica e ride di quei poveri cristiani che perdono il tempo a scavare buche nell’acqua.

— Lascia stare, che ridano, e spiegami quali sarebbero queste buche nell’acqua.

— Sarebbero che non passeranno due mesi che Ornella o le scapperebbe di casa o le farebbe le corna col compare.

Questa volta fu lei a frenare un sogghigno: il dibattito fra i due uomini la rianimava. Sollevò la testa, e ricominciò a cucire, pensando al modo di aiutare il maestro a farle sfuggire la tirannia di Antonio. A suo tempo, poi, avrebbe provveduto lei ai suoi casi: ma i suoi progetti erano così tenebrosi e nascosti che di nuovo si sentì fatta prigioniera come una colpevole quando li vide scovati dal suo amante.

Il maestro diceva:

— Lasciamo da parte l’avvenire, e discutiamo del presente. Discutiamo anzitutto il tuo cambiamento. Come va che dopo aver cacciato Ornella a pedate, adesso ne vuoi fare quasi una seconda moglie? [p. 245 modifica]

Antonio si piegò alquanto, parlò con voce bassa e grave, quasi desiderando che Ornella non sentisse.

— E lei non ha mai cambiato di pensiero? Non s’è mai pentito del male fatto? Ho sofferto anch’io, in questi mesi. E lei rinnegherebbe i principi che mi ha insegnato da ragazzo, se credesse davvero ch’io sono un insensibile malfattore. Ieri ho compiuto trent’anni, — disse, sollevandosi di scatto. — È tempo di metter giudizio. E di sentire anche la propria dignità. A volte l’amor proprio e l’orgoglio fanno uomini di coscienza anche i briganti. E poichè parliamo di briganti devo dirle che c’è di mezzo, in tutta questa storia, anche un brutto ceffo. Lei una notte ha ricevuto qui Adelmo Bianchi il parricida.

Istintivamente allora il maestro si volse a guardare Ornella; la vide di scorcio, con la testa di nuovo piegata fin quasi a toccare la tela, con l’attitudine ch’ella usava quando voleva nascondere i suoi pensieri; e intese tutto.

Senza più rivolgersi verso il fuoco rispose con voce mutata, forte e recisa.

— Sì, il Bianchi è stato qui una notte, prima della mia malattia: perchè?

— Mi dica prima lei che cosa era venuto a fare.

— Ma, che so io? Per salutare la sua casa, diceva lui, prima di partire per l’estero. [p. 246 modifica]

— Lo lasci dire! Quello è uno sfacciato che non apre bocca se non per dire bugie. Del resto è uno sciagurato: basta sapere quello che ha fatto. Ebbene, di qui è realmente partito la notte stessa; è andato a Genova senza un soldo in tasca, perchè gli riesce sempre di sgattaiolare e scamparsela come la volpe; a Genova trova da lavorare nel porto e impara a fare il cuoco perchè conta d’occuparsi come tale in un piroscafo mercantile che va nell’America del Sud. Ha il passaporto falso, ma per imbarcarsi aspetta che la signorina Ornella col suo fagotto lo raggiunga.

Come in principio del colloquio nessuno degli altri due parlò. Il maestro guardava sempre Ornella: la vide sollevare la testa con una certa fierezza, ripiegandola tosto sotto lo sguardo di lui.

Senza scomporsi Antonio riprese:

— Le ha scritto una lettera raccomandata che lei forse ha veduto: le proponeva appunto di raggiungerlo al più presto, procurandosi naturalmente prima il passaporto; e chi sà quante cose le ha dato ad intendere. Lei ha risposto accettando, e aspetta di aver pronte le carte per partire, lei col suo fagotto.

Lei col suo fagotto! Queste parole facevano male al maestro, come fossero pugni; un male umiliante e vile: e non seppe per quale [p. 247 modifica]profondo istinto di vendetta volle anche lui offendere Antonio.

— Adesso capisco il movente dei tuoi passi: altro che dignità: è gelosia.

E forse lo era, perchè Antonio non si scompose: solo osservò:

— Ah, non è dignità! E se un giorno il parricida viene preso, e probabilmente la sua compagna con lui, e nel dibattimento, che ancora è stato rinviato, appunto perchè si ricerca sempre il Bianchi e si spera di acciuffarlo, e il nostro nome e tutta questa ridicola storia nostra vengono accennati, le pare una cosa bella?

— Scusami, — disse il maestro; — ma come hai saputo tu la faccenda?

— Questo non importa: le cose si sanno.

— Ma sei certo poi che sia vero?

Allora Antonio si volse anche lui con la sedia come fosse su una sedia girevole, e additò Ornella con un gesto sdegnoso.

— Lo domandi a lei se è vero o no.

Così parve cominciare il dibattimento di Ornella.

— Ornella, disse il maestro, — tu, è vero, hai ricevuto una lettera raccomandata, ma dicevi che era di un tuo cugino. Che rispondi adesso alle affermazioni di Antonio?

— La lettera che ho ricevuto io era proprio di mio cugino, — rispose lei; e continuava a [p. 248 modifica]cucire fingendo una certa indifferenza. — Può andare a chiederlo ai miei parenti.

— Ma che cugino! Ma che cugino! — gridò allora Antonio perdendo la pazienza. — Tu puoi infinocchiare questo santone qui, non me. Tu non hai cugini, e quei tuoi parenti appunto ti tengono bordone in questo brutto affare. Ed è appunto quella ruffiana della tua zia che s’incarica di farti preparare le carte.

— Le carte, — ella disse tranquilla, — mi servivano appunto per andar via di qui col signor maestro.

Antonio bestemmiò, fra lo sdegnato e l’allegro, poi disse:

— Ch’eri sfacciata lo sapevo, ma non a questo punto. E dimmi una cosa: tu la mattina di sabato scorso sei stata alla posta ed hai ritirato una seconda lettera alla quale hai risposto lunedì con raccomandata espresso. Era corrispondenza con tuo cugino ancora questa?

Ornella non rispose. Intervenne ancora il maestro.

— Ornella, noi non vogliamo farti del male. Anzi vedi che stiamo qui a contenderti come Elena Troiana. Tu dovresti dire la verità almeno per riconoscenza. Del resto se tu hai intenzione di partire nessuno....

— Questo poi no, — interruppe Antonio, già alquanto annoiato. — La mia intenzione l’ho [p. 249 modifica]detta e non la cambio. Solo devo dire e ripetere un’altra cosa: se dopo la nascita della creatura vorrai impiccarti o, il che è peggio, andartene con quell’imbecille, padrona: di mio figlio però me ne incarico io.

— Ornella, pensaci bene.

— Dove hai le lettere del Bianchi?

— Oh, quanto la fate lunga, — esclamò lei con subito coraggio; e lasciato andare per terra il pannolino che orlava, trasse dalla sua tasca profonda due lettere ripiegate assieme, e fece atto di buttare anche queste; poi le depose sulla tavola.

— Dammi quelle lettere, — comandò Antonio con la sua voce prepotente di padrone, e quando le ebbe in mano guardò le buste: la prima era indirizzata alla villa Bianchi, la seconda ferma in posta. Dunque era stato bene informato.

