Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Sonetti d'alcuni arcadi più celebri

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Sonetti d'alcuni arcadi più celebri

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Sonetti della signora Faustina Maratti Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte
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SONETTI

D’ALCUNI ARCADI PIU’ CELEBRI




GIO. GIROLAMO ACQUAVIVA.




Io veggio ben siccome acerbo e rio
     È quello stato in cui mi pose Amore,
     Donna, qualor da tuoi begli occhi fuore
     L’acuto stral che mi trafisse uscìo.
5Da quel momento ahi lasso! è il viver mio
     Continua morte: e pur l’aspro dolore
     Fuggir potrei ma nol consente il core:
     Sì traviato è il folle mio desìo.
Conosce gia sotto qual scorta infida
     10Va camminando e per qual duro calle
     Ei segue Amor che al precipizio il guida:
Nè a sì crudo Signor volger le spalle
     L’alma risolve: e spera e in lui s’affida,
     In lui, che strazio solo e angoscia dalle.


I1


Mira l’eroe che tutto in se raccolto
     Cuopre col petto l’assalite porte,
     E l’acerba ferita ond’egli è colto,
     Men gagliardo fa il braccio e il cor più forte.

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5Mira qual vario lume abbia nel volto
     Onde atterri i nemici, e i Suoi conforti:
     E quinci e quindi lo vedrai rivolto,
     Ove è più di periglio, e più di morte.
Morte barbara morte alzarsi il crudo
     10Tuo braccio io vedo, e lui sparger di gelo,
     E v’oppone virtù ma in van lo scudo.
Nè lui già piango nò che vive in Cielo,
     Ma il secol nostro, e il basso mondo ignudo
     Di senno, di valor, di santo zelo.


II2


Chi fu che d’Austria alla città reina
     Sciolse le mani a vendicarsi pronte,
     E assicurò la libertà Latina
     Esangue omai del gran periglio a fronte?
5Chi fu che di barbarica ruina
     Empiè la valle e alzò sul piano un monte?
     E qual tempra di marmo adamantiva
     Ruppe a Bisanzio il fier’orgoglio in fronte?
Ben tu, Sarmato re, festi di gelo
     10Parer l’armi dell’Asia e lei respinta
     Oltre del mare le mostrasti il laccio:
Ma pria che fosse o spada o lancia tinta,
     Sparse voti Innocenzio: indi al tuo braccio
     Donò le piaghe meditate il Cielo.


III


Quando chiari e tranquilli i giorni nostri
     Ne gian di pace fra soavi inganni,
     Da Dio lontana e in braccio a fiere, e mostri
     Passasti, Italia, in grave sonno gli anni.

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5Iddio ti scuote: apre i tuoi saldi chiostri
     Urto di guerra a innumerabil danni:
     Ma perchè senso a’ suoi rigor non mostri
     Dono ti fè d’altri novelli affanni.
Cadono tocche le Città dal forte
     10Braccio e un giorno le copre d’erba, e un giorno
     Spinge gli aratri in sù l’avanzo informe.
Stridono or mille a te saette intorno
     D’inestinguibili strage: e ancor si dorme?
     Italia Italia è questo sonno, o morte?


IV3


Non per veste superba, e per altero
     Moto di penne eccelse all’aura sparse,
     Chiaro e noto il real giovane fero
     Agli occhi miei fra mille schiere apparse:
5Ma dove io veggio sotto ’l gran destriero
     Cader armi ed armati e strada farse
     Fra le più folte turbe il valor vero,
     E cieca polve incontro al Sole alzarse:
E correr sangue le rive vicine
     10De’ fiumi, e al lampo del veloce acciaro
     Pallido farsi anco a’ più forti il viso:
Là tra il sangue le morti e le ruine
     E le stragi distinto assai ravviso
     Il re, cui l’opre di sua man fan chiaro.


ISABELLA GIROLAMI AMBRA.


Odio invidia vendetta avete vinto:
     Io getto l’armi e mi sottraggo al campo:
     Non perchè io speri, e nè pur brami scampo
     Da sì fieri nemici dond’io son cinto.

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5Io vedo il carro a cui verronne avvinto,
     E del rogo feral m’arrendo al lampo:
     Che l’aspro duol per cui gelo ed avvampo,
     A morte il cuore e non a guerra ha spinto.
Tempo già fu che d’archi e di bandiere
     10Non temer seppi, e di baldanza armato
     Risimi a fronte di nemiche schiere.
Che un Nume altier, ben sallo Amore, a lato
     Stavami sempre e mi fea franco: ahi fere
     Stelle, che il feste omai ver me sdegnato!


I


Lasso ben mille volte in tutte l’ore
     Tacito, e solo meco io mi consiglio:
     Vedi, a me dico, il tuo sì lungo errore;
     Torna a te stesso omai dal duro esiglio.
5Ma fo come augellin ch’indarno fuore
     Cerca scampar dal forte e fiero artiglio,
     Ragion seguendo: poichè contra Amore
     Misero! non mi val forza, o consiglio.
Piangendo esclamo allor: da queste pene
     10Tu sol’ a trarmi sei Morte bastante,
     Tu d’un core che langue ultima spene.
Quando (oh gloria, oh favor!) soffri costante
     Par che mi dica Amor, l’aspre catene:
     Sarai ’l più fido, e ’l più felice amante.


II


Più volte il piè rivolgo in altra terra.
     Lungi da gli occhi che mi negan pace:
     Ma quella pur mi chiama all’aspra guerra,
     Che nutre i miei martir cura mordace.
5Men fuggo in folte selve, ove si serra
     Ombra che rasserena, orror che piace:
     E tosto veggio quanto il pensier erra,
     Se nel silenzio più l’alma si sface.
Torno nelle cittadi: ivi mi fiede

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     10Crudo affanno vie più: poichè permesso
     Non m’è sfogarlo, o ’l narro a chi nol crede.
Ahi che loco non v’è dove concesso
     Mi sia ristoro: ovunque porto il piede,
     Porto (misero me!) sempre me stesso.


TOMMASO D’AQUINO


Allor ch’il superbo Ilio, e l’alte mura
     Giacean di Troia incenerite ed arse,
     La bella Greca in mezzo al foco apparse
     4Quasi fra tant’orror scarca e sicura.
Languì la terra insieme e la natura,
     A tanti stragi, a tante moli sparse:
     Pur lei fiamma non punse, e stral non arse
     8Mercè d’Amor ch’i suoi ministri ha in cura,
Tal leggiadretta donna il cor mi punse,
     E sovente trattò la face e l’arco
     11D’Amor, nè strali o fiamma al suo cor giunse.
Amor noi giunti insieme al dubbio varco,
     Armata lei lasciò, me inerme aggiunse
     14Con gli altri ancor sotto il gravoso incarco.


FULVIO ASTALLI.


I4


Nel tempo ch’accingeasi all’alta impresa
     Eugenio, presentossi a lui Fortuna
     E disse: io t’offro il crin per tua difesa
     Ten servi a incatenar la Tracia Luna.
5Io sarò teco: e nella pugna accesa
     Non ti si appresserà sventura alcuna,

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     Ed appena faranno a te contesa
     Tutte le forze che Bizanzio aduna.
Stringi quel crin che ti può far felice,
     10E il tuo gran nome ancor più memorando,
     Che senza me nulla sperar ti lice.
Eugenio allor: va finto mostro errando;
     Và pel mondo a ingannar volgo infelice:
     Son la vera fortuna il senno e il brando,



TRADUZIONE DEL PRECED. SONETTO

di


AGOSTINO ISIMBARDI


Tempore, quo Eugenius sese accingebat ad arma,
     Fortuna ante suos visa repende oculos.
En crinem, dixit, quo defendaris: in isto
     Agnoscat laqueos barbara Luna suos.
Tecum ero, ne dubita et pugnæ dum creverit ardor,
     Evenient armis prospera quæque tuis.
Quin etiam tibi tot quamvis vix ipsa resistent
     Agmina quæ Thracum Regia mittit ovans:
Qui tibi, qui famae pretium dabit? arripe crinem;
     Nil sperare tibi me sine in Orbe licet.
Tunc vero Eugenius: sparsis errare capillis
     Perge, ait, o monstrum, noxia perge lues.
Perge super Terras infelix fallere vulgus,
     Sors etenim verax, mens, gladiusque mihi est.

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II5


Pallante, ho quanto è giusto il tuo furore:
     E il pianto che t’inonda e gli occhi e il seno,
     Se la stessa natura al grand’orrore
     Di sì crudo spettacolo vien meno.
5All’empio che ancor spira astio e terrore
     Presso cui Stigia Furia orrida è meno,
     Dì pure che quel suo barbaro core
     Il latte che succiò, cangia il veleno.
Ma d’Agrippina il sangue allor che fea
     10Dal suo carcere sciolto, il suolo vermiglio,
     Col pianto universal misto correa.
Frena dunque lo sdegno, e tergi il ciglio:
     Che aver pietà di madre iniqua e rea
     Opra fu sol dell’empietà del figlio.


III


Roma ch’ergesti le tue moli altere,
     Dove campi dell’aria hanno il confine,
     Dimmi, perchè sull’alte tue ruine
     Ridon ora de’ fior tutte le schiere?
5Se cadde a terra quel superbo crine,
     A che serti intrecciar le Primavere?
     Solo dovean qui meste piante e nere
     Delle grandezze tue piangere il fine.
Roma, le tue cadute io piango ognora
     10E vò che questa destra ora recida
     Sovrà i sepolcri tuoi Aprile, e Flora.
Errai. Superbia ancora in te s’annida:
     Ti vinse il tempo è ver, ma vinta ancora
     Delle perdite tue par che tu rida.

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GIUSEPPE BARTOLI


Oh s’io potessi all’onorato monte
     Giunger col tardo piede ov’ho il pensiero,
     Or che di novo lume eterno e vero,
     Van le tue rime, Ulipio, adorne e conte!
5So ben, ch’udrei tra ’l verde lauro e ’l fonte
     Dolce cantarle il cigno stesso altero,
     Cui già correan nel bel tempo primiero
     Le ninfe d’Arno ad ascoltarlo pronte.
Vedrei da Febo accorle, anzi nel grembo
     10Porle di Gloria, e per maggior suo scorno
     Mostrarle al Tempo, e ragionar con lui
Queste pur fien tue spoglie e fregi tui,
     Quando vedremo a quel tuo carro intorno
     (E ten rallegra) il gran Petrarca, e ’l Bembo.


GIROLAMO BARUFFALDI


I


Cieca di mente, e di consiglio priva
     Scende giù l’alma avvolta in fragil manto,
     E peregrina finchè giunga a riva
     Questa prende a passar valle di pianto.
5Ivi talor non sa se muoia, o viva
     Fra le tempeste, che l’assedian tanto
     Ma se di Fè l’occhio più interno avviva
     Qual mai si vede alto soccorso accanto
Spirto immortal, che il Ciel di sè innamora,
     10Fassi a lei guida, e presso lei riluce,
     E trarla cerca dal periglio fuora.
Ma guai, se dietro l’orme sue di luce
     Pronta non segue, e cade assorta: allora
     Folle di sè dorrassi, e non del Duce.

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II


Io no, non credo, che il morir sia danno,
     Nè che per morte il nero obblìo si varchi:
     Anco di là templi, teatri ed archi
     All’alme grandi per onor si fanno.
5E mentre il dì fatal colà n’andranno
     Gl’invitti Eroi del mortal fango scarchi,
     Per lo sentier de’ Regi e de’ Monarchi
     L’immago dell’antiche opre vedranno:
Chè le tante, onde fu la Terra angusta,
     10Eterne imprese il Ciel pinge e colora
     Su l’ampia strada luminosa e augusta.
Tal del gran Re, ch’esce d’albergo fuora,
     Per quella via de’ suoi trionfi onusta
     Passa l’Ombra superba e gode ancora.


III6


Quel raggio, che mostrommi il cammino destro,
     Per cui correr dovea con franchi passi,
     Poichè svanimmi, io mi trovai fra i sassi,
     E n’ebbe tema il carcer mio terrestro:
5E, come suole un animal silvestro,
     Lasciai la via co’ pie tremanti e lassi,
     E con gl’occhi tra ’l buio umidi e bassi
     N’andai tentone in quel deserto alpestro.
E ricercando pur qualche contrada,
     10Torna, o lume, gridai, troppo m’affiligi,
     Se più t’indugi, e non so dove i’ vada.
Quando il fausto splendor de’ tuoi vestigi,
     E la tua voce mi scoprìo la strada,
     E mi tolse dai laghi averni e stigi.

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IV.7


Finchè questi occhi aperti il Sol vedranno,
     E la mia lingua a favellar fia sciolta,
     E l’intelletto dall’oscura e folta
     Nebbia scevro n’andrà d’ombra e d’inganno:
5Vergine eccelsa, da quel primo danno,
     Che ogni alma tiene in aspro modo involta,
     Te giurerò dal divin braccio tolta
     Fin dall’eterno incominciar d’ogn’anno.
E ’l giurerò con fronte alta e sicura,
     10E ’l ridirò ad ogn’ora, ovunque io passi,
     Sebben laggiù nella prigione oscura
Chè in que’ d’Ombre sepolcri orridi e bassi
     Sarìa felice ancor la mia ventura,
     Purchè là dentro il tuo candor lodassi.


V.8


Ben veggio il marmo, il simulacro, e l’urna,
     Ma l’ossa no del mio Cantor primiero:
     Deh chi mi schiude per pietà il sentiero
     A quella fredda polve e taciturna?
5Vorrìa veder la tromba, e in un l’eburna
     Cetra come sen giaccia, e ’l pungol fiero,
     E ’l Socco umìle, onde coperse il Vero
     In sembianza ridevole e notturna.
Trar le vorria fuor dalla notte al die,
     10E, certe occulte note mormorando,
     Ravvivar quelle spoglie, e farle mie:
Poi lieto andar per queste vie cantando
     Nov’arme, novi amor, nove follìe,
     Maggiori ancor delle follìe d’Orlando.

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GIACOPO BASSANI


I.


Gentil Vinegia
     Degna d’impero.
     Dovunque il vero
     Valor si pregia:
5Tua virtù egregia
     Del Trace fiero
     L’ardir primiero
     Gia frange e spregia.
Corcira il dica,
     10Dove or fa nido
     Tua gloria antica;
E in ogni lido
     L’oste nemica
     Ne tema il grido.


II9.


O Italia! o Roma! Se ’l valore antico
     Non raccendea la mia real cittade,
     Qual riparo alle vostre, alme contrade?
     Chi vi scampava dal crudel nemico?
5Ogni ampia riva, ogni bel colle aprico
     Di mille ingombro e mille inique spade;
     Qual per l’Unno furore all’altra etade,
     Tutto scorrea del gentil sangue amico.
Vinegia nol sofferse, e ai danni e all’onte
     10Vostre fè saldo impenetrabil scudo,
     La bella difendendo egra Corcira:
Chè il Trace già d’ardir e speme ignudo,
     Gran duol portando e gran vergogna in fronte,
     Ne fuggì, al Cielo ed a sè stesso in ira.

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LORENZO BELLINI


I


Ahimè, ch’io veggio il carro e la catena,
     Ond’io n’andrò nel gran trionfo avvinto:
     Già ’l collo mio, di sua baldanza scinto,
     Giro di ferro vil stringe ed affrena.
5E la Superba il carro in giro mena,
     Ove il popol più denso insulti al vinto:
     E strascinato, e d’ignominia cinto,
     Fammi l’empia ad altrui favola e scena.
Quindi mi tragge in ismarrito speco,
     10Ove implacabil regno have vendetta
     Fra strida disperate in aer cieco.
E col superbo piè m’urta e mi getta
     Dinanzi a Lei, con cui rimango; e seco,
     Chi puo pensar qual crudeltà m’aspetta?


II


Ed or qual volta del mio stato indegno
     Sdegnoso a me l’antico me richieggio,
     E i gran recinti a ricercar ne vegno,
     Che fur di lui tant’anni albergo e seggio:
5Ahi che, qual va per desolato regno,
     Più di quel che già fu nulla vi veggio,
     E in van qualche memoria o qualche segno
     A un cheto orror, che v’abita, ne chieggio.
Onde vegg’io ch’ei tutto in abbandono
     10Gito è del mondo, e nulla più n’avanza
     Se non dell’opre e del suo nome il suono;
E in questa spoglia, e in questa sua scordanza
     Niuna parte di lui son’io, ma sono
     Una confusion senza possanza.

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MARCH. CORNELIO BENTIVOGLIO.


I


Ecco Amore: ecco Amor. Sia vostro incarco;
     Occhi, chiudere il passo al Nume audace,
     Che a turbarmi del sen la cara pace
     Sen vien di sdegni e di saette carco.
5Ecco Amore: ecco Amor. Vedete l’arco,
     Che mai non erra e la sanguina face:
     Già la scuote la vibra e già mi sface:
     Occhi... Ah voi non chiudeste a tempo il varco.
Ei già mi porta al sen crudele affanno,
     10E dell’error ch’è vostro, o lumi, intanto
     Il tormentato cor risente il danno.
Ma d’irne impuni non avrete il vanto;
     Poichè, in questo sol giusto, Amor tiranno
     Se il core al fuoco, e voi condanna al pianto.


II


L’anima bella, che dal vero Eliso
     Al par dell’alba a visitarmi scende,
     Di così intensa luce adorna splende,
     Che appena io riconosco il primo viso.
5Pur con l’usato e placido sorriso
     Prima m’affida, indi per man mi prende,
     E parla al cor cui dolcemente accende
     Dell’immensa beltà del Paradiso.
In lei parte ne veggo; e già lo stesso
     10Io più non sono, e già parmi aver l’ale:
     E già le spiego per volarle appresso.
Ma sì ratta s’invola e al Ciel risale,
     Ch’io mi rimango, e dal mio peso oppresso
     Torno a piombar nel carcere mortale.

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III


Vidi (ahi memoria rea delle mie pene!)
     In abito mentito io vidi Amore
     Ampio gregge guidar, fatto pastore,
     Al dolce suon delle cerate avene.
5Il riconobbi all’aspre sue catene
     Ch’usciano un poco al rozzo manto fuore;
     E l’arco vidi che il crudel signore
     Indivisibilmente al fianco tiene.
Onde gridai: Povere greggi! ascoso
     10Il lupo in vesta pastoral fuggite,
     Pastor, fuggite il suono insidioso.
Allora Amor: Tu, che le insidie ordite
     Scopristi, ed ami sì l’altrui riposo,
     Tutte prova in te sol le mie ferite.


IV


Poichè di nuove forme il cuor m’ha impresso,
     E fattol suo simil la mia Nicea
     Con uno sguardo, onde non sol potea
     Far bello un cor ma tutto ’l mondo appresso,
5Da quel letargo, ove pur dianzi oppresso
     Dalle fallaci brame egro giacea,
     Si scuote sì, così s’avviva e bea,
     Che a chi ’l conobbe più non par quel desso
Fortunato mio cor, più quel non sei:
     10E salendo per l’orme degli eroi,
     Stai per nuova virtù non lunge ai Dei.
Gentilezza e valor son pregi tuoi:
     Nè già te lodo, anzi pur lodo lei,
     E solo in te l’opra degli occhi suoi.


V


Tra i lascivi piacer dell’empia Armida
     Giace in ozio avvilito il buon Rinaldo:
     Ed ei, ch’in guerra fu sì ardito e baldo,
     Or torpe in sen d’una fanciulla infida.

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5Ma il Ciel, che ’l serba a maggior’opre, guida
     A lui per strade ignote il forte Ubaldo,
     Che collo scudo adamantino il saldo
     Incanto rompe e il neghittoso sgrida.
Lo sgrida, e desta nel feroce petto
     10La sopita virtù, che omai non lenta
     Dell’amoroso error lascia il ricetto.
Così Ragion lo scudo a me presenta
     Ov’io mi specchio, e il cor l’orrido aspetto
     Del suo passato amor fugge e paventa.


VI


Contrario affetto il cor m’assale, e stringe,
     Che mi punge talor, talor m’affrena:
     Affetto di piacer misto, e di pena,
     Ch’ora m’avviva, ed ora a morte spinge.
5Al pensier lieto Amor promette, e finge
     In dolce servitù vita serena:
     Mi dimostra il timor di qual catena
     La tiranna dell’alme ogni alma cinge.
Corre il desio dove l’invita un seno:
     10Ma un ciglio maestoso impongli il morso,
     E nato appena, il mio sperar vien meno.
Ah ch’io son qual destrier, cui prema il dorso
     Cavaliere inesperto, e il tenga a freno,
     Mentre co’ sproni lo sospinge al corso.


VII


Donde il nuovo colore, e i nuovi canti
     Dell’erbe molli, e de’ lascivi augelli,
     E ’l gajo mormorar de’ bei ruscelli,
     Che parean mesti, e taciturni avanti?
5Donde il lieto belar dell’agne erranti,
     E ’l saltellar pe’ capri allegri, e snelli?
     Perchè i più crudi, ed ad amor rubelli
     Pastor fra noi oggi son fatti amanti?
Donde il dolce spirar della fresch’ora,

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     10Ch’oltre l’usato gli animi ricrea,
     E di rose novelle il suolo infiora?
Perchè il mio cor, che vive in doglia rea,
     D’insolito piacere or si ristora?
     Donde tanti stupor? Tornò Nicea.


VIII


Sotto quel monte, che il gran capo estolle,
     E protegge coll’ombra il rivo e ’l fiore,
     Stav’io con Fille, e parlavam d’amore,
     Ambo sedendo in su l’erbetta molle.
5Scriver col dardo suo la ninfa volle
     Su la polve la fè, ch’avea nel core,
     Ed anch’io impressi il mio fedele ardore
     Nel tronco di quel faggio appiè del colle.
Quando l’impressa arena agita e volve
     10Turbo importun d’aura rapace e fella,
     E la mia speme e la sua fè dissolve.
Ma la stessa giustissima procella
     Porta nel tronco la commossa polve,
     E con la sua la fede mia cancella.


IX


O troppo vaghe e poco fide scorte,
     Che ’l primo varco apriste al crudo Amore,
     Onde con seco nel domato core
     Tutta introdusse sua funesta corte:
5Gelosie, tradimenti, e mal accorte
     Brame, eterni sospetti, e reo dolore,
     Breve speranza con perpetuo errore,
     Odio di vita, e gran desio di morte.
Or che farem, poichè il crudel tiranno,
     10Di noi s’è fatto donno, e con baldanza
     Ragione ha tratta dal regal suo scanno?
Questo non so; so ben, ch’ancor n’avanza
     Nel nostro grave irreparabil danno
     De’ disperati l’ultima speranza.

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FRANCESCO BERETTA.


Già misuro anelante i spazj immensi,
     Per dove il volo, o mia Nicea, spiegasti;
     Sien questi versi miei gl’ultimi incensi,
     La mia morte ti siegua ove n’andasti.
5Ma tu rispondi: O misero, che pensi
     Correr dietro a quel fral, che tanto amasti?
     Questo è il Ciel; qui non hanno ingresso i sensi,
     Nè il tuo amor saggio è una ragion, che basti.
Amami d’altro amor, che non sia vano;
     10Troppo mi duol, che nel sentier, che tieni,
     Più che cammini, e più sarai lontano.
Ama i bei raggi in me di gaudio pieni,
     Ama la bella patria, ama la mano,
     Che ti stendo a venir; ama, e poi vieni.


LUIGIA BERGALLI.


I10


Se rivolgo il pensiero al non bugiardo
     Chiaro suono, onde fama a noi vi mostra,
     Gran donna, siete tal, che all’età nostra
     Solo forse per voi, s’avrà riguardo.
5Quindi, se bene ardita all’altrui sguardo
     Degl’incolti miei carmi osai far mostra;
     Or che spiego il mio canto all’alta vostra
     Mente già di rossore avvampo ed ardo.
Nè per senno maggior di porlo in bando
     10Spero; che non avrò da lui men guerra
     Me stessa, e questi verdi anni mutando;

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Chè per voi tanta il Ciel virtù disserra,
     Alma regal, ch’io non so come, o quando
     Ne fia cortese ad altra donna in terra.


II11


Alma Vittoria, che del Tebro in riva
     La voce in sì bei carmi un dì sciogliesti,
     Che mille volte, e mille altrui potesti
     Dubbio recar, se fossi donna, o diva;
5Questa, che da tua stirpe alta deriva,
     E ch’or col dolce viso, e gli atti onesti
     L’Adria innamora, ben dal Ciel vedesti
     Qual sia di tua virtude immagin viva.
Io chiederei lo stil, che teco ai santi
     10Cori portasti, esso che sol potrebbe
     Spiegar di Agnese i pregi eccelsi e tanti:
Ma chi sa mai, se sua modestia avrebbe
     Agrado poi di udire i propri vanti?
     Ed allor quale stil se le dovrebbe?


III12


Muse, se di spogliar mio stile impetro,
     Vostra mercè, di modi incolti e bassi,
     Fa che col nome un dì forse io trapassi
     L’ultimo lido, e invidia io vegga indietro.
5Non già le crude fiere, e i sordi sassi,
     Come il tracio Cantor, vò trarmi dietro:
     Nè cerco già verso l’ardente e tetro
     Empio regno di Dite aprirmi i passi.
Alle mie rime, or da viltade oppresse,
     10Lume darò coi pregi del più altero
     Spirto, che in mortal velo il Ciel mai desse.

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E allor, ch’io giunga in parte a dirne il vero,
     Ben quanti Apollo ad alte imprese elesse
     Per questo sol vincer di fama io spero.


IV13


Forse dirammi alcun: tu, che de’ vanti
     Altrui sovente usi spiegar le lodi,
     E perchè mai di onesto onor de’ Prodi
     Le famose talora opre non canti?
5Nè sa quell’un, che in celebrando i tanti
     Suoi merti invano ognor la lingua io snodi;
     L’ingegno è corto, poca l’arte, i modi
     Mancano tutti al gran soggetto innanti.
Che se gli alti suoi fregi io co’ miei carmi
     10Spiegar potessi, oh come, oh quanto avrei
     A goder di me stessa, ed a vantarmi.
Poichè so ben, che fama allor torrei
     A Chi cantò d’Ilio e di Grecia l’armi,
     E so, che in ciò m’han fede uomini e Dei.


PIETRO ANTONIO BERNARDONI


I14


Al rozzo stato suo volgendo il ciglio
     Quel dì, che assiso in Vatican ti scorse,
     Stette pensosa, e fu l’Arcadia in forse
     Se chiamarti dovea Signore, o figlio.
5Ma nel grave per lei d’errar periglio
     Una voce d’Italia a lei soccorse,
     Onde sicura in un balen risorse
     Da quel, dove giacea dubbio consiglio.

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Ecco, Italia dicea, l’eroe beato,
     10Che tanto attesi; eccol da Regno e Regno
     Stender l’impero, a cui lo scelse il fato.
Ecco, dicea l’Arcadia, il mio sostegno.
     Tu, che lor figlio, e difensor sei nato,
     Deh non aver suoi puri voti a sdegno.


II


Qualor di nuovo e sovruman splendore
     In me Nice rivolge i lumi ardenti,
     Nè degnando mirar su l’altre genti,
     Tutto prova in me solo il suo valore;
5Ognun de’ sguardi suoi mi passa il cuore
     Per la via, che ben sanno i rai lucenti;
     E giunto a lui, con non so quali accenti
     Si ferma seco a ragionar d’amore.
E solo Amor, che in compagnia di quelli
     10M’entrò nel sen, potrìa ridire altrui
     Di quai gran cose ognun di lor favelli.
Già nol poss’io, perchè in mirar que’ dui
     Fonti della mia fiamma, occhi sì belli,
     In lor fuori di me rapito io fui.


III15


Questa, che tien sopra il tuo cuore il vanto,
     Di ben regger se stesso inclita brama,
     E quel d’imperi no, ma sol di fama
     Chiaro pensier, che nel tuo cuor può tanto;
5E il zel del divin culto acceso, e santo,
     Per cui la fè suo difensor t’acclama;
     E la pietà, ch’a rasciugar ti chiama;
     De’ tuoi vassalli in su le ciglia il pianto
E mille altre virtù, ch’hai teco in trono,
     10Di trar da Lete un bel desìo m’accende,
     Ma le forze al desìo pari non sono.

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Nè perciò tua bontade a sdegno prende,
     Anzi rozzo qual è de’ Carmi il dono
     De’ gran tributi al par grato ti rende.


CESARE BIGOLOTTI


Idalgo, andrai là, dove al Sol nascente
     Il ricco Gange l’alma cuna indora,
     E vedrai da vicin bella e lucente
     Dall’indico Oceàn sorger l’Aurora.
Vedrai nuovi costumi e nuova gente;
     Qual segno il polo antartico colora;
     E di quai frutti e di quai fior ridente,
     Rendon la spiaggia Eoa Pomona e Flora:
E ricche di smeraldi e d’adamanti
     Vedrai le rupi, e quai dal mar natìo
     Escan dell’Alba i preziosi pianti.
Allor dirai pien d’un più bel desìo:
     Terra felice in tanti pregi, e tanti,
     Solo ti manca riconoscer Dio.


II


Quel dolce strale, onde piagar solea
     Per l’uom sè stesso l’increato Amore,
     Dal sen si trasse, e lo sospinse al core
     Della più vaga Verginella ebrea.
Ella fè scudo al colpo, e armata ardea
     Di santo sdegno e d’innocente errore;
     E cinti i bei pensier di casto orrore
     All’alto spirito suo guerra movea:
Ma l’eterna sua idea quei le scoprìo
     Pietoso del fallir nostro primiero,
     Ed appagolle il verginal desìo;
Talchè in umil voler di speme altero
     Ella chinò le luci; e si adempìo
     Di Vergine e di Madre il gran Mistero.

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OTTAVIO BOLGENI.16


Se piangi lei ch’uscì del mondo fuore,
     È gran torto lagnarsi del suo bene;
     Chè lamentar, perch’altri esce di pene,
     4Nè giustizia il sostien, nè ’l vuole amore
Se ’l tuo danno deplori, è grande errore;
     Chè perduta chiamar non si conviene
     Quella che in ciel beata un seggio tiene,
     8Onde a giovarti ha più brama e valore.
Dunque sia fine al tuo lungo martire,
     E, se ti vuoi lagnar, lagnati meco;
     11Che siam rimasti in sì nojosa vita;
O, se a te pesa tanto il suo partire,
     Non piangere perch’ella or non è teco,
     14Ma perchè tu non sei dov’ella è gita.


ANTONIO BONINI.


I


Dov’è la bella età, che gigli e rose
     Sulle tenere guance vi dipinse?
     Dov’è l’oro del crin, che in pregio vinse
     4Quel, che natura sotto i monti ascose?
Dove son le pupille luminose,
     Ch’ogni amante guatando in sè si strinse,
     Gridando, che per farle Amore estinse
     8In Ciel due stelle, e in fronte a voi le pose,
Or se potete, o Filli, richiamate
     Sì che tornino a voi così begli anni,
     11Onde sì vaga un’altra volta siate.
Ah che ben puote de’ medesmi panni

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     Rivestirsi ciascun, ma dell’etate
     14Veste non v’è, che ci ricopra i danni.


II17


O superbetto mio picciolo Reno,
     Deh lascia, lascia omai questo costume
     Di tor ninfe or a questo, or a quel fiume,
     4Se di sì bella il Cielo ornò il tuo seno.
Tu poi sospiri, perchè gonfio e pieno
     A romper vai fra boschi le tue spume,
     E perchè giaci, insin che ti consume
     8Sparso l’ardente Sol nel tuo terreno.
Non senti ancor, che il Tebro oggi si duole,
     Che non contento di rapirgli due
     11Figlie d’un sol pastor, la terza invole?
Non sai, che questi ha in man le sorti tue?
     O mio Ren, quando è irato! ed ei non vuole,
     14Ch’io gli rammenti le Sabine sue.


III18


Costei, che, o Pellegrino, in marmo scolta,
     Pien di stupore a riguardar t’arresti,
     Ninfa non è, che al dolce suon di questi
     4Cadenti fonti sia dal sonno colta.
Dalle sue vene molto pria che sciolta
     Quest’acqua fosse, i dolenti occhi e mesti
     Ella avea chiusi; e li chiuse sì presti,
     8Che assai di gloria al Tebro allor fu tolta:
Qual dal fier’angue morsa estinta giacque
     La Reina bellissima d’Egitto,
     11Tu miri, o Pellegrin, sopra quest’acque.
Il veder questo sasso oh quanto afflitto.

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     Fe’ il campidoglio! oh quanto a Roma spiacque!
     14Leggilo in quel bel volto, ov’egli è scritto.


IV19


Chi è costei, che a mezza notte è desta,
     E in via s’è posta con sì chiara lampa,
     E sì nel suol rapidi passi stampa,
     4Che mortal occhio dietro lei s’arresta?
Delle vergini sagge è certo questa
     Una, che da vergogna e sonno scampa,
     Onde lo sposo, di cui tanto avvampa,
     8Non abbia a dir: di fuor, pazza, ten resta;
Ma qual rumore intorno l’aer rompe!
     Ecco lo sposo per sentier di luce,
     11Che vienle incontro, e suo corso interrompe,
Seguite o Verginelle, ora costei,
     Cui sua prudenza a tanto onor conduce.
     14Oh quanto ogni altra è tarda al par di lei!


V20


Che guardi, e pensi, Pellegrin divoto?
     Questo è avello d’Antonio, e sono questi
     Di lui gli alti prodigi, e manifesti,
     4Che appesi stanno al sacro tempio in voto.
Guarda: quei son navigli, ch’Austro e Noto
     A franger dal lor rege invan fur desti,
     Quei sono i naviganti afflitti e mesti,
     8Questo è un nocchier, che sta confuso e immoto.
Guarda quanti a perigli e a morbi tolse,
     Quanti a maligni spirti! oh quanti a morte!
     11Vè quanti lacci, e quanti ne disciolse!
Guarda quella di gravi anella attorte.
     Catena infranta! Una al mio piè ne sciolse,
     14Ben mi ricordo: ahi quanto era più forte!

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VI


O Mopso, Mopso, quella tua sì ardita
     Giovenca, per dir vero, a me non piace;
     Quel gir fra tori sì lasciva, e audace
     O mal frutto, o mal fine in lei n’addita.
5Vè là, com’or que’ tori al salto invita
     Inarcando la coda, e come face
     L’arena alzar del suol con piè vivace,
     Bassando il corno inver l’erba fiorita.
Io so, pastor, che del tuo ricco armento
     10Perdendo ancor costei, non t’è gran danno;
     chè più belle di lei n’hai cento e cento;
Ma se fra lor que’ tori un giorno fanno
     Sanguinosa battaglia, ah che pavento
     Vederti pien di scorno, e d’alto affanno!


MARIA SELVAGGIA BORGHINI.


I


Abito eletto e sovra ogni altro altero,
     Che l’interna bellezza orni e non celi,
     In cui par che Natura altrui riveli
     Dell’eterno soggiorno il Bello intero:
5S’io rivolgo talor l’occhio, o ’l pensiero
     In ciò, che in te ripose il Re de’ Cieli,
     Veggio come a Mortai chiaro si sveli
     Del gran poter di lui l’Immenso e ’l Vero.
Onde se un dì fia, che l’età futura
     10In carta legga quanto ha il Ciel raccolto
     Nella tua rara angelica figura;
Dirà colma di duol: misero e stolto
     Mortale, or chi ti guida e t’assicura
     Se a te vedere il vero lume è tolto?


II


E fermo il piè sulle superbe sponde,
     Che il gran Bavaro Eroe famose ha rese,

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     Mira a gemer l’Obblìo presso quell’onde,
     E la Fama esultar tra mille imprese;
5Mira di fiori il suol sparso e di fronde,
     Mira eretti trofei, bandiere appese,
     E i monti alti ingombrare, e le profonde
     Valli armi infrante, e schiere vinte e prese;
E mira Africa oppressa ed Asia doma
     10Inchinarsi al gran Re, che in alto soglio
     Di serto trionfal cinta ha la chioma:
Come spirando un valoroso orgoglio,
     Vide stupida un tempo Italia, e Roma
     Gli alti Cesari suoi nel Campidoglio.


ALESSANDRO BOTTA-ADORNO.


Più rime io vaneggiando avea già spese
     Dietro a un dolce bensì, ma vil lavoro,
     E nel natìo d’Arcadia umil paese
     Serti io cogliea di non volgare alloro:
5Quando fama immortal per man mi prese,
     E a te mi trasse, e mi diè cetra d’oro,
     E mi additò tue sante eccelse imprese,
     Onde mio novo stil volgessi a loro.
Ma in lor tal luce e maestà mirai,
     10Che per stupor di suon la cetra priva
     Di man mi cadde, e muto anch’io restai.
E dissi appena: ah virtù vera e viva,
     Deponi alquanto i sovrumani rai,
     Se vuoi del tuo Signor ch’io parli e scriva.


GIAMBATTISTA BRANCADORI.21


Di tua mente uno sguardo almo, e giocondo
     Volgi dall’alte cure al nostro canto,

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     Ond’ei con lume sì soave, e santo
     Chiaro divenga, e più gradito al mondo;
5Forse che allor fatto da te facondo
     Anch’io dirò di tue virtudi il vanto,
     E qual pena soffrir ne fe’ quel pianto,
     Di tua rara umiltà segno profondo.
Quindi i bei pregi tuoi raccolti insieme,
     10Se avvien, ch’a’ voti miei fortuna arrida,
     Del mare andran sino all’arene estreme.
Tanto speriam, Signor, benigna guida
     Offrendo il tuo gran nome all’alta speme:
     Odi qual per noi parla, e qual n’affida.


CARLO IRENEO BRASAVOLI


I


Non la corona, che la fronte allaccia,
     Non la ferita, che gli squarcia il petto,
     Non le percosse, e non l’afflitto aspetto
     Della sparuta sanguinosa faccia
5Io guardo sol: guardo le aperte braccia
     Del mio Signore, e n’ho gioja e diletto:
     Tal scuopre il Padre l’amoroso affetto,
     Quando il figlio a lui torna e il figlio abbraccia,
Io così, che finor da lui fuggendo
     10Per sentier ciechi andai, dopo error lungo
     Alle sue braccia pure alfin mi rendo;
Ma non ancora al caro amplesso io giungo,
     Perchè all’antiche nuove colpe unendo,
     A i primi chiodi nuovi chiodi aggiungo.


II


S’egli è mai ver, che per vie cupe e ascose
     Passando al mar s’incontrin l’acque e i fiumi,
     E le sembianze vestano, e i costumi
     Di tante oblique lor vene arenose:

[p. 73 modifica]

5Oh come il Tebro io veggio le spumose
     Linfe, e con seco mille algosi Numi
     Spinger per valli, e monti, e sassi, e dumi
     Del Pò a cercar le altere onde orgogliose!
E giunto ove ’l gran Re superbo siede
     10Presso sue torri, e presso i lidi suoi
     Apre alla bella copia albergo, e sede;
Rendi, gridar, rendi gl’illustri Eroi:
     Questi d’Amor bei modi, e questa fede
     Son trionfi di Roma, e non son tuoi.


III22


Isola bella, del valor più vero
     Sede e fonte d’invitti illustri Eroi,
     Dove Europa ripone i figli suoi,
     E lor v’apre d’onor nobil sentiero.
5Ecco, ecco sorge un fiero turbin nero
     Contra di te dagli empi lidi Eoi:
     Ecco s’accosta, e già minaccia i tuoi
     Mari e già turba il tuo felice impero.
E tu pur t’assicuri, e le sì forti
     10Braccia, ch’hai fuora, a te ritiri e stai
     Meditando ruine e stragi e morti?
Deh, se vuoi vinto il fiero nembo, omai
     Alza sol sulle mura, alza su i porti
     La tua candida Croce; e vinto avrai.


IV


Io ben l’udìa, ma non credea poi tanto
     Del bel garzon, della gentil donzella;
     Ch’ei così vago, ed ella così bella
     Fosser, come correa d’intorno il vanto.
5Or ch’io li veggio colle Grazie accanto,
     E con gli Amori, e sento la favella,
     Benedico quel dì, che quello, e quella
     Strinsero il nodo prezioso, e santo.

[p. 74 modifica]

E chiamo quei, che dopo noi verranno,
     10Che guardin fisso i duo vaghi sembianti,
     Se di fiamma sublime arder vorranno;
Nè sien mai stanchi di tenere innanti
     Quelle due vaghe idee, che in lor vedranno
     Lo specchio degli Amori, e degli Amanti.


MICHEL BRUGUERES.


I23


Tu, che dal freddo polo al polo adusto
     Gran monarca trionfi, e gran guerriero,
     Ch’hai per scettro temuto il brando augusto,
     E del Mondo ogni parte hai per impero;
5Deh perchè contend’oggi il tuo pensiero
     Col pescator di Roma un lido angusto?
     Ferma, o Gallo immortal, che non è giusto
     Di far, che pianga, or ch’innocente è Pietro.
Se gl’arbìtri del Mondo il Ciel, ch’è pio,
     10A te donò, perchè donar non puoi
     Poca parte di Roma al Cielo, a Dio?
Se pur parte di Roma in Roma vuoi,
     Ti basti il Campidoglio: ah non s’udìo,
     Che altra parte di Roma abbian gli Eroi.


II


Vidi l’uom come nasce, e chi sostiene
     Del freddo cranio il necessario ardore,
     D’onde i nervi ramosi uscendo fuore
     Son delle membra mie salde catene.
5Vidi per quali strade il sangue viene
     Nella fucina a ribollir del core,
     E per l’arterie il conservato umore
     Con perpetuo girar torni alle vene.

[p. 75 modifica]

Vidi pronto a nudrir chilo vitale,
     10E come prenda un sonnacchioso oblio
     In sì bella prigion l’Alma immortale.
Venga chi poscia ha di mirar desìo
     L’eterna Provvidenza in corpo frale,
     E osservi l’uom chi non conosce Iddio.


III24


Invittissimo Sire, al cui valore
     Le superbe cervici il Mondo inchina,
     Alla cui maestà pronta destina
     La Fama istupidita eterne l’ore;
5Or che dal suo covile uscito è fuore
     Il tracio mostro ad apportar ruina,
     A empier l’Istro di sangue e di rapina
     E di strage e di lutto e di terrore;
Sire, la clava tua, che i mostri atterra,
     10Non l’uccide, e nol fuga? e quai litigi
     Fan, che non voli a trionfarlo in guerra?
Soffrirai spettatore entro Parigi,
     Che le future età dicano: in terra
     V’erano i mostri, e pur vivea Luigi?


IV25


Vergine, tu, sotto il cui manto aurato
     Fu ne’ perigli suoi Roma difesa,
     E scuotendo la terra un Dio sdegnato
     Fu dal tuo pianto assicurata, e illesa;
5Oggi, che l’Asia infida è tutta intesa
     A condur sull’Italia un Mondo armato,
     Mentre col suo Pastor piange la Chiesa,
     Porgi al nostro dolor lo scampo usato.

[p. 76 modifica]

Perchè il tuo soccorso omai si scopra,
     10Tu i Re discordi in sagra guerra aduna,
     Pronti già per tua gloria alla grand’opra.
Nè chiedo io già con supplica importuna
     La tua possente man, ma solo adopra
     Quel piede avvezzo a calpestar la Luna.


FRANCESCO BRUNAMONTI


I


Fermare a i fiumi il corso, a i venti il moto,
     Trar gli alti monti, e l’alte selve seco,
     Far, che i tigri, e cignai non guardin bieco,
     E ch’ogni serpe di venen sia vuoto;
5Fin là, ve l’uman stame attorce Cloto,
     Gir, e far guerra, o Re di stige, teco,
     E trar mill’alme dal tuo bujo speco
     Fin sul Ciel, che pur troppo a te fu noto;
E dar lassuso a quelle eterne menti
     10Con prodigi non mai visti finora
     Nuovi di maraviglia ampi argomenti;
Opre sono di lui, che qui s’adora:
     Il sa l’Egitto, il san tutte le genti
     Nate, e ’l sapranno le non nate ancora.


II


Astrea, dice talun, stava fra nui
     Quando il vecchio Saturno ci reggea,
     E per li boschi in pace si vivea,
     Senza dir: questo è mio, quello è d’altrui.
5Ma poi, ch’il vizio uscì dagli antri sui,
     E quella buona gente si fè rea,
     Partissi, e nel partir pur si volgea
     Dicendo: non vo più tornar fra vui.
Io no ’l dico però, che già la veggio
     10Più, che mai lieta circondar d’allora
     Due belle fronti al picciol Reno in riva;

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E fra poco vedrò sul primier seggio
     Lei coll’altre compagne, e affatto viva
     La rimembranza dell’età dell’oro.


MARIA BUONACCORSI.26


Giva Febo di se fastoso un giorno
     Per l’arti sue sì rinomate, e rare,
     Per cui, coll’una fa l’alme sì chiare,
     Coll’altra scaccia i rei malor d’intorno;
5Quand’ei mirando dal gran carro adorno
     Là ’ve corre il bell’Arno al tosco mare,
     Vide l’istesse sue virtù preclare
     Splender nel Redi, e n’ebbe invidia, e scorno.
Di sdegno allora, e di livor dipinto
     10Il volto, ei disse: E che dirà mai Delo,
     Se un Mortal mi pareggia, e forse ha vinto?
E preso a un tempo il più terribil telo,
     A lui vibrollo, e ’l pose a terra estinto;
     Ma poi pietoso lo ripose in Cielo.


GIULIO BUSSI.


I27


Sognata Dea, che da princìpi ignoti
     Avesti pria tra ’l volgo ignobil cuna,
     Indi crescendo i creduli divoti
     T’ersero altari, e ti nomar Fortuna:
5Superba sì, che quanti il Ciel raguna
     Negli ampi giri astri vaganti, e immoti
     Chiami tue cifre, e senza legge alcuna
     Per dar legge a i Mortali usurpi i voti.
Su base istabil di rotante sfera
     10Di confondere il Tutto hai per costume,
     Sorda, cieca, ostinata, ingiusta, altera.

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Tu Dea non già: ma chi teme o presume,
     Mentre vile paventa, o indegno spera,
     Per incolparne il Ciel ti finse un nume.


II28


Signor, tempra l’affanno, e al ciglio augusto
     Rendi il sereno, onde gioisca il mondo:
     Grav’è l’incarco, è ver, ma al grave pondo
     Chi di se men confida è più robusto.
5Sgridar potriasi il tuo timor d’ingiusto
     Dal tuo gran cor d’ogni virtù fecondo;
     Ma, s’ei tace modesto, odi facondo
     Dirti il Cielo: Io ti scelsi, ed io son giusto.
E ben mirasti a i primi albor del regno
     10Scintillare improvisa Iri di pace,
     Di fortunato impero e dono, e pegno.
Deh, mio Signor, perdona al labbro audace:
     Della Chiesa di Dio farti sostegno
     Se il Ciel vuol, s’a Noi giova, a Te dispiace!


III


Signor, non già perchè l’eterne, e belle
     Gioie tu doni ai puri spirti e santi,
     O perchè al regno degli eterni pianti
     Danna la tua giustizia alme rubelle,
5Fia, che tema, ò speranza a queste, o a quelle
     Opre rivolga i miei desiri erranti
     Nè che affetto servil vincer si vanti
     Alma simile a te, nata a le stelle.
Ma di santa superbia acceso il core
     10Ciò, che non piace a te, fugge sdegnato,
     Per pugnar quanto può teco in Amore.
Io bramo più di riamarti amato
     Che l’acquisto del Cielo, ed ho in orrore
     Più dello stesso Inferno esserti ingrato.

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IV.


Raggio dello splendor sommo immortale
     Che il basso Mondo ad illustrar discendi,
     Bella virtù, che dove infiammi, e splendi
     Quasi togli al Mortal l’esser mortale;
5A te ricca di te null’altra cale,
     Ma di te stessa in te paga ti rendi,
     E fuor di te nulla bramare intendi,
     Perch’a te nulla è in paragone eguale.
Appo a te son mendichi e l’Indo, e ’l Moro;
     10E la forza, e l’ardir perde fortuna,
     Che tu la sorte sei, tu se’ il tesoro;
Il Bel, diviso in altri, in te s’aduna;
     Tu gloria, tu piacer, pace, e ristoro;
     Se v’è felicità, tu sei quell’una.


V.


Invidia rea di mille insanie accesa,
     Veggio i tuoi lampi, anzi che i tuoni ascolto,
     Ma non fia già, che sbigottito in volto
     Io de’ fulmini tuoi tema l’offesa.
5Qual folgore, che a rupe alta, e scoscesa
     Squarciando il sen scopre un tesoro accolto
     Tale, se il tuo livor barbaro, e stolto
     Lacera altrui, le altrui virtù palesa:
S’oltraggiare i migliori è tuo talento,
     10Mentre oggetto d’invidia esser degg’io
     Superbo andrò dell’ira tua contento.
E per rendere eterno il nome mio,
     Nell’aringo d’onore, a gloria intento,
     Invidia, altri ti teme, io ti desìo.


VI.


Questa vita mortal, ch’altri sospira,
     E dice per error fugace, e breve,
     S’occhio saggio a mirarla in lei s’aggira,
     Perchè lunga è così doler ne deve.
5Lunga è al fanciul l’età, che in fasce il gira;
     La sferza altra ne rende a lunga, e greve:

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     Lungo è poi il vaneggiar d’amore, e d’ira,
     Lunga è vecchiezza ed a soffrir non lieve.
Così lunga ogni età sembra a chi vive;
     10Ma giunto il fin, ne duole, e un punto solo
     Poi sì varie lunghezze ogn’uom descrive.
Onde dico al mio cor: Sorgi dal suolo;
     Che dà il Mondo, se i dì, ch’ei ne prescrive,
     Vivergli è pena, e terminargli è duolo?


VII29


Donna real, cui diè Senna la cuna,
     Sarmatia il Trono, e Roma t’apre il Cielo,
     Che con alma sì bella, in sì bel velo
     Già di te festi innamorar Fortuna.
5Ella un serto ti diè; ma te n’aduna
     Altro di stelle la pietade, e ’l zelo:
     Emula al gran Consorte, egli col telo,
     Co’ voti tu festi ecclissar la Luna.
Manca per maggior gloria al figlio un regno;
     10Sorte l’offrì; ma il genitor, non voglio,
     Gridò dal Cielo; e fu pensier più degno.
Io, disse, gli mostrai come l’orgoglio
     Si domi al trace. Ha di regnar disegno?
     Vada a ritorre al gran tiranno il soglio.


VIII


Poi che superbia rea l’alme più belle
     Rapì dal Cielo, e fè cangiare in mostri,
     Mille colà dentro i tartarei chiostri
     Nacquer da incesti rei furie novelle.
5Frode ed invidia al ben oprar rubelle,
     Spargeste allor primiere i toschi vostri:
     Avarizia, e lascivia a’ danni mostri
     Sorsero, al lusso e all’interesse ancelle.
Ma per unir d’ogn’altra in una i mali,
     10In cui tuto stillossi il pianto eterno,
     Ebbe l’ingratitudine i natali;

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Deforme sì, che con obbrobrio, e scherno
     Abborrendola in se, fra noi mortali
     Pieno d’orror la rigettò l’Inferno.


IX


Gloria, che sei mai tu? per te l’audace
     Espone a i dubbi rischi il petto forte;
     Su i fogli accorcia altri l’età fugace,
     E per te bella appar l’istessa morte.
5Gloria, che sei mai tu? con egual sorte
     Chi ti brama, e chi t’ha perde la pace;
     L’acquistarti è gran pena, e all’alme accorte
     Il timor di smarrirti è più mordace.
Gloria, che sei mai tu? sei dolce frode
     10Figlia di lungo affanno, un’aura vana,
     Che fra i sudor si cerca, e non si gode.
Tra i vivi, cote sei d’invidia insana:
     Tra i morti, dolce suono a chi non l’ode:
     Gloria flagel della superbia umana!


X


Qual aprono al mio sguardo amore, e sdegno
     Sui monti di Giudea teatro atroce!
     Reso è Gesù dell’altrui rabbia il segno,
     Ma più dell’altrui rabbia amor gli noce;
5Oltraggia il sacro sen furore indegno;
     Amor tormenta il cor vie più feroce;
     L’ira tronco crudel diegli in sostegno;
     Amore al cor del suo desìo fè Croce.
Così lui in Croce, e il cor ne i desir sui
     10Trafissero ad un tempo ira, ed amore:
     Rassembra un Crocifisso, e sono dui.
Quindi è, ch’il seno, aperto un doppio umore
     Sparger si vede a beneficio altrui,
     Il sangue delle vene, e quel del core.

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XI30


Poichè la bella Ebrea l’alto pensiero
     Per la fè, per la patria in se rivolse;
     Tutta piena di Dio, con guardo altero
     Quindi a beltà, quincia virtù si volse.
5Voi siate meco, disse; e il lusinghiero
     Viso, e ogni vezzo in lei beltade accolse:
     Virtù dielle il vigore, e così il fiero
     Duce trafisse, e il patrio suol disciolse.
Oggi torna Giuditta, e tanto appaga
     10Colle dolci armonie di stil sì degno,
     Ch’io non so se in Betulia era sì vaga.
So, che l’ire rivolse a più bel segno:
     Se un Duce uccise, or l’Obblìo cieco impiaga,
     Mostro là di fortezza, e quì d’ingegno.


XII31


Qual mi destano in petto alto stupore
     Queste, che gran pennello in tele avviva,
     La romana Lucrezia, Elena argiva,
     L’una d’amor trofeo, l’altra di onore!
5Quella, perchè la colpa ebbe in orrore,
     De Regi suoi l’augusta Patria ha priva;
     Questa, perchè gradì d’esser lasciva,
     Fè la famosa Troia esca d’ardore.
Oh scherzo di destin troppo spietato!
     10La potenza di Priamo allor fu doma
     Sol da ciò che ai Tarquini avria giovato.
Tebro, avriano i tuoi Re serto alla chioma,
     Santo, vivrebbe ancor Troia, se ’l fato
     Dava Lucrezia a Sparta, Elena a Roma.


XIII


Su’ lacci, e reti, Elpino, al colle, al piano;
     Sen riede autunno a dar le fere ai campi;

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     Del men fervido Sole a i dolci lampi
     Torna ogn’augello a noi da Ciel lontano.
5La vana lodoletta, e il tordo insano
     Corron delusi ai preparati inciampi,
     E sembra già, che di bell’ira avvampi
     L’astuto veltro, ed il veloce alano.
Si desti a pronta fuga il lepre vile:
     10Il rabbioso cignale a fier cimento:
     Cerchiam le caute volpi entro il covile.
Chi vuol goder, s’armi a i lor danni intento,
     Che pur troppo è del Mondo usato stile
     Trar dall’altrui periglio il suo contento.


XIV


Al prato, al prato Elpin: flauti, e zampogne
     Recate, o ninfe; ecco ritorna Aprile;
     Zingaretta del Nil vaga e gentile,
     Già lo venne a predir garrula progne.
5Sembra, ch’ogn’altro fior sgridi e rampogne
     Di tarda, e villa violetta umile;
     E deposto di neve il crin senile
     Par, che le nuove frondi il bosco agogne.
Già tesse filomena ai figli il nido:
     10Esce al tepido Sole ape dorata:
     Bacia il ruscel dal giel disciolto il lido.
La Terra, e il Ciel ride a stagion sì grata.
     Ridiam; mancato è il verno. Ah di che rido!
     È alla mia vita una stagion mancata.


XV


D’un limpido ruscello in sulle sponde
     Scherzando un dì sedean Clori, e Daliso;
     Quando inchinar sul rivo ambo il bel viso,
     Egli lei vide, ed ella lui nell’onde.
5Mira, disse il pastor, come nasconde
     Perle, e coralli il rio, quand’apri un riso:
     Ma tu non vi mirar, s’altro Narciso
     Non vuoi cadervi, allor Clori risponde.
Lieto ei gridò; sì vi cadrei, poi tacque;

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     10E mormorò: se fossi tu Salmace;
     Ma passò il gregge, e intorbidò quell’acque.
Pur Clori udillo, e a raffrenar l’audace,
     Disse: apprendi, o pastor; quel rio, che piacque
     Fin che puro correa, torbido spiace.


RUGGERO CALBI.


I


Or che del lustro ottavo alfine omai
     Son giunto, do un’occhiata al tempo scorso,
     Ed al presente, che ’l vital mio corso
     Affretta, ed è di pria più ratto assai;
5E seco trae gl’empi piaceri, e i guai
     Che soffrii, per non porre ai sensi il morso
     Indi fa cenno a Morte, e invan soccorso
     Chieggio, e mercè, che non s’ottenne mai.
Onde grido: oh felici Giovanetti,
     10Ch’aprite gl’occhi a sovraumano lume,
     E soffocate i caldi, e ciechi affetti!
Misero me, che in preda a rio costume
     Parmi, che in me rivolga uniti, e stretti,
     E tempo e morte inesorabil Nume.


II


Quella, che nel mio cor trionfa, e regna
     Alma beltade, a rio malor già cede;
     E nel bel volto, ch’è d’Amor la sede,
     Tenta morte spiegar l’orrida insegna.
5Padre del Ciel, per lei che a noi disegna
     Quella, che ne prometti alta mercede,
     Per lei, che a noi fa del tuo Bello fede,
     S’arte non puote, la tua destra impegna.
Ch’ora, che conosciano esser mortale
     10Valore, gentilezza, e leggiadria,
     Che quà nel Mondo non conosce eguale,

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A te, Padre immortal, l’alma s’invìa:
     Ma lei ci serba, che a svegliar sì vale
     La nostra mente a tanto vol restìa.


FERDINANDO CAMPEGGI.


I


Elpino, esce il leon fuor delle orrende
     Sue selve, e a monti e valli intorno gira,
     E anelando, e ruggendo il furor spira,
     Che in lui, natura, e più la fame accende.
5Trova al fine un destrier, che il pascol prende
     Sì lontani dal pastor, che appena il mira:
     Tosto l’incalza, e vie più acceso d’ira
     L’ugne interna nel dorso, e al suol lo stende.
Spuma egli, ed urla invano, invan percuote
     10L’aria co’ calci, e si dibatte, e freme
     Ch’ei lo lacera, e squarcia a brano a brano.
Vedi, ’ve libertà trasse l’insano
     Destriero. Elpin, quel giogo, ch’or ti preme,
     Forse a gran danno tuo date si scuote.


II32


Perchè trarmi, Signor, dal sen materno,
     S’esser dovea, qual mi vedesti ingrato?
     Di quant’onor per te fora mai stato,
     Ch’io mi stessi entro il gran pensiero eterno!
5O perchè almen non far, che a pena entrato
     In questa luce io vi restassi scherno
     Di morte, e fosse il mio nome celato
     Colà tra le più cieche ombre d’Averno?
Che non vedresti a te rivolto l’empio
     10Re degli abissi andar dicendo: questi,
     Che uscì dalle tue mani, or’è mia preda.
Ma se fia mai, la tua mercè, ch’io veda
     Dell’armi sue farsi ruina e scempio,
     O quanti avrai d’intorno inni celeste.

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GIACOMO CANTI.


I


Serio voler di crude stelle irate
     Mi toglie a forza al dolce suol natìo,
     Non siete voi, che lagrimar mi fate,
     Pastori amici, ch’or lasciar degg’io:
5Nè queste piagge sì fiorite e grate,
     Nè il caro armento, e il fresco ombroso rio:
     Sol cagioni del mio duol sono l’amate
     Luci leggiadre del bell’Idol mio.
Che se lontan da lor fia pur, ch’io viva,
     10Spingami il mio destino ovunque vuole,
     Troverò ciò che perdo, in altra riva.
Ma voi pupille del mio vago Sole,
     S’iniquo Ciel de’ vostri rai mi priva,
     Dove più troverò, se siete sole?


II


O Pastorella che su verde riva
     Siedi sol di te paga, e fuggi Amore,
     Chinando gl’occhi sdegnosetta, e schiva,
     Se a te volge lo sguardo alcun pastore;
5Cangia, cangia pensiero e nel tuo core
     Amor ricevi, e il suo bel foco avviva:
     Andrai, se provi sì gentile ardore,
     Piangendo il tempo, che ne fosti priva
Ama ogni pianta; ne’ più folti, e densi
     10Boschi ogni fera, e ’n Cielo ama ogni stella,
     E sola senz’amar viver tu pensi?
Cangia, cangia pensiero, o pastorella
     Folle, non sai, com’a te mal conviensi
     L’esser priva d’amore, e l’esser bella?


III


Odo talor da chi passarmi vede
     Col viso smorto, e gl’occhi mesti, e bassi,

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     Dir: costui certo arde d’amore, e stassi
     In pene, e guai senza sperar mercede.
5Pur l’aspra mia nimica ancor non crede
     Ciò, ch’altri dice, e ch’ancor sanno i sassi,
     E spargo al vento le parole, e i passi,
     Se cerco al mio gran male acquistar fede.
Talchè sono già presso a uscir di vita;
     10Nè mi cale il morir, che so, ch’io porto
     Purtroppo al core aspra mortal ferita.
Ma vorrei ben giacchè mi muoio a torto,
     Che la crudel dopo la mia partita
     Credesse almen, che sol per lei son morto.


IV


Io so ben la cagion, perchè senz’onde
     Voi siete, o fonti, e l’erbe il lor vigore
     Non hanno, e i fiori il bel natìo colore,
     E son questi arboscei privi di fronde;
5Mancata è loro la virtù, ch’infonde
     Con quei begl’occhi, ove risiede Amore,
     Colei, che per mio grave aspro dolore
     Noiosa lontananza or mi nasconde.
Ma se fia mai quel dì, ch’io non lo spero,
     10Ch’elle ritorni in questa secca arena,
     E volga intorno il suo bel guardo altero;
Torneran l’acque ai fonti, e di fior piena
     Vedrem la terra in suo stato primiero,
     E cangiarsi in contento ogni mia pena.


PRUDENZA GABRIELLI CAPIZUCCHI.


I


Ragion, tu porgi alla confusa mente
     Della tua luce un raggio almo e sereno:
     E mostri a quanti error disciolga il freno
     Un cor, che a vil caduco amor consente.
5Onde del Bel, che a lagrimar sovente
    N’astringe, io fuggo il rapido baleno:

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     Che non sì tosto il vedi, egli vien meno,
     10E brev’età tutte sue forze ha spente.
Faccia pur altri a se meta fatale
     Lo splendor d’un bel volto; ed in poch’ore
     Abbia il Bello, e l’amor la sorte eguale.
Io che nobil racchiudo in petto ardore,
     Non fò pago il pensier d’oggetto frale,
     Perchè eternar bramo nell’alma amore.


II


Di duolo in duolo e d’una in altra pena
     Vago del mio martir mi tragge Amore:
     E il grave incarco, ond’è sì oppresso il core
     È tal, che tempo, nè distanza affrena.
5E di tai tempre ei mi formò catena,
     Che disper’io di trarre il piè mai fuore:
     Tanto può in me l’inusitato ardore,
     Ch’ormai me stesso io più ravviso appena.
Il rio timor, la gelosia m’attrista,
     10La falsa speme, il dispietato sdegno,
     La brevissima gioia al dolor mista.
Sol tra gli affanni arsi d’Amor nel regno:
     Che fia non so s’ei maggior forza acquista;
     So, che ad ogni suo stral son fatto segno.


III33


Signor, se irata contra te risorge
     Con nuovi assalti suoi l’istabil sorte
     Non già t’opprime, anzi teatro or porge
     A tua invitta costanza al petto forte.
5Un nobil core infra i martir si scorge,
     E i perigli alla gloria apron le porte:
     Io già ti veggio appo l’età, che sorge,
     Signor degl’anni, e vincitori di morte.
So ben che invidia rea solo a’ tuoi danni

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     10Tutti muove gli abissi a mortal guerra;
     Ma non val contra te forza d’inganni.
Così quand’Eolo il freddo antro disserra,
     Di sue frondi non men carca, che d’anni
     Scuote quercia talor, ma non l’atterra.


ANTONIO CARACCIO


I34


Poichè l’emula immago alfin compita
     Carlo ne offrì della silvestre Diva;
     E si vedea dipinta nò, ma viva
     La tela, che il pennello ha colorita:
5Colei, che della frale umana vita
     Gli stami avvolge, e lor filando avviva,
     Gettò le rocche, e dispettosa, e schiva
     Per tutto il Ciel fu querelarsi udita.
Deh, Giove, deh! dell’animar si cessi
     10Più le lane quassù; scorger tu dei,
     Ch’anima han colaggiuso i lini stessi.
Giove rispose sorridendo a lei:
     Cessi timor, ch’a far le vite elessi.
     Sol per gli uomini voi, lui, per gli Dei.


II


In quella età, che al giuoco intenta e al riso,
     Liberi d’ogni cura i vanni scuote,
     lo vidi Amor con spesse e varie rote
     Volar, qual’ape, intorno ad un bel viso.
5Ed or restarsi in fra due poma assiso
     Del petto, che oscurar l’avorio puote,
     Or sopra i fior delle vermiglie gote
     Pascersi d’uno sguardo, o d’un sorriso.
Io con desir pur fanciullesco e vano,
     10Tanto il tracciai d’uno in un’altro errore,

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     Che per un’ala alfin mi venne in mano.
Mi avvidi allor di quel, che fosse Amore;
     Che nel pigliarlo, ei m’impiagò la mano,
     Ma dalla mani corse il veleno al core.


FRANCESCO MARIA CARAFFA.


I


Lasso! E quando! fia mai; che un sol momento
     Di non caduca pace abbia il mio core?
     Vivo tra fiamme, e al pertinace ardore
     L’onda del pianto mio porge alimento.
5E se tra mille strazi un sol contento
     Talor mi dona ’l mio tiranno Amore:
     Tosto il piacer degenera in dolore,
     E dal diletto mio nasce il tormento.
Così la serie de’ miei casi il fato
     10Di rotte fila ha di sua mano ordita,
     Che manca e muore il bene appena nato.
Mista alla gioia mia doglia infinita
     Ritrovo sempre; e in sì penoso stato,
     Vivendo io moro, e sol morendo ho vita.


II


Sin da primi anni or vilipeso: or grato
     Servii pien di speranza, e di timore;
     Molt’oprai, nulla ottenni; onde il mio core,
     Vano conobbe il contrastar col fato.
5Quindi lasciando nel bel volto amato
     Tutta la speme mia, meco il dolore
     Peregrinando io trassi, e meco Amore,
     L’alma accesa, il piè avvinto, e ’l cor piagato.
Giunto nell’Adria alfine, in fra quell’acque
     10Spensi il foco primier, ma quivi ancor
     Vie più cocente ardor poi ne rinacque.
E sento Amor, che mi ridice ognora:
     Se un antico desìo già teco nacque,
     Vuò, che nuovo dolor teco si more.

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III


Per voi dal primo dì, chi vi mirai,
     D’inestinguibil fiamma arse il mio core;
     E in quel sublime, e prezioso ardore,
     E martiro e diletto in un provai.
5Ma ben tutto il poter de’ vostri rai
     Sentii, quando per me vi punse Amore,
     Poichè da’ vostri allor preso vigore,
     Crebbero nell’alma, e s’innasprir miei guai.
Quindi d’ingiusta e cieca gelosia
     10Preda vi vidi, ond’è, che nel mio stento
     Provo la sorte ed or ad or più ria.
Sì d’ogni vostro mal fò mio tormento,
     Che del vostro fallir la pena è mia,
     E del vostro dolor l'affanno io sento.


TIBERIO CARAFFA


I


O Re de’ fiumi, ch’in tributo accogli
     Mille d’Italia fiumi alti sonori,
     Questi tratti da duol tepidi umori,
     Che per gli occhi a te porto, a grado togli,
5Forse al più cupo fondo ti raccogli,
     Mentre gonfio di sangue, e di sudori,
     Sparso d’ossa insepolta, e d’altri orrori,
     Ti rendon d’aspro Marte i fieri orgogli.
Così rida, la pace alle tue sponde,
     10Ove le sacre Ninfe spaventate
     Più non osano alzar le trecce bionde!
I miei caldi sospir deh! per pietate
     Odi, ed ergendo il bianco crin dall’onde
     Dimmi: Vedrò mai le luci amate?


II


O de’ fuggiti miei dolci contenti,
     A cui tristo il pensier fa ognor ritorno,

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     O del soave altero lume adorno,
     Avanzi amari, empie reliquie ardenti;
5Voi larve, voi de’ miei piacer già spenti
     Ombre, e del ben, che mi fea chiaro il giorno;
     Or di flagelli armate entro e d’intorno
     Siete ministre, ohimè! de’ miei tormenti.
Lasso! che son? che fui? Dal terzo Cielo
     10Fra le grazie e i diletti e i dolci amori,
     Come nel foco alfin caddi, e nel gelo!
Dell’inferno d’Amore i cupi orrori
     Han di stige il rigor: ma (quel, che anelo)
     Non han di Lete i disperati umori.


III


Filli, ti sacrai l’alma, e non fu mai
     Di quel, che a te mi strinse, amor più bello,
     Ma nè pur del tuo core un più rubello
     Sotto più belle forme unqua mirai.
5Che mentre per fallaci infidi rai
     Mi tralucea sì vago, io corsi a quello:
     Ma, come a chiaro specchio incauto Augello,
     Trafitto in aria al bel lume restai.
E caddi semivivo, e prigioniero
     10Mi ritenesti in gabbia d’oro, e invano
     Salute e libertade indi più spero.
Pur non men dolsi; ma ben fu inumano
     Strazio, quando il mio cibo lusinghiero
     Porger’io vidi altrui dalla tua mano.


PIETRO PAOLO CARRARA.


I


Frema pur di fortuna il mare irato
     Contra il naviglio dell’afflitto core,
     E muova a danni suoi pien di rigore,
     Con orride tempeste avverso fato:
5Ch’io di coraggio, e sofferenza armato
     N’andrò bersaglio del crudel furore,

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     E piegandomi umìl nel gran terrore,
     Farò core al mio cor se fia turbato.
So, che gir fra gli scogli, e le procelle
     È un estremo periglio; ma si faccia
     L’alto voler di chi creò le stelle.
Un’Alma è grande, se allorchè minaccia
     Irato il Ciel sorti crudeli o folle,
     Lor mostra lieta invariabil faccia


II


Quel, che vedi colà languido Rio
     Volgersi intorno alle gran ripe oscuro,
     E denso quasi stagno, egli è l’impuro
     Lete, che da la valle inferna uscìo.
Tuffansi l’Alme pria nel flutto rio,
     Quando s’appressa il lor viver futuro;
     Poi fan ritorno al nuovo carcer duro,
     Ogni Passato lor posto in obblìo.
Nasce quell’onda in seno a Dite immondo,
     E tal ria porta qualità dal fonte,
     Che del Passato ogni memoria toglie.
Quivi non sol, ma in grembo ancor del Mondo
     Un rivo di tal’acqua il corso scioglie
     E a ber ne son l’ingrate Anime pronte.


III


O Tu, che del mio Ben l’almo sembiante
     Con vivaci colori esprimer dei,
     Dimmi perchè sì tarde e lento sei.
     E par stringhi il pennel con man tremante?
Forse l’arte non ha luce bastante,
     O pur non reggi a mirar fisso in lei?
     Simil sorte provar gli sguardi miei,
     E sullo Amor, che ancor mi ride avante.
Ma se dal mio bel Sol ritrar non puoi
     L’esterna spoglia, cui forza è che adore,
     Come quell’alma pingeresti a noi?
Pigro Pittor, già ti prevenne Amore,

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     Che con gli acuti alati dardi suoi
     Scolpì la bella immago entro il mio cuore.


IV


Forte pensier ne’ miei desiri affiso
     Mi spinse un giorno alla magion d’Amore
     E giunto all’inuman fiero Signore,
     Ch’era sul tron cinto di fiamme assiso:
5Vidi il barbaro tetto, e tutto inciso
     Era a note di pianto e di dolore,
     Mentre d’intorno un indistinto orrore
     Scorreva ognor per tener lungi il riso.
Folte schiere d’Amanti afflitte e smorte
     10Alto quivi piangeano, e fin la speme
     Io vidi mesta, e in volto umìl la sorte;
E il crudel, che d’ognuno udìa la pena,
     Sai mio cuor, che facea? Dannava a morte
     Chi soffrir non volea la sua catena.