— Leggi in alto, — comandò a sua volta il maestro.

Allora nella malinconica stanza dove si svolgeva quel dramma in apparenza volgare e senza colore, soffiò ancora, per opera del delinquente, del parricida, dell’«ultimo degli uomini», l’alito della poesia e degli spazi ariosi dove solo la fantasia può arrivare.

«Ornella, perdonami se mi permetto di chiamarti a nome e darti del tu: ma dalla sera che ti rividi nella mia triste casa maledetta, io parlo [p. 250 modifica]sempre con te, e tu mi segui nel mio viaggio fortunoso; e di giorno parliamo e la notte dormiamo assieme avvolti dalla stessa nuvola di sogni.

«Ornella, il mio destino è forse come quello dell’Ebreo Errante, che sempre deve ricominciare il giro del mondo e il mondo non è per lui che un piccolo giardino dove a lungo andare si sente imprigionato e altro conforto altra disperazione non gli resta che guardare gli astri o chiedere al sole di discioglierlo con la sua luce. Ma anche questo gli è negato, ed egli deve vivere in eterno, in eterno soffrire: egli ha voluto andare contro l’amore di Dio, uomo si è messo contro le leggi che regolano la vita dell’uomo, e il suo castigo è di essere a sua volta posto fuori delle leggi umane. Non gli è concessa la morte, non gli è più concessa la vita: così sono io....»

Qui Antonio, che suo malgrado si lasciava trascinare dal suono stesso della sua voce, domandò fra l’ironico e il curioso:

— Ma cosa diavolo ha fatto quest’individuo?

— Quando Cristo sulla via del Calvario cadde sotto il peso della croce, uno degli astanti disse: «Eh, su, cammina, cammina». Allora Gesù sollevandosi disse: «E tu camminerai in eterno» — spiegò serio il maestro. — Questo è Aasvero, l’Ebreo Errante. [p. 251 modifica]

Antonio riprese a leggere:

«Così sono io, se tu, Ornella, mi neghi la tua assistenza. Se tu verrai con me, madre sposa sorella, io invece rinascerò alla vita, sarò come la creatura innocente che deve nascere da te, ed entrambi, io e la tua creatura, che sarà pure la mia, vivremo di te e del tuo amore.

«Ti giuro, Ornella, che non deporrò neppure un bacio sulla punta delle tue dita, finchè tu dovrai compiere il tuo sacro dovere di madre: e ti circonderò delle mie cure; mi stenderò ai tuoi piedi come un cane fedele e tu potrai dormire tranquilla anche se intorno romberà la tempesta o se la nostra casa sarà circondata di leoni.

— Boumh! — gridò Antonio; ma non rideva e i suoi occhi non si staccavano dalla lettera.

«È stata un’inspirazione di Dio a farmi quella sera tornare nella mia triste casa: avevo l’idea che il fuoco vi fosse ancora acceso e gli spiriti placati dei miei genitori mi aspettassero per perdonarmi e benedirmi. E volevo portare via con me qualche ricordo, l’ocarina che con la sua flebile melodia ha accompagnato i miei primi sogni d’amore, e l’anello di sposa della mamma. E il fuoco, , l’ho ritrovato acceso, nei tuoi occhi d’oro, Ornella, e la musica e l’anello nuziale li ho portati via dentro il mio cuore fanciullo, col mio amore per te, Ornella. [p. 252 modifica]Ornella! Quando pronunzio questo nome sento ancora lo stormire degli ontani intorno alla vigna soleggiata, nei meriggi di estate, quando i grappoli cominciano ad arrossare e l’usignuolo becca il fico maturo per far più dolce il suo canto. Andremo lontano, Ornella, ma se tu mi amerai, dappertutto, anche nei deserti o nelle città fangose, ritroveremo la vigna d’estate, e l’usignolo ci canterà nel cuore.»

Il maestro ascoltava attento, teso anzi come una corda pronta a vibrare. Al posto di Antonio, rubicondo e gonfio di ilarità tra finta e sincera, rivedeva il parricida stremenzito e triste, e pensava all’effetto che dovevano fare sulla donna le parole dell’uno in bocca all’altro: guardandola di traverso la vedeva però china di nuovo a cucire, con solo una lieve piega di disgusto intorno alla bocca sdegnosa: e accorgendosi di essere osservata ella parve ritirare anche quell’espressione superficiale e richiudersi nel suo guscio di indifferenza completa.

La seconda lettera parlava di cose pratiche, confermando le notizie riferite da Antonio. Il [p. 253 modifica][]parricida lavorava nei porto di Genova, ed era in trattative per entrare come cuoco di bordo in un grande trasatlantico. Aspettava Ornella che, pure trovandosi nello stato in cui era, pareva avesse promesso di raggiungerlo al più presto.

— E benissimo! — esclamò Antonio, ripiegando assieme le due lettere e cacciandosele nella tasca dei calzoni. Poi stette un momento pensieroso e si accigliò. Anche di fuori s’era fatto silenzio, e nel silenzio improvviso della stanza pareva che la notte grigia si affacciasse ai vetri della finestra per prendere parte al dramma.

Poichè la vicenda prese colore di dramma quando Antonio riscuotendosi tutto come un guerriero che s’è contro suo volere addormentato nell’ora in cui deve partire, disse reciso:

— E adesso, Ornella, prendi la tua roba e andiamo. Domani mattina presto, — aggiunse rivolgendosi al maestro, — Marga le manderà la serva, per tutto quello che le occorre.

Ornella non sollevò la testa, ma cessò di cucire, con l’ago ancora ficcato nella tela; e il suo [p. 254 modifica]atteggiamento ricordò al maestro quello della tartaruga quando si ferma nel sentirsi inseguita, pronta a ritirarsi tutta nel suo guscio.

Egli a sua volta taceva: sentiva che si era arrivati a un bivio, nella notte oscura, quando solo l’istinto può salvare l’uomo: e aspettò che parlasse Ornella, che era la più istintiva dei tre. Ella trasse l’ago dalla tela e ve lo ricacciò con rabbia, poi sollevò fieramente la testa.

— Io non vengo.

Ma Antonio non perdette la calma: si rivolse di nuovo al maestro.

— La persuada lei: credo che farà il suo dovere.

— Nessuno meglio di me sa che cosa è il mio dovere. Ornella deve stare qui, e la persuaderò io a fare a sua volta il suo dovere.

— Lei è un illuso e sarà sempre un illuso, scusi se glielo dico francamente. Non passeranno tre giorni che Ornella scapperà. Ed io non permetto, perdio no, che mio figlio nasca in una strada e giri per il mondo coi farabutti e gli zingari.

— Se ha da scappare, allora, scapperà anche dalla casa dove tu la porti.