MONSIGNOR GIO. DELLA CASA.35


Cura, che di timor ti nutri e cresci,
     E più temendo maggior forza acquisti,
     E mentre colla fiamma il gelo mesci,
     Tutto il regno d’Amor turbi e contristi:
5Poichè ’n brev’ora entro al mio cor hai misti
     Tutti gli amari tuoi, dal mio cor esci:
     Torna a Cocito, ai lagrimosi e tristi
     Campi d’inferno; ivi a te stessa incresci.
Ivi senza riposo i giorni mena,
     10Senza sonno le notti; ivi ti duoli
     Non men di dubbia che di certa pena.
Vattene: a che più fiera che non suoli,
     Se ’l tuo venen m’è corso in ogni vena,
     Con nove larve a me ritorni e voli?

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GIO. BARTOLOMEO CASAREGI.


I


Poichè la mia spietata aspra sventura
     Vuol, che ognor dal mio Ben lontano io viva,
     Amor della mia vita acerba e dura
     Col dolce rimembrar in stato avviva.
5Farmi presente ad or ad or procura
     Quella, di cui convien, che spesso io scriva,
     Sicchè vicina già la raffigura
     Il senso stesso nell’immagin viva.
Se volgo al Ciel lo sguardo, e miro fiso
     10Cinto di pura luce il Sol, tal sei
     Mirzia, grido, tal sei nel tuo bel viso.
Se veggio un fior, parmi veder colei,
     Se guardo il mar, nel mare io lo ravviso;
     Onde lei trovo in Tutto, e Tutto in lei.


II36


L’immensa luce, onde veggiam Natura
     D’oro il Sole, e d’argento ornar la Luna,
     Oh come è vaga, e bella! e pure alcuna
     Ombra, o nebbia talor l’ingombia, e oscura.
5Ma tu bella sei tutta, e tutta pura,
     Vergine intatta, e il tuo candor pur’ una
     Macchia non guasta un sol’ istante, o imbruna
     Ombra di colpa originale impura.
Se di tal pregio adorna era colei,
     10Che l’immagin divina in noi disfece,
     Tu nol sarai, Tu che avvivarla or dei?
Il suo gran fallo oltraggio a te non fece;
     Di Dio Madre ab aeterno eletta sei:
     Madre insieme, e nemica esser non lece.


III


Se mai non fu largo perdon conteso
     A cor piangente umìl, mira, Signore,

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     Questo, che, scosso di sue colpe il peso,
     Sull’ali alfin sen vola a te d’Amore.
5Non perchè te d’altra vendetta acceso
     Ei vegga, i suoi delitti ave in orrore:
     Che Ciel? che Inferno? Ah per un Nume offeso
     Da più nobil cagion nasca il dolore.
Te solo in te, non il tuo bene io bramo;
     10Nè il mio mal temo, e solo i falli miei,
     Perchè nemici all’amor tuo, disamo.
Nè perchè m’ami, io t’amo; io t’amerei
     Crudele ancor, come pietoso io t’amo;
     Amo, non quel, che puoi, ma quel, che sei.


IV


Colti v’ho pur, fischiando allor qual angue,
     Polifemo gridò; ne l’empia tresca;
     Ma se l’usato in me vigor non langue,
     Aci, non fia, che tu di mano or m’esca.
5Dal seno il cor strapparti, e del tuo sangue
     Vuo’, che la spiaggia e ’l mar rosseggi, e cresca,
     E la perfida vegga il caro esangue
     Corpo giacer, di fere orribil esca.
Tacque, e gran sasso svelse, e giù dal monte,
     10Poichè sopra a se tutto alzato l’ebbe,
     Lo scaglia, ond’Aci allor percosso in fronte
Cadde, e di Galatea tanto gl’increbbe,
     Che per seguirla trasformossi in fonte,
     E nuovo fiume al suo bel mare accrebbe.


V


Oh dolce vin, mio solo amor, mia Dea,
     Sommergitor d’ogni altra cura avversa!
     Viva Bacco, evoè, che il cor mi bea
     Evoè, spandi, spandi, versa, versa
5Or vada, si precipiti dispersa
     La greggia mia, purchè a ribocco io bea;
     Purch’io bea, m’odi ognor quella perversa,
     E Polifemicida Galatea.
Ma ve’ laggiù, com’ella in riva opaca

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     10Il mio nemico alto piangendo impazza,
     E crinisparsa per dolor s’indraca.
Ecco già tutta la nereida razza
     Contra me spinge; ma già già si placa,
     Se impugno sol la mia possente tazza.


VI


Aci, non ti partir, stiam cheti e bassi,
     Che mille aguati il traditor ne tende:
     Carpone or salta, or per alpestri sassi
     Brancolando s’aggrappa, e sale e scende.
5Dietro a un cespo talor furtivo stassi,
     Gli orecchi aguzza, e il collo innanzi stende;
     Quindi celeremente i lunghi passi
     Volge là dove alcun susurro intende.
Ve’ tu quell’alta rupe? or quella è donde
     10Guatar ne suol; però l’appiatta, e copri
     Quà sotto, ch’ei non può vederne altronde,
Poi le sue forze insidiando adopri.
     Pur temo ancor: che quel ch’amor nasconde:
     Tu spesso invidia e gelosìa discopri.


VII37


Ma qual orrendo risonar bisbiglio
     Odo d’intorno a quest’alpestre roccia?
     Ov’è l’invitta mazza; Ecco s’approccia
     L’insidioso di Laerte figlio.
5Non mai ghermì con dispietato artiglio
     Rapace nibbio la tremante chioccia,
     Com’io già l’empio afferro ed arronciglio,
     Insin ch’io veggia di suo sangue goccia.
Al fiero pasto dei compagni aggiunto
     10Sarai ben tosto, maledetta volpe,
     S’avvien, che sii da queste man raggiunto.
Vuo, che il mio dente ti smidolli e spolpe,
     Col resto dello stuolo a te congiunto,
     Vendicatore di tue sozze colpe.

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VIII38


Per via de’ sensi entra il malvagio oggetto,
     E la nervosa region percote;
     Quindi unito a vapor sottile eletto
     Le fibre del cervello agita e scuote.
5Come in cera suggello impresso e stretto,
     Ivi lascia le forme ognor commote
     Da spiriti, che egilissimi ricetto
     Anvi per mille strade a noi mal note.
L’alma, ahi dura union! l’impeto sente,
     10E le agitate immagini le fanno
     L’oggetto ad or ad or vivo e presente.
Ivi incauta s’affissa: ed ecco ond’hanno
     Vita i pensier gli affetti e ogni altr’ardente
     Voglia, per cui sì spesso ho guerra e danno.


IX


Nel cupo sen di quella orribili fossa,
     Che fia del corso mio termine e centro,
     Con questa spoglia fral di spirto scossa
     Per mezzo del pensier talora io entro.
5Già sciorsi e imputridir mie membra ed ossa
     Fra vermi io veggio, e già mi scarne e sventro;
     Già in polvere mi struggo, oh fiera possa
     Del tempo! e nel mio Nulla al fin rientro.
Tetro silenzio, insopportabil lezzo,
     10Perpetua notte, eterno obblìo profondo
     Stan laggiù meco, e nausea orror disprezzo:
Ma il pensiero, allor ch’io più mi profondo,
     A sì funeste idee non bene avvezzo,
     Mi lascia, e ai primi inganni io torno al Mondo.


X39


Rabbioso mare infra Cariddi e Scilla
     Nell’onde sue voraginose assorba

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     Chi l’alma vite, onde ogni ben distilla,
     Gode in veder digrappolata ed orba;
5Nè stella per lui mai lieta e tranquilla,
     Ma sempre roti fulminosa e torba.
     Su, Galatea, quella gran botte spilla,
     E ’l suo nettare in Ciel Giove poi sorba.
In quello, in quello ambrispumante pozzo
     10Meco t’immergi, e lascia d’Aci il gorgo
     Povero d’acque limaccioso e sozzo.
Per te non poco e vile umore accozzo;
     Porporeggiante mare ecco io ti porgo:
     Ecco cent’otri albibeanti ingozzo.


XI


Se, pria che gli occhi a questa luce aprissi,
     Dato a veder m’avesse il Ciel la fiera
     De’ miei futuri mali immensa schiera,
     Onde ognor cinto io vò vivendo, e vissi;
5E posto avesse in mio poter, che uscissi
     A batter via sì dura e menzognera,
     Certo ancor mi sarei dov’io non era,
     Là del mio nulla entro gli oscuri abissi.
Che tosto di mia vita in sulle porte
     10Trovai pianto e travaglio, indi fui giuoco
     Or d’amore, or d’invidia, or della sorte;
E fuori e dentro, e in ogni tempo e loco
     Peno, e il fin del penar non fia che morte;
     E questo ancora a quel che io temo e poco.


XII


Ahi ch’io son morto, ahi che infernal Vesuvio
     M’arde il petto in seguir la costui traccia!
     Che fai scarso Sileno? Omai t’avaccia
     Di sbottar, di sgorgar di vino un fluvio.
5Col tuo soave assonnator profluvio
     Ogni mia pena micidial discaccia;
     Sdegno, sete, ed amor sommerso giaccia
     Dentro a questo di Bacco almo diluvio.
Così, poich’ebbe tracannato a iosa

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     10Cento gran giare e cento, tombolando
     Di quà di là, senza trovar mai posa,
Sdraiato al fine, e di se tutto in bando,
     Ei s’addormì, coll’ampia abbominosa
     Bocca terribilmente rimugghiando.


XIII40


Se te di ferro armato e di bell’ira,
     Gran duce invitto, or soggiogar d’Orano41
     L’empia rocca, or d’Italia il Mare e ’l Piano
     Segnar di più trionfi altri rimira:
5E se quindi a tuoi scritti il guardo gira
     Pieni di guerrier foco in stil sovrano,
     E a quel ch’opri col senno e colla mano:
     Novo Cesare te chiama ed ammira.
Se non ch’ei di se scrisse, e per se vinse:
     10Altrui tu scrivi, e per altrui vincesti,
     Che per te novi scettri Iberia strinse.
Sol d’età, non di merto indietro resti:
     Ei per la via d’onor primo si spinse,
     Tu l’onor d’esser solo a lui togliesti.


XIV42


Novo Calvario in sul Calvario istesso,
     Fiero non men benchè men noto, Amore
     Apre nel corpo nò, ma in mezzo al core
     Di lei, che stassi al duro tronco appreso
5Ahi come per secreto alto riflesso
     Ivi tutto del figlio entra il dolore!
     Tal più vivo a ferir passa l’ardore
     Se terso vetro incontro al Sol vien messo.
È mio quel sangue, e quella Croce è mia,
     10Dice; e fia pur, ch’ei muoia, e lui seguire
     Non possa, e senza vita in vita io stia?

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Se all’aspro duol di sì crudel martire,
     Gran Dio, tu stesso muori, e che mai fia
     Il soffrirlo, esser madre, e non morire?


XV


Quando la Fè, Signor di sfera, in fera
     Sovra de’ Cieli il mio pensier conduce,
     Te scopro in mezzo a grande alata schiera
     Entro a tua somma incomprensibil luce.
5E se quindi alla mia notte primiera
     Io torno, e solo a me Ragione è duce,
     Pieno il Tutto di te veggio, e la vera
     Tua bella immago, che nell’uom riluce:
Veggio il tuo spirto, che vigore infonde
     10A questa immensa mole, e spuntar fuore
     In erbe il veggio, in frutti, in fior, in fronde.
Te sulle penne di piacevol’ ore,
     Spaziar per l’aere, e te del mar sull’onde:
     Ah! ma sol te non veggio entro il mio core.


XVI


In quel gran dì, che a disserrar le porte
     De’ Cieli il Verbo ascese, e al divin Padre
     Tornò festoso, vincitor di morte,
     Con mille a lei rapite alme leggiadre;
5Correan cantando giù dall’alta Corte
     Ai luminosi Spiriti immense squadre:
     Vieni, delle virtù Re sommo, forte,
     Vieni; ma dove è senza te la Madre?
Quanta parte di Cielo, al Cielo e quanti
     10Mancan fregi al trionfo! Ah del bel dono
     Fia, che l’ingrato Mondo ancor si vanti?
Verrà tra poco, Ella verrà; ma sono
     Noti a me sol, dicea, suoi pregi; avanti
     Io però vengo a prepararle il Trono.

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NICCOLÒ CASONI.43



Mira là quella fredda scolorita
     Spoglia, o tu, che ten vai coll’arco d’oro;
     E vanta poi, ch’alma non v’è sì ardita,
     Che schivar possa il dolce tuo martoro.
5Morta è colei, che già coll’infinita
     Sua belà ti porgea forza, e decoro,
     E seco tragge nella sua partita
     Il più nobile, e ricco suo tesoro.
In lei, com’in suo albergo ognor fiorìa
     10Spirto real, vaghezza, ed onestate;
     Alto saper, amabil cortesìa,
E pur giacque costei preda all’irate
     Voglie di morte invidiosa, e ria!
     Voi piangetela meco, Alme ben nate.


GIO. BATTISTA CATENA


I44


Veggio il Ronco salir di vena in vena,
     Portando ognor sovra la terra l’onde,
     E perchè la Città non guasti e inonde,
     Si cerca altrove una più larga arena.
5Ma intanto l’acque sue volge, e rimena
     Perpetuo flusso all’infelici sponde,
     E da capo le versa, e le diffonde
     L’augusta conca sua sempre più piena.
Così pur’io dall’oceano interno
     10Delle vostre bellezze altere, e rare

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     Cerco lo scampo, e ancor non lo discerno.
Mi dice Amore: un dì potrai sperare.
     Ma intanto i miei sospir con giro alterno
     Vengono, e van, come va il Ronco al Mare.


II45


Morte non più: dall’arco tuo fatale
     Restò colpito un volto il più perfetto.
     Non feristi giammai più nobil petto,
     Or che dal Mondo hai tolta Alma reale.
5Morta è colei, che non parea mortale,
     Poichè da’ lumi angelico intelletto
     Traspariva così, che umano affetto
     Non era premio a sue virtudi eguale.
Come presto la miro infra le stelle,
     10Or che il gran varco a sua bell’Alma aperse
     Colpo inuman, ch’ogni gran pianta svelle!
Degl’occhi il pianto in sangue si converse,
     Così fiero è il mio duolo, Anime belle,
     Il Cielorevide colpo, e lo sofferse?


III46


Mentre al riflesso de’ tuoi lumi ardea,
     Filli tanto crudel quanto vezzosa,
     Come a fior di beltade ape ingegnosa
     Al tuo bell’ostro ad or ad or scendea,
5E mentre il cor di gioia si pascea,
     Come di brina la vermiglia rosa,
     E fra dolci ripulse ognor ritrosa
     L’ira tua col mio amor guerra facea;
Chiamommi Amor sdegnato, e disse: io voglio
     10Punirla di costei cruda fierezza,
     E quel superbo, e dispettoso orgoglio.
Di morte è rea: mora chi Amor non prezza;
     Quest’è il Decreto, e scritto è dal mio soglio
     Tu lo porta a colei, che ti disprezza.

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IV


Quando di vaghe donne eletta schiera
     Veggio, e non quella, ch’io veder vorrei,
     Pietoso Amor degl’aspri affanni miei,
     Perchè senza il suo ben l’alma non pera,
Il Bel mi mostra, ond’è ciascuna altera,
     E qual pittor da questi volti, e quei
     Tragge il più Bello, e poi ritratto in lei
     Forma al desìo l’immagine sua vera.
Onde il Bel, che Natura in mille sparse,
     Accolto sol nella mia donna io miro,
     Che per miracol nuovo in terra apparse.
Ma non basta a far pago il mio desiro
     Veder l’immago, ed ella altrove starse,
     Se pensoso m’arresto, e poi sospiro.


V47


Signor, che scorgi il nostro mal presente
     Fa, che men gonfio entro l’angusta sponda,
     Sen vada il Ronco, ma fugata l’onda
     Cerchi, per nostro scampo, altro torrente.
Ecco Ravenna a’ piedi tuoi languente.
     Quella, che fu di tanti Eroi feconda:
     Nel periglio vicin, che la circonda,
     Apri del tuo saver l’alta sorgente.
Così per arricchirci e i campi, e il cuore,
     Se farai declinar quest’onde e quelle,
     Sarai tu sol del secol nostro onore.
E se potrai sovra le rie procelle,
     Che mancherà, Signor, al tuo valore?
     L’Impero sol sovra l’ardenti stelle.


VI48


Cinto il crin biondo di novelli fiori

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     Giacea nobil Garzon presso ad un rio;
     Ivi sedea la sua vezzosa Clio,
     E un vago stuol di Ninfe, e di Pastori.
Tre Donzelle col canto i dolci amori
     Sfogavan sì, che Apollo a lor s’unìo,
     E disse a quelle: come ben vegg’io
     Le Grazie unite a’ miei diletti Eori!
Al crin poi del Garzon formò un innesto
     Di sagri allori, e di dorate piume,
     Ond’ei levossi in maestade onesto.
L’aere allor balenò di nuovo lume,
     E udissi intorno dir: Ulisse è questo,
     E risuonar Ulisse il prato, e ’l fiume.


VII


Solo co’ miei pensieri all’aria bruna
     Passeggiando una sera al Tebro in riva,
     Donna vidi appressarsi a me giuliva,
     Dicendo: non temer, son la Fortuna.
Per man mi prese, e poi guidommi in una
     Città, che per Entello allor fioriva;
     Quando altra donna dispettosa, e schiva
     S’armò contro di noi d’ira importuna.
Era l’invidia, e con maligno cuore
     Discacciò la Fortuna, ond’io restato
     Son come uom cieco in faccia allo splendore.
Or la richiamo, ed al primiero stato
     Tornami, dico; non è già tuo onore
     Prendermi, e poi lasciarmi abbandonato.


VIII49


Era di Filli al cor dolce ristoro
     Un Canario gentile a lei diletto,
     Che mostrava col canto aver nel petto
     Di musici contenti un nobil coro.

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5Di man fugille, e sopra un verde alloro
     Volò, che di sua traccia avea sospetto;
     Ratto poi s’inoltrò dentro un boschetto,
     Lieto cantando l’augellin sonoro.
Quand’ecco un cacciatore in quell’istante
     10Ferillo, e quasi a lei chiedesse aita,
     Svolazzando al suo piè cadde spirante,
Dolente il prese, e disse: ecco finita
     Tua libertade. Ahi quante volte, ahi quante
     La troppa libertà costa la vita!


BARTOLOMEO CAVA.


I


Se fui, sono, e sarò sempre costante
     In adorar colei, ch’ho dentro il core,
     Perchè contro di me, tiranno Amore,
     Scoccando vai tante saette, e tante?
5Io già son tuo; e già l’anima errante
     Il tributo non nega al suo Signore:
     Oh Dio! lasciala in pace, e ’l tuo valore
     Mostra con chi ricusa essere amante.
V’è dal tuo laccio ancor chi sciolse il piede;
     10Con questo aver tu dei doppia tenzone;
     Col mio core aver dei doppia pietade.
Che siccom’è virtù con chi si oppone
     Far pompa del valor, così è viltade
     L’animo incrudelir con quel, che cede.


II


Quante fiate mi dicesti, Amore,
     Servi, che del servir n’avrai mercede!
     Lasso! ma da che entrò lo strale al core
     Le promesse d’Amore il cor non vede.
5Io seguo intanto a vivere al dolore,
     Ingrato guiderdone alla mia fede;
     E ben mi accorgo del mio primo errore,

[p. 107 modifica]

     Che ingannato riman chi troppo crede.
E quel, ch’è peggio, ritornar vorrei
     10A vivere a me stesso; ma non puote
     Sciorsi dal forte nodo il cor, ch’è frale.
Per vedere alla fin se Amor si scuote,
     Cerco mostrare in carte i torti miei;
     Ma contra forza la ragion non vale.


III


Stancato già di più vedermi intorno
     Gente, c’ha mele in bocca, assenzio in core,
     A voi, selve rommìte, amico orrore,
     Stanza de’ Semidei faccio ritorno.
5Col soffrire, e tacer sperava un giorno
     Vedere al genio mio sorte migliore:
     Ma ingannato alla fin dal dolce errore,
     Prendo me stesso, e la mia vita a scorno.
Più non sia, che l’invidia in torvo sguardo
     10Contra rozza capanna il dente arrote,
     Nè che più mi lusinghi un finto Amico.
Tardi mi avveggio dell’error; ma tardo
     Non fu già pentimento, allor che puote
     Virtù nuova sgridare il fallo antico.


IV


Che sperasti di fare, o ingiusta Morte,
     In togliermi colei, ch’io chiamo invano?
     Forse mostrar, che ’l tuo valore insano
     A i Numi stessi fa l’ore più corte?
5T’inganni: ella contenta di sua sorte
     Più che mai vive al piè del suo Sovrano:
     Rimango io sí, come da lei lontano,
     Non morto ancora, ma condotto a morte.
Anzi splender tu fai tanto più bello
     10Quello spirto gentile, al quale il velo
     Di cieca umanità molto togliea.
Ricco di nuova stella io veggio il Cielo;
     Privo di Lilla il Mondo, e non potea
     Più perder questo, nè acquistar più quello.

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GIO. BATTISTA CIAPETTI.


I


Questo è il ruscello? Ah secchisi nel fonte
     L’alpestre vena, onde tu sei ruscello,
     E s’acque stagneranno al piè del monte
     Gravi alimentin sol selce e nappello.
5L’albero è questo? Ah la tua verde fronte
     Arda fiamma dal Ciel, albero fello,
     E sopra i rami tuoi corrano pronte
     L’upupe, e ogn’altro augello.
Queste le rupi sono? A sì son queste,
     10Dove sgorgano l’acque, e il pomo cresce
     Non tocco ancor dall’Avo di Tieste.
Ahi, qual velen per l’aer tuo si mesce!
     Quali dalle tue piante ombre funeste
     Cadono! Ahi quanto il rammentarle incresce!


II


Dond’ai tu l’armi è donde i lacci e l’ali,
     Amor, che tanto incrudelisci or meco?
     Ah! che arcier non sei tu, non sei tu cieco,
     Io ’l sono, io detti l’arco, ed io gli strali.
5Gli sguardi miei, che debbo alle immortali
     Cose innalzar, con beltà vana or teco
     Incauto perdo, e me medesimo accieco,
     E accuso te, che senza me non vali.
Anzi conosco ben, che altro non sei
     10Che un soverchio desìo, che nel cuor erra
     Sotto la scorta de’ pensier più rei:
Il qual crede, da te fingendo in guerra
     E vinti e incatenati in Ciel gli Dei,
     Rendere onesti i suoi delitti in terra.


III50


La gran Donna del Mar, che lungi stese,

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     E stende ancor la trionfal sua mano,
     Contra cui l’Asia armi apparecchia invano
     Per far vendetta dell’antiche offese;
5E giusta e lieta ad onorar già prese,
     Soranzo eccelso, il tuo valor sovrano,
     Che al primo segno è giunto, ove l’umano
     Pensier di rado, o per te solo ascese.
Oh! se delle sue navi a te destina
     10L’altero scettro, d’ostil sangue tinta
     Parmi veder tutta l’Egea marina:
E veder l’Asia, che pur or fastosa
     L’Europa immaginò depressa e vinta,
     Depor tanta speranza, e andar pensosa.


IV


Già distendea questa del Tebro antica
     Donna real la sanguinosa mano
     Oltre il mar d’Oriente, e l’Oceano;
     Cui varcar parve ad Ercole fatica.
5Di pace quindi, e di pietade amica,
     Chiuso il tempio a Quirino, il tempio a Giano,
     Il sacro asilo aperse in Vaticano
     Alla stirpe d’Adamo al Ciel nemica.
Poichè in abito umìl rasa la chioma,
     10Senza l’elmo, e la spada andar la vede
     Africa, ed Asia, che da lui fu doma:
Riprende l’armi, e la vendetta crede
     Far, che pria la dovea, non or che Roma
     Ha nel Ciel, non che in Terra imperio e sede.


V


Bizanzio è in man dell’Arabo ladrone,
     Bizanzio dell’Impero antica sede;
     L’ltalia il sa, ride l’Italia e il vede,
     Come non abbia sopra lei ragione.
5Or l’Empio in riva al Mar nuove dispone
     Guerriere navi a far l’usate prede:
     Che fa l’Italia? Neghittosa siede,
     E il crin fra secchi lauri orna e compone.

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Pensa ella forse, che l’onor si spegna,
     10Fatta lei serva, l’alto onor di Dio,
     Onde costretto a conservarla ei vegna?
Pur sa, ch’ei piove sopra il Giusto, e il Rio;
     E che immenso qual era, oggi ancor regna,
     Gerusalem perduta, ov’ei morìo.


VI


Al mio pensier non s’appresenta oggetto,
     Scorra pur’egli l’Universo intero,
     Che veduto ad un lume occulto e vero,
     Manchevole non sembri, ed imperfetto.
5Ond’io dico, rivolto all’intelletto
     Che va d’un tal conoscimento altero:
     Dunque impressa ho l’idea nel mio pensiero,
     L’Idea dell’infinito e del Perfetto.
Che se di quel che miro io non son pago,
     10Altra addur non potrò certa ragione,
     Se non l’aver di maggior cosa immago:
E quindi, o dessa in me l’alto suppone
     Vero esemplare, in cui sol’io m’appago,
     O che il Nulla di lei sarà cagione.


VII


Chi fu, chi fu, che al barbaro Anniballe
     Fece obbliar l’antico giuramento,
     E d’aver l’Alpi tra la neve e il vento
     Spezzato e aperto un non creduto calle?
5E chi lui feo, già Trebbia e la sua valle
     Tinta di sangue, e Roma di spavento,
     Al sommo della via correr più lento,
     E alla vittoria rivoltar le spalle?
Non Fabio ad arte pigro, e non fè dome
     10Tante sue forze quel, che col valore
     Trasse dalla soggetta Africa il nome.
Vil Donna in Puglia n’ebbe pria l’onore
     Con gli occhi belli e colle bionde chiome:
     Tanto ancor puote in sen guerriero Amore!

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VIII51


Vasta quercia nodoso, o antico pino,
     Che piogge e venti lunga età sostenne,
     Se diroccat’ al fin a cader venne
     Dal soffiar d’Aquilone e di Garbino
5Tosto veggiam fuor dello scoglio alpino
     A diramarlo, poichè il caso avvenne,
     Da ciascun lato uscir colla bipenne
     Gli alpestri abitator dell’Apennino.
Tal, poichè cadde il vasto antico impero,
     10Corse l’Europa alle rapine, e corse
     L’Africa e l’Asia, e in mille parti il fero.
Ma torneranno al fine a ricomporse
     Le gran membra divise in man di Piero,
     Chè a far del Mondo un sol’ ovil già sorse.


IX52


Italia, Italia, il flagellar non odi
     De’ barbarici remi alla marina?
     Non vedi il vincitor, che s’avvicina,
     Coll’armi no, di servitù coi nodi?
5Non senti alfin con quai superbi modi,
     Sprona i suoi duci a far di te rapina?
     E gli assicura della tua rovina,
     Ch’inulta è ancor Gerusalemme e Rodi?
Or con qual volto misera dolente
     10Ti volgerai nel caso acerbo e tristo,
     Chiedendo aiuto al tuo Signor possente,
Se nell’ozio tuo lungo alcun acquisto
     Far non sapesti, nè ti cadde in mente
     Il gran sepolcro liberar di Cristo?


X


Se Pastorello innamorato scriva
     Duo cari nomi, e un bel verso d’amore

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     Sulla tua scorza, Arbor gentile, e viva
     Sempre mai la tua chioma, il frutto e il fiore,
Dimmi: quinci passò colei, che avviva
     E strugge insieme i miei pensieri e il core?
     Posò forse il bel fianco in questa riva
     Sola? O seco era, ohimè! qualche Pastore?
Chi fu, ch’impresse queste, che riserba
     Orme diverse la segnata arena,
     E chi premuti ha questi fior, quest’erba?
Ah che un gelo m’è corso in ogni vena!
     Albero taci, che s’è tanto acerba
     La dubbia, e qual fia mai la certa pena?


XI


Dentro vaghe pupille accolte avea
     Le invisibili sue quadrella Amore,
     E quivi come accorto Cacciatore,
     Che il tempo aspetta, cauto s’ascondea.
Io, che d’usarle frodi non credea
     D’uopo avess’egli a saettarmi il core,
     Senza por mente e senza aver timore,
     Passai laddove ascoso ei m’attendea.
La piaga inaspettata all’alma affanno
     Minor recò dell’incivil sorpresa,
     Vincer potendo d’altro, che d’inganno;
E conoscermi fece in ogni impresa
     Egualmente ferir come Tiranno
     E chi lui segue, e chi a lui fa contesa.


XII


La vaga onesta Vedovella, e forte,
     Che il Duca Assiro non coll’elmo, e l’asta,
     Ma col bel viso, e le parole accorte
     Vinse, e restar potèo libera e casta;
Allor che sola l’ebbe tratto a morte,
     Che il vino, il sonno, e amor non gliel contrasta,
     Di Betulia omai lieta in sù le porte
     La testa affisse inonorata e guasta.
Poscia parlò: là nella tenda giace,

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     10Orribil vista! il tronco infame, e tanto
    Puote femmina vil quando al Ciel piace.
Diceva, e sorse il chiaro giorno intanto:
     E suonar s’udìo quinci inno di pace,
     E un fremer quindi tra la rabbia, e il pianto.


FRANCESCO DOMENICO CLEMENTI


I53


La divina Pietà veggio omai stanca
     Del suo lungo soffrire, e del tuo errore,
     Misera Europa, e il ferro ha tratto fuore
     Iddio, che di sue offese or si rinfranca.
5Mira, infelice, dalla destra o manca
     Parte, come il vicin tuo mal peggiore
     Tutta t’ingombra di spavento e orrore,
     Tal che ogni speme di salvezza or manca.
Già pende in aria il fatal colpo, e aspetta,
     10Per vibrarlo, da te vigore e lena
     Europa mia, deh! se il timor non frena
     Il grav’error, che il divin sdegno affretta,
     Oh qual di te misera scena!


II54


Il bel di tue virtù splendor giocondo,
     Che i puri raggi al par del Sol distese,
     A te l’Ibero ubbidiente rese,
     E coll’Ibero il più remoto Mondo.
5Onde, poichè deposto il mortal pondo
     Il patrio Reno ancor legge ti chiese,
     Mentre te vide a null’altro secondo.
Talchè quelle virtù, che a te recaro

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     10Di sì gran regni il glorioso impero,
     Teco sul regal seggio si posaro.
Quindi altrui mostri il buon dritto sentiero,
     Che conduce a regnar, pregio sì chiaro
     Unendo a rai del prisco sangue altero.


III


O boschi, o selve, voi, che tante e tante
     Volte ascoltaste i miei caldi sospiri,
     E tu ruscel, che le pur’onde giri,
     E le lagrime mie per queste piante;
5Voi dite voi, se più infelice amante
     In quest’erme contrade oggi respiri,
     E dite ancor se fra tanti martiri
     Un cuor vedeste più del mio costante.
E ditelo a colei, che ognor si prende
     10Giuoco delle mie pene, e che severa
     Più col dispregio il mio desire accende.
Dite. Ma nò, che se la cruda, e fera
     Ancor da voi il mio gran duolo intende,
     Oh quanto più n’andrà superba, e altera?


IV


Del biondo Tebro in sulla destra riva
     Amor vid’io senza l’usato incarco,
     Ma più superbo disarmato giva,
     Che quando il tergo di saette ha carco
5E mentre a mille cuori i lacci ordina,
     E me, più ch’altri, egli attendeva al varco,
     Sorridendo gli dissi: Ov’è la viva
     Tua face, Amore, ov’è lo strale e l’arco:
Ver me tenendo le sue luci fisse
     10Tra placido e severo: Or or vedrai
     Ov’è la face, ov’è lo stral, mi disse.
Indi mostrommi duo vezzosi rai,
     Onde sì m’infiammò, sì mi trafisse,
     Che piaga, o incendio egual non fu giammai.

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V


Quel primo sguardo, ch’io rivolsi a lei,
     Che tien sul mio voler libero impero,
     Innocente partì dagli occhi miei,
     Ma tal non ritornò poscia al pensiero:
5Che all’intelletto con sì dolci e bei
     Color dipinse il vago volto altero,
     Che tosto e cuore e libertà perdei,
     Cui più, infelice! ritrovar non spero.
Del fiero inganno mio Ragion s’accorse,
     10Ma che? in aiuto del tradito cuore
     Colle sue forze ahi! troppo tardi accorse,
Ch’altri s’era di lui fatto Signore:
     Onde confusa i passi indietro torse,
     Ed io rimasi in servitù d’Amore.


VI55


Deh qual mi scorre, oh Dio! di vena in vena
     Freddo timore, allorch’io penso al giorno
     Giorno per me, sol di vergogna e scorno,
     In cui il Giusto fia sicuro appena.
5Talchè mia mente di quel dì ripiena
     L’alme più elette sbigottite intorno
     Vede al Giudice irato, e il fier soggiorno
     Cercar d’atroce non dovuta pena.
Sol per celarsi a lui, ch’all’ira è volto,
     10Misera e vede ancor gli Angeli suoi
     Coll’ali per timor coprirsi il volto.
Se tanto temeran gli sdegni tuoi
     Quelli, che in Cielo hai già, Signore, accolto,
     Che fia quel giorno, ahimè! che fia di noi?


VII56


Forse celarmi in quelle piaghe io spero
     Nel duro dì, che ’l divin sdegno aspetta,
     In quelle, ahimè! ch’al Giudice severo

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     Non più pietà, ma grideran vendetta?
5Forse nasconderommi in dì sì fiero
     , dove irato Iddio gli empi saetta
     Seguaci del rubello Angelo altero?
     Ah! che ciò nè pur lice ad Alma eletta.
Rivolgerommi al tuo pietoso ciglio,
     10Se allor, Vergin, sarai volte le offese
     A vendicar dell’oltraggiato Figlio?
Ah! ch’al mio mal non trovo altre difese,
     Se non prima del mio certo periglio
     Lasciar la via, che ’l cuor cieco già prese.


VIII


O Gente d’Israello afflitta e mesta,
     Che piagni dell’Eufrate in sulla riva,
     Della bella Sion mentre si desta
     Nel tuo pensier l’immagine più viva,
5Frena il dolor; la lieta notte è questa,
     Che la tua spenta libertà ravviva:
     Poichè cinto vedrai di mortal vesta
     Chi a te il sentiero in mezzo all’onde apriva.
Ma tu folle, ed ingrata, oh quale, oh quanto
     10Farai del tuo Signore orrido scempio,
     Del tuo Signor, che desiasti tanto!
Onde fatta ad altrui misero esempio,
     Serva n’andrai; nè più speri il tuo pianto
     Scettro, Profeti, Sacerdoti, e Tempio.


IX


Chi vide mai, o di veder presume
     Più vaga in questo umìl nostro soggiorno
     Di Filli mia, allor ch’un doppio lume
     Accresce, aprendo gli occhi al nuovo giorno?
5Sorge non quali per natural costume
     Donna, che mostra con rossore e scorno,
     Quando abbandona l’oziose piume,
     Impallidito ogni bel pregio adorno:
Ma qual novello fior sul primo albore,
     10Che mentre estolle l’odorosa fronte,

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     Veste sue foglie di più bel colore;
O qual sul nostro lucido Orizzonte
     Spunta l’Aurora. Ah! Che l’Aurora, e il fior
     Non ponno star della mia Bella a fronte.


X


Questa, mi disse Amore, è la catena,
     Onde sarai miseramente avvinto,
     Finchè l’alma abbandoni il corpo estinto,
     Di te stesso, e d’altrui favola, e scena.
5Io tacqui allor, non perchè ardire, o lena
     Mancasse in me, benchè di ferri cinto;
     Ma come innanzi al vincitore il vinto,
     Cui più timor, che riverenza affrena.
Poscia mordendo l’aspre mie ritorte,
     10Se in libertà tornava un dì, giurai,
     Pria che ad Amor, correre in braccio a Morte.
Udì Filli i miei voti, e i duo bei rai
     Ver me rivolse; ahi cruda vista, ahi sorte!
     Il nodo allor, che mi stringea, baciai.


XI57


Questo, che vedi in rozzi panni involto,
     Alessi, è quel, che sospirato tanto
     Fu da’ Profeti, e che in sul mesto volto
     Terger doveva ad Israello il pianto.
5Deh! mira come in vil presepe accolto
     Giace negletto quel temuto e santo
     Nume, che l’armi alla vendetta ha tolto,
     Vestendo il fragil nostro umìle ammanto.
La sua Pietà mill’altri modi avea
     10Di riparar l’antico nostro errore,
     E bastava il pensier, ch’ei ne prendea.
Ma nò. Se stesso diè l’alto Fattore:
     Che in ciò far volle quel, che far potea
     L’onnipotenza del suo eterno amore.

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XII58


Vidi sul Tebro duo fanciulli armati
     Ambo d’arco, di face e di quadrella:
     Bianco vel gli occhi a questo avea bendati,
     Quello gli aprìa qual doppia fiamma, o stella:
5E in un gli archi, e i pensier tenean drizzati
     Verso il seno d’illustre alma Donzella;
     Quando il Garzon, che i lumi avea svelati
     Pria l’arco tese, e pria ferì la Bella.
Tese il suo l’altro ancora, e tosto uscìo
     10Lo stral, ma non sortì pari l’onore;
     Ch’in mezzo al volo un non so chi ’l rapìo.
Uno il divin, l’altro, il profano Amore,
     L’occulta mano era la man di Dio;
     E il segno eletto di Teresa il cuore.


XIII


Ecco il carcere aperto, e il crudo e strano
     Nodo alfin rotto, onde già Amor ti strinse;
     Fuggi mio cuor, che mai non scampò invano
     Dal rio Signor chi col fuggir lo vinse.
5Ma dalla fiera sua prigion lontano,
     Se tardi alcun l’incauto piè sospinse;
     Postagli in petto la crudel sua mano,
     Entro il duro soggiorno ei lo respinse.
Poscia strettolo in nuove aspre ritorte,
     10Chiuse il carcere antico, e la severa
     Chiave gettò nell’empio sen di Morte.
Fuggi dunque, mio cuore, or che la vera
     Tua libertà pose in tua man la sorte:
     Fuggi, che indarno poi si cerca e spera.


XIV


Contrari venti di Fortuna e Amore
     Urtano i fianchi del mio stanco legno:
     Quest’impiega nell’un tutto il suo sdegno,
     Tutto quella nell’altro il suo rigore.

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5Sicchè scorger non so fra tanto orrore
     Chi ne sarà l’usurpatore indegno:
     So ben, che questo è il meditato segno,
     Ove drizzano entrambi il lor furore.
Senza vele e nocchier, senza consiglio,
     10Vassene in mezzo a notte orrida, oscura
     A lor talento il misero naviglio.
Onde in tenzon così crudele e dura,
     Vinca Amore, o Fortuna, il suo periglio,
     E la perdita sua sempre è sicura.


XV


Dell’Arbia intorno alla fiorita riva,
     Ove sue reti un Cacciator tendea,
     Pura colomba, che dal nido usciva,
     Le prime inferme sue penne movea.
5E semplicetta d’ogni scorta priva
     Così vicina al danno suo scendea,
     Che già ne’ lacci ell’a cader sen giva,
     Che il crudo insidiator tesi le avea.
Ma poichè a se cinta da chiara luce
     10Disconder vide altra colomba, prese
     Quella a seguir come sua scorta, e duce.
Quella colomba, che dal Ciel discese
     È Amor, ch’entro de’ Chiostri Anna conduce;
     Il Mondo è quel, che le sue reti ha tese.


XVI


Sì forte Amore in sua balìa mi porta,
     Che non curando il mio infelice stato
     Lui seguo, che per rio sentier mi scorta
     Colla vergogna, e il pentimento a lato.
5So, che la cieca mia fallace scorta
     Colà mi guida, ove mi attende irato
     D’Eternità sulla temuta porta
     L’offeso nume di Vendetta armato,
E perchè addietro il folle piè sospinga,
     10E abbandoni il cammin, per cui fatale
     Forza mi tragge, e a miglior via m’accinga;
Nulla giova il timor, che ognor m’assale,

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     Benchè nel mio pensier tutto dipinga
     L’orrido aspetto del futuro male.


FRANCESCO MARIA DECONTI.


I


Che tirannia d’Amor, volermi stretto
     Da tenace fortissima catena,
     Che l’alma a respirar ritrova appena
     Varco dal gran dolor, ch’opprime il petto!
5Poi con pari rigor schiavo negletto
     Vuol, che tacito viva in tanta pena;
     E mentre il cuore in lagrime si svena
     Sono anco il pianto a trattener costretto.
E questo è poco: mi fa reo di morte,
     10Se esalando un sospir, volgendo il ciglio
     Mostro a chi le può scior le mie ritorte.
Così viver non puossi: or qual consiglio
     Io prenderò, se in così strana sorte
     E il parlare, e il tacer, ha egual periglio?


II59


So ch’io merito pena aspra infinita
     Dalla giustizia di mia cruda sorte,
     Se ’l tradimento altrui, mia fè schernita
     Non furono bastanti a darmi morte.
5Deh! qual fierezza, o qual virtù sì forte
     Fu quella mai, che mi ritenne in vita
     A sì grave dolor? Da quai ritorte
     S’avvinse l’alma, onde non è fuggita?
Ah nò, morto son io: già senza moto
     10Sento il cor: sento il sangue entro le vene
     Giacere illanguidito, egro ed immoto.
E se cenere ancora non diviene

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     Questo mio fral, benchè di spirito vuoto,
     Amor per suo trofeo così mi tiene.


III


Mario, che tante volte, e sempre invitto
     Cadde, e non finto di fortuna Anteo
     Risorse ancor, per l’altrui invidia reo
     Dal Romano Senato alfin proscritto;
5Esule glorioso fè tragitto
     Del Latino valor là ’ve trofeo
     Giacea Cartago, e consolar poteo
     Il fato di Cartago un Mario afflitto.
Quivi al mirar di Roman sangue tinta
     10L’alta ruina ancor: Sorte, la chioma
     Rendi, gridò, su questi sassi avvinta.
Che se da Roma fu Cartago doma,
     Torna or, ch’è asilo a me, Cartago vinta
     A paventar la vincitrice Roma.


IV


Moro, Amici, tradito; e il mio morire
     Prolungar più co’ voti in van bramate:
     Piuttosto a vendicarmi arda il desìre,
     e pur me, più che la mia sorte, amate.
5Consorte, io moro; ah! se un’invitto ardire
     Meco ti trasse alle vittorie usate,
     Ora apprendi da me forte a soffrire
     Il cangiato tenor di stelle irate.
Figli, a voi lascio nel fatal momento
     10Unica eredità del viver mio
     L’onorata memoria, e vò contento.
Germanico sì disse, e non languìo,
     Allor che dal più fiero tradimento
     Non so, se vinto, o vincitor, morìo.


V


Figlio, se già d’eternità il sentiero
     additai tra i perigli, or non men bello
     Te lo mostro in salvarti (al figlio in quello
     Fatal punto di Ponto il Re guerriero

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5Disse, e seguì): lo so, tu spirto altero
     Chiami vile quel passo, ov’io t’appello;
     Ma se ci sforza, Ahime! fato rubello,
     Dunque al fato ubbidir fia vil pensiero?
Contra noi pugna, più che ’l Roman telo,
     10L’odio degli astri: or tu la doglia fuga,
     Che pregio è all’uom muovere invidia al Cielo.
Forte o Figlio mi segui, e il ciglio asciuga:
     Che se al ritorno io glorioso anelo,
     È del provido cuor gloria la fuga.


VI


Ecco Libia in Europa, ecco Cartago,
     Che fa i lauri tremare in fronte a Roma:
     Pure eterna l’intrepida si noma,
     Che le accresce valor l’ardir presago.
5D’Italia intanto entro il terren più vago
     Incatenato da una vaga chioma
     D’Africa il gran terror se stesso doma,
     E del Lazio il destin rendesi pago.
Il Tebro alle delizie allor si rese;
     10E obblìo sopra ogni cura impinge e spande,
     Poichè cessato è il suo crudel spavento.
Odimi, o Roma: le tue chiare imprese
     Frutti d’affanno fur non di contento,
     Che se Annibal non era, eri men grande.


VII


O Peregrin, che muovi errante il passo
     Per quest’arena, ov’erba mai non crebbe,
     Questo è lito crudel, ch’ingrato bebbe
     Il sangue di Pompeo di vita casso.
5Onusto di trionfi, e non mai lasso
     Il grande Eroe, cui tanto il Tebro debbe,
     Quì tradito cadette, e qui non ebbe
     Per sepolcro nè pure un nudo sasso.
Tu, se barbaro sei, la sabbia impressa
     10Ammira del gran tronco, e il suolo adora
     Ove Roma con lui perde se stessa.

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Ma se Romano sei, mirandoti ora
    Da catena servil la destra oppressa,
    Qui la perduta libertà deplora.


FRANCESCO COPETTA60


Locar sovra gli abissi i fondamenti
     Dell’ampia terra, e come un picciol velo
     L’aria spiegar con le tue mani, e ’l Cielo
     E le stelle formar chiare, e lucenti;
5Por leggi al mare, alle tempeste, ai venti,
     L’umido unire al suo contrario, e ’l gelo;
     Con infinita providenza e zelo
     E creare e nutrir tutt’i Viventi,
Signor fu poco a la tua gran possanza:
     10Ma che tu Re, tu Creator volessi
     E nascer, morir per chi t’offese;
Cotanto l’opra de’ sei giorni avanza
     Ch’io nol so dir, nol san gli angeli stessi:
     Dicalo il Verbo tuo, che sol l’intese.


ANGELO DI COSTANZO


I61


Figlio, io non piango più, non che la voglia
    Di pianger sempre oggi in me sia minore
    Che in quel dì, che volando al tuo Fattore
    Lasciasti fredda la tua nobil spoglia;
5Ma perchè l’infinta intensa doglia
    Ha spento e secco in me tutto l’umore
    Onde convien, che l’indurato cuore
    Mostri sol co’ sospir quanto si doglia.

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E siccome la vena è asciutta al pianto,
    10Così il calor mancando al petto interno
    Mi torrà il sospirar grato a me tanto.
Non fia però, che in questo vivo inferno
    Con questa penna il tuo bel nome santo
    Non cerchi, e ’l mio dolor far forse eterno.


II


Veggio, Alessandro, il tuo spirto beato
     Il veggio; o figlio, e non m’inganna amore,
     Star lieto vagheggiando il suo Fattore
     Di raggi eterni cinto e circondato.
5E tanto più del mio sinistro fato
     Mi lagno, poichè vuol che ’l mio dolore
     Non basti a far volar l’infelici ore
     Dell’aspra vita mia più dell’usato:
Che, bench’io grave e vil giunger non speri
     10Ove tu scarco e nobil pellegrino
     Salisti a’ gradi più sublimi alteri;
Pur, del Ciel fatto ignobil cittadino,
     L’alte tue glorie, e i tuoi diletti veri
     Almen veder potrei più da vicino.


III


Dell’età tua spuntava appena il fiore,
     Figlio, e con gran stupor già producea
     Frutti maturi, e più ne promettea
     L’incredibil virtute e ’l tuo valore;
5Quando Atropo crudel mossa da errore,
     Perchè senno senile in te scorgea,
     Credendo pieno il fuso, ove attorcea
     L’aureo tuo stame, il ruppe in sì poch’ore;
E te della Natura estremo vanto
     10Mise sotterra; e me, ch’ir dovea prima,
     Lasciò quì in preda al duol eterno, al pianto.
Nè saprei dir se fu più iniqua e ria
     Troncando un germe amato e caro tanto,
     O non sterpando ancor la vita mia.

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IV


Nè al merto tuo, nè alla pietà paterna,
     Alessandro, convien ch’un dì trapassi
     Ch’io non tenti i miei versi umìli e bassi
     Alzare a far di te memoria eterna.
5Ma il duol, ch’a suo voler regge e governa
     L’intelletto e la mente e i sensi lassi,
     Fa che ciascun di lor l’impresa lassi,
     Per dar soccorso alla ruina interna.
Però ristretti a sospirar col core,
     10Con far del viver mio l’ore più corte,
     Cercan per altra via di farti onore;
Chè alla futura età le genti accorte
     Potran pensar qual fosse il tuo valore,
     Se mi uccise il dolor della tua morte.


V62


Odo sin quì, Signor, le donne Alpine,
     Ch’eran poc’anzi in sì securo stato,
     Pianger de’ lor mariti il duro fato
     Dal gran vostro valor condotti al fine:
5E, come pria temea scempi e rapine,
     Italia, in speme il suo timor cangiato,
     Minacciar al nemico empio ed ingrato
     Ed al suo proprio suol morti e ruine.
Onde Grecia infelice or ride, e spera
     10Romper il giogo, e ristorar suoi danni
     Col favor della vostra Aquila altera;
La qual, s’avendo ancor teneri i vanni
     È tale, or che sarà quando l’intera
     Forza e virtù le daran l’uso e gli anni?


VI63


Lume del Ciel, ch’in dubbio oggi tenete,

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     Come debba chiamarvi il Mondo errante
     Se donna o dea, poichè di tali e tante
     Oltr’ogni uso mortal grazie splendete:
5In me, cui vera immortal dea parete
     All’andare, alla voce, ed al sembiante,
     Vince il desio, che vuol che di voi cante,
     Il timor di non dir quel che voi siete.
Così mi taccio; e già, perchè memoria
     10Dell’esser vostro in versi io non ordisco,
     Non sia però minor la vostra gloria,
Nè il merto mio, se quel che non ardisco
     Cantar, nel cor, come in secreta istoria,
     Qual vera dea v’adoro e riverisco.


VII


Se amate, almo mio Sol, ch’io canti, o scriva
     L’alte bellezze, onde il Ciel volle ornarvi,
     Oprate sì, ch’io possa almen mirarvi,
     Per potervi ritrar poi vera e viva.
5La vostra luce inaccessibil viva
     Nel troppo lume suo viene a celarvi:
     Sì che, s’io tento gli occhi al volto alzarvi,
     Sento offuscar la mia virtù visiva.
Fate qual fece il Portator del giorno,
     10Che per lasciar il suo figlio appressarsi,
     Depose i raggi di che ha il capo adorno.
Ch’altro così per me non può narrarsi,
     Se non ch’io vidi ad un bel viso intorno
     Lampi onde restai cieco, e foco onde arsi.


VIII64


Cigni infelici, che le rive e l’acque
     Del fortunato Mincio in guardia avete,
     Deh, s’egli è ver per Dio65 mi rispondete,
     Fra vostri nidi il gran Virgilio nacque?

[p. 127 modifica]

5Dimmi bella Sirena66, ove a lui piacque,
     Trapassar l’ore sue tranquille e liete,
     Così sian l’ossa tue sempre quiete:
     È ver che in grembo a te morendo giacque?
Qual maggior grazia aver dalla fortuna
     10Potea? qual fin conforme al nascer tanto?
     Qual sepolcro più simile alla cuna?
Ch’essendo nato tra ’l soave canto
     Di bianchi Cigni alfin in veste bruna
     Esser dalle Sirene in morte pianto.


IX67


L’Alpe inaccessa, che con grave affanno
     Due volte il passo al tuo valor aperse;
     Vienna, ed Ungheria, dove sofferse
     Da te il fiero Ottoman vergogna e danno;
5Africa che, or è già l’undecim’anno,
     Vide le genti sue da te disperse;
     E mill’altre tue belle opre diverse,
     Avalo, il tuo sepolcro omai saranno.
Queste più salde che metallo o marmi,
     10Senza temer giammai del tempo oltraggio,
     Terran l’istoria dei tuoi fatti, e i carmi.
O di vere virtù lucido raggio!
     Quando spirto sia mai più ardito in armi,
     O in consiglio di te più accorto e saggio?


X


Quella cetra gentil, che ’n sulla riva
     Cantò di Mincio Dafni e Melibeo,
     Sì, che non so se in Menalo, o ’n Liceo
     In quella o in altra età simìl s’udiva:

[p. 128 modifica]

5Poichè con voce più canora e viva
     Celebrato ebbe Pale ed Aristao,
     E le grandi opre, che in esilio feo
     Il gran figliuol d’Anchise e della Diva:
Dal suo pastore in una quercia ombrosa
     10Sacrata pende; e, se la move il vento,
     Par che dica superba e disdegnosa:
Non sia chi di toccarmi abbia ardimento;
     Che, se non spero aver man sì famosa,
     Del gran Titiro mio sol mi contento.


GIO. BATTISTA COTTA.


I


Sovra splendido trono d’adamante
     Cinto d’intorno d’orride tenebre
     Iddio scendea, e folte nubi e crebre
     L’ale stendean sotto l’eterne piante.
5Stringea dell’ire sue l’aureo fumante
     Vaso, onde han morte inique turbe ed ebre:
     Il vide l’Empio, e in chiuse erme latebre
     Fuggì d’alpina balza egro e tremante.
Ma in van; chè Dio con fier tremoto aperse
     10L’alta montagna, e in cupo antro profondo
     L’Empio, qual fiera in suo covil, scoperse;
E minaccioso sovra il capo immondo
     Versò l’ire immortali, e ve ’l sommerse;
     Poi chiuse il monte, e ’l seppellì nel fondo.


II68


De’ famosi Avi tuoi gli eccelsi vanti
    Qualor ti vidi sfavillare intorno,
    Ardevan, più che in sul meriggio il giorno,
    I tuoi sereni, ed incliti sembianti.

[p. 129 modifica]

5Cinto quindi nel Ciel da tanti, e tanti
     Illustri pregi, onde ten givi adorno,
     Passavi in terra al nobil tuo soggiorno
     Col merto a lato, e la virtude avanti.
E mentre il passo da quell’alte cime
     10Volgevi, dove il tuo gran Padre ha sede,
     Io ti seguìa col guardo, e colle rime.
Ti veggio pur, dicea, regale Erede
     De’ Regni aviti, e del valor subline;
     Ponesti pur nel basso Mondo il piede.


III69


Qual sia di noi gente più chiara al Mondo,
     E qual più lieto avventuroso stuolo,
     Or che diffondi in sul Parrasio stuolo
     Un sì fulgido raggio, e sì giocondo?
5Veggiam, Signore, il vasto tuo profondo
     Saper, che illustra e l’uno e l’altro Polo,
     E il sovrano consiglio in terra solo
     Sostenitor del glorioso pondo;
E in vederti fra noi di tanti adorno
     10Pregi d’alma virtù, che al Ciel ne guida,
     Gioisce il nostro pastoral soggiorno.
Quinci è mercè di tua gran scorta e fida,
     Insolito d’onor sereno giorno
     Se alle nostre Foreste avvien che arrida.


IV


Nell’arenosa region Numida
     Le armate in traccia barbaresche torme
     Dell’Orige silvestre osservan l’orme70
     E stendon l’ampie reti ov’egli annida.
5Di sua cotanto ferità confida

[p. 130 modifica]

     La belva crudelissima deforme,
     Che in mezzo ai lacci neghittosa dorme,
     E non si scote per latrati o strida.
Empi, che tanto ite di voi securi,
     10Ecco gli orrendi cacciator di Dite
     Contro di voi sì nequitosi impuri:
Ecco gli aguati, ecco le insidie ordite:
     E pure, e pur tra i forti lacci e duri
     Con mille veltri al fianco ancor dormite!


V


Se l’Empio ode per selva in cui s’aggira
     Leon, che l’aria co’ ruggiti assorda,
     Fugge a sinistra, e nel fuggir sel mira
     Incontro aprir l’orrenda gola ingorda.
5Si volge a destra, e vede accesa d’ira
     Orsa feroce ancor di sangue lorda:
     Stende le braccia a un tronco, e le ritira
     Pcr lo timor, ch’angue crudel nol morda:
Gettasi al fin per tenebrosa strada
     10Aspra sassosa dirupata e torta,
     Ond’è che ad ogni passo inciampi e cada:
E, nel girar l’orrida faccia e smorta,
     Si vede a tergo con terribil spada
     Angel, che ’l preme, e al precipizio il porta.


VI


Le vie seguendo del perduto Averno
     Ingrata Donna, al sommo Dio rubella,
     Tanto mostrossi nequitosa e fella,
     Quanto pietoso il suo buon Padre eterno.
5Pur ei dal cerchio immobile superno
     Mille celesti amor converse in ella,
     Che di possente armati aurea facella
     Volean pur sciorle il duro gelo interno.
Ma l’empia altri ne caccia, altri ne sgrida,
     10Chiuso il varco del cuore, ove il desio
     Stolto dimora, e rea baldanza annida.
Or se il candido stuol indi sen gio,

[p. 131 modifica]

     E lasciò lei fra disperate strida,
     Chi ne fu la cagion? la Donna, o Dio?


VII


Dov’è, Signor, la tua pietade antica,
     Che in Cielo, in Terra alto così risuona?
     Deh stendi omai, stendi la destra amica,
     E me tuo figlio al padre suo ridona.
5Poichè gente di te, di me nemica
     Odo, che sopra il capo mio già tuona;
     Già tra suoi lampi mi ravvolge, e implica:
     Fulmini, ch’intorno a me s’aggira, e suona.
E qual gloria n’avrai, Fabbro superno,
     10Se l’opra tua miseramente piomba
     Nell’orrende voragini d’Averno?
Ah! Dio, che mai da quell’orribil tomba
     Non sorse lode al tuo gran nome eterno,
     Ma ben dal Ciel, dove ogni lingua è tromba.


VIII71


Vezzosa erbetta e più del sonno molle,
     Vaga giunchiglia al più bell’or simile,
     Candido giglio, il cui candor gentile
     A bianca neve intatta il pregio tolle;
5Croco e giacinto in verdi erbose zolle,
     Rose d’ostro dipinte, ond’arde Aprile,
     Narcisi alteri e violetta umile,
     E ogni altro fiore in fresca riva o in colle:
Sorgete omai, sorgete, e la nevosa
     10Stagion vi serbi alla capanna intorno,
     Dove quel Dio, che vi creò, riposa.
Vi colga ei solo, e ’l biondo crine adorno
     Abbiane, e culla tenera odorosa
     Di quelle paglie, ahi troppo dure, a scorno.


IX


Pastor, ch’involi al sanguinoso artiglio
     Di fiero lupo il gregge suo diletto:

[p. 132 modifica]

     Madre, che allatti il caro unico figlio,
     Che plora in cuna ancor tra fasce stretto:
5Fido amator, che sprezzi ogni periglio,
     Purchè si salvi il desiato oggetto:
     Pellicano amoroso, a cui vermiglio
     Per altrui cibo esce liquor dal petto:
Amate sì, ma non amate a segno
     10Di versar generosi e sangue e vita,
     Per chi soi d’ira e di grand’ira è degno.
Sol Dio, sol egli a’ suoi Ribelli aita
     Die’ col morir su vile orrido legno;
     Oh amore! oh pietade alta infinita!


X


Io vidi un dì, che in luminosa vesta
     Dal soglio eterno il sommo Dio scendea,
     E foco struggitor d’ampia foresta
     Il suo chiaro sembiante a me parea.
5Torbido nembo, e fiera atra tempesta
     Orribilmente intorno a lui fremea,
     Mentre dal Cielo in un sol passo in questa
     Così lontana terra ei discendea.
Qual arbor trionfal, che d’anni carco
     10Stassi di Libia in sul terren fecondo,
     E cede sotto il glorioso incarco:
Tal del piede divino al grave ponde
     L’eterne sfere si piegaro in arco,
     E s’incurvaro i Portator del Mondo.


XI


Due fier tiranni hai miser’ Alma al fianco,
     Che muovon guerra al dolce tuo riposo;
     Entro al tuo petto è l’uno e l’altro ascoso,
     E con Amore han regno al lato manco.
5L’uno non mai di tormentarti è stanco,
     Se ruota il Ciel sovra di te pietoso;
     Fra i travagli, e l’ambasce invidioso
     Sorge l’altro a’ tuoi danni ognor più franco.
Quel del futuro appreso danno è figlio;

[p. 133 modifica]

     10E questo prova fa del suo rigore,
     Se volge avverso a te Fortuna il ciglio.
Quello è il freddo timor, questo è il dolore.
     Temi, se il ben possiedi, onta e periglio,
     Se il mal ti preme, ange tristezza il core.


XII72


Funesto un dì d’Eternità pensiero
     L’estrema a rimirar mia dubbia sorte,
     Per l’ombre orrende del cammin di Morte
     Colà mi scorse, ov’ha Giustizia impero.
5A destra, e a manca in lungo ordine e nero
     Meco venìa la formidabil Corte
     De’ miei desir, dell’opre inique e torte,
     Ad accusarmi al tribunal severo,
E gridar tanto contro me vendetta,
     10Che già sul capo mio l’alto superno
     Signor vibrava la fatal saetta:
Quando Maria, ch’ave di me governo,
     La man distese a pro dell’Uomo eletta,
     E alto ritenne il divin braccio eterno.


XIII


A Quel divo d’Amor raggio possente,
     Che sorge da due fiamme eterno e solo,
     De’ Cieli adornatrice inclita mente,
     Spirto, che avviva questo basso suolo,
5Volto, col cor di bel desire ardente,
     Le luci avea sacro ed eletto stuolo;
     Quando suonaro i Cieli, ed ei repente;
     Per l’aer venne in chiaro foco a volo.
E tante accese in Terra alme faville,
     10E di se tanto in lei faville ei chiuse,
     Che arser di lui mille grand’Alme e mille.
Anzi per entro ogni alta mente infuse
     Ampie così di nuovo ardor scintille,
     Che quasi se fuori di se diffuse.

[p. 134 modifica]


XIV


Ohimè, che uscìo lo spaventoso arresto
     Dall’implacabil Giudice superno:
     Già veggio il nero auriga, ed il funesto
     Carro di Morte, e spalancarsi Averno.
5Già i Rei, di tromba al rauco suono e mesto
     Son strascinati al duro incendio eterno:
     Giuoco feral di quel reo Spirto è questo,
     Che fa de’ corpi lor crudo governo.
Quindi il collo, le mani, e i piedi avvinti
     10Piombano in quelle oscure chiostre orrende
     D’alta ignominia, e di squallor dipinti.
E ’l carro in giù precipitoso scende,
     E gli urta, e porta agli ultimi recinti,
     Dove penosa Eternità gli attende.


XV


Alma, benchè poggiando ascendi all’erto,
     Ove Virtù risiede alta e divina,
     Torcendo dal sentier piano, che inchina
     Verso il piacere, ove il periglio è certo:
5Pur se raminga in questo ermo deserto
     Te l’immensa pietade al Ciel destina,
     Se in trono eccelso sederai Reina,
     Fia mercè di lei sola; e non tuo merto.
Che sei nel Ben sì stabil poco, e ferma,
     10Che se sospende i forti aiuti suoi,
     O almen benigno un guardo a te non ferma;
Opra non sol degna di Dio non vuoi,
     Ma cieca ognora, e in tua virtute inferma,
     Nè men voler, nè men poter tu puoi.


XVI


Quel, che maligno a sì funesta sera
     Trasse del Mondo i lieti giorni e fausti,
     M’ingombra il cor d’atri pensieri infausti,
     E addita a me de’ falli miei la schiera.
5Alto poi grida: O miser uom, dispera,
     Già tutt’i fonti hai di pietade esausti;

[p. 135 modifica]

     Nè per lacrime, o preghi, od olocausti
     Fia mai, che tolga l’empia macchia e nera.
Odi, Padre del Ciel, dal soglio eterno
     10La rea bestemmia, e ad immortal tuo vanto
     Forte confondi il mentitor d’Averno.
Che più non speri! Ah vuo’ sperar fin tanto
     Ch’io vivo. E quando mai prendesti a scherno
     Del Figlio il sangue, e de’ Mortali il pianto?


XVII


Nave degli empi, che soverchi l’onda
     De’ rei piacer così veloce e lesta,
     Volgi l’iniqua prora, e il corso arresta,
     Che de’ perigli tuoi parla ogni sponda.
5A danni tuoi già torbida e profonda
     L’acqua del mar muove crudel tempesta:
     Squarcia le vele il vento, e omai t’affonda
     Voragin cupa, e il flutto urta, e ti pesta.
Ohimè già veggio ogni tuo bene assorto,
     10Veggio l’antenne, e ogni tuo legno infranto,
     Veggio il nocchiero naufragante e morto.
Oh nave, nave baldanzosa! Oh quanto,
     Quanto era meglio a tempo entrare in porto!
     Mira ove sei per l’indugiar cotanto.


XVIII


Aura dolce e soave; e dolce ardore,
     Dolce e soave donatore, e dono
     Amabil, dolce albergator del core,
     Che al cor favelli in dolce amabil suono;
5Te non pavento già tra i lampi, e il tuono,
     Fra mezzo le caligini e il terrore;
     I felici pensieri intorno al trono
     Ti stanno in guardia, e il trono sol d’Amore:
D’Amor, che in santa inestinguibil face
     10L’eterno Figlio e il Genitore accende,
     Che di sua bella immago si compiace:
D’Amor, che in se l’esser divin comprende,
     E lega e stringe in amichevol pace

[p. 136 modifica]

     Il Ciel la Terra, ove penetra e scende.


XIX


Apri lo sguardo, Alma infelice, e mira;
     Ben’otto lustri il viver nostro ha corso,
     L’altre vien dietro, che ne preme il dorso;
     E pur anco si tresca e si delira?
5E tempo omai, che all’indomabil’ira
     Ponga Ragione imperiosa il morso;
     Tempo è che volga a miglior’uso il corso
     Del van piacer, che a lacrimar ne tira.
Andiamo, andiam, non per obliqua e ria
     10Strada de’ vizi, ma ove gir conviene,
     Se pur qualch’anno resta a noi di via.
Non torca il piè dal sommo ultimo Bene;
     Che quanto più dal fine suo travia,
     Tanto è minor dell’arrivar la spene.


XX


Nume non v’è, dicea fra se lo Stolto.
     Nume non v’è, che l’Universo regga;
     Squarci l’Empio la benda, ond’egli è avvolto
     Agli occhi infidi; e se v’ha Nume, ci vegga.
5Nume non v’è? Verso del Ciel rivolto
     Chiara il suo inganno in tante stelle ei legga
     Speglisi, e impresso nel suo proprio volto
     Ad ogni sguardo il suo Fattor rivegga.
Nume non v’è? De’ fiumi i puri argenti,
     10L’aer che spiri, il suolo ove risiedi,
     Le piante i fior l’erbe l’arene, e i venti
Tutti parlan di Dio; per tutto vedi
     Del grand’esser di lui segni eloquenti:
     Credilo Stolto a lor, se a te nol credi.


XXII


Io miro e veggio ampia ammirabil scena:
     Veggio venir col crin canuto, e bianco
     Il Tempo domator coll’ali al fianco,
     E lunga avvolta a braccio atra catena.
5E gli anni e i lustri al destro lato e al manco

[p. 137 modifica]

    Da quella avvinti a Dio davanti ei mena;
     E ’l vasto oscuro Abisso il segue appena,
     Per lunghe etadi indebolito e stanco.
Strano a mirar que’ Secoli vetusti,
     10Quei nuovi, e que’ che ancor credea nascosi
     Nell’ampia ruota del maggior Pianeta!
Tutti ha presente il sommo Nume, e angusti
     Son quegli Abissi immensi e tenebrosi
     Al guardo suo, che non ha fine o meta.


XXII


O Tu, che gli anni preziosi e l’ore
     Ne’ vani studi consumando vai,
     E sol tesoro all’altre età ne fai
     Pe ’l brieve acquisto di fugace onore;
5Veggoti già per fama altrui maggiore,
     Maggiore in merto: ma d’acerbi guai
     Qual messe dopo morte alfin corrai,
     Se tardi apprendi a divenir migliore?
Ascolta, ascolta: nell’estremo giorno
     10Andrà il tuo nome in sempiterno obblio,
     E frutto avrai sol di vergogna e scorno.
Ecco, diran le genti, il pazzo, il rio,
     Che di sublime chiaro ingegno adorno,
     Tutt’altro seppe che se stesso e Dio.



ABATE GIO. MARIA CRESCIMBENI.


I


Io chiedo al Ciel, chi contra Dio l’indegno
     Misfatto oprò, cui par mai non udissi?
     Dic’ei: fu l’Uomo, e di dolor in segno
     Io cinsi il Sol di tenebroso ecclissi.
5Al Mare il chiedo: anch’ei, su duro legno,
     Grida, l’Uomo il guidò: qual nei sentissi
     Doglia, tel dica quel sì giusto sdegno,
     Ond’io sconvolsi i miei più cupi abissi.

[p. 138 modifica]

Il chiedo al Suol: con egual duolo acerbo
     10Egli esclama: fu l’Uom: dalle profonde
     Sedi io mi scossi, e i segni ancor ne serbo.
All’Uom, che ride in liete ore gioconde,
     Irato il chiedo alfin; ma quel superbo
     Crolla il capo, e non risponde.


II


Tesi poc’anzi un forte laccio all’Orso,
     Che tutta distruggea nostra campagna,
     Ma chi vi cade? a dirlo io n’ho rimorso,
     La perfida d’Altea bella compagna.
5Elpin che ne faremo? Invan soccorso
     Spera in quel luogo alpestro; invan si lagna:
     Debbo sciorla? che dì? scnza discorso
     Com’è, che il tuo consiglio or si rimagna?
Così ad Elpin diceva Alcone, ed egli:
     10Io taccio; ma il tacer vieppiù favella:
     Se l’Orso vi cadea l’avresti sciolto?
Or tu la Libia, e tutta Affrica sciegli,
     Se sai belva trovar più cruda, e fella
     D’un cor protervo, che ridente ha il volto.


III73


»Signor, che lume spandi ampio e profondo
     »Qual mai non vide in terra occhio o pensiero,
     »Il bel di tue virtù splendor giocondo
     »Unendo a’ rai del prisco sangue altero:
5»Fra al tuo gran valor ben lieve pondo
     »L’Indico scettro e il vasto soglio Ibero,
     »Se non prendevi ancor, Giove secondo,
     »L’immenso fren dell’Universo intero.
»Pure in tanta grandezza oh qual risplende
     10»Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto!
     »Oh qual da lei benigno sguardo scende!
»Questa, che tien sopra il tuo cuore il vanto,

[p. 139 modifica]

     »De’ gran tributi al par grato ti rende
     »Quel, che t’offre l’Arcadia, umìl suo canto.


IV


Quando da duo begl’occhi offerse Amore
     Battaglia all’Alma, i miei pensier chiamai,
     E volea dir: forti campioni, omai
     Fia noto al Mondo il vostro alto valore.
5Ma tra quei della mente, e quei del core
     Guerra sì rea per tal cagion trovai,
     Che tacqui, e di scampar solo cercai,
     Quantunque invan dal lor cieco furore.
Quei, che seco avea l’Alma a sua difesa,
     10Eran ben pochi, e a sostener costretti,
     Dalla peggior la miglior parte offesa.
Stavansi tutti affaticati, e stretti
     L’un contra l’altro alla lor propria impresa,
     Lasso! L’inerme intanto Alma perdetti.


V74


Monarca invitto, che col braccio forte
     Da’ barbarici insulti Europa affidi,
     Già sul Savo incontrar l’ultima sorte
     Dall’armi tue popoli immensi infidi:
5Già quell’Eroe, nel cui valor confidi,
     L’Asia omai di terrore empie, e di morte:
     Or varca lieto di Bizanzio a i lidi,
     Che Iddio te n’apre di sua man le porte.
Quivi il suo santo, almo vessillo alzando,
     10Al serto Occidental i lauri Coi
     Ricongiunti vedrai sulla tua chioma.
Che scelto ei t’ha dopo tant’Avi tuoi,
     Il torto a vendicar sì memorando,
     Che i figli fer del gran Teodosio a Roma.

[p. 140 modifica]


Traduz. del preced. Sonetto di Pietro Bonaventura Savini.


Carle, magnanimo Europam qui protegis ense,
     Quique procul Scyticas cogis abire minas;
Iam Savi ad ripas dirae cecidere Phalanges;
     Procubuitque armis impia Turba tuis.
Ianque Heros cuius fisus virtute triumphas,
     Complet totum Asiae caede, metuque solum.
Perge igitur, quae stante Bizanti in littore Turres,
     Ecce tibi reserat nam Deus ipse fores.
Hic, ubi Threyciae fulgent insignia Lunae
     Chris iadum vindex erige stegna Crucem.
Addetur sic Occiduis Eva coronis
     Laurus, digna tuis utraque serta comis.
Nau tibi post tot Avos damni datur ultio, quod iam,
     Intulit Ausoniis frater uterque plagi.