— No davvero! So con chi ho da fare: e del resto, ripeto, appena nata la creatura lei sarà libera di sè. Hai capito? — gridò verso di lei: — muoviti dunque. [p. 255 modifica]

Ella non si moveva: e i suoi occhi adesso fissavano il maestro come se il suo destino dipendesse da lui e non dall’altro. Ma anche lui si trovava di nuovo in un cerchio di nebbia, e nell’accento di Antonio sentiva tale risolutezza irriducibile, che non sapeva che fare. Si rivolse ancora all’istinto di Ornella, e rispondendo a quanto lo sguardo di lei implorava disse pacato:

— Ornella, devi esser libera tu a deciderti. Fra te e Antonio io non posso più intromettermi; c’è fra voi due la vostra creatura e tutto si ha da fare per la sua salvezza.

— Voglio stare qui almeno qualche giorno: non voglio essere forzata, — disse lei, ma Antonio non la lasciò proseguire.

— Ed io invece voglio forzarti a seguirmi subito. Ti conosco, sai; e tutto deve decidersi immediatamente.

— E se io non voglio venire? Se io grido?

— Non farmi perdere la pazienza, Ornella: tu conosci il sapore dei miei pugni.

Così dicendo Antonio andò verso di lei, quasi per farle vedere meglio l’altezza della sua statura e ricordarle la sua forza: o anche per ridestare in lei il fascino carnale della sua persona, che solo poteva convincerla a seguirlo.

Ornella non si mosse, non mutò aspetto, ferma e fredda, con l’ago in mano, sola sua arma. [p. 256 modifica]

Allora egli perdette davvero la pazienza: afferrò l’omero di lei come un sasso che volesse scagliare lontano e la squassò tutta: la tela le scivolò di grembo e nel silenzio tragico si udì una forcina cadutale dai capelli tintinnire sul pavimento.

Il maestro si alzò, appoggiandosi con la mano alla sedia come quando si disponeva a richiamare all’ordine gli alunni indisciplinati della sua scuola; ma la compostezza e la rigidezza volute gli scapparono da tutte le parti col tremito nervoso che cominciò ad agitarlo quando vide che Ornella resisteva alla violenza di Antonio e questi le sferrava un pugno in mezzo alle spalle.

Allora si avanzò, fino a loro, e prese l’uomo per il braccio. Antonio si volse di scatto, con sorpresa, come si fosse completamente dimenticato di lui, e arrossì di rabbia.

— Lei si levi di mezzo, — disse respingendolo non senza energia. — Abbastanza s’è ficcato nei fatti nostri. Alzati, — ripetè rivolgendosi a Ornella: — alzati, o non rispondo più di me.

E poichè lei non obbediva trasse di tasca stringendola nel pugno come una chiave una piccola rivoltella. [p. 257 modifica]

Subito Ornella si alzò e con l’andatura fiacca della belva minacciata dal domatore si diresse verso la scaletta.

Il maestro tornò anche lui a sedersi presso il camino, col viso rivolto al fuoco. Non voleva più guardare Antonio: sentiva che oramai davvero tutto era finito. Il problema della sua coscienza s’era sciolto come si scioglievano i tizzi nel camino: in fuoco e cenere. E quasi gli veniva da ridere di sè stesso, pensando a tutto il suo lungo inutile patire: ma era un desiderio di riso amaro, poichè in fondo il dolore lo premeva più di prima.

Mentre su nel soppalco si sentiva Ornella muoversi cambiandosi il vestito e raccogliendo la sua roba, Antonio si rimise anche lui il cappotto e si riavvicinò al camino. Disse con voce turbata:

— Lei mi scuserà se sono stato duro. Ma è necessario. Bisogna che le dica, — aggiunse sottovoce, piegandosi sul maestro, — che è stata anche Marga a impormi questo, per liberare lei da una situazione ridicola e penosa. [p. 258 modifica]

— Di me non dovete più occuparvi, nè tu nè Marga nè altri, — rispose il maestro, fermo a fissare il fuoco. — Io non conosco più nessuno.

— Lei si placherà, e vedrà che le cose andranno a posto. Io faccio il mio dovere, e seguo, dopo tutto, la strada che lei un giorno mi ha indicato. Lo ricorda? Lei voleva che allontanassi Ornella dalla mia casa e dal paese dove vive la mia famiglia, e sistemassi la creatura che deve nascere. Voleva o no questo? E questo faccio.

Ma poichè il maestro non pareva convinto e tanto meno soddisfatto, Antonio, sollevandosi con impazienza, riprese:

— Non capisce che io sono suo figlio più di quanto lei possa credere? So tutto, di lei, del suo passato, del vincolo che ci unisce. Marga ha parlato, e siamo in tre, adesso, a combattere il male, perchè Ola sia salva da ogni residuo di castigo.

Il maestro sollevò la testa; e come il chiarore del fuoco dava un riflesso di sangue al vestito lucente di Antonio, egli ebbe ancora una volta un’allucinazione: rivide la donna morta con dentro la sua creatura.

— Ola è salva, ormai, — disse, — quello che andrà perduto, indubbiamente, sarà il figlio di Ornella. [p. 259 modifica]

Poi non parlò più, neppure quando Ornella fu giù col fagotto della sua roba e lo depose sulla tavola per completarlo. Dapprima ella vi cacciò dentro le sue ciabatte, poi il pannolino di tela che stava ancora per terra, dopo averlo scosso e ripiegato: infine si guardò attorno, calma e indifferente, cercando con gli occhi qualche cosa che poteva aver dimenticato. Fissò per un attimo il quadretto della Fuga in Egitto, ma tostò abbassò la testa: poichè nei suoi progetti di fuga per andare a raggiungere il parricida aveva pensato di portarsi via il quadretto, non sapeva neppure lei perchè; forse perchè era la unica cosa di valore che esistesse là dentro.

Le parve che il maestro indovinasse il suo pensiero, e per nasconderlo meglio si chinò a cercare la forcina cadutale dai capelli: un attimo, e quando ella si sollevò parve un’altra, col viso giallo come le sue treccie e gli occhi grandi spauriti. Alzò le braccia per tirarsi su i capelli e rimettere a posto la forcina, e come se questa le traforasse la nuca diede un muggito che parve quello del bue al colpo di mazza che deve ucciderlo.

I due uomini credettero ad una finzione: ella però si abbattè sulla sedia e piegò la fronte sul fagotto, stringendo i denti per non gridare ancora.

Un momento, e un secondo grido parve [p. 260 modifica]riempire la stanza di fragore e di terrore: era un urlo strano, che usciva dalle viscere di lei come da un luogo sotterraneo dove succedevano cose spaventevoli: e implorava aiuto, e nello stesso tempo era una maledizione.

— Ornella.... — disse Antonio, impaurito: ma lei sbattè le braccia, come le ali di un uccello perseguitato, con un gesto che allontanava e voleva a sua volta ferire.

— Vattene, vattene, — disse con voce rauca. — Malfattore, miserabile, vattene.

Vibrava un odio profondo, in quella voce sorda, un lamento più vasto di quello dei gridi di prima: l’odio antico della donna contro l’uomo che l’ha costretta a generare, che per il suo piacere ha lacerato le carni di lei e del suo grembo ha fatto il nido del dolore.

Il maestro lo intese e si alzò.