VI


Quel, che a Dio fu nel gran principio appresso
     Divin Verbo ed eterno, ed era Dio,
     Per cui del Nulla dall’abisso uscìo
     Quanto il Sol vede, e ’l Ciel chiude in se stesso;
5Quel, che per tante etadi a noi promesso
     In tante bocche pria sonar s’udìo,
     Del nostro Frale el suo Divin coprìo,
     E colle spoglie della colpa anch’esso
Nacque, e primiero entro capanna umìle
     10Il celeste mirò volto giocondo
     D’immondi bruti abbietta coppia e vile.
Ed a ragion: che sotto il grave pondo
     Dell’umana sembianza egra, e servìle
     Il conobber le belve, e non il Mondo.


VII


Carlo, quando a ritrar s’accinse Apelle
     Del terzo Ciel la finta Dea profana,

[p. 141 modifica]

     Tolse il Bel da ogni Bella, e nuova e strana
     Ordì beltà di queste forme e quelle.
5Ma tu la vera Bella infra le belle
     Pingendo, unica in Ciel Diva e Sovrana,
     Con mirabil potenza e sovrumana
     Gisti il Bello a rapir sovra le stelle,
Quindi la Greca fragil opra impura
     10Mancò nella sua breve aura vitale
     Ratto così, che appena il nome or dura.
Ma poichè a Nulla di terreno e frale
     Tu t’attenesti, in ogni età futura
     Vivrà la tua celeste opra immortale.


VIII


Quando fondò dell’immortal sua sede
     Cristo di Pier sulla saldezza il Regno,
     Paolo chiamando, a lui compagno il diede,
     D’aurea lingua fornito, e d’alto ingegno.
5Sciolto al suo dir da rio servaggio il piede,
     Correan le genti di salute al segno,
     E Roma stessa, d’empietà già sede,
     Si scosse al suon del chiaro stile e degno.
Alfin Paolo morì: ma tal d’intorno
     10Sparso avea di virtù seme facondo,
     Che frutto appien ne colse Occaso, ed Orto.
Or che il grand’Orator fa a noi ritorno,
     E il rimiriam, Signore, in te risorto,
     Ov’è da soggiogarsi un altro Mondo?



EUSTACHIO CRISPI.


I75


Indarno, Italia mia, ti diè Natura
    D’intorno inespugnabili ripari,
    L’Alpi da un lato per eccelse mura,

[p. 142 modifica]

     E da più bande per difesa i Mari.
5Ch’or l’empio Re, ch’a’ danni tuoi congiura
     Ti reca da Oriente i giorni amari;
     Misera! e qual valor più t’assicura
     De’ figli tuoi già sì famosi, e chiari?
Ma il Ciel pietoso, il Ciel te non obblia,
     10E a chi sostien la maestà Latina
     Armi, e guerrieri da più regni invia.
Altra nuova vittoria è omai vicina.
     Finchè regna Clemente, Italia mia,
     Non sarai serva, se non sei Reina.


Trad. del preced. Sonetto di Michel Giuseppe Morei.


Te frustra Natura suis, Terra itala, circum
     Insuperabilibus cinxerit aggeribus;
Praeruptas dederit frustra pro meanibus Alpes,
     Atque procellosum parte ab utraque Mare.
Nam tua qui semper meditatur damna Tyrannus
     Adducit tristes ex Oriente dies,
Natorum (infelix!) quis te modo protegit, olim
     Grande quibus virtus nomen habere dedit?
Sed Deus, Italiae facilis, Deus immemor haud est;
     Atque illi, qui te nunc regit Imperio.
Et maiestatis servat decus omne Latinae,
     Arma, ratesque, Ducesqui undique suppeditat
Auguror: addetur veteri nova palma triumpho.
     Addetur, tempus nec procul esse reor.
Donec erit
Clemens, si ned tibi serviet Orbis,
     Barbaricum certe nec patiere iugum.


II76


Già son molti anni, che di giorno in giorno
     Gli occhi volgo e la brama al Ben, ch’io spero

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     Ben che giunge sì tardo, e sì leggiero
     Passa, ch’io ne rimango in doglia e scorno.
5Forsennato egli è ben chiunque intorno
     A diletto mortal gira il pensiero:
     Vano diletto, e in tutto opposto al vero,
     E sol di larve ingannatrici adorno:
Diletto, che aspettato è di tormento,
     10Che presente non rende appien beato,
     Che fuggendo finisce in pentimento.
Cangiami, o Dio, così noioso stato,
     Con quel che abbraccia nel suo gran momento
     Il Futuro il Presente ed il Passato.


CARLO CROCCHIANTE


I


Chieggio ov’è Filli a Ninfe, ed a Pastori,
     Filli, che pur di quà vagar vid’io:
     Qua, rispondon, venn’ella, e poi partìo
     Destando col bel piede erbette, e fiori.
5Chieggione al Sol; ma pien d’alti stupori
     Mi risponde: specchiar la vidi al Rio;
     Poi vinto da’ suoi lumi il lume mio,
     Non vidi ove portasse i suoi splendori.
Alla foresta io la ricerco, al fonte;
     10Ma sol odo, che al mio crudel dolore
     Fann’eco ingannatrice e questo, e quella.
Pur mi dice un pensier: se vuoi la Bella
     Trovar, non cercar più per valle, o monte,
     Cercala in te, ch’ella ti sta nel cuore.


II


Mira, o Tirsi, come irato
     Nell’April s’è mostro il Cielo,
     Poichè il crudo orribil gelo
     D’ogni pregio ha il suol spogliato.
5Tutti ha secchi i fior del prato

[p. 144 modifica]

    Che ridean sul verde stelo:
     Io pel duol mi squarcio il velo,
     E ne sgrido il Cielo, e il Fato.
Tirsi allor mirando fiso
     10La sua donna, a tai parole
     Replicò con un sorriso:
Cessa il duol, mia bella Iole,
     Che più vaghe nel tuo viso
     Stan le rose, e le viole.


III


Caro Tirsi, oh che bel giorno,
     Disse Fille, ora vegg’io!
     Nè più bello il guardo mio
     Mai ne vide, nè più adorno.
5I fioretti quà d’intorno
     Pompa fan del Bel natio,
     E scherzando al dolce Rio
     Van gli augei dal faggio all’orno.
Ciò sentendo il pastorello
     10Alzò a Fille i lumi suoi,
     E in lor vide ardor novello;
Poi rispose: o Fille, a noi
     Rende il dì si chiaro, e bello
     Lo splendor de’ lumi tuoi.


DECIO ANTONIO.77


Appena uscito dalla regia cuna
     Trattar con mano anco tremante l’armi;
     Pria saper chieder l’elmo, e dir, ch’uom l’armi,
     Che formar sappia ancor parola alcuna:
Quanto più contro lui gente s’aduna
     Far, ch’al nome sol ceda, e si disarmi;

[p. 145 modifica]

     E fare al suon de’ bellicosi carmi
     Tremar regni, e provincie ad una ad una;
Il tutto aver dall’Indo lido al Moro
     10Corso, visto, vinto, arso, e messo al fondo
     Con guerrier pochi appresso, e con poc’oro;
Ma non contento d’aver vinto un Mondo
     Tentar Mondi novelli, opere foro
     Già del primo Alessandro, or del secondo.


CARLO DONI.78


Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto
     Veggio, o Signor, che in alto Trono assisa,
     E dal fianco real non mai divisa,
     Di magnanimo cor n’addita il vanto.
5Ciascun sorpreso da soave incanto,
     Mentre sì eccelsi pregi in te ravvisa,
     In quel soglio immortal le luci affisa,
     E per dolce gioir si strugge in pianto.
Ma bene appar nel suo natìo splendore
     10La Clemenza più vaga allor che prende
     Dall’altre tue virtù luce maggiore.
E al Mondo intero, che la pace attende
     Per lei congiunta al tuo sovran valore,
     Oh qual da lei benigno sguardo scende!


DURANTE DURANTI


I79


Non pur, Pilotti, d’ogni nervo e fibra,
     E tutte sai dell’uman corpo esporre
     L’interne parti, e come passa e scorre

[p. 146 modifica]

     L’umor per entro, e si mantiene e libra;
5Ma insiem se crudel morbo il sangue sfibra,
     Con polve ed erba il rio venen sai torre;
     E nuovo spinto qualor lento corre
     Mescere a lui, che l’assottiglia e cribra.
E per te spira ancor l’aria serena
     10Più d’un che da più mali e cure oppresso
     Giunto già si credev’all’ore estreme;
Tal che natura di stupor ripiena
     Dell’arte tua si maraviglia, e spesso
     Morte ti guata disdegnosa e freme.


II80


Ben può Apennin l’alpestro dorso opporme,
     E i freddi ghiacci: onde sua fronte indura,
     E far spesso che il piè per mal sicura
     Strada erri, e tarde segua e incerte l’orme:
5Ma non potrà con la sua asprezza torme
     Ch’Arno io non veggia, e le tue chiare mura,
     Fiorenza, e i toschi campi, ove Natura
     Mostra sua possa in sì leggiadre forme.
Che se il varco contende, e il piè ritarda
     10Quest’ardua rupe, al mio desir non toglie,
     Che di tanto tesor vieppiù non arda.
Certo quì l’Alpe pose erta e selvaggia
     Natura, acciò di te più ognun s’invoglie,
     O terren sacro, e in riverenza t’aggia.


III81


E depor non dovea l’ingiusto sdegno,
     Vergine, il Pretor crudo allorchè scerse
     Te giovinetta e bella in sì diverse
     Fogge soffrir sì duro strazio indegno?
5E senza di timor mostrar pur segno
     Franca mirar chi nel tuo sangue immerse

[p. 147 modifica]

     Il crudel ferro, che la via t’aperse
     Agli alti seggi del celeste regno?
Ma Dio fu certo, che a quell’empio cinse
     10Di pietra il core, e con sì lunghi scempi
     Nelle tue membra ad infierir lo spinse;
Che tua fermezza allor sì chiari esempi
     Diè, che il cieco tiranno, e il sesso vinse,
     E tanti erse al tuo nome altari e tempi.


IV82


Quel che pur chiami in bruna veste e nera,
     E di lagrime intanto aspergi il ciglio,
     Donna, vago diletto unico figlio,
     Tua gioia un tempo, or doglia acerba e fera,
5Col mio lassù nella più alta sfera
     Or stassi fuor di questo grave esiglio;
     E fora il nostro omai miglior consiglio
     Di lor gloria allegrarsi eterna e vera.
Ma dal retto veder, ahi! ne distorna
     10Il troppo affetto, e dal soverchio duolo
     Vinta ed oppressa in noi la Ragion dorme:
L’immortal luce, ch’ambi or copre e adorna,
     Tolta è a’ nostr’occhi, che presenti han solo
     Lor dolci atti, e le prime amate forme.


V83


Marco, s’egli avverrà, quando sotterra
     Sarà per morte il tuo Fral posto e il mio,
     Che le nostre fatiche al tardo obblio
     Faccian pur come spero in parte guerra:
5Nel veder come una medesima terra
     Ne produsse ambi, e che un simìl desìo
     Ne accese, e sempre le nostr’alme unìo

[p. 148 modifica]

    Qual più rara amistà si vide in terra:
Felici, alcun dirà, che in questo basso
    10Esiglio stretti in dolce nodo e santo
    Patria studio e volere ebber conforme.
Ma avrò ben io di che dolermi, lasso!
    Che nel rozzo mio stil vedrassi quanto
    Da lontano seguii le tue chiar’orme.


GIUSEPPE ERCOLANI.


I84


Sovra i sensi innalzato infermi e bassi
     Veggio il gran Dio, che di se stesso elice
     L’immortal Figlio, e in unità felice
     L’un l’altro amando eternamente stassi:
5E qual dall’Uom naturalmente Uom fassi,
     E fuor ch’all’Uomo, Uom generar non lice,
     Tal su nel Cielo è Dio di Dio radice,
     E produr Dio, fuori che a Dio non dassi.
Ma tu con nuova alta virtù sovrana
     10Uom generi, o Maria, chi Dio nascea
     In altra guisa, inusitata e strana.
Tu doni esser creato a chi ti crea;
     E sei Madre d’un’Uom senz’opra umana,
     E sei Madre d’un senz’esser Dea.


II


Il Padre, il Figlio, e l’increato Amore
     Le grazie tutte, ed ogni bel desìo
     Posero in Lei, che fè sull’angue rio
     L’alta vendetta dell’antico errore.
5L’opra è sì bella, che nel suo splendore
     Tutto si perde il debol guardo mio;
     Nè in Ciel, nè in Terra immaginar poss’io
     Cosa più degna d’immortale onore.

[p. 149 modifica]

Percosso il verbo da sue luci vaghe,
     10In guisa si rallegra, e tal diviene
     Che par, ch’interamente ivi si appaghe,
E quante volte a rimirarla viene,
     Ecco, dice rivolto alle sue piaghe,
     Tutto il compenso de le vostre pene.


III85


Poichè del suo fallire Adam s’accorse,
     E per vergogna se medesmo ascose,
     A passeggiar l’Altissimo si pose
     Tra la vendetta, ed il perdono in forse.
5Quando da lungi la gran Donna scorse
     Riparatrice dell’umane cose,
     Che da quest’erme piagge, ed odiose
     Alteramente germogliando sorse;
Eh pera, disse, dell’infausto pomo
     10L’aspra memoria, or ch’apparir vegg’io
     Colei che l’angue ingannatore ha domo:
Colei, che generando il Figlio mio,
     Farà che Dio si rassomigli all’Uomo,
     Perchè l’Uom torni a somigliarsi a Dio.


IV86


Questa dell’Universo Arbitra e Diva
     Che sovra ogn’altra al gran Fattor diletta,
     E pria del Mondo a prò del Mondo eletta,
     Da solitaria ascende orrida riva:
5Questa è la Bella, che di Dio la viva
     Progenie eterna ha in uman vel ristretta,
     E a lei congiunta alteramente e stretta
     Tant’oltre và, che all’infinito arriva.
Ben vorria l’alma desiosa, e intensa
     10Girsen con ella ove il gran volo estende,
     Ma di poggiar sì alto indarno pensa.

[p. 150 modifica]

Che nè pur essa se medesma intende;
     Nè quanta chiude alta virtude immensa,
     E le sue mete il solo Dio comprende.


V87


Nel principio era il verbo e ’l Genitore,
     E ’l Genitore e ’l Verbo erano Dio;
     Nè ’l Verbo potea dir: sei mio Signore;
     Nè ’l Genitore: il tuo Signor son io.
5Ma poichè l’un per infinito amore
     In sembianza mortal se stesso offrìo,
     Giunse l’altro d’impero al sommo onore,
     E ’l Signor: siedi, disse, al Signor mio.
Siedi, chè a Te la destra mia riserbo,
     10Mercè di Lei, che debellato, e domo
     Ha d’Aquilone il regnator superbo:
Di Lei, che ad onta del gustato pomo
     Ingrandì l’Uom, perchè unì l’uom col Verbo,
     Ingrandì Dio, perchè unì Dio coll’Uomo.


VI88


Vergini al Mondo innumerabil sono,
     Ma quale o quando alla gran Madre eguale?
     Nostra tant’alto integrità non sale,
     Perch’ella ebbe innocenza, e noi perdono.
5Purissima comparve al divin trono,
     E giunse l’alta sua bellezza a tale,
     Ch’io non so dir, se Dio fatto mortale
     Di Lei più fosse o donatore o dono.
Qual nell’antico Rovo il foco abbonda,
     10E fiorisce la pianta ancorchè ferva
     Nell’insolito ardor, che la circonda;
Tal vicendevolmente in Lei s’osserva
     Verginità che ’l seno suo feconda,
     Fecondità che ’l suo candor conserva.

[p. 151 modifica]


VII89


So, ch’al sen di Maria l’eterno Bene
     Grandezza diè, che all’infinito sale,
     E, ch’ella quasi al suo gran Figlio eguale
     Un non so che d’immensità contiene.
5Pur tanto il suo candore a durar viene,
     Ch’alla Madre la Vergine prevale
     Non perchè sia maggior, ma perch’è tale,
     Che in se più lunga integrità mantiene.
Di Lei nascendo l’increata Pura
     10Non le lasciò Fecondità per sempre,
     Purità sì ch’eternamente dura.
Altre il suo fiore, altre il suo seno ha tempre:
     Cessò di generar, non d’esser pura;
     Fu Madre una sol volta, e Vergin sempre.


VIII90


Prima d’ogni principio a Voi concesse
     Alto natal, non come il nostro, immondo,
     E a fare in tempo, o santa Madre, il Mondo
     Compagna eterna il gran Fattor v’elesse.
5Con Voi diè legge all’acque, e le represse,
     Con Voi diè moto a’ Cieli, e nel profondo
     Fermò dell’Orbe in se medesmo il pondo
     E poi nell’Uom le sue delizie impresse.
Che se peccò l’Uom folle e trasse sopra
     10I figli rei l’universal vendetta,
     Questo non fa che macchia in voi si scopra;
Poichè non può con gli altri essere infetta
     Chi pria del mondo era operante, ed opra,
     E prima d’ogni colpa era concetta.


IX91


Che fai, Maria, che pensi? Ecco il gran Padre,

[p. 152 modifica]

     Ch’al bel desìo de’ Secoli si inchina,
     E ’l santo Frutto del tuo sen destina
     Riparator delle terrene squadre.
5Ma tu, che offerte insolite e leggiadre
     Di tua già festi alla onestà divina,
     Nulla ti muovi alla comune ruina,
     O al tanto sospirato onor di Madre.
Indarno Amore, e ’l gran pubblico danno
     10Ti fanno guerra dispietata, e fera,
     Che contra la tua fè non vale affanno:
E quale armata insuperabil schiera,
     Tutti i pensieri tuoi gridando vanno:
     Verginità si serbi, e il Mondo pera.


X92


Non anco avea le pene e i premi nostri
     Il sommo Padre in adamante fissi,
     Nè gli Empi destinava a’ ciechi abissi,
     Nè i Giusti a’ luminosi empirei chiostri;
5Quaudo, o gran Donna, i bei natali vostri
     Furon nell’alta eterna idea prefissi;
     E fremer d’ira in lontananza udissi
     Il Re superbo de’ tartarei mostri.
Che grazia ad altri non concessa poi
     10Fin d’allor vi sottrasse al frutto rio
     Dell’arbor tanto ingiurioso a noi;
E qual non cape in intelletto mio,
     Nel gran principio de’ decreti suoi
     Vi destinò sua Genitrice Iddio.


XI93


Spirto che troppo di sua gloria altero
     Minacciò l’Austro, e l’Aquilone invano,
     Trasse tutto in catena il germe umano
     Per vendicarsi del perduto impero;

[p. 153 modifica]

5Ma la gran Donna a cui l’onor primiero
     Serbò l’eterna onnipotente mano,
     Libera nacque, e in se medesma vano
     Fè il nostro fallo e l’empio altrui pensiero.
Non già che avvinta non dovesse anch’ella
     10Scender tra noi, ma nol sofferse il Verbo,
     Perch’ei fora men chiaro, essa men bella;
E l’Avversario nel suo esiglio acerbo
     Rammentando a Maria che l’ebbe ancella,
     Avrìa giusta cagion d’esser superbo.


XII94


Spirto, che di spirare in me si degna,
     Nè so dove se ’n vada, onde derivi,
     Maria mostrommi un giorno, e disse: scrivi,
     Scrivi di Lei che sovra ogn’altra è degna.
5Io, com’uom, dentro cui virtù non regna
     Tanta che basti e alla gran meta arrivi,
     Pien di pensier ripiglio incerti, e schivi:
     E chi tant’alto a ragionar m’insegna?
O chi mi fa di tanta grazia dono
     10Ch’io sollevi il mio dir, sicchè di Lei
     Degno poi sia delle mie rime il suono?
Risponde: oltre cercando andar non dei:
     lo sarò teco, io che son quel che sono,
     E farò, che tu sia quel che non sei.


XIII95


Chi è costei che fa dell’Uom vendetta,
     E porta al Re d’Averno aspra fortuna,
     Terribile, com’oste che raduna
     Sue schiere in campo, e la battaglia aspetta?
5Bella è Maria; ben me ’l dicea l’eletta
     Bellissima sembianza, ancor che bruna:
     Ella è Maria che senza macchia alcuna
     Fu sovra il nostro uso mortal concetta.

[p. 154 modifica]

Ma come il giusto universal Fattore
     10Potea sottrarla infra l’umane squadre
     Alla gran legge dell’antico errore?
Lo potea far, perchè può tutto il Padre:
     Lo dovea far per sua gloria maggiore:
     Lo volle far, perchè di Dio fu Madre.


XIV96


Io vi pregai gran Madre, e vi ripriego
     Per ottener da voi dolce perdono,
     S’altro uomo ancor, da quel ch’io fui, non sono
     E l’ali al Ciel, quanto dovrei, non spiego.
5Vorrei seguir vostri bei rai, nol niego,
     Ma se non ho di maggior grazia dono,
     Atti al gran volo i pensier miei non sono,
     E tutti altrove io li rivolgo e piego.
Voi, nel cui seno il Sol eterno imprime
     10Lume di gloria così vasta e densa,
     Ch’aabbaglia ogni quantunque alma sublime,
Dovete dir, quand’a Voi ’l cor non pensa:
     Che può far questi? Il mio splendor l’opprime,
     Perch’egli è nulla, e perch’io son immensa97.


XV98


Stiamo, Adamo, a veder la gloria nostra,
     Anzi del Cielo, ove il gran segno apparve:
     Mira quanta lassù Maria comparve,
     Mira qual fa di se mirabil mostra.
5Maria come al bel piè tutti le prostra
     La Luna i rai, che paion ombre e larve:
     E come ogni astro innanzi a lei disparve,
     Tanta è la luce che in sua fronte mostra.
Il sol l’ammanta, e nel grand’atto acquista
     10Tanta virtu che non appar più lui;

[p. 155 modifica]

     Ma sembra immortal cosa, e non più vista.
E tutto il regno degli Eletti, in cui
     Beata ascende, si rallegra in vista
     D’esser fatto più bel dagli occhi suoi.


XVI99


Ogni qualvolta io veggio lieto e adorno
     Di fiori il prato e l’arboscel di fronda:
     Ogni qualvolta a queste piaggie intorno
     Dolce mormora l’aura, è dolce l’onda:
5Parmi veder l’alto immortal soggiorno,
     Dove reo l’Uom divenne e la profonda
     Aspra memoria dell’antico scorno
     Fe che il cor si contristi e si confonda.
Ma poi pensando che alla colpa e al duolo
     10Dovea Maria por fine, e che di lei
     Così fu degno il Mondo, io mi consolo:
E dico: Adam, quasi lodar ti dei
     Del tuo folle desio, se per lui solo
     Bella cagion della gran Donna sei.


XVII


Bella cagion della gran Donna sei
     La qual col piè vendicatore opprime
     L’angue superbo, e così va sublime,
     Che tutti ricompensa i danni miei.
5Ve’ come sciolta da’ tuoi lacci rei
     Poggia del Cielo alle superbe cime,
     E all’apparir di sue bell’orme prime
     Iddio rimansi in signoria di lei.
Amore applaude all’alta Vincitrice,
     10E seco la conduce al sommo trono
     Perchè sia detta in ogni età felice:
Ed ella lieta dell’eccelso dono
     A te si volge, e ti consola, e dice:
     Senza il tuo fallo io non sarei qual sono.

[p. 156 modifica]


XVIII


Così dicendo fe’ sostegno ed arco
     Delle sue braccia all’immortal Guerriera,
     Che sotto la fatale arbor primiera
     Fu attesa in van dall’Avversario al varco:
5Ed ella tal sen gia, che il ciglio inarco
     Quando all’alta sua penso immagin vera,
     E ’n ricercar cosa più pura e intera
     La terra e ’l Cielo inutilmente io varco,
Godea il gran Dio nel rimirar sue chiome,
     10E il bel guardo che mette in bando il tuono,
     E il piè che l’ire del crudel angue ha dome.
E giunto al soglio eterno, ov’ei perdono
     Altrui dispensa e immortal gloria e nome,
     Tutto lo diede alla gran Donna in dono.


XIX


Allora io vidi Morte lusinghiera
     Senza l’usato di sua falce incarco,
     E d’altro armata che di strali ed arco
     Scender dall’alto dell’empirea sfera100:
5In mano avea lucida face, ed era
     L’eterna face di che Amor va carco:
     E con questa s’aprìa libero il varco,
     Della gran fiamma e di se stessa altera.
Poi tutti a se chiamando in alto suono:
     10Venite a me, dicea, ch’all’aspre some
     De’ vostri affanni immortal pace io dono.
Maria mi diè quest’armi: e, non so come,
     Da che entrai ne’ suoi lumi io dolce sono,
     E non ho più di Morte altro che il nome.


XX


Vinto nel Cielo e debellato in Terra
     Torna in battaglia l’Avversario altero,

[p. 157 modifica]

     E al gran momento di Maria primiero
     Fa quanto può celatamente guerra.
5Mira qual contra lei fiume disserra,
     Fiume, che inonda l’Universo intero:
     Ma non temer, perch’ella è in salvo, e ’l fero
     Assalitor delle sue piante atterra.
E, se nell’immortal pugna importuna
     10Dura e persiste ancor benchè respinto
     E’ angue che in lei non ha ragione alcuna
Non istupir: la Provvidenza estinto
     Non vuol l’alto litigio, acciocchè l’una
     Sempre sia vincitrice e l’altro vinto.


XXI101


Stavasi il Re che all’Universo impera
     Sovra celeste lucidissim’arco.
     E’l Ciel sereno e d’ogni nube scarco
     Facea d’intorno con la vista altera:
5Quando in sì nova alta immortal maniera
     Giunse Maria, ch’ogni confronto è parco
     E con la Luna al piè curvata in arco
     Di se fe’ lieta la superna schiera.
Al suo venir sorse il gran Dio dal trono,
     10E disse: ecco la Bella, in cui, siccome
     In proprio nido, mia pietà ripono:
E questa sol, come sovrana e come
     Maggior di quante unqua saranno e sono,
     Vo’ che assoluta arbitra mia si nome.


XXII


Angue, che in terra per tuo mal rinasci,
     E la gran Donna inutilmente mordi,
     Nè dell’inimicizia ancor ti scordi

[p. 158 modifica]

     Che in Ciel giurasti, o l’ira antica lasci:
5Poichè il suo piede in van circondi e fasci,
     E perdi tutti i pensier folli e ingordi,
     Torna agli abissi: ivi di sangue lordi
     Sazia i tuoi lumi e di dolor ti passi:
Ivi, quanto ti piace, al Re superno
     10Fa guerra: ivi Colui che Morte estinse
     E la tua, prendi alta Avversaria a scherno.
Vattene; acchè pugnar, se ti respinse
     Sin dal principio col gran Parto eterno,
     E una volta per sempre ella ti vinse?


XXIII102


Se fiammeggiare il Sole e l’auree stelle,
     O fiorir veggio il verde suolo aprico,
     Maravigliando a me medesimo dico:
     Maria fu la cagion d’opre sì belle.
5Per lei dal Nulla queste cose e quelle
     Trasse il superno Facitore antico:
     E a lei, che il concepì nel sen pudico,
     Le soggettò, come a reina ancelle.
Nè valse al folle angue superbo opporse,
     10Per divorare, il Parto suo giocondo,
     E por l’eterno alto decreto in forse:
Che adombrata dal sommo Amor fecondo
     Vittoriosa a gran Donna sorse:
     E il Mondo per lei nacque, e Dio nel Mondo.


XXIV103


Adam di dolce pianto asperso e molle,
     Ed io, com’uom ch’alto prodigio vede,
     Miriam la Bella, ch’ogni Bella eccede,
     E nostra al sommo umìl Natura estolle:
5Nell’aureo crin ch’al Sol la gloria tolle,
     E ne’ begli occhi tal virtù possiede,
     Che trae dall’alto dell’empirea sede

[p. 159 modifica]

     Chi nascer senza il suo voler non volle104.
Qual miracol è quel quando la speme
     10Pone in dubbio del Mondo, ed al materno
     Offerto onore isbigottisce e teme?
E qual dolcezza, ad onta dell’Inferno,
     Vederla in poi col suo gran Figlio insieme,
     E somigliarsi al Genitore eterno!



FILIPPO ORTENSIO FABBRI.


I


Tigre selvaggia in chiusa valle oscura
     Con frode un dì mia prigioniera io fei;
     Meco la trassi avvinta, e presi in cura
     I feri spirti raddolcir di lei.
5A poco a poco sua cangiar natura
     La vidi alfin dopo sei mesi e sei,
     E udir mia voce, e placida e secura
     Starsene in mezzo a gli agneletti miei.
Nice la vide, e in atto umìl cortese,
     10Ridendo le fe’ vezzi, e con amica
     Destra l’umana fera in seno prese.
Ma giunta in sen di mia crudel nemica
     La fera, ahi lasso!, in un balen riprese
     I primi spirti, e la fierezza antica.


II


Se per opra talor del van desire,
     D’ardente foco oltre l’usato avvampo,
     Per timor del periglio io pien d’ardire
     Chiamo Ragion l’alta guerriera in campo.
5Ella sdegnata allor, di sue bell’ire
     Pento onesti pensier desta col lampo,
     Tal che fugge il nemico, e nel fuggire
     Lascia a lei la vittoria, e a me lo scampo.
Ma se quando già placide, e tranquille
     10Le mie potenze e il cor sereno parmi,

[p. 160 modifica]

     D’improvviso a me volge un guardo Fille:
Torna tosto il nemico a guerra farmi.
     Chè ponno del mio Sol più le pupille,
     Che non può la Ragion con tutte l’armi.


III


Ecco, Erasto, il bel colle altero e santo,
     Che al magnanimo Almano il piè conduce;
     Qui vedrem Poliarco, e vedrem quanto
     In lui di gloria e maestà riluce.
5Tu, che di spesso contemplarlo hai vanto,
     Fammi presso di lui da padre e duce;
     Ch’io non ho ’l guardo già saldo cotanto,
     Che regger possa alla soverchia luce.
Pur coll’esempio tuo lena e fortezza
     10Destando ne’ miei spirti, all’alta mole
     Forse anch’io poggerò di sua chiarezze.
Così tu mi farai, come far suole
     L’augel di Giove, allor che i figli avvezza
     A fissar le pupille in faccia al Sole.


IV105


Arser gran tempo in Ciel d’ira e di sdegno
     Il Dio guerriero, e l’erudita Dea,
     Chè un la man coltivar, l’altra l’ingegno,
     Ei coll’armi, e coll’arti ella volea.
5Intanto d’armi ostili Italia segno
     L’inesorabil Nume ognor facea:
     E la placida Diva in ozio indegno
     L’opre, e i talenti illanguitir vedea.
Quando un astro novello a mirar prese
     10La più bella di Europa afflitta parte,
     E di pace destò le antiche imprese.
Allor tornò nel prisc’onore ogni arte,
     Tosto che il caldo de’ bei raggi intese,
     E si strinsero in Ciel Minerva e Marte.

[p. 161 modifica]


V


L’arte che intenta è ad animar colori,
     Nacque dal braccio eterno, allorch’ei cinse
     D’alti prodìgi il terren globo, e fuori
     Da lunga notte i rei sepolti spinse.
5Allora ei fu, che d’incliti lavori
     L’ampia tela del Mondo impresse e tinse
     Il Mar di perle, il Suol di piante e fiori,
     E di astri luminosi il Ciel dipinse:
Ma se quando ei formò nostra Natura,
     10E all’immagine sua la volle assunta,
     Comparve allor di lui l’opra più pura;
Sia dunque all’arte della man congiunta
     Quella di riformar l’alta figura,
     Sovente in noi da lungo error consunta.


VI


Come vago usignuolo in gabbia stretto,
     Ne i primi giorni ha de’ suoi lacci orrore,
     Ma a poco a poco entro l’angusto tetto
     Va temprando col canto il suo dolore;
5Tal’ io mi dolsi, allor ch’ebbi ricetto
     Presso al discreto mio dolce Signore;
     Ma de’ miei nodi alfin presi diletto
     Per lunga usanza e per fedele amore.
Pur la mia mente al suo principio avvezza,
     10Dopo sì stretta prigionìa sovente
     Al primo stato ha di tornar vaghezza.
Così ancor l’usignuol spesso non sente
     La man del suo Signor che l’accarezza,
     Quando sua libertà tornagli a mente.


VII


O chiara, invitta e gloriosa Donna,
     Donna di nostra umanità reina,
     Che l’eccelsa di noi parte divina
     Tieni, e de l’alma sei salda colonna:
5Soccorso, ohimè, che già di me s’indonna
     Il folle amore, e nuovi strali affina,

[p. 162 modifica]

    E il cor che ratto al suo piacer inchina,
    Sel soffre in pace e in gran periglio assonna:
Manda or tu dal tuo seggio un stuol guerriero,
    10Che spezzi l’arco e la mortal saetta,
    E renda a l’alma il suo vigor primiero;
Chè s’ella al fine in servitude è stretta
    Sotto il grave d’Amor possente impero,
    Chi può pensar qual tirannia m’aspetta!


GIACOMO FACCIOLATI


I106


Signor, che quanto parli e pensi
     Tutto s’aggira sulle vie del Retto,
     E dal cui labbro a comandare eletto
     Escono poche voci e molti sensi:
5I più fervidi voti, ed i più intensi
     Pensier, che covi nell’augusto petto,
     Son della Patria, e del privato affetto
     Hai tanto sol, quanto ad Eroe conviensi.
Tutto vedi qual lince, e tutte prendi
     10Le mire tue sovra le mire altrui,
     Nè l’arco mai fuor della meta estendi.
Tutto vedi, ma pure i merti tui
     O non vedi o non curi o non intendi,
     E sol gli lasci misurare altrui.


II107


Il gran capo, Signore, ed il bel seno
    Della Veneta Dori omai vedeste:

[p. 163 modifica]

     Ora le braccia poderose e leste
     Mirate, e poi ne parlerete appieno.
5Ella è Donna di pace, ed il suo treno
     Sono Grazie gentili e Muse oneste,
     Ma se nemica mano unqua l’investe,
     Ha corno anch’essa, ed ha sul corno il freno.
Ecco ferri ecco bronzi ecco del nero
     10Vulcano l’arti, ed ecco quante a noi
     Macchine suggerì Nettun guerriero.
Vorrei con l’arme anche mostrar gli Eroi
     Ma troppo, ah troppo vince il mio pensiero
     L’idea del Padre, che mostrate in Voi.


PAOLO FALCOLNIERI


A che sul tergo Amor sì forti vanni,
     Se poi gli batti così tardi e lenti,
     Ch’entrat’in questo cor non son possenti
     Di cavartene amor dopo tant’anni?
5Mira quel Vecchio antico a’ mostri danni
     Se batte i suoi, che non son mai presenti:
     E tu Garzone, Arciero, e Dio consenti
     D’esser da men di lui, per darne affanni?
Dagli il tuo pigro omai, prendi ’l suo lieve;
     10E sia lunga la vita, e breve il male,
     Quant’è lungo ora il mal, la vita breve.
E se nol puoi, per l’onor tuo lo strale
     Tempra almeno in quel dolce, onde riceve
     Respiro un core, o metti giù quell’ale.


TEOBALDO FATTORINI108


Reo del patrio divieto il proprio figlio
    Ecco Zeleuco a giudicare astretto:

[p. 164 modifica]

     Oh qual di Re e di Padre agita il petto;
     Di regno, e di figliuol zelo e periglio!
5Mandan nubi di duolo al cuore, e al ciglio,
     E di legge, e d’amore obbligo, e affetto;
     Nel gran dubbio dell’alma alfin costretto
     Dalla legge e da amor prende consiglio.
Nella Prole il delitto, e in se corregge:
     10E Giudice ad un tempo, e Genitore
     Giusto insieme e clemente esser elegge.
Oh di legge, e d’amor forza, e stupore!
     Se toglie un lume al figlio è amor di legge,
     Se toglie un lume a se, legge è d’amore.



GABRIELE FIAMMA


I109


Più volte un bel desìo di farmi eterno,
     E di lasciar di me non bassi esempi
     M’ha scorso a dir ne più famosi tempi
     Le voglie e l’opre del gran re superno:
5Come purgar convien l’affetto interno,
     E fuggir sempre gli atti ingiusti ed empi
     Mostra sovente, e come l’uom de’ tempi
     Possa l’ira e l’orgoglio aver a scherno.
Or a cantar del sommo Amor m’invoglia,
     10E m’accende un ardor vivo e possente,
     Ch’ogni altra cura dentro al cor mi sgombra.
Signor, se da te vien l’accesa voglia,
     Del suo spirto divin m’empi la mente,
     E di santo furor tutta l’ingombra.


II110


Sparger quest’ampie sfere al centro intorno,
     E di spirti sublimi ornar il Cielo:

[p. 165 modifica]

     Temprar degli elementi il vario zelo,
     E ’l mondo far con la lor guerra adorno:
5Dar la Luna alla notte, il Sole al giorno,
     Stender nell’aria delle nubi il velo:
     Frenar i venti, e far ch’or caldo or gelo
     Doni alla Terra della copia il corno:
Dar corso a’ fiumi ’n questa e in quello parte,
     10Ornar l’Uom d’intelletto e di parole,
     Dar vita senso e moto agli animali:
Delle tue mani son opre altere e sole,
     Signor, onde a noi ciechi egri mortali
     Mostri d’un sommo amor la forza e l’arte.


III111


Al vivo Sole a quei celesti ardori,
     Ch’ardono i cuori ancorchè sien di ghiaccio,
     Talor mi sfaccio, ed esco tutto fuori
     Di questi orrori e del mondano impaccio.
5E, s’ho parole allor d’alti splendori
     Contro gli amori accese, io non le faccio,
     Ma ’l divin braccio a cui tutti gli onori,
     Voi miei Signori, por dovete in braccio.
Che se l’affetto pio da lui m’impetra
     10Quel dir che spetra l’indurata voglia,
     E non la spoglia sol, ma il cor penetra:
Tal del perfetto amor oggi si svoglia,
     Che con gran doglia dal suo cor la pietra,
     Ch’or sì l’impètra, avverrà al fin ch’ei toglia.


IV112


Non è sì vaga alla stagioni novella
     L’ape di puri ed odorati fiori,
     Allor che i novi preziosi umori
     Industre porta ad arricchir la cella;

[p. 166 modifica]

5Nè cervetta giammai leggiadra e snella,
     Dianzi seguita ne’ riposti orrori
     Da fieri veltri, di sospetto fuori
     Sì ratta corse all’acqua chiara e bella:
Com’io son vago d’un focoso umore,
     10Che versan gli occhi, allor che tema o zelo
     Od altro affetto più m’accende in Dio.
Dice allor ebro di dolcezza il cuore:
     Quanto è felice quei che alberga in Cielo,
     S’egli ha gioia maggior del pianto mio!


V113


Signor, se la tua grazia è foco ardente,
     Come dà tanto refrigerio al cuore?
     S’è d’umor fonte ond’ha quel viso ardore,
     Da cui struggere ognor l’alma si sente?
5S’è luce più che ’l Sol chiara e splendente,
     Come oscura del Mondo ogni splendore?
     S’è vita, ond’è che l’Uomo si tosto muore,
     Quando ha la sua virtute al cuor presente?
Queste contrarie tempre in me pur sento,
     10Che mi raffredda il fuoco, accende il fiume,
     Il Sole accieca e dà la morte vita.
Ma di saper il modo indarno io tento:
     Poichè non può mortal terreno lume
     Dell’opre tue scoprir l’arte infinita.


VI114


Son questi i chiari lumi, onde sereno
     Far si potrebbe a par del Ciel l’Inferno?
     E’ questo il capo del gran re superno
     D’alto giudizio e di saver sí pieno?
5Son queste quelle man, onde il terreno
     S’ornò di piante e ’l Ciel di lume eterno?
     Son questi i piè, ch’ebbero i mari a scherno,
     E fur dell’onde già ritegno e freno?

[p. 167 modifica]

Ahi che spietata stampa oggi rimiro!
     10Quegli occhi copre un tenebroso velo,
     E son trafitti il capo i piè le mani.
Dunque, o mia Vita, a tanto aspro martiro
     T’ha spinto del mio ben la sete e ’l zelo!
     Dunque fa l’error mio frutti sì strani!


VII


Quand’io penso al fuggir ratto dell’ore
     E veggio mentre parlo il volto e ’l pelo,
     Sparso di morte l’un l’altro di gelo
     Cangiar l’usato suo vago colore:
5Mi fermo, e pien d’orror prego il mio cuore,
     Che di se stesso abbia pietate e zelo,
     E non voglia smarrir la via del Cielo
     Fra le vane speranze e ’l van timore:
Vedi, gli dico, che a’ tuoi danni aspira
     10La Morte che sen viene a gran giornate,
     E che fugge il piacer qual nebbia al vento.
Drizza a quel segno de’ pensier la mira
     Ove mal grado dell’ingorda etate,
     Potrai sempre con Dio viver contento.


VIII115


Ov’è la fronte più che il Ciel serena,
     D’ogni spirto celeste amato obbietto?
     Ov’è il santo costume e ’l sacro aspetto
     D’ogni ben nato cuor laccio e catena?
5Ov’è la voce d’armonìa sì piena,
     Ch’ogni empio e rio voler rendea perfetto?
     Ov’è la luce del bel raggio eletto,
     Che fea dolce dell’alma ogn’aspra pena?
Ov’è la man che il fier nemico estinse,
     10Ed ha tolta all’Inferno ogni sua possa,
     Per cui tant’ebbe il Mondo affanno e guerra?
Ov è il Mortal, che il Verbo eterno cinse?
     Ahi quanto Ben s’asconde in poca fossa,
     E quant’oggi splendor sen’va sotterra!

[p. 168 modifica]


POMPEO FIGARI


I116


O Pellican, ch’ove più il calle è incerto,
     Più folto in bosco, e più segreto il fiume,
     Dolente e solo in orrido deserto
     I lunghi giorni hai di passar costume;
5Nottola, o tu, che finchè il Sol coverto
     Non ha del volto in Occidente il lume,
     Nel tuo tetto ti ascondi, e al Cielo aperto
     Spïegar non sai le vergognose piume:
Mentre l’egro mio cor sospira e piagne,
     10Al par di voi, per isfogar mio duolo,
     Cerco occulte spelonche, erme campagne.
Ma con vana lusinga io mi consolo:
     15Chè se le colpe mie mi son compagne,
     Misero!, ovunque io sia, non son mai solo.


II


Vidi in un campo allo spuntar del giorno
     Un’ombra andar di sua grandezza altera:
     Ma dopo un piccol giro intorno intorno,
     Cercai l’ombra gigante, e non v’era.
5D’erbe passai per un bel prato adorno
     Che il tesoro parea di Primavera,
     Poi vidi inaridita al mio ritorno
     Del verde prato ogni beltà primiera.
Qui della sorte mia specchio mi fei,
     10E mira (dissi) ah mira tu, cuor mio,
     In quell’ombra, in quell’erba alfin chi sei.
Se in me con gli anni ogni vigor fuggìo,
     Son quell’ombra che sparve, i giorni miei,
     Quell’arid’erba, ahi misero!, son io.

[p. 169 modifica]


III


Tra le due vaghe Ninfe Eurilla, e Clori
     Un giorno Amor come in sua regia assiso,
     Or da questo a vicenda, or da quel viso
     L’armi prendea per saettare i cuori.
5Quando ecco de’ bei lumi ambe i fulgori
     Fissar quelle fra’ lor con un sorriso
     Dolce così che tutto all’improvviso
     Quindi ei mi accese in duplicati ardori.
Girò dubbio il mio cuor gran tempo intorno,
     10Ch’un gli parea dell’altro riso un eco,
     E specchio l’un dell’altro volto adorno.
Ma dal doppio splendor confuso e cieco,
     Ove alfin si restasse a far soggiorno
     Nol so so, ben che non tornò più meco.


IV


Quanto sei bella, o Lidia! Io veggio il fiume
     Sorgere altero all’una e all’altra riva,
     E quasi per superbia alzar le spume,
     Se del tuo volto a farsi specchio arriva.
5Miro il giglio e la rosa: oltre il costume
     Il sangue in questa, il latte in quel si avviva,
     Se volgi lor de’ tuoi begli occhi il lume,
     Se della man la neve pura e viva.
Se al prato, o al lido il tuo bel piè sen viene,
     10Ogni erbetta vegg’io cangiarsi in fiore;
     Veggio cangiarsi in Or l’alghe e l’arene.
Deh! Lidia, or che farà dunque il mio cuore,
     Che sì vivo il tuo volto in se ritiene,
     Se chi non sente, per te sente amore?


V117


Eterno Genitor, eterna Prole,
     E Tu, che d’ambo uniti eterno spiri,
     Il cui voler muove dell’Etra i giri,
     E ferma base è alla terrena mole.

[p. 170 modifica]

5Dono è di Voi ciò che appagar più suole
     Nella Terra e nel Mar nostri desiri:
     Dono è di Voi, che a vostro prò si aggiri,
     Vostra sì bella immago, in Cielo il Sole.
E se tra quei sublimi eletti Eroi
     10Speriamo un dì nella maggion superna
     Fortunato l’albergo, è don di Voi.
Dunque a Voi la cui man tutto governa,
     Qual fu pria, quale or’è, qual fia dappoi,
     Sia sempre eterno onore, gloria eterna.


VI


Mie deluse speranze! Io già credea
     Per man di lontananza il cuor disciolto;
     E nell’obblio l’antico anor sepolto,
     Della mia libertà fra me godea.
5Ma di questa, non so se Donna, o Dea,
     Riveggio folgorare appena il volto,
     Che nuovamente entro a’ suoi lacci avvolto
     Torno ad amar chi di mia morte è rea.
Tale, ahi lasso!, Uom, che nacque altrui soggetto,
     10Se mai da lungi l’odiosa e dura
     Catena obblìa, poi da vicin n’è stretto.
Tal, se lungi dal Sole onda s’indura,
     Prova, stemprata al di lui primo aspetto,
     Che sembiante cangiò ma non natura.


VII


Come tenera madre, a cui dolente
     Infermo fanciullin chiede quell’esca,
     Cui s’egli ottien, si può temer che cresca
     A gran passi maggiore il mal presente;
5Pur tra’ pianti di lui cieca sua mente
     Non prevede qual danno indi gli accresca,
     E con quel cibo al fin, che sì l’adesca,
     Mentre il consola, al suo morir consente:
Così a l’egro mio cuore, il cui pensiero
     10Vaga Ninfa in bramar pose sua sorte,
     Io pur toglier vorrei cibo sì fiero,

[p. 171 modifica]

Ma nel folle desìo questo è sì forte,
     Che, poichè in van più contraddirgli io spero,
     Ahi che a la sua consento e a la mia morte!


VII


De la colpa a fuggir talor mi provo
     La servitù troppo odioso e dura;
     Ma sempre in van, che per mio male io trovo
     L’uso fatto al peccar volto in natura.
5Lasso! Eterna sarà la mia sventura,
     Se il fonte in me d’ogni mio male io covo,
     Nè mente avrò giammai meno ch’impura,
     Se non ho nuovo cuore e spirto nuovo.
Pietà, mio Dio, del mio dolor ti prenda;
     10De! tu riforma un cor nel petto mio
     Puro così, che sol di te s’accenda.
Spirto eguale poi dammi al mio desio,
     Nè più temcr ch’io tua bontade offenda,
     Or che so quanto perdo in perder Dio.


XI


De gli eserciti Dio, Dio di vendette,
     Nomi, o Signor, troppo temuti e fieri,
     Fa sì, che tremi il Peccator, nè speri
     Se non stragi da Te, se non saette.
5Ma solo in palesar quali promette
     A un cuor pentito almi contenti e veri,
     Io farò che i di lui dubbi pensieri
     La tua bontade a dolce speme allette.
Dirò, ch’ove dolente a piè ti cada,
     10Quando par che ti accinga a farne esempio,
     Per unirtelo al sen getti la spada.
Poi chiaro in me ne additerò l’esempio:
     E lieto allor per la segnata strada
     A te correr vedrai pentito ogn’Empio.


X


Se col pensier sovra me stesso io m’ergo
     Il numero a guardar de’ falli miei,
     Per cui servo del senso, io già mi fei
     Di mille mostri spaventoso albergo:

[p. 172 modifica]

5Ovunque io mi rivolgo a fronte e a tergo,
     Veggo, o Signor, che intorno a me Tu sei
     Con quel flagello, onde gastighi i Rei,
     Nè contra i colpi tuoi ritrovo usbergo.
Deh cessi l’ira in Te, cessi lo sdegno,
     10Nè tutto di furor s’armi il tuo ciglio,
     Ma la Giustizia a la Pietà dia ’l regno.
Già m’esorta a sperar dolce consiglio:
     Se di perdono a supplicare or vegno
     Te Giudice, ma Padre, io reo, ma figlio.


XI118


Premio, che a ben amarti il cor conforte,
     Il promesso non è regno superno:
     E non è solo il sì temuto Inferno,
     Che di offenderti, o Dio, timor mi apporte.
5Tu mi muovi, o mio Dio, mi muove il forte
     Duolo, onde affisso e lacero ti scerno
     Su quella croce, muovemi il tuo scherno,
     Muovonmi le tue piaghe e la tua morte.
Muovemi al fine il tuo sì grande amore:
     10Sicchè amor senza Cielo in me pur fora,
     Fora ancor senza Inferno in me timore.
Speme di dono alcun non m’innamora;
     Che, ciò che spera non sperando, il cuore
     Tanto ti adorerìa quanto t’adora.


VINCENZO DA FILICAIA



I


Piangesti, Roma: e in te si vide espressa
     Ira e pietade allor, che in fiere guise
     Il non suo fallo in se punìo l’oppressa

[p. 173 modifica]

    Donna, e del casto sangue il ferro intrise.
5E piansi anch’io, quando mia Speme anch’essa
     Priva di speme alla sua man commise
     Di se stessa l’eccidio, ed in se stessa
     I propri oltraggi, e le mie brame uccise.
Ambo dunque piangemmo, e ad ambo insieme
     10Diè sventura diversa ugual dolore,
     E d’ugual gioia i nostri guai fur seme.
Chè te potèo di servitù trar fuore
     Lucrezia uccisa, e a me l’uccisa Speme
     Render potèo la libertà del cuore.


II


Sono, Italia, per te discordia e morte
     In due nomi una cosa, e a sì gran male
     Un mal s’aggiunge non minor, che frale
     Non se’ abbastanza, nè abbastanza forte.
5In tale stato, in così dubbia sorte
     Ceder non piace, e contrastar non vale;
     Onde, come a mezz’aria impennan l’ale,
     E a fiera pugna i venti apron le porte:
Tra il Frale, e il Forte tuo non altrimenti
     10Nascon, quasi a mezz’aria, e guerra fanno
     D’ira, invidia, timor turbini e venti.
E tai piovono in te nembi d’affanno,
     Che se speri, o disperi, osi, o paventi
     Diverso è 'l rischio, e sempre ugual fia ’l danno.


III


Italia, Italia, o tu, cui feo la Sorte
     Dono infelice di bellezza, ond’hai
     Funesta dote d’infiniti guai,
     Che in fronte scritti per gran doglia porte;
5Deh fossi tu men bella o almen più forte,
     Onde assai più ti paventasse, o assai
     T’amasse men chi del tuo Bello a i rai
     Par, che si strugga, e pur ti sfida a morte!
Che or giù dall’Alpi non vedrei torrenti
     10Scender d’Armati, nè di sangue tinta

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     Bever l’onda del Pò Gallici armenti;
Nè te vedrei, del non tuo ferro cinta,
     Pugnar col braccio di straniere genti,
     Per servir sempre o vincitrice, o vinta.


IV119


Dal cuore agli occhi, e poi dagli occhi al cuore,
     Se in reciprochi sguardi è ver che passi
     Di sangue un tenue spirto, e in petto lassi
     Tempre uniformi e somiglianza e amore:
5Ben fia, Signor, che de’ vostr’occhi fuore
     Virtù del sangue vostro in me trapassi,
     E ’l senso affreni e l’alterezza abbassi,
     E purghi, e sgombri ogni mio antico errore:
E in Voi pur fia, che dai miei sguardi esali
     10Il mio spirto, e pietà stringa dappoi
     Me de’ vostri dolor, Voi de’ miei mali.
Onde amanti ed amati ambo da noi
     Restiam poi sempre inegualmente eguali,
     Voi in me trasfuso, io crocifisso in Voi.


V120


Qual madre i figli con pietoso affetto
     Mira, e d’amor si strugge lor davante,
     E un bacia in fronte, ed un si stringe al petto,
     Uno tien su i ginocchi, un sulle piante;
5E mentre agli atti ai gemiti all’aspetto
     Lor voglie intende sì diverse e tante,
     A questi un guardo, a quei dispensa un detto,
     E se ride, o s’adira, è sempre amante:
Tal per noi Provvidenza alta infinita
     10Veglia, e questi conforta, e quei provvede,
     E tutti ascolta, e porge a tutti aita;
E se niega talor grazia o mercede,
     O niega sol perchè a pregar ne invita,
     O negar finge, e nel negar concede.

[p. 175 modifica]


VI


Nè fera tigre, che dagli occhi spire
     Rabbia e terror; nè sotto il sol più ardente
     Angue celato, che fischiando avvente
     Se stesso, e in piè si vibri alto, e s’adire:
5Nè accesa folgor, che i gran monti aprire
     Odasi; nè superbo ampio torrente,
     Che gli argin rotti baldanzosamente
     Scorra, e pel non suo letto erri e s’aggire,
Paventan sì l’impaurito armento,
     10E ’l timido arator, com’io l’ignuda
     Mia coscienza e gli error miei pavento:
Nè furia ultrice di pietà sì nuda
     Sta negli abissi, che di quel, ch’io sento
     Crudo interno dolor, non sia men cruda.


VII


Dov’è Italia il tuo braccio? E a che ti servi
     Tu dell’altrui? Non è, s’io scorgo il vero
     Di chi t’offende il difensor men fero:
     Ambo nemici sono, ambo fur servi.
5Così dunque l’onor, così conservi
     Gli avanzi tu del glorioso Impero?
     Così al valor, così al valor primiero,
     Che a te fede giurò, la fede osservi?
Or va; repudia il valor prisco, e sposa
     10L’Ozio, e fra il sangue i gemiti e le strida
     Nel periglio maggior dormi, e riposa.
Dormi adultera vil, finchè omicida
     Spada ultrice ti svegli, e sonnacchiosa,
     E nuda in braccio al tuo Fedel t’uccida.


VIII


Redi, se un guardo a voi talor volgeste
     Come a voi tutti ognor gli altrui volgete,
     E voi sembraste un altro, e qual voi siete,
     E qual fia ’l Mondo senza voi vedeste;
5Di sdegno pieno, e pietà direste:
     Arti omicide, che l’età struggete,

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     Perchè tanto, ah perchè tanto piacete,
     Se siete tanto al viver nostro infeste?
Di tanti studi sotto il fascio antico
     10Posi omai stanco, nè più sparga inchiostro
     Questi amante di sè troppo, e nemico.
Conì direste, ond’io disvelo e mostro
     Voi stesso a voi nel vostro inganno, e dico:
     Vostra l’ammenda sia, che 'l fallo è vostro.


IX121


Sull’altere di Buda empie ruine
     Siede stanco, e mi dice il mio pensiero:
     Qui le sciagure del Pannonio impero
     Ebber principio, e forse avran qui fine.
5Qui, come fulmin che dal Ciel ruine,
     Precipitosamente il gran Guerriero122
     Giunse, quì ruppe il forte muro altero,
     E quì pose al valor meta e confine.
Mira poi, dice, d’incredibil cose
     10Lunga serie, ma vera: e mia in quante
     Guise ai gran rischi il real capo espose123.
Mira, che al volger del suo fier sembiante
     Tremò Belgrado nè a’ suoi sforzi oppose
     L’inespugnabil rocca argin bastante.


X


Se grazia il Vinto al Vincitor veruna
     Chieder puote, o mercè, nel grave atroce
     Mio terribil naufragio odi, o Fortuna,
     D’un naufrago meschin l’ultima voce.
5Calma non chieggio a’ miei pensier, ch’alcuna
     Calma i miser non hanno; e già veloce

[p. 177 modifica]

     Nel mar di morte la turbata e bruna
     Onda va de’ miei giorni a metter foce.
Nè chieggio il nuoto, onde potèo l’oppresso
     10Cesare, ad onta de l’Egizie squadre,
     Campar gli Scritti, e preservar sè stesso,
Chieggio sol, che (alle mie poco leggiadre
     Rime se sperar vita unqua è concesso)
     Abbian vita le figlie, e pera il Padre.


XI124


Questa, che scossa di sue regie fronde
     Sol con l’augusto tronco ombra facea
     Gran pianta eccelsa, e tanto al Ciel s’ergea,
     Quando fur sue radici ampie e profonde;
5Questa, ove nido fean gli ingegni, e d’onde
     Virtù sostegno e nudrimento avea,
     E che di gloria i rami alti stendea
     Dal Caspia lido alle Tirintie sponde:
Ecco cede al suo peso, ecco dall’ime
     10Parti si schianta, e ciò ch’un tempo resse,
     Con la cadente sua grandezza opprime;
E, come il Mondo al suo cader cadesse,
     Strage apporta sì vasta e sì sublime,
     Ch’han maestà le sue ruine istesse.


XII


Grande fui mentre io vissi, e scettro tenne
     Per me Virtute, e ’l tenni anch’io con lei,
     E lei cadente sostener potei,
     Ed un soglio medesmo ambe sostenne.
5E le Latine, e le Toscane penne,
     E l’Arti tutte, che più belle io fei,
     Mi fur serve, e dier legge i cenni miei
     Alla Fama, e ’l mio dir Fama divenne.
Onde l’erranti Stelle appena in parte
     10Potean dall’alto rimirar quant’io

[p. 178 modifica]

     Stesi l’ampio dominio in ogni parte:
Ch’ove in pregio eran l’opre, ove all’obblio
     Si fea guerra, e fiorian gli studi e l’arte
     Ivi era il regno, ivi l’imperio mio.


XIII


Sul Tebro io l’ebbi, e poi che gli occhi al Vero
     Aprii, del Verbo all’apparir disparve
     Quel tessuto splendor d’ombre e di larve,
     Che l’Alme abbaglia, e qui s’appella Impero.
5Stupio Natura, ed inarcò l’altero
     Suo ciglio Roma nel gran dì che apparve
     Il real fasto conculcato, e parve
     Quasi agli occhi negar fede il pensiero.
Ma fatto appena l’immortal rifiuto,
     10Me sull’eccelse mie ruine alzai,
     Nè a me Regno mancò mai, nè tributo.
E me tant’alto sovra me levai,
     Che non ha mai col Regno altri saputo
     Regnar, quant’io senza regnar regnai.


XIV125


Morte, che tanta di me parte prendi,
     E lasci l’altra del suo albergo fuore,
     Se intendesti giammai che cosa è amore,
     O ti prendi anco questa, o quella rendi.
5E se tant’oltre il poter tuo non stendi,
     Armami almen del tuo natìo rigore,
     E contra i colpi del crudel dolore
     Tu, che sì m’offendesti, or mi difendi.
Ma nè d’erbe virtù, nè d’arte maga,
     10Nè a risaldar bastanti unqua sarieno
     Balsami di Ragion sì acerba piaga;
Onde lentando al giusto duol il freno
     Forz’è ch’io pianga, e del mio Ben la vaga
     Immago adombri in queste carte almeno.

[p. 179 modifica]


XV


E ben potrà mia Musa entro le morte
     Membra ripor lo spirto, e viva e vera
     Mostrar lei, qual dianzi, e dir qual’era,
     E parte tor di sue ragioni a Morte.
5Dir potrà, che fu giusta e saggia e forte,
     Onor del sesso, e di sua stirpe altera;
     Donna, che fuor della volgare schiera
     Il Ciel già diede al secol nostro in sorte.
Donna, che altrui fu norma; e norma solo
     10Di sè, dando a sè stessa, in sè prescrisse
     Legge a gli affetti, e frenò l’ira e ’l duolo.
Donna, che in quanto fece e in quanto disse,
     Tanto levossi sovra l’altre a volo,
     Che mortal ne sembrò sol perchè visse.


XVI


Era già il tempo, che del vin la neve
     Stagiona i frutti di Virtù matura,
     E co’ sensi Ragion più s’assicura,
     E forze il Senno dall’età riceve.
5Quando l’ora fatal, che giunger deve,
     Fe’ torto al Mondo, e impoverì Natura
     D’un Ben che qui sotto mortal figura
     Sì tardo apparve, e sparì poi sì lieve.
Tutta allor di sè armata, e in sè racchiusa
     10Nel suo più interno alto recinto ascese
     La Donna forte, a paventar non usa.
E nuove alzando intorno a sè difese
     Lasciò in preda il suo frale; e la delusa
     Morte non lei, ma la sua spoglia offese.


XVII


Vidila in sogno più gentil che pria,
     E in un atto amoroso, e in un sembiante
     Sì leggiadro e sì dolce a me davante,
     Che un cuor di selce intenerito avrìa.
5Volgi, mi disse, il guardo a questa mia
     Non più vita mortal, qual’era innante:

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     E se ’l Ciel non m’invidii, ah! perchè a tante
     Stille amare per gli occhi apri la via?
Non t’è noto, ch’io vivo? E non t’è noto,
     10Che a far la vita mia di vita priva,
     Scocca la Morte, e scocca il Tempo a vuoto?
Ma se pianger vuoi pur, col pianto avviva
     L’egro tuo spirto, che di spirto è vuoto;
     Che ben morto sei tu, quant’io son viva.


XVIII


Così parlommi, e per l’afflitte vene
     Sprito corse di conforto al core:
     Ma l’Alma ritenendo il primo errore,
     Segue a nutrir le sue feconde pene.
5Ahi come a filo debile s’attiene
     Il viver nostro, e come passan l’ore!
     E come tosto inaridisce e muore
     Anzi suo tempo il fior di nostra spene!
Due spirti Amor con ingegnoso innesto
     10Giunti avea sì, che potean dirsi un solo;
     E questo in quel viveasi, quello in questo.
Sparve l’uno, e spiegò ver l’Etra il volo,
     Lasciando all’altro solitario e mesto
     Per suo retaggio il desiderio e ’l duolo.


XIX


Or chi fia che i men noti e i più sospetti
     Scogli mi mostri, onde la vita è piena?
     E la turbata Sorte, e la serena,
     Col proprio esempio a ben’usar m’alletti?
5Chi fia che gli egri miei confusi affetti
     Purghi, e rischiari, e dia lor polso, e lena?
     E degl’interni moti alla gran Piena
     Argine opponga di consigli eletti?
Chi fia, che meco i suoi pensier divida,
     10E de’ casi consorte o buoni o rei,
     Al mio riso, al mio pianto e pianga, e rida?
Fammi, o Morte, ragion, se giusta sei,
     O uccida il Tempo, pria che ’l duol m’uccida,
     La memoria del Ben, se ’l Ben perdei.

[p. 181 modifica]


XX


Oh quante volte con pietoso affetto,
     T’amo, diss’ella, e t’amerò qual figlio!
     Ond’io bagnai per tenerezza il ciglio,
     E nel tempio del cuor sacrai suo detto.
5Da indi, o fosse di Natura effetto,
     O pur d’alta virtù forza e consiglio,
     L’amai qual madre; e questo basso esiglio
     Mi fu solo per lei caro, e diletto.
Vincol di sangue, e lealtà di mente,
     10E tacer saggio, e ragionar cortese,
     E bontà cauta, e libertà prudente,
E oneste voglie in santo zelo accese
     Fur quell’esca leggiadra, a cui repente
     L’inestinguibil mio fuoco s’accese.


XXI


Fuoco, cui spegner de’ miei pianti l’acque
     Non potran mai, nè de’ sospiri il vento;
     Perchè in terra non fu suo nascimento,
     Nè terrena materia unqua gli piacque.
5Prima che nascess’io, nel Cielo ei nacque,
     Ed ancor vive, nè giammai fia spento,
     Che alle faville sue porge alimento
     Quella, che a Noi morendo, al Ciel rinacque.
Anzi or lassù vie più s’accende, e nuova
     10A sua virtù virtute ivi s’aggiunge,
     Ov’ei sè stesso, e ’l suo principio trova.
E mentre al primo ardor si ricongiunge,
     Cresce così, che con mirabil pruova
     Più che pria da vicin, m’arde or da lunge.


XXII


Signor, fu mia ventura, e tuo gran dono
     L’amar Costei, che ad amar te mi trasse:
     Costei, che in me la sua bontà ritrasse,
     Per farmi a te simil più ch’io non sono.
5Onde in pensar, quanto sei giusto e buono,
     Convien che gli occhi riverenti abbasse;

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     E ch’altro duol più saggio il cor mi passe,
     Chiedendo a te del primo duol perdono.
Ch’io so ben, ch’a mio prò di lei son privo,
     10Perch’io la segua, e miri a fronte a fronte
     Quanto è il suo Bello in te più bello e vivo.
Più allor mie voglie a ben amar fian pronte:
     Chè se in quella t’amai qual forte in rivo,
     Amerò quella in te qual rivo in fonte.


XXIII126


Nate e cresciute sotto fier Pianeta
     Son le pecore mie pur magre e smunte!
     Rio quei non è, che scorra, erba, che spunte
     Per loro, e ’l Ciel se ’l vede, e pur nol vieta.
5Ed or, che i campi estivo raggio asseta,
     Arse, e languenti, e dal digiun consunte
     Paion dir: ove ohimè, dove siam giunte!
     Morte, o ristoro al nostro duol sia meta.
Io gli occhi abbasso per dolor, nè loco
     10Mutar mi lice, ch’è destin, ch’io deggia
     Esser qui esempio di Fortuna, e giuoco.
E vò, che l’empia si satolli, e veggia
     Pur una volta (e lo vedrà tra poco)
     Tutta perir col suo Pastor la Greggia.


XXIV


Giunto quel Grande, ove l’altrui gran torto,
     E ’l suo duolo il guidò ramingo e vago,
     Spettacolo infelice, aspro conforto
     Cartago a Mario fù, Mario a Cartago;
5A lui quella dicea: Chi qua ti ha scorto
     Ne’ miei scempi a mirar de’ Tuoi l’immago?
     Ed egli a lei: Ne’ tuoi naufragi il porto
     Trovo a’ propri naufragi, e in te m’appago:
Così un dì nel mio volto al dolor mio
     10Mostrai ’l suo volto, ed egli in se i mie’ guai
     Coll’energia d’un guardò a me scoprio.

[p. 183 modifica]

E disse: ascolta il tuo destin. Sarai
     Sempre misero e in pene; allor diss’io:
     In pene sì, ma in servitù non mai.


LORENZO VECCHI FIORINI127


Non mi fermo a pensar gl’eccelsi e rari
     Pregi, nobil Garzon, e ’l glorioso
     Nome, onde il Ren sen va chiaro e famoso,
     E tu ten vai de’ tuoi grand’Avi al pari.
5Nè di Colei, che in amorosi e cari
     Nodi Amor ti congiunge, il virtuoso
     Costume e gentil tratto, onde ben oso
     Dir, che da questa fia ch’ogn’altra impari.
Io vò più oltre col pensiero, e parmi
     10Veder la schiera de’ futuri Eroi,
     Altri per saper grandi, altri per armi,
Teco al gran Zio starsi d’intorno, e i suoi
     Saggi consigli, udir; ond’ognun s’armi,
     E la Fè porti oltre de’ lidi Eoi.


NICCOLÒ FORTEGUERRI.


I


L’altr’ier Dorinda mia mi fece muso;
     Ier mi rispose freddamente, ed oggi
     Non è giù in Pian, ma di Silvin ne’ poggi.
     Cose insolite tutte, e fuor dell’uso.
5Vanne, Menalca, a lei, e tralla giuso
     Al consueto rio; e fa che sloggi
     Di là, dove Silvin numera a moggi
     Ghiande e castagne, ond’io non sia deluso.
Molto ella m’ama, il so, e ancor tu ’l sai:
     10Ma che non fan ricchezze, e non han fatto?
     Esse sole han di Amor più forza assai.
Però corrine a lei, corrine ratto,

[p. 184 modifica]

     Pria che Silvin la invogli di quei rai,
     Che spande l’oro, e sia il mio amor disfatto.


II


Piccola pianta, che si scorge appena,
     Nasce dentro di noi l’empio sospetto:
     Ma presto cresce, e tal seco ombra mena,
     Che tutt’oscura il chiaro almo intelletto.
5Nè per troncar di rami alla serena
     Luce del Vero ei può dar più ricetto,
     Se Ragion con possente eccelsa lena
     Tutto non spezza l’albor maledetto.
E ad una ad una non isvelle, e toglie
     10Le maligne radici, ed arde a un tratto
     Col lor tronco, coi rami, e con le foglie:
Ed in cenere poi così disfatto
     In mar nol getta, acciò più non germoglie.
     Tanto ci vuol, perch’egli muoia affatto!


III


Quant’è ch’io sospirava, e che piangea,
     Per far latino il mio sermon toscano,
     Ed ora l’una, ed ora l’altra mano
     Tremante a dura sferza, ahimè!, stendea?
5Quant’è ch’ora vincea, ed or perdea
     Co’ miei Compagni al corso, e per lo vano
     Aer lieve spingea globo lontano,
     E ’l sudor dalla fronte io mi tergea?
Quant’è ch’all’apparir d’Aprile e Maggio
     10Prendeva in man le varie di colore
     Vaghe farfalle, e lor faceva oltraggio?
Sono otto lustri, e pur mi sembran ore.
     Oh come dell’età presto è il viaggio!
     Uom nasce appena, che s’invecchia, e muore.


IV


Se quella fiamma che di vena in vena
     Mi va serpendo, e in mezzo al cuor si posa,
     E lo fa stanza d’alto incendio piena,
     Fosse palese altrui, com’è nascosa,

[p. 185 modifica]

5Si direbbe: niun mai strinse catena
     D’Amor sì forte, e diverrìa pietosa
     Di tanta mia sì lunga acerba pena
     Quella, ch’ancora è del mio amor dubbiosa.
Ma non però tanto l’ascondo e celo,
     10Che per gl’occhi non m’escan le faville,
     Come suol traspirar luce per velo.
E lo veggiono omai ben mille, e mille:
     Ella non già, ch’ancor mi crede un gelo,
     Ah che non mira nelle mie pupille!


V


Era tranquillo il Mare, e ’l Ciel sereno
     E un’aura dolce respirava intorno,
     Onde sciolsi la nave in sì bel giorno,
     Di fortunati auguri il cor ripieno,
5Ma scostatasi alquanto, venne meno
     Del Mar la pace, e il Ciel di luce, adorno
     D’oscure nubi si vestì d’attorno,
     Ed Eolo sciolse a tutti i venti il freno.
E già più giorni son, che la meschina
     10Nave sbattuta và senza conforto
     A dar in scogli ad affondar vicina.
E pur sebbene io sto sì afflitto, e smorto,
     Se si placasse la crudel Marina
     Non volgerei le vele inverso il Porto.


VI


Come Nocchier, che le procelle, e l’onde
     Lungo tempo soffrì del Mare irato,
     Tornato infine al dolce lido amato
     Rivolge il piè dalle fallaci sponde.
5E dove albergo hanno i Pastor s’asconde,
     E segue il viver lor cheto, e beato,
     Nè ha più timor del Ciel quand’è turbato,
     Nè quand’Euro crudel scuote le fronde.
Tal io d’Amor per l’onda acerba e fera
     10Errai molt’anni, e poi ridotto in Porto
     Le spalle le voltai duro e superbo.

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Nè fia mai più, che treccia bionda, o nera
     Mi torni a lei, o parlar dolce accorto:
     Tal del passato orror memoria serbo.


FRANCESCO FROSINI128


Della Croce mi cita innanzi al trono
     L’amor del mio Gesù che t’ho fatt’io,
     Comincia a dir, che così avaro e rio
     Mi sei, quanto sì prodigo ti sono?
5Quanto vivi, quant’hai tutto è mio dono;
     Il tuo sapere il tuo potere è mio;
     Tu peccasti superbo, io pago il fio;
     Tu mi sforzi m’impiaghi, io ti perdono.
Per te che non fec’io? Forse mi chiedi
     10Il cuore? Ecco che a prenderlo ti chiama
     Il seno aperto. Il sangue? Io te lo diedi.
Che vuol dunque di più l’Uomo, che brama?
     Qui rispondo, Signor, steso a’ tuoi piedi:
     Non v’è pena che basti a chi non t’ama.


CARLO INNOCENZO FRUGONI


I


Se talor quercia, che nell’alpi pose
     L’alte radici, e stagion lunga tenne
     Fronte a i fier venti e alle tempeste acquose,
     Che van battendo le sonanti penne;
Scossa e divelta con le forti annose
     5Braccia, e col folto crine a cader venne:
     Escono allor dalle spelonche ascose
     I Villan duri armati di bipenne.
E i rami e ’l tronco smisurato aprico

[p. 187 modifica]

     10Fendon, doppiando i colpi, a’ quai la valle
     Riposta, e ’l curvo lido alto risponde;
E di lei carchi le curvate spalle
     Calan dal giogo, che nel Ciel s’asconde,
     Di lei ridendo e del suo orgoglio antico.


II129


Questa non era nò la pompa in cui,
     Signor, ne’ suoi desiri il tuo ritorno
     Parma volgeva. Oh per lei flebil giorno,
     Che a lei ti rese e ti ritolse altrui!
5Sperò fra i voti, e in un fra i plausi suoi
     Di lunghe opre d’onor raccorti adorno,
     Lieti e felici a te mirando intorno,
     Oimè! gli anni or già tronchi, or non più tui.
Ma qual si restò mai, qualor le gravi
     10Gementi rote, e i destrier mesti, e il lento,
     Carro apparve su lei d’orror velato!
Ed ahi!, te vide tra il comun lamento,
     Per non partirten più, scendere a lato
     Al cenere real dei tuoi grand’Avi!


III130


O pieno di salute, o pien d’impero
     Nome di lei che il Ciel sua Donna cole,
     Nome in cui chiuder queste labbia spero
     L’estremo dì, se sua mercè sel vuole!
5Nome di grazia largo fonte e vero,
     Chi mi darà degne di te parole?
     Già grande stavi nel divin pensiero,
     Nè Luna in Cielo ancor movea nè Sole.
Per farti onore il mar pon giù le irate
     10Spumanti acque, e si placa e dell’orrende
     Tempeste il fragor tace; e, se talora
Sdegnoso Dio guarda le terre ingrate,

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     Tu sì dolce al suo cuor risoni allora,
     Che il braccio in alto per pietà sospende.


IV131


Senti l’Angel di Dio che le sonore
     Penne aprendo a te reca alta novella:
     A che paventi, a che di bel rossore
     Tingi l’intatto volto, o Vergin bella?
5Mira laggiù fin dal beato orrore
     La prima madre al suo Fattor rubella;
     Che pensierosa ancor sul tuo timore
     Pende dal dubbio suon di tua favella,
Dall’affidato labbro esca l’amico
     10Libero accento, e tutta avvivi e terga
     La prole infusa del delitto antico;
E vinte dando al suol le nere terga
     Frema sotto il bel piè l’angue nemico,
     E in van le terre d’atre spume asperga.


V132


Certo scesa tra noi Costei non era
     Perchè altro amore le pugnasse il fianco,
     Se non quel che lasciò, qualor d’un bianco
     Pur vel s’avvolgea l’anima altera.
5Mirate, come in sull’età primiera
     Pel sentier di virtù muove il piè franco;
     Non par che al senso dica infermo e stanco:
     Questa è la via che scorge alla mia spera?
E sì dicendo, il patrio amato albergo
     10Nè pur degna d’un guardo, e vassen come
     Augel che varca a più securo lido:
E il sordo vento il bel pudico nome,
     Che suona intorno e i sospir folli e il grido
     Sen porta, intanto, e le bionde auree chiome.

[p. 189 modifica]


VI133


Veniano in aurei manti in lunga schiera
     Egregi cavalier venian lucenti
     Di non più vista real pompa altera
     Scelti destrieri oltre l’usato ardenti;
5Veniano eccelse donne, e fra lor era
     Gentil gara di voti e d’ornamenti:
     Venian, nobil destando aura guerriera,
     Ricche d’armi e di fregi elette genti.
Italia accorsa il popol tuo vincea,
     10Che te in alti palagi e per via folto
     Di palusi e voti in misto suono chiedea:
Ma chi, grande Enrichetta, in te rivolto
     Rammentare altro, od ammirar potea
     Al primo folgorar del tuo bel volto?


VII134


Or sì, Parma, tu dei la fronte amica
     Velar di gemme e d’ostro: or sì tu dei
     L’elmo di penne folto, e l’asta antica
     Lieta scotere al suon de’ versi miei.
5Udiro i giusti voti i sommi Dei,
     Cui più bearti fora omai fatica:
     Oggi è il natal di Carlo: oggi tu sei
     Salda contra ogni infesta età nemica.
Volgiti all’almo dì, che i bianchi vanni
     10Folgoreggiando batte, e ti ripara
     Sì riccamente de i sofferti danni;
E digli: O sempre sacra, o sempre chiara
     Luce, lassù per l’altre vie degli anni,
     Deh mille volte il bel ritorno impara!

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VIII135


Le tre fatali Dee, cui dato è in sorte
     Guardar l’auguste vite al regno nate
     Aprono, o Carlo, al dì le rosee porte,
     Che guida il giro di tua bella etate.
5Quelle stansi con lor, che in te risorte
     Veggiam, sacre degli Avi alme onorate,
     Sollecite chiedendo di tua sorte
     L’alte vicende nel destin segnate.
Ed elle al lume di quest’Alba amica
     10Te mostran cinto di fulminea spada
     Splender entro guerriera aurea lorica;
E per la vinta Italica contrada
     Con la tua prima militar fatica
     Correr lunga di lauri ombrosa strada.


IX136


Quando il gran Scipio dall’ingrata terra,
     Che gli fu patria e ’l cener suo non ebbe,
     Esule egregio si partì, qual debbe
     Uom che in suo cuor maschio valor rinserra:
5Quei, che seco pugnando andar sotterra,
     Ombre famose, onde sì Italia crebbe,
     Arser di sdegno, e ’l duro esemplo increbbe
     A i Geni della pace e della guerra.
E seguirlo fur viste in atto altero,
     10Sull’indegna fremendo offesa atroce,
     Le virtù antiche del Latino impero:
E allor di Stige sulla nera foce
     Di lui, che l’Alpi superò primiero,
     Rise l’invendicata Ombra feroce.


X137


Quel, che di Libia dal confin potèo

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     Condur oltre l’Ibero armi e paura;
     E Spagna e Gallia vinse, e poi Natura,
     Quando sull’Alpi il gran tragitto feo:
5Quei, che il Tesino e Trebbia e Canne empièo
     Di Latin sangue, e sulle infrante mura
     Salir dovea, seguendo sua ventura,
     Alla terribil cena in sul Tarpèo:
Quegli fu vinto; e nol vincesti, o Roma,
     10Col braccio, onde traesti a i sette colli
     I re superbi dalla terra doma;
Ma il dolce aer Campano, e gli ebbri e folli
     Dì, che lo vider della grave soma
     Scarco, il domaro, e i piacer vili e molli.


NICCOLÒ MARIA DI FUSCO.


I


Madre, io ritorno al dolce seno, al caro
     Piacer di rivederti anzi, ch’io mora;
     Sostiemmi Madre che vicina e l’ora,
     E ’l fin, che sembra altrui cotant’amaro.
5Strale fatal, ma però dolce e chiaro,
     E tal, ch’io non saprei dolermi ancora,
     Il cor ferimmi, e questo che vien fuora
     Per gl’occhi, è il sangue più pregiato, e raro.
Madre, io ti lascio; e in questo bacio estremo
     10Tutta la fede sua, tutto l’amore
     L’infelice tuo Figlio egro ti dona.
Ah! perchè piangi? Noi ci rivedremo
     Presto lassuso; affrena il tuo dolore,
     E a lei, che mi ferì, Madre, perdona.


II138


Ceneri fredde, anzi tra freddi marmi

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     Vivo mio fuoco, che pago e contento
     Nell’ardor mi tenesti e nel tormento,
     Ed or anche hai vigor cenere farmi;
5Fresche son le mie piaghe, e veder parmi
     Lucente e bello il dolce lume spento
     E lieto del mio mal scioglier non tento
     Quel laccio, con cui volle Amor legarmi.
Pianta felice dall’uman terreno
     10Morte ti svelse, ed or traslata in loco!
     Più culto innalzi le superbe cime
Io, che cantai sotto l’Ombroso ameno
     De’ tuoi bei rami, augel palustre e roco
     Or vo piangendo in valli oscure ed ime.


III139


Piero, che i lacci e le rovine e i danni
     Sì ben ne mostri, chè uom ne gela, e pave
     Di questa vita perigliosa e grave
     Per dolci voglie, anzi per duri affanni;
5Prega il buon Padre, che i miei sozzi vanni
     Dapprima io purghi col mio pianto e lave;
     Poscia sua dolce e sant’aura soave
     Gl’innalzi, e meni fuor di tant’inganni.
Me regga ei pur, chè invan m’ergo, e confido
     10All’egre forze, ch’al grand’uopo estremo
     Mi lascian solo, ond’io me ’n cado, e giaccio.
E giaccio, lasso! nell’infame nido,
     Onde movei pur dianzi, e vedo, e temo
     L’esca mal nata, e ’l forte ascoso laccio.


IV140


Amnis, amor Driadum, qui rustica Numina Faunos
     Ad vitreas leni murmure cogis aquas;
Judice quo, sine lege vagus prope littora vidi
     Phyllida purpureo nectere fiore comas:

[p. 193 modifica]

Æstivum si saepe tuis virum addidit undis
     Quae fluit e mestis flebilis unda genis;
Unum oro, vitrea referas sub imagine formam,
     Cui libem arcanas ad pia vota faces.
Ab renuis! nunquam mihi fiumina dura putaram,
     Sed Mare, quod duro e marmore nomen habet.
At Dea saeva docet sic te durescere, quando
     Forma nitet liquidas durior inter aquas.
Prodigus usque oculis imbres tibi largiter, illi
     Prodigus effudi corde fiagrans animam.
Attamen illa sui mihi semper amoris avara est,
     Et mihi tu formae, qua praeit illa Deas.

Fiume, che all’onde tue Ninfe, e Pastori
     Inviti con soave mormorio,
     Al cui consiglio il biondo crin vid'io
     Spesso Fillide mia cinger di fiori,
5Se a tuoi cristalli infra gl’estivi ardori
     Sovente accrebbi lagrimando un Rio,
     Mostrami per pietà l’Idolo mio
     Ne’ tuoi fugaci argenti, ond’io l’adori.
Ah tu mel nieghi! io credea duri i Mari,
     10I Fiumi nò: ma tu dallo splendore,
     Che in te si specchia, ad esser duro impari.
Prodigo a te degl’occhi, a lei del cuore
     Fui sempre e sono, e voi mi siete avari,
     Tu della bella immago, ella d’amore.


V141


Guarda, mi disse, e in dolce atto cortese
     Mostrommi Amor leggiadra copia eletta;
     E non mai, disse, ebbe la mia saetta
     Scopo più degno, e più bel foco accese.
5Non v’ha, soggiunse, in quest’almo paese
     Più chiari spirti, e in van da voi s’aspetta
     Nodo miglior, che più cara e diletta
     Coppia quaggiù dal Ciel unqua non scese.

[p. 194 modifica]

Disse, ed in volto a’ fortunati Sposi
     10Lietamente guardò tre volte, e rise,
     Com’uom che di bell’opra si compiace.
Vivete lieti, o fidi avventurosi
     Felici Amanti, e ciò ch’Amor promise
     Godete in lunga desiata pace.


VI142


Lasso! perchè non parte almen per poco
     L’aspro dolor, ch’è meco a tutte l’ore?
     E perchè torna all’usitato errore
     Il pensier tristo, onde s’accende il foco?
5Tempo non mi parea questo, nè loco
     Da temer l’onte del crudel Signore,
     Nè mi parea che qui dovesse Amore
     Rifar per suo diletto il tristo giuoco.
Stanchi son gl’occhi, e l’uno e l’altro fianco.
     10E di riposo ancor non v’è speranza,
     Chè il crudo Amor di lagrime si pasce.
Convien, ch’io torni, come son già stanco,
     E mal mio grado alla dolente usanza,
     Ch’altro che Morte non farà, ch’io lasce.



DELL’ABB. FRANCESCO MARIA GAGNANI.


Il buon Guerrier, che a vendicar la morte
     De’ rari Amici presso a Tebe uccise
     L’orribile serpente, e a lui recise
     Il vasto capo, in un pietoso, e forte;
5I denti alla futura ignota sorte
     Sparse dell’angue, che in vendetta ancise
     E squadre nascer vide in strane guise

[p. 195 modifica]

     Tra sè nemiche, e nate appena e morte.
Così da semi d’un amor, ch’estinse
     10Ragion in me, d’alti pensieri amica
     Turba poi nacque che al mio cor si strinse;
Ma del vario desir fatta nemica,
     Cadde sul campo, ond’io non so chi vinse
     Se la Ragion, o se la fiamma antica.



ALESSANDRO GALANTI.


I


Cantando un dì per queste rive altero
     Men gìa di bella Libertade accanto,
     Che ognor da’ colpi dell’Idalio arciero
     Mi ricoprìa col suo sicuro ammanto.
5Ruppe fuggendo Amor l’arco guerriero,
     Poichè non ebbe di ferirmi il vanto;
     Ma con Ninfa gentil tornò sì fiero,
     Che diede agli occhi in un diletto, e pianto.
E mentre all’improvviso almo splendore
     10De’ lumi suoi tenea gli sguardi io fissi
     Scender sentii mille saette al core.
Colla vezzosa Ninfa allora unissi,
     E lasciandomi solo in man d’Amore,
     Da me lontan la Libertà fuggissi.


II


Un amico pensier talor mi sgrida:
     Questa Donna crudel fuggi, che morte
     A’ danni tuoi celatamente annida
     In dolci sguardi, e in parolette accorte.
5E allor ver lei colmo di sdegno: infida
     Ecco mi sciolgo già di tue ritorte,
     Già t’odio; e l’odio, or che ragion m’è guida,
     Sarà più dell’amor costante, e forte.
Mi arrossisco de i pianti, e de i sospiri
     10Sparsi lunga stagione per te d’intorno,

[p. 196 modifica]

    De i pensier, della speme, e de i desiri.
Ma che! Ad un lambo sol del viso adorno
     La Ragion fugge, e più crudi i martiri
     Fanno al mio sen col primo amor ritorno.


ANTONIO GALEANI.


Pur, Damon, te l’ho detto, e nulla valci;
     Or m’è pur forza infin, ch’io te l’additi:
     Mira quel capro con gli usati riti
     Là spampinarmi i più fecondi tralci.
5Con quanti denti egli ha, con tante falci
     La vita tronca a queste care viti;
     E perchè, per vietar discordie e liti,
     Nol guidi a ruminar erbette e falci?
Forse ch’a te del pampinoso Dio
     10Spiace il licor, che sì sovente storna
     Quel, benchè poco, ingegno tuo natio?
S’ei vi torna, Damon, s’egli vi torna,
     Possa veder a me le corna, s’io
     A te nol fo tornar senza le corna.


FRANCESCO MARIA GASPARRI


I143


Son già tre lustri (ah sian pur cento, e mille)
     Almo Nocchier, ch’alla gran nave imperi:
     Nè a lei spirar mai vidi aure tranquille,
     Nè sorger di men che cruciosi, e neri.
5Mugghiare il Suol, tremar Cittadi, e Ville
     Vidi, e morti cadere armenti interi;
     E seminando belliche faville
     Su i nostri campi errar Duci, e Guerrieri.

[p. 197 modifica]

Poi vidi l’Asia uscir dal suo soggiorno,
     10Qual non la vide in arme Ida ne’ Xanto,
     Guatando Europa, e minacciando intorno.
Ma vinta cadde, e tua fu l’opra e ’l vanto.
     Oh per noi lieto avventuroso giorno,
     Giorno, che vale di tant’anni il pianto!


traduzione di michel giuseppe morei


Jam tria lustra (precor tibi centum, et mille supersint)
    Navita iaetatam cum regis Alme ratem;
Nec dum illi placidas blandiri vidimus auras,
     Nec dum orta est illi non tenebrosa dies.
5Nunc mugire solum, et tremere omnia vidimus, et nunc
     Armenta occultam tota subire luem.
Nunc nostros supra campos horrentia belli
     Semina spargentes vidimus ire Duces;
Mox Asiam Odrysiis armatam erumpere Claustris,
     10Europae obliquis Regna tuemtem oculis;
Tanta mole Virum, quantam non viderit olim
     Fervere Dardanio Xantus, et Ida iugo.
Victa tamen cecidit: tanta victoria pugnae
     Tota tua est Clemens, gloria tanta tua est.
15Fortunata dies, quae longa incommoda pensa,
     Tot merito fletibus empta dies!


II


Forse ch’è giunto il desiato fine
     All’Impero dell’Asia e ai nostri danni;
     Nè più dovranno de’ sofferti inganni
     Invendicate errar l’Ombre latine.
5Parmi, che al Babilonico confine
     Stendan l’Aquile altere i rostri e i vanni,
     E che la Donna d’Adria in lieti panni
     Sereni il volto, e ricomponga il crine.

[p. 198 modifica]

Tosto di cento Eroi l’almo sembiante
     10In tele, o in marmi con divin lavoro
     Vedremo espresso, ed armi e navi infrante.
Vedrem de’ sommi Duci in mezzo al coro
     Sculto l’augusto Carlo, e il regio Infante
     Rider scherzando col paterno alloro.


III


Sebben delusa dalla steril terra
     Fu spesso del cultor l’aspra fatica,
     Pur ei nel crudo suol con mano amica
     Le speranze dell’anno asconde e serra.
5Il ferito Guerrier giura ch’in guerra
     Mai più non cingerà spada o lorica,
     Indi posta in obblìo la piaga antica,
     Ritorna in campo, e il prisco brando afferra.
Detesta i flutti in cui si vede assorto,
     10Il naufrago Nocchier, ma riede poi
     Securo in Mar, nè più si volge al porto.
Torna ogn’uom agli studi, e agli amor suoi.
     Tal’io, benchè quasi trafitto e morto,
     Dico fuggirvi, o Filli, e torno a Voi.


IV144


Prode Signor, che collo Scettro altero
     Minacci Rodi e l’Affrica vicina,
     E cotant’oltre il riverito Impero
     Distendi per la Barbara Marina.
5Di cento Figlie collo stuol guerriero,
     Italia, la gran Donna a te s’inchina,
     Prendendo in viso quel color primiero,
     Ch’ebbe al buon tempo quando fu Reina.
Tra queste l’alta Roma, e Siena amante
     10Volgono a te pien d’allegrezza il ciglio,
     E fansi all’altre inclite Suore avante.
L’una esalta di te l’opre, e ’l consiglio,

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     L’altra fermasi intenta al tuo sembiante,
     Qual lieta Madre, che rivegga il Figlio.


V145


D’illustri ulivi, e di famosi allori
     Signor, Te vidi alteramente ornato,
     Nella Città, che a noi provida dato
     Chi or gode i primi ricusati onori.
5Vidi il Metauro i tributari umori
     Portar superbo all’Adria oltre l’usato,
     E dell’Autunno ad onta il colle, e ’l prato
     Verdeggiar di nuov’erbe e nuovi fiori.
Solo tu non vedesti i tuoi gran pregi,
     10Anzi tentasti con bell’arte umile
     Convertirle tue glorie in tuoi dispregi:
Chè tua virtù forma non cangia o stile
     D’immortal serto e di novelli fregi
     Sebben Tu cingi il dotto crin gentile.


VI146


Pure in tanta grandezza oh qual risplende
     Dolce raggio d’amor, che n’assecura!
     E dice a noi: semplice gente e pura
     Appressatevi a lui chè al Trono ascende.
5Quindi Arcadia s’affida, e speme prende,
     Cesare invitto, di maggior ventura
     Ergendo al volto Augusto i rai secura,
     Qual augel, che il Sol mira, e in lui s’accende.
Ma appena il guardo riverente affisa,
     10Che sfavillare il glorioso, e santo
     Gran Padre, e tue virtudi in te ravvisa.
Nè fia stupor, se il regio serto e il manto
     Ti cinse, e stassi alteramente assisa
     Bella Clemenza al tuo gran Nume accanto.

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FERDINANDO ANTONIO GHEDINO.


I


Sei pur tu, pur ti veggio, o gran Latina
     Città, di cui quanto il Sol aureo gira
     Nè altera più, nè più, onorata mira,
     Quantunque involta nella tua ruina.
5Queste le mura son, cui trema, e inchina
     Pur anche il Mondo, non che pregia e ammira;
     Queste le vie, per cui con scorno, ed ira
     Portar barbari Re la fronte china.
E questi, che v’incontro a ciascun passo,
     10Avanzi son delle mirabil’ opre
     Men dal furor, che dall’età securi:
Ma in tanta strage, or chi mi addita e scopre
     In spirito vivo, e non in bronzo o in sasso,
     Una reliquia de’ Fabrizi, e Curi?


II


Se giusto duol può meritar pietade,
     E se l’estremo supplicar de’ rei
     Mai s’esaudì, deh mostrami qual sei,
     Che sì mi tieni, piedi e man legate.
5Ben conosco a tua immensa potestate;
     Che vai del par cogl’immortali Dei:
     Ma, Signor mio, te pur veder vorrei,
     Che il veder Uom non rende libertate.
Discendi in mia prigion cotanto oscura
     10Con lume, e serra gli occhi, o tosto fuggi
     Se pietà del mio mal ti fa paura.
Io n’ho vergogna omai, più che dolore,
     Esser tant’anni, che m’affliggi e struggi,
     E ancor non saper dir che cosa è Amore.

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GIROLAMO GIGLI


I


Madre, facciamo un cambio: eccoti il legno,
     Che sostenne il tuo Dio, dall’Uom svenato;
     Tu dammi quel, che al fianco tuo piagato,
     Quando Dio ti trafisse, era sostegno.
5Questo fu scala, onde al Celeste Regno
     Si ricondusse Adam, dal Ciel cacciato:
     E questo per sua guida a Pier fu dato
     Quando a Roma tornò sede e triregno.
Questo è del Re de’ Regi e scettro e trono,
     10Onde alfin sembra ingiusto e disuguale,
     Coll’altro umile appoggio il cambio e il dono.
Ma pur, Madre, cambiamo; a me sta male
     Lo scettro in man, che tutto lacci sono,
     L’appoggio in mano a te, che sei tutt’ale.


II147


Casto Pastore di più casta Agnella
     A pascer gigli tutto il dì la mena,
     E quando in Ciel appar l’Alba serena,
     A ber l’umor della più pura stella.
5Ma un dì volto a mirar la sua mammella,
     Che crede intatta, e pur conosce piena,
     Dubbio rimane, e poi del dubbio ha pena,
     E tra ’l senso e la Fede il cuor duella.
Alfin la Fè s’arrende, e cheto il piede
     10Ei lungi vuol portar; ma una divina
     Luce il trattiene, ed alla guardia ei riede.
E in rammentar la graziosa brina,
     Che a Gedeon piovve sul velo, ei crede
     Pura l’Agnella e al gran Mister s’inchina.

[p. 202 modifica]


III148


Era ogni cosa orror, notte e procella,
     E il pianto e il sangue non avean più sponda:
     Quand’ecco in Ciel la mattutina stella,
     E tre Monti spuntar veggio in quest’onda.
5Uno è quel Monte, in cui Noè rappella
     Il fido augel coll’aspettata fronda:
     L’altro, ove Abram contro ’l suo amor duella,
     Poi col gran cuore il gran coltel seconda.
Il Sina è l’altro, a cui nebbia ed arsura
     10Velan le cime, onde allo stuolo infido
     L’alta legge del Ciel scese in figura.
Ahi Monti, ahi Monti (in fra ’l naufragio) io grido!
     E fian colà, finchè il periglio dura,
     Pace, Fede a Giustizia il nostro lido.


IV


Ferisce Amor due Serafini amanti,
     E nelle piaghe lor forma se stesso:
     Un di raggio, un di sangue ha il fianco impresso,
     Un mostra, un cela i segni illustri e santi.
5E l’uno e l’altro al Feritore avanti
     S’atterra, e vien da Amor, da doglia oppresso
     E all’uno e all’altro indi non è permesso
     Senza appoggio guidare i passi erranti.
Accoglie Siena e questo e quel sostegno.
     10Uno rinverde, ed oggi pure ha vita,
     Chè serví al Serafin del vivo Segno.
E secco e infranto a noi l’altro s’addita,
     Che l’umiltà trafitta anch’oggi ha sdegno
     Mostrar memorie della gran ferita.


V


Volle Virtude un dì mostrarsi anch’ella
     Armata, come amor, di face accesa:

[p. 203 modifica]

     E tra due faci allor nacque contesa
     Chi avesse per virtù fiamma più bella.
5Era l’una di queste una facella
     Sovr’alta nave in mezzo al mare appesa;
     Ma sua luce agitata e mal difesa
     Già pareva mancar fra la procella.
Entro tomba real quest’altra face
     10Già da cent’anni e cento era riposta
     E splendeva a se stessa in lunga pace.
Ma quella incontro al mare e ai venti esposta
     Scelse Virtude, e disse: a me non piace
     Luce che non combatte, e stà nascosta.


VI


Amor batte due porte all’Alma mia
     E all’orecchie, ed a’ lumi il core appella,
     Per mirar, per udir vaga Donzella,
     Che col raggio e col canto al Ciel fa via;
5Se la voce egli ascolta, i guardi obblia;
     Se intenda a questi poi si scorda quella;
     E cercando la cosa che è più bella,
     Tutt’orecchi e tutt’occhi esser desìa.
Così farmi dolente Amor si vanta,
     10Per doppia gioia, e seco il cor s’adira,
     Ch’assaggiando un piacer, l’altro l’incanta.
E dice, volto a lei, per cui sospira:
     Bell’occhio, non mirar, quand’ella canta,
     Bel labbro, non cantar, quand’ella mira.


VII149


Due famose Vittorie a gran litigi
     Vengon tra loro di beltà e valore:
     Una apparì qui a noi da’ Monti Ghigi,
     Dall’Alpi di Carrara una uscì fuori.
5Dell’una il gran Bernino ornò Parigi,
     Dell’altra il Ciel fè alla nostr’ Arbia onore:

[p. 204 modifica]

     Quella fu alzata a incoronar Luigi,
     Questa è discesa a incoronare Amore.
Con Voi si duole, o Cieli, e quella e questa:
     10Una ch’è duro sasso e non favella,
     Una d’aver beltà fugace e presta.
Deh per far l’una e l’altra opra più bella
     Lo spirto di costei date a cotesta,
     Date a costei l’eternità di quella.


VIII150


Di cento specchi un specchio sol formato,
     Cento aspetti del Sol la Terra rende,
     Con cui mano Latina avara tende
     Lucid’inganni ad uno stuolo alato.
5Del bel raggio incostante innamorato
     L’augello intorno a lui baccante scende;
     E mentre amore il gentil core accende,
     Sente scoccar l’accesa morte a lato.
Miro, o Lucrezia; e quel cristallo frale,
     10Mentre a lui gira intorno il pensier mio,
     Il ritratto divien di più gran male.
Nacque a volare al Cielo uman desìo,
     Ma se a luce terrena ei piega l’ale,
     Perde se, perde quella, e perde Iddio.


IX


Fortuna, io dissi, e volo e mano arresta,
     Ch’hai la fuga e la fe’ troppo leggiera:
     Quel, che vesti il mattin spogli la sera;
     Chi Re s’addormentò, servo si desta.
5Rispose: È Morte a saettar sì presta,
     Sì poco è il ben, tanto è lo stuol, che spera,
     Che acciò n’abbia ciascun la parte intiera,
     Convien ch’un io ne spogli, un ne rivesta.
Poi disse a Clori: almen tu sii costante,

[p. 205 modifica]

     10Se non è la Fortuna, e amor novello
     Non mostri ognora il tuo favor vagante.
Rispose: è così raro anco il mio Bello
     Che per tutta appagar la turba amante
     Convien, ch’or sia di questo, ora di quello.


X


Stavasi Amore, quasi in suo regno assiso
     Nel seren di due luci ardenti ed alme,
     Mille famose insegne, e mille palme
     Spiegando, in un sereno e chiaro viso.
5Quando rivolto a me, che intento e fiso
     Mirava le sue ricche e care salme,
     Or canta, disse, come i cuori e l’Alme,
     E ’l tuo medesmo ancora abbia conquiso.
Nè s’oda risonar l’arme di Marte
     10La voce tua; ma l’alta, e chiara gloria,
     E i divin pregi nostri e di costei:
Così addivine, che nell’altrui vittoria
     Canti mia servitude e i lacci miei,
     E tessa degli affanni issorie in carte.


XI


Se il libro di Bertoldo il ver narrò,
     Così disse a Bertoldo un giorno il Re:
     Fa che doman ritorni avanti a me,
     E che insieme io ti veda, e insieme nò.
5Bertoldo il dì d’appresso al Re tornò,
     Portando un gran crivello avanti a se:
     Così vedere, e non veder si fè,
     E colla pelle altrui la sua salvò.
Or la risposta mia cavo da quì
     10Pe ’l Crivel, che la saggia Antichità
     Nel letto marital poneva un dì.
Con bella moglie alcun pace non ha,
     Se davanti un crivel non tien così,
     Onde veda e non veda quel che fa.

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XII151


Sposa, tu pensa a me, ch’a te pens’io:
     Abbiam di Me Tu pena, Io di Te cura:
     E come Dio di perderti ha paura,
     Bramo paura in Te di perder Dio.
5Dammi dunque il tuo Cuore e prendi il mio,
     Ch’Io sia di Te, Tu sii di Me sicura:
     Onde al Fattor Tu sempre, io alla Fattura
     Torniam, seguendo il natural desìo:
E mentre il Cuor ti toglio e ’l mio ti fido,
     10E l’un dell’altro è guardia e prigioniero,
     E Me con Te, e Te con Me divido:
Tu di Me, Io di Te siam piaga e arciero,
     Tu di Me, Io di Te colomba e nido
     E Tu mio solo, ed Io tuo sol pensiero.


XIII


Il tempo io son; spegni la face Amore,
     E fa del mio trofeo spoglia il tuo strale;
     Che la Ragione almen trovi il natale,
     Tra ’l cener d’ogni secolo che muore.
5Beltà, grazia, virtù, possanza, onore
     Son messe al fin del ferro mio fatale;
     E di più regni il cenere non vale
     (Miralo e piangi) a misurar poch’ore.
E se colà di Libica foresta
     10Tra procelle di polve il Pellegrino
     Trova naufragi in terra, e assorto resta;
Tu, che al periglio, Amor, già sei vicino,
     Volgi le luci in questa polve, e in questa
     Del Ciel, ch’è Patria tua, traccia il camino.


XIV


Fanciulla amante al Genitor gradita,
     Per mostrar quanto è bella, uscita un giorno,
     De’ tesori paterni il seno adorno,

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     Perde fra via pregiata margherita.
5Pallida, vergognosa e sbigottita
     Ei far non osa al Padre suo ritorno;
     E mira, e cerca, e chiama, e aspetta intorno
     Chi renda a lei la preda sua smarrita.
L’Umanitade al suo Fattor diletta,
     10Di mille adorna un dì doti leggiadre,
     Perdè la grazia infra le mille eletta.
Pianse, ed errò, ma una felice Madre
     Quella grazia ritrova e in sen ricetta,
     E a lei la rende; ond’ella torna al Padre.


CARLO GIUSTINIANI.


Senza che avessi aita o pur consiglio
     Vissi tra falsa speme, e certo pianto
     Colui seguendo, che con l’ozio accanto
     Ne suol formare, e che dell’ozio è figlio.
5E come cerca in fragile naviglio
     Nocchier per dubbio mar richezze, o vanto,
     E in lui la tomba ha col suo legno infranto
     Così, folle cercava il mio periglio.
Tal’era, e tale io sarei forse ancora,
     10Se rott’i lacci non volgeva il piede
     A questi boschi ove virtù dimora:
Boschi felici dove Apollo ha sede,
     Sdegnando i regii tetti, e dove ogn’ora
     L’invidia oppressa lacrimar si vede.


GIANNANTONIO GRASSETTI.152


V’accolse in pria d’ostro lucente e d’oro
     Sposi felici, altera augusta cuna;

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     Scettri corone e trionfale alloro
     Sparsevi intorno alta real Fortuna.
5Vi feo l’aurea Ciprigna il bel lavoro
     Di rosea guancia, e di pupilla bruna:
     Stanvi le bionde Grazie e Amor fra loro:
     Amor eroe la maestà v’aduna.
Or che scende Imeneo stan fissi in Voi
     10Gli alti pensier delle grand’Ombre avite
     E su’ pregi crescenti e vostri e suoi;
E le lucide lievi Alme spedite
     Di quei, che non fur anche, Estensi eroi,
     Volanvi intorno a domandar le vite.


GIULIO CESARE GRAZINI.


I153


Certo che il mio Cignan fu in Paradiso,
     E nella luce dell’empireo regno
     Tenendo il guardo immobilmente fiso,
     Il gran color v’apprese, e il gran disegno;
5E le angeliche facce e gli atti e il viso
     Di là ritrasse alzato oltre uman segno:
     Che aver mai non potea d’altronde avviso
     Di quel, che pinse, almo lavoro e degno.
Poichè in mirar le forme alte e leggiadre
     10Di Lei, che in un dell’increato Nume
     È sposa e figlia, e in un vergine e madre:
Rapito ogni intelletto, oltre il costume
     Basso e mortal, delle superne squadre
     Rimane assorto entro l’immenso lume.


II


S’Io per la via delle invisibl’Ombre
    Variar potessi alle future genti,

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     Che di profonda oblivione ingombre
     Nulla ancor san de’ miseri Viventi,
5Alto lor griderei: qualor vi sgombre
     Il tempo dagli informi orrori algenti,
     E di questa mortal scorza v’adombre,
     Traendovi del Sole ai rai cocenti;
Prima d’entrar le perigliose porte
     10Il dubbio piè sul limitar fermate:
     Ciechi, in qual v’inoltrate orribil sorte!
E se il destin v’incalza, e a forza entrate,
     Sia il viver vostro un sospirar la morte
     Tanti mali scorgendo ovunque errate.


TERESA GRILLO PANFILIA.


I


Gravan l’alma così cure ed affanni,
     Che braccio chiedo di pietà non parco,
     Che me pur salvi dal penoso incarco,
     Per cui pavent’omai ultimi danni.
5Ma con finto soccorso ah non m’inganni
     Speme ed Amor di crudeltate scarco,
     Ch’essi fur che a mia sorte apriro il varco
     Con finti vezzi, e con fallaci inganni.
Ragion, tu sola il puoi, deh tu m’aita:
     10Toglimi all’aspro duolo, ed ogni affetto
     Tranquillamente a posar teco invita.
Ma scaltra ogni pensier rendi soggetto,
     Perchè tu ancor potresti esser tradita
     Se un di lor vola al lusinghier’ oggetto.


II


La nobil Donna, che con forte mano
     Altera siede a governar l’impero
     De’ sensi, che vorrian da lei lontano
     Sottrarsi, e correr’ ogni lor sentiero;

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5Per man mi prende e per deserto e strano
     Calle mi guida, e a lei va innanzi il Vero:
     Io veggio allor misero stuolo insano
     In parte, ove si turba il mio pensiero.
Quei, dice, che tua mente empion d’orrore,
    10Miei furo un tempo, indi da me fuggiro
    Tratti dai vezzi d’un fallace Amore.
Or tra speme e timor, sempre in martiro
     Piangon le lor ferite e ’l grave errore;
     Ed apprendon Ragion dal lor deliro.


III


O di Virtute amica luce e bella,
     Che siedi al fren della mia mente, o rendi
     Ogni mia voglia alla Ragione ancella,
     O parti, e lascia il cor, se no ’l defendi.
5Che sebben tu quasi benigna stella,
     Sul desir cieco i vivi raggi stendi,
     Pur crescendo l’interna aspra procella,
     Con tuo don non mi giovi, anzi m’offendi.
Men grave fora all’Alma mia smarrita,
     10Tra fosco accolta e periglioso orrore
     Incontrar morte, e non conoscer vita.
Che valmi il tuo splendor senz’altra aita
     Se tratta pur dal mal’usato ardore,
     Seguo il mio error, dell’error mio pentita.


DELL’ABB. ALESSANDRO GUIDI.


I154


Veggio il gran dì della Giustizia eterna
     Dal Tosco Apelle in Vatican dipinto;

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     E ’l veggio d’ira e di furor sì tinto,
     Che l’Alma sbigottita al cor s’interna.
5Veggio il gran corso ver la valle inferna;
     E ’l vaneggiar de’ miei pensier sospinto
     Fuor dell’usanza sua, rimane estinto,
     E provvido timor me sol governa.
E veggio quei, che dall’eterno danno
     10Muovono lungi, e infra i beati Cori
     Su per lo Ciel a seggi lor sen vanno.
Gran ministri di Dio fansi i colori
     Della bell’arte alla mia mente, e sanno
     Darle nuovi pensieri e nuovi ardori.


II


Poichè l’anima mia fuor del suo grave
     Lieta o dolente o disperata ancella
     Trarre altrove dovrà vita novella,
     Perchè tanto disprezza, e nulla pave?
5Perchè tanto le par cura soave
     L’esser al suo Signor sempre rubella?
     Senz’ancora sen passa, e senza stella,
     Qual tra procella temeraria nave.
Oh se vedesse un dolce raggio eterno,
     10O un lampo sol di quel tremendo giorno,
     Che l’estremo di noi farà governo,
Che partirà le pene, e i premi intorno!
     E Muse, e Amor si prenderebbe a scherno,
     E penserebbe all’immortal soggiorno.


III


Non è costei dalla più bella Idea,
     Che lassù splenda, a noi discesa in Terra;
     Ma tutto il Bel, che nel suo volto serra,
     Sol dal mio forte immaginar si crea.
5Io la cinsi di gloria, e fatta ho Dea,
     E in guiderdon le mie speranze atterra:
     Lei posi in regno, e me rivolge in guerra,
     E del mio pianto di mia morte è rea.
Tal forza acquista un amoroso inganno,

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     10Che amar convienmi, ed odiar dovrei,
     Come il popolo oppresso odia il tiranno.
Arte infelice è il fabbricarci i Dei:
     Io conosco l’errore, e piango il danno;
     Poichè mia colpa è il crudo oprar di lei.


IV


Nè ancor degli anni è dissipata e spenta
     L’antica usanza, che dell’Alma ha il freno
     Nè ancor’ Amor per lunga età vien meno,
     Nè l’arco suo di saettare allenta?
5Dunque inutile è il tempo, e indarno tenta
     Alle cure d’Amor ritorre il seno;
     E l’intelletto di consigli pieno
     Alle ruine sue par, che consenta.
Se forza il tempo e la ragion non hanno
     10Da far difesa, e ritornarmi in calma,
     Donde i soccorsi a’ voti miei verranno?
Padre del Cielo, a sì gravosa salma
     Me togli, e resti pago il mio Tiranno;
     Che per opra mortal non sciolgo l’Alma.


V


Io son sì stanco di soffrir lo scempio,
     Che i gelosi pensier fan del mio cuore,
     Che spezzo i lacci, onde m’avvinse Amore,
     E contra lui le mie vendette adempio.
5Di sè, de l’arti sue si dolga l’empio
     Signor, che me già trasse al gran dolore;
     E far d’ogni speranza e d’ogni errore
     Me vegga a i folli amanti illustre esempio.
Se poscia il cor di libertà si duole,
     10Donna perdendo di celesti tempre
     E di rare bellezze al mondo sole;
Provvido l’intelletto il duol contempre,
     E queste faccia al cor sagge parole:
     Hassi a star con gli Dei per pianger sempre!

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VI155


Eran le Dee pel mar liete e gioconde
     Intorno al piè del giovinetto Ibero,
     E rider si vedean le vie profonde
     Sotto la prora del bel legno altero.
5Chi sotto l’elmo l’auree chiome bionde
     Lodava e chi il real ciglio guerriero:
     Solo Proteo non sorse allor dall’onde,
     Che da’ Fati scorgea l’aspro pensiero.
E ben tosto apparir d’Iberia i danni,
     10E sembianza cangiar l’onde tranquille,
     Visto troncar da morte i suoi begli anni.
Sentiro di pietade alte faville
     Le vie del mare, e ne’ materni affanni
     Teti tornò, che rammentossi Achille.


DELL’ABB. MARCANTONIO LAVAIANA.


I


Bella, leggiadra e, qual credeami, onesta
     Donzella io vidi per deserta valle,
     Sola e tacita errar, cui da la testa
     Scendean le chiome libere a le spalle.
5Mille in un tratto uscìan da la sua vesta
     Colori e fogge or verdi, or perse, or gialle:
     E leggera nel piede, or quella, or questa
     Strada premea sempre cangiando calle.
Di voglia acceso di fermar costei
     10(Che la Speranza ravvisar mi parve),
     Mossi velocemente i passi miei.
Folle! che de le sue mentite larve
     Solo m’accorsi allor, che presso a lei,
     Mentr’io stendea la man, da me disparve.

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II


Nel dolce tempo de l’età fiorita
     Vidi una Donna, che le trecce bionde
     In riva al mare, tacita e romita,
     Scioglieva a lo spirar d’aure seconde;
5Che a sè chiamato a rimirar m’invita,
     Maravigliando, per le vie profonde
     Piccola naviccila irsene ardita
     Tra scogli e sirti, al furiar de l’onde.
E disse poi: se ’l temerario Pino
     10Naufrago andrà, s’incolperà Fortuna,
     Che il trasse al mar dal natìo giogo alpino:
Ed io mi taccio, e non ho parte alcuna
     Ne’ secreti del Cielo e del Destino;
     Solo in me l’Uom tanta possanza aduna.


III


O Nave, o nave, che per l’alto mare
     Nuoti, e sicura dai le vele al vento,
     Credi, che serbi il mobile elemento
     Sempre l’onde tranquille e sempre chiare?
5Oh quante volte ho vedut’io mutare
     Faccia a la dolce calma in un momento,
     Ed oscurarsi il Cielo, e lo spavento
     Forte gridando, sulla poppa stare;
Ed ho veduto a Ciel sereno ancora
     10Ne’ ciechi scogli, che copriva l’onda,
     Urtar col fianco l’infelice prora;
E i remi rotti, e gli alberi a seconda
     Andar de l’acque, e sparse in poco d’ora
     Le ricche merci su l’arena immonda.


IV


Furia, che all’altrui danno, e tuo sei nata,
     E sol d’odio ti nutri, e di disegno,
     Che ridi al nostro male, e a bene irata
     Mordi le man d’atroce rabbia in segno.
5Poichè tu m’hai con empio strazio indegno
     L’ira, che il cor ti rode, in me versata,

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     Torna d’Averno al tormentoso regno
     In preda al cieco tuo livor dannata.
Te stessa ivi divora, e da ogni vena
     10Il sangue suggi, fermi, agghiacci, ed ardi,
     E ognor morendo vivi alla tua pena.
Vanne, vanne crudele, a che più tardi?
     A che, s’ogni tua voglia hai sazia, e piena,
     Con bieco e torvo ciglio ancor mi guardi?


DOMENICO LAZZARINI.


I156


Se da te apprese, Amore, e non altronde
     Quel dolce stil che ti fa tanto onore,
     Questo Cigno beato, il cui migliore
     Or gode in Cielo, e ’l frale Arquà nasconde:
5Se bello al par della famosa fronde,
     Che in Sorga l’arse di celeste ardore,
     Fu ancor quell’altro mio lume e splendore
     Tra l’Esino e l’Aterno, e ’l monte e l’onde:
Perchè poi le sue rime alzare e ’l canto
     10Sì, ch’ei n’andasse al Ciel come colomba:
     E me verso di lui lasciar nel fango?
Nè pur io, come in lui potessi tanto,
     Veggio risponde; e questa sacra tomba,
     Son tre secoli e più, ch’io guardo, e piango.


II157


Cigno immortal, questo Garzon158, che riede
    Meco sovente al freddo sasso intorno,
    Dal Tebro venne al mio basso soggiorno;
    Tanto delle bell’arti amore il fiede!
5Germe è di lui, che nel Tarpeo già diede

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     L’onor del lauro alle tue chiome un giorno:
     E ben di senno e di costumi adorno
     Fa del suo nobil sangue intera fede.
Quando si scorse mai simil destino!
     10Qual’amò tanto, ovver qual’ebbe mai
     Signor più illustre, o più leggiadra donna?
Onde all’ultimo dì, che m’è vicino,
     Anch’io dirò, che ognora in sen portai
     Un bianco Giglio, una gentil Colonna.


III


Ovunque io volga in queste alme beate159
     Pendici il guardo, altro non veggio intorno
     Che vero onor di tanta gloria adorno,
     Che n’avrà invidia ogni futura etate.
5Là nacque chi di Roma alle pregiate
     Opre diede scrivendo eterno giorno,
     Talchè, a par degli Eroi, n’ebbero scorno
     Le Greche penne d’alto stile ornate.
Quà chiuse i giorni il più soave Cigno,
     10Che mai spiegasse in altro tempo il canto,
     Onde il nome di Laura anco rimbomba.
O colli avventurosi! O ciel benigno!
     O pregi eterni! Quanto chiari e quanto,
     Siete per sì gran culla e sì gran tomba!


IV160


Allor ch’io ti guidai ne’ tuoi verd’anni,
     Garzon, che il Sile, e più te stesso onori,
     Nel sacro monte, e ti mostrai gli allori
     Che fanno a Morte i più securi inganni:
5Vidi ben io che dispiegati i vanni
     Del pronto ingegno a luoghi erti e migliori
     Poggiavi, depredando i più bei fiori,

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     Premio e ristoro de’ ben posti affanni:
Ed or me che ti fui secura scorta
     10Indietro lasci, e quel degli Avi tuoi161
     Che a miglior tempo arse e cantò d’amore.
Felice te, che nell’età immatura
     Co’ Cigni or della Grecia andar ten puoi,
     Or dell’Italia al più pregiato onore.


V162


Ecco, Signor, dopo tant’anni e tanti
     Spesi in cercar quel ch’io fuggir dovea
     Che di quel prato, ov’io posar credea,
     Nacque il serpe, cagion di tutti i pianti;
5Or l’empio dico: tor dovev’ innanti
     Dal Verde il piè quando l’April ridea:
     Ch’or ti rimove dall’usanza rea
     La grave età, non pensier puri e santi.
Io taccio, chè non so se ’l mio dolore
     10O venga dal pensier d’averti offeso,
     O dall’esser vicino all’atre porte.
O memorie funeste! o freddo orrore!
     Tanto ch’io sono al disperare inteso:
     Pur non posso far onta alla tua Morte.


VI163


Quanti son Cigni al biondo Mela in riva
     Dovrian cantar di Voi, nobil donzella;
     Poi che siete del pari e saggia e bella,
     Quanta d’altra giammai si parli o scriva.
5Voi ne’ verd’anni, quando Amor veniva
     A farvi segno delle sue quadrella,
     Vi ricovraste in solitaria cella

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     D’ogni vano piacer libera e schiva.
Amor da Voi non ebbe altro che 'l crine
     10Reciso e sparso, e di vergogna tinto
     Appena il prese, che gittollo a' venti;
E poi disse: o quali prede, o quai rapine
     Io potea far con questo, ed or son vinto!
     Chè onestate e virtù fur più possenti.


VII164


Dopo le fosche notti e ’l rio gelato
     Verno, che addusse a noi l’antico errore,
     Quand’era nel pensier nostro, e nel cuore,
     Spento l’amor del Bene, e ’l Ver celato;
5Venne coi giorni al fine il sospirato
     Giorno a noi di salute, al Ciel d’onore;
     E Maria fu quel primo almo splendore,
     Che aprì ’l mattini di sì dolce aere ornato.
Riso il Cielo e la Terra; e nel soggiorno
     10Lungo de’ Padri, al fin rimesso è l’empio
     Mio fallir, disse Adamo, e ’l nostro esiglio.
E ’l sommo Amor è questo, disse, il giorno
     Del mio poter; chè in quel bel lume adempio
     La mia prim’opra, e l’eterno consiglio.


VIII


Lasso già di seguir la bella Fera
     Che da me fugge, e meco lasso Amore
     Che mi fu guida fin dal primo albore,
     Taciti e mesti ci fermiam la sera.
5Io lacrimando dico: invan si spera
     Giunger più mai quel rio fugace cuore,
     Ch’egli sua fuga avanza a tutte l’ore,
     Nè ’l vigor nostro è tal qual da prim’era.
Da vergogna Amor punto, io da nimica
     10Speranza, allora avvaloriamo il fianco
     Col pensier di Colei, ch’ambo affatica:
E per le folte tenebre pur anco

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Seguiam l’alpestre grave strada antica,
    E ’l piè tant’osa più quant’è più stanco.


IX


Or, che tanto da voi lontano io vivo,
     Dolce mia pena, il cor languisce e manca,
     Nè per lieve sperar più si rinfranca
     Del lungo aspettar suo ben sazio e schivo.
5Invan per questi campi al prato, al rivo,
     Pasco d’altro Seren l’anima stanca,
     Che al paragon del Bello, che ci manca,
     Riesce ogn’altro a lei pascol nocivo.
Ben tengo una non so qual vaga immago
     10Di lei, serbata già da’ miei pensieri:
     E spesso al cor la mostro, e non l’appago;
Ch’e’ va gridando: o pensier menzogneri!
     Come d’un Bel divinamente vago
     Voi ritrar mai potrete i raggi veri?


FILIPPO LEERS


I


Qual Augellin, che da lontana parte
     Torna a veder l’arbor nativo e il lido,
     Pieni di desio del dolce antico nido
     Cercal di ramo in ramo a parte a parte:
5Ma vede poi sulle reliquie sparte
     Covare il serpe velenoso infido;
     Ond’innalzando i lai canori e ’l grido,
     Carco di doglia e disperato parte.
Tal’io men vò scorto dal van desìo,
     10Alto gridando: Ohimè l’almo ricetto,
     Ohimè l’Amore, ohimè l’albergo mio!
Perchè in quel vago, ahi non più vago petto,
     Ov’abitammo un tempo Amore ed io,
     Trovai, cercando Amore, odio, e dispetto.

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II


Ebbi già del tuo stral l’anima punta,
     Barbaro Amore, ahi pur convien ch’io ’l dica;
     Ma s’io non erro, e m’è la sorte amica,
     È la mia servitude al suo fin giunta.
5Io veggio ben, che coll’aurata punta
     Cerchi dell’empi, che adorai, Nemica
     Rinnovarmi nel cor l’immago antica,
     Guasta dall’odio, e dal dolor consuta.
Fa pur, fa pur che t’affatichi invano?
     10Perchè veggendo lei, penso al mio danno;
     E più l’ho presso, più le vò lontano.
Scritte l’offese in adamante stanno,
     E tien lo Sdegno accesa face in mano,
     Talch’io leggo il mio Scritto, e non m’inganno.


III165


Per quelle vie, che cento strali e cento
     Apriro, uscendo il nobil sangue fuore,
     Languìa Bastiano, e il barbaro furore
     Allentò l’arco, ond’il credea già spento
5L’alma bramosa ancor di più tormento
     Non uscí nò ma si ristrinse al cuore,
     Al cuor difeso dal celeste Amore,
     Nè lo strale avanzarsi ebbe ardimento.
Quand’ecco Amor di sua faretra un telo
     10In lui vibrò di tale ambrosia tinto,
     Che le piaghe sanò del mortal velo.
Ond’ei dovessi in nuovo agone estinto
     Portar due palme e due corone in Cielo,
     Dall’aspra guerra, ove trionfa il Vinto.


IV


Simile a sè mi fe’ l’alto Fattore,
     Perch’io l’amassi; e quinci amato
     Che nascer suol da somiglianza Amore,
     Mirando sè nella sembianza altrui.

[p. 221 modifica]

5Ma quel voler, di cui mi fe’ Signore,
     Per farmi sol più somigliante a lui,
     Negò d’amarlo; e fece oltraggio il cuore
     All’immago gentil co’ falli suoi.
Ahi cuore ingrato! ecco dal Cielo ei viene,
     10Là dov’ama egualmente ed innamora,
     Seguendo te per queste vie terrene.
Mira, ch’ei già la sua t’impresse, ed ora
     Prende la tua sembianza, ed Uom diviene,
     Perchè tu l’ami: e tu non l’ami ancora?


V


Diceami Alcon ne la mia prima etate,
     Quando in groppa men gìa di bianche agnelle,
     Che l’Alme nostre a le native stelle
     Gian dopo morte, ove fur pria create.
5Ier notte il Ciel mirai spesse fiate
     Bramoso di veder qual mai di quelle
     Cristina avesse; ond’io tra le più belle
     L’andai cercando, e di più raggi ornate.
Ma tanto invan cercai fra l’Orsa e ’l Toro,
     10Che s’ascoser le stelle, e la mattina
     Accesa sfavillò di lucid’oro.
Poi sì bello uscì il Sol da la marina,
     Che dopo io più non la cercai fra loro
     Credendo, che nel Sol fosse Cristina.


VI


Perchè barca io non ho nè rete allargo
     Per mar profondo, ma soletto e gramo
     M’alberga un sasso, e vò talor sul margo
     Dove i pesci minuti aspetto a l’amo:
5Foloe, per cui d’amor evvi letargo,
     Foloe non m’ode, ohimè, quand’io la chiamo.
     Foloe non vede il lagrimar ch’io spargo,
     Foloe m’abborre più, quant’io più l’amo.
Deh voi Nereidi da l’azzurre chiome,
     10E Oreadi voi, che qui v’uniste al ballo,
     Onorando il mio canto e il suo bel nome:

[p. 222 modifica]

Ditele, come anche il gentil cristallo
     Gelisi in grembo d’aspre rupi, e come
     Giù nel fondo del mar vive il corallo.


VII


Sì, sì ti veggio: a che saltelli, e scappi
     Pel ginestro, rio Satiro maligno?
     Ma se fra queste branche un giorno incappi,
     Tu non farai più cavriola, o ghigno.
5Veracemente io vuò, che allor tu sappi
     S’io son, come tu dì, cornacchia o cigno;
     E come ’l cuoio ti si tragga, e strappi
     Dalla cornuta fronte al piè caprigno.
Giuro, ch’io vuo’ mangiarti vivo, e l’ossa
     10Parte a Greco gittar, parte a Libecchio,
     Ove non abbian mai pace, nè fossa.
Così trafisse al derisor l’orecchio
     L’alto Ciclope, e fè col piè percossa
     Tremar Triquetra, e ’l mar che le fa specchio.


VIII


Eran d’Amor le amare sorti ascose
     Al giovinetto errante pensier mio,
     Quando nel regno di quel folle Dio,
     Ripiegò l’ali, e ’l piede in terra pose.
5Ivi mirando non credute cose,
     Mentre il pungea di rivolar desìo,
     Gli arse le penne Amor protervo e rio
     E ’l duro giogo al debil collo impose.
Nè a lui la nuova età più forte è schermo,
     10Perchè più lieve il vada omai portando,
     Che più grave divien, quant’è più fermo.
Tornerà forse in libertà: ma quando?
     Quando fia pigro al volo, all’opra inferme,
     Se pria non muor sott’il suo peso amando.


IX


Sparso il crin di fioretti di ginestra,
     Cieco d’amor, più che non son le Talpe;
     Così l’aria intronò con voce alpestra,

[p. 223 modifica]

     Uom ne le membra imitator de l’Alpe.
5O ch’apra il Sol l’oriental finestra,
     O che s’appiatti là di retro a Calpe,
     O ch’io vada, o ch’io seggia, Amor la destra
     Arma di spiedo, e ’l cor mi lima e scalpe.
Quindi il mio ciglio che splendea sì lustro,
     10Fatt’è per Galatea nubilo e fosco
     Perpetuamente o sia caligo, o lustro.
Il mar, le rive, la montagna e ’l bosco
     Fann’eco al pianto mio, già cade un lustro,
     E l’Empia dice ancor: non lo conosco.


X


Quel nappo, o Galatea, che a me dal collo
     Pende l’està quando le biade io falcio,
     Sculto è d’intorno da man greca, ed hollo
     Tolto ad un Fauno, che schiantommi un salcio.
5Di qua dorme Sileno ebbro e satollo,
     Avvolto al crin di torta vita un tralcio:
     Di là stanno le Muse, ed evvi Apollo,
     Evvi il Caval che diede acqua col calcio.
Poichè da te grata mercè non haggio,
     10A Foloe il serbo, a Foloe graziosa
     Dal capel riccio, e di color di tufo.
Sì dalla nicchia di un petron selvaggio
     Cantò il Gigante, e fu leggiadra cosa,
     Che per la Ninfa gli rispose il Gufo.


XI


Agresti Dii, sù quest’opaco altare,
     Che v’alzò de’ Pastor divota cura,
     Con la sua destra Coridone, e giura,
     Che non vuol più l’empia Selvaggia amare.
5Qui le mie labbra, più che assenzio amare
     Pel rio velen di quella bocca impura,
     Lavo con l’onda del bel Fiume pura,
     Perchè sen porti ogni mia colpa al Mare.
O Pastorelli, col coltel radete
     10L’ingrato nome scritto di mia mano

[p. 224 modifica]

     Sulla scorza del Faggio, e dell’Abete.
Coridon, ch’amò tanto, e pianse invano,
     Su i medesimi tronchi indi scrivete,
     Per miracol de’ Numi have il cuor sano.


XII


Mirando il volto, ove le nubi, e ’l fuoco
     Porta lo sdegno, e i rai copre d’oscuro,
     Scritto vi leggo aspro decreto, e duro
     Che dice: fuggi, o tu morrai fra poco.
5Lasso!, e lungi da lor non trovo loco,
     Ch’eglino il Sol della mia vita furo,
     Ond'il viver senz’essi omai non curo,
     E morte chiamo, e per gridar son roco.
Vaghe luci omicide, altro conforto,
     10Poichè il mirarvi, e lo star lungi ancora
     M’uccide, altra speranza al cor non porto.
Se non è gran mercede a chi v’adora,
     Che l’armi elegga, ond’ei debb’esser morto,
     Piacciavi, ch’io vi guardi, e poi ch’io mora.


XIII166


Se il merto, o Amici, oggi da voi s’onora,
     Abbia questo, ch’io cedo onor sovrano
     Colui, che primo per le vie di Flora
     Segue il gran Cosmo, e gli sostien la mano.
5Di Malta al Soglio non asceso ancora,
     Così dicea l’eletto Eroe, ma invano;
     Invan, ch’ei più di sè l’alme innamora
     Coll’atto umìle, e col sembiante umano,
Quinci salìo sul Trono, e il Popol folto
     10Lui salutando dividea la lode,
     Qual solea fra gl’Augusti in Campidoglio.

[p. 225 modifica]

E dir sembrava al suo Signor rivolto:
     Degno è ben anco di regnar quel Prode,
     Giudice Te, ma duo non cape il Soglio.


XIV


Soli, se non che amor venìa con noi,
     Fillide, ed io riconduceam le agnelle,
     Ambo mirando per piacer le stelle,
     Ella nel Cielo, ed io negli occhi suoi.
5Mira, le dissi, e se veder tu vuoi
     Maraviglie quaggiù maggior di quelle,
     Mira negl’occhi miei tue luci belle,
     E le luci del Ciel negl’occhi tuoi.
Rispose allor la semplicetta Fille:
     10Ben mi posso specchiar nel vicino Rio
     Vie più seren di queste tue pupille.
Senz’altre onde cercare, allor diss’io,
     Sciolte le luci in lacrimose stille,
     Specchiati, o cruda, almen nel pianto mio.


XV


Quando la sera su ’l tranquillo Mare
     Soavemente l’aura increspa l’onda,
     Sparsa la chioma al vento umida, e bionda,
     Sorger suol Galatea dall’acque chiare.
5Appena un dì l’orme leggiadre, e care
     Portò su ’l lido, ove la spuna inonda,
     Carco l’irsuto crin d’orribil fronda,
     Tra folte gregge Polifemo appare.
Mille agnelletti in questa falda pasco,
     10Ed ho cento vitelle ancor di latte
     Di là dal Monte, ove l’armento mugge.
Tutto ti dono, e in povertà non casco,
     Ninfa gentil, se le tue labbra intatte....
     Volea più dir, ma Galatea sen fugge.


XVI


Sovra il negro del Mare orrido smalto
     Chiamò Fortuna le tartaree ancelle,
     Co i nembi al fianco, e colle ree proselle

[p. 226 modifica]

     Per dar crudele alla mia Nave assalto.
5Sicch’or nel fondo, or sul confin più alto
     Prova nemico il Ciel, l’onde rubelle,
     Mentre Orion fra l’adirate stelle
     Folgora, e tuona, e rota il brando in alto.
E che sarà di te, misera Nave?
     10Gitta in Mar, gitta in Mar l’inutil carco,
     Delle merci del suolo, onde sei grave.
Chiara stella talor sul fatal varco
     N’aggiunge, e quando uom più dispera, e pave,
     Iri spiegar suol fra le nubi l’Arco.


XVII


Rivolto al Mar, che del suo molle vetro
     Fa specchio ad Etna, e ’l piè le inalga e ingionca,
     Il gran Re dei Ciclopi, a cui la tronca
     Arbor già d’alta nave è verga e scettro;
5Dopo un sospir, che fe’ restare indietro
     Il rauco suon della cerulea conca,
     In sull’uscir della natìa spelonca,
     Così tonò con formidabil metro:
Se non fia, ch’oggi al pianto mio risponda
     10L’ingrata Galatea, per doglia insano
     Seguiterolla, ancor che in Mar s’asconda.
Disse, e la voce rimbombò lontano,
     Mormorar l’aure, intorbidossi l’onda,
     E fuggir le Nereidi all’Oceàno.


XVIII167


Fatto Signor dell’Isola guerriera,
     Che su gl’occhi di Libia alza le Croci,
     Regna, o buon Marco, e a i Cavalier feroci,
     Fra cui Campion pugnasti, or Duce impera.
5Dalle tue geste illustri Italia spera
     Conforto al duol di sue vicende atroci,
     Siena s’allegra, e n’alza al Ciel le voci,

[p. 227 modifica]

    Che questo, sol fra i fasti suoi non era.
Tremano le Contrade d’Oriente,
     10Ove da’ Rei si guarda, e non si adora
     L’alta memoria del Figliuol di Dio;
Chè il tuo valor, la tua pietade ardente,
     La Patria, il Sangue lor minaccia ancora
     Il gran pensier, ch’ebbe Alessandro, e Pio.


FRANCESCO DA LEMENE.


I


Stravaganza d’un sogno! A me parea
     La mia Donna a l’Inferno, e seco anch’io
     Ove Giustizia ambo condotti avea,
     Per castigare il suo peccato e ’l mio.
5Temerario io peccai, che ad una Dea
     D’alzarsi amando il mio pensiero ardìo:
     Ella cruda peccò, che non dovea
     Chiuder in sen sì bello un cor sì rio.
Ma ne l’Inferno appena esser m’avviso,
     10Che mi parve cangiarsi in un momento
     O Donna, il nostro Inferno in Paradiso.
Tu lieta mi parevi, ed io contento;
     Io perchè rimirava il tuo bel viso,
     Tu perchè rimiravi il mio tormento.


II


Poichè salisti, ove ogni mente aspira,
     Donna, in me col mio duolo mi contento:
     Anzi più forsennato in me non entro,
     Che cercandoti ancor l’Alma delira.
5Ben di lassù, come il mio cor sospira,
     Senza chinar lo sguardo, il vedi dentro
     A quell’immenso indivisibil centro,
     Intorno a cui l’Eternità si gira.
Ma perchè di quell’Alme in Dio beate
    10Affetto uman non può turbar la pace,

[p. 228 modifica]

     Il mio dolor non ti può far pietate.
Pur m’è caro il dolor, che sì mi sface:
     Che se tu il miri in quella gran Beltate
     Senz’esser cruda, il mio dolor ti piace.


III168


All’Uom, che col pensier tant’alto sale,
     Dio l’esser dona, e pria di fango il forma;
     Poi col soffio divin d’Alma immortale
     Simil a sè, quella vil massa informa.
5Indi con bel mistero ei fa, che dorma,
     E tratta dal suo fianco un’opra eguale,
     Donna gli dà di pellegrina forma,
     Donna eterna cagioni del nostro male.
Godea vita immortal, gran senno, e pace
     10In dolce albergo, ove trovò il desìo
     Quanto in bella onestà ne giova, e piace.
Alfin, lasso!, lo inganna un serpe rio:
     La legge offende, e follemente audace
     Si fa men d’Uom per farsi eguale a Dio.


IV169


Deh per pietà, chi la mia fiamma ammorza,
     Che mai non mi consuma, e m’arde sempre!
     Onde mi sembra in sì penose tempre
     Fatta immortal questa mia frale scorza.
5Per estinguere invan l’ardente forza
     Fia, ch’in acqua di pianto il cuor si stempre,
     Nè fia, che con l’età l’ardor si tempre,
     Che quanto invecchia più, più si rinforza.
Non so come bastante il cor riesca
     10A nutrir sì gran fiamma, e a poco a poco
     Non manchi in me la vita, e ’l fuoco cresca.
Morte, ed Amor voi per pietate invoco;
     Fate debile il fuoco, o debil l’esca,
     E manchi o ’l fuoco all’esca, o l’esca al fuoco.

[p. 229 modifica]


V170


Questa negli ozi suoi mole eminente
     Erse l’Arese Eroe, Regia di Flora,
     Del genio suo, che il secol nostro indora,
     Memoria eccelsa alla futura gente.
5Ferma il piè, Passaggiero, e riverente
     L’amena maestà stupido onora:
     Mira come negli ozi ei mostra ancora
     Le magnanime idee della gran mente.
Già superbo, Cesano, io ti discerno,
     10Opra immortal di mille fabbri industri,
     A par del nome suo viver’ eterno.
E non sapranno i più rimoti lustri,
     Se dell’Arese Eroe, del tempo a scherno,
     Fur più grandi le cure, o gli ozi illustri.


VI


E sotto il freddo, e sotto il clima ardente,
     Oltre all’ultima Tile e l’Oceàno,
     E dovunque sia luogo ivi si sente
     La gran possa, Signor, della tua mano.
5Per fuggirti Davidde il Re dolente
     Or l’Inferno, ora il Ciel ricerca invano:
     Al tuo sguardo divin tutto è presente
     Dal Tuo braccio divin nulla è lontano.
La materia a la forma insieme allacci:
     10Ma sempre il Fral composto, al fin ridutto
     Se l’abbandoni Tu, scioglie quei lacci.
Il tutto senza Te fora distrutto:
     Di Te riempi il Tutto, il Tutto abbracci;
     Il Tutto in Te si trova, e Te nel Tutto.


VII171


Non scenda no dal sempiterno regno,
     Per vendicar Gesù, fulmine, e tuono,

[p. 230 modifica]

     Nè ’l Guerrier, che domò l’altero ingegno,
     Ch’erger volea sull’Aquilone il trono.
5Se porge il Dio tradito a laccio indegno
     La sacra man, che d’ogni ben fa dono,
     Vuole inulto soffrir barbaro sdegno,
     Già Dio delle vendette, or del perdono.
Ma tu di lui seguace, o Coro eletto,
     10Perchè non rechi aita al tuo Signore
     In duri nodi incatenato, e stretto?
Mira ignobil perfidia, e vil timore!
     Altri sen fugge, e senza cuore ha il petto;
     Altri lo segue, e senza fede ha il core.


VIII


È già Madre Maria; nè prova i mali,
     Che fur pena prescritta al peccar nostro:
     E voi serbaste intatto il candor vostro
     Nel suo vergineo sen, gli immortali.
5Passan del Sol per vetro i rai vitali,
     E pure intero il vetro altrui dimostro:
     Tal lascia della Madre intero il chiostro,
     Quel, ch’essendo un sol Figlio, ha due natali.
Si veste il sommo Dio di mortal gonna,
     10E già nato Signor servo rinasce,
     E l’umil Madre sua del Ciel fa donna.
Ecco un Uomo, ecco un Dio ristretto in fasce:
     Perchè tu ’l creda un Uom nasce di Donna;
     Perchè tu ’l creda un Dio, di Vergin nasce.


IX172


Signor, quell’Uom, che imprigionaste ieri,
     Spesso mortificò de’ belli umori,
     E tenne, benchè fosser suoi maggiori,
     Il bacile alla barba a’ Cavalieri,

[p. 231 modifica]

5Se ben, che da que’ lacci sì severi,
     Senza lasciarvi il pel, non verrà fuori;
     Ma voi fate la festa ai Suonatori,
     Mentre fate la barba anco a’ Barbieri.
Se questa prigionia più si dilunga,
     10Voi lo verrete a far de’ Certosini,
     Volendo che a parlar nessun gli giunga.
Anzi verrete a far due Cappuccini;
     Me, con farmi portar la barba lunga,
     Lui, con farlo restar senza quattrini.


X


Eterno Sol, che luminoso, e vago,
     Sei troppo fosco all’intelletto mio,
     Dì, come sei di Te medesmo pago,
     E tre Persone una gran mente unìo?
5In Te specchi Te stesso, e d’arder vago
     Dell’immago, che formi, è il Tuo desìo;
     Ma non men di Te stesso è Dio l’immago,
     Nè men l’ardore, onde Tu l’ami, è Dio.
Così Tu fatto Trino egual Ti miri,
     10E quella immago, e quel beato ardore,
     Che generi mirando, amando spiri.
In tre lumi distinto è il Tuo splendore,
     Come distinta in tre colori è un’Iri,
     E sei Tu solo Amante, Amato, Amore.


XI173


Ecco, che a voi ritorno, un tempo liete
     Or meste Rive; udite i miei lamenti:
     Ecco, che a voi ritorno; ancor crescete
     Alle lagrime mie, Fiumi correnti:
5Usignuoli, io ritorno; ancor potrete
     Imparar dal mio duol più mesti accenti:
     Aure fresche a voi torno; ancor sarete
     Mista co’ miei sospir Aure cocenti.

[p. 232 modifica]

Ditemi per pietà: fia mai, che arrive
     10In questo luogo ancora, ov’io tornai,
     La beltà che partì, che lungi or vive?
Ma voi mi dite, e m’accrescete i guai,
     O Aure, o Usignuoli, o Fiumi, o Rive:
     La beltà che partì, non torna mai.


XII174


Tuona il saggio Perini, è par ch’io senta
     Tuonar nel Ciel la melodìa sonora:
     All’indurato cor fulmini avventa,
     Ma per ferir le sue saette indora.
5Come lume che alletta, e poi tormenta
     Farfalletta, che ’l soffre, e pur l’adora,
     Tal parla in lui l’errore, e mi spaventa,
     Tal parla in lui la grazia, e m’innamora.
Che più? l’orrida Morte i pregi toglie
     10Oggi dal Tullio sacro: indi si abbella
     Con santi lisci, e preziose spoglie.
Qual Donna, ecco (diss’io) la Morte anch’ella,
     Vaga pur d’invaghir le nostre voglie,
     Con qual arte gentile or si fa bella!


XIII


Ho di me stesso una pietà sì forte,
     Che mi fa lagrimar lo stato mio,
     Qualor ripenso al giovanil desìo,
     Che Amore accese, e spegnerà sol Morte.
5Sono in fosco sentiero, e non ho scorte,
     Che mi guidino al porto, ove m’invìo;
     Che quelle luci, onde me stesso obblìo,
     Altrui liete splendendo a me son morte.
Già lascia la speme, e meco ancora
     10Sol’ho il cieco desìo nel cammin tetro,
     Che vuol, che seco io viva, e seco io mora.

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Lasso! E in questo sentiero io non m’arretro,
     Per ritornare, onde partii; che fora
     Troppo lungo cammin tornare indietro.