— Sono i dolori del parto, — disse con semplicità. — Bisogna andare a cercare la levatrice. Alzati, Ornella, coricati sul mio letto.

La prese per il braccio e la costrinse ad alzarsi: ella si rianimò, sorretta da lui fece alcuni passi verso il lettuccio, poi cambiò idea, gli sfuggì di mano e risalì quasi carponi la scaletta del soppalco, come l’animale che si va a nascondere per sgravarsi. [p. 261 modifica]

Nonostante i suoi propositi eroici Antonio non se la sentì, di andar lui a cercare la levatrice: anzi pensò che per la sua stessa dignità forse era opportuno battere in prudente ritirata.

A chiamare la levatrice fu dunque mandato Proto. Proto si adattava a tutto, e questa parte, anzi, gli sembrò allegra. Pensò di burlarsi della levatrice col darle ad intendere che si trattava di un fatto molto misterioso, di una signora straniera che, per nascondere un suo fallo, era venuta a partorire nel paese; e rideva fra di sè, sotto la cupola del suo ombrellone flagellata dalla pioggia, camminando nel buio della strada fangosa.

Ritornò però alquanto umiliato: la levatrice assisteva ad un altro parto, di gente ricca, e avendo capito benissimo di chi si trattava lo aveva accolto con fredda ostilità.

— Verrà quando avrà finito là.

— Sta a vedere che mi tocca di fare anche da levatrice, — disse allegramente il maestro, che aveva già sciolto il fagotto di Ornella e ne toglieva i corpettini e i pannolini preparati da [p. 262 modifica]lei. E andava ricordandosi il modo, letto in qualche libro scientifico, del come si deve assistere una partoriente.

Proto guardava attentamente: le poche robe di Ornella, le sue camicie, le sue ciabatte, le sue calze, sparse sulla tavola, gli destavano un senso quasi di pudore offeso, ma anche di angoscia, quasi fossero le vesti lasciate in riva al mare da uno che s’è voluto annegare.

— Eppure bisogna aiutarla, poveraccia, disse, — bisognerebbe darle da bere qualcosa. —

Ecco il rimedio pronto, — esclamò il maestro, burlandosi della semplicità del contadino.

D’un tratto fu bussato alla porta: si slanciarono tutti e due ad aprire, sperando fosse la levatrice, e tutti e due sorrisero nel vedere il viso smarrito di Gesuino. Egli s’era rimesso il gabbano e il berretto, e vinto da una insopportabile ma anche dolorosa curiosità, veniva a vedere. Nel breve tratto dalla loro alla dimora del maestro s’era tutto bagnato di pioggia, e adesso tremava per il freddo, come un cane assiderato.

— Che vuoi? — domandò aspro il fratello, tentando di non farlo entrare. — Va a casa.

Ma il maestro pensò di mettere a prova anche la buona volontà di Gesuino, e porgendogli l’ombrello di famiglia disse:

— Proto è andato a chiamare quella cialtrona della levatrice, che rifiuta di venire subito: le [p. 263 modifica]faremo il reclamo, ma tu, intanto, Gesuino, va a nome mio dal dottore e pregalo di venire. Si tratta di salvare due creature.

Gesuino prese l’ombrello: l’aprì d’un colpo, lì sulla soglia, contrapponendolo come uno scudo al furore della pioggia, e partì di galoppo.

— Poveraccio, dopo tutto è buono, mio fratello, — disse Proto, più a sè stesso che al maestro.

Fu una notte memorabile per tutti. Fuori la pioggia scrosciava incessante, e pareva volesse separare con la sua violenza la dimora del maestro dal resto del mondo per privare di soccorso la donna colpevole.

Ma più insensata era la persecuzione degli elementi, più tenace si mostrava la volontà degli uomini a superare le difficoltà del momento.

Gesuino tornò accompagnato dal medico che già aveva curato il maestro; e dopo aver visitato Ornella il buon dottore disse che si trattava di parto prematuro, dovuto senza dubbio a qualche sforzo o a qualche grande turbamento della donna. Il maestro non parlò della visita di Antonio. [p. 264 modifica]

Ogni tanto egli saliva sul soppalco: Ornella stava ancora vestita, ora coricata ora seduta sul giaciglio basso tutto in disordine. Alla luce di una stearica la cui fiammella si agitava e si allungava come giocando con l’aria, la figura di lei appariva con contorni scuri sullo sfondo della parete bianca, e quando stava seduta, con la testa china sulle braccia incrociate, pareva quella di una prigioniera che rodesse le sue catene.

E invero la piccola stanza col finestrino simile a una feritoia, la cassa rovesciata per tavola e per sedia, e il vaso da notte sotto il letto, rassomigliava a una cella carceraria.

Il maestro non ricordava di aver mai veduto un quadro così melanconico: la pioggia rombante sul tetto gli dava l’idea di una eruzione vulcanica che scatenasse sulla casa una tempesta di lapilli; e la morte era lì, visibile, nell’ombra stessa di Ornella. Eppure egli sentiva un misterioso senso di gioia in fondo a tutto l’essere. Mai come in quella notte gli si erano rivelate la presenza e la potenza di Dio. Dio che con la sua verga segna il limite fra la volontà e l’impotenza dell’uomo a creare il destino: Dio che gli rimetteva fra le mani quella donna col suo frutto nel seno, e aboliva il tempo, lo spazio, la morte stessa, facendogli credere che era ancora la donna da lui uccisa. [p. 265 modifica]

Il dottore se n’era andato assicurando che il parto doveva avvenire verso l’alba, e che lui stesso s’incaricava di costringere la levatrice a fare il suo dovere.

Le ore passavano. I due contadini si davano il turno presso il maestro: nessuno parlava, come se invece di una partoriente si vegliasse un morto.

E anche in quella faccenda i due fratelli erano gelosi l’uno dell’altro, non tanto per la donna quanto per la loro premura verso il maestro: quando arrivava Gesuino, che nonostante il suo brontolare e le sue violenze era il più debole dei due, avveniva sulla soglia un muto conflitto: Proto lo guardava minaccioso, respingendolo, e solo l’accorgersi che il maestro osservava, gl’impediva di mandar via sul serio il fratello.

Gesuino entrava trionfante, e Proto allora se ne andava arrabbiato, deciso a non tornare più.

Verso l’alba la pioggia cessò, e nel grande silenzio improvviso, il canto del gallo parve l’annunzio di un essere misterioso venuto di lontano per mettere pace nel luogo tormentato. [p. 266 modifica]

Anche Ornella s’era assopita: il maestro la coprì col suo cappotto, e rinnovò sul candeliere la stearica, buona parte dalla quale s’era sciolta in un grappolo di lagrime bianche. La nuova stearica invece diede su una fiammella dolce e quieta, e solo parve scuotersi quando il secondo canto del gallo penetrò come un raggio di sole dal finestrino del soppalco.

Il maestro tornò giù e preparò il caffè, mentre Gesuino sonnecchiava accanto al cammino, come un cane che pur dormendo ascolta.