XIV


Sento, che l’età mia da primavera
     Omai sen passa alla stagion estiva,
     Che di sei lustri all’ultimo anno arriva,
     Grave per cure, e per passar leggiera.
5Nel mezzo io son di mia vital carriera,
     Quando del pondo suo l’anima schiva,
     Ritornando alla stella, onde deriva,
     Non mi si faccia notte avanti sera.
E vivo ancora in amorosi affanni,
     10E invecchierò nel giovanile ardore,
     Portando il primo fuoco agli ultimi anni.
Chè so ben io, che chi ti segue, Amore,
     Tra fallaci promesse, e veri inganni,
     Fa d’una vita breve un lungo errore.


XV175


Io ricorro a la vostra intercessione,
     Glorioso San Rocco, Eroe celeste:
     Tengo una moglie senza discrezione,
     La qual è pur la maladetta peste.
5Per guarirmi da cure sì moleste,
     Senza la vostra gran benedizione,
     Certo che meglio voi la guarireste
     Con quel, che avete in man, santo bordone.
Se tai prodigi incominciate a fare,

[p. 234 modifica]

     10Veggo di già fallito Sant’Antonio,
     Che tutti correranno al vostro altare.
Eh io sarò tra gli altri testimonio,
     Che voi con doppio vanto, e singolare
     Guarite dalla Peste, e dal Demonio.


XVI176


Messaggiera de i Fior, nunza d’Aprile,
     De’ bei giorni d’Amor, pallida Aurora,
     Prima figlia di Zeffiro, e di Flora,
     Prima del Praticel pompa gentile.
5S’hai nelle foglie il tuo pallor simìle
     Al pallor di colei, che m’innamora;
     Se per immago sua ciascun t’adora,
     Vanne superba, o violetta umìle.
Vattene a Lidia, e dille in tua favella,
     10Che più stimi degli ostri i pallor tuoi,
     Sol perchè Lidia è pallidetta anch’ella.
Con linguaggio d’odor dirle tu puoi:
     Se voi, pompa d’Amor, siete sì bella,
     Son bella anch’io, perchè somiglio a voi.


XVII


Quanto perfetta fia l’eterna cura,
     Che l’esser si perfetto altrui comparte,
     Che di Nulla fè Tutto, e con tant’arte
     Fabbricò gli elementi, e la Natura?
5Da i chiari effetti a la cagione oscura
     Ben può debile ingegno alzarsi in parte;
     Ma son tante bellezze attorno sparte
     Ombra di quella luce, e non figura.
Ma se tant’alto angelico intelletto
     10Pe sè stesso non poggia, indarno io penso,
     Talpa infelice, a sì sfrenato oggetto.
Pure io so, che sì bello è il Bello immenso,
     Che, se mai fosse in lui, fora difetto,
     Quanto qui di più bello ammira il senso.

[p. 235 modifica]


DONATO ANTONIO LEONARDI.


I


Alma, che sei nella prigion de’ sensi
     Da mille lacci incatenata, e avvolta,
     E vaga del tuo male ancor non pensi
     Alla tua libertà, misera e stolta;
5Mira il Ciel, com’è bello, e negl’immensi
     Giri dell’alte sfere agile, e sciolta
     Spiega i desiri di bel foco accensi,
     E Ragion, che ti sgrida, odi una volta.
Ma tu, che vinta sei dal tuo costume,
     10Corri dove ti chiama un riso, un guardo,
     E non hai per lassù desìo, nè piume.
Ah! pria che Morte avventi il fatal dardo,
     Alza gli occhi, ti prego, a più bel lume:
     Che non giova il pentirsi, allorch’è tardo.


II


Qual pellegrin, che dal viaggio stanco
     In sul Meriggio a riposar si pose,
     E sull’erbe adagando il debil fianco
     In un placido sonno i lumi ascose;
5Poi quando si credea libero e franco
     Seguir la via, che di calcar propose,
     Destossi, e rimirò tremante e bianco,
     Che avean l’ombre il color tolto alle cose.
Tal’io del Mondo nella via fallace
     10All’ombra mi posai d’un viso adorno,
     Tra le catene mie dormendo in pace.
Or, che Ragion mi desta, io cerco il giorno,
     E veggio spenta ogni benigna face,
     E sol tenebre, e notte a me d’intorno.


III


S’Io mi fermo a pensare in che fu spesa
    L’età mia più fiorita, e più ridente,

[p. 236 modifica]

     L’Alma di sdegno, e di vergogna accesa
     Da gelato timor stringer si sente;
5Che contro il fier nemico a far difesa
     Troppo son le mie voglie e fredde, e lente
     E gli affetti tra lor stanno in contesa,
     Nè son l’antiche fiamme ancor ben spente.
Anzi nel ripensar qual fu la traccia
     10De’ miei pensieri in giovenil desìo,
     Lasso! di non peccar par che mi spiaccia.
Tanto è l’uso del mal protervo, e rio,
     Che lo fuggo, e lo bramo; e fa ch’io faccia
     Un nuovo error del pentimento mio.


DELL’ABB. VINCENZO LEONIO.


I


Quando l’Alma real vider le stelle,
     Che l’ali ergea per fare al Ciel ritorno,
     Tutte per acquistar lume sì adorno
     La richiedean da queste parti e quelle.
5Chi accrebbe, il Sol dicea, l’Ascree Sorelle
     Meco s’aggiri a questa sfera intorno:
     Meco, Vener dicea, faccia soggiorno
     Chi vestì giù nel suol forme si belle.
Dunque altr’orbe, che il nostro, or si destina,
     10Marte gridava, a lei, che tutte unite
     Le mie virtù, fu sempre a me vicina?
Ma Giove alfin, le lor contese udite,
     Resti in vita, esclamò, l’alta Reina;
     Che più tempo bisogna a tanta lite.


II


Non ride fior nel prato, onda non fugge,
     Non scioglie volo augel, non spira vento,
     Cui piangendo io non dica ogni momento
     Quell’acerbo dolor, che il cor mi sugge.
5Ma quando a lei, che mi diletta, e strugge,
     L’amoroso desio narrare io tento,
     Appena articolato il primo accento
     Spaventata la voce al sen rifugge.

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Così Amor, ch’ogni strazio ha in me raccolto,
     10Ferimmi, e la ferita a lei, che solo
     Potria sanarla, palesar m’è tolto.
Ah, che giammai non formerò parola,
     Poichè l’Alma inver l’amato volto
     Il mio cuore abbandona, e a lei sen volar.


III


Filli, poc’anzi Alcon sotto quell’Orno
     Alto cantò, che l’immutabil fato
     Vuol, che quanto una volta al Mondo è stato
     All’antico esser suo faccia ritorno.
5Perchè rivolto il Ciel di stelle adorno
     Là, dove il noto a lui primier fu dato,
     Ricominciar vedrassi il corso usato,
     E i primi affetti rinnovar d’intorno.
Torneran queste chiare onde tranquille,
     10Questi fior, questi augelli, queste piante,
     E saranno altre volte Uranio, e Fille:
Oh me felice, appien, se ’l tuo sembiante
     Io rivedrò dopo mill’anni, e mille,
     E tornerò del tuo bel volto amante!


IV177


Tra queste due famose anime altere,
     Ch’or anzi tempo han fatto al Ciel ritorno,
     L’istessa Stella, ov’ambe avean soggiorno
     Voglie creò d’Amor vere, e sincere.
5Discese poi dalle celesti sfere
     Vestir ambe sull’Adria abito adorno,
     E lo splendor, ch’indi spargean d’intorno,
     Le dolci ravvivò voglie primiere.
Ma l’una, e l’altra a maggior lume avvezza,
     10Visti oscurati dal corporeo velo
     I più bei rai della natìa chiarezza;

[p. 238 modifica]

Accese alfin da desioso zelo
     Di riveder l’antica lor bellezza,
     Sen ritornano insieme unite al Cielo.


V178


Qual mai non vide in terra occhio, o pensiero
     A me, da me diviso, un dì s’offerse
     Dal lido occidental, Lume sì altero,
     Che la luce del Sol tutta coperse.
5Or mansueto, or minaccioso, e fero
     Quinci alle genti amiche, indi all’avverse,
     Ei tosto all’Indo, e all’Oceàno Ibero,
     All’Austro, e all’Aquilon la via s’aperse.
Parea, che intanto vagamente adorno
     10De i nuovi raggi in ogni parte al Mondo
     Lieto più dell’usato ardesse il giorno.
Risorto alfin da quell’obblìo profondo
     Sol vidi ovunque io volsi gl’occhi intorno
     Il bel di tue virtù splendor giocondo.


VI179


Qual Fiumicel, che se tra verdi sponde
     Nutre erbe e fior di vago prato in seno,
     Limpida è sì, che specchio al Ciel sereno,
     Alle Ninfe, e a’ Pastor forma coll’onde;
5Ma se per valli paludose immonde
     Rivolge il corso, o in arido terreno;
     Coll’alto limo, onde il lor fondo è pieno,
     La chiarezza natìa mesce, e confonde,
Tal il fuoco d’amor chiaro risplende,
     10Ardendo in cuor gentil: ma in rozzi petti
     Perde il suo lume, oscuro e vil si rende.
Amor dunque non è, che i nostri affetti
     Al bene, o al mal diversamente accede;
     Ma o buoni, o rei, prende da noi gli effetti.

[p. 239 modifica]


VII180


Ecco, amici Pastori, ecco ove giunto
     Questo infelice mio povero agnello,
     In mezzo a un prato erboso, appo un ruscello
     Egro sen giace dal digiun consunto.
5L’altr’ier guatollo Argone, e da quel punto,
     Quasi pasciuto di mortal napello,
     (Come, ridir non so) di pingue e bello,
     Tosto divenne sì deforme e smunto.
Or dal suo mal, con provvido consiglio,
     10Apprendete a fuggir con piè non tardo
     Da quel, che a voi sovrasta, egual periglio.
Ah fuggite d’Amor la face e ’l dardo:
     Quanto in lui fa il velen d’invido ciglio
     Far puote in voi d’occhio amoroso un guardo.


VIII


Dietro l’ali d’Amor, che lo desvìa,
     Sen vola il mio pensier sù d’improvviso,
     Ch’io non sento il partir, finchè a quel viso,
     Ove il volo ei drizzò, giunto non sia.
5Chiamolo allor; ma della Donna mia
     L’alta bellezza egli è mirar sì fiso,
     Involandone un guardo, un detto, un riso,
     Che non m’ascolta, ed il ritorno obblia.
Alfin lo sgrido: ei senza far difesa
     10Mi guarda, e un riso lusinghier discioglie,
     E ridendo i suoi furti a me palesa.
Tal piacer la mia mente indi raccoglie,
     Che dal desìo di nuove prode accesa,
     Tutta in mille pensier l’Alma si scioglie.


IX181


Archimede non già, Fidia, nè Apelle

[p. 240 modifica]

     Quest’arti illustri, e vaghe a noi concesse,
     Che sann’in legni, in marmi, o in lini espresse
     Di Natura imitar l’opre più belle;
5Creolle il Fabbro eterno, e al Mondo dielle
     Quando nell’Uom sua grande imago impresse,
     Fermò nell’aria il suol, le sfere eresse,
     E in Terra i fior dipinse, e in Ciel le stelle.
Or non dovranno de’ Mortali a’ sensi
     10Oggetto offrir, che non sia onesto, e pio,
     E quale all’alta origin lor conviensi.
Che se ad altro lavor cieco desìo
     Muove la man; sorga la mente, e pensi,
     Che il primo Autor di sì bell’arti è Dio.


X182


Mentr’oggi, o Silvia, a pascer l’agne inteso
     Men gìa d’Alfeo lungo l’erboso lido;
     E dal desìo d’udir tue rime acceso,
     Le affretto or colla lingua, ora col grido:
5Tra le frondi d’un Più veggo sospeso
     Codesto di usignuoli industre nido,
     E di repente in sulla cima asceso,
     Da’ rami, onde pendea, lieto il divido.
Pastorella per via non vid’io poi,
     10Che per averli non narrasse quanti
     Eran per tutt’Arcadia i pregi suoi.
Ma pur, d’ogni altra disprezzando i vanti,
     Serbali a te: perchè da i versi tuoi
     Apprenderanno più soavi i canti.


XI183


Si vivo lume di virtù matura
     Nel tuo bel cor fin da’ prim’anni ardea,
     Ch’al gran Pastor per te l’Ostro chiedea

[p. 241 modifica]

     A ragion quinci Amor, quindi Natura.
5Egli, che i prieghi lor non sente, o cura,
     Ma chiare di valor prove volea,
     Vada a cercarlo pur, vada, dicea,
     Per ogni via più faticosa e dura.
Gisti: e te vide Europa in varie forme
     10Per erti gioghi, ove a gran pena andrebbe
     Col guardo occhio mortale, imprimer l’orme.
Quindi 'l tuo merto ad or ad or sì crebbe,
     Ch’alfin eccelso onore, a lui conforme,
     Gloria a chi l’ebbe, ed a chi ’l diede accrebbe.


DELL’ABB. FRANCESCO LORENZINI


I184


Quando l’amara lite in Cielo insorse,
     Delle Dive a sedar l’ire maggiori,
     Onde l’Asia ecclissati i suoi spendori
     L’aspro destino suo maturo scorse:
5Da Giove eletto al gran giudizio sorse
     Paride, a cui per gli ottenuti onori
     L’alma Dea delle grazie e degli amori
     La funesta mercede in premio porse.
Ma il gran Rettor del Cielo e delle stelle
     10Scorgendo il senno, che tenea racchiuso
     La sentenza, che feo le due men belle:
All’Uomo in dono la prudenza, e l’uso
     Concesse de’ giudizi; e il sesso imbelle
     Destinò solo al generare e al fuso.


II


Questo, che spiega verdi rami ombrosi:
     E par che a speme di buon frutto s’erga,
     Arbor gentil, ch’io già sotterra posi,
     Quando ancor ora tenerella verga:

[p. 242 modifica]

5Borea, nè tu, nè alcun de’ tuoi nevosi
     Fratelli tocchi o svella o al suol disperga,
     Se mai ritorno noi a noi ne’ piovosi,
     D’orrido e pigro gel gravi le terga.
E se all’ira natìa non sai por freno,
     10Schianta un abete, che gran parte imgombra
     Dell’aria inutilmente, e del terreno;
Che loderanti quei, cui invidia adombra,
     Alberi eguali, e quei che al Ciel sereno
     Ei toglie, e opprime sotto sè coll’ombra.


III185


Vedrai Donna immortal presso a quell’onda,
     Che il fianco all’Appennino irriga, a parte,
     Impaziente aspettar Te, per farte
     Dono gentil dell’onorata fronda.
5Corri, Spirito illustre, e alla feconda
     D’Eroi tua stirpe, e già famosa in carte,
     De’ tuoi bei fregi aggiungi anco la parte,
     Per far, che a se medesima in te risponda.
Io non penètro già ne i dì futuri,
     10Nè fo col desiderio altrui presente
     L’alto sperar de’ commun nostri auguri:
Perchè aéra virtù so, che non mente,
     E so, che tu sol della gloria curi,
     Figlia d’eccelsa infaticabil Mente.


IV186


Ecco in Riva del Tebro, ecco è già nato
     Lo spavento dell’Anglia, il Signor vero;
     Cingi, o Clemente, il fanciullin guerriero
     Di sucro elmo, e d’acciar pria dell’usato.
Certo è ragion, che sol di ferro ornato
     Inferocisca nel vagir primiero,

[p. 243 modifica]

     Se deve tosto per l’onor di Piero,
     E del suo sangue, uscire in campo armato.
Nè paventar, se fuor del patrio soglio
     10Ramingo ei nasce, esposto alla rovina,
     Che a lui minaccia il fier nemico orgoglio.
Così fuor della sua Regia Latina
     Romol già nacque, e seppe in Campidoglio
     Roma innalzar d’ogni città Reina.


V187


Il divin cibo mi sarà, dicea
     La Vergin sagra sul morir, negato?
     Dicea, lassa!, col cuore innamorato,
     Che con la lingua tanto non potea.
5Deh, Signor, sospirando soggiungea:
     Nuovo a Te valico aprir non è vietato;
     Vieni, ecco il petto, aprimi il manca lato,
     E la fiamma del sen tempra, e ricrea.
Piacque al celeste Sposo il bel desìo,
     10E penetrolle, aperto il fianco, al cuore,
     E quindi unito alla bell’Alma uscìo.
Morte, di lei tu non avesti onore,
     Ch’ella non morì già, ma si partìo
     Dal suo bel vel per nuov’arte d’Amore.


VI188


Coll’elmo in fronte, che temprò Vulcano,
     Fuori dell’urna tutto il petto mise
     Scotendo l’asta, ch’avea strette in mano,
     L’Ombra guerriera del figliuol d’Anchise.
5E parlò: Fiume, a te Fiume Romano,
     La ragion delle genti il Ciel commise,
     Da che desti ricetto al pio Trojano:
     E intanto alzossi la visiera, e rise.
Quindi Romolo mio fondò l’impero,
     E fe’ la strada col favor dell’armi

[p. 244 modifica]

     Alla futura autorità di Piero.
Mancava solo a pien per consolarmi
     Il poetico regno: Arcadi io spero,
     Vederlo oggi fondar sui vostri carmi.


VII


Alfin forte Ragione, e forte Sdegno,
     Dopo lungo lamento e lunga pena,
     Per aspra via deserta e d’orror piena
     M’han tratto fuor de l’amoroso Regno.
5Tal che m’appendo in voto il giogo indegno,
     E i rotti avanzi de la mia catena;
     Ed or ne porto al piede, al collo appena
     La livid’orma de l’antico segno.
Passa quell’empia; i ferri appesi vede,
     10L’appeso giogo riconosce, e ancora
     La mia novella libertà non crede.
Ma crederalla la Superba allora
     Che sivedrammi con sicuro piede
     Passarle innanzi, e del suo Regno fuora.


VIII189


La tua speranza, il tuo soccorso è nato,
     Bella saggia ed onesta alta Reina,
     Nato sotto l’augurio e sotto il fato
     Della temuta maestà Latina.
5Non agli agi, che merta il regio stato,
     Avvezzar dei la sua virtù bambina;
     Ma a quel rigor, con cui già fu educato
     Scipio, che mise l’Africa in ruina.
Fra gli elmi e l’aste nello scudo avito
     10Posi le membra, e chiuda le pupille
     A breve sonno con guerriero invito.
Così d’onor s’accendono faville,
     Così fu già da Tetide nudrito
     Per destino dell’Asia il fero Achille.

[p. 245 modifica]


SCIPIONE MAFFEI


I190


VEggio ben io, ch’oltra il mortal costume
     Lungi dal volgo umìl l’ali spiegate,
     E quanto più sovra di noi v’alzate,
     Tanto acquistan vigor le vostre piume.
5Folle chi ’l volo alter seguir presume
     Per vie prima non viste e non pensate:
     Colà ne’ vostri rai voi vi celate,
     Chè non regge uman guardo a tanto lume.
Se però tal virtù, ch’ogn’altra eccede,
     10In preda agli anni esser non dee concessa,
     Scriver v’è forza, e voi di voi far fede;
Che, rimanendo ogn’altra penna oppressa,
     D’un bel nome immortal l’alta mercede
     Non v’è dato sperar che da voi stessa.


II


Qual augellin, ch’uscir di guai si crede,
     Talora in stanza adorna il volo sciolse,
     E verso là tutto desìo si volse,
     Onde il lucido giorno entrar si vede;
5Ma poco va, che trattenersi il piede
     Sente dal filo, che il fanciul gli avvolse;
     E cade al suol con l’ali larghe, e duolse,
     Nè tenta più, nè più in sue piume ha fede.
Così d’erger mia mente, e dell’impaccio
     10Uscir di quel pensier, ch’ognor mi preme,
     Prov’io talor, ma poi ricado e giaccio;
Poichè d’intorno al cor, ch’indarno geme,
     Sento stringersi allor l’usato laccio,
     E in pena dell’ardir perdo la speme.

[p. 246 modifica]


III


Queste mie rime, ov’io vostra beltate
     Vò dipingendo sì, che in ogni parte,
     Donna, se n’ode il suono, e queste carte,
     Che favellan di voi, non isprezzate.
5Che quando al tempo, in cui tarda è pietate,
     Verravvi in ira quel cristal, che in parte
     Vi additerà vostre bellezze sparte
     (Ahi quanto può sovra di noi l’etate!).
Allor queste leggendo, i vostri affanni,
     10Come in speglio miglior, temprar potrete,
     Ov’orma non sarà de’ vostri danni.
Quivi, qual foste già, non qual sarete,
     Con diletto mirando, in onta agli anni,
     Vostre belle sembianze ancor vedrete.


IV


Que' fieri lacci, onde il mio cuore avvolsi
     Quando nella prigion sì lieto entrai,
     Tanto con la Ragion feroce oprai,
     Che per man dello sdegno alfin disciolsi.
5Ma appena indietro a rimirar mi volsi
     Gl’infranti nodi ed i fuggiti guai,
     Che a mio dispetto ancora io sospirai,
     Ed or di sua vittoria il cor già duolsi.
Qual’infelice augel, che in gabbia adorna
     10Trasse i lunghi suoi dì, s’avvien che n’esca,
     All’antica prigion da se ritorna.
Tal’ io nel carcer, che sì dolce ha l’esca,
     Ritornerò, s’altri non mi frastorna;
     Così già par, che libertà m’incresca.


DEL CONTE LORENZO MAGALOTTI


I


Un picciol verme, entro di me già nato,
     Tentar le vie del sangue ebbe ardimento,
     E su quel corse a nuoto a suo talento
     Delle viscere mie per ogni lato.

[p. 247 modifica]

5Il gemino del cor lago infocato
     Vide, e i due monti, u’ s’attesora il vento,
     Ch’è vita; e al fin per cento seni e cento
     Alle sfere del cerebro fu alzato.
E ricercato in van l’alto e ’l profondo
     10Dell’alma in traccia delirar s’udìo:
     Qui tutto è di materia inutil pondo.
Tal delirò quell’Empio in suo desìo,
     Che cieco a brancolar si diè sul Mondo,
     E disse nel suo cor: non evvi Dio.


II


Con un me fuor di me detesto, oh Dio,
     Quel, che l’interno me con cieche brame
     Pur vuole: e intanto la rabbiosa fame,
     Sol mercè del timor pasce il desìo.
5Troppo basso timor, che in van ordìo
     Spesso al senso ribelle il suo legame!
     Troppo forte desìo, che a stretto esame
     Forse è voler, cotanto in su salìo!
Questo basso timor, che in me non vale,
     10Questo forte desìo, che tanto puote,
     Questo me dentro me, che si prevale,
Svella, o Signor, colle pupille immote,
     Di Fede armato il braccio inerme e frale,
     Con armi al senso, e alla ragione ignote.


CARLO MARIA MAGGI.


I


Giace l’Italia abbandonata in questa
    Sorda bonaccia, e intanto il Ciel s’oscura;
    Eppur ella sì sta cheta e secura,
    E per molto che tuoni, uom non si desta.
5Se pur taluno il palischermo appresta,
    Pensa a se stesso, e del vicin non cura;
    E tal sì lieto è dell’altrui sventura,

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     Che non vede in altrui la sua tempesta.
Ma che? quell’altre tavole minute,
     10Rotta l’antenna, e poi smarrito il polo,
     Vedrem tutte ad un soffio andar perdute.
Italia, Italia mia questo è il mio duolo:
     Allor siam giunti a disperar salute
     Quando pensa ciascun di campar solo.


II


Io grido, e griderò, finchè mi senta
     L’Adria, il Tebro, il Tirren, l’Arno, ’l Tesino,
     E chi primo udirà, scuota il Vicino,
     Ch’è periglio comun quel, che si tenta.
5Non val, che Italia a’ piedi altrui si penta,
     E obbliando il valor, pianga il destino;
     Troppo innamora il bel terren Latino,
     E in desìo di regnar pietate è spenta.
Invan con occhi molli, e guance smorte
     10Chiede perdon; che il suo nimico audace
     Non vuole il suo dolor, ma la sua morte.
Piaccia il soffrire a chi ’l pugnar non piace:
     È stolto orgoglio in così debil sorte
     Non voler guerra, e non soffrir la pace.


III


Poco mi resta, è ver, da solcar l’onda,
     Che dovrìa farmi al navigar più franco,
     E pur m’affligge il non saper pur anco
     D’uscire in gola al mare, o in lieta sponda.
5Tempo più che mai fiero or mi circonda,
     E benchè fra tempeste il crine ho bianco,
     Già più saggio non son, ma son più stanco,
     E senz’armi, e consiglio il legno affonda.
Fu il mio cammin sì mal guidato, e torto,
     10Che senza miglior guida io temer deggio
     Di finir nello scoglio, e non nel porto.
Ben del corso affannoso al fin mi veggio;
     Ma non so per qual meta. Ahi qual conforto
     Finire un mal con paventarne un peggio!

[p. 249 modifica]


IV191


O Gran Lemene, or che Orator vi fe’
     Meritamente l’inclita Città,
     Io vi voglio insegnar come si fa
     Ad esser Orator d’Ora pro me.
5Tener l’arbitrio in credito si dè
     E in ozio non lasciar l’autorità:
     Con chi vi può scoprir fare a metà,
     E i furti intitolar col ben del Re.
Non provocar chi sa, soffrir chi può;
     10Lo stomacato far dell’oggidì,
     Santo nel poco, e ne’ bei colpi nò,
Su i libri faticar così così;
     E saper dire a tempo a chi pregò
     Il nò con grazia, e con profitto il sì.


V


Dal Pellegrin, che torna al suo soggiorno
     E collo stanco piè posa ogni cura,
     Ridir si fanno i fidi Amici intorno
     Dell’aspre vie la più lontana, e dura.
5Del mio cor, ch’a se stesso or fa ritorno,
     Così domando anch’io la ria ventura,
     In cui fallaci il raggiraro un giorno
     Nella men saggia età speme, e paura
In vece di risposta egli sospira;
     10E stassi ripensando al suo periglio,
     Qual chi campò dall’onda, e all’onda mira.
Pur col pensier del sostenuto esiglio,
     Ristringo il freno all’appetito, e all’ira:
     Che ’l prò de’ mali è migliorar consiglio.


VI


Mentre omai stanco in sul confine io siedo
     Della dolente mia vita fugace;
     Ogni umano pensier s’acqueta e tace,

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     Se non quando dal cor prende congedo.
5Il sol pensier d’Eurilla ancor non cedo
     Al Mondo, che per altro a me non piace;
     Anzi meco si sta con tanta pace,
     Che pensiero del Mondo io più nol credo.
Amo lei come bella al suo Fattore;
     10Nè sentendo per lei speme, o temenza,
     Nell’amor mio non cape altro che amore.
E amo così, che non sarò mai senza
     Il puro affetto; e vi s’adagia il core
     Con l’alma securtà dell’Innocenza.


VII


Lungi vedete il torbido torrente,
     Ch’urta i ripari, e le campagne inonda,
     E delle stragi altrui gonfio e crescente,
     Torce su i vostri campi i sassi e l’onda.
5E pur’altri di voi sta negligente
     Su i disarmati lidi, altri seconda;
     Sperando, che in passar l’onda nocente
     Qualche sterpo s’accresca alla sua sponda.
Apprestatigli pur la spiaggia amica;
     10Tosto Piena infedel fia che vi guasti
     I nuovi acquisti, e poi la riva antica.
Or che oppor si dovrìan saldi contrasti,
     Accusando si sta sorte mimica:
     Par che nel mal comune il pianger basti.


VIII


Scioglie Eurilla dal lido. Io corro, e stolto
     Grido all’onde, che fate? Una risponde:
     Io, che la prima ho il suo bel nume accolto,
     Grata di sì bel don bacio le sponde.
5Dimando all’altra: allor che ’l Pin fu sciolto
     Mostrò le luci al dipartir gioconde?
     E l’altre dice: Anzi serena il volto,
     Fece tacere il vento, e rider l’onde.
Viene un’altra, e mi afferma: or la vid’io
     10Empier di gelosìa le Ninfe algose,

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     Mentre sul mare i suoi begli occhi aprìo.
Dico a questa: e per me nulla t’impose?
     Disse almen la crudel di dirmi Addio?
     Passò l’onda villana, e non rispose.


IX


Un degli empi son io, che al destro lato
     Il diritto cammin mai non seguiro;
     Ma intorno al polo, a cui mi tien legato
     Il costume, e il piacer, vò sempre in giro.
5E se l’amor, ch’io posi al laccio usato,
     Mi torna in duolo, e libertà sospiro,
     Nell’inutil dolor del fiero stato
     Vivo con men inganno, e più martiro.
Stimola il tempo a procacciar soccorso:
     10Sento lo spron, che in un voler sì lento
     Trafigge il fianco, e non aita il corso;
Sì da letargo ogni vigore è spento,
     Che assai più del fallire odio il rimorso,
     E vorrei disperar per men tormento.


X


Oh quanti inganni in giovanil pensiero,
     Quando la pronta speme, e il senno tardo
     Ogni saggio timor stiman codardo,
     Sotto del senso al mal usato impero!
5Io, che perciò smarrito ho già ’l sentiero,
     Alle fallite vie rivolgo il guardo;
     Scorgo vani gli onori, e Amor bugiardo,
     E mi fermo a pensar, se ancor vi spero.
Sento che le speranze ancor le piume
     10Della lor vanità piegar non sanno;
     E cessato l’error, dura il costume.
Almen durasse il mio primiero inganno!
     A chi è fuor di cammino un tardo lume
     Accresce il duolo, e non corregge il danno.


XI


Punto d’Ape celata infra le rose
     Nella man che vi stese incauto Amore,
     Pianse alla Madre, e la perfidia espose,

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     Che si coprìa nella beltà dei fiore.
5Or le ferite intendi, ella rispose,
     Che fai nell’alme altrui, dal tuo dolore;
     Ben le pruove più crude, e insidiose
     Di quelle del tuo dito il nostro cuore.
Pur la tua spina a noi tu non iscopri;
     10E in paragon di questa Ape infedele,
     Più crudeltade e con più frode adopri.
Ci pungi a morte promettendo mele,
     E in rose di beltà tue punte copri;
     Ma l’inganno più bello è il più crudele.


ANDREA MAIDALCHINI.


I


Quand’io credea, che in me gli ardori intensi
     Fossero estinti, e ne gioiva il cuore,
     Venne furtivo il pargoletto Amore,
     E riaccese nel seno incendi immensi.
5E acciò saggia Ragion mai più non pensi
     Ad ammorzare il ravvivato ardore,
     L’empio in guardia vi pose il suo furore
     In compagnìa de’ contumaci sensi:
E se Morte talor vuol darmi aita,
     10Tosto porge il crudel breve ristoro,
     Che dà vigore all’alma egra e smarrita.
Così scherza il fanciul col mio martoro,
     Che sol per suo piacer mi serba in vita,
     Sicch’io vivo morendo, e pur non moro.


II


Levami in alto un mio pensier veloce
     L’origine a cercar del mio dolore,
     E veder parmi il faretrato Amore
     Sovra carro di fuoco andar feroce:
5E dietro lui seguir con volto atroce
     Spavento, gelosia, odio, o furore,

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     E tra lor veggio me, che pien d’orrore
     Spargo vane querele, inutil voce.
E scorgo al fin che di mie tante pene
     10Cagione è solo il dolce ardor, ch’elice
     Dagli occhi suoi la mia tiranna Irene.
Indi fiero destino odo, che dice:
     Soffi misero pur le tue catene,
     Che sperar libertade a te non lice.


III192


Forte Campion, ch’in sul bel fior degli anni
     De’ due cammini al destro il piè volgeste,
     E tai sproni di gloria al fianco aveste,
     Che sprezzaste di morte acerba i danni.
5Voi ne giste a gioire, e noi d’affanni
     Colmi lasciaste in cure aspre e moleste;
     Pianse Roma il suo fato, e intanto feste
     Con vostre Opre stancar di Fama i vanni.
Superbo è il Pò del vostro sangue tinto,
     10Che per voi la sua Reggia aver non mira
     Da germanico ferro il piede avvinto.
E in voi confuse Italia tutta ammira
     Di sue speranze il più bel fiore estinto,
     E sulla vostra tomba egra sospira.


IV


Erano i miei pensier rivolti altrove,
     Allor che Dio vibrò di grazia un raggio,
     Che chiamolli, e gustar fe’ lor un saggio
     Dell’alto immenso ben, ch’egli a noi piove.
5E qual Ape, se in Ibia avvieni che trove
     Più dolce umor, s’arresta in suo viaggio;
     Tal l’intelletto mio reso più saggio
     Tutto s’immerse in le delizie nuove.
Finch’ei per lor dal basso fango tolto
     10Se vide in Cielo appo il divino Amore,

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     Ed io me tutto entro sue fiamme involto:
Sicch’or grido, Signore, o addoppia il cuore,
     O a te mi chiama dal mio Fral disciolto,
     O tempra in parte il tuo celeste ardore.


V


Un giorno all’ombra di due querce annose
     Quel Dio, ch’in Gnido sua gran Reggia tiene,
     Dormìa disteso in sulle molli arene,
     E fier destino al guardo mio l’espose;
5Che nel volto di lui fra gigli, e rose
     Comparve agli occhi miei l’ingrata Irene;
     Ed il mio cuor, delle sofferte pene
     Memore ancora, a sospirar si pose.
Tanto bastò per isvegliar l’Arciero,
     10Che lieve ha sonno; e tutto sdegno il cuore
     D’un stral mi punse: poi volando il fiero
Disse a me volto: Or nel tuo primo ardore
     Torna a penar, ch’io vuo’, ch’al Mondo intero
     Servi d’esempio a non destare Amore.


BIAGGIO MAIOLI.


Amor s’oltre misura arde il mio cuore,
     Abbia la Cruda almen parte del foco,
     Che sì m’accende, e spargo in ogni loco
     I sospir, che dal seno io mando fuore.
5Nè pure al viver mio s’accorcian l’ore,
     Ma come un tanto ardor sia scherzo e giuoco,
     Quanto più per pietà la morte, invoco,
     Ella più fugge, io provo il suo dolore,
Dunque forz’è, ch’io viva in tai tormenti,
     10E chi n’è la cagion, quel cuore altero
     Nulla ne sente; e tu, crudel, lo sai.
Lo sai, me lasso!, e barbaro il consenti.
     Ah che non sei onnipotente Arciero,
     Se per sì duro cuor dardi non hai.

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EUSTACHIO MANFREDI.


I


Vegliar le notti, e or l’una, or l’altra sponda
     Stancar del letto rivolgendo i lassi
     Fianchi, e traendo sospir tronchi e bassi
     Per la piaga, ch’io porto aspra e profonda;
5E il dì fuggir dove non erba o fronda
     Ombri ’l terren, ma nude balze e sassi,
     Mesto rigando il suolo, ovunque io passi,
     Con larga vena, che per gli occhi inonda;
E ben scorgere omai, che Costei serba
     10Suo antico stile, e dopo il decim’anno
     Rivederla più bella, e più superba;
Vivere intanto, e d’uno in altro inganno
     Passare, e d’una in altra pena acerba,
     Questa legge m’impose il mio Tiranno.


II193


Dell’Universo al glorioso pondo
     Volgi, deh volgi un guardo, o gran Clemente;
     E vedi come lieto, e riverente
     In Te sol miri, e da Te penda il Mondo.
5Ecco a’ tuoi piedi Italia, e il bel fecondo
     Clima d’Europa, e il suol freddo, e l’ardente,
     Ecco a’ tuoi piè qual più remota Gente
     Da noi divide o Monte, o Mar profondo:
Ed ecco a’ piedi tuoi chinar l’ancella
     10Fronte Regi, e monarchi; e ognun Te degno
     Rege di loro, e Te Monarca appella.
D’Arcadia ancor (deh non aver a sdegno
     Sì poca gloria, che tua gloria è anch’Ella)
     D’Arcadia ecco a’ tuoi piè l’agreste Regno.

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III194


Or, che la rende al gran culto primiero
     Tua benefica destra, o gran Clemente,
     Sembra, che umìl s’inchini, e riverente
     L’alta Mole contempli il Tebro altero,
5Ei, che solea già minaccioso e fero
     Stragi portando alla Romulea gente,
     Ir sulle sponde ad atterrar sovente
     Le tombe e i templi del Romano Impero;
Or lieto esulta a queste Rive intorno,
     10Memore ben dell’immortal Pastore,
     Che a Maria questo eresse almo soggiorno;
E te veggendo ancor, che non minore
     Di lui, qua riedi in così lieto giorno
     Nuovo al bel Tempio suo crescendo onore.


IV


Il primo albor non appariva ancora,
     Ed io stava con Fille al piè d’un orno,
     Or’ ascoltando i dolci accenti, ed ora
     Chiedendo al Ciel per vagheggiarla il giorno.
5Vedrai, mia Fille, io le dicea, l’Aurora
     Come bella a noi fa dal mar ritorno,
     E come al suo apparir turba e scolora
     Le tante Stelle, ond’è l’Olimpo adorno.
E vedrai poscia, il Sole, incontro a cui
     10Sparian da lui vinte e questa e quelle:
     Tanta è la luce de’ bei raggi sui.
Ma non vedrai quel che io vedrò, le belle
     Tue pupille scoprirsi e far di lui
     Que, ch’ei fa dell’Aurora e delle Stelle.


V


Dov’è quella famosa alta e superba
     Mole, che surse un tempo in sul confine

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     Di Caria, e fu dell’Asia alle Reine
     Lungo argomento di memoria acerba?
5Ohimè, che sparsa a terra giacque, ed erba
     Steril la copre! Ohimè che bronchi e spine
     Serpon su quell’antiche ampie rovine,
     Se pur di lor vestigio anco si serba!
Oh tempo edace! E come mal s’adopra
     10Chi Reggia innalza, chi la pioggia e il vento
     Percuota, e poca arena al fin ricopra!
E come meglio in Cielo il fondamento
     Gittar si può di memorabil opra,
     Ch’eterna fia dopo cent’anni e cento!


VI195


Qual feroce leon, che assalit’abbia
     Pastor malcauto, e il preme e’n fuga il caccia:
     Quei d’elce o quercia all’alte annose braccia
     Ricovra, e schiva del crudel la rabbia,
5Il qual gli è intorno e con spumanti labbia
     Ruggendo il mira e pur quel tronco abbraccia
     Coll’unghie adunche, e il crolla, e pur procaccia
     Salirvi, e sparge in van col piè la sabbia
Così Costei, che del leon d’Inferno
     10Fuggì gli artigli, ed ha ricovro amico
     Su i santi rami del gran tronco eterno:
L’ira non teme più del fier nemico,
     E lo vedrem pien d’aspro duolo interno
     Tornar ruggendo a quel suo centro antico.


VII196


Vidi l’Italia col crin sparso incolto
     Colà, dove la Dora in Pò declina,
     Che sedea mesta, e avea negli occhi accolto
     Quasi un orror di servitù vicina.
5Nè l’altera piangea; serbava un volto

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     Di dolente bensì, ma di Reina:
     Tal forse apparve allor, che ’l piè disciolto
     A’ ceppi offrì la Libertà latina.
Poi sorger lieta in un balen la vidi,
     10E fiera ricomporsi al fasto usato,
     E quinci e quindi minacciar più lidi.
E s’udìa l’Appenin per ogni lato
     Suonar d’applausi e di festosi gridi:
     Italia, Italia, il tuo soccorso è nato.


VIII197


Ahimè, ch’io sento il suon delle catene,
     E fischiar odo la tempesta atroce
     De’ feri colpi, e la sanguigna Croce
     Alzarsi, ove Gesù languisce e sviene!
5Ahimè, che il cor mi manca, e non sostiene
     Così nuovo spettacolo feroce!
     O frena il suon di sì pietosa voce,
     Od ella alquanto di sue forze affrene.
Ma qual dolcezza a poco a poco io sento
     10Nascermi in petto, ch’ogni duol discaccia,
     E di pace mi colma e di contento!
Duro mio cor, perchè pregar, ch’ei taccia?
     Se col duolo ti guida al pentimento,
     Parli, finchè ti rompa e ti disfaccia.


IX198


Se la donna infedel, che il folle vanto
     Si diè d’avere ugual con Dio la sorte,
     E morse il pomo lagrimevol tanto,
     Misera! e diello al credulo consorte,
5Chiuse avesse l’orecchie al dolce incanto
     Del serpe, e al suon delle parole accorte:
     Staria ancor chiuso entro gli abissi il pianto,

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     E sarìan nomi ignoti e colpa e morte.
Ma se al fin non traea l’opra rubella,
     10Vergine eccelsa, ah! l’onor tuo sarebbe
     Diviso e pari con quest’alma e quella.
E intatta sì, ma non distinta andrebbe
     La tua fra mille. Oh fortunata e bella
     Colpa, che a sì gran Donna un pregio accrebbe!


X199


Voi pure orridi monti, e voi petrose
     Alpestri balze il duro fianco apriste,
     E pei riposti seni e per le ascose
     Vostre spelonche in suon rauco muggiste;
5E già presso al cader le minacciose
     Gran fronti vostre vacillar fu viste:
     E foran oggi le create cose
     Tutte, qual pria, tra lor confuse e miste:
Se non che quinci densa notte oscura
     10Veder vi tolse il sacro corpo, ed entro
     Un mesto vel la luce aurea coprissi;
E quindi intanto luminosa e pura
     La grande alma miraste in sin nel centro
     Gir trionfando, e rallegrar gli Abissi.


XI


Poichè di morte in preda avrem lasciate
     Madonna ed io nostre caduche spoglie,
     E il vel deposto, che veder ci toglie
     L’Alme nell’esser lor nude, e svelate:
5Tutta scoprend’io sua crudeltate,
     Ella tutto l’ardor, che in me s’accoglie,
     Prender dovrianci alfin contrarie voglie;
     Me tardo sdegno, e lei tarda pietate.
Se non ch’io forse nell’eterno pianto,
     10Pena al mio ardir, scender dovendo, ed ella
     Tornar sul Cielo agl’altri Angioli accanto:
Vista laggiù fra Rei questa rubella

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Alma, abborrir vieppiù dovrammi; io tanto
     Struggermi più quanto allor fia più bella.


XII200


L’Augusto Ponte,201 a cui fremendo il piede
     Percote il Reno, e il gran giogo disdegna,
     Quel che a tua stirpe custodir già diede
     Felsina, e il giunse all’onorata insegna;
5Quello, Signor, mentr’oggi ella ti cede
     Le chiavi e il freno, al tuo valor consegna,
     E a lui spera difesa, e per lui chiede
     Opra da te del sangue tuo sol degna:
Ch’or gliel par di veder d’aste guerriere
     10Ondeggiar tutto e di non suoi stendardi,
     Fatto varco crudel d’estranie schiere.
Nè quello par su cui con torvi sguardi
     Tornar vide il Re preso, e le bandiere202
     Trar per la polve incatenati i Sardi.


XIII203


Vergini, che pensose a lenti passi
     Da grande ufficio e pio tornar mostrate,
     Dipinta avendo in volto la pietate,
     E più negli occhi lagrimosi e bassi:
5Dov’è colei, che fra tutt’altre stassi,
     Quasi sol di bellezza e d’onestate,
     Al cui chiaro splendor l’alme bennate
     Tutte scopron le vie, donde al Ciel vassi?
Rispondon quelle: Ah non sperar più mai
     10Fra noi vederla, oggi il bel lume è spento

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     Al mondo, che per lei fu lieto assai:
Sulla soglia d’un Chiostro ogni ornamento
     Sparso, e gli ostri e le gemme al suol vedria,
     E il bel crin d’oro se ne porta il vento.


XIV204


Talor vò col pensier, dove uom mortale
     Raro è, che senza orgoglio unqua sen gisse;
     E grave dubbio nel pensar m’assale,
     Come sien le sue sorti a ciascun fisse.
5Ah, fra me dico, se con man fatale
     Dio la mia morte, o il viver mio prescrisse,
     Peccar che nuoce! o ben oprar che vale?
     Chi dal libro trarrammi, ov’ei mi scrisse?
Ma tu che in mano hai di ragione il freno,
     10Saggio Orator, con dolce stile e forte
     Sì mi rapigli, e mi convinci appieno:
Folle non pensi tu, che se tua sorte
     In man di chi la regge è incerta almeno,
     Certa sarebbe in tuo poter la morte?


XV205


L’Eterna voce, al cui suono risponde
     Il mar la terra il cielo, e che sovente
     Rimbomba ancor tra la perduta gente
     Nelle valli d’Inferno ime e profonde,
5Certò è quella, o Mancin, che in queste sponde
     Alto suonar sul labbro tuo si sente,
     Nostra rara ventura, e chiaramente
     A noi rivela ciò che ad altri asconde.
Venite, o genti, ad ascoltar sul Reno
     10Come or lusinghi, ed or tuoni d’un Dio
     La voce, e or stringa e or lenti all’alme il freno,
Ma se alcun d’ascoltarla oggi è restìo,

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     Più non udralla, o l’udrà tardi almeno,
     Nella gran valle dell’eterno Addio.


XVI206


Poichè scese quaggiù l’anima bella,
     Che nel sen di Costei posar dovea,
     Incerta errando in questa parte e in quella,
     Niuna degna di lei salma scorgea:
5Qual basso luogo è questo, e chi m’appella
     Quaggiù dal Ciel? sdegnando ella dicea:
     E già per ritornar di stella in stella
     Era all’alta, onde scese, eterna idea;
Pur, seguendo de’ fati il gran disegno,
     10Entrò nel vago destinato velo,
     Vago bensì, ma pur di lei non degno;
E già lo sprezza, e già colma di zelo
     Cerca dentro il fral breve ritegno
     Tutte le vie di ricondursi al Cielo.


XVII207


O fiume, o dell’erbose alme feconde
     Piaggie depredator, che svelli e ruoti
     Gran tronchi e sassi, e quinci urti e percuoti
     Tuguri e case, e non hai letto o sponde:
5Non toccar questo colle, e cerca altronde
     Riva, a cui ’l corno minaccioso arruoti:
     Quì s’adora Filippo, ed inni e voti
     Dansi, a lui che dal Ciel n’ode, e risponde.
Sai pur, che a un cenno suo l’onde frementi
     10Taccion del Mare, e con dimesse piume
     Tornansi agli antri lor tempeste e venti:
Or di te che sarà, se un tanto Nume
     Sprezzi, e i dolci suoi campi abbatter tenti,
     Povero scarso orgogliosetto Fiume?

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XVIII208


Ben ha di doppio acciar tempre possenti
     Intorno al petto e adamantina pietra
     S’alcun v’ha cui nol frange e non lo spetra,
     Dolera, il suon de’ tuoi divini accenti:
5Che, quasi in forte man stimoli ardenti,
     Han empito e vigor, che i cuor penetra:
     Sì che calcitra in vano, e in van s’arretra,
     Forz’è che il Reo li senta e si sgomenti;
O fugga almen dove il tuo dir nol giunge,
     10Ma seco porti nel fuggir l’acerba
     Memoria impressa, ch’altamente il punge;
Siccome belva, che nel fianco serba
     L’asta mortal, nè, per fuggir più lunge,
     Va men l’arena insanguinando l’erba.


XIX209


Perchè t’affiliggi e ti disciogli in pianto,
     Infelice città, dimmi, o per cui?
     Perduta ho la real donna, che tanto
     A me fu cara, a cui sì cara io fui,
5Nè questo almeno ti conforta alquanto,
     Ch’ella è su ’n Cielo, e vede i pianti tui?
     Dunque s’allegri il Cielo; io nò, che intanto
     Fa colle spoglie mie più bello altrui.
Pur ella ancor non ti lasciò: deh mira,
     10Come intorno di te, che a cuor le sei,
     E per tua pace e per tuo ben s’aggira.
Questo è ben ciò che duolmi: io non saprei
     Goder del ben, ch’ella per me sospira,
     Nè trovar la mia pace altro che in lei.

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XX210


Le Ninfe, che pei colli e le foreste
     Del picciol Ren han loro stanza, il giorno
     Che Costei le lasciò, le furo intorno
     Tutte nel viso lagrimose e meste,
5Ohimè, che fan queste aspre lane, e queste
     Funi, dicean, che annodi al fianco attorno?
     E quai ruvide bende al collo adorno
     T’hai cinte, e quai ghirlande al crin conteste?
Ella con fermo viso, e con sembiante
     10Cui d’altro cal, pur le consola, e affretta
     Pur alla fuga le veloci piante.
Tal che gridar: certo a gran prove eletta
     Fu questa; e grande amore, e grande amante
     È quel che siegue, e gran mercè n’aspetta.


XXI211


Dalla vegliata inesorabil notte
     Io non poteva anche impetrar riposo
     Quando, all’entrar delle cimmerie grotte,
     Sopimmi al fin tra pianti miei pensoso.
5Ed ecco a me le lagrime interrotte
     Scorgo da un mattutin sogno amoroso:
     M’appar candida luce, onde van rotte
     L’ombre ivi intorno, e in essa il Figlio ascoso.
E sì mi parla: o Genitor che pensi?
     10Non pianger me, piangi la male amica
     Voglia, che troppo ancor ti lega ai sensi.
Sciogli l’alma dal visco in cui s’implica:
     Senza liberi vanni al Ciel non viensi:
     Riverenza non vuol, ch’io più ti dica.

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FERDINANDO MANOTTI.


I212


Volea ’l Divino eterno Agricoltore
     Piantare un Orto, ma con altra idea
     Da quella, ove il gran varco aperto avea
     La colpa d’Eva all’angue ingannatore:
5Quando vide da lungi il traditore,
     Che fiori, e fonti di venen spargea,
     E ’l tossico crudele ognor bevea
     L’uom, che cadèo dall’immortale onore.
Pietà lo punse, e in faccia al suo nemico
     10Fondò per l’Uomo in cima a un alto monte
     Con la sorgente un più bell’Orto aprico.
Poi di sua man così vi scrisse in fronte;
     Per eterno dolor dell’angue antico
     È chiuso l’Orto, e sigillato il Fonte.


II213


Eccelso Duce, al cui temuto acciaro
     Cadde vinto il Dragone a Dio rubello,
     E al primo lampo suo sì scoloraro
     Le rie Comete, e ’l Ciel si fè più bello,
5Tu godi la tua pace, e al nostro amaro
     Lutto non badi, ahi del celeste Agnello
     L’orto sì sfiora omai senza riparo!
     Miracolo ben, dirai; non è più quello.
Cinto il Drago di stragi, e di spavento;
     10Or quì trionfa, e sazia del Cristiano
     Sangue l’ingorda voglia a suo talento.
Perch’il nostrò desir non speri invano,
     Zelo ti punga, s’armi al gran cimento
     Contro l’istesso ardir la stessa mano.

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DOTTOR FRANCESCO MARCHETTI.


I


Tremendo Re, che nè passati tempi
     Dell’infinito tuo poter mostrasti
     Sì chiari segni, e tante volte agli Empi
     L’alte corna ad un sol cenno fiaccasti;
5Di quel popol fedel che tanto amasti,
     Mira, pietoso Dio, mira gli scempi,
     Mira dell’Austria i fier’incendi e vasti,
     Arsi i palagi, e desolati i tempi.
Mira il Tracio furor, ch’intorno cinge
     10La real Donna del Danubio, e tenta
     Con mille e mille piaghe aprirle il fianco.
Tremendo Re, che più s’indugia, ed anco
     Neghittosa è tua destra? Or che non stringe
     Fulmini di vendetta, e non gli avventa?


II


Italia, Italia, ah non più Italia! Appena
     Sei tu d’Italia un simulacro, un’ombra:
     Regal Donna ella fu di gloria piena,
     Te vil servaggio omai preme ed ingombra.
5Cinte le braccia e i piè d’aspra catena,
     Già d’atre nebbie e fosche nubi ingombra
     L’aria appar del tuo volto alma e serena,
     E i tuoi begli occhi orror di morte adombra.
Italia, ltalia, ah non più Italia! Oh quanto
     10Di te m’incresce! E quindi avvien, ch’io volgo
     le mie già liete rime in flebil canto.
Ma quello, ond’io più mi querelo e dolgo,
     È che de’ figli tuoi crudeli intanto
     Vede il tuo male e ne gioisce il volgo.


III


Del Nulla trar dagl’infiniti abissi
     Della Terra e del Ciel quest’ampia mole

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     Opra tua fu, mio Dio: la Luna, e ’l Sole
     Tu in pria creasti e gli astri erranti, e i fissi.
5Tu, perchè ingrata i termini prefissi
     Varcò del tuo voler l’umana prole,
     Per lei, qual agno immacolato suole,
     Moristi a duro tronco i membri affissi.
E fur ben questi dell’immenso amore,
     10Dell’immenso poter ch’in te risiede,
     Prodigiosi effetti, alto Motore.
Ma che tu, come insegna a Noi la Fede,
     Ne dii te stesso in cibo, ogni stupore
     Del tuo gran, ogni portento eccede.


IV


Specchio vid’io di bel cristallo eletto
     Raccorre e unir di Febo i rai lucenti,
     E vibrarsi sì fervidi e cocenti
     Contra qual sia più duro opposto obbietto
5Ch’ogn’ interno rigor, che il tenga strette
     Si discioglie in brevissimi momenti,
     Onde a soffrirle forza lor possenti
     Riesce il gel fin del diamante inetto.
Simili a specchio tal son le pupille
     10Vostre, o Madonna; indi d'amore il foco
     Ver noi si vibra accolto in giro angusto:
Quinci di cuor non v’ha tanto robusto
     Gel, ch’a sì fiero incendio o molto o poco
     Resista, e non sì stempri, arda, e sfaville.


PIER JACOPO MARTELLI.


I214


Io vedea ne’ tuoi bruni occhi cervieri
     Due di questo mio volto imaginette:

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     Scorgeane un’altra in tue sembienze elette,
     E in quel viso a me piacqui, ed in quei neri.
5Ma ilumi, u’ mi specchiai sì volentieri,
     Oggi, ahi!, morte ferì di sue saette;
     Svenner le guance, e ’n lor le due pozzette,
     Nè queste, o Figlio, è il bel proffil di jeri.
Anzi di me la miglior parte or langue;
     10Che il più teco ne venne, ed io qui resto
     Poco meo che nud’ombra, e corpo esangue,
Se dunque rechi entro l’avel funesto
     L’amor del padre e le fattezze e ’l sangue,
     Deh, Figlio, omai che non ti porti il testo?


II


Ma verrà pur quel dì de’ giorni fine,
     In cui sveglin le trombe il figlio mio,
     E ’l rivedrò, non qual mi disse addìo,
     Coll’egre luci a chiudersi vicine;
5Ma cresciuto e felice oltre il confine
     Di sei lustri, ove d’uno appena uscio,
     Alzar gli occhi e la testa al Ciel natìo,
     E stender lungo e ventilante il crine.
Lui della faccia alle pozzette, al riso
     10Conoscerò; nè, perchè sia più bello,
     Perdute avrà sue somiglianze il viso.
Figlio, ha tutti vedianci in un drappello:
     Tu fra la madre e due germane affiso,
     Ed io fra l’uno e l’altro tuo fratello.


III


Odo una voce tenera d’argento,
     Donde uscita non sò, chiamarmi a nome
     Chi sei? non veggio altro, che l’onda, e il vento
     Del circostante allor scuoter le chiome.
5E pur me, nuovamente avvien, che nome
     Il vicino invincibile concento,
     Onde in petto destarmi, e non so come,
     Amore insieme e maraviglia io sento.
Ah sei tu, che a me riedi, o piccol Figlio

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     10Io non scerneva il candido tuo aspetto
     Da quello, ove ti stai, cespo di giglio.
Te rende forse il buon paterno affetto
     A mie sorti compagno in questo esiglio?
     Nò, Padre: io te nella mia Patria aspetto.


IV


Questa è la porta, ov’io sovente entrando
     Venir vidimi incontro il tuo bel viso;
     Nè qui le cure io diponea, che quando
     Giungeami il tuo saluto, il tuo sorriso:
5Deh, se ancor m’ami ove si vive amando,
     E più s’ama suo sangue in Paradiso,
     Figlio, da’ Vivi o tu m’impetra il bando,
     O riedi il Padre a consolar col riso.
Tu dal porto, onde miri il mio periglio,
     10E co’ voti, e co’ baci, in cui puoi tanto,
     Piega a mio scampo il nuovo Padre, o Figlio;
Nè chieder fine al pianger mio, ma pianto,
     Che le colpe del cor terga col ciglio:
     Chiedi un dolor, che mi ti porti accanto.


V215


Pender vegg’io cinta di rai Donzella
     Su i nostri carmi; e chi sarà costei?
     Quella sarà che tutta a Dio fu bella,
     Poichè non fu sì bella altra che Lei.
5Io la conosco al piè sull’Angue, a quella
     D’auree stelle corona in su i capei;
     Già il cor mi vede in sulle labbra, ond’Ella
     Accoglie alta e serena i voti miei.
Nè vita imploro al morto Figlio, o quante
     10Ricchezze a noi l’uno, e l’altr’Indo invìa,
     Nè che al pari d’Omero eterno io cante.
Chieggo che qual fu il primo a Te Maria
     (Se tanto lice) immacolato istante
     De’ miei penosi dì l’ultimo sia.

[p. 270 modifica]


VI


Vedesti mai nero sparvier che grifi
     Di pugno a l’altro un colombin di covo,
     Che mentre i due volgonsi incontro i grifi
     Pietà, grida, di strazio a lui sì nuovo?
5Misero, e mentre vien, che da l’un schifi
     Morte, ne l’altro incontrala di nuovo;
     Nè i solleciti fati ancor son schifi
     D’una vita, ch’appena uscì da l’uovo.
Meglio era al poverel spirar nell’ugna
     10Del primier, che crudel gli diè di piglio,
     Senza che strage a strage in lui s’aggiugna.
E meglio era pur anche al mio bel Figlio;
     Cui de’ Fisici rei straziò la pugna,
     Qual colombo morir un solo artiglio.


VII


Dove, dove, o pensier? T’intendo, il mio
     Osmin tu cerchi, e ritrovar nol sai;
     Susurra il bosco, io gli fui ombra: ed io
     Specchio, mormoro il rivo, a’ suoi be’ rai.
5Ma deh qual bosco, oh folle te!, qual rio
     Fan che in traccia ramingo ancor ne vai?
     Qual del buon Figlio, e di te stesso obblìo
     Vuol, che altronde lo chiami, or che in te l’hai?
Tacqui: e in se stesso il mio pensier raccolto
     10Spia l’interno dell’Alma, e allor si vede
     Tutto ripien di quell’amabil volto.
Tal Fanciul, che smarrita aver si crede
     Treccia di fior, cerca ricerca: ah stolto!
     Chè d’averla sul capo alfin s’avvede.


CARLO MARTELLO


I


Uom, che d’Uom solo avea gl’accenti e ’l viso,
     Mosse al flauto le dita adunche, ed adre;
     Musico ingrato in paragon del padre,

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     D’un Pino all’ombra, e fra le Ninfe assiso.
5Ma belò da que’ labbri il suon diviso,
     Qual Capro appunto, a cui fuggìo la Madre;
     Quinci le Ninfe il deridean leggiadre,
     E applauso il folle a se credea quel riso.
Sì, preso in lode il dileggiar di quelle,
     10Ardì Febo sfidar, stordendo infino
     A far tutte fuggir le Pastorelle.
Nè lasciò il flauto, sinchè appesa al Pino
     Il biondo Dio non ne lasciò la pelle.
     Marzia, guardami il Ciel dal tuo destino.


II


Cadde Agnelletto ad Armellin simìle
     Già del tenero Osmin delizia, e cura,
     Che qual servo Signor, seguialo umìle
     Ai cari fonti, alla fedel pastura,
5Soleagli già quasi bel crin sottile,
     Dispor la lama inanellata e pura;
     E sù la fronte allo spuntar d’Aprile
     Ordinar fiori, ed intrecciar verdura.
Ed or tutto pietà nel dargli aita,
     10Su lui baci iterando, e baci e baci,
     Credea così di ritenerlo in vita.
Quasi a i vitali spiriti fugaci
     Basti il baciar, per impedir l’uscita:
     Cara semplicità quanto mi piaci!


III216


Greco Cantor, qualora io fisso aperte
     Sovra de’ carmi tuoi le mie pupille,
     Se o l’ira canti dell’invitto Achille,
     O i lunghi error dei figli di Laerte,
5Monti, Fiumi, Città, Foreste e Ville
     Veder parmi da rupi esposte ed erte,
     E quà colte campagne, e là deserte
     L’occhio invaghir di mille oggetti e mille:

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Perchè costumi, e nazioni e riti
     10Scuopri, e opache spelonche, e piagge apriche
     E valli e mari, e promontori e liti;
Così, che par (tanto hai le Muse amiche)
     Che non tu lei, ma te Natura imiti
     Primo Pittor delle memorie antiche.


IV


Tacciasi Menfi i barbari portenti
     Di piramidi erette a’ suoi Monarchi,
     Nè Babilonia affaticata ostenti
     Quegli orti suoi ch’ella sostien su gli archi.
5Nè a noi, commosso da straniere Genti,
     Del gran Tempio di Trivia il romor varchi;
     Ove gli altar di vittime frequenti
     Rendon corna recise adorni e carchi;
Nè quel, che lungi addita eccelso ed atro,
     10Quasi a mezz’aria, Mausoleo funesto
     Stupido il Villanel dal curvo aratro.
Ogn’opra ceda, ogni fatica a questo,
     Che al Ciel ne va, Cesareo Anfiteatro:
     Di lui parli la fama, e taccia il resto.


DELL’ABB. BENEDETTO MENZINI.


I


Sento in quel fondo gracidar la rana,
     Indizio certo di futura piova:
     Canta il corvo importuno, si riprova
     La foliga a tufarsi a la fontana.
5La vaccarella in quella falda piana
     Gode di respirar dell’aria nuova;
     Le nari allarga in alto, e sì le giova
     Aspettar l’acqua; che non par lontana.
Veggio le lievi paglie andar volando,
     10E veggio come obbliquo il turbo spira,
     E va la polve qual palèo rotando.

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Leva le reti, o Restagnon; ritira
     Il gregge a gli stallaggi; or sai che quando
     Manda suoi segni il Ciel, vicina è l’ira.


II


Quel Capro maledetto ha preso in uso
     Gir tra le viti, e sempre in lor s’impaccia;
     Deh, per farlo scordar di simil traccia
     Dagli d’un sasso tra le corna e ’l muso.
5Se Bacco il guata, ei scenderà ben giuso
     Da quel suo carro, a cui le Tigri allaccia:
     Più feroce lo sdegno oltre si caccia,
     Quand’è con quel suo vin misto, e confuso.
Fa discacciarlo, Elpin; fa che non stenda
     10Maligno il dente, e più non roda in vetta
     L’uve nascenti, e il loro Nume offenda.
Di lui so ben, che un dì l’altar l’aspetta:
     Ma Bacco è da temer, chè ancor non prenda
     Del Capro insieme e del Pastor vendetta.


III


Dianzi io piantai un ramuscel d’Alloro,
     E insiemeio porsi al Ciel preghiera umìle,
     Che sì crescesse l’arbore gentile,
     Che poi fosse ai Cantor fregio e decoro,
5E Zeffiro pregai, che l’ali d’oro
     Stendesse su i bei rami a mezzo Aprile;
     E che Borea crudel stretto in servile
     Catena, imperio non avesse in loro.
Io so, che questa pianta a Febo amica
     10Tardi, ah ben tardi, ella s’innalza al segno
     D’ogni altra, che qui stassi in piaggia aprica.
Ma il suo lungo tardar non prendo a sdegno,
     Però che tardi ancora, e a gran fatica
     Sorge tra noi chi di corona è degno.


IV


Per più d’un angue al fero teschio attorto
     Veggio, ch’atro veleno intorno spiri,
     Mostro crudel, che il livid’occhio e torto

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     Sullo splendor dell’altrui gloria giri.
5Il perverso tuo cor prende conforto,
     Qualor più afflitta la virtù rimiri;
     Ma se poi della pace afferra il porto,
     Ti s’apre un mar di duolo e di sospiri.
Deh se giammai nell’immortal soggiorno
     10Le mie preghiere il Ciel cortese udille;
     Oda pur queste, a cui sovente io torno.
Coronata di lucide faville
     Splenda Virtute: abbia letizia intorno,
     Abbia la gloria; e tu mill’occhi e mille.


V217


Due nate al dilettar chiare Sorelle
     Per diverso sentier passano all’alma:
     L’una vuol per l’udito aver la palma,
     L’altra offre al guardo inclite forme e belle.
5Ambo mostran dipinto e Cielo e stelle,
     E selve e fere, ed or tempesta, or calma,
     E nave; che si frange, o si rimpalma;
     E Nochier pronti ad affrontar procelle.
L’una i colori, e l’altra i carmi adopra,
     10Ed è l’effetto a seguitar non tardo
     Dove il saggio pensier l’inviti all’opra.
Ma la Pittura esclama: ogni gagliardo
     Carme non fia, che resti a me di sopra;
     Se dell’udito è più efficace il guardo.


VI218


Disse un dì la Pittura: Alzarsi a tanto
     Possono i color miei, l’industria e l’arte,
     Che ciò, ch’è finto in Apollinee carte,
     Non che agguagliar, di superarmi vanto.
5Riprese allora Poesia: Di quanto
     Il Tutto sovrastarsuole alla parte,
     Tanto tu dei di minor pregio farte,

[p. 275 modifica]

     Benchè nel trono tu mi seggia accanto.
Mite ed altier fammi in un tempo Achille;
     10Paride in armi, e neghittoso, e scaltro;
     E Troia in danze, e orribil preda al fuoco.
È ver, che mostri mille oggetti e mille;
     Ma tu muti per lor figura e loco,
     E per dar vita all’un, distruggi l’altro.


VII


Mentr’io dormìa sotto quell’elce ombrosa
     Parvemi, disse Alcon, per l’onde chiare
     Gir navigando d’onde il Sole appare
     Fin dove stanco in grembo al mar si posa,
5E a me, soggiunse Elpin, nella fumosa
     Fucina di Vulcan parve d’entrare;
     E prender’armi d’artificio rare,
     Grand’elmo, e spada ardente, e fulminosa.
Sorrise Uranio, che per entro vede
     10Gli altrui pensier col senno, e in questi accenti
     Proruppe, ed acquistò credenza e fede:
Siate, o Pastori, a quella cura intenti,
     Che ’l giusto Ciel dispensator vi diede,
     E sognereste sol greggi ed armenti.


VIII


Per mille lustri viveranno, e mille
     Quei, che cantaro il fiero eccidio Ileo,
     E quei, che celebrar sul plettro Acheo
     I Regi d’Argo, e l’adirato Achille.
5Sinchè si udrà, che in cenere, e in faville
     D’Assaraco la Reggia al fin cadeo,
     Anch’essi in faccia al Tempo edace, e reo
     D’illustre gloria vibreran scintille.
Ed io qual mai sui crin’incolti, ed irti
     10Avrò ghirlanda? Io, che d’umìl concento
     Pago mi sto tra gli amorosi Mirti.
Già di più forti piume armar non sento
     Il debil tergo. Oh gloriosi Spirti,
     Adoro il vostro nobile ardimento.

[p. 276 modifica]


IX219


Or di sdegno m’accendo, ed or m’imbianca
     Timor la guancia, e ’l sangue al cuor si stagna;
     Ora ringrazia Amore, ed or si lagna
     Della sua crudeltà la lingua stanca.
5Or grido, che la vita ognor mi manca
     Per quest’aspra d’Amor dubbia Campagna;
     Or se gli sproni nel mio fianco bagna,
     Il mio corso s’avviva, e si rinfranca.
Ed il seguir quest’amorosa traccia
     10Talor parmi virtù, talvolta errore,
     Che gloria, e biasmo or toglie, ed or procaccia.
Or ride, or piange; or torna in vita, or muore;
     Or pace, or nimistà par che gli piaccia.
     Chi vuol Proteo più ver miri ’l mio cuore.


X220


Al ladro, al ladro. Palemone, Oronte,
     Olà gridate al ladro: in quella fratta
     Ve’ come si rannicchia, e giù s’appiatta;
     Oh oh, già sbuca, e sì rifugge al monte
5Cromi, veloce il piè volgi da fronte;
     Arriva, arriva. Oh quanta strada ha fatta!
     Oh Cieli, oh Dei! Per così lunga tratta
     Chi fia, che più ’l raggiunga, e che ’l raffronte?
Così diceva Ergasto; e Cacco intanto
     10Si rise del Pastor, ch’era già fioco
     Per quell’inutil suo gridar cotanto.
Anzi giurò che a quel medesimo loco
     Più volte tornerebbe; e si diè vanto,
     D’aver la frode, ed il rubar per giuoco.


XI221


A quel Toro colà sparso, e distinto
     Di negre, e rosse macchie i fianchi, e ’l petto,

[p. 277 modifica]

     Forse gli hanno i Pastor, per lor diletto,
     Quel fascetto di fieno al corno cinto.
5Io voglio ir là, dalla pietà sospinto,
     Di non vedergli far sì reo dispetto;
     Ed or che fuor di mandra erra soletto
     Vo’ torgli quell’impaccio, ond’egli è avvinto.
Ah! pazzarello, non farai ritorno
     10Senza che l’andar là molto ti costi:
     Stolto chi scherza al suo periglio intorno.
Sì fatti segni indarno non son posti;
     E quel Toro, che porta il fieno al corno,
     Vuol che tu fugga, e non che tu t’accosti.


XII222


Tomba del gran Sincero! Almi Pastori
     Volgete a questa riverente il piede:
     Raro si scorse, e raro oggi si vede
     Chi splenda altier di sì sublimi onori.
5Scolti nel Marmo i mirti e i sacri Allori,
     Della Cetra Febea diconlo erede:
     E loro in mezzo, come Dea, risiede
     Partenope, che sparge e frondi e fiori.
Mirate dall’un fianco in sull’arene
     10Le reti, e lunge una barchetta appare:
     Stan dall’altro sampogne, e argute avene.
Ninfe de’ boschi, e voi dell’onde chiare,
     Qual mai vide Pastor Roma, od Atene,
     Ch’empia del nome suo la Terra e ’l Mare?


XIII223


Mi dice un Pastorel, che d’India viene,
     Che per quei Monti, dove nasce l’oro,
     Erba, nè pianta non si vede in loro,
     Ma sol deserte ed infeconde arene.
5Forse Natura un tale stil ritiene
     In ogni suo più nobile lavoro:

[p. 278 modifica]

     Ecco spargon di nevi e Noto, e Coro
     Queste, ch’erano in pria piagge sì amene.
Tolta alla Terra è la sua verde spoglia:
     10E gli alberi non cuopre onor di fronde,
     Quasi lor premda amara intensa doglia.
Ma se sotto le nevi al suol s’infonde
     Virtute, e il gran fa cesto, e più germoglia,
     Non vedi qual tesoro in lor s’asconde?


XIV224


Or vedi come il ferro acuto strinse
     Colei, che ’l Mondo e forte e casta appella:
     Misera! Oh quanto fu profonda e fella
     La piaga, che Lucrezia a morte spinse!
5Mira poi l’altra, che a morir s’accinse
     Di rio veleno, a sè crudele anch’ella:
     Oh come s’ecclissò l’Egizia stella,
     E come di pallor fosco si tinse!
Ben potea torsi all’una il ferro ignudo,
     10Celarsi all’altra il tosco, e dell’arena
     Libica ogn’angue dispietato e crudo.
Deh perchè odia la via alma e serena?
     A un cuor pudico l’Innocenza è scudo,
     E all’alma impura il fallir proprio è pena.


XV225


Dopo che ’l gran Sincero ornato il crine
     Di doppio lauro a questo Faggio appese
     La canora sampogna; invan pretese
     Altri agguagliar, le Note sue divine.
5Nè le Ninfe montane e le marine,
     Sin dove umido il piè Nereo distese,
     Nè Cume, e Baie, e non Miseno intese
     Voci di par sonanti, e pellegrine.
Già per Titiro andò fastoso, e lieto
     10Il nobil Tebro; or nel suo nome è chiaro

[p. 279 modifica]

     Più che nell’onde sue l’umìl Sebeto.
E quel primier, che stile ebbe sì raro.
     Se a’ dì nostri ’l rendesse alto decreto;
     E di chi mai gir sen vorrebbe al paro?


XVI226


Altr’armi, altr’arti, che di Marte fiero,
     Oggi Annibale appresta; armi d’Ingegno,
     Che van di gloria all’onorato segno
     Per dolce, ed aspro di virtù sentiero
5Quei, che di Roma contrastò l’Impero,
     Ch’altro potè vantar, che un crudo sdegno
     Per cui giurò, che d’ogni oltraggio indegno
     Fora all’Italia apportator primiero.
Il nostro nò, chè placidi e clementi
     10Vibra suoi strali: ed è sua regia sorte
     Far de’ lauri di Palla ombra alle genti.
Apransi a Lui d’onor l’eccelse porte:
     Che trionfar dell’espugnate menti
     Gloria è maggior, che d’Annibale il forte.


XVII227


Il forte Atleta a duro tronco avvinto,
     Ivi trionfa, e n’ha di gloria il Regno;
     Gli strali che vibrò barbaro sdegno
     L’han di lor nobil guardia intorno cinto.
5Pensò vederlo debellato, e vinto
     Chi a mille dardi il pose unico segno;
     Ma il sangue ch’ei diffonde è a lui sostegno.
     Balsamo al suo morir, vita all’estinto.
Nella felice avventurosa schiera,
     10Che di Martirio aurea corona ottenne,
     Qual’alma andrà più de’ suoi pregi altera?
Tra’ duri lacci a libertà pervenne;
     Ed a volar sulla celeste sfera,
     Gli strali, ond’è trafitto, a Lui fur penne.

[p. 280 modifica]


XVIII228


Nel dì, che carco d’onorate spoglie
     Il Monarca del Cielo al Cielo ascese,
     Onde provar le sì temute offese
     Il vinto Inferno, e le Tartaree soglie:
5Ecco il grande Antonino a noi si toglie;
     Ed alla fiamma, di cui pria si accese,
     Gode di riunirsi; e quel ch’ei prese
     Di terra, a terra lascia, e si discioglie.
Ma dalle guance sue pallide e smorte
     10Or non creder già tu, ch’ebbe a languire
     Il Giglio, che alle stelle oggi è consorte.
Togliersi al basso, e su nel Ciel salire
     Con quel, che invitto trionfò di Morte,
     Quest’è fars’immortal, non è morire.


XIX229


La Rondinella dal Sironio lido
     Ecco sen viene, e cerca i lieti giorni.
     Indi per logge, e per palagi adorni,
     Fabbrica a i cari figli il dolce nido.
5Ma che? Sentito appena il primo strido
     Di Borea, che gelato a noi ritorni,
     Lascia i graditi un tempo almi soggiorni,
     Volgendo ad altro clima il volo infido.
Volgalo ormai. Ma tu deh, dimmi Eurillo,
     10Or, ch’io mi son nelle sventure involto,
     Chi mi tolse il tuo amor, chi dipartillo?
Così dicea, pel duol nel seno accolto,
     Egone il saggio: e ’l Pastorel che udillo,
     Qnei detti intese, ed arrossì nel volto.


XX230


Veggio colà sopra il troncon d’un Orno

[p. 281 modifica]

     Colomba, cui non vidi altra simile:
     Deh mira, Alcippo, di che bel monile
     Mostra il suo collo vagamente adorno!
5Esposta a’ rai del Condottier del giorno,
     Di quelli al variar, varia suo stile;
     Or di Smeraldo ave un color gentile,
     Or di accesi Piropi arde d’intorno.
Ma forse il guardo umano è scorta infida:
     10Ed è Natura a secondar non tarda
     Là dove il senso lusinghier la guida.
Non è Pirodo, che divampi, ed arda;
     Non Smeraldo, che splenda e dolce rida;
     Dimmi: s’inganna, o nò l’occhio che guarda?


XXI231


Una Sibilla qui tra noi già visse,
     Che mi guardò le linee della mano,
     Non so che susurrando; e poi pian piano,
     O buon Garzon, tu Re sarai mi disse.
5Da indi in qua le sue parole ho fisse
     Sì nella mente, che per colle, o piano,
     O presso a questo luogo, o pur lontano,
     Non mai da me fur scancellate, e scisse.
Io era già Custode, or son Pastore,
     10E l’umil grado non avendo a sdegno,
     Per quello ascesi, e diventai maggiore.
Certo, che la Sibilla diè nel segno
     A dir, che i Regi agguaglierei d’onore:
     Io sono il Re, questa mia greggia è il Regno.


DELL’ABB. PIETRO METASTASIO.


I


Che speri instabil Dea, di sassi e spine
    Ingombrando a’ miei passi ogni sentiero?

[p. 282 modifica]

     Ch’io tremi forse a un guardo tuo severo?
     Ch’io sudi forse a imprigionarti il crine?
5Serba queste minacce a le meschine
     Alme soggette al tuo fallace impero:
     Ch’io saprei, se cadesse il mondo intero,
     Intrepido aspettar le sue rovine.
Non son nuove per me queste contese;
     10Pugnammo, il sai, gran tempo; più valente
     Con agitarmi il suo furor mi rese.
Che da la ruota e dal martel cadente
     Mentre soffre l’acciar colpi ed offese,
     E più fino diventa e più lucente.


II


Onda, che senza legge il corso affretta,
     Benchè limpida nasca in erta balza,
     S’intorbida per via, perdesi, o balza
     In cupa valle a ristagnar negletta.
5Ma se in chiuso canal geme ristretta,
     Prende vigor mentre sè stessa incalza;
     Al fin libera in fonte al Ciel s’innalza,
     E varia e vaga i riguardanti alletta.
Ah! quell’onda son’io, che mal secura
     10Dal raggio ardente, o da l’acuto gelo,
     Lenta impaluda in questa valle oscura
Tu, che saggia t’avvolgi in sacro velo,
     Quell’onda sei, che cristallina e pura
     Scorre le vie per cui si poggia al Cielo.


III232


Ben lo diss’io, che da feconda stella
     Scendeva, illustri Sposi, il vostro amore:
     Non parla in van col suo presago ardore
     Qualor ne’ labbri miei Febo favella.
5Ecco la prole avventurosa e bella,
     Che la madre imitando e ’l genitore,

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     Porta nel volto, e chiuderà nel cuore
     L’ardir di questo, e la beltà di quella.
Già l’Italia d’Eroi nutrice e madre
     10La finge adulta, e in marzial periglio
     Pugnarla vede, e regolar le squadre;
Nè sa dir, se con l’armi e col consiglio
     Doni più gloria a sì gran figlio il padre,
     O più ne renda a sì gran padre il figlio.


IV233


Questo è l’eccelso e fortunato Legno,
     Ministro a noi della celeste aita,
     Su cui morendo il vero Sole, in vita
     Ridusse l’uomo, e franse il giogo indegno.
5Questo è l’invitto e bellicoso Segno,
     Che contro al suo nemico ogni alma invita,
     Acciò di lui trionfatrice ardita
     Passi all’acquisto del promesso Regno.
L’Arbore è questa, ond’ogni spirto imbelle
     10Raccoglie ardire, e appresse al primo Duce
     Vola sicuro ad abitar le stelle.
Questa è la chiara inestinguibil Luce,
     Che al porto, in faccia ai nembi e alle procelle,
     La combattuta Umanità riduce.


V234


Sogni e favole io fingo; e pure in carte
     Mentre favole e sogni orno e disegno,
     In lor, folle ch’io son, prendo tal parte,
     Che del mal, ch’inventai piango e mi sdegno.
5Ma forse, allor che non m’inganna l’arte,
     Più saggio io sono? È l’agitato ingegno

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     Forse allor più tranquillo? O forse parte
     Da più salda cagion l’amor lo sdegno?
Ah che non sol quelle ch’io canto, o scrivo,
     10Favole son; ma quanto temo, o spero,
     Tutto è menzogna, e delirando io vivo!
Sogno della mia vita è il corso intero.
     Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo,
     Fa ch’io trovi riposo in sen del Vero.


VI235


È ver: la pace mia, Nice, ho smarrita;
     Più nasconder non so l’animo oppresso:
     Unica del cuor mio cura gradita;
     Temo di tua costanza; io lo confesso.
5M’ingannerò; ma che vuol dir, mia Vita,
     Quel vederti per tutto Aminta appresso?
     Quell’esser tu sempre al suo fianco unita?
     Quei lunghi sguardi? E quel parlar sommesso?
M’ingannerò: segni d’amor fra voi,
     10Benchè il paiano a me, quei non saranno:
     Ma (oh Dio!) furon gl’istessi un dì fra noi.
Ingannarmi vorrei: ma in tanto affanno
     Se tu veder, se tu lasciar mi puoi,
     Ah Nice, io son tradito; io non m’inganno.


VII


Nudo al volgo profan mai non s’espose
     Da’ Saggi il Vero; e se talor fu scritto,
     In favole la Grecia, e lo nascose
     In caratteri arcani il sacro Egitto.
5Non la celebre nave Argo compose:
     Non tentarono i Mini il gran tragitto:
     Finto il vello di Frisso, e finte cose
     Son l’accorta Medea, Giasone invitto.
La Prudenza colei, questi il Valore,
     10L’Invidia il Drago, e le dorate spoglie
     L’acquisto son di meritato onore.

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Tu le ottenesti, e nelle auguste soglie
     E da cesarea man: quanto splendore;
     Signor, quante tue lodi il dono accoglie!


VIII236


Oh qual, Teresa, al suo splendor natìo
     Nuovo aggiunge splendore oggi il tuo Nome!
     Ecco a seconda del comun desìo
     Le orgogliose falangi oppresse e dome.
5Di guerra il nembo impetuoso e rio
     Sveller parea gli allori alle tue chiome:
     Tu in Dio fidasti, augusta Donna; e Dio
     In favor tuo si dichiarò: ma come?
Il Sol non s’arrestò nel gran cimento:
     10Il Mar non si divise; il suo favore
     Non costa alla Natura alcun portento.
Il Senno, la Costanza ed il Valore
     Fur suoi ministri; e dell’illustre evento
     Ti diè il vantaggio, e ti lasciò l’onore.


IX237


Fola non è la viva face e pura,
     Che su la destra ad Imeneo risplende:
     Alti sensi ravvolge, e di Natura
     Spiega gli ordini arcani a chi l’intende.
5Fiamma è la vita; e con egual misura
     Dagli avi ai padri, a noi da lor discende,
     Da noi ne’ figli; e si propaga e dura,
     Come da face accesa altra s’accende.
Qual fu la face, ond’è la vostra erede,
     10Ognun lo sa; come risplende in voi,
     Felicissimi Sposi, ognun lo vede:

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E vede ognun che, rispondendo poi
     A quel che precedè quel che succede,
     Dagli Eroi non verranno altri che Eroi.


X238


Non più, Nice, qual pria, da quel momento
     Ch’io ti vidi, e t’amai, penso e ragiono:
     Già sprezzator d’ogni grandezza, or sento
     Ch’odio il destin, perchè negommi un trono.
5Per cento (il so) serve provincie e cento
     Miglior non diverrei di quel che or sono;
     Ma un impero io potrei (che bel contento!)
     Offrirti allor, cara mia Fiamma, in dono.
Ah del mio cuore almen, del mio pensiero
     10L’impero accetta, e non mirar, ch’ei sia
     Troppo scarso per te povero impero;
Che se fosse real la sorte mia,
     Avresti allor più vasto regno, è vero:
     Ma più tuo, ma più fido ei non sarìa.


XI239


Quando d’avverso Ciel stimai rigore,
     Che un trono abbian negato a me gli Dei,
     Bella cagion de’ dolci affetti miei,
     Fu deliro amoroso, e n’ho rossore.
5Che reso oggetto allor del tuo favore,
     D’un regno io domator creder potrei,
     Qual son io ripensando, e qual tu sei,
     Gratitudine in te ma non amore.
No, dello stato mio, Dei, non mi sdegno;
     10Miglior sperarlo ad un mortal non lice:
     E l’umil sorte mia n’è appunto il pegno.
Nice m’ama, io lo so, nè amar può Nice
     Altro in me che me solo. Ah che a tal segno
     Non rende un trono il possessor felice.

[p. 287 modifica]


XII240


Non delle Nozze il favoloso Nume
     Col finto serto e la sognata face,
     Non lei, che figlia delle salse spume
     Finse la Grecia garrula e mendace;
5Ma te d’intorno alle reali piume
     Io solo invoco, o santo Amor verace;
     Te, per cui prendon gli astri ordine e lume,
     E stan le sfere e gli elementi in pace,
E voi, Sposi felici, a pro di noi
     10Rendete ormai del glorioso seme
     Superba Italia per novelli Eroi.
Contenderem con bella gara insieme,
     Noi riponendo ogni speranza in voi,
     Voi superando ognor la nostra speme.


XIII241


Questa, che scende in bianca nube e pura,
     E’ la madre d’Amor, figlia dell’onde,
     Che vien fra l’ombre della notte oscura
     Del nobil letto ad onorar le sponde.
5Ecco i suoi figli in fanciullesca cura:
     Chi tenta se al desìo l’arco risponde;
     Chi d’occultarsi per ferir procura;
     Chi fra’ candidi lini un dardo asconde.
Ecco le Grazie in ogni lato intese,
     10Co’ fior raccolti in su l’Idalia riva,
     A sparger dolci risse a care offese,
Ma chi piange così? La sposa arriva.
     Semplice! Il pianto tuo, le tue difese...
     Ma il semplice son io: ride furtiva.


XIV242


Paride in giudicar l’aspra, che insorse

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     Nata contesa in fra le Dee maggiori,
     S’abbagliò di Ciprigna ai bei splendori,
     E dal suo labbro il Frigio incendio scorse.
5Ma del trono d’Assiria allor che sorse
     La gran moglie di Nino ai primi onori,
     Con tal senno, alternò l’armi e gli amori,
     Che all’Asia di stupor materia porse.
Nò, non han solo in due leggiadre stelle
     10Tutte le donne il pregio lor racchiuso,
     Nè l’unico lor vanto è l’esser belle:
Che vide il Termodonte a maggior uso
     Troncar Pentesilea la mamma imbelle,
     Ed in asta cangiar la rocca e il fuso.


LODOVICO PICO DELLA MIRANDOLA.


I


E quando mai con sì crudel ventura
     Avrem pace mio cuor? Di doglia in doglia
     Or ti gira il destino, or la tua voglia;
     Se l’un pace ti dà, l’altra la fura.
5Quall’uom ch’erto sentier fra nebbia oscura
     Tenti lento e dubbioso, ove la scioglia
     Breve raggio, allor teme, allor s’addoglia,
     Che il periglio in scoprir men s’assicura.
Tal, poichè di sciagure aspro cammino
     10Tristo men corro, in più d’angoscia trarmi
     Speme incerta vid’io, che rado apparve.
E se vinco talor voglia, e destino,
     Nasce da usanza il duol ch’a tormentarmi
     Sorge nero pensier con finte larve.


II


Volto colà, dove più bella parte
     Sparge il Ciel sovra noi di sua virtude,
     Quant’opra arte, o natura in se racchiude

[p. 289 modifica]

     Mostrommi il mio pensiere a parte a parte.
5Piagge, e colli mirai, dove comparte
     Ogn’astro i più bei rai; fonti, ove chiude
     Sua pace Amor; selve di mostri ignude;
     Aer cui dal piacer nulla diparte.
Che mai non vidi! E pur vago il desìo
     10Anzi più mi chiedea: quinci il raccolsi
     Tolto al Bel di quaggiù, dentro il cuor mio.
Nell’alma allora, e non so come, accolsi
     Raggio improvviso, e un’altro fui; ond’io,
     Gridai: perchè non prima in lui mi volsi?


POMPEO DI MONTEVECCHIO.


I


Amor mi tolse il cuore, e in un drappello
     Di vaghe Ninfe se ’l lasciò cadere:
     Nacquer tosto fra lor liti guerriere,
     L’empio possesso ad ottener di quello.
5Per torre alfin le risse, a un ramoscello
     L’incatenaron di comun parere,
     Perchè quella l’avesse in suo potere,
     Che in saettarlo feo colpo più bello.
Ecco già pronto ognuna l’arco estolle:
     10Ed il povero cuore in un istante
     Di sangue tutto, e di ferite è molle.
Ma deformato da percosse tante,
     Nessuna poi sì lacerato il volle.
     E restai senza cuore, e senz’Amante.


II243


Tu che miri quest’Urna, e che t’affliggi
     Nel desio di veder chi vi s’asconde,
     Lo sconsigliato piè raggira altronde:
     Non cape augusto sasso il gran Luigi.

[p. 290 modifica]

5Scorri la Terra, e il Mar, non che Parigi;
     Va de’ metalli nelle vie profonde;
     Scorgi le leggi date al fuoco, e all’onde;
     E conosci il Leon da’ suoi vestigi.
De’ Fori, e de’ Licei volgi le carte,
     10Mira i templi, i Colossi e quanto accoglie
     Di colto, e nuovo la Virtute, e l’Arte.
Quà poi ritorna, e scrivi in queste soglie:
     Vive immortal Luigi in ogni parte;
     Qui defunte vedrai sol le sue spoglie.


III244


Antro superbo, a me simìle oh come
     Colla durezza, e coll’orror ti rendi!
     Tu da i difetti sol bellezza prendi,
     Io dalle colpe ebbi di bella il nome.
5Tu poggi in Ciel colle selvose chiome,
     a le membra nel suolo impegni, e stendi:
     Io de’ pensieri innalzo al Ciel gl’incendi,
     Ma de’ sensi ho sul cuor le terree some.
In te l’eco rimbomba, e nel mio cuore
     10Lassa!, il rimorso: io son di falli piena,
     E ancor tu sei di mostri albergatore.
Ma di noi chi maggior merti la pena
     Poi non so, che siam rei d’eguale errore:
     S’io la colpa ho nel sen, tu Maddalena.


DELL’ABB. MICHELE GIUSEPPE MOREI.


I


Oh qual da lei benigno sguardo scende
Da lei, che alberga entro il real tuo petto
Bella Clemenza, e vieppiù illustre rende

[p. 291 modifica]

     L’augusto soglio, a cui t’ha il Cielo eletto!
5Ben da lei tregua ai lunghi affanni attende
     Europa, ahimè!, d’alto dolore oggetto;
     E par, che tolte al crin l’orride bende
     Nuovo rivesta di letizia aspetto.
Deh fa dunque, o Signor, che l’empia Sorte
     10Cangi sue tempre, e che d’Europa al pianto
     Tua sì eccelsa virtù termine apporte.
Dopo tanto di guerre incendio, e tanto
     Chiuda di Giano omai le ferree porte
     Questa, che tien sovra il tuo cuore il vano.


II


Figlia d’eccelsa infaticabil mente
     È la virtù più gloriosa e vera,
     Che l’Uom sublima, e dalla volgar gente
     Gli Eroi diparte, e senza regno impera.
5Questa, Signor, fin dall’età primiera
     Fu tua guida, ed ognor fia a te presente:
     Da questa e Roma e Italia e il Mondo spera
     L’immago in te veder del gran Clemente.
Ben più ch’altri lo spera il bel Metauro,
     10Ch’oggi lieto t’accoglie, o d’onda in onda
     Porta il tuo nome dal Mar Indo al Mauro.
Indi, perchè i tuoi voti il Ciel seconda,
     Chiama la Gloria, e del più scelto lauro
     La chioma tua perman di lei circonda.


III


Carco già d’anni e più di palme onusto
     Giunto Luigi al dì, che il tolse Morte,
     Vinsi, dicea, l’aspra e l’amica Sorte
     Resi al Cielo i suoi dritti, al Mondo il Giusto,
5Di Giano, qual novel Scipio, od Augusto,
     Apersi e chiusi a mio voler le porte,
     E a l’ampia mente, e al braccio ardito e forte
     Parve la terra, e parve il Mare angusto.
Tu, cui de l’opre e de’ miei geni erede,
     10Non men che del mio scettro il Ciel prescrisse,

[p. 292 modifica]

     Regna, e nel soglio tuo regni la Fede.
Tacque, e presso al suo fin, raccolse e fisse
     Le luci avendo in la beata sede,
     Morìo quel Grande, e tal morìo qual visse.


IV245


Riguarda il Ciel con placid’occhio amico,
     O bella Europa, i tuoi felici Regni;
     Ecco del favor suo novelli pegni,
     E nuove gioie aggiunte al gaudio antico.
5Dell’anno già nel dolce tempo aprico
     Diè nel gran Parto di sue grazie i segni;
     Poi là sul Savo i temerari sdegni
     Ruppe dell’Asia, e ogni furor nemico.
Nè guari andò, che l’Ottomane antenne
     10Corfù respinse; indi nostr’armi ultrici
     L’altera Temisvar più non sostenne,
Se la Vittoria con sì lieti auspici
     Verrà d’intorno a Te, qual sin’or venne,
     Oh d’Europa immortal Regni felici!


traduz. di gherardo della gherardesca del preced. sonetto


Aspectu Superi, faelix Europa, secundo
     Continuant Regnis invigilare tuis
En nova concedunt pleni argumenta favoris,
     Auctaque laetitiis gaudia prisca novis.
Augusto in partu ver dum mitesceret arvis,
     Omina praesidii prima dedere sui.
Ad Savum hostiles hinc disjecere Phalanges,
     Atque omnis fracta estira, furorque Asiae.
Nec mora; barbaricas repulit Corcyra triremes,
     Mox cadit ultrici Temisvar icta manu.

[p. 293 modifica]

Talibus anspiciis si te victoria circum
     Luserit, et vultu, quo tibi lusit, adhue:
Sis foelix Europa licet, fae livior ob quana
     Sors aeterna tui tunc erit Imperii!


V


Dell’Esquilin qualor sul colle altero
     M’accoglie il sacro ed ammirabil tetto,
     E l’umil cuna io veggio, ed il primiero
     Povero e vil del mio Signor ricetto;
5Oh quale in contemplar l’alto mistero
     Nuovo m’accende il cuor tenero affetto!
     Per cui di sante voglie empio il pensiero,
     Ed altro provo, che mondan diletto.
Qui, dico allor, sciolse i vagiti e il pianto
     10L’eterno Re, quando non d’ostro e d’oro,
     Ma cinto apparve di servile ammanto.
Oh eccelso pegno, oh ricco almo tesoro!
     Altri di scelte gemme, io d’umil canto
     Rozzo Pastor la tua grandezza onoro!


VII


Quest’erto colle, che di nuovi allori
     Oggi miriamo, e di bei mirti cinto,
     Fu da i prischi d’Arcadia almi Pastori
     Con giuochi, e sacrifici ognor distinto.
5Qui sparse il crin di nobili sudori
     Ercole allor, che da giusta ira spinto,
     Le tolse vacche ritrovando, e i tori,
     Al suol gettò l’empio ladrone estinto.
Or sciolgan pur l’usato canto adorno
     10L’Arcadi Muse, e in questi erbosi scanni
     Lodin lui, che apprestò sì bel soggiorno.
Nè più d’Alcide i favolosi affanni;
     Ma sol d’Olinto i veri pregi intorno
     S’odano, e viva oltra il confin degli anni.


VII


Quando le vostre colle mie pupille
     Si vibraron tra lor guardi di amore,

[p. 294 modifica]

     Vennero i vostri spirti entro al mio cuore,
     E i miei nel vostro a seminar faville.
5L’alme di noi con limpide scintille
     Sparser dagli occhi il concepito ardore:
     E vaga ogn’una dell’altrui splendore
     Alternava i sospiri a mille a mille.
L’una alfin co’ suoi rai l’altra rapìo,
     10Onde l’anima mia trovossi poi
     Nel vostro sen, la vostra entro del mio.
Così del dì, che amor destossi in noi,
     Voi mio pensier, vostro pensier son’io,
     Ed in me Voi vivete, io vivo in Voi.


VIII246


Nasce dell’Anglia il sospirato Erede,
     Cui di tre Regni ampio retaggio aspetta;
     Nasce, e verso l’Oceano il Sol s’affretta,
     Per darne avviso alla regal sua Sede.
5Nasce, e mentre il novello Anno sen riede,
     Perchè un nuovo di cose ordini prometta;
     Nasce, e Roma per patria ha il Cielo eletta
     D’un, cui già scelse in difensor la Fede.
Nasce, e insolito lume appar nel Cielo;
     10La gente il guarda e ne fa lieti auguri,
     Che sì l’inspira un amoroso zelo.
Io non cerco degl’Astri i detti oscuri,
     Cerco i meriti del Padre, in loro io svelo
     Ciò, ch’al Figlio si dee ne’ dì futuri.


IX247


Quand’il gran Re, ch’ha sovra l’onde impero,
     Vide Venezia entro l’Adriaco Mare
     L’alte posar sue fondamenta, e stare
     Ferma a ogni scossa di furor straniero;

[p. 295 modifica]

5Quando di senno, e di valor guerriero
     Videla in tante opre sublimi, e chiare,
     Su gl’altrui danni andar fastosa, e dare
     Temute leggi all’Oceano intero;
Or, disse, o Giove, la vetusta e bella
     10Città di Marte, ed i suoi chiari lumi
     Opponi a questa mia Città novella.
Se d’anteporre il Tebro al Mar presumi,
     Ambe le mira: indi dirai, che quella
     Gl’Uomini fabbricaro, e questa i Numi.


X


Laddove a un Rio giace sepolta accanto
     Mole, che al Ciel cento colonne ergea,
     La Pastorella mia vaga del canto
     Soavissime Note un dì sciogliea.
5Eco dal cavo suon d’ogn’arco infranto
     Tronche l’ultime voci a lei rendea,
     Ch’ora alle gioie, ora invitando al pianto
     Pria formava un accento, e poi tacea.
Io dissi allor: Ninfa crudel, tu meco
     10Favellar sdegni, e al mio parlar t’adiri;
     Poi ragioni co’ sassi, odi uno speco!
Mossa a pietà degli aspri miei martiri,
     E quando mai ti sentirò far Eco
     Agli amorosi miei caldi sospiri?


XI


Quando vibrò da’ vostri lumi Amore
     Il primo nel mio sen dardo fatale,
     Cercai nel petto, ed a ferirmi il cuore
     Trovar non seppi onde passò lo strale.
5Credei del mio pensier segnato errore
     Del dardo il colpo, e della piaga il male,
     Ma conobbi all’interno aspro dolore
     Esser la piaga mia vera e mortale.
Saper l’alta cagion l’anima volle
     10Di portento sì grande, e affise in voi
     Di più lacrime il ciglio asperso e molle.

[p. 296 modifica]

Mi apparve Amor, che pria riaguardovvi, e poi
     Così mi disse: Eh non t’avvedi, o folle,
     Che questa è la virtù degli occhi suoi!


XII


Eppure al fine a rivederti io torno
     Fuor delle cure di più gravi incarchi,
     Degno che il Tebro alle sue rive intorno
     Innalzi al nome tuo colonne ed archi.
5Premio è quell’ostro, onde ti miro adorno,
     De’ sudor tuoi di bella gloria carchi,
     Tanto gradito in ogni tuo soggiorno
     Alla vasta Germania, e a’ due Monarchi.
Superba del suo Foro erra tra sassi
     10L’ombra di Livio, e figlio suo ti noma,
     Così lieta gridando ovunque passi:
Cinto di rose l’onorata chioma
     Ecco a me riede, e in pochi dì vedrassi
     Giulio portar nuovi trionfi a Roma.


ANTONIO ESTENSE MOSTI.


I


Questa, che l’Uomo in sè racchiude e vanta
     Ragion feroce, ch’ogni vizio atterra,
     Lo sai mio cuor, lo sai come si ammanta
     Di finta forza, e in sè viltade serra.
5Come a i danni talor d’annosa pianta
     Se i suoi torbidi fiati Euro disserra,
     Mentre regge per l’aria, ei porta guerra
     Ai rami sì, ma il tronco altier non schianta.
Così Ragion dentro agli umani petti
     10Fiera guerra mortale a i sensi indice,
     Ed allo stuol dei rei servili affetti.
Poi tardi giunta alla fatal pendice,
     Scuote i deboli rami, e giovanetti;
     Ma l’antica non svelle alta radice.

[p. 297 modifica]


II


Qual cruda serpe, e qual pestifer’angue,
     Col rigor di Madonna Amor mi punse,
     E qual velen col circolar del sangue
     Per la via delle vene al cuor mi giunse.
5Quindi s’agita l’alma, e ’l corpo langue,
     Ch’ei la linfa e ’l vital succo consunse,
     Da poi che che 'l rese semivivo esangue,
     Al suo morir ben mille morti aggiunse.
Sudan gelo le membra, e già son spente
     10Le luci, e un rio vapor, che sale e nuoce,
     Con fantasmi d’orror turba la mente.
Deh voi, che udite il duro caso atroce,
     Portate a lei (se tanto Amor consente)
     Questa d’un fido Amante ultima voce.


LODOVICO ANTONIO MURATORI.


I248


Sebben per l’ampio Ciel, ch’ognor cercasti,
     Quand’eri in Terra, or sciogli i vanni alteri,
     E in Dio ti pasci, immers’i tuoi pensieri
     In pelago di beni immensi e vasti;
5Pur, buon Lucchesi, al suol che sì sprezzasti
     Deh volgi i rai da i lucidi sentieri;
     Nè tua umiltà col ripensar qual’eri,
     Ai voti nostri il bel volo contrasti:
Ai voti, ch’ora al Quirinal porgiamo,
     10Perchè se tanto in sull’eteree sedi
     Splendi, quaggiù splender te ancor miriamo.
Chè non per te, che in tanta gloria siedi,
     a sol per noi qui l’onor tuo cerchiamo,
     E a Dio tu pur deh per suo onor lo chiedi.

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II


Se il Mar, che dorme, e l’ingemmato Aprile
     Contemplo, e il Ciel, che tante luci aggira,
     Io certo giurerei, che non si mira
     Altra quaggiù vista, o beltà simìle.
5Pur di beltade un paragon ben vile
     Sono il Cielo, e l’Aprile, e il Mar senz’ira,
     Qualora il Mondo attonito rimira
     In nobiltà di stato un cor gentile.
Poi se il Verno io contemplo, e se il furore
     10Del Mar, che mugghia, o il Ciel di nembi armato,
     Ecco tutto d’orror mi s’empie il cuore.
Pur più del Verno, e più del Ciel irato,
     E più del Mar spira d’intorno orrore
     Un cuor superbo in povertà di stato.


III


Ricco di merci, e vincitor de’ Venti
     Giunger vid'io Tirsi al paterno lito;
     Baciar l’arene io vidi, e del fornito
     Cammino ringraziar gli Dei clementi.
5Anzi perchè leggessero le Genti
     Qualche di tanto don segno scolpito,
     In su l’arene stesse egli col dito.
     Scrisse la storia di sì lieti eventi.
Ingrato Tirsi, ingrato a i Cieli amici!
     10Poichè ben tosto un’onda venne, e assorti
     Seco tutti portò quei benefici.
Ma se un dì cangeransi a lui le sorti,
     Scriver vedrollo degli Dei nemici
     Non sù l’arena, ma sul marmo i torti.


PAOLO ANTONIO DEL NEGRO.


I


Ecco il volto leggiadro, al cui splendore
     Strinsemi un tempo Amor d’aspra catena,
     Cangiato sì, che il riconosco appena
     Per le vestigia dell’antico ardore,

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5Nè sento più l’usata fiamma al cuore,
     Qual fu di speme, e di desìo ripiena,
     Ma d’una non so qual tacita pena,
     Che m’empie di pietà più che d’amore.
Nè so, se per mio bene entro raccoglia
     10L’anima bella il suo splendor divino,
     Per far, ch’io torni a più matura voglia.
Sento bensì, che il guardo umile e chino,
     E ’l grave aspetto a lacrimar m’invoglia
     La sua fragil bellezza ’l mio destino.


II


Se il seguir sempre in faticosa impresa
     L’arme tue vaghe ovunque volga il passo,
     Se comparirà innanzi afflitto e lasso,
     Qual uom, che a se medesimo incresce, e pesa;
5Se de’ begl’occhi tuoi la fiamma accesa
     Mirar con guardo riverente e basso,
     E spesso altrui parer cangiato in sasso,
     Tal’è il diletto, di cui l’alma è presa:
Se ciò non basta, perch’alfin t’avveda
     10Delle ferite mie, nè de i legami,
     Onde pur troppo Amor femmi tua preda:
Dimmi, o Fera crudel, che pensi, o brami?
     Che far degg’io, perchè il mio mal tu veda?
     Ma, che far dovrò poi, perchè tu m’ami?


III


Signor, quando in tua mente eterna e pura;
     Quas’in tragica scena, avesti avante
     L’umane colpe così varie e tante,
     Che noi fean rei d’eterna morte oscura;
5Ardesti allor di sì pietosa cura,
     E tal doglia t’afflisse il cor amante,
     Che t’asperse la fronte, il sen, le piante
     Sudor di sangue, e ne stupì Natura.
E forse rimanea tuo petto esangue,
     10Se non che riserbollo a maggior lutto
     Quel grand’amor, che in te giammai non langue.

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Ma quale, ahimè, ne cogli amaro frutto!
     Tu miri i nostri falli, e sudi sangue,
     Vediam noi le tue pene a ciglio asciutto.


IV


Io so, che quando morte avrà già spento
     Mio fuoco, e sparso il cenere infelice,
     Vivrò spirto immortal vita felice,
     Se pur coll’opre al mio destin consenso.
5Pur m’ingombra talor d’alto spavento
     Un funesto pensier, ch’al cuor mi dice:
     Come fia svelta mai da sua radice
     Nostr’alma senza grave aspro tormento?
Com’andrà lieta in parte, onde ritorno
     10Non fè di tanti un sol, ch’a noi ridica
     Quale il sentiero sia, quale il soggiorno?
Porgimi, o santa Fè, la mano amica,
     E tu mi guida, che non veggio intorno
     Se non la nebbia della colpa antica.


GIO. GIUSEPPE ORSI.


I


La mia spoglia più fral di giorno in giorno,
     E il mio svenuto ognor più fosco aspetto
     Fan, che a schivo il mio spirto abbia ricetto
     Fra queste membra, ond’era un tempo adorno.
5Ma, benchè d’abitar si rechi a scorno
     La stanza rovinosa, ov’è ristretto;
     Dubbio tra il novo tedio e ’l vecchio affetto,
     Del pari odio l’uscita, odio il soggiorno.
Io dovrei rallegrarmi, e pur mi spiace,
     10Che s’allentino omai quelle ritorte,
     Cui mal s’attien lo spirto mio fugace.
Stolto! Io vorrei la mia prigion più forte,
     Nè intendo ancor, che libertate e pace
     È quella, a cui dà l’Uom nome di morte.

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II


Oh se de’ miei sospir gittati al vento,
     Se di lagrime tante indarno sparte
     Data avessi al mio Dio pure una parte,
     Quanto sarei del pianger mio contento!
5Or, benchè tardi, alfin col guardo intento
     Nel Crocifisso esclamo: Oh qual comparte
     Gioia il tuo amor, s’ha l’amor tuo sin l’arte
     Di far dolce il rimorso e ’l pentimento!
Perde il pianto ogni amaro, allor che scende
     10A bagnar le tue piaghe, e dolce intanto
     Al labbro, che le bacia, amore il rende:
E perchè in ciò prova tal gaudio e tanto
     Il cuor, ch’altro maggiore ei non apprende,
     Sta per pensare in Paradiso il pianto.


III249


Ergi, Cridano allegro, il capo algoso,
     Mira il don che tanti anni Italia chiese,
     L’infante Eroe, ch’oggi dal Ciel pietoso
     Tratto da’ nostri voti alfin discese.
5Quel braccio augusto or fra le fasce ascoso
     Scioglierassi tra poco a grand’imprese,
     Compenseran tra poco il suo riposo
     Dure vigilie a pro d’Italia intese.
Tempo è, che sonni placidi e soavi
     10Or tragga; e pur, mentre sognando ei tace,
     A lui parlan d’onor l’Ombre degli Avi.
Quando di scettro avrà poi man capace,
     Quando dell’Alpi ei reggerà le chiavi,
     Al suo vegliar dormirà Italia in pace.


IV


Incauto Peregrin, cui nel cammino
     S opponga angusto rio largo un sol passo,
     Quando appunto a varcarlo ha il piè vicino,
     S’arresta e dice: il varcherò più a basso.

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5Ma giunto alfin dove tra sasso e sasso
     Si dilata in torrente, afflitto e chino
     Mira il rio non più rio: stupisce, e lasso
     Dà delle sue follie colpa al destino.
Tal io d’Amor gli aspri perigli e rei
     10Superar già potendo, or doglia e scorno
     Ho di più non poter ciò, che potei.
Veggio, come un torrente, a me d’intorno
     Crescer la piena degli affanni miei,
     Nè a me più lice indietro il far ritorno.


V


Donne gentili, io con voi parlo: udite:
     Chi v’ha detto, che l’alma uccide Amore?
     Non è vero; anzi s’ama amato un cuore
     Per miracol d’Amor vive in più vite.
5Oh miracoli eccelsi, opre inaudite!
     Vive in altrui l’Amante, in sè non muore;
     Talchè di sè vivendo e dentro e fuore,
     Divien duo con due vite in una unite.
Così duo, s’ognun d’essi è amante e amato,
     10Fansi due volte duo; ma una sol brama,
     E un viver solo a tante vite è dato.
Non però doppia vita aver si chiama,
     E nè pure una sol, chi disprezzato
     Più non vive nè in sè, nè dov’egli ama.


VI


Amor, che stassi ognora al fianco unito
     Di lei, non so s’io dica o Donna, o Dea,
     Seco apparvemi un dì, che in suol fiorito
     Fra turba di Pastori io mi sedea.
5Vuo’ mostrarti (alla Ninfa Amor dicea)
     Qual fra tanti a te deggia esser gradito;
     E a lei, che in giro i vaghi rai volgea,
     Me tre volte accenar tentò col dito.
Ove segnasse Amor mai non distinse
     10La Ninfa, e andò chiedendo, e dove e quale?
     Sin che un suo dardo impaziente ei strinse.

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E disse: il guardo tuo segua il mio strale.
     Scoccò, ferimmi, e il sangue, ond’ei mi tinse,
     Fè a lei noto il mio volto, ed il mio male.


VII


Quel dì, che tua mercè, cortese Amore,
     Pur c’incontrammo e Cintia ed io soletti,
     I miei caldi pensier nel cuor ristretti
     Già tra lor si premean per uscir fuore.
5Ma il girar de’ bei rai, col suo fulgore
     Ruppe a mezzo il cammin sul labbro i detti,
     Sicchè la piena de’ commossi affetti
     Tornommi indietro a ricader sul cuore.
Ammutolii, tremai. Tanto più intese
     10Ella quanto io men dissi, e lieta in viso
     La gloria sua nel mio timor comprese.
Poi volta a me con placido sorriso,
     La bella man mi porse. Oh Amor cortese,
     Muto a tempo mi festi; or lo ravviso.


VIII


La mia bella Avversaria un dì citai
     Del Monarca de’ cuori al tribunale;
     E a lei, quando comparve, io domandai,
     O il mio cuore, o al mio cuor mercede eguale.
5Chi te ’l niega? di lui nulla mi cale,
     Rispos’ella, volgendo irati i rai,
     Indi a terra il gettò mal concio, e tale
     Che più quel non parea, che a lei donai.
Allora io del mio cuor lacero e guasto
     10I danni protestai, ma il giusto Amore
     Che mal soffrìa di quell’altera il fasto,
Pensò; poi disse: Olà, che si ristore
     De’ suoi danni costui senza contrasto:
     Donna, in vece del suo dagli il tuo cuore.


IX


L’Amar non si divieta. Alma ben nata
     Nata è sol per amar, ma degno oggetto
     Ella però, pria che da lei sia eletto,

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     Sè stessa estimi, e i pregi ond’ella è ornata.
5Qualor correr vegg’io da forsennata
     Alma immortal dietro un mortale aspetto,
     Parmi di rozzo schiavo a lei soggetto
     Veder Donna reale innamorata.
Ami l’Anima un’Alma, e ammiri in essa
     10Egual bellezza, egual splendor natio:
     L’amar fra i pari è libertà concessa.
Pur se l’Anima nutre un bel desìo
     D’amar fuor di sè stessa, e di sè stessa
     Cosa d’amor più degna, ami sol Dio.


X


Impara di salire, Anima mia,
     Al sommo Ben da una beltà mortale:
     Amor a’ tuoi pensieri appresta l’ale,
     E di Cintia co’ rai segna la via.
5Per tre gradi trascorri: alzati in pria
     Dalla materia, e in separar dal frale
     Il puro esser del Bello, apprendi quale
     L’incorporea beltà dell’Alma sia.
Se più ’alzi, e lei miri in securtade
     10Fuor del corpo e del tempo, allor comprendi
     L’immutabile angelica beltade.
Quindi all’unico Bello infine ascendi:
     Chè se oltre la materia, oltre l’etade,
     Oltre il numero arrivi, Iddio già intendi.


XI


Se la misera incauta Farfalletta
     Potesse dir, perchè scuoter le piume
     Intorno a breve fiamma ognor s’affretta,
     Sin che s’incenerisca e si consume,
5Dirìa: che il Sole ivi trovar presume,
     Onde vita e calor, non morte aspetta;
     Perchè tutto il suo inganno è aver quel lume
     Somiglianza col Sol, benchè imperfetta.
Lo stesso a Voi, poveri Amanti, avviene:
     10Cercano il Bello i vostri cuori, ed hanno

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     Per istinto il drizzarsi ai sommo Bene;
Ma in due luci mortali incendio e danno,
     Quai farfalle, incontrate; e pur proviene
     Da minor somiglianza il vostro inganno.


XII


Visto in un Rivo il mio squallido aspetto,
     E spunta sul mio crim canuto albore
     Fra me dissi: abbastanza ebbe ricetto
     E signorìa Cupido entro il mio cuore.
5Tempo non è, ch’io sia d’amor soggetto,
     Se non posso esser più cagion d’amore;
     Chi negli occhi non l’ha, non l’abbia in petto;
     Chi non può innamorar non s’innamore.
Or se cauto timor nell’età mia
     10Pone in me a freno ogni amorosa brama,
     Sicchè favola al volgo io più non sia,
E se non seguo il Bel, che a sè mi chiama,
     Perchè Ragion mi guida in altra via,
     Segno è, ch’a voglia sua s’ama, e disama.


XIII


Fu sua pietà quando il tuo bel sembiante,
     Mostrommi, o Donna, e in voi mostrossi Iddio:
     Poichè allora in mirar bellezze tante,
     Vie piú n’avrà chi lor creò, diss’io.
5Fu sua pietà che di tue luci sante
     Nel puro raggio a me la scala offrìo
     Per cui salire insino a lui davante
     D’un’in altra beltà lice al desìo.
Ma perchè sprone avesse il desir frale,
     10Ch’a mezzo il bel cammin pigro s’acqueta,
     Orgoglio in Te pose a bellezza eguale.
E in ciò maggior fu sua pietà, se vieta
     Che in terra io posi, e che beltà mortale
     Troppo arresti il desìo dalla sua meta.


XVI


Uom, ch’al remo è dannato, egro e dolente
     Co’ ceppi al pè, col duro tronco in mano,
     Nell’errante prigion chiama sovente

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     La libertà, benchè la chiami in vano.
5Ma se l’ottien (chi ’l crederìa?) si pente
     D’abbandonargli usati ceppi; e insano
     La vende a prezzo vil: tanto è possente
     Invecchiato costume il petto umano!
Cintia, quel folle io son. Tua rotta fede
     10Mi scioglie, e pur di nuovo io mi imprigiono
     Da me medesino, offrendo a’ lacci il piede.
Io son quel folle; anzi più folle io sono:
     Perchè, mentre da te non ho mercede,
     Non vendo io nò la libertà, la dono.


XV


Più volte Amor di libertà pregai,
     Nè sino a tanto il mio pregar si tacque,
     Ch’ei per noia mi sciolse, e mi compiacque
     Dicendo: va, che libertade avrai.
5Nel nuovo stato intorno a me mirai
     Fosco il Ciel, secch’i fior, torbide l’acque,
     Nè piacendomi ciò, che pria mi piacque,
     Più de la vita libertade odiai.
Or perduto m’aggiro, e mi confondo
     10Richiamando i legami, ond’era involto,
     Senza cui, come ignudo, altrui m’ascondo.
E me pareggio a quel destrier, cui tolto
     L’ornamento del fren, l’onor del pondo,
     Troppo vile pe' Campi erra disciolto.


XVI


Io grido ad alta voce, e i miei lamenti
     Ode Ragioni contro ad Amor tiranno;
     Però s’accinge in mio soccorso, e fanno
     Guerra tra lor, ambo a vittoria intenti.
5Poi s’a me par, che Amor sue forze allenti,
     Quasi m’incresca il fin del dolce affanno,
     Allor celatamente, e con inganno,
     Io fò cenno al Crudel, che non paventi.
Ma questa in me, siasi viltade, o frode,
     10Ragion discopre: indi con suo cordoglio

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     M’abbandona per sempre, e più non m’ode.
Chè se poi d’ora innanzi ancor mi doglio;
     Sa che ’l faccio per vezzo, e ch’Amor gode
     Signorìa nel mio cuor, sol perch’io voglio.


XVII


Traditrici Bellezze, a voi sol deggio
     Quant’ho di conoscenza e di quiete;
     Voi col fele spegneste in me la sete
     Che il nutrir di dolcezza era assai peggio.
5Fu mercede il negarmi, or men’avveggio
     Quella pace, che da voi non potete:
     Fu pietà lo spronarmi all’alte mete
     Del vero amor, che sovra gli altri ha seggio.
Perchè da voi respinto a miglior volo
     10S’alzò questo mio cuore, a cui lo strazio
     Le forze accrebbe, e diè coraggio il duolo.
Or torno a voi, benchè di voi già sazio,
     Non per pregarvi nò, per dirvi solo:
     Traditrici Bellezze io vi ringrazio.


XVII


Alcune vaghe Ninfe innamorate,
     Meco parlando un dì de’ loro amori,
     Volean pur, ch’io credessi entro i lor cuori
     Fiamme oltre l’uso uman pure e illibate.
5E che perciò nelle persone amate
     De’ lor vezzosi giovani Pastori,
     Dall’interna beltà dell’alma in fuori,
     Non prezzasser verun’ altra beltate.
Io volto infin’ a una di lor Figliuola,
     10Dissi, se il vostro eccelso almo desìo
     Non bada al corpo, e tende all’alma sola;
Perchè un vecchio Pastor, come son’io,
     Non amereste voi? Senza parola
     Rimas’ella in quel punto, e si partìo.

[p. 308 modifica]


ANTONIO OTTOBONI.


I250


Padre, e Signor, ch’a’ Figli tuoi con tanto
     Zelo soccorri ne’ perigli estremi,
     Ed oro non risparmi, e preci, e pianto,
     Perchè il barbaro Trace o ceda, o tremi:
5Quando con dotta man scrivesti, e quanto
     Opraro i tuoi caratteri supremi,
     Lo sa l’Egèo, lo sa Corcira, accanto
     Di cui fur vani i bronzi d’Asia e i remi.
Or colla saggia mente, e col consiglio
     10Mediti a riparar l’urto secondo,
     Ch’alla Fè portar possa altro periglio.
Sei base, o gran Clemente, eguale al pondo:
     Sei Padre, e al cenno tuo serve ogni Figlio:
     Sei del gran Dio figura, e salvi il Mondo.


II


Inganni son le vanità, che a i lumi
     Del misero Mortal sembran tesori;
     Titoli, dignità, porpore, ed ori
     Son foschi lampi, e luminosi fumi.
5Anch’io credei di farmi eguale a i Numi
     Dell’Adria, e del Tarpeo co i primi onori:
     Ma de’ passati efimeri splendori
     Appena or vedo i languidi barlumi.
Alma, degli error tuoi prova più chiara
     10Tu vai cercando ancora? e ancor ti fidi?
     Deh che sia Mondo a proprio costo impara.
Son già tutti per te gli asili infidi;
     L’onda dolce del Tebro è fatta amara,
     E l’Adria in scogli ha convertito i lidi.

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III


Lidi beati, ove immortal si vede
     La maestà, la libertà Latina:
     Sponde felici, ove del Mar risiede
     Madre d’Eroi, la Veneta Reina.
5Voi ferme basi alla Romana Sede:
     Voi gran ripari all’Itala ruina:
     Argini al Trace voi, Rocche alla Fede,
     Cui vasta Terra, ed ampio Mar s’inchina.
Scogli non foste mai per mio periglio,
     10E sparser gli Avi miei sul vostro lembo
     Fregi d’onor col sangue e col consiglio.
Siatemi porto or che più soffia il nembo:
     Debbonsi al patrio Suol l’ossa del Figlio:
     Io nacqui e vissi, e vuò morirvi in grembo.


IV251


Quando Eugenio pugnò, del gran Clemente
     Vologli al fianco la paterna idea;
     Onde dal Vatican nell’Oriente
     In aiuto de’ Figli egli accorea.
5Ella del Pio Campion la saggia mente
     Di quel zelo infiammò, che l’accendea,
     Forte cosí, che della man possente
     Non sostenne il valor la turba rea.
Passò poi di Corcira al muro infranto,
     10E provida soccorse a quel recinto
     Colle preci, coll’armi, e col suo pianto.
Or se di palme e l’Austria, e l’Adria ha cinto,
     E diè ai Regi gli acquisti, a i duci il vanto;
     Sol col braccio di Dio Clemente ha vinto.


V252


Questi è il grand’Alessandro. Il ciglio inarca
     Sulle membra incorrotto il Tempo istesso:

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     Troncò quel sacro stame invida Parca,
     Ma d’apparir non osa il colpo impresso.
5L’adorato sembiante, al cui riflesso
     Rese omaggi di fede ogni Monarca,
     La Maestà serba illibata; e in esso
     Bella par morte, e d’ogni orrore è scarca.
D’Alma sì grande il nobile ricetto
     10Restar dovea dal comun fato esente,
     Come illustre di gloria albergo eletto.
Ancor vive Alessandro, anzi è presente.
     Apri l’augusto Avello, ecco l’aspetto:
     Mira Pietro il nipote; ecco la mente.


VI


Perchè gli argini rompe e i campi inonda
     Quel fiume, e torri abbatte, e tempi atterra?
     Perchè sdegna il riparo, ond’altri il serra,
     E sciolta in grembo al Mar vuol correr l’onda.
5Perchè sibila l’aria, e furibonda
     Sin da cardini suoi scuote la terra?
     Poichè chiusa si trova, e più non erra,
     E sdegna quella carcere profonda.
Perchè sasso scagliato in giù sen riede,
     10E sempre al Ciel drizza la fiamma i rai?
     Perchè il sasso, e la fiamma han varia sede.
Forzato anch’io la sfera mia lasciai,
     E sin che dove ho il cuor non giunga il piede,
     Stupor non fia, ch’io non m’accheti mai.


VII253


Quest’è il Parrasio Bosco? Il nido è questo
     Dove de’ Cigni Ascrèi si ammira il canto?
     Chi svelse il lauro a cui sedeva accanto,
     E ’l cipresso piantò tetro e funesto?
5Vedo pianger le Muse, e in bruno ammanto
     Lagnarsi metro addolorato e mesto;

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     Ma mi risponde Apollo: io son, che appresto
     Queste nenie funèbri, e questo pianto.
Io degli Arcadi estinti i pregi avvivo,
     10E de’ compagni lor ne’ dotti carmi
     Son’io, che de’ gran nomi e parlo e scrivo.
Errai, gran Nume, allor ripiglio; e parmi,
     Che in queste lodi ogni Pastor sia vivo,
     E sprezz’il vano onor di bronzi, e marmi.


VIII


Or che all’Aquila d’Austria è nato un Figlio,
     S’esponga pur del Sol paterno al raggio,
     Che lo sguardo bambino avrà coraggio
     Di tener fisso a tanto lume il ciglio.
5Ei nacque allor che in prossimo periglio
     Stava la Fè per l’Ottomano oltraggio;
     E allor ch’il regio Augel potente e saggio
     Stendea sù gli Empi il periglioso artiglio
Udì il Germe bambino allor che nacque
     10Delle trombe Germane il suon guerriero,
     L’udì ridendo e quel fragor gli piacque.
Or pugni il Padre, il Figlio cresca: e spero,
     Che dian tosto ad entrambi e Terre ed Acque
     Dell’Occaso e dell’Orto il doppio Impero.


IX254


Questo, Cesare, è il tempo. Il Ciel balena
     Secondo al tuo gran senno, e al braccio invitto:
     Passò Eugenio in Pannonia, e giunto appena
     Il formidabil Trace ecco sconfitto.
5Già cede Temisvaro, e del trafitto
     Nemico i busti rei copron l’arena:
     Belgrado, ecco tremante, e dell’afflitto
     Sultan già s’ode risuonar la pena.
Cesare questo è il tempo. In mare i legni
     10D’Adria già fan tremar l’Ismara foce,

[p. 312 modifica]

     Togliendo i furti a quei Pirati indegni.
Deh le vittorie tue segui veloce;
     E tutti correran dell’Orto i Regni
     Sul sacro alloro ad adorar la Croce.


X255


Lasso, che feci! Abbandonai la bella
     Sponda del Tebro, e volsi all’Adria il piede,
     Cangiai la ferma in un’istabil sede,
     E la calma lasciai per la procella.
5L’unico pegno mio che vive in quella
     Per delizia del cuor l’occhio non vede:
     Perduti ho i dolci baci, e più non riede
     La frequente tra noi mensa, e favella.
L’Ostro, ch’ei cinge, onde n’andai fastoso
     10Più di lui molto, io non mi veggio appresso,
     E ’l piacer, che ne trassi, or m’è penoso.
Così dagli anni, e dalle cure oppresso
     Mentre ricerco invan Figlio, e riposo,
     Ah che non trovo in me quasi me stesso!


PIETRO OTTOBONI.


Padre, la via de’ saggi è sempre bella,
     E virtù fra i disastri ha fermo il piede;
     Nè giunger può di gloria all’alta sede
     Chi l’interna non vinse aspra procella.
5Ovunque posi o in questa parte o in quella,
     L’occhio dell’amor mio sempre ti vede;
     E ’l desio che a te viene, e che a me riede,
     Porta e riporta i baci e la favella.
Soffri pur dunque, e nel tuo duol fastoso
     10Attendi il lieto dì, che al Figlio appresso
     Il premio avrai del tuo soffrir penoso.

[p. 313 modifica]

Allor da gioia e non da cure oppresso,
     Tu farai del mio seno a te riposo,
     Ed io de’ pregi tuoi gloria a me stesso.


II256


Quando partì da me ver la sua sfera
     Quel lume, che me pur fè noto al Mondo,
     Credei sepolta in cieco oblìo profondo
     Mia speme, e giunta la mia gloria a sera.
5Piansi, e la doglia mia torbida e nera
     Tolse alla mente ogni pensier giocondo,
     Ma vi lasciò per doloroso pondo
     Del Ben perduto la memoria intera.
Così come Nocchier, che senza vele
     10Scorse l’irato Mar pien di timore,
     Nè tanta ha forza per formare querele;
Muto giacev’anch’io nel mio dolore,
     Allorch’un mio pensier grato, e fedele
     Disse: Vive Alessandro, e l’hai nel cuore.


III257


Dov’è il gran carro, in cui superbo assiso
     Il Tiranno dell’Asia apparve in Campo?
     Dove del brando minaccioso il lampo,
     Ch’esser dovea di Cristian sangue intriso?
5Fugge il crudel suo Duce, e porta in viso
     Vergogna e morte; e nel cercar lo scampo
     Estinto cade, e fassi orrido inciampo
     Allo sconfitto Esercito diviso.
Or và, ritorci il carro, e il corso affretta,
     10E giulivo se puoi, ti mostra al Xanto,
     Che l’alte imprese, e 'l tuo trionfo aspetta.
Ma se all’urto primier piegasti tanto,
     Di te Messenia ancor farà vendetta,
     E tue saran le sue catene, e il pianto.

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Traduz. del P. Gio: Antonio di S. Anna, del preced. Sonetto.


Quo, quo currus iit, cui veste insedit in aurea
     Impia cum Principi venit in arma Getes?
Quo lux dira ensis, cuius tepefacta cruore
     Undiqve Theutonico debuitesse acies,
5Dux fugit ecce suus, mixtaque in imagine morti,
    Tabida lethalis circuit ora robur.
Dumque fugit medio truncus cadit aequore, et ipse
    Fusis militibus corpore claudit iter.
I, currum converte tuum, da rursus babenas,
    10Perge tuas hilaris, si potesire, plagas.
Te Simois victorem alacrem, Xantusque morantur
    Et cupiunt palmas tollere ad astra tuas.
Si tamen indignum primae in certamine pugnae
    Tam male deponis fronte cadente caput;
15En erit, ut fiat vindea Messenia, et edes
    Ipse suos fletus, et sua vincla geres.


BENEDETTO PANFILI.


I258


Su l’Istro e ’l Savo, e con sì vasta idea
     Venne di Tracia il formidabil Mostro,
     Che disse Europa: e qual sarebbe il nostro
     Stato, se l’empio usurpator vincea?
5Corfù nel Mar Reina intorno avea,
     Servil catena, d’alte Navi il nostro,
     E da un Lino nemico asperso d’Ostro
     D’Italia e fato e libertà pendea.

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Tal’era nostra sorte, e dubbia tanto,
     10Che se torna il pensiero ai gran perigli,
     La timida memoria invita al pianto.
Ma fra tante sventare opre e consigli,
     Unì Clemente i voti, ed ebbe il vanto
     Di trionfar nella pietà de i Figli.


II259


Disse Carlo ad Eugenio: I Traci arditi
     Finser dall’armi ogni pensier lontano
     E d’improviso incontra i nostri liti
     Qual torrente inondar le Valli, e ’l Piano;
5Ma pur vincesti. Or contra Arabi, e Sciti
     Distendi l’opre del valor Germano,
     E i mesti abitator cader pentiti
     Vegga il Tigri, e l’Eufrate, ed il Giordano.
Poi s’avverrà, che inganno più non copra
     10L’ardir di voler servo il Mondo intero,
     E l’Oriente alfine il Ver discopra;
Pieghino al sagro Fonte il capo altero:
      Nel Tempio di Sion, che a sì grand’opra
     Verrà Clemente; ed io sarò il Nocchiero.


Traduz. di Francesco Lorenzini del precedente Sonetto.


Sic ait Eugenio Carolus: Simulaverat audax
     Thracia pacem animo, dum parat arma manu.
Cum subito rapidi Torrentis imagine, supra
     Littora nostra, trahens agmina mille, ruit.
Jure tamen cecidit: nunc contra Arabesque Seytasque
     Theutonis invicti bellica signa feras.
Cultoresque suos tandem resipiscere cernant
     Tygris, et Eufrates, et fiuvius Libani.

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Tunc Oriens, si spem vanam dominarier Orbi
     Exuat, etero subdere colla velit;
In Solymae Templo sacris caput abluat undis;
     Utque adsit Clemens, Navila Caesar ero.


III


Poveri fior! Destra crudel vi coglie,
     V’espone al fuoco, e in un cristal vi chiude:
     Chi può vederle violette ignude
     Disfarsi in onda, e incenerir le foglie!
5Al Giglio, e all’Amaranto il crin si toglie
     Per compiacer voglie superbe e crude,
     E giunto appena Aprile in gioventude,
     In lagrime odorose altrui si scioglie.
Al tormento gentil di fiamma lieve,
     10Lasciando va nel distillato argento
     La Rosa il fuoco, il Gelsomin la neve.
Oh di lusso crudel rio pensamento!
     Per far lascivo un crin, vuoi far più breve
     Quella vita, che dura un sol momento.


PETRONILLA MASSIMI PAOLINI


I260


Del Re dell’Alpi il fanciulletto ignudo
     Con la tenera man cerca la spada,
     Sprezza le molli piume, e sol gli aggrada
     Trovar riposo entro il paterno scudo.
5Già con lo sguardo generoso e crudo
     A i lontani trofei s’apre la strada:
     Dato è dal Cielo, perchè solo ei vada
     Contro il destin, ch’or nel silenzio io chiudo.
Nell’opre già del Genitor guerriero
     10Gran lampi di virtude il Mondo ha scorto,
     E più ne scorgerà nel germe altero.

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Prenda l’Italia pur speme e conforto,
     E risvegli la mente a gran pensiero,
     Chè l’antico valore è già risorto.


II


Pugnar ben spesso entro il mio petto io sento
     Bella speranza, e rio timore insieme;
     E vorrìa l’uno eterno il mio tormento,
     L’altra già spento il duol che il cuor mi preme.
5Temi, quel fier mi dice: e s’io consento,
     Tosto, spera, gridar s’ode la speme;
     Ma se sperare io vuo’ solo un momento,
     Nella stessa speranza il mio cuor teme.
Mie sventure per l’uno escono in campo,
     10Mia costanza per l’altra; e fan battaglia
     Aspra così, che indarno io cerco scampo.
Dir non so già chi mai di lor prevaglia:
     So ben, ch’or gelo, ahi lassa!, ed or’avvampo;
     E sempre un rio pensier m’ange e travaglia.


III261


Or che tien chiusi i lumi in dolce obblio
     Il Fanciullo Divin, tacete o venti,
     E voi fermate il corso, o chiari argenti,
     Benchè v’incalzi tra le sponde il Rio.
5Vorrei fermare i miei sospiri anch’io,
     Se fosse, come voi siete, innocenti;
     Ma di pentito cuor l’aure dolenti
     Non turban la quiete al nato Dio.
Ch’egli dormendo ancor, l’alto amoroso
     10Pensier ravvolge per disegno e norma
     Della grand’opra, onde avrem noi riposo.
Oh dolce sonno, che per l’Uom riforma
     L’antico male! Ahi che il Bambin pietoso
     Veglia a dar vita al Mondo, e par che dorma!

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IV262


Mio cuor, credi, ed adora: eccoti avante
     Al gran mistero, in cui si stringe al petto
     Vergine Madre e Sposa il Pargoletto
     Tuo Redentor tanto aspettato innante.
5Deponi qui le così varie, e tante
     Folli speranze, e ogni profano affetto;
     E sia per te nelle sue fasce stretto
     Ei l’Amore, ei l’Amato, ed ei l’Amante.
Vedi come a Maria risplende il viso
     10D’un sì bel pianto, che non fu giammai
     Delle Stelle, e del Ciel più bello il riso?
Per poco, o nulla, lagrimasti assai:
     Or se nol fai dal tuo fallir conquiso,
     Quando in uso miglior pianger saprai?


V


Stavasi in due brune pupille ascoso
     Amor senz’arco al fianco, e senza strali,
     E in dolce sonno il Garzoncel vezzoso
     Fatto s’avea molle origlier coll’ali.
5Quando il mio cuor d’accarezzar voglioso
     Le belle fresche guance ed immortali,
     Venne incauto a turbare il suo riposo,
     E sdegni accese a null’altr’ira eguali.
Lampeggiar l’aria al muover del suo volo,
     10E uscir saette, per cui fuma, e stride
     Tutto in faville il cuor, fu un punto solo.
Deh alcun non sia, che del Crudel si fide,
     Ch’ove altri teme men, più acerbo è il duolo,
     E se dorme, e se veglia, ei sempre uccide.


VI263


Chi è, dicean le sovrumane menti,
     Ch’ornano i Cieli e delle Stelle han cura
     Costei che vien fra le beate genti

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     Della Luna e del Sol più chiara e pura?
5Quante ha virtudi d’alta gloria ardenti!
     Quanto ha valore a superar Natura!
     Come ha begli occhi al sommo Sole intenti,
     E il nostro insieme e l’altrui pregio oscura!
Come in sua veste ancor si riconsiglia
     10Giunger Costei dove ogni Fral s’obblia,
     Vergine, e Madre, e del suo Figlio Figlia?
Quando s’udio del Ciel per ogni via,
     E mancò possa all’alta maraviglia,
     Maria suonare, e replicar Maria.


VII264


Quando di sè più che del Sol vestita
     L’alta Madre di Dio nel Cielo ascese,
     E sovra ogni altra il primo Ben comprese,
     E la sua gloria immensa ed infinita:
5Risplender tutti in quell’eterna vita
     Vide i passati affanni, e l’aspre offese,
     E un nuovo amor ne’ Serafini accese
     Al Padre, al Figlio, al santo Amore unita.
E se nel basso Mondo a pro di noi
     10Ben cotanto potèo, che in uman velo
     Altra simil non fu nè pria, nè poi;
Or che tant’alto ascende, il proprio zelo
     L’orna, e le fan corona i pregi suoi,
     Chi potrà dir quant’è più grande il Cielo!


GIUSEPPE PAOLUCCI.


I


Quel, che t’offre l’Arcadia umil suo canto,
    Sol atto a celebrar Ninfe e Pastori,
    Deh non sdegnar, ch’avrà fors’anco il vanto
    Di dire un giorno i tuoi guerrieri onori.

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5E se rustica Musa or non può tanto,
     Usa d’ornarsi il crin di mirti e fiori,
     Nuovo per te valor vestendo e manto,
     Vedremla alto trattar palme ed allori.
Di sè stessa maggior così poi resa
     10Ammirerassi eguale a sì gran pondo,
     Per te sol chiara e per cotanta impresa.
Che con stil quindi a null’altra secondo
     Famosa andrà di tua virtute accesa,
     Signor che lume spandi ampio e profondo.


II


Se in me reo di più colpe il giusto Dio
     Grave talor l’irata man distese,
     Pietà gridai pentito, e quindi apprese
     L’alma a por freno, e norma al suo desio.
5E pur s’ella poi vide al pianto mio
     Placarsi il Ciel, l’antico uso riprese,
     Ond’io tornando a rinnovar l’offese,
     E la pena, e ’l perdon posi in obblìo.
Ma se seguir ricuso o pigro, o stanco
     10L’intrapreso miglior corso primiero,
     Senza la sferza, e i duri sproni al fianco;
Signor, raddoppia i colpi pur, ch’io spero
     Di compir, così punto, ardito e franco
     Quel che mi resta ancor breve sentiero.


III


Ecco il tempo, o Israele, ed ecco il giorno,
     Che lo scettro di Giuda a Giuda è tolto;
     Ecco il tuo Re già nato, onde ritorno
     Farai da’ lacci, in libertà disciolto.
5Ma non stupir se ’l vedi in vil soggiorno,
     E fra Pastori in rozze spoglie avvolto,
     Questo al Parto real ben mille intorno
     Star dovrìan servi in aureo tetto accolto;
Ch’anzi sol quindi hai da sperar, che scosse
     10Sian le catene tue, se al mondo usciro
     Così quei, che al tuo scampo il Ciel promosse.

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Così Mosè povero nacque, e Ciro:
     L’un Te da l’empio Faraon riscosse,
     L’altro da’ lacci del superbo Assiro.


IV


Vedi quell’Edra, Elpin, che scherza ed erra
     Folta a quel muro intorno, e che la faccia
     Par che gli adorni: oh qual ruina e guerra,
     Se più s’avanza, di portar minaccia!
5Poichè, mentre tenace a lui si afferra,
     E insidiosa lo circonda e allaccia,
     Tosto il vedrem precipitato a terra;
     Tant’ella ha ne’ piè forza e nelle braccia:
Tal anch’è Amor, s’alligna in giovin petto.
     10Oh di qual nuova forma alta e sublime
     Par, che il cuor gli rivesta e l’intelletto!
Sterpalo ah presto, Elpin, ch’ove s’imprime,
     Tant’oltre stende il suo malnato affetto,
     Ch’alfin con l’Alma ogni virtude opprime.


V265


Roma in veder dall’empia etade avara
     Scossi i grand’Archi, onde sen gìa superba.
     Ed ogni mole più famosa, e rara
     Giacer sepolta fra l’arene e l’erba;
5Grave soffrìa di tanti, in cui fu chiara,
     Fregi d’onor l’alta caduta acerba;
     E più le fean la rimembranza amara
     Quei, che miseri avanzi ancor riserba.
Ma respirò, quando più illustre, e altero
     10D’ogni edifizio lacero, e sepolto
     Vide il Tempio immortal sorger di Piero.
E disse: abbiasi pur ciò, che n’ha tolto
     Il tempo rio, s’io già riveggo intero
     Qui tutto il Bel d’ogni gran mole accolto.

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FERDINANDO PASSERINI.


I266


Quando la bella Europa oh Dio! lasciai,
     Credei lasciare il mio tiranno Amore,
     Ma nell’Africa ancora io lo trovai
     Starsene intento a tormentarmi il cuore.
5Assiso in duo begli occhi io qui mirai,
     Come nel trono suo, l’empio Signore,
     E volto a me, che di fuggir tentai,
     Tutto colmo d’orgoglio e di rigore,
Disse: Ferma, ove vai? Tu tenti in vano
     10Fuggir da me, c’ho l’ali; e fece poi
     Stretto legarmi da una bella mano.
Soggiunse indi ridendo: Or tu da noi,
     E da chi ti legò, vanne lontano;
     Rompi i lacci del piè; fuggi se puoi.


II


Stavami ieri a pascolar l’armento
     Piangendo il mio destin presso a quel Rio;
     Quando vicino un Usignuolo io sento,
     Che col suo pianto accompagnava il mio.
5Frena, mesto Augellino, il tuo lamento,
     Lascia pianger me solo, allor diss’io:
     Ma ei pur si lagna; chè per suo tormento
     Pendea da un laccio, ch’il Villan gli ordìo.
Di repente mi accosto: e il laccio infranto,
     10Aspra cagion del grave suo dolore,
     Ei torna in libertate, e torna al canto.
Dissemi allora, e con ragione il cuore:
     Altrui libero rendi? E perchè intanto
     Me lasci al laccio, onde legommi Amore?

[p. 323 modifica]


III267


Vivea contento alla capanna mia
     In povertate industre, in dolce stento;
     E perchè al canto, ed al lavoro intento
     Qualche fama di me spander s’udìa,
          5Vivea contento alla capanna mia.
Fatto perciò superbo io mi nutrìa
     D’un van desio d’abbandonar l’armento:
     Fui negli alti palagi, e in un momento
     Senza pregio restai, nè più qual pria
          10Vivea contento alla capanna mia.
Degli anni miei perdendo il più bel fiore,
     Il viver lieto, e la virtù perdei;
     L’ozio, la gola, e gli agi ebber l’onore,
          Degli anni miei perdendo il più bel fiore.
15Scorno e dolore i giorni tristi e rei
     Occupa alfine, e dico a tutte l’ore:
     Ah! s’io pover vivea, or non avrei
          Scorno e dolore i giorni tristi, e rei.


FRANCESCO PASSERINI.


I268


Udiste d’Austria il fato acerbo, e tristo,
     È gran terror, che per l’Italia corse
     Il dì, che pose empio Tiranno in forse
     Coll’Impero German la Fè di Cristo,
5Gran Re, l’udiste; e a nobil’ira misto
     Ardervi in fronte un bel desio si scorse:
     Volò questo a Leopoldo, e Voi precorse,
     E primiero pugnar per lui fu visto.

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Fu con Ernesto, e ’l sen gli armò di smalto;
     10Fu poi con Carlo, e gli animò la spada;
     Fu alfin con Voi nel glorioso assalto.
Scorse allor la Vittoria ogni contrada:
     Ma veggio il fatal brando ancora in alto.
     Chi sa, che al suo cader l’Asia non cada?


II


Quando di due bei lumi il dolce strale
     M’aperse il seno, e via ne trasse il cuore,
     Vi pose in vece sua pietoso Amore
     Una speranza fuggitiva e frale.
5Ben dispiegò costei sovente l’ale
     Sdegnata, per uscir del petto fuore,
     E mi lasciava in sempiterno orrore,
     Come appunto colui, che morte assale.
Quando scoccò dagli occhi suoi vivaci
     10Cintia uno sguardo placido, sereno,
     E accompagnollo Amor colle sue faci.
Allor fuggìa la speme, io venìa meno:
     Ma giunse il guardo, e l’ali sue fugaci
     Arse, e la speme ritornò nel seno.


GAETANA PASSERINI.


I


Su quelle balze, ove una capra appena
     Andrìa, tanto son esse erte e scoscese,
     In cima in cima il mio agnellino ascese,
     Senza alterar la natural sua lena.
5Ma pur col suon di pastorale avena
     Non sì tosto da me chiamar s’intese,
     Che con veloce piè l’erta discese,
     E di cercarlo a me tolse la pena.
Lieta a coglier vincastri allor n’andai
     10Per intesser cestelle, e un serpe, oh Dio!
     Non veduto da me col piè calcai.