Anche il maestro ascoltava: gli pareva di non aver mai avuto sonno, eppure di aver dormito a lungo contro sua volontà: e nel silenzio sentiva fuori un vago scricchiolare, come se la notte s’incrinasse per lasciar passare la luce, e le cose piegate dalla bufera si sollevassero rabbrividendo, mentre dal velo d’acqua che copriva la terra, i cespugli, i giunchi della spiaggia, gli ombrelli dei funghi, emergevano come le cime dei boschi dopo il diluvio universale.

Questa impressione, di essersi salvato da un cataclisma, e con lui di aver salvato, come Noè nella sua barca, il seme di una nuova umanità, non lo abbandonò più. E sentiva di navigare ancora, in un mare più terribile del mare vero, ma la speranza di approdare era così forte che non gli lasciava più neppure il bisogno di ripetere l’antica canzone del marinaio invocante [p. 267 modifica]il Signore. Poichè il Signore era lì presente, era dentro la sua coscienza e la sua forza, e sopratutto nella sua volontà di vincere.

Al terzo canto del gallo arrivò silenziosa, in bicicletta, la piccola levatrice.

Piccola e giovanissima, sarebbe parsa una bambina, senza la fronte corrugata e due occhi neri, stanchi, bistrati, dentro i quali pareva si raccogliessero tutte le insonnie da lei sofferte.

Mentre deponeva dietro la porta la bicicletta volse intorno per la stanza uno sguardo diffidente, e credette da prima di essere stata burlata; poi vide la scaletta e senz’altro si tolse il mantello, sotto il quale indossava ancora la tunica bianca con la quale assisteva ai parti, e si arrampicò come uno scoiattolo verso il soppalco.

Il maestro ebbe suggezione a seguirla: quella piccola donna che era arrivata silenziosa come un uccello bianco con le ali nere, gli destava un senso di mistero, e nello stesso tempo lo richiamava alla più cruda realtà.

Infatti la si sentì che svegliava Ornella dal suo pericoloso sopore, e con una voce grossa, [p. 268 modifica]maschile, le imponeva di spogliarsi e mettersi supina sul letto; poi si affacciò sull’alto della scaletta e comandò:

— Dell’acqua calda, oh, presto.

Il maestro pensò di mettere la pentola sul fornello; ma Gesuino fu più pronto: rattizzò il fuoco e attaccò al gancio della catena che vi pendeva sopra il paiuolino di rame colmo d’acqua.

— Si ha da fare una bella polenta, — disse, tutto felice e orgoglioso di questa sua uscita spiritosa.

Anche il maestro sorrise e si rinfrancò: e per aver una scusa di andare su a vedere, pensò di portare alla levatrice una tazza di caffè bollente con molto zucchero.

Il bambino nacque al sorger del sole: il sole anzi mandava già i suoi raggi attraverso il finestrino, il cui vetro brillava come una sfera.

— È un maschio, — annunziò la levatrice, e poichè per la sua grossezza quasi s’era soffocato nel nascere, e non vagiva, con l’ombelico aperto e il corpo livido insanguinato che pareva quello di un bambino ucciso, ella lo prese per i piedi, con la testa in giù, e gli diede una [p. 269 modifica]sculacciata, con sdegno, come s’egli avesse già compiuto una cattiva azione.

Allora una specie di boato riempì il silenzio e lo stupore della casa: era il bambino che si destava alla vita.

Con un agile movimento delle mani, come si divertisse con un giocattolo, la levatrice lo rimise su, lo avvolse in un panno caldo e lo buttò fra le braccia del maestro.

— Così va bene: adesso attendiamo alla madre.

Quando la madre fu sistemata e fasciata, ella si volse a cercare il bambino: e vide che il maestro non s’era spostato d’un millimetro dal punto dove si trovava al momento della consegna. Forse non aveva neppure respirato, col viso pieno di stupore e di paura, le mani ferme a sostenere quel fagotto strano dal quale uscivano stridi e gemiti inumani.

Gesuino aveva messo a bollire un altro paiolino d’acqua, sebbene non ce ne fosse più di bisogno, allorchè ritornò Proto con un involto che cercava di nascondere.

— Adesso vai a casa e fai quel che c’è da [p. 270 modifica]fare, — ordinò corrucciato al fratello, aspettandosi delle proteste: con sorpresa vide che Gesuino gli accennava con l’indice il soppalco, e di tacere; poi se ne andava silenzioso.

Egli rimase a guardare in su, curioso e inquieto, immaginandosi che le cose stessero sempre al punto della sera avanti.

In realtà nulla era mutato: la levatrice già andata via, un silenzio profondo regnava nella stanza e nel soppalco: solo pareva che il maestro e Ornella se ne fossero scappati, e nella casa di vivo non rimanesse che il fuoco con su il paiolino dentro il quale l’acqua bolliva furiosa.

Proto però non era uomo da impressionarsi: depose il suo pacco sulla tavola, ed anzi pensò che poichè il paiolino bolliva era bene profittarne: quindi trasse dall’involto una gallina già ben pelata e con la testa ficcata fra le coscie; e dopo essersi assicurato che l’acqua era pulita ve la cacciò dentro. Sapendo dove stava il sale ne prese una manciata e la buttò nel paiolino: poi si pentì, perchè sapeva che ai malati è meglio dare il brodo non salato.

E si mise ad aspettare: ma lassù continuava il silenzio. Allora, coraggiosamente, salì la scaletta: e vide, immobili come in un quadro, Ornella addormentata, e il maestro seduto sulla cassa con sulle ginocchia il cappotto ripiegato e sotto qualche cosa che egli pareva avesse [p. 271 modifica]paura di deporre o di rompere: e il finestrino rotondo azzurro come un grande occhio con in mezzo la pupilla del sole.

Quando si accorse del contadino, il maestro gli accennò con la testa di andarsene, per non disturbare il sonno di Ornella: poi sollevò il lembo del cappotto. Aveva continuamente paura di soffocare il bambino: d’altronde non poteva deporlo sul lettuccio troppo stretto della madre, e giù non voleva portarlo.

Ma aspettando che tornasse la levatrice, e ormai sicuro che giù Proto provvederebbe alle faccende di casa, si abbandonò ai suoi pensieri.

La levatrice s’era presa l’incarico di denunziare al sindaco la nascita del bambino, e anche su questo punto egli era tranquillo. Nel fagotto di Ornella, poi, aveva ritrovato abbastanza denari per provvedere alle spese più urgenti. L’unico suo desiderio era che non tornasse Antonio; eppure la sua assenza, dopo tutte le smargiassate della sera prima, lo colpiva al cuore. Ma che importava? Tutto è per volontà di [p. 272 modifica]Dio, ed egli oramai si sentiva una forza straordinaria che lo rendeva sicuro di poter difendere, a tutti i costi la creatura affidatagli dalla sorte.

Anche Ornella, che dormiva sul solo guanciale delle sue treccie schiacciate, pallida, con la bocca semiaperta come quella dei bambini addormentati, gli destava una grande pietà. Gli pareva che col sangue versato e col dolore sofferto ella si fosse svotata del male, e purificata; ed era lì, immobile, come una statua di cera ch’egli poteva modificare a suo gusto. Aveva perduto anche quel suo respiro grosso, e la fronte e il naso avevano una linea infantile.