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Tutta spavento allor fra me diss’io:
     Oh quanto è ver, che senza amaro mai
     Non ha un poco di dolce uman desìo!


II269


Signor, che nella destra, orror del Trace,
     Della fortuna d’Asia il crin tenete,
     E con voi la Vittoria, ove a voi piace,
     Compagna indivisibile traete:
5Dove di Costantin languendo giace
     L’alta Real Città, l’armi volgete:
     Colà scorta vi fia l’Ombra fugace
     Dell’inimico Re, che vinto avete.
Ivi il mostro crudel pallido, e afflitto,
     10Che torvo mira le sue piaghe spesse,
     Cada per Voi nel seggio suo trafitto.
Allor vedransi in mille marmi impresse
     Queste note d’onore: Al Duce invitto,
     Ch'un impero sostenne, e l’altro oppresse.


III


Qual cervetta gentil, ch’ora il desìo
     La chiama al monte, ora l’appella al prato,
     Ed or la spinge ove gorgoglia il rio,
     Or dove il colle è di più fiori ornato;
5Ma s’egli avvien, che al Pastorel, che ordìo
     Insidie a belve, la palesi il fato:
     Ecco cangiarsi in dispietato e rio
     Il suo sì lieto, il suo sì dolce stato.
Tal vid’io Verginella ir baldanzosa
     10In libertade, infinchè al Nume arciero
     Santa semplicità la tenne ascosa:
Ma scopertala alfin qual ciecho e fiero
     Signor, che cessi omai d’esser ritrosa
     Vuole, e che prov’il suo crudele impeso.

[p. 326 modifica]


IV270


Chi ti dà aiuto, ohimè, chi ti consola,
     Priva di Linco tuo, del tuo diletto,
     Misera Silvia sconsolata, e sola
     Senza il Germano, e senza cuore in petto?
5Per sì bella cagione a me s’invola
     Il cuor, che indarno il suo ritorno aspetto;
     Poichè d’intorno innamorato ei vola
     Là dove ha il Fral di Linco mio ricetto.
E intanto Morte incocca le quadrella,
     10Fors’in pietà cangiato il suo rigore,
     E dice: Or mori afflitta Pastorella.
Ma veggendomi in sen servir di cuore
     Dell’estinto German l’immagin bella,
     Nò, grida, viva Silvia al suo dolore.


V


Sotto quel faggio, in riva a quel ruscello,
     Io questa gabbia di mia man formai,
     Che con quel vezzosetto e vago augello
     Ieri, amata Licori, a te donai.
5E due per un mio fido Pastorello
     A venderne in Città l’altr'ier mandai,
     E del valor mi riportò un anello,
     Che di bellezza il tuo vince d’assai.
Or vedi quanto più da’ miei lavori,
     10Traggo, che dal cantare; eppur vorreste
     Che ognor cantassi, o semplice Licori.
Ah che a l’orecchio mio dicono questi,
     Ch’intorno miri infruttuosi allori:
     Oh quanto tempo invan per noi perdesti!


VI


Gran mercè tua, mio Dio, mio Redentore,
     Ragione ha del mio sen l’incendio spento;
     Già cacciato n’ha fuor l’aspro tormento,
     Ed ha tornato in libertade il cuore.
5Già quel pensier, ch’un tempo fu signore

[p. 327 modifica]

     De’ miei pensieri, uscir del petto io sento;
     E benchè ceda a passo tardo e lento,
     Pur cede il luogo al vostro santo amore.
Questo amor santo poi soavemente
     10Mi cinge il cuor di fiamma pura e viva;
     E questa i pensier purga, alza la mente.
Tant’alto l’alza, che a mirarvi arriva:
     E di quel che lassù ved’ella e sente,
     Vuol, ch’io solo qua giù ragioni e scriva.


VII


Se in una prato vegg’io leggiadro fiore,
     Sembrami dir: qui mi produsse Dio,
     E qui ringrazio ognor del viver mio,
     E della mia vaghezza il mio Fattore.
5Se d’atra selva io miro infra l’orrore
     Serpe strisciarsi velennoso e rio;
     Qui, mi par ch’egli dica, umile anch’io
     Quel Dio, che mi creò, lodo a tutt’ore.
E ’l fonte, il rio, l’erbette, i tronchi, i sassi
     10Sì sembran dire in lor muta favella,
     Ovunque volgo i traviati passi.
Ahi! che sol questa (e il Ciel lo soffre!) è quella,
     Che dall’amor di Dio lontana stassi,
     Infida troppo, e cieca Pastorella.


ALESSANDRO PEGOLOTTI.


I271


Quella, ch’ambe le mani entro la chioma
     Pose a ogni Regno in pria disciolto, e franco,
     E seco trasse ognun pallido, e stanco,
     Nobil dappoi trionfatrice in Roma;
5Quella stessa vegg’io, ch’or vinta e doma
     Se ’n giace a piè d’un ostil carro, ed anco

[p. 328 modifica]

     Porta gemendo il real collo e il fianco,
     Gravi d’ingiuriosa e ferrea soma.
Nè vien già da un estranio invido stuolo
     10Tale oltraggio crudel, ch’io allor potrei
     Dirlo vendetta, e sofferir men duolo:
Ma l’ozio, la discordia, e cento rei
     Vizi sul carro io veggio, e questi solo,
     Questi, e non altri trionfar di lei.


II272


Dimmi, entrasti tu mai per l’auree soglie
     Del Britanno Archimede a veder quella
     Ingegnosa mirabile novella
     Macchina, che all’antiche il pregio toglie?
5Scorgesti tu, quando nel grembo accoglie
     O passere o usignuolo o rondinella,
     Che il misero augellin sen more in ella
     Se d’aria avvien, che a forza altri la spoglie?
Tale accader sventura all’Alma io scerno,
     10Che viva ognor mi siede in mezzo al cuore,
     Macchina illustre del gran fabbro eterno.
Questa, se per mia colpa il santo amore
     Sua dolce aura a sè tragge, e nel suo interno
     Vuoto ne resta il cuor, questa sen muore.


III273


Deh scegli, Ireno mio, scegli un perfetto
     Anglico microscopio, indi non mente
     Di scerre ancor quella purgata lente,
     Quella che più ingrandir suole l’obbietto:
5E all’alto del domestico mio tetto
     Saliamo; ov’è più il Sol chiaro e lucente:
     Poscia con un sottil ferro tagliente
     Aprimi pure, Amico, aprimi il petto.
E senza aver di me pietà e dolore

[p. 329 modifica]

     10Guarda, appressando al vetro una pupilla,
     Questo a fibra per fibra atro mio cuore:
Guarda con fronte impavida e tranquilla
     Se alcuna, cui dia moto il santo amore,
     Scorgi di sangue in lui picciola stilla.


IV274


Quando lasciò del suo Ticin la sponda,
     Su cui l’estinto Maggi egra piangea,
     Qui giunse ove il real mio Fiume inonda,
     Clio lagrimosa e in guisa tal dicea:
5Or che cercando io vò quella feconda
     Virtù, che nel mio Carlo albergo avea;
     Chi per pietà m’insegna, ove s’asconda
     Quest’alta di valor gentile idea?
Io, che posava allor su queste amene
     10Piagge, lieto pensando al tuo bel canto,
     Che il Mincio più sonoro a render viene.
Sul Mincio, io dissi, a un nuovo Carlo accanto
     Vaane, e colà ritroverai quel bene,
     Che cerchi. Andò la Musa, e terse il pianto.


V


Tosto, Ireno, a prender vanne
     Non le reti e non il vischio,
     Ma le uguali al grave rischio
     Fulminose e ferree canne:
5Chiama il fier mastino, e fanne
     Sin ch’ei vien, l’usato fischio;
     Sciogli poi quel di pel mischio
     Bravo Corso, e andianne, andianne.
Testè il Lupo uscìo di selva,
     10E in quel fosso ancor s’appiatta:
     Deh uccidiam l’ingorda belva.
Che se va di fratta in fratta,
     E a sua voglia si rinselva,
     Addio Greggia; ella è disfatta.

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VI


Il più vago fiorellino
     Sei tra’ fiori, o Mammolletta,
     Che non brami ir fastosetta
     Tra le pompe del giardino.
5Tu col capo a terra chino
     Godi star sempre soletta
     Ove fresca è più l’erbetta,
     Ove folto è più lo spino.
Ma se avvien, che alfin ti adocchi
     10Nice altera, e te divella
     Perchè in seno a lei trabocchi;
Dì tu a Nice vanarella,
     Dille allor, che il sen le tocchi:
     Me somiglia, e sarai bella.


VII


Vedi, Iren, quell’alta Nave,
     Per le vaste onde Tirrene,
     Che di dolce aura soave
     Ha le vele omai ripiene.
5Eredi a me, ch’ella non pave,
     Che un vil pesce unqua l’affrene,
     Come fa l’ancora grave
     Quando è fitta entro l’arene.
Tu bensì pruovi un’infesta
     10Remoretta, che gir tardo
     Ti fa in alto, e ancor ti arresta.
Volgi a lei, volgi lo sguardo,
     E tu, Iren, vedrai che questa
     Ella è sol l’uman riguardo.


VIII275


O Famoso inclito Vate
     Della Parma onor sublime,

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     Tutte intorno alle cui rime
     Corser l’aure innamorate.
5Belle ei fu della tua etade
     L’agguagliar le Muse prime,
     E il salir là sulle cime
     Del Parnaso alte onorate:
Ma più belli far tuoi vanti,
     10Quando al Neri in sen finiro
     Di cantar tue labbra amanti.
Nobil Cigno, io ben t’ammiro,
     Porto invidia a’ tuoi gran canti,
     Ma più all’ultimo sospiro.


IX276


L’onor, la Fama, e in un la Gloria, e quante
     Virtudi ha il nobil Mondo un dì si fero
     Incontro all’Alma tua col vivo e vero
     Celeste loro ed immortal sembiante.
5Drizzaro indi le belle agili piante
      ve’ tua mente alberga, e alfin sedero
     In grembo a lei, cone in lor trono altero,
     Leggi dettando avventurose e sante.
Sacrò l’Alma in suo cuor l’inclite loro
     10Voci, e di quelle entro al suo regno interno
     Munìa sè stessa, e ne faccia tesoro;
Talchè ora vien per suo gran vanto eterno,
     D’esse Virtù frà l’ammirabil Coro,
     Con sì bei dogmi a far di noi governo.


X277


Nè per l’auree sue piume altero splende,
     Nè per l’Arabe selve avvien, ch’ei vole
     Quell’Augello dell’ali uniche e sole,
     Che sol nel nome oggi immortal si rende.
5Non fa di aromi il rogo, e non l’accende
     Col dibatter sè stesso incontro al Sole,

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     Nè di sè stesso e genitore, e prole,
     Dalle ceneri sue vita riprende.
Ben’egli è ver, che lieta oggi ten vai,
     10Ninfa, all’alta tua Croce, e il cuor vi lasci,
     E spine raggruppando il rogo or fai.
E che ogni pompa avviluppata in fasci
     Sopra lui stendi, e d’un gran Sole a’ rai
     Muori intrepida al Mondo, e al Ciel rinasci.


XI278


Con tre fiamme innocenti il mio Diletto
     Meco pruova egli fè del suo valore,
     Illuminò con una il mio intelletto,
     Per farmi concepir, che cosa è amore.
5Compresa la virtù del grande obbietto,
     Che un magnanimo spira eterno ardore,
     Egli appressommi l’altra fiamma al petto,
     E ne sentìo soave incendio il cuore.
Diè coll’ultima quinci al voler mio
     10Suo prode assalto, e in sì gentil contesa
     In lui crescea la forza, in me ’l desìo.
Ecco tutta oramai l’anima accesa,
     Sia vostra, o santo amor, che non poss’io,
     Più indugio farvi all’onorata impresa.


XII 279


Tu, che immenso ognor traggi almo diletto
     Dall’immortal di Dio volto sereno,
     E intero quel gran lume accogli in seno,
     Che bea sparso pel Ciel ogn’altro Eletto:
5Deh per pietade omai vibrami in petto,
     Un solo, un sol di que’ bei raggi almeno,
     Ch’arda il duro cuor mio, lo franga appieno,
     E in cener sciolga ogni terreno affetto.
Così quand’egli avvien, che al Sol si volse
     10L’accenditor cristallo, e fiamma e luce

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     Nel suo limpido grembo egli abbia accolte;
Ne’ marmi ardor sì attivo egl’introduce,
     Che ne fa polve e gli adamanti in molte
     Minutissime schegge anco riduce.


XIII280


Aperte or mira il mio Pensier due strade,
     Ov’entra ogn’Alma, e donde avvien che passi
     A quell’immenso albergo, entro cui stassi
     L’immensa e sempre viva Eternitade.
5Sul loro ingresso al passaggiero accade
     Di ricontrar due Scorte a i primi passi:
     Ognuna d’esse appresso a lui già fassi
     Compagna al gran cammino in ogni etade.
Ha il sinistro sentier, che al basso guida,
     10Sotto a’ morbidi fior l’inciampo ascoso,
     E la Scorta è un crudele empio omicida.
Erto è poi l’altro, angusto, aspro e spinoso;
     Ma tutta è amor la Scorta, e sempre fida,
     E a un beato e la tragge almo riposo.


XIV281


Santificata pria del gran natale
     Venne a splender fra noi l’Anima bella,
     Pura così, che a lei non era eguale
     La più pura del Ciel limpida stella.
5Onde intenta a mirar l’opra immortale,
     Rise la Grazia, e se’n compiacque anch’ella;
     Poi disse: Entro a’ suoi lumi omai sia tale,
     Ch’altra laggiù non fia maggior di quella.
Udiro allora il bel decreto, e santo,
     10Le virtù più sublimi, e riverenti
     Si poser tutte alla grand’Alma accanto;
E se non feo con esse infra le genti
     Portento alcun, fa ben maggior suo vanto
     Sì gran fede acquistar senza portenti.

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XV282


Tu mi dicesti un dì: nel tuo diletto
     Garrulo Canarin l’alma non siede;
     Egli è una macchinetta, e tal lo diede
     Con gli altri bruti a noi l’alto architetto.
5Egli ne’ moti suoi quel solo effetto
     Serba, che in grembo a un oriuol si vede;
     E, se l’ala ci distende, e adopra il piede,
     Effluvio il trae di esteriore obbietto.
Risposi a te: ma s’egli alto gorgheggia,
     10E gorgheggian con lui le ciancioselle
     Rondini, e i novi nidi avvien ch’io veggia;
Se così industri a fabbricar le celle
     Van l’api, e i cani a custodir la greggia:
     Come pon far senz’alma opre sì belle?


ANTONIO MARIA PEROTTI.283


Tempra Dio le vicende e il tutto regge,
     Fuggendo l’orme del consiglio umano:
     Verga obbedita da lanoso gregge
     In scettro cangia a pastorello in mano.
5L’alto destino in fronte a lui si legge,
     Che ne’ fratelli suoi cercossi invano:
     L’unge il Profeta, ed il Signor l’elegge
     Dell’amato Israel duce e sovrano.
O Lambertin, gemma del picciol Reno,
     10Sei lune il gran destino in te velato
     Stette, come nel Ciel chiuso baleno:
Ma qual gloria fu mai, che invan cercato,
     Fosse lunga stagion fra stuol ripieno
     D’Eroi sì chiari, ed in te poi trovato?

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ORAZIO PETROCHI.


I284


Quel Giove adunque, che potea di strali
     Vibrar diluvi dall’etereo polo,
     E con un cenno, con un cenno solo
     Ridurre in polve i miseri Mortali:
5E quel di Numi eterni, ed immortali
     In Ciel possenti, e in terna immenso stuolo,
     Lasciò cader miseramente al suolo
     Questi suoi Templi eccelsi e trionfali!
Qual possanza, o nemico empio destino,
     10Legogli il braccio, che io non vedo i noti
     Segni famosi del vigor divino?
Oh stolti! E vi fu pur chi tra divoti
     Inni di lode, riverente e chino,
     Gli offerse doni su gli altari, e voti!


II285


Questa, che miri di cadere in atto,
     Già da tremendo fulmine percossa,
     Tomba è di quello che fè l’onda rossa
     Da’ suoi destrieri per l’arena tratto.
5E mal per lui s’era mancato al parto
     Del sommo Giove; ma d’Amor commossa
     Potè Diana (e che v’ha, che Amor non possa?)
     Qui trarlo salvo con pietoso ratto
Finchè cedendo nuovamente al Fato,
     10In questa poi raccolse Urna funesta
     Le smorte membra del suo Virbio amato:
Ma Giove alfin, cui nulla ascoso resta,
     Contra dell’Urna de’ suoi strali armaio
     Ne atterrò parte, e vi riman sol questa.

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III286


Forse, chi sa? Benchè per lor giacesse
     L’antica gloria del paterno Regno,
     E nel gran fatto (ahi duro caso indegno!)
     La miser’ Alba al cader lor cadesse:
5Forse pietosa a tre Campioni eresse
     Questa gran Tomba d’onoranza in segno,
     Onde un valor di miglior sorte degno,
     Noto a’ suoi figli ed immortal vivesse.
Chè se il Roman più scaltro assai che forte,
     10Non più soffrendo la gravosa soma,
     Allor seguìa degli altri due la sorte,
Di lauro trionfal cinta la chioma,
     Portando all’Universo e vita e morte,
     Regnerebbe Alba, e servirebbe Roma.


IV287


Io chiesi al Tempo. Ed a chi surse il grande
     Ampio Edifizio, che qui al suol traesti?
     Ei non risponde: e più veloci, e presti
     Fuggitivo per l’aere i vanni spande.
5Dissi alla Fama: O tu, che all’ammirande
     Cose dai vita, e questi avanzi, e questi?...
     China ella gli occhi conturbati, e mesti,
     Qual chi doglioso alti sospir tramande.
Io già volgeo maravigliando il passo;
     10Ma su per l’alta mole altero in mostra
     Visto girsen l’Obblìo di sasso in sasso;
E tu, gridai, forse il sapresti? ah mostra...
     Ma in tuono ei m’interruppe orrido, e basso
     Io di chi fa non curo: adesso è nostra.


V


Qui dunque, dove il Pastorel la greggia
     Difende appena dagl’ingordi lupi,

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     E dove fra scoscesi ermi dirupi
     Scarsa per lei cibare erba verdeggia;
5Qui dove raro avvien, ch’orma si veggia
     D’uman vestigio, ma solo vaste rupi
     S’alzano, ed antri solitari e cupi,
     Qui fu d’Ascanio la famosa Reggia?
Ed Alba è questa? E quinci venne il fiero
     10Popol di Marte, che sì chiaro in guerra
     Su quanto il Mar circonda ebbe l’impero?
Ahi tempo, ahi tempo! E qual sarà qui in terra
     Cosa, che duri con piè saldo e intero,
     Se tu, bella Città, giaci sotterra?


VI288


Qual Uom se ’n va talor, cui di repente
     Strano prodigio appare, o cosa vede,
     Che i sensi frali, e la credenza eccede,
     Talchè si muove appena, e si risente:
5Tal me ’n vò se fermo, e ben sovente
     Soglio fermar, l’Appia mirando, il piede,
     E per spazio lunghissimo non crede
     L’occhio a sè stesso, e la stupita mente.
E mentre osservo le reliquie intorno,
     10Reliquie eccelse, che rimangon fuora,
     E fanno il Piano, e fanno il Colle adorno;
Oh quanto maestosa, esclamo allora,
     Quanto o bell’Appìa sarai stata un giorno,
     Se han maestà le tue ruine ancora!


VII289


Qui, dove il Cacciator, che mai non langue,
     Stende intorno le reti, e poi s’appiatta
     O di retro ad un sasso, o in quella fratta,
     Nulla o spine temendo, o morso d’angue;
5Qui fu la terra di Latino sangue

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     Dal valoroso Enea purpurea fatta,
     E con pallida fronte, e contraffatta
     Qui giacque Turno freddo tronco, esangue.
E se i Cultor di mezz’estate ignudi
     10Fendono il suolo: ecco in orribil vista
     Ossa, più che cimier, saette, e scudi.
Oh di regnare ingorda voglia, e trista!
     Mirate o Geni sanguinosi, e crudi,
     Per quale strada il vostro onor s’acquista!


VIII290


Eppur la cruda ingiuriosa Etate
     Al Lazio tutto acerbamente infesta,
     Di Tullio al nome ossequiosa arresta
     L’invido morso, e le sue forze usate.
5Vedi fra cento altere opre lodate,
     Che qui già furo, come innalza questa
     Sua mole in aria la superba testa,
     E sprezza i venti, e le procelle irate.
E il tempo stesso, che pietoso siede
     10Sull’alta cima, e contra sè le giura
     Dopo mill’anni, e mille eterna fede;
All’empio Antonio la crudele, e dura
     Morte rampogna, e al Ciel vendetta chiede
     Per l’estrema di Roma aspra sventura.


IX291


Nettuno un dì, che diroccate in parte
     Vide le Terme spaziose, e belle,
     Onde la grande Augusta oltre le stelle
     Andò chiara e superba in mille carte;
5A sè chiamando in la segnata parte
     Le minacciose torbide procelle,
     Queste riprese in volto irato, e quelle,
     Che avean sul lido l’ampie moli sparte.

[p. 339 modifica]

E non sia più, gridò, chi l’ardir cieco
     10Ai sacri avanzi stenda, e con sue risse
     A loro insulti in villan’atto, e bieco:
Quindi a firmare ciò, che allor prescrisse,
     Dal cupo uscendo imperial sul speco,
     Sull’alto scoglio il gran decreto scrisse.


X292


Lanuvio è questo, e quinci il forte e chiaro
     Stuol de’ Miloni, e de’ Mureni uscìo,
     E quel si egregio Imperadore, e pio,
     Cui tanti in Roma archi, e trofei s’alzaro.
5E benchè il Tempo invidioso, e avaro,
     Quasi con note di profondo obblìo,
     Con altro nome il nome suo coprìo
     Presso del Vulgo stolido, ed ignaro;
E non coprì, nè coprirà giammai
     10Quella, che i figli suoi sparsero intorno
     Altera luce d’infiniti rai.
E suo malgrado ella di giorno in giorno
     Bella s’avanza più di prima assai:
     L’Empio se ’l vede, e n’ha vergogna, e scorno.


XI293


Ah! Che giovò di centò Regi, e cento
     Mostrar l’effigio intorno intorno appese,
     E le colonne in lungo ordine stese,
     E gli scrigni dell’oro, e dell’argento?
5Se poi, bella Città, dall’ardimento
     Del Tempo ingordo nulla ti difese
     Nè alcun’orma di te serba il Paese,
     Onde si possa dir: quì fu Laurento
Forse il capo alzeresti al Ciel vicina,
     10Se una sorte scieglievi umìle, e bassa,
     Altrui lasciando il nome di Reina:
Così piccol tugurio il fulmin lassa

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     Illeso, e con immensa ampia ruina
     L’alte torri, ed i monti apre, e fracassa.


XII294


Così girassi men veloce, e presta,
     Cieca Fortuna, il tuo volubil legno;
     Deposte l’arti ed il fallace ingegno,
     Meno avversa a noi fossi, e men molesta:
5Che or non vedresti in quella parte, e in questa
     Giacere al suolo di vendetta in segno
     Il Tempio tuo, che pien d’ira, e di sdegno
     Tra l’erbe ognun co’ piedi urta, e calpesta.
Tu di giusta in sembiante a i voti arridi
     10Dell’Uomo, e poi di lui giuoco ti prendi,
     E sul grave suo danno esulti, e ridi.
Vè, come il Tempo il tuo costume ammendi,
     E come sprezzi tuoi lamenti, e gridi:
     Or vanne iniqua, e a serbar fede apprendi.


XIII


Qual misero Cultor, che al campo arriva
     Dopo fiera tempesta, e mira oppresse
     In un colla sperata arida messe
     L’acerbe poma, e la ferace oliva;
5Si batte l’anca il meschinello, e in riva
     Si pone al fonte, e di querele spesse
     Empiendo l’aere, pallide, e dimesso
     Volge le luci: e or va, dice, e coltiva.
Tali sarebbon all’aspetto, e ai pianti,
     10Se lo spirto tornasse, onde fu sciolto,
     Gli eroi Latini, che fiorito avanti;
Seppur fra le rovine il Lazio involto
     Mirando, ed archi e moli e templi infranti,
     Non si coprisser per pietade il volto.

[p. 341 modifica]


DOMENICO PETROSELLINI.295


Ecco la Donna, che dal Regno Franco
     Scende per l’Alpi al bel Panaro in riva,
     Che cinto della verde alga nativa
     Per gioia dalle spume alza il crin bianco.
5Vien, e seco conduce al lato manco
     La smarrita gran tempo e fuggitiva
     Pace, che mal reggendo in man l’uliva
     Si stringe timidetta al regio fianco.
Lo strazio il sangue e l’aperte ferute
     10Storia296 le mostra, e il lamentar rinnova
     Ancor non sazia di chiamar salute.
Ahi per l’amato Sposo, e per la nova
     Vicina Prole, e per la tua virtute
     Volgile un guardo, che a pietà ti mova!


CONTE VINCENZO PIAZZA.


I


Pastor correte a rinforzar le sponde,
     Ch’urta e fracassa il contrastar possente
     Del minaccioso orribile Torrente
     Gravido omai più di terror, che d’onde.
5Ma ognun s’arretra, e ognun ricerca altronde
     A sè lo scampo, e al comun mal consente;
     E chi sovra il Vicin l’alta Corrente
     Rovesciar pensa, e ’l rio pensiero asconde.
Chi la greggia ritira, chi di folti

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     10Ripari arma gli alberghi, e chi ne’ flutti
     I tronchi usurpa all’altrui rive tolti.
Fian da l’orrenda Piena al fin distrutti
     E alberghi e campi. Era pur meglio, o stolti,
     Alla comun salvezza accorrer tutti.


II


Incauto Peregrin, che i passi allenta
     Al mormorar d’un Rivo, e sen compiace,
     Obblìa il viaggio, sulla sponda giace,
     E appoco appoco alfin vi s’addormenta.
5Destosi poscia allor, che un tempo spenta
     E’ già nell’ombre la dìurna face,
     Trema pentito, e il rauco suon fugace
     Del Rio, che dilettollo, odia, e paventa.
Così me pure un lusinghiero invito
     10Dal buon cammin sorprese, e i sensi oppresse,
     Talchè lunga stagion posai su ’l lito.
Or che mi desto, e fra le tetre, e spesse
     Tenebre degl’inganni è il cuor pentito:
     Mi danno orror le mie delizie istesse.


GIO: DOMENICO PIOLI.297


Sacro Imeneo, per le tue faci accese
     Con tanto puro, e tanto eguale ardore
     Entro il sen di Camillo, e quel d’Agnese
     Di tutto il suo poter spogliasti Amore.
5Questo avean di valor le dolci offese
     Dell’aureo strale suo, tutto nel cuore
     Di questi amanti Eroi tua man distese,
     Trofeo di Fede di Costanza, e Onore.
Sicchè privato Amor d’armi, e d’orgoglio
     Per virtù di quest’Alme, or nè tuoi doni

[p. 343 modifica]

     Spera Gloria portar le Grazie in soglio:
E riveder per loro i Marc’Antoni
     Lepanto spera, i Mari il Campidoglio,
     I Pauli il Vatican, l’Orbe i Scipioni.


ANGELO POGGESI.


I298


Schifar le rose, ed abbracciar le spine,
     Non curare diletti, e porsi in guai,
     Un carcere bramar, che non ha fine
     Senza speranza d’uscir fuor giammai;
5Di serva in guisa aver reciso il crine,
     Bendar degli occhi i luminosi rai,
     Questi saranno i vanti e le meschine
     Glorie, se i Chiostri ad abitarne andrai,
Sconsigliata Donzella arresta il piede;
     10Ove ti porta un folle e van desìo?
     E chi mi toglie così ricche prede?
Sì disse il Mondo; ed ella affisa in Dio
     Con occhio fermo d’animosa fede,
     O sprezzò ’l sermon empio, o non l’udìo.


II


S’Io vi bendo, occhi miei, non vi dolete,
     Che sol vi privo di caduchi oggetti,
     Ed ho nell’Alma inestinguibil sete
     D’eterne gioie e sovruman diletti.
5S’io vi bendo, occhi miei, meco godete,
     Che son chiuse le porte a’ ciechi affetti,
     Che Ragion nel suo regno alta quiete
     Prova, ed ha i sensi al suo voler soggetti.
S’io vi bendo occhi miei, quest’atto mio

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     10Deh non prendete, occhi miei cari, a sdegno
     Che ciò fa chi ben crede e spera in Dio.
Io vi bendo occhi miei perchè discerno,
     Che così farò pago il gran desìo,
     C’ho di fissarmi nel bel Sole eterno.


III


Rapace mano un dì, che Amor dormìa,
     Del fianco gl’involò l’arco e gli strali,
     E desto il cattivel cercando gìa
     Delle care perdute armi fatali;
5Quando a caso passò Donna per via
     D’alte bellezze alle celesti eguali;
     Ei visto il doppio lume, onde ferìa,
     Repente a quel fulgor dispiegò l’ali.
Ivi lo spiritello, ivi s’ascosse,
     10E me, che del suo mal rider già vide,
     Con quei begli occhi a saettar si pose.
Poi disse: Or vanne, ed il tuo cuor s’affide
     A beffarsi d’Amor: tal fin propose
     In Cielo, in Terra a chi di lui si ride.


IV


Nobil gara tra’ Numi in Ciel s’accese
     Di coronar, Vittorio, il tuo gran merto:
     Io, disse Apollo, del mio laureo serto
     Il debb’ornar, che mai dolce arte apprese.
5A me convien, Cillenio anche a dir prese,
     Che lo rendei nel ben parlar sì esperto:
     A me, proruppe Astrea, che’l dubbio incerto
     Mar delle Leggi mie scorse e comprese.
Or via pongasi fine alla gran lite,
     10Replicò Apollo; niun di voi giù scenda,
     Ma pur si faccia in questa guisa: udite.
Per man del nostro alto Averanio ei prenda
     L’alma corona, che in lui tutte unite
     Son le bell’Arti, e ad imitarlo attenda.


V


Gli Astri più bei della superna mole

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     L’alta mia Donna al paragon vincea,
     Tanto era bella, e dentro e fuor splendea,
     Che per ridirlo altrui non ho parole.
5Or quali s’aggira intorno al mio bel Sole
     Fosco velo importuno, e nube rea?
     Ahi che non splende più come solea,
     E a tal vista la Terra e ’l Ciel si duole.
Ditemi, o Stelle, e qual funesto evento
     10Vestir le fece un sì lugubre ammanto?
     Ma nò; dirovvi or io ciò, che ne sento:
Una bella pietà del mio gran pianto,
     Una bella pietà del mio tormento,
     Vestir le fece un sì lugubre ammanto.


VI


Se cruda è Filli, e più s’inaspra al pianto,
     Al pianto mio, che romperebbe i marmi,
     Faccia l’estremo di sua possa, e s’armi,
     Di fierezza maggior, che mi dò vanto
5(Se quel Damone io son celebre tanto
     Per la virtù de’ miei magici carmi)
     Far sì, che di rigore or si disarmi,
     E ratta corra all’amoroso incanto.
Quà la portate, o miei possenti versi,
     10Ch’io tre volte all’altar giro l’immago
     Stretta a tre lacci di color diversi.
E tre volte le pungo il cuor con ago;
     Quà la portate, o miei possenti versi.....
     Ma fermate, ch’è giunta, ed io son pago.


GIO: BATTISTA RECANATI.


I


Come Nocchier, che in mezzo al Mar molt’anni
     Abbia passati in periglioso orrore,
     Se in porto avviene mai, ch’egli dimore,
     Gode in narrar gli scorsi acerbi danni;

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5Io così appunto, a cui con mille inganni
     Mille tempeste ha suscitato Amore,
     Appena giunto dal periglio fuore,
     Prendo diletto de’ passati affanni.
Ed il diletto poi tanto si avanza,
     10Che un pensiero entro me fomento e accoglio,
     Che ardire è pure, ed io nomo costanza.
Quindi ripien d’un forsennato orgoglio,
     Donde timor dovrei, tragge baldanza,
     E de’ miei mali sempre più m’invoglio.


II


Dolce Pensier, della mia mente figlio,
     Nodrito di dolore e di speranza,
     Veggio, che in te l’ardir tanto si avanza
     Quanto scorgi più grande il tuo periglio.
5Ed io ben folle al falso tuo consiglio
     Tutta di questo cuor dò la possanza,
     E benchè veggia l’empia tua baldanza
     A morte trarmi, a te pure mi appiglio.
E faccio come intrepido soldato,
     10Che di fuoco e di ferro in mezzo al risco
     Stassi costante del suo Duce a lato.
Ma se per secondarti opro, ed ardisco,
     Pensar dei, che dal mio pende il tuo fato,
     E t’è forza languir quando io languisco.


III299


Un dì lo Spirto, a cui forse dovea
     De’ sommi giri appartener la cura,
     Invidiosa al suo Fattor Natura
     Ruba, e ristringe entro mortale idea;
5E per non apparir del furto rea,
     Anzi trar lode dall’altrui fattura,
     In te, Donna, celò l’anima pura,
     E la gran luce anco celar credea.
Ma come, benchè in dense nubi avvolto,

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     10Pur del Sole a noi traspira il raggio,
     Che tenta in van calarsi invido il Cielo:
Così ristretto nel corporeo velo,
     Ad onta ancor del tuo mortal servaggio,
     Quello Spirto divin ti brilla in volto.


IV


Sola cura di Filli, e sol diletto,
     Lauro gentile in lieto suol sorgea,
     Con cui sè spesso misurar solea,
     E del pari con quel crescea ’l suo affetto.
5Di starsi impaziente a lei soggetto,
     Già sovra il paragone egli si ergea;
     Ed ella, ch’esser vinta pur godea,
     Di lui ’l crin si fregiava a suo dispetto,
Invidiò il vento tanto amore, e svelse
     10Dalle radici il ben cresciuto legno,
     E in un il cuor dal petto a lei divelse.
Apollo di pietade arse, e di sdegno,
     E luogo infra i suoi lauri in Pindo scelse
     Per trapiantarlo, il più onorato e degno.


DEL BALY GREGORIO REDI.


I300


Quella, che in man di Titiro concento
     Sì dolce e altier Lira immortal rendea,
     Da un ramo d’un allòr muta pendea,
     Se non quando suonar faceala il vento
5Eudosso di staccarla ebbe ardimento,
     Ed al tocco di lui sì rispondea,
     Che Roma, e Italia, e ’l Mondo tutto empiea
     Di maraviglia insieme e di contento.
 Ma poichè anch’egli cesse al fato, e meste

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     Ne gir ripiene di pietate, e d’ira
     10Le Muse alme di Lazio in negra veste;
Febo dolente, onde la dolce Lira
     Ad altrui di toccar speme non reste,
     Del Pastor la gittò dentro la pira.


II


Or ch’il rigor d’una Beltà tiranna
     Servì di Medicina al mal d’amore,
     E da un lungo crudel febbrile ardore
     Libera è l’alma, e ’l folle error condanna;
5Avvertite, occhi miei, se lei, che inganna
     Col finto riso, rincontraste fuore,
     Tosto correte ad avvisarne il cuore,
     Che per la libertà tanto si affanna
Ed in guardia di lui, perchè non ceda,
     10I pensieri più saggi indi ponete,
     Cui non il Senso, ma Ragion presieda.
Ma chiudetevi voi, se saggi siete,
     Perchè voi lei, ed ella voi non veda:
     Il periglio che v’è, voi lo sapete.


III


Con voce umìl per grazia, e per mercede,
     Dimesso in volto, e pieno di dolore,
     Qual pover Peregrino albergo chiede
     Cupido quel solenne ingannatore
5Ma appena dentro accolto egli si vede,
     Ch’ei sol le chiavi vuol tener del cuore;
     Ne scaccia la Ragion, perchè una sede
     Sola non può capir Ragione, e Amore.
E nuova v’introduce, e fiera gente,
     10Sospetto, gelosìa, timore, affanno,
     E ’l senso, perchè dia legge alla mente.
Deh non ricetti Amor chi con suo danno
     Non vuol veder cangiato immantinente
     L’Ospite mansueto in fier Tiranno.

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IV301


Chiudeva i vaghi lumi in dolce obblìo
     Quel, che dà legge agli astri, e imper’ai venti,
     Tacean l’aure d’intorno, e i molti argenti
     Teneva immoti ossequioso il Rio.
5Nel silenzio commun volea sol’io
     Al Fanciullo formar nenie innocenti,
     Ma d’un profano stil rime dolenti
     Potean turbare il sonno al nato Dio:
Quando, o Fidanna, udii quell’amoroso
     10Tuo canto del celeste esempio e norma,
     Ch’al Bambin lusingava il bel riposo.
Segui a cantare: e se per l’Uom riforma
     Quel sonno d’Eva il male, in suon pietoso
     Donna più saggia canti, acciocch’ei dorma.


DOTTOR FRANCESCO MARIA REDI.


I


Donne gentili, devote d’Amore
     Che per la via della Pietà passate,
     Soffermatevi un poco, e poi guardate
     Se v’è dolor che agguagli il mio dolore.
5Della mia Donna risedea nel cuore,
     Come in trono di gloria, alta onestate,
     Nelle membra leggiadre ogni beltate,
     E ne’ begli occhi angelico splendore.
Santi costumi, e per virtù baldanza,
     10Baldanza umìle, ed innocenza accorta,
     E fuor che in ben’oprar, nulla fidanza:
Candida Fè, che a ben amar conforta,
     Avea nel seno, e nella Fè costanza:
     Donne gentili, questa Donna è morta.

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II


Era disposta l’esca, ed il focile
     Per destar nel mio seno un dolce ardore:
     Sol vi mancava qualche man gentile,
     Che battesse la selce in mezzo al cuore.
5Quando Madonna alteramente umìle
     Ver me si fece in compagnia d’Amore;
     E colla bella man non ebbe a vile
     Trarmi dal sen qualche favilla fuore.
Ma sì ratto l’incendio allor s’apprese,
     10E sì vasto, e sì fiero, e sì stridente,
     Che tutto il seno ad occupar si stese.
Ah! che il fuoco d’Amor serpe talmente,
     Che quella stessa man, che in pria lo accese,
     A frenarlo dappoi non è possente.


III


Fra l’atre vampe d’alta febbre ardente
     Geme assetato entro all’odiose piume
     Fanciullo infermo; e si raggira in mente
     L’ingorde brame d’assorbirsi un fiume.
5Se quelle vampe mai restano spente
     Per virtù d’erba, o per pietà d’un Nume,
     Avvien che sano egli nè men rammente
     Del già bramato rio l’ondose spume.
Tal io, cui già di sitibondo ardore
     10Per la vostra beltà, Donna m’accese
     L’anima inferma il dispietato Amore:
Or che lo sdegno in sanità mi rese
     L’aride fibre, io non ho più nel cuore
     Quel desìo, che di voi già sì mi prese.


IV


Quasi un popol selvaggio, entro del cuore
     Vivean liberi e sciolti i miei pensieri;
     E in rozza libertade incolti, e fieri,
     Nè meno il nome conoscean d’Amore.
5Amor si mosse a conquistargli; e ’l fiore
     Spinse de’ forti suoi primi Guerrieri;

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     E de gl’ignoti inospiti sentieri
     Superò coraggioso il grande orrore.
Venne, e vinse pugnando: e la conquista
     A Voi, Donna gentil, diede in governo,
     A Voi, per cui tutte sue glorie acquista.
Voi dirozzaste del mio cuor l’interno;
     Ond’io contento, e internamente e in vista,
     L’antica libertà mi prendo a scherno.


V


Coltomi al laccio di sue luci ardenti
     Costei mi chiuse in rea prigione il cuore,
     E diello in guardia al dispietato Amore,
     Che di lagrime il pasce e di lamenti.
5Quanti inventò giammai strazi e tormenti
     D’un rio Tiranno il barbaro furore,
     Tutti ei sofferse in quel penoso orrore,
     Dove ancor mena i giorni suoi dolenti.
Nè scamparne potrà, perchè quel fiero
     10Amore ha posti a custodir le porte
     Tutt’i Ministri del suo crudo Impero.
E de’ suoi ceppi e delle sue ritorte,
     S’io ben comprendo interamente il Vero,
     Ha nascosto le chiavi in seno a Morte.


VI


Lunga è l’arte d’Amor, la vita è breve,
     Perigliosa la prova, aspro il cimento,
     Difficile il giudizio, e al par del vento
     Precipitosa l’occasione e lieve.
5Siede in la Scuola il fiero Mastro, e greve
     Flagello impugna al crudo uffizio intento;
     Non per via del piacer, ma del tormento,
     Ogni discepol suo vuol, che s’alleve.
Mesce i premi al gastigo, e sempre amari
     10I premi sono, e tra le pene involti
     E tra gli stenti, e sempre scarsi e rari.
E pur finita è l’empia Scuola, e molti
     Già vi son vecchi: e pur non v’è chi impari,
     Anzi imparano tutti a farsi stolti.

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VII


Negli occhi di Madonna è sì gentile
     Talor lo sdegno e sì vezzoso appare,
     Ch’egli rassembra un increspato Mare
     Dall’aura dolce del novello Aprile.
5Se questo Mare alteramente umìle,
     L’onde movendo orgogliosette e chiare,
     Da sè rispinge in vaghe fogge, e care,
     Ciò, che in lui si posò d’immondo e vile:
Tal di Madonna il vezzosetto sdegno
     10D’ogni Amante respinge ogni desire,
     Che di sua purità le sembr’indegno:
Ma a ben’anco inferocirsi all’ire,
     Sollevando tempeste ad alto segno,
     Se sommerger fia d’uopo un folle ardire.


VIII


Aperto aveva il Parlamento Amore
     Nella solita sua rigida Corte,
     E già fremean sulle ferrate porte
     L’usate guardie a risvegliar terrore.
5Sedea quel superbissimo Signore
     Sovra un trofeo di strali, e l’empia Morte
     Gli stava a fianco, e la contraria sorte,
     E ’l sospiro e ’l lamento appo il dolore.
Io mesto vi fui tratto e prigioniero:
     10Ma quegli, allor che in me le luci affisse,
     Mise un strido displetato e fiero;
Poscia egli aprì l’enfiate labbra, e disse:
     Provi il rigor costui del nostro impero;
     E il Fato in marmo il gran decreto scrisse.


IX


Ameno è il calle, e di bei fiori adorno,
     Che guida all’antro del gran mago Amore.
     Spiranvi ogn’or soavità d’odore
     Aurette fresche a più d’un fonte intorno.
Ma giunto appena a quel mortal soggiorno,
     O volontario, o traviato un cuore,

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     E la noia vi trova ed il dolore,
     E con la noia e col dolor lo scorno.
Lamie, Strigi, Meduse, Arpìe, Megere
     10Se gli avventano al crine, e in sozzi modi
     Lo strazian sì, che forsennato ei pere.
E s’ei non pere, con incanti e nodi
     Lo costringono a gir tra l’altre fiere
     Ne boschi a ruminar l’empie lor frodi.


X


Dentro il mio seno addormentato Amore
     In un dolce letargo era sepolto;
     Ma strepitosa la beltà d’un volto
     M’entrò per gli occhi, e trapassò nel cuore.
5E vi feo così strano alto romore
     Vedendol quivi tra le piume avvolto,
     Ch’ei fu ben tosto da quel sonno sciolto,
     E n’ebbe sdegno, e ne serbò rancore
Non contro lei, ma contro me, che sono
     10Dell’albergo il Signore; e già suo strale
     Mi drizza al fianco, e già ne sente il suono.
Ma voi, Donna, cagion del mio gran male,
     Difendetemi almen per vostro dono;
     Che natural mia forza a me non vale.


XI


Estinguer mai non credo il grande ardore,
     Che nel mio sen barbaramente accese
     Quel dispietato incendiario Amore,
     Che me per scopo alla sua rabbia prese.
5Se l’esche ardenti allontanai dal cuore,
     Più sfogato l’incendio al cuor s’apprese
     E se vi sparsi lagrimoso umore,
     Non rintuzzollo, anzi più fiero il rese.
Se fuggir procurai dall’empio luoco,
     10Dove nacque l’incendio, allor m’avvidi
     Che con me stesso io trasportava il fuoco
E se in te, crudo Amor, con alti stridi
     Cerco muover pietade, e tu per giuogo
     M’accresci il male, e poi di me ti ridi.

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XII


Ape gentil, che intorno a queste erbette
     Susurrando t’aggiri a sugger fiori,
     E quindi nelle industri auree cellette
     Fabbrichi i dolci tuoi grati lavori;
5Se di tempre più fine e più perfette
     Brami condurli, e di più freschi odori,
     Vanne a i labbri e alle guance amorosette
     Della mia bella e disdegnosa Clori.
Vanne, e quivi lambendo audace, e accorta,
     10Pungila in modo, che le arrivi al cuore
     L’aspra puntura per la via più corta.
Forse avverrà che da quel gran dolore
     Ella comprenda quanto a me n’apporta
     Ape vie più maligna, il crudo Amore.


XIII


La beltà di Madonna entro il mio cuore
     Passò così guerriera, e sì lo prese,
     Che senza ch’ei potesse far difese,
     Vi stabilì la Sgnoria d’Amore.
5Quel tirannico allora empio Signore
     D’ogni bene a spogliarlo in prima attese;
     E poscia un fuoco sì crudel v’accese,
     Che dura ancor quel maledetto ardore.
E perchè l’Alma a ribellar non pensi,
     10Tutte sbandì le sue potenze, e lei
     ommise in guardia alla follìa de’ sensi:
E con modi superbi, indegni, e rei
     La costrinse a pagar tributi immensi
     Di sospiri, di lagrime, e d’omei.


XIV


Oggi il giorno dolente, e questa è l’ora
     Che Tu fosti, o Signor, trafitto in Croce
     Questo è il momento, in cui per duolo atroce
     Dal sacro corpo tuo l’Alma uscì fuora.
5In questo stesso le tue grazie implora
     Il mio lungo fallir con umil voce:

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     Corri, pietoso Dio, corri veloce,
     E il mio pensier per tua pietà rincora.
O mio Dio, tu ben sai, che mille volte
     10In me svegliasti il pentimento, e poi
     Ebbi a nuovo peccar l’opre rivolte.
Or tu Signor, che il mio pentir pur vuoi,
     Mentre io combatto le mie voglie stolte,
     Fermalo nel mio cuor co’ chiodi tuoi.


XV


Oltre l’usanza sua un giorno Amore
     Sembrò farsi ver me tutto pietoso;
     E mirando le piaghe del mio cuore
     Taci, mi disse, che averai riposo.
5Io tacqui, e taccio; ed il mio gran dolore
     Nel profondo del cuor tengo nascoso,
     E taccio in modo, che dal petto fuore
     Un sol sospiro tramandar non oso.
E tacerò; ma pure alfin vorrei,
     10Dopo un sì lungo e tacito martire,
     Il riposo veder a’ giorni miei,
Temo, che il falso Amor volesse dire
     Con empio inganno, che riposo avrei
     Non dalla Donna mia, ma dal morire.


XVI


Era il primiero Caos, e dall’oscuro
     Grembo di lui ebbe il natale Amore,
     Che dissipò quel tenebroso orrore,
     Onde le belle idee prodotte furo.
5Tal nella mente mia fosco ed impuro
     Stavasi in prima un indistinto orrore,
     Quando Amor pur vi nacque, e al suo splendore
     Tosto io divenni luminoso e puro.
Natovi Amore, egli inspirò la mente
     10Al desìo del sovrano eterno Bello,
     Che solo, ed in sè stesso ha la sorgente.
E perchè sempre io fossi intento a quello,
     Sempre voglioso, e viè più sempre ardente,
     Fe’ vedermene in voi, Donna, il modello.

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XVII


Donna gentil, per voi mi accende il cuore
     Quegli non già, che di fralezza umana
     E d’ozio nacque, e che vien detto Amore
     Da gente sciocca lusinghiera e vana;
5Ma quell’eterno, che di puro ardore
     L’animo infiamma, e d’ogni vizio il sana,
     E lo rinfranca, e dona a lui vigore,
     Per gire al Cielo, e l’erte vie gli spiana.
Ammiro in prima il vostro Bello esterno,
     10Trapasso poscia a vagheggiare ardito
     Di vostr’Alma immortale il pregio interno.
Quindi fattomi scala, e al Ciel salito,
     Volgo il pensiero a contemplar l’eterno,
     Che sol trovasi in Dio, Bene infinito.


XVIII


Chi è costei, che tanto orgoglio mena
     Tinta di rabbia, di dispetto, e d’ira,
     Che la speme in amor dietro si tira,
     E la bella pietà stretta in catena?
5Chi è costei, che di furor sì piena
     Fulmini avventa quando gli occhi gira,
     E ad ogni petto, che per lei sospira,
     Il sangue fa tremar dentro ogni vena?
Chi è costei, che più crudel che Morte,
     10Disprezzando ugualmente Uomini e Dei,
     Muove guerra del Ciel fin sulle porte?
Risponde il crudo Amor: Questa è colei,
     Che per tua dura inevitabil sorte
     Eternamente idolatrar tu dei.


XIX


Gran misfatti commessi aver sapea,
     Scapestrato Fanciullo, il cieco Amore,
     E della Madre a gran ragion temea
     Il provato più volte aspro rigore.
5Gittossi in bando, ed alla strada, e fea
     Con mille altri Amoretti il rubatore;

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     E vi spogliò di quanto Bene avea
     Il pellegrino mio povero cuore.
Altro Ben non avea, che in libertade
     10Viver tranquillo, ed ei gliel tolse, e volle
     Farmi servo in catena a una Beltade;
A una Beltade si proterva, e folle,
     Che dal seno ogni speme ognor mi rade,
     E fin lo stesso lacrimar mi tolle.


XX


Colle sue proprie mani il crudo Amore
     Barbaro Notomista il sen mi aperse:
     E tratto fuora il povero mio cuore
     Gl’aspri malori suoi tutti scoperse.
5Vide, che un lento, e sempre acceso ardore
     Tutte le fibre di velen gli asperse;
     E vide secche, e totalmente sperse
     Le due sorgenti del vitale umore.
Vide la piaga, ch’altamente in lui,
     10Donna, faceste tanto acerba, e tanto;
     Quindi rivolto alli Ministri sui,
Disse: è miracol mio, è mio gran vanto,
     Forza è dell’arte mia, come costui
     Abbia potuto mai viver cotanto.


XXI


Sovra un trono di fuoco il Dio d’Amore
     Stava sedendo, e vi tenea sua Corte,
     E spalancate al Tribunal le Porte,
     Spirava orgoglio in maestoso orrore:
5Ordigni di barbarico rigore
     Da quei muri prendean, lacci e ritorte,
     E mille inciampi di contraria sorte,
     E mille inganni di quel reo Signore.
Curioso desìo colà mi spinse
     10Sol per vedere, e senz’altro pensiero;
     Ma un fiero laccio il folle piè m’avvinse.
E n’ebbi un duolo sì diverso e fiero,
     Che dentro al cuore ogni potenza estinse,
     Sì di me prese il crudo Amor l’impero.

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XXII


Nel centro del mio seno il nido ha fatto,
     E poste l’uova sue l’alato Amore:
     Quivi le cova, e già del guscio fuore
     Cento nuovi Amoretti escono a un tratto.
5Pigola ognun di loro, e va ben ratto
     Il rostro a insaguinar sopra il mio cuore;
     Ed io ne sento un così reo dolore,
     Che ne son per angoscia omai disfatto.
Altri Amoretti intanto escon dall’uova,
     10E con quei primi a pascolar sen vanno,
     E ’l mio cuor non iscema, anzi s’innova.
Grifagno Amor, barbaro Amor tiranno!
     Gran barbarie è la tua, che chi la prova,
     Prova senza morire eterno affanno!


XXIII


Quell’alta Donna, che nel cuor mi siede,
     E che de’ miei pensier regge il governo,
     È così bella, che del Bello eterno
     Ella sola quaggiù può render fede.
5Nol puote immaginar chi non lo vede
     Qual sia degl’occhi lo splendore esterno;
     Ma vie più caro è quel candore interno,
     Che nell’alma purissima risiede.
Oh gran bontà dell’increato Amore,
     10Ch’un’anima sì bella a me scoprìo,
     Che a venerar mi chiama il suo Fattore!
Or se tanto s’appaga il desir mio
     Nel mirar lei, e m’è contento il cuore,
     Che sarà in Cielo in contemplare Iddio?


XXIV


Già la civetta preparata, e il fischio,
     Amore aveva, ed il turcasso pieno
     Di verghe infette di tenace vischio,
     E d’amoroso incognito veleno.
5E perchè fosse ai cuor più grave il rischio,
     Lacci, e zimbelli racchiudea nel seno,

[p. 359 modifica]

     E reti d’un color cangiante e mischio
     Tutto lo zaino suo ingombro avièno.
E quindi al bosco ad uccellare uscito
     10Il malvagio, e perverso uccellatore,
     Prese di cuori un numero infinito.
Altri uccise di fatto, altri in orrore
     Chiuse di ferrea gabbia; e a questi unito
     Or piange, e piangerà sempre il mio cuore.


XXV


Vanarello mio cuor, che gir’intorno
     Qual notturna farfalla a un debol lume,
     Vi lascerai quelle superbe piume,
     Onde ten vai sì follemente adorno.
5Vilipendio per te, vergogna e scorno
     In quel fosco splendor fia, che s’allume,
     E se non hai più che propizio un Nume,
     Veggio nascer per te l’ultimo giorno.
Volgiti a miglior luce, e guarda al Cielo,
     10Che ognor ti mostra sue bellezze eterne,
     E a sè ti chiama con pietoso zelo:
E pur quelle lassù bellezze esterne
     Altro non sono, che un oscuro velo
     Di quel Bello immortal, ch’entro si scerne.


XXVI


Di fitto verno in temporal gelato
     Trovai Amor mezzo dal freddo estinto,
     Ignudo, scalzo, e di pallor dipinto,
     Senza la benda, e tutto spennacchiato.
5E vedendolo allora in quello stato
     Da una sciocca pietà preso, e sospinto,
     Io m’era quasi a ricettarlo accinto
     Del tiepido mio sen nel manco lato.
Ma quegli altiero e di superbia pieno,
     10Rivolto in me con gran dispetto il guardo,
     Di focoso m’asperse atro veleno:
Senti, poi disse, come avvampo, ed ardo
     In mezzo al giaccio, e come fuoco ho in seno;
     E via sparendo, mi colpì d’un dardo.

[p. 360 modifica]


GIACOMO RICCATI.302


Quel, che per tante vene, e non invano,
     Sincero Insubro sangue in te deriva,
     Col puro sangue Carno e col Germano
     Misto, o Sposa felice, or si ravviva.
5Pensa agli Avi comuni, in cui fioriva
     Vigor di senno e gagliardìa di mano:
     Pensa alle Donne illustri, immagin viva
     Di prudenza, e del sesso onor soprano.
Mira quei, che cortese il Ciel ti rende
     10Genitori novelli, e la modesta
     Virtù, che in lor fra le delizie splende.
Poi dì allo Sposo, e in lui lo sguardo arresta:
     Oh quanto ad emular da noi si prende,
     Oh quanto da imitare a i figli resta!


ELENA RICCOBONI.


Di sdegnoso furor tutto ripieno
     Stavasi Amor dal mio dispregio offeso:
     Bramò vendetta, e per ferirmi il seno
     Sin’or più di un’aguato al cuor mi ha teso.
5Ma invano uscìa lo stral dall’arco teso,
     Che spuntato cadea sovra il terreno:
     L’Arcier vedendo il suo bersaglio illeso,
     Più fiero allor provò d’ira il veleno.
Tutto dispetto alfin spezzò quell’armi,
     10Indi togliendo ad Imeneo la face,
     Prese da quella il fuoco, onde avvamparmi.
Arrise all’opra il Nume; e fatto audace,
     Disse Amore, io potrò pur vendicarmi:
     Mi accese il crudo, e un tal ardor mi piace.

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GIO. BATTISTA RICHERI.


I


Io già non t’offro indiche gemme ed oro,
     Che ricca sorte il Cielo a me non diede;
     Ma t’offro eterno amore, eterna fede,
     E di carmi immortali ampio tesoro.
5Questi sempre vivranno; e tu per loro,
     Cintia n’andrai di chiara fama erede;
     E di quella beltà, che in te risiede,
     Il grido udrassi ognor dall’Indo al Moro:
Al par di quello della bella Argiva,
     10E di mill’altre più famose e mille
     Fia, che ’l tuo nome eternamente viva.
Nè già bramo da te, che a mie faville
     Arda il tuo cuor: ma sol, che acerba e schiva
     Non mi celi il fulgor di tue pupille.


II303


Di Giove intorno al vasto globo io miro
     Quattro stelle ora sceme, ed or crescenti
     Che nell’alta del Ciel parte s’uniro
     Di quel gran Mondo a illuminar le genti.
5Nè col folle pensiero io già deliro
     Immaginando colassù Viventi,
     Cui riflettan quegli astri erranti in giro
     Del Sol, quando s’asconde, i rai lucenti,
Veggiam pur, se la Luna in Cielo appare,
     10Che sola a noi splende nell’ombra oscura,
     Non ai boschi insensati, ai monti, al mare.
Così ad altri Viventi arde la pura
     Luce di quelle argentee faci e chiare;
     Che a vuoto oprar non seppe mai Natura.

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III304


Là di Saturno al denso globo intorno
     Del gran Fabbro divin l’eterna cura
     Vasto cerchio formò, che nell’oscura
     Notte d’aureo splendor fiammeggia adorno;
5E cinque Lune, a riparar del giorno;
     Gli estinti lumi, allor che il Ciel s’oscura
     Egli ripose in giro, onde la pura
     Luce a quello si sparga ampio soggiorno.
Perchè lontano il Sol così vivaci
     10A quel Cielo non vibra i raggi ardenti,
     Egli tante v’accese ardenti faci
Fissa in opre sì belle i guardi intenti,
     Mira quegli astri luminosi, e taci
     Tu, che nieghi a quel Mondo i suoi Viventi.


IV305


Se nel notturno orror, Cintia, ti prese
     Giammai desìo di rimirar le stelle,
     Tu le credesti picciole facelle
     Per vaghezza dei guardi in Cielo appese.
5Eppure l’ererno Creatore palese
     Far volle a noi la sua grandezza in quelle;
     Che non meno del Sol vivaci e belle
     Formolle, e d’immortal fiamma le accese.
Nè quei globi sì vasti, onde riluce
     10L’ampio vuoto del Ciel, ei fè per noi,
     Che debil ne veggiamo e scarsa luce;
Ma ogni astro è un Sole, che co’ raggi suoi
     Altri mondi rischiara, e il giorno adduce
     A quante genti immaginar ti puoi.


V306


Già gran madre d’imperi ora sen giace
     Donna reale abbandonata e sola:

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     Gloria non più, solo ricerca pace,
     E pace ancora il suo destin le invola.
5Marte con sanguinosa accesa face
     A lei d’intorno si raggira e vola;
     Piangendo soffre ella i suoi danni e tace,
     Rimirando se alcun pur la consola.
Annibale, dal marmo in cui ristrette
     10Son tue membra, alza il capo, e a lei rivolto
     Lieto rimira alfin le tue vendette.
Ma benchè suo nemico, un nembo accolto
     Scorgendo in lei di tante empie saette,
     Spero vederti lagrimoso il volto.


VI


Per nero fiume, che sulfurea l’onda
     Volge tra sassi, sovra fragil barca,
     Ov’è nocchiero Amor, piangendo varca
     Catenato il mio Spirto all’altra sponda.
5Ahi qual Terra m’aspetta atra, infeconda
     D’ogni vaghezza, e d’ogni pregio scarca!
     Ivi l’aria d’orrore ingombra, e carca,
     Ivi sol crudo affanno. e pianto abbonda.
Già venni all’altra riva. Ecco s’attiene
     10L’àncora al fondo: io scendo, e già d’Averno
     Premo col piè le disperate arene.
Ma fugge il tetro orror, e più non scerno
     Fiume, barca, nocchier, lido, e catene:
     Pur sono ancor nell’amoroso inferno.


VII307


Del vago Adon, per gelosìa di Marte,
     Spento Vener piangea l’infausto amore;
     Ma non porgean conforto al suo dolore
     Tante lagrime e tante indarno sparte.
5Quando ella vide il suo gentil Pastore
     Scolto per te, Parodi, e sì dall’arte

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     Finto il volto divin, che in ogni parte
     Più vago era di quel, ch’avea nel cuore:
Frenando allora il pianto suo, risolse
     10Dar vita al freddo sasso, e l’immortale
     Fuoco dal Ciel per animarlo tolse.
Già gl’infondea nel sen spirto vitale;
     Ma la mano arrestò, ch’ella non volse
     La bell’opra immortal render mortale.


VIII308


Questa è colei, che abbandonata e mesta
     Sull’erme piagge dell’alpestre Nasso
     Piacque a Lenèo, che nuovo amante al lasso
     Spirto di lei sedò la ria tempesta.
5Ma s’è pur dessa come immobil resta?
     Come non volge i rai, nè muove il passo?
     E non parla, e non spira? Ah, ch’è di sasso,
     E tua grand’opra, o gran Parodi, e questa.
Da qual parte del Ciel l’altra, e serena
     10Fronte togliesti, e tai bellezze e tante,
     Onde cosa moral rassembra appena?
Oh! se tal d’Arìanna era il sembiante,
     Già non avrebbe in sull’ignuda arena
     Pianto la fuga dell’ingrato Amante.


IX


Empio tiranno Amore, io dissi un giorno,
     Invan sei contro me di strali carco:
     Gira pur la tua face all’alma intorno,
     Che vedrai chiuso alle tue fiamme il varco.
5Non fa l’incauto cuor più mai ritorno
     A quei barbari lacci, ond’ora è scarco:
     Colmo pur di dispetto, e pien di scorno
     Gitta la rea faretra, e spezza l’arco.
Rivolto a me diss’ei: Nel cuor tu serbi
     10Orgoglio così fier, perchè non senti
     Più vivo il duol dei primi strali acerbi.

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Ma se mirar vuoi come l’arco avventi
     Nuove saette, i lumi tuoi superbi
     Volgi di Nice alle pupille ardenti.


X


Gonfio torrente, di palustri canne
     Cinto le chiome, arresta il corso all’onda,
     Arresta il corso, ond’io ti varchi, o vanne
     Più lento: Egle m’aspetta all’altra sponda.
5E benchè nato in rozze erme capanne
     Farò, che alle tue laudi Eco risponda,
     Onde tinto d’invidia il Tebro andranne,
     Il Mincio, e Sorga, e quel ch’Etruria inonda.
Deh se giammai per vaga Ninfa ardesti,
     10Ch’ardono ancor nel freddo letto i fiumi,
     Non sien tuoi flutti alle mie fiamme infesti.
Ma tu non m’odi, e teco selve e dumi
     Porti fuggendo. Ah se per me non resti,
     Resta almeno a mirar d’Egle i bei lumi!


XI


Cinto il crin di gramigne e di ginestre
     L’ispido mio Caprar si ringalluzza
     D’intorno a Fille, e il rozzo ingegno aguzza,
     E snello fassi come un Fauno alpestre.
5Nè vede il folle di color terrestre
     Tinto il suo ceffo, e non sa quanto ei puzza:
     Deh, Fille, un tant’orgoglio omai rintuzza,
     Ond’egli disperato s’incapestre.
So che di lui ti ridi, e col sogghigno
     10Apertamente all’alire Ninfe il mostri;
     Ma sappia anch’egli il suo destin maligno.
Digli, che di rossore omai s’innostri,
     Mirando al fonte il volto suo ferrigno:
     Filli non nacque a darsi in preda a’ mostri.


XII


Allor che Dio nel memorabil giorno
     L’Universo creò, nel centro pose
     Dell’ampia sfera il Sol di luce adorno,

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     E virtute attrattrice in esso ascose.
5Per abbellir questo mortal soggiorno
     L’aurate Stelle in alto al guardo espose,
     E i solidi Pianeti al Sole intorno
     In distanze ineguali egli dispose.
A questi allor che di sua mano usciro
     10Impresse retto nel gettarli il moto,
     Ma per brevi momenti indi il seguiro;
Perchè, attratti dal Sol nel centro immoto,
     Forman, piegando il vasto corso in giro,
     Eterna elisse nell’immenso vuoto.


XIII


Giace gran Donna; di color di morte
     Tinta le guance, e lagrimosa il volto,
     E al suol rivolge le pupille smorte,
     Per non mirar quanto il destin le ha tolto.
5Languido cade il braccio, che sì forte
     Il Mondo a soggiogar fu pria rivolto;
     Gli antichi esempi di volubil sorte
     L’ira del Cielo in lei tutti ha raccolto.
Passaggier, che la miri, or dimmi: è questa
     10Quella che fu nella trascorsa etate
     Chiara per tante memorande gesta?
Ah! tu piangi, chè in lei le già passate
     Glorie più non ravvisi, e sol le resta
     Il misero piacer di far pietate.


XIV


Entro a povera culla Iddio sen giace,
     E tra fieri tumulti ha in guerra il cuore,
     Che a turbargli del sonno anche la pace
     S’arma di rimembranze aspre il dolore.
5Sogna, che dietro ad un piacer fugace
     Là corre l’Uom ’ve il guida un cieco Amore,
     E benchè la ragion mostri fallace
     Il suo cammino, ei vuol seguir l’errore.
Quanto, e per chi soffrire a lui conviene
     10Gli dimostra il pensiero, e varie forme

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     Rinnovarsi nel Mondo ognor sua morte.
Ah! se invece di pace acerbe pene
     Avvien, ch’il sonno a lui nimico apporte,
     Deh! chi risveglia il mio Signor, che dorme?


QUIRICO ROSSI.309


Io nol vedrò, poichè il cangiato aspetto
     E la vita, che sento venir meno,
     Mi diparte dal dolce aer sereno,
     Nè mi riserba al sanguinoso obbietto.
5Ma tu, Donna, vedrai questo diletto
     Figlio, che stringi vezzeggiando al seno,
     D’onte di strazi e d’amarezza pieno
     Spietatamente lacerato il petto.
Che fia allor, che fia, quando tal frutto
     10Corrai dall’arbor sospirata? Oh quanto
     Si prepara per te dolore e lutto!
Così largo versando amaro pianto
     Il buon vecchio dicea: con ciglio asciutto
     Maria si stava ad ascoltarlo intanto.


BERNARDINO ROTA.


I310


Oh che begli atti in dolce umil sembiante
     Fur quei che io vidi, e non potei morire,
     Quando fu vista dal bel corpo uscire
     L’alma, ch’ebbe dal Ciel grazie cotante!
5Oh che nuove parole accorte e sante
     Intesi allor, che fur certo ad udire
     Gli Angeli in terra! E ben parve il morire

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     Gioia e dolcezza da quel giorno avante.
Soavemente i begli occhi volgea
     Placida e lieta, e nel fiorito viso
     Onesto fuoco in sulla neve ardea;
E scoprendo le perle un picciol riso,
     A me rivolta in be’ modi dicea:
     Godi, ch’io veggio aperto il Paradiso.


II 311


Questa scolpita in oro amica sede,
     Che santo amor nel tuo bel dito pose,
     O prima a me delle terrene cose
     Donna, caro mio pregio, alta mercede,
Ben fu da te servata, e ben si vede,
     Che al comune voler sempre rispose
     Dal dì, che ’l Ciel nel mio pensier t’ascose,
     E quanto potè dar, tutto mi diede.
Ecco ch’io la t’involo, ecco ne spoglio.
     Il freddo avorio, che l’ornava, e vesto
     La mia più assai, che la tua mano esangue.
Dolce mio furto, finchè viva, io voglio
     Che tu stia meco; nè ti sia molesto,
     Ch’or di pianto ti bagni, e poi di sangue.


III


In lieto e pieno di riverenza aspetto,
     Con veste di color bianco e vermiglio,
     Di doppia luce serenato il ciglio,
     Mi viene in sogno il mio dolce Diletto.
Io me gl’inchino, e con cortese affetto
     Seco ragiono, e seco mi consiglio,
     Com’abbia a governarmi in quest’esiglio,
     E piango intanto, e la risposta aspetto.

[p. 369 modifica]

Egli m’ascolta fisso, e dice cose
     10Veramente celesti, ed io l’apprendo,
     E serbo ancor nella memoria ascose.
Mi lascia al fine, e parte, e va spargendo
     Per l’aria nel partir viole e rose;
     Io gli porgo la man, poi mi riprendo.


IV


Giaceasi donna languidetta e stanca,
     Quasi notturno fior tocco dal Sole;
     E tal era a veder, qual parer suole
     Raggio di Sol, che a poco a poco manca.
5E l’una e l’altra man gelata e bianca,
     Baciava intanto, e non avea parole,
     Fatto già pietra, che si muove e duole
     Sospira piange trema arrossa imbianca;
E baciando bagnava or questa or quella
     10Col fonte di quest’occhi, e co i sospiri
     L’alabastro asciugava intorno intorno.
Partì quest’alma allor per gir con ella,
     Sperando di dar fine a’ miei martiri,
     Poi tornò meco a far tristo soggiorno.


V


Qual uom, se repentin folgor l’atterra,
     Riman di se medesmo in lungo obblìo,
     Dal tuo ratto sparir tal rimas’io
     Legno dannato a fuoco, arida terra.
5Che la prigion non s’apre, e non si sferra
     Il mezzo, che restò del viver mio
     Fulminata la speme, e col desìo
     Ogni mia gioia ogni mio ben sotterra?
In cotal guisa chi può dir, ch’uom viva!
     10Oh manca, oh tronca vita! Eppur pietade
     Dovrìa trovar chi l’esser tiene a sdegno.
Così calcata serpe parte è viva,
     Parte morta si giace, e così legno,
     Tocco in selva dal Ciel, pende e non cade.

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GIULIANO SABBATINI.


I


Bambino ancor d’accorgimento e d’anni,
     D’un mirto all’ombra io mi sedeva un giorno,
     Quando dal nido suo battendo i vanni
     Vago augellin venne a scherzarmi intorno.
5Or sul crin mi sedeva, ed or su i panni,
     Or si partiva, ed or facea ritorno;
     Ma s’io stendea la man, fuggìa, d’inganni
     Temendo al primo suo dolce soggiorno.
Quella sua fuga allor m’impresse in seno
     10Di libertà cotal desìo, che poi,
     N’andai sempre geloso, altero, e pieno.
Questa mia libertade or corre a Voi,
     Signora; e mentre il fasto suo vien meno,
     Offre ai vostri bei lacci i piedi suoi.


II312


Ov’è la saggia nobile Donzella,
     Che fea più chiaro a questo Cielo il giorno?
     Ov’è quel lume di virtude, adorno,
     Che più che in altra mai, splendeva in ella?
5Tornato è forse alla natìa sua stella,
     Donde già scese a far tra noi soggiorno?
     Nò; perch’io veggio ancor splender d’intorno
     Sua vaga luce oltre le belle bella.
Ma il Mondo d’aver più sua conoscenza
     10Degno non era; e sì gentil fattura
     Adornar no ’l dovea di sua presenza.
Onde l’eterno Amor fuori dell’oscura
     Valle la trasse in luogo, ove Innocenza
     Nascosa è sì, ma non men bella e pura.

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III313


Mentre un dì mirossi al fonte
     Del mio Dio la bella Amante,
     Vide il collo il sen la fronte
     Farsi bruni in un istante;
5Quindi volta all’Orizzonte
     Alzò gli occhi al Sol davante,
     E poi disse a quanti e a quante
     Incontrò per valle, o monte:
Non guardate, ch’io sia bruna,
     10Che fin’or candida fui,
     Qual la vaga argentea Luna;
Ma il mio Sol co’ raggi sui
     Sì mi tinge, e sì m’imbruna,
     Perch’io piaccia solo a lui.


ANGEL ANTONIO SACCO.