Ed ecco, d’un tratto, egli, non sa perchè, si rivede nella scuola del villaggio. Cinque bambini poveri, tutti brutti e insolenti, siedono ai banchi, e lo fissano deridendolo.

— Già, — dice uno di essi, il più piccolo e cattivo, — vossignoria don Giuseppe, che non ci poteva vedere, adesso deve fare da balia a quel marmocchio spelacchiato.

Gli altri ridono: uno dei ragazzi beneducati, di quelli benestanti, si alza e comincia a fare orribili smorfie.

— E a me il latte non me lo dà, vossignoria?

Tutta la classe è presa da un’epidemia di riso e di smorfie: qualche ragazzo gli butta addosso ghiande e olive guaste, cercando di colpire più che lui il bambino. Egli tenta di alzarsi, ma non [p. 273 modifica]può, anzi non vuole, e ripara con le braccia riunite la creatura presa di mira.

— Anche questo è un castigo, — pensa, — poichè io non ho amato i fanciulli.

D’un tratto qualcuno sale la scaletta: s’affaccia all’apertura del soppalco la bella testa di Ola, coi riccioli neri e gli occhi d’oro bruno: egli sente di arrossire e cerca di nascondere meglio il bambino: ma Ola sa tutto, salta in mezzo al soppalco e dice:

— Dammi una canna per difendere contro quei macacchi il mio fratellino.

I ragazzi però sono scomparsi, e al posto della scuola c’è il mare, con le onde agitate. I ragazzi sono scomparsi: dove? A lui pare che gli siano saltati tutti sulle ginocchia, nascondendosi fra le pieghe del cappotto: e questo gli pesa, tende a scivolare giù, e gli scivola, infatti, e il bambino ne schizza fuori in pezzi, tutti lividi e insanguinati.

Si svegliò spaventato dal suo momentaneo sopore, e sollevò ancora il lembo del cappotto come per assicurarsi che il bambino era lì intatto. Era lì, con la grossa testa dentro la cuffietta di lana rossastra: teneva gli occhi aperti, senza espressione, e questi occhi e il visetto lucido e rosso come sbucciato di una seconda pelle, rassomigliavano stranamente a quelli della bambola di Ola. [p. 274 modifica]

Anche Antonio tornò, compassato e rigido: coi calzoni raccolti entro gli alti gambali di cuoio, un frustino in mano, pareva un fantino che si dispone a partire per una corsa pericolosa. Annunziò infatti che partiva, per affari, ed anche per un’altra ragione che confidò solo al maestro.

— Cercherò una casetta dove collocare Ornella e il bambino, appena potranno muoversi. Ecco intanto....

Voleva consegnare denaro; e l’altro fu incerto se prenderlo o no: lo prese, ma lo mise in disparte, come uno che è deciso a non spendere per sè la moneta altrui.

Antonio volle vedere anche il bambino e Ornella. La levatrice, tornata una seconda volta, aveva sistemato le cose in modo che quei due stessero accanto nel giaciglio, e la madre potesse allattare.

Quando Antonio salì sul soppalco, Ornella, infatti, rivolta un po’ sul fianco, dava il latte al bambino, con l’impressione fisica di essere tutta una cosa con lui: le pareva che la [p. 275 modifica]boccuccia molle che le succhiava tenacemente il capezzolo e le faceva male come se la mordesse, pur destandole un senso di voluttà, non dovesse più staccarsi da lei. E sentiva che se qualcuno avesse tentato di strapparle dal seno la creatura, per difenderla ella si sarebbe trasformata immediatamente in bestia feroce.

Infatti, quando Antonio si piegò sul giaciglio, ed ella ricordò i cattivi progetti di lui, gli occhi le brillarono d’odio.

Antonio però non pensava a fare scene sentimentali; anzi il disamore per la madre e il figlio gli traspariva dal viso corrucciato; sua sola preoccupazione, per il momento, era che il maestro non lo credesse avaro e disimpegnato, e quando furono di nuovo giù, nella stanza dalla quale Proto s’era prudentemente assentato, volle offrire altro denaro.

— No, no, — disse il maestro, respingendo con ripugnanza anche la mano che glielo porgeva. — Basta!

Era un basta che significava altre cose; Antonio lo intese e insistè:

— Del resto tornerò fra tre o quattro giorni: avrò trovato dove collocarli e se Ornella sarà in grado di muoversi tutto sarà finito.

Il maestro non rispose, e quando Antonio se ne fu andato, ricordò l’ultima volta che lo aveva veduto prima della sua fuga da ragazzo. [p. 276 modifica]— Un momento prima egli aveva mangiato il mio pane e bevuto il mio vino: e se ne andava senza neppure darmi uno sguardo di compassione. Ma è giusto che tutto sia così, — pensò tornando su da Ornella

La trovò rossa e agitata, con gli occhi spauriti.

— Che le ha detto? — ella domandò con voce forte e diffidente.

— Nulla mi ha detto.

— No, no, le so io le sue intenzioni: vuole ammazzare il bambino.

— Tu sei pazza, Ornella; che ti salta in mente?

— È così, le dico; vedrà. E ieri notte non voleva ammazzarmi? E con me la creatura? E la prima volta?

— Zitta, non agitarti, non pensare a nulla. Ti farai andar via il latte.

Ma Ornella non sentiva ragione, spaurita come l’uccello che ha veduto passare il nibbio.

— Vedrà, vedrà. Lui voleva portarmi via per far poi sparire la creatura. E così farà ancora, se....

— Se?

— Se non si fugge. È per questo, anche, che io volevo andar via col Bianchi. Quello è mille volte migliore di questo assassino qui.

— Ornella! — disse il maestro, avvilito e addolorato. — Non dir male parole: adesso tuo figlio ti sente.

Ella guardò il bambino, come se davvero egli [p. 277 modifica]la sentisse, e sporse le labbra: pareva volesse piangere.

Allora il maestro, per calmarla, le mise una mano sulla testa e pronunziò, quasi senza averne coscienza, strane parole.

Erano i versetti della Bibbia, dove si parla della persecuzione di Erode.

— Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, dicendo: destati, e prendi il fanciullino e sua madre, e fuggi di Egitto; e sta quivi finchè io non tel dica: perciocchè Erode cercherà il fanciullino per farlo morire. Egli dunque, destatosi, prese il fanciullino e sua madre, di notte, e si rifugiò in Egitto.

Ornella capiva perfettamente di che si trattava, e come appunto l’uccello spaventato che trova il recesso dove nascondersi, si chetò e riprese a dare il latte al bambino.

Quello che per la circostanza si mostrò il più utile di tutti fu Gesuino.

Lavò i panni del neonato, sbrigò le faccende di casa e, per non mostrarsi da meno del fratello, portò anche lui il suo dono: un bel pezzo di carne di maiale, foderato di grasso. [p. 278 modifica]

— Questo lo voglio proprio arrostire a modo mio, tanto che Ornella se ne leccherà le dita.

— Mi pare sia un po’ troppo presto, darle da mangiare carne di maiale, — osservò bonario il maestro, e per non offendere Gesuino aggiunse: — faremo piuttosto un piccolo banchetto fra di noi.

Così fu fatto: alla sera Proto andò a comprare il vino, di quello che ben sapeva lui, e l’ospite, anche per mandar giù l’arrosto veramente cucinato a perfezione col rosmarino e il lauro, per la prima volta dopo lunghissimi anni di astinenza, bevette e naturalmente si ubbriacò. Ma era un’ubbriachezza cosciente e volontaria, che gli dava l’impressione come s’egli portasse la sua anima a spasso, in un bel mattino di estate, permettendole di svolazzare qua e là come le farfalle sui prati in riva al mare, tenendola però sempre d’occhio perchè non incorresse pericolo.

Così frenò il desiderio di raccontare ai contadini i suoi progetti per l’avvenire: d’altronde anch’essi parlavano poco, quella sera, per non disturbare Ornella: un po’ di chiasso si fece all’arrivo della piccola levatrice, e dopo ch’ella ebbe sistemato per la notte la puerpera e il bambino.

— Beva un bicchiere con noi, — pregò il maestro: e lei non chiedeva di essere pregata molto. [p. 279 modifica]— Ho da fare, stanotte, e non voglio cadere nel fosso, — disse con la sua grossa voce, e mandò giù il vino, d’un botto, come lo versasse dalla finestra.

— Uno anche per me, disse galantemente Proto, alzandosi e porgendole il bicchiere pieno.

— Pazienza, — rispose lei, e prese il bicchiere fra le sue piccole mani come volesse riscaldarsi o riscaldare il vino. — Mi farà male sul serio.

Allora Gesuino sollevò il suo testone la cui ombra riccioluta si agitava sulla parete come quella di un albero spinoso; e pronunziò la sua sentenza:

— Perchè il vino non faccia male bisogna berne tre bicchieri.

— Già, in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

— Amen, — rispose serio il contadino: e porse pure lui il suo bicchiere pieno. — Se non beve mi offendo.

— Sa che c’è, — intervenne il maestro, allarmato per la sicurezza della levatrice, — perchè il vino non faccia male, bisogna mangiare qualche cosa. Si metta a sedere.

— Ho da fare, le dico, — gridò la donna. Ma Proto si alzò, la prese per le spalle, e la costrinse a sedersi. Il maestro le mise davanti una fetta d’arrosto, il pane, il sale; e lei rimase lì fino a tarda ora. [p. 280 modifica]

Parlavano piano, e lei raccontava le storie di tutte le famiglie del paese, con particolari crudi ed espressioni che non avevano nulla da invidiare a quelle dei bassi tempi di Ornella. Se si fosse stati al buio la si sarebbe scambiata per un maschiaccio della peggior specie. Eppure il maestro, e lo stesso Gesuino che come Frate Zappata pretendeva dagli altri quello che non usava dar lui, la compativano, non solo, ma la ascoltavano con perverso piacere.

Proto invece s’irritava: e per mettere fine alle malignità di lei volle raccontare una delle sue solite storielle.

— Dunque, in un paesetto sperduto, c’era un prevosto che si annoiava a star solo. Allora una sera manda il servo col biroccio a pregare il dottore che venga subito perchè lui si sente male. Arriva il dottore, col quale del resto erano amiconi. «Ebbene, come va? Che c’è?» «C’è, — dice il prevosto — che mi sento morire. Ho un gran dolore qui alla cima della testa, e poi qui alla punta del gomito e poi qui alla punta del piede. Poi c’è che alla notte quando spengo il lume non ci vedo più.» «Ah, figlio di un cane» grida il dottore. E poi rimase a cena dal prevosto e a mezza notte stavano ancora a fare la partita e a bere.

Tutti risero, sebbene al maestro sembrasse di aver altre volte sentito quella storia. [p. 281 modifica]Andata finalmente via la levatrice, egli salì sul soppalco, per vedere se il chiasso aveva disturbato Ornella: e lei stava infatti ad occhi aperti, poichè alla notte tentava di non addormentarsi per paura di soffocare il bambino.

— Abbiamo festeggiato la sua nascita, — mormorò il maestro, piegandosi sul giaciglio che odorava di stoppia e di latte come una mangiatoia. — Quei bonaccioni di contadini hanno portato dei regali.

— Perchè non fa veder loro il bambino? — domandò lei, con una voce assonnata e sognante che a lui ricordò quella di Marga. — È tanto bello: già sorride. È tanto grosso e bello, — ripetè con accento vanitoso.

— Domani.

— Perchè non adesso? Di notte è ancora più bello, — insistè lei, palpando il bambino tutto caldo e umido di latte.

Il maestro è ancora in uno stato di lieve ebbrezza che gli fa parere tutto facile e bello: si affaccia quindi all’apertura del soppalco e chiama i contadini.

— Ornella vuol farvi vedere il bambino.

E, prima, di slancio, Gesuino, e poi più riflessivo Proto, quei due salgono la scaletta, s’avvicinano e guardano.

— Bello, proprio bello. [p. 282 modifica]— Peserà cinque chili, — dice Proto, — sembra un maialino grasso.

Il paragone non offende, anzi lusinga Ornella. E mentre si sta lì davanti al giaciglio che odora di stoppia e di latte, il maestro crede di vedere in sè stesso e nei contadini i tre Re Magi intorno al grande Bambino.

Il terzo giorno dopo il parto, Ornella dichiarò che voleva alzarsi. Si sentiva perfettamente bene, più forte perchè più agile di prima.

— Io devo assentarmi per qualche ora; è meglio che tu stai a letto, nel caso venisse Antonio — l’avvertì il maestro.

Ella intese immediatamente e non insistè. Pareva che dopo il parto l’intelligenza le si fosse sviluppata in modo straordinario.

Il maestro pregò Gesuino di stare attento alla casa, mentre lui era via. E il contadino andò a installarsi nella stanza, portando con sè una concolina rotta che voleva aggiustare con l’ago il fil di ferro e il mastice.

Il maestro non era mai stato superstizioso: eppure nel vedere la concolina in due pezzi, [p. 283 modifica]verde all’interno e rossa di fuori, e nel sentire l’intenzione di Gesuino di riattaccarla, pensò:

— Se al mio ritorno la faccenda sarà riuscita bene vuol dire che anche le cose mie si aggiusteranno.

E andò nel paese vicino dove risiedeva il pretore, per dichiarare la sua rinunzia alla custodia della casa in sequestro: andò a piedi, lungo la riva del mare.

Il tempo s’era completamente rimesso; faceva freddo, ma freddo asciutto, e il mare, sotto il cielo di un azzurro cristallino, pareva rabbrividisse di piacere per aver ritrovato la trasparenza e lo splendore dei giorni sereni. La sabbia era intatta, e il maestro aveva quasi suggezione a violarla con le sue orme. Il ricordo di Ola lo assaliva ogni tanto, con violenza appassionata, come se lei stessa con la sua personcina fresca e tenace gli saltasse a tradimento al collo; ma quasi fosse un pensiero colpevole egli lo allontanava.

La strada era un’altra, adesso, ben tracciata e senza soste giocose: ed era lunga, lunga quanto tutto il resto della vita: quindi bisognava affrettarsi. Ed egli si affrettava: laggiù il paese roseo e ridente pareva gli venisse incontro, per aiutarlo; anche la sabbia si faceva dura, sotto i suoi piedi, e tutta la spiaggia, grigia e dorata, rassomigliava ad un largo viale lungo il giardino azzurro del mare. [p. 284 modifica]

Ritornò in treno portando un pacco di biscotti per Ornella.

Gesuino era lì ancora e scopava davanti alla casa.

— La concolina? — domandò il maestro.

— Eh, l’ho rotta, — disse il contadino, ma i suoi occhi sprizzavano una luce maliziosa. Infatti la concolina era lì dentro, in bella mostra sopra la tavola, intatta e pulita come venisse appena dal negozio: e il maestro le girò curioso intorno, quasi dubitando di una mistificazione; poi si mise a ridere infantilmente.

— E va bene, — esclamò, levandosi il cappotto con sveltezza giovanile: — non è venuto nessuno?

— È venuta solo quell’accidente della levatrice: e per poco non mi bastonava perchè non c’era l’acqua calda pronta. Ma è brava, veh; in due minuti ha fatto tutto.

— Hai dato qualche cosa a Ornella?

Gesuino esitò a rispondere: ma era un uomo scrupoloso e non amava dire bugie.

— Volevo darle una tazza di brodo, come lei [p. 285 modifica]mi ha raccomandato: ma la ragazza ha cominciato a sbadigliare e fare smorfie. Dice: ho fame, altro che, con questo succhione che mi beve il sangue. E tanto ha detto e fatto che le diedi pane con dentro una fetta di lardo.

— Speriamo che non succeda nulla, — disse il maestro allarmato; e andò su coi biscotti, credendo di ottenere da Ornella una pronta riconoscenza. Ella s’era seduta sul lettuccio, e sbadigliava in modo da doversi stringere le guancie con la mano aperta. Disse, ricevendo i biscotti:

— Questi saranno buoni per il bambino; io ho voglia di pasta e fagiuoli.

Questa fame, che il maestro cercò di soddisfare alla meglio, con cibi meno grossolani di quelli desiderati da Ornella, produsse i suoi effetti. Al quarto giorno ella si alzò, si pettinò, gridando per il dolore, tanto erano imbrogliati i suoi capelli, poi scese nella stanza e riprese le redini dell’andamento domestico: ogni tanto però tendeva l’orecchio e poiché credeva di sentire un passo noto balzava su nel [p. 286 modifica]soppalco per nascondersi e difendere la sua creatura.

Il suo odio per Antonio le faceva esagerare il pericolo: ma era come se egli avesse realmente scaricato la sua rivoltella contro di lei e il bambino non ancora nato: il terrore le rimaneva nel sangue, ed ella non poteva ragionare abbastanza per vincerlo.

La sera del quinto giorno, poi, mentre Antonio non si lasciava ancora vedere, Proto portò la notizia che Adelmo Bianchi, il parricida, era stato trovato e preso a Genova, mentre tentava di imbarcarsi per l’America.

Ornella parve ascoltare indifferente; ma quando il contadino se ne fu andato disse con veemenza:

— È stato lui, Antonio, a fare la spia e....

Il maestro non la lasciò proseguire, sdegnato come lei non lo aveva mai veduto.

— Ti proibisco di calunniare Antonio in questo modo, hai capito?

Infatti il giorno dopo le cose apparvero diverse: Adelmo Bianchi si era costituito spontaneamente.

— Forse ha saputo che io ho partorito e che non posso raggiungerlo mai più, — disse Ornella, senza vanità. E il maestro, contento di questa confessione di lei, credette bene di lasciarla nella sua illusione: Proto però gli aveva [p. 287 modifica]già detto che il Bianchi s’era costituito perchè il fratello, in carcere, minacciava di strangolarsi, se si ritardava ancora il dibattimento.

Quest’epilogo del terribile dramma, e un fatto molto più semplice accaduto il giorno stesso, saldarono nel maestro la convinzione che tutto procedeva per mano di Dio.

Il possidente al quale egli aveva venduto la sua casa con condizione di riscatto, era morto in quei giorni, e il figlio scriveva che la famiglia non si opponeva al patto; occorreva però la presenza dell’antico proprietario perchè la cessione procedesse legalmente.

Egli fece vedere la lettera a Ornella.

— L’atto di cessione si potrebbe fare anche per procura, — disse, riprendendo la lettera e guardandola per non guardare la donna. — C’è troppa spesa, però. Io penso di recarmi di persona laggiù; ho già provveduto perchè il pretore mandi qui al più presto un nuovo custode. Appena questo arriva gli faccio la consegna e parto.

— E io? E il bambino? [p. 288 modifica]

Egli sollevò gli occhi, ancora alquanto incerto.

— Se tu vorrai venire, col bambino, partiremo assieme.

— E non si era d’intesa così? — disse lei sdegnata.

— Va bene. Allora, ascoltami, Ornella: tu verrai con me e sarai quello che vorrai essere. Il bambino, però, bada che io lo considero come figlio mio. Una volta laggiù sistemerò le cose; lo battezzeremo e lo legittimeremo. Ed egli dovrà crescere nella certezza di essere realmente mio figlio. Io lavorerò ancora, per voi: me ne sento la forza. Un’altra cosa: bisogna partire di qui di nascosto, per evitare la curiosità della gente. Prenderemo il treno alla prossima stazione. Va bene?

— Va bene, — rispose lei: e non parlarono più.

Il maestro decise di non partecipare la fuga sua e di Ornella ai contadini: essi lo avrebbero giudicato ingrato; ma chi vuole che un suo segreto si tenga deve cominciare a tenerselo da sè.

Le circostanze d’altronde parevano favorirlo misteriosamente. Il nuovo custode, accompagnato da un messo della Pretura che il maestro già conosceva, arrivò una sera che i contadini erano fuori di casa.

Tutto era pronto per la partenza, e fatta la [p. 289 modifica]consegna della villa e dell’abitazione del custode, al maestro non rimaneva che andarsene.

Egli aveva raccolto le cose sue e di Ornella nelle due valigie con le quali era arrivato. Staccò il piccolo arazzo della Fuga in Egitto, lo arrotolò, lo avvolse in un foglio di carta velina: e quando lui e Ornella col bambino in braccio ricoperto dallo scialle di lei, passarono davanti alla casa dei contadini, vi cacciò dentro il rotolo da un vetro rotto della finestra.

Essi sapevano il valore del dono e ne avrebbero inteso il significato.

Poi lui e Ornella se ne andarono lungo la spiaggia, nella notte grigia illuminata dalle grandi stelle invernali, col bambino che era il solo a non lasciare orme dietro di sè.


fine.


  1. Vento di nord-ovest.