I


Mio Dio, quel cuor, che mi creaste in petto,
     Per l’immenso amor vostro è angusto e poco,
     Nè può in carcer sì breve, e sì ristretto
     Starsi tutto racchiuso il vostro fuoco.
5Pur che poss’io, se all’infinito oggetto
     Non è in mia man di dilatare il loco?
     Più vorrei, più non posso. Ah mio diletto,
     Voi per voler, voi per potere invoco.
Più vorrò, più potrò, se voi vorrete:
     10Ma poi che prò, se ’l vostro merto eccede
     D’ogni voler, d’ogni poter le mete?
Deh me guidate alla beata sede!
     E colassù di ritrovar quiete
     Il mio poter nel voler vostro ha fede.

[p. 372 modifica]


II


Perchè mai tutte l’onde a poco a poco
     Drizzan gli umidi passi a l’onde amare,
     E la fonte natìa prendosi a giuoco?
     Sol per formar di mille fiumi un mare.
5Perchè stride la fiamma, e perchè appare
     Inquieta mai sempre in ogni loco,
     Finchè ha meta al suo piè sfere più chiare?
     Sol per formar di mille vampe un fuoco.
Perchè in un sol dolor tanti dolori
     10Tu solo d’adunar ti prendi il vanto,
     O Redentor dell’alme, amor de’ cuori?
Perchè il mio cuor delle tue pene accanto
     Accenda nel suo gel celesti ardori,
     E mi tragga dagli occhi un mar di pianto.


ABB. ANTONIO MARIA SALVINI.


I


Ah! crudele Fanciul, che allegro in vista,
     Placido, e mansueto ti dipigni,
     E con dolci allettando atti benigni
     Celi sotto un bel volto anima trista;
5Se acerba doglia è al tuo diletto mista
     Se ridi all’altrui pianto ovver t’insegni,
     Se son gl’inganni tuoi famosi e insigni,
     Perchè il tuo nome tanta fede acquista,
Che qual Nume t’adora almo e presente,
     10E a te ricorre, e a te concara i cuori,
     E te fa suo Signor la vana gente?
Chi Amor ti disse era del senno fuori;
     Dovea dirti anzi error di nostra mente,
     E’l più fiero di tutti altri furori.


II


Tu, che mai fatto, il Tutto sempre fai,
     E ciò che festi già reggi, e governi:

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     Tu, sotto il di cui piè fermi, ed eterni
     Soggiace il Tempo, il Fato, il Sempre, il Mai;
5Tu dai l’ombre alla notte, al giorno i rai,
     Tu il Mondo attempi, e ’l Paradiso eterni;
     Tu nè visto, nè scerto, e vedi, e scerni,
     E non mai mosso, muovi, e moverai.
Tu tutt’i luoghi ingombri, e non hai loco,
     10Tu premi i Giusti, e tu castighi i Rei,
     Tu dai l’algore al gel, l’ardore al fuoco;
Tu te stesso in te stesso e vedi, e bei;
     Tu sei, ch’io non conosco, e pure invoco;
     Uno sei, Trino sei. Tu sei chi sei.


III


Tornami a mente il dolce atto natìo,
     Per cui fui preso da gentil beltate:
     Bassando gli occhi, parea dir: mirate
     Com’io son bella, e qual mi fece Iddio.
5Da modestia mirai temprato brio,
     Mirai maturo senno in fresca etate;
     E nel bel volto pien di gravitate
     La Maraviglia un gran teatro aprìo.
Ciò, ch’io vi scorsi, e scorgerovvi ognora,
     10Nol sa neppur ridir lingua mortale,
     Che nell’opre il Fattore ama, ed adora.
Nè umano sil giammai tant’alto sale
     Da spiegar quel, che l’anima innamora,
     Di leggiadra beltà raggio immortale.


IV


Siede entro vaga illustre augusta Regia,
     Che a ritrarre non vale umano stile,
     Vergin, che di beltà tutta si fregia,
     D’alto spirito adorna, e signorile.
5Brami saper quale Donzella egregia
     Sia, ch’alla bella sua magion simìle
     Non solo, ma migliore esser si pregia?
     Questa è l’anima tua, Donna gentile.
Ella d’un atto rispettoso, e grato,

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     10Rivestita s’affaccia a gli occhi suoi,
     Quasi al balcon d’alto palagio ornato.
Or se allor resta preso, e innamorato,
     Più d’un cuore gentil, che sarìa poi,
     Se vedesse il suo Bel tutto svelato?


V


Di fresca gioventù luce vermiglia,
     La vaga aria del volto, e l’alma e lieta
     Leggiadrìa maestosa, e la segreta,
     Forza delle stellanti altere ciglia.
5Così al tenero mio petto s’appiglia,
     Che l’alma altrove in nulla parte ho queta:
     Ma quì, Donna gentil, non è la meta
     Dell’amor mio, e della maraviglia.
Veloce il mio pensier trapassa al cuore,
     10E nell’anima tua vola, e s’interna,
     E vi ravvisa una beltà maggiore.
Specchio è il corpo dell’alma, onde si scerna
     Quanto la bella ha sopra lui, d’onore;
     Poichè quello è caduco, e questa eterna.


VI


Per lungo faticoso ed aspro calle,
     Perchè la sbigottita Anima mia
     Smarrita non si perda in questa valle,
     E confusa non manchi a mezza via;
5Bellezza l’accompagna e polso dalle,
     E forza e lena tal, che a questa ria,
     Terra voltando ardita un dì le spalle,
     Giunga a scoprir, quel Bel, ch’ella desìa.
Giunta ch’è l’alma a vagheggiar’ Iddio,
     10Bellezza fida mia compagna e duce,
     Le dice in tuon umìl, Bellezza, addìo.
Bello sopra ogni Bello a me riluce,
     Più non cerco altro appoggio, e non desìo;
     E cieca m’abbandono a tanta luce.


VII


Qual’edera erpendo Amor mi prese

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     Colle robuste sue tenaci braccia,
     E tanto intorno rigoglioso ascese,
     Che tutto mi velò l’antica faccia.
5Vago in vista e fiorito egli mi rese,
     E colle frondi sue avvien, ch’io piaccia;
     Ma se poi l’occhio alcun più a dentro stese,
     Scorge com’ei mi roda, e mi disfaccia.
Ei mi ricerca le midolle e l’ossa;
     10E sue radici, fitte in mezzo al cuore,
     Esercitan furtive ogni lor possa.
E già in più parti n’han cacciato fuore
     Gli spirti e ’l sangue, ed ogni virtù scossa;
     Tal ch’io non già, ma in me sol vive Amore.


CARLO ENRICO SANMARTINO.


Scorre al piè di balze ombrose
     Un bel rio di puro argento,
     Che serpendo a passo lento,
     Cangia l’onde in gigli e rose.
5Quì sull’erbe rugiadose
     Par, che stanco dorma il vento,
     E che ’l rio fugga il tormento
     Delle vie dure e sassose.
In sì dolci ombre secrete
     10Io sol chieggio all’aura, all’onde
     Un momento di quiete:
Ma il ruscel sull’erme sponde
     Mostra a piè d’un fresco abete
     Lei che dorme, e non risponde.


AURORA SANSEVERINO.


I


Che fai, Alma, che pensi? Avrà mai pace
     De’ tuoi stanchi pensier l’acerba guerra,
     Che in dubbia lance il viver mio rinserra

[p. 376 modifica]

     Tra gelo ardente, e tra gelata face?
5S’io miro al Ben, che sì m’alletta, e piace,
     Dico: chi di me più felice è in terra?
     Ma il geloso tormento, che mi atterra,
     Ogni mia gioia poi turba, e disface.
Così muovon talor fiera tempesta
     10Contrari venti, e ’l misero Nocchiero
     S’aggira indarno in quella parte, e in questa.
Lassa! e ben calco io pur dubbio sentiero;
     E la speme or s’affretta, ed or s’arresta,
     E mi attrista egualmente e il Falso, e il Vero.


II


Ben son lungi da te, vago mio Nume,
     Qual per mancanza di vitale umore
     Arida pianta, qual senza vigore
     Palustre augel con basse e tarde piume.
5Ben son lungi da te qual senza lume
     Notte piena di tenebre, e di orrore:
     Ben son lungi da te qual secco fiore,
     Cui soverchio calor’ arda e consume.
In te, mia vita, han posa i miei desiri:
     10Or se da te tant’aria mi diparte,
     Qual pace troveran gli aspri martiri?
Ahi dunque è ben ragion, che in mille carte
     Sfoghi sue angosce in lagrime, e sospiri
     Quest’alma, che sì strugge a parte a parte.


III


Sfoga pur contra me, Cielo adirato,
     Quanto più sai, tuo crudo aspro furore,
     Che indarno tenti di fierezza armato
     Spegner favilla al mio cocente ardore.
5Puoi ben tormi, ch’io possa in sull’amato
     Volto nutrir quest’affannato cuore,
     Ma sveller non puoi già dal manco lato
     Il dolce stral, con cui ferimmi Anore.
Siami pur sorte rea ognor più infesta,
     10Viva pur l’alma in pianto ed in cordoglio,

[p. 377 modifica]

     Ch’il mio fermo desir ciò non arresta.
Io son di vera fede immobil scoglio,
     Cui di continuo il vento e ’l mar tempesta;
     Ma non si frange al lor feroce orgoglio.


IACOPO SARDINI.


I


Di bosco in bosco io vò sovente errando
     Solo, se non ch’Amor sempre vien meco;
     Nè solitario v’è luogo, nè speco,
     Ov’ei non giunga, intorno a me volando.
5Dico talor: Fanciullo ardito, e quando
     Sì lungi andrò, che più non deggia teco
     Trovarmi, o nel dì chiaro, o all’aer cieco,
     Stanco della mia pena, e sospirando?
Egli è pur ver, che le Giovenche, e i Tori,
     10E l’Agnelle, e i Montoni cangian desìo;
     Nè del tuo fuoco ogn’or senton gli ardori.
Dunque da te tanto non posso anch’io
     Scostarmi, ch’abbian tregua i niei dolori,
     Se pace aver non può l’affanno mio?


II


Donando al pensier mio come s’intenda
     L’essere e Figlia, e Genitrice al Padre;
     L’esser Vergine intatta, e l’esser Madre.
     Ch’un Figlio, e Sposo, in sè chiude e comprenda?
5Donna tra noi, com’esser può, che scenda
     Pura così, che le celesti squadre
     Agguagli, e vinca e le comuni ed adre
     Colpe neppur nel primo istante apprenda?
Ma veggio ben, poichè a tai cose, e tante
     10Ergo il pensier, ch’un troppo ardir mi guida
     Ove a poggiar non ho lena bastante.
Quindi voce improvvisa alto mi sgrida,
     E dice: Credi e quì t’arresta; avante
     Andrai sol quanto il creder tuo t’affida.

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III


Dissi ad Amor, che tutto lieto io vidi
     Sceglier fra tanti suoi lacci il più forte:
     A qual’opra t’accingi? e quai ritorte
     Prepari? e chi legar pensi, o l’affidi?
5Egli, ridendo, a me rispose: A i lidi
     Vò del Sebeto; tosto fia ch’io porte
     Sul Tebro avvinto un chiaro almo Consorte,
     Fra molti fidi Amanti un de’ più fidi.
Soggiunse poscia: Or quà volgi tue ciglia;
     10Mira, se più leggiadra e più vezzosa
     Donzella può destarti maraviglia.
Sua Colonna tu vedi alta e famosa,
     Questa dunque sostegna altra Famiglia,
     E pregi a pregi accresca Amante e Sposa.


IV


Coll’arco teso Amor femmisi avanti:
     Prendi tua cetra, disse, o pure il petto
     Avrai, se ’l nieghi, al rigor mio soggetto:
     Io vuo’, che tosto a mio piacer tu canti.
5Questo, che ’l sai, di quanti cuori e quanti
     La brama sia, la pena, ed il diletto,
     Sì chiaro ho scelto de’ tuoi carmi oggetto:
     T’appresta all’opra, e dei ridir suoi vanti.
Ed il vostro leggiadro almo sembiante
     10Mostrommi, Idalba, di sua man dipinto;
     E poi che ’l vidi, allor gridai tremante:
O Nume irato, ed a piagarmi accinto,
     Come deggio lodar tai cose e tante,
     Se ’l mio poter dal voler troppo è vinto?


ALESSANDRO SEGNI.


I


L’Alto Fattor, che perfezion volea,
     Formò l’idee nella sua mente eterna;
     Ei, che gli esempi in Noi muove, e governa

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     Del Bel, del Buon, del Saggio, in Voi gli crea.
5A riflessi dell’un l’altro splendea
     Vie più perfetto; e sua virtute interna
     In voi crebbe ciascun, onde si scerna
     Giunger l’esempio a sormontar l’idea:
Che fan Senno e Beltà, Bontà più rara;
     10Da Bontade, e Saper Beltà s’accende:
     Del Bel, del Buono a i rai Senno si schiara.
In Voi Bontate il miglior Buono apprende:
     Da Voi Bellezza esser più bella impara:
     Per Voi Sapienza sè medesma intende.


II


Prole di tua beltà nacque l’ardore,
     Onde ardo, e ardendo pur vivo contento:
     Empia dal figlio tuo, prendi tormento,
     E le lusinghe sue ti son dolore.
5Sì con odio, e disdegno il tuo furore
     Da sè gastiga il suo folle ardimento;
     Io le querele mie non spargo al vento,
     E ne’ cordogli tuoi vendico il cuore.
Se in te rigor s’accresce, in me il desìo,
     10Chiama gli sdegni pur, gli odi n’affretta:
     Che sempre più l’amor crescer vogl’io.
Fra le doglie, e i martir sdegnosa aspetta,
     Onta del tuo rigor, l’affetto mio
     Farne coll’ira tua la mia vendetta.


DOMENICO SERASOLA.


I314


O vermicciuol, che in vuota canna o in galla,
    In luoghi aprichi o tra le cave e i gruppi,
    T’incrisalidi al verno e ti raggruppi
    In buccia or molle or dura, or verde or gialla:

[p. 380 modifica]

5Vien pur, vien pure il tempo e mai non falla,
     Che dal tuo carcer’ esci, e ti sviluppi,
     E i legami abbandoni e gl’inviluppi,
     Fatto d’un pigro vermicciuol farfalla.
Quanto alla prima parte, infino ad ora
     10Pari siamo ambidue: tu chiuso stai,
     Cinto son io da crudi lacci ancora.
Quanto all’altra non già: tu volerai
     Fra non molto al tuo lume: io ’l giorno e l’ora
     Di volare al mio Dio non veggio mai.


II


Se miglia appunto novecento ogn’ora
     Dritto pel cerchio equinozial corressi,
     Sicchè la Notte sotto il piè tenessi,
     Sul Capo il Mezzodì, dietro l’Aurora;
5E l’Artico a man destra, e l’altro allora
     Polo a sinistra in par distanza avessi:
     Il viver mio, per molto ch’io vivessi,
     Da capo a fin non più ch’un giorno fora.
Forse giorno sì lungo e luminoso,
     10Sarà quel giorno eterno, a cui m’affretto,
     Giorno che tienmi in aspettando ansioso?
Ah nò, questo non è quel dì perfetto,
     Che lume avrei bensì, ma non riposo;
     E lume non riposo ha il dì, che aspetto.


CARLO SEVEROLI.


I


Lasso! Già in me di quell’età primiera
     Manca il fresco vigore a poco a poco,
     Nè in me s’estingue ancor l’antico fuoco,
     Nè son in Parte altr’uom da quel, ch’io m’era.
5Che vil turba d’affetti ardita e fiera
     M’assal più forte, e ’l più sublime loco
     Si tien di me che inerme, e nulla o poco

[p. 381 modifica]

     Resister voglio all’orgogliosa schiera.
Ben l’antica virtù raccoglio al cuore:
     10Ma questa dal mal’uso a forza spinto
     Cresce a chi non dovrìa vieppiù valore.
Chiamo alfin la Ragion, ma quasi estinta
     Ancor lei truovo: s’ha qualche vigore,
     L’ha per seguirli incatenata, e vinta.


II


Il Pellegrin, cui folta notte oscura
     Tra via sorprenda, volge incerto i passi
     Lento tento, e cogli occhi attenti, e bassi
     Va ricercando ov’è la via sicura:
5E se allor poi, che fatta è chiara, e pura
     L’aria, si trovi in mezzo a rupi, e sassi,
     Nel mirar quai passò perigli, stassi
     Col cuor colmo d’orrore, e di paura:
Tal dubbia strada un tempo, e d’orror piena
     10Malaccorto ancor’ io premendo gìa,
     In cui nulla splendea luce serena;
E tu sacro Orator sì alpestre, e ria
     L’additi a me, che aver battuto appena
     Creder poss’io sì perigliosa via.


III


Superbetta Pastorella,
     Cui non cale del mio pianto,
     Ma ti ridi ingrata, e fella.
     Del mio duolo aspro cotanto;
5A me forse un giorno quella
     Non sarai già amabil tanto,
     E vorrai parermi bella,
     Nè di bella avrai più ’l vanto.
Ed io allor, che avrò dal cuore
     10Di già tratta la saetta,
     Riderò del tuo dolore:
E così col mio vendetta
     Io farò del tuo rigore,
     Pastorella superbetta.

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ANTONIO SFORZA.


I


Donna gentil, nel cui volto traluce
     Quel fuoco di virtù che il cuor vi accende,
     Non isdegnate il basso dir, che prende
     A lodar voi d’ogni bell’opra duce.
5Come vapor, che il bel fonte di luce
     Con nubiloso velo ci contende,
     Tempra il lume così, che men offende
     Nostre pupille, ed a mirarle adduce:
Così qualora i vostri pregi ’n queste
     10Mie rime adombro, io fò, che alcun s’appressi
     Ad ammirar vostra virtù celeste.
Che se mostrar qual siete voi potessi,
     Non m’avrìa fede il Mondo, e voi sareste
     Sepolta dentro i vostri raggi stessi.


II


Dagli occhi santi, ove onestate alloggia,
     E maggior possa, e più bei raggi assume,
     Posso imparar con quali salde piume
     L’Alma si leva, e al Ciel sicura poggia:
5Che da quel primo dì, che tanta pioggia
     Versaro in me di puro amico lume,
     Scosso d’intorno suo freddo costume,
     Non più lo spirto al reo desir si appoggia.
Ma non posso imparar lo stil, che serpe
     10Per entro al’Alme, e con tal modo destro
     Incanta, e lega, e il cuor dal seno sterpe:
Ch’ella non l’ebbe già per caldo d’estro,
     Nè per Apollo, o per dono d’Euterpe,
     Ma qualche Angelo in Ciel le fu maestro.


III315


Chi siete voi, Signore, e chi son io,

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     Che con tenero cuor così m’amate?
     Quasi senza di me vil uom, non siate
     Quell’eterno beato e sommo Dio?
5E s’altro obbietto fuor di voi desìo,
     Sì geloso di me vi dimostrate,
     Che di dolce rigor la destra armate,
     Per riscuoter così l’affetto mio.
Deh caro padre, per pietade omai
     10Deponete il flagel, che bene i rei
     Peccati io piango e la stagion ch’errai.
Sia nobil pena agli alti falli miei
     Il dir, che sino ad ora io non v’amai,
     E il non potervi amar quanto vorrei.


ANGELO ANTONIO SOMAI.


I.


Or che Clori sulla sponda
     Di quel Rio dolce riposa
     Colla fronte mezzo ascosa
     Tra la sparsa chioma bionda;
5Tace il vento e tace l’onda,
     Tace il bosco e l’aura posa,
     E ’l mio gregge più non osa
     Pascer erba, e morder fronda.
Tutto è in pace, e senza affanno
     10Solo, il misero mio cuore,
     E i pensier pace non hanno;
Che tra ’l verde amico orrore,
     Per maggior mia pena e danno,
     Clori dorme e veglia Amore.


II


Ahimè, che ovunque il reo pensier mi mena,
     Mi persegue l’orror del mio peccato:
     O dorma o vegli, ognor mi veggio a lato
     Il timor la vergogna e la mia pena.

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5Per l’antica trovar pace serena
     Parmi alpestre ogni calle, e ’n dubbio stato
     Dico: o quell’io non sono, o sì cangiato
     Son, che me stesso io riconosco appena.
Vorrei, lasso!, fuggir dai falli miei,
     10Che affliggon l’alma timida smarrita,
     E vorrei....... ma non so quel ch’io vorrei.
O gran padre del Cielo io pero; aita:
     Tu purga col mio pianto i sensi rei,
     E ’l primo me di me ritorna in vita.


III


Era già il verno, ed io piangeva un giorno
     La fierezza di Clori, e ’l mio destino:
     M’intese Clori, un canto almo e divino
     Sciolse dal labbro allor di grazie adorno.
5Chi ’l crederìa? Nacquero i fior d’intorno,
     E tacque Borea, e ’l fier torrente alpino;
     Io mi scordai del pianto, e del meschino
     Stato, credendo in Cielo aver soggiorno.
Ma la Ninfa crudel del gioir mio
     10Tosto s’avvide, e le dispiacque tanto,
     Che cantar da quel dì più non s’udìo.
Oh sovra il riso altrui felice pianto!
     Ben farei sempre di questi occhi un rio
     S’ella tornasse un’altra volta al canto.


IV


Quando la mente al gran decreto eterno
     Piegò Maria nel timor dubbio e saggio,
     E, disse umìle all’immortal Messaggio:
     Ecco l’Ancella del Signor superno;
5Allor di lei si fecondò l’interno
     Col possente di Dio mirabil raggio;
     E noi quinci vittoria, e quindi oltraggio
     Tu n’avesti empio Re del cieco Averno.
Che s’era l’alta Donna in sue parole
     10Rigida al suon d’Angelica preghiera,
     S’aspetterebbe forse il divin Sole:

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E l’Uom pur fora in servitù primiera;
     Che degna Madre di sì degna Prole
     Qual mai stata sarìa, s’ella non era?


V


Ecco dell’uman germe e pura e bella
     La prima coppia allor, che vide il giorno:
     Quanta luce immortal di Lui, che fella,
     Le siede in fronte e le fiammeggia intorno!
5Ecco poi l’infelice, a Dio rubella,
     Già volge il tergo al suo nato soggiorno;
     Ahi più quella non sembra, e pure è quella;
     Tale il fallo v’impresse orrore e scorno.
Oh qual’opra, in cui diè spirto al colore
     10L’Italo Apelle, e ’l mosse incontro agli anni,
     M’apre scena or di gioia, or di dolore!
L’Uom com’era innocente, e senza affanni,
     Scorgo espresso in quei raggi, e in quell’orrore
     Tutti ravviso della colpa i danni.


VI


Dal cieco Amor, che sovra ogn’arte maga
     Incanta i sensi, e cuopre al Ver la faccia,
     Tre lustri ha ch’io mi tolsi, e vado in traccia
     Di più salda beltà, che l’Alma appaga.
5Pur ei la mente accorta, e d’altro or vaga,
     Sovente assale, e ’l buon desire agghiaccia;
     E, perchè il finto suo piacer le piaccia,
     L’orror nasconde dell’antica piaga.
Ah! che giurò quel fier nimico ed empio
     10Veder mie forze di sua man disfatte,
     E altrui me far del suo potere esempio.
Ma se in vil ozio egl’i men forti abbatte,
     Segua il suo stile; io sosterrò lo scempio:
     Che si dee coronar sol chi combatte.


VII


Vede l’Alba che sorge, e si consola
     Vago augellin; dal bosco indi se n’esse
     E al Sol, che l’ombre agli alti poggi invola,

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     Col bel garir soave il pregio accresce.
5Viene alla mandra, ove ristretta, e sola
     Stassi la greggia, e ardito ivi si mesce;
     Ma se appare il Pastor, timido ei vola
     Sul vicin colle, e di partir gl’incresce.
Io pur col dì riedo al boschetto, al prato,
     10E tra cento Pastor lieto, e tra cento
     Ninfe ripiglio il canto, e ’l giuoco usato,
Ma se quel volto, ov’ho il pensiero intento,
     Veggiomi incontro di bei raggi armato,
     Ah! ch’io pur m’allontano, e poi mi pento.


BERNARDO SPADA.


I316


Ah, che pur mi conviene... E al sen stringea
     Non mai sazio la man del caro Figlio,
     Rammentando fra sè qual’ei dovea
     Soffrir lungi da lui penoso esiglio.
5Ahi, che pur mi conviene... E rivolgea
     Verso la Sposa doloroso il ciglio,
     Pallido sì, che rassembrar potea
     Steso languente al suol candido giglio.
Ahi, che pur mi convien da voi diviso
     10Partire, ed oh di voi meco venisse
     Un guardo solo, una parola, un riso!
Così Giuseppe lagrimando disse,
     E a un guardo, a un guardo lor di Paradiso
     In braccio del piacer morìo qual visse.


II317


Nulla pesami il fral terreno manto
     Lasciar, che spoglia è vil del suolo: il cuore,
     Il cuor mi fa contrasto, ei col dolore,

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     Di dovervi lasciar mi sforza al pianto.
5Sovviemmi (ah rimembranza!) il vostro amore,
     Che m’empie di dolcezza, e gaudio tanto;
     Sovvienmi amor, che nel mio petto oh! quanto
     Per voi divampa in puro, eterno ardore.
Ma vengo meno, e già s’oscura il ciglio,
     10Deh, pria che Morte il fatal dardo scocchi,
     Soccorretemi voi nel gran periglio.
Così dicea Giuseppe: ed allor tocchi
     Di tenera pietà la Sposa, e il Figlio
     Soavemente a lui chiusero gli occhi.


III


E osò Morte cotanto? Ah! del suo stolto
     Ardir le incresca, e il gran Francesco estinto
     Veda gir più fastoso or ch’è disciolto
     Da quel vil laccio, che il teneva avvinto.
5Veda l’illustre Eroe tra vario, e folto
     Stuol di virtudi d’alta luce cinto
     Mostrar nel tempio della Gloria il volto
     Di vincitore in atto, e non di vinto.
Veda al piede di lui mordere il suolo
     10L’Empietà fra ritorte, e con eguale
     Nodo la Sorte rea stretta in catena.
O se Morte nol mira, è perchè al solo;
     Al sol nome di lui reso immortale
     Soffre del fallo suo tutta la pena.


IV


Ecco l’inclito Giulio. In questa riva
     Evvi chi col pensier sì alto ascenda,
     Che sua eccelsa virtute appien comprenda,
     E questa a parte a parte a noi descriva?
5Evvi chi in tela effigiata, e viva
     Dell’opre sue l’immago innalzi, e stenda,
     O in bronzo il Nome imprima, onde risplenda
     Augusto, e qual conviensi eterno viva?
Ah, che alcun non appare, e si discopre
     10Vile l’arte, e ’l saper; ma chi tal vanto

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     Avrà, chi tale onor? Venga la Gloria.
Venga ella tosto, e quanto può s’adopre;
     Che di lodar l’Eroe se giunge a tanto,
     Avremo alta di lui degna memoria.


LEONIDO MARIA SPADA.


I


O Bianca amorosetta Tortorella,
     Che spargi intorno un dolce amabil pianto,
     Però, che non risponde al mesto canto
     La cara tua fida compagna e bella;
5Io pur, lasso!, mi dolgo, e piango quella,
     Che lieto il viver mio facea col tanto
     Suo gentil volto, or che con empio vanto
     Morte la tolse, ahi morte iniqua, e fella!
Ma tu pur fine al tuo dolor porrai,
     10Che pietosa vedrai riedere un giorno
     Quella, che tanto invan chiamando or vai.
A me per volger d’ore, ahi, che ritorno
     Non farà il ben perduto; onde i miei lai
     Udransi eterni risuonar d’intorno.


II318


E pugnar gli Elementi in aspra guerra,
     E i Monti urtarsi coi gran Monti, e sciolto
     Scorrer il Mar fra bianche spume involto
     Oltre il confin, ch’il circouscrive e serra;
5E in nuove membra unito, di sotterra
     Uscire il freddo cenere sepolto;
     E il Sol vedeasi in fosco manto avvolto
     Quel dì, che la gran’Ostia offriasi in terra.

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Quando, alto Eroe, volgendo il guardo intorno
     10Sclamasti o un Dio pur s’ange in duolo amaro
     O fa il Mondo al suo Nulla oggi ritorno;
E nel comune orror tosto spuntaro
     I raggi di tua Fede. Oh lieto giorno,
     Giorno ad altrui sì oscuro, a te sì chiaro!


III


Vago Armellin, che di tua bianca spoglia
     Fai pompa altera a questi colli intorno,
     E tali pregi il candor, che ti fa adorno,
     Che temi ogn’aura il macchi, ogn’ombra il toglia;
5Ah qual folle desìo, qual strana voglia
     Ti trae fuor dell’usato a i rai del giorno?
     Non sai, che far quì dee tosto ritorno
     Clori, dolce cagion d’ogni mia doglia?
Fuggi, deh fuggi, che se resti alquanto,
     10Sola fra tante Ninfe ir la vedrai,
     Come candida il cuor, candida il manto;
Onde al gran paragon ti crederai
     Tinto del fango, che sì abborri; e intanto,
     Misero! d’onta, e di dolor morrai.


SILVIO STAMPIGLIA.


I


Donna vidi raminga in nuda arena,
     Languida, ed arsa del calore estivo:
     Pianta sorgere di pomi e frondi piena,
     E un ruscello apparir limpido, e vivo
5Ella assisa alla dolce ombra serena,
     Or de’ pomi si pasce, or beve al rivo;
     Spirto ripiglia, e ristorata appena
     E quelli prende, e prende questo a schivo,
Alfin superba in piè si leva, e poi
     10Con atti oltraggia sconoscenti e rei
     Il Ruscello, la Pianta, e i frutti suoi,

[p. 390 modifica]

Seccansi e l’acqua; e i rami in faccia a lei.
     Pastorelle, scacciatela da voi:
     L’iniqua Ingratitudine è costei.


II


Sorge tra i sassi limpido un Ruscello,
     E di correre al Mar solo ha desìo;
     Nè il Bosco, o ’l Prato è di ritegno al Rio
     Benchè ameno sia questo, e quel sia bello.
5Ad ogni mirto, ad ogni fior novello
     Par, ch’esso dica in suo linguaggio, addio;
     Alfin con lamentevol mormorìo
     Giunto nel Mar tutto si prende in quello.
Tal io, che fido adoro in due pupille
     10Quanto di vago mai san far gli Dei,
     Miro sol di passaggio e Clori, e Fille.
Tornan sempre a Dorinda i pensier miei,
     Benchè li volga a mille Ninfe, e mille:
     Ed in vederla poi mi perdo in lei.


III319


Il Soglio, che t’offrir Giustizia, e Fede,
     Calchi di tanti illustri pregi ornato,
     Che asceso appena dal tuo nobil piede;
     E più grande divenne, e più lodato.
5Oh quanto andò carco per te di prede
     Legno di bronzi in ambo i fianchi armato!
     Oh come di trofei ricco si vede
     Quel, che ti pende, inclito brando al lato!
Ed oh di qual sublime fuoco accesa
     10Lampi diffonde di valor guerriero
     Chiara la tua bell’Alma in ogn’impresa!
Onde il Soglio Giustizia, e Fè ti diero;
     Poi l’una, e l’altra alto gridar fu intesa:
     Grand’è l’onor, ma non già il premio intero.

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IV320


Dell’Universo al glorioso pondo
     L’Alcide sospirava il Ciel Romano,
     Quando la Fede al battezzato Mondo
     Scelse l’Alcide, e fu l’invitto Albano.
5Languendo Italia bella in duol profondo
     Sconsolata battea mano con mano;
     E sciolto il crine, innanellato, e biondo
     Ancor paventa, ma paventa invano.
Che tu, Signor, col senno alto, e possente
     10Farai, che immortal pace a quella arrida,
     E a questo nostro umìl Bosco innocente.
Onde ciascuno e si rallegra, e grida:
     Sarem felici; il nome tuo, Clemente
     Odi qual noi parla, e qual n’affida.


V321


Inclito Eroe, che mai non pugni invano,
     Di un’alta impresa tua l’ora è vicina,
     Te aspetta l’oltraggiata Palestina,
     Gerosolima oppressa, e te il Giordano.
5Vanne sovra il Tabòr, poi sceso al Piano
     Passa di Tiberiade alla Marina;
     Corri al Calvario e la gran Tomba inchina,
     Stendi a i Cedri del Libano la mano.
Allora dir potrai: quì pose il piede,
     10Quì di spine portò cinta la chioma,
     Quì morendo Gesù vita ne diede.
Oh con qual gioia in mezzo all’Asia doma
     Noi scorgeremo trionfar la Fede,
     E stendervi l’Impero Augusto, e Roma?

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VI322


Quella, che illustre nel real tuo manto,
     Di cento imprese in sè le glorie aduna,
     Quella è la Croce, che superba tanto
     Onorò le tue fasce entro la cuna.
5Sin da quel giorno a te fanciullo accanto
     Virtù si pose, e si fermò Fortuna;
     E a te rivolta, oh con qual tema, oh quanto
     Divenne in volto pallida la Luna!
E ben ti vede con vergogna, e scorno
     10Spesso trionfator de’ legni suoi
     Di più barbare insegne irtene adorno,
E scorge alfin: che ne’ primi anni tuoi
     Il Ciel ti destinò fin da quel giorno
     L’Isola a dominar piena d’eroi.


VII323


Sotto spoglia mortale un Dio s’asconde
     Lieti vanno i Pastorelli accanto,
     E ad un mistero incomprensibil tanto
     La lor semplicità non si confonde.
5Dentro Capanna vil di giunchi, e fronde
     Povero ei giace, e si discioglie in pianto,
     E Regi ornati di corona e manto
     Dell’umil culla sua bacian le sponde.
Non mira che un Fanciullo, e un Dio lo crede
     10Ogni Pastor, questo a quel Re l’inchina,
     E un mendico Bambin soltanto vede.
Folle Oriente, ingrata Palestina!
     Volge le spalle a così bella Fede:
     La sprezza adulta, l’adorò bambina.

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MALATESTA STRINATI.


I324


Mira o Signor, come se ’n giace afflitta,
     Tutt’aspersa di lagrime dolenti
     D’acerbissimo duol nel cuor trafitta
     La Reina del Mondo e delle Genti.
5Percossa già dalla tua destra invitta,
     I reali deposti aurei ornamenti,
     Misera sconsolata e derelitta,
     Quasi vedova Donna, alza i lamenti.
E dice: A te, mio Dio, solo peccai;
     10Ma se d’alma pentita ami il cordoglio
     Mirami in fronte, e il mio dolor vedrai.
Ah tu, Signor, che non hai cuor di scoglio,
     Guarda all’augusta Penitente: e omai
     L’accogli in seno, e la riponi in soglio.


II325


Ahi come siede addolorata, e mesta,
     Pallida in volto, con dimesse ciglia,
     Preda d’aspro martir, che il cuor le infesta
     L’unica di Sion inclita figlia!
5Già sotto spoglia di grand’or contesta
     Fra varie sete, o candida, o vermiglia,
     Or cinta di granaglia atra, e funesta,
     Quale un tempo era già, più non somiglia.
L’allegre veglie, i lieti balli, e ’l canto,
     10Ove di sacre squille il suon l’appella,
     Cangia in preci divote, e in umil pianto.
Ricerchi Roma, e non appar più quella,
     Negletta è sì, ma sì negletta, oh quanto
     Alle luci di Dio sembra più bella!

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III326


Leon, che chiuso entro il natìo covile
     Crescer si senta al piè l’acuto artiglio,
     Sdegna ozio inerme, ed ave ogni esca a vile,
     Che non provochi all’ire il suo periglio.
5Quindi per le campagne ampie Massile,
     Compagno al padre, e non dissimil figlio,
     Gli armenti assalta, e fa del sangue ostile
     De’ giovenchi sbranati il suol vermiglio.
Sicuro poi del suo valor più fiero
     10Occupa il bosco, e del feroce sdegno
     Tutto d’Africa il Pian sente l’impero.
Tal esci in guerra, o generoso, o degno
     Germe guerrier di Genitor guerriero:
     Che angusto spazio a sì grand’Alma è un Regno.


GIROLAMO TAGLIAZUCCHI.


I327


Quando imprimer di sdegno orme profonde
     Vuole il gran Dio, sovra l’alata schiena
     Degli Aquiloni ascende, e seco mena
     Fulmini e tuoni, e il Ciel turba e confonde.
5Apre l’atre caverne, ove s’asconde
     Il turbo e la procella, e gli scatena;
     E sossopra dall’ima algosa arena
     Tutto sconvolge il gran regno dell’onde.
Passa, percuote delle balze alpine
     10I duri fianchi, e qual deserto incolto
     Lascia le piagge senza frondi ed erbe:
Poi gli archi, i templi, e le città superbe
     Scuote, u’ riman l’abitator sepolto,
     E d’orror tutto ingombra e di ruine.

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II328


De’ vostri alpestri sassi, o crudi venti,
     Nel cavernoso sen fate ritorno,
     Nè più gli acerbi vostri fiati algenti
     Spirino a questa umìl capanna intorno.
5Qui il Fanciul sì promesso, e dalle Genti
     Per tant’anni aspettato, ha suo soggiorno;
     Dolce veder qual fanno i rai lucenti,
     Del viso santo al Sol vergogna, e scorno!
Egli è, che pria da’ suoi tesor le infeste
     10Grandini trasse, le pruine e ’l gelo,
     E del rio verno altre compagne cose.
Ei le instancabil’ ale a voi compose,
     E per gli ampi vi diè spazi del cielo
     Scorrer fremendo, e sollevar tempeste.


III329


Sorgi, o Sionne, e al prim’onor sovrano
     Torna del soglio, e maestà rivesti:
     Alfin s’adempie ciò, che i tuoi celesti
     Cigni un dì profetar lungo il Giordano:
5Dagli alti regni il divin Figlio in questi
     Sceso, s’avvoglie entro un bel velo umano;
     E seco Gloria, e seco trae per mano
     Pace, e cangia sembianza ai dì molesti.
Già veggo stillar mele i tronchi e i sassi,
     10E fuor dei nidi loro oscuri ed adri
     Uscir scherzando intorno i pardi e i lupi.
Per fin gli abissi tenebrosi e cupi
     Senton, nuova dolcezza: ed oh qual fassi
     In volto Abramo, e gli altri antichi Padri!


IV330


Se per render l’ingegno istrutto e adorno
     L’età future alle veraci carte,

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     Che narreran tue gesta a parte a parte,
     Volgeran gli occhi, ed i pensieri un giorno;
5Certo in veder, che qui fermo soggiorno
     Virtù s’elesse, e crebbe ogni bell’arte
     Diran: d’Italia in sì beata parte
     Fece d’Augusto il secolo ritorno.
Ma quando udran, che alfin lo scettro al Figlio
     10Tu cedesti, dicendo: or dolce affrena
     Le Genti, e Dio sia teco, e il buon consiglio;
Indi con faccia intrepida serena
     Da lui partisti: inarcheranno il ciglio,
     O gran Vittorio, e il crederanno appena.


V331


Bel Bambin chi te non vede,
     Nò, non sa che sia beltate:
     A tue chiome crespe aurate
     L’oro e ’l Sol suo pregio cede.
5Nel tuo cuor, come in sua sede,
     Stassi Amor Pace Umiltate;
     E le luci alme beate
     Fan del Ciel sicura fede.
Quante volte ti rimira
     10L’alma piena di vaghezza,
     Tante volte arde e sospira.
Tante manca per dolcezza:
     Bel Bambin chi te non mira
     Nò, non sa che sia bellezza.


VI332


Bello è in cocchi per oro e per struttura
     Rari con turba gir di servi intorno;
     E di ricchi palagi il far soggiorno
     Sott’aurei tetti e fra superbe mura;
5E bello è sangue trar da chiara e pura
     Fonte, e di verd’età sul fresco giorno

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     Aver di rose e gigli il volto adorno;
     Ma che? Tutto quaggiù passa e non dura.
Si parli; e vaga di quel Bel, che niuna
     10Forza puote involar di tempo o morte,
     Sprezzi i don di Natura e di Fortuna;
E già del Chiostro entro le sacre porte
     Lieta ti chiudi, o del bel numer’ una
     Delle prudenti Verginelle accorte.


VII333


Colei, che in volto di sì dolce e tanta
     Pietà sfavilla, e par non ebbe mai
     Dal dì che Adamo aperse gli occhi ai rai
     Del Soi, poi colse morte, ahi!, dalla pianta;
5Perchè vedermi a piè la cetra infranta
     Vuo’ pria, ch’altra che lei suoni giammai,
     Me fuor di questo Mar d’affanni e guai
     Salvo a riva trarrà con sua man santa.
Un della turba io non son già, che morto
     10Mille volte s’appella, e vivo; tale
     Strano governo il cieco Amor fa d’esso!
Amo, e canto colei, colei che spesso
     Sua speranza ognun chiama e suo conforto,
     E sa ben, che non è cosa mortale.


VIII334


Oh qual ti vola intorno, oh qual ti cinge
     Stuol d’almi Geni! Chi difende il tempio,
     Chi il merto adorna, e in alto lo sospinge,
     Porgendo altrui per belle imprese esempio?
5Altri la spada e la catena stringe,
     Ch’è di terrore e di spavento all’Empio:
     Qual confonde la fraude e la respinge,
     Qual rompe aste bandiere, e qual fa scempio.
Queste, che in sen dell’avvenire or stanno

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     10Chiuse, o gran Carlo, eccelse opre leggiadre
     Di te mi mostran se son larve, o inganno;
Chè non solo alte rocche e forti squadre,
     E lo scettro lasciotti, e il regio scanno,
     Ma ancor le auguste sue virtudi il Padre.


IX335


In questo apparve portamento altero
     Carlo, e tal fu l’acciar nudo che strinse,
     Tal il ricco lucente alto cimiero,
     Tal la forte lorica, onde si cinse;
5E tal fu l’animoso agil destriero,
     Cui premè il dorso, e alla battaglia spinse;
     Tal l’aspetto magnanimo e guerriero,
     Qual su la tela industre mano il pinse:
Quando fra il denso fumo e le faville336
     10L’Insubre donna involse, e il dito alzando
     A Manto fece la mortal minaccia;
E quando corse, e il campo ostil fugando,
     Coperse il Pian di mille morti e mille
     Colla vendetta, e col terrore in faccia.


FLORIDO TARTARINI.


I


Pietoso Nuotator, se di lontano
     Mira nell’onde un ch’alla morte è appresso,
     Si getta in quelle allor veloce anch’esso,
     E gli porge la forte amica mano.
5Ma dal periglio ei tenta trarlo invano;
     Anzi vien sì dall’altrui pondo oppresso,
     Che non potendo ricovrar sè stesso

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     Resta preda egli ancor del flutto insano.
Tal se Ragion me scorge in mezzo all’onda
     10Di questa mortal vita lusinghiera,
     Per cui sovente abbandoniam la sponda;
Corre al soccorso, e di ritrarmi spera;
     Ma tanto il peso del rio senso abbonda,
     Che seco anch’ella è forza alfin che pera.


II


Non so, Elpin, se ti rammenti
     Del mio toro di pel nero,
     Che sfidava coll’altero
     Corno suo tutti gli armenti.
5Questo al fin sebben con stenti
     L’ho ridotto al giogo: e spero
     Che all’orgoglio suo primiero
     Di tornar mai più non tenti.
Ma se a belva tutta ardire,
     10E sì fiera, è all’uom concesso
     Di fiaccar le forze e l’ire:
Onde avvien, che poi sì spesso
     Ei non vinca il suo desire,
     Nè domar sappia se stesso?


DELL’ABB. GIROLAMO TARTAROTTI.


I


Se l’Uom, ch’ama sì poco il Ben più vero,
     L’occhio, Signor, drizzasse alla tua Croce
     E i dolci sguardi e la divina voce,
     Che ’l chiama, ei rivolgesse entro il pensiero;
5Come vola a sua sfera ognor leggiero
     Il fuoco, a te sen correrìa veloce:
     E nulla amando, o men quel che più nuoce,
     Ti farìa del suo cuor un dono, intero,
Che qual ampio Oceàn per le profonde
     10Vie della Terra, in picciol rivi e vene

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     L’inesausto umor suo comparte e scioglie:
Così tutto quel Bel, che si diffonde
     Per queste, che veggiam cose terrene,
     Come in suo proprio fonte in te s’accoglie.


II337


Questa, che ier’io colsi appresso il fonte
     Ghirlanda umìl di rose e di viole,
     Pria che alcun si destasse, e pria che il Sole
     Illustrasse la cima alta del monte:
5Donna gentil, le di cui rare e conte
     Opre la patria nostra onora e cole,
     A te ne mando, onde alla nuova prole
     Tu ne cinga per me la nobil fronte.
Che quando poi dell’onorata spada
     10Il vedrò cinto, e ’n mezzo al Trace e al Moro
     Alle vittorie ei s’aprirà la strada,
Io vuo’ tessergli allora altro lavoro,
     E vuo’, che d’altra man cinto sen vada
     D’un trionfal vittorioso alloro.


MARCO TIENE.338


Questi palagi e queste logge or colte
     D’ostro di marmo e di figure elette,
     Fur poche e basse case insieme accolte,
     Deserti lidi, e sterili isolette.
5Ma Genti invitte e d’ogni vizio sciolte
     Scorrean il Mar con picciole barchette,
     Che quì, non per domar Provincie molte
     Ma a piantar libertà s’eran ristrette.
Non era ambizion ne’ petti loro,
     10Ma il mentire abborrian più che la morte;
     Nè vi regnava inquieta fame d’oro.

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Se il Ciel vi diè così beata sorte,
     Non sien quelle virtù, che tanto onoro,
     Dalle nuove ricchezze oppresse e morte.


ANTONIO MARIA TOMMASI.


I


Quel cieco Amor, cui cieca turba adora
     Come suo Nume, ed è suo fier Tiranno,
     Di poche rose i suoi seguaci infiora,
     E mille figge in lor spine d’affanno.
5Pur quegli Stolti il duol, ch’entro gli accora,
     Soffrendo, il rio Signor fuggir non sanno,
     E gli fan voti, e benedicon l’ora,
     In cui gli trasse nell’iniquo inganno.
Poichè sovente una bugiarda spene
     10Vie più gli accende, e dice: oh qual contento
     Nascerà in breve al cuor da tante pene!
Folli! Ma cento pur sentiro e cento
     Servi d’Amore alfin l’aspre catene
     Bestemmiar tra vergogna, e pentimento.


II


Cura, che furiando entro il mio seno
     Fai del misero cuor sì rio governo,
     Lasciami in pace omai; riedi all’eterno
     Regno del pianto, o dammi tregua almeno.
5Ah pur mi rodi, ahi pur nuovo veleno
     Barbara a’ danni miei traggi d’Inferno!
     Nè per tempo o stanchezza, a quel ch’io scerno,
     Il tuo crudo rigor può venir meno.
Pera l’empia mia Sorte: ella ti tolse
     10D’Averno, che bambina, e ancor digiuna
     Eri di sangue, e in me nudrir ti volse;
Pera.... Ma che dannar cieca Fortuna?
     Pera il mio cuor; che stolto allor t’accolse
     Con mille vezzi, e non t’uccise in cuna.

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III


Coronata di gigli e di viole
     Tra molli rose in fredda urna giacea
     In guisa estinta, che dormir parea,
     La madre e figlia dell’eterna Prole.
5Quand’ecco scesa dall’eterna mole
     Turba d’alati Amor, sorgi (dicea)
     Sorgi, e ritorna al Ciel già donna, or Dea
     Vaga lucida eletta al par del Sole.
L’alma Reina di repente a quelle
     10Voci destossi, e dolcemente intorno
     Girò le luci sfavillanti e belle.
Indi su cocchio di zaffiri adorno,
     Cinta di lampi, ascese oltra le stelle
     A far più chiaro sempiterno giorno.


IV339


Questa sì cara al Ciel nobil donzella,
     Che tesori e piacer, gloria e grandezza
     Con magnanimo piè calca e disprezza,
     E d’amor frange altera arco e quadrella:
5Donne, non men che voi sentìa rubella
     A virtude in suo cuor nascer vaghezza;
     Che in alto stato al viver molle avvezza
     Fu da’ primi anni, ed è pur donna anch’ella.
Ma non soffrì, che in vili aspre catene
     10Gemesse l’Alma, e generose e liete
     Alzò le brame all’immortal suo Bene.
Or voi, che tristo il guardo a lei volgete,
     Per lei di sciocca e ria pietà ripiene,
     Deh sovra voi del vostro mal piangete!


V340


Se dell’immensa tua somma bontade
     Gli occhi a me non volgevi eterno Amore,
     Questo sì cieco un tempo errante cuore

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     Quanta ancor del suo mal farìa pietade.
5Tal ei del Mondo per le dubbie strade,
     Lasso!, correa tra dense ombre d’errore,
     Qual uom, che colto dal notturno orrore
     Cannina, e ad ogni passo inciampa e cade.
Ma da te scese alfin propizio il raggio,
     10Raggio d’ardente carità, infinita,
     Ond’ei scoperse il fosco suo viaggio.
Quinci tornò Ragion da pria sbandita,
     Che a lui doppiando ognor speme e coraggio,
     Fida il precorre, e l’alto fin gli addita.


VI


O Sileno, il tuo giumento
     Ben cred’io, che più non possa:
     Ve’ che ei muove lento lento,
     E non è, che pelle ed ossa.
5Deh non più gli diam tormento
     Or con urto, or con percossa,
     Lasso, in piè si regge a stento,
     E già mezzo è nella fossa.
Nè rio morbo è, che lo snervi;
     10Ma rigor di fame immensa
     A lui strugge e l’ossa e i nervi;
Che del tino, e di tua mensa
     Sol ti cale. Ahi Servi, ahi Servi
     D’uom, che a se sol vive e pensa!


VII


Ier, menando i bianchi agnelli
     Lungo un Rio per verde erbetta,
     Vidi in mezzo a cento augelli,
     Grandeggiar folle civetta.
5Bel veder lei gonfia, e quelli,
     Quasi umìl turba soggetta,
     Per le siepi e gli arboscelli
     Lei seguir di vetta in vetta.
Già Reina esser si crede
     10Quella sciocca, e altera e gaia
     Già vien piede innanzi piede.

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Ma la mira una ghiandaia,
     Ed ah, grida, ah non s’avvede,
     Che costor le dan la baia?


VIII


Vidi Mopso (oimè! che al solo
     Rimembrarlo inorridisco)
     Vidi Mopso ir altra a volo,
     Com’un drago, o un basilisco,
5Poi calò rapido al suolo,
     E dicendò (ah non ardisco
     Dir che disse) un cavriolo
     Fe’ d’un ramo di lentisco.
L’incantata e strania belva
     10Poi cavalca, e accesa il pelo
     Furia ed urla e alfin s’inselva.
Atr’orror converse il Cielo,
     Turbin rio spiantò la selva.
     Deh che fa, Giove, il tuo telo?


IX


Senti, Elpin, quella cornacchia
     Che mi canta a man sinestra
     Su quell’erta rupe alpestra,
     Quanto, ohimè, quanto ella gracchia!
5Vanne quatto in quella macchia
     D’alta stipa e di ginestra,
     E con sasso, o con balestra
     Giù la gitta, e la spennacchia.
Poi tra’ rami alti l’intrica,
     10E qui all’altre orrore apporte,
     Quasi ancor tacendo dica,
Io cantar volea la sorte
     Di Vallesio341 empia e nemica,
     Ma cantai sol la mia morte.


X


Questa capra è la più smunta

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     Che per boschi errare io veggia,
     Come, o Tirsi, è si consunta,
     Ch’io non so che dir mi deggia!
5Anco a lei qui sana spunta
     L’erba, e chiaro il gorgo ondeggia,
     E Nerèa mai non l’ha munta
     Più che l’altre di mia greggia.
Ma comunque sia che ammorbi,
     10Deh l’involi alcuna fiera,
     O ne fò qui pasto a’ corbi.
Voglio sì, voglio, che pera,
     Che potrian forse i suoi morbi
     Infettar la mandra intera.


XI


Tirsi, Tirsi, que’ montone
     Mira là quanto presume:
     Ei d’Arcadia al tanto Nume
     Strappi i freggi e le corone.
5Deh scaverna orso o leone,
     Che lo spolpi e lo consume,
     O sommergilo nel fiume,
     O lo scaglia in quel burrone.
Che, se fame a ciò l’alletta,
     10Non è forse in questi miei
     Verdi poggi amena erbetta?
Ma son geni ingordi e rei,
     Cui più aggrada e più diletta
     Ciò che rubano agli Dei.


XII


Dov’è, Signor, la tua grandezza antica,
     E l’ammanto di luce, e l’aureo trono?
     Dove il fulmin tremendo, il lampo, il tuono,
     E l’atra nube, che al tuo piè s’implica?
5Parmi, che turba rea m’insulti, e dica:
     Questi è ’l tuo Nume? e quel vagito è il tuono
     Scuotitor della Terra? e quelle sono
     Le man, ch’arser Gomorra empia impudica.

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Esci, gran Dio, da l’umíl cuma, e in tempio
     10Cangiato il vil presepio, al primo onore
     Torna del soglio, e sì favella all’Empio:
Vedrai, vedrai del giusto mio furore
     La forza immensa a tuo gran danno e scempio.
     Tu, che non sai quanto in me possa amore.


XIII


Questo capro maladetto
     Mena il gregge in certe rupi,
     Che mi par che per dispetto
     Voglia porlo in bocca ai lupi.
5Ma s’ei siegue, io son costretto
     Di lasciarlo in questi cupi
     Antri a gli orsi, o un dì lo getto
     Giù per balze e per dirupi.
Ed il teschio e il corno invitto,
     10Onde altier cozza e guerreggia,
     E soverchia ogni conflitto,
Vuo’, che là pender si veggia
     Sul Licéo, con questo scritto:
     Perchè mal guidò la greggia.


BENEDETTO VARCHI.


I342


Cinto d’edra le tempia intorno intorno
     Sovr ’un tirso appoggiato, allor che il Sole
     Spunta dal Ciel, dicea queste parole
     Il buon Damon di mille fiori adorno:
5A te, padre Lieo, consacro ed orno
     Di puri gigli e candide viole
     Questo capro, ch’ognor far tronche suole
     Tue sante viti or col dente or col corno.
Così detto, il terren tutto tremante

[p. 407 modifica]

     10Sparse di sangue, e con pietosa mano
     Le viscere al gran Dio lieto raccolse.
Poscia fermato in piè, soave e piano,
     Colmo un vaso di vin puro spumante
     Si mise a bocca, e gli occhi al Ciel rivolse.


II


Quando Filli potrà senza Damone
     Viver, ch’altro che lui non pensa e cura,
     Ad ogni altro pastore acerba e dura,
     Tornerà indietro al fonte suo Magnone.
5Così scritto leggendo in un troncone
     A piè dell’onorate antiche mura343,
     Di cui oggi il bel nome a pena dura,
     Cadde fuor di sè stesso Coridone.
Poscia pien di furor trasse nel fiume
     10Un baston, ch’egli avea, di rame cinto,
     E la zampogna sua troncò nel mezzo;
Ed all’armento, che d’intorno al rezzo
     Si giacea, cominciò: quell’empio lume....
     Ma non potèo seguir dall’ira vinto.


III344


Sacri superbi avventurosi e cari
     Marmi, che il più bel Tosco in voi chiudete,
     E le sacre ossa e ’l cener santo avete,
     Chi non fu dopo lor, ch’io sappia, pari:
5Poichè m’è tolto preziosi e chiari
     Arabi odor, di che voi degni siete
     Quanto altri mai, con man pietose e liete
     Versarvi intorno, e cingervi d’altari:
Deh non schivate almen, ch’umile e pio
     10A voi quanto più so, divoto inchini
     Il cuor, che come può, v’onora e cole.
Così spargendo al Ciel gigli e viole,
     Pregò Damone, e i bei colli vicini
     Suonar; povero è ’l don, ricco il desìo.

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LEOPOLDO DE VILLATI.345


Uomo, che tenda a gloriosa fama
     Di senno, di fermezza, e di valore,
     In Francesco si specchi; e con stupore
     Vedrà ciò, che a ragion virtù si chiama.
5Come lode s’acquista, e gloria s’ama,
     Come va unito ad onestade amore
     Da lui si apprende; e qual’è de l’onore
     La dritta via, che di seguir si brama.
Ma quel parlar, cui nullo stile agguaglia,
     10E lo scriver purgato, e di lui degno,
     Che altri, ch’egli non può spiegare in carte
E quel saper, ch’altrui cotanto abbaglia,
     Non vi s’impara: che divino ingegno
     Per ventura s’acquista, e non per arte.


ABB. GIACINTO VINCIOLI.


Non so se tu, mio cuor, comprendi ancora,
     Che Amor non è ch’una gran furia in Terra,
     Che lascia da per tutto e strazi e guerra,
     E di pianti e sospir si pasce ogn’ora.
5Per ferir dolcemente il dardo indora,
     Ma nella piaga il rio velen poi serra:
     Che ogni bella speranza alfin sotterra,
     E le viscere altrui tutte divora.
Io ben l’intendo, il cuor risponde, e bramo
     10Fuggir l’empio Signore, onde sovente
     Ragion, che mi soccorra, invoco e chiamo
Ma a qual darmi soccorso ella è possente,
     Se il desir corre d’un bel viso all’amo,
     Teme il mal, lo conosce, e pur consente!

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FRANCESCO MARIA DELLA VOLPE.


I346


Alfin comparve il formidabil giorno:
     Che fè di sangue il Savo andar vermiglio:
     Tutto è fuga, e spavento intorno intorno,
     Sbigottito è Bizanzio, Asia è in periglio.
5Vincesti o Carlo: e te di palme adorno
     Seppe far tua pietade, e tuo consiglio:
     Già il Viva a te nel suo real soggiorno
     Canta co’ suoi vagiti il tuo gran Figlio.
E par che dica: Andrei col brando anch’io
     10Sull’empio Trace a fulminar, qualora
     Reggesse il piccol braccio al buon desìo.
Segui pur tue conquiste, e vinci ognora:
     a che lasci, o gran Padre, ho sol desìo
     Qualche trionfo alla mia spada ancora.


Traduzione dello stesso Autore.


En metuenda dies, quae per declivia Savi
     Odrysio tinctas sanguine duxit aquas.
Omnia plena metu. Jam Bisantina vacillant
     4Moenia: Gens Asiae, non bene tuta, pavit.
Victorem, Caesar, tua te prudentia fecit;
     Fecit victorem te pietatis amor.
Audi, quot soboles vagitibus impleat Audam,
     8Laetitia plenum sic tibi cantat lo.
Ob quotquot, si possem (credo sic dicat) in hostis
    Fulminea vellem fundere tela manu!
Tu sequere, et palmas victricibus adde,
    12Concedatque novas singula quaeque dies.
A cave, ne tantum vincas, ut nulla supersit
    Post te, magne Pater, gens superanda mihi.

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II


L’Immenso fren dell’Universo intero,
     Strigni, o Signor, che regger dei tu solo
     Germania, Italia e l’ampio Mondo Ibero,
     E il non men ampio Americano suolo.
5In te non più diviso il prisco impero,
     Per te non più vedremo Europa in duolo,
     S’or tu che saggio, or tu che sei guerriero,
     Stendi all’uno il tuo scettro, e all’altro polo.
Ognun, che ben ti miri, oh quali oh quante
     10Dal tuo gran cuore opre famose attende,
     Più di quelle degli Avi, ancorchè tante!
Mista poi di clemenza a noi si rende
     La maestà del tuo real sembiante,
     Pure in tanta grandezza oh qual risplende!


III


Ahi che ben veggio al lito avvinta ognora
     Starsi quella d’Amor nave superba,
     Mia stanza un dì, che le catene ancora
     Di mia perduta libertà riserba!
5Veggio assiso il Nocchier sù l’empia prora,
     Che il fiero antico aspro rigor pur serba,
     Veggio l’altero ciglio ad ora ad ora,
     Che mi minaccia orrida strage acerba.
Eppur cieco desio, mentre dal lido
     10Parte la nave, ancor sì mi trasporta,
     Che su risalgo, e al rio Nocchier m’affido.
E se Ragion consiglio non m’apporta,
     Nel gran viaggio disastroso infido
     Chi mi sa dir dove il Crudel mi porta?

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GIO. ANTONIO VOLPI.


I347


La man porgo alla penna, e indarno tento
     Breve stilla, Signor, de’ pregi vostri
     Sparger in carte, che i miei frali inchiostri
     Far voi chiaro non ponno, e me contento.
5Per trovar pari a Voi degno argomento,
     Norma di bel costume a’ tempi nostri,
     In quei del valor prisco alteri mostri
     Con la mente m’affiso, e poi mi pento.
Chi mai salisse di Platon per l’orme
     10A mirar quant’è bella Cortesìa
     Senz’alcun velo tra l’eterne forme:
Potrebbe sol (ciò che mio stil desia)
     Dipinger Voi d’atto e color conforme;
     Che a tanta impresa è chiusa ogn’altra via.


II348


S’io mi rivolgo, e guardo al fonte
     Da cui vostro gentil sangue deriva,
     Veggio una Gente ancor, per fama, viva
     Del tempo dispregiar minacce ed onte.
5Veggio, Signor, più Duci ornar la fronte
     Di sacro alloro e di tranquilla oliva,
     (Alto soggetto onde si parli e scriva)
     A’ perigli, alla morte anime pronte.
Veggio il vostro gran Padre irne lontano,
     10Dove amor della patria il guida e sprona,
     E giacerne, ahi, la salma in lido strano.

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Ma se contemplo Voi, che ’l Ciel ci dona,
     Tante virtù, la mente; il cuor, la mano,
     Quì mia vista s’abbaglia, e m’abbandona.


III349


Occhi miei, che lo sguardo alzar solete
     Lassù del Cielo alle bellezze eterne,
     E del fiacco vigor, che mal discerne,
     Spesso dolenti e lagrimosi siete;
5S’è scarso refrigerio a tanta sete
     Mirar di fuori le magion superne;
     Nè si concede a voi di più vederne,
     Per la nebbia mortal, che intorno avete:
Non però men felice è vostra sorte,
     10Nè dee basso desìo volgervi a terra
     Per vagheggiar le region di Morte.
Se consiglio, divin vi lascia in guerra,
     Dolce è vegliare alle beate porte,
     E lo Sposo aspettar, che le disserra.


IV350


Drizzommi già verso l’Aonio monte,
     Giuseppe, l’animoso mio pensiero:
     E corsi anch’io le vie di valor vero
     Sull’orme de’ Migliori eccelse e conte:
5Ma de’ suoi lauri e dell’amabil fonte
     Tanto a me non concesse Apollo altero;
     Nè, come a te, nel mio tempo primiero
     Dier le figlie di Giove ali sì pronte.
Però convienmi, ad ima valle in grembo,
     10Aspettar dall’obblìo l’usato scorno,
     E breve gloria patteggiar con lui.
Altri sono e saranno i pregi tui;

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     Che omai sen vanno a’ sacri gioghi intorno
     Di te pensosi il gran Petrarca e ’l Bembo.


V351


Mentre, Signor, di tanti fregi adorno,
     Che nè dir, nè pensar tutti saprei,
     Posti di cortesìa mille trofei,
     Voi là n’andate onde ci nasce il giorno;
5Io qui mi rimarrò, d’ira e di scorno
     Colma, accusando i destin sordi e rei,
     E di vostre memorie i dolor miei
     Pascerò sempre a queste rive intorno.
Nè da gravi sospir cesserò mai,
     10Fin che nell’Adria, che i più degni onora,
     Splendano in aureo manto i vostri rai;
E voce esca dal Mar chiara e sonora:
     Che piangi ancor? Non hai tu pianto assai?
     Sorgi, Verona, e ’l tuo bel Sole adora.


VI352


È questo il ricco ammanto e l’ostro e l’oro,
     Che si tessea per le tue nozze, o Bella?
     Queste le bianche perle, onde s’appella
     Dal vulgo avaro fortunato il Moro?
5Altri panni, altri fregi, altro lavoro
     Ispido troppo a tenera donzella
     Ti stanno intorno, e l’una e l’altra stella
     Copri, che fa d’Amor doppio tesoro.
Donne, perchè sì tristo e sconsolato
     10Mostrate il viso? è di pietà ben degno
     Il vostro vaneggiar, non il mio stato.
Dite alla Madre mia, che il caro pegno
     Perdendo acquista, e che il mio cuor beato
     Fa la speranza dell’eterno Regno.

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VII353


O Lieti giorni di Saturno, e tanto
     Lodata in carte bella età dell’oro
     Come di Terra a quel celeste Coro
     Levaste l’ali, e noi lasciaste in pianto!
5Tempo s’appressa, e ne consola alquanto
     D’amiche stelle e di virtù lavoro,
     Che scenderete ancor cinti d’alloro,
     E ’l Mondo tornerà, come fu, santo.
Ecco apparir valor senno e costumi,
     10Sì gravi in toga, e sì leggiadri in gonna:
     Ecco l’attento, e saggio, e pio Signore:
Ecco la di lui degna eccelsa Donna,
     Duo del Veneto Ciel benigni lumi:
     Questi fan cenno al secolo migliore.


VIII354


Come talor di nobil pianta e bella,
     Cui folgore scoscenda e tronco e foglie,
     Serbasi un ramoscello, in cui s’accoglie
     Tutto il valor, che già s’accolse in ella;
5Poscia nel caro sen madre novella
     Tenero e frale a nutricare il toglie,
     E dolci frutti in sua stagion ne coglie
     Chi ’l trasmutò sotto migliore stella:
Così privo del padre il garzon forte
     10A voi dal Ciel fu dato, e per voi crebbe,
     Per voi s’accinse a disarmar la Morte;
Del vostro senno a’ puri fonti bebbe;
     E tal divenne con sì fide scorte,
     Che dell’offesa alla Nemica increbbe.

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GIO. FRANCESCO DELLA VOLPE.


Qual vecchio, e già stanco Nocchier, che a sorte
     Dopo lungo solcar, sol per divina
     Virtù, scampò per vie lunge, e distorte
     Dall’atra tempestosa onda marina;
5Giunto alle patrie desìate porte
     Scende sul lido, ed al veder vicina
     Nave che parte: ahi che correte a morte,
     Grida; e segna ai Nocchier l’alta ruina:
Tal’io, che già dal Mar perverso, e infido,
     10D’Amor scappai fra l’ampia turba e folta,
     Non vi fidate, a chi lo solca io grido:
Ma invan, poichè nessun mie voci ascolta;
     Anzi affollata sull’indegno lido
     Tutta corre ad amar la Gente stolta.


BENEDETTO (dell’) UVA.355


Udite, colli, e voi rive feconde,
     Cui di fior già copria perpetua vesta:
     Partito è Dio da voi; che più vi resta,
     O qual sperar potrete aita altronde?
5Del vostro sangue il Mar tingerà l’onde,
     L’onde cerulee in rosse: aspra tempesta
     Crollerà i mirti, e ’n quella parte e ’n questa
     Si vedran teschi, e non più fiori e fronde.
L’oro e l’argento, che a peccarti fue
     10Duce, portar vedrai, Cipro, in disparte,
     E farne il Trace e ’l Siro arme lucenti:

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I figli tuoi cadran di spada, e parte
     Di fame e peste, e le donzelle tue
     Schiomate serviran barbare Genti.


ANTONIO ZAMPIERI.


I


Tolto il conforto al cuor d’ogni speranza,
     Sebben rimango in apparenza in vita,
     E umana forma ho in fronte ancor scolpita,
     Dentro però nulla più d’uom m’avanza.
5Tomba così, di Morte orrida stanza
     Di bianco marmo oriental vestita,
     Cela l’interno orrori sotto mentita
     spoglia di vaga esterior sembianza.
Altro in me sono, ed altro appar da questi
     10Segni, che mi lasciò la cruda Sorte,
     Forse perchè pietate altrui non desti.
Che se, dischiuse del mio sen le porte,
     L’interno aprissi, in vece d’Uom vedresti
     Una funesta immagine di Morte.


II


Quando il Pittore ad animar rivolto
     Irene in tele al bel lavor s’accinse,
     La fronte, il ciglio, il labbro, il crin distinse,
     E quanto in viso ha di bellezza accolto.
5Poi nel pensier di viril cuore involto
     Vago formò giovine Eroe, cui cinse
     D’usbergo il petto, e al vivo in un dipinse
     Marte al genio guerrier, Venere al volto.
Tratta a fin l’opra, un non so che splendea
     10In lei di qualità più che terrene:
     Marte non era, e non d’Amor la Dea.
Ma sotto le sembianze alme, e serene,
     Tra il Bello, e ’l Fiero era una mista idea
     Di Venere, e di Marte; ed era Irene.

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III


Smunta le guance, e rabuffata il ciglio
     Donna in ceffo m’apparve orrido, e bruto,
     Che strazia un cuor di pietà priva in tutto,
     E chiama all’opra ogni crudel consiglio.
5Duri morsi v’imprime, e fa vermiglio
     Nel caldo sangue il freddo labbro asciutto:
     Poi qual Tigre lo sbrana, ed in lui tutto
     Immerge il crudo avvelenato artiglio.
Nè sazia ancor, con dispietato esempio
     10Sparge le piaghe, che poc’anzi aprio,
     Di quel che ha in seno amaro tosco ed empio
Indi a me volto il torvo sguardo, e rio:
     Vedi qual, dice, io quì d’un cuor fo scempio?
     Fuggi da me, che Gelosia son’io.


IV


Aveano il seno ambo d’Amor piagato
     Rivali antichi, Ila ed Elpin, per Clori;
     A cui dissero un dì: di duo Pastori,
     Scegli tu qual Pastor è a te più grato.
5Clori portava il biondo crine ornato
     D’una ghirlanda di leggiadri fiori;
     Ghirlanda al crin portava Ila d’allori;
     Privo era Elpin quel dì del serto usato
Quant’è mai scaltro Amor più ch’uom non crede!
     10Prese Clori il suo serto, e cinger volse
     Le tempie all’un, che senza serto vede;
Tolselo all’altro, e al proprio crin l’avvolse.
     Pegno or d’affetto a chi maggior si diede?
     A chi si diede il serto, o a chi si tolse?


V


Talor solo fra me penoso e stanco
     Vò rivolgendo il fil del viver mio,
     Qual fui, qual sono, e qual vano desìo
     Nutrimmi, e nutre o mai canuto e bianco.
5Indi a me dico: ahi misero, e non anco
     Sorgi, che vola il tempo edace, e rio!

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     Vola, e tu forse in gire innanzi a Dio,
     Un di quelli sarai del lato manco.
E in così dir, sentomi al cuore intorno
     10Scorrer un freddo gelo, onde al mal guado
     Arresto il passo, ed apro gli occhi al giorno.
Visto allor chiaro il mio periglio, io vado
     Di pensiero in pensier; vado, e ritorno;
     E mentre indugio in nuov’error ricado.


VI


Cieco desìo, come destrier feroce
     Che armato ha il sem d’infaticabil lena,
     Indomito, superbo, il piè veloce
     Quà e là volgendo, a suo piacer mi mena.
5Pensa se giova a me, che il reggo appena,
     O minacciar di verga, o alzar di voce;
     Che morso di ragion più no ’l raffrena,
     Nè l’aspro a fianchi ognor stimolo atroce.
Così precipitoso ei mi trasporta
     10A perir seco; e chiamo in van soccorso
     Io, che son senza forze, e senza scorta.
Ed oh! qual sento allor crudo rimorso,
     Che mi sgrida: Ecco dove al fin ne porta
     L’empio destrier, se non s’avvezza al morso.


VII


Questa, cui lunga invida età fè guerra
     Con ferro, e fuoco, eccelsa mole augusta,
     Che, tolta all’ombre in cui giacea sotterra,
     Riede alla prima maestà vetusta;
5Opra è, Signor, dell’adorata in terra
     Vostra del par provvida mano e giusta,
     Che agli artigli di lui, che il Tutto atterra,
     L’antica invola alta rapina ingiusta.
Quindi aver spera, or che risorge a Roma,
     10Scudo più forte, a contrastar possente
     Col nemico furor, da cui fu doma.
Non valse il primo augusto nome al dente
     Torla d’obblìo: ma se da voi si noma,
     Più che Antonin l’eternerà Clemente.

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VII


Un’ombra io vidi in sue sembiante vero,
     Orrida sì, ch’immagin d’uom non serba,
     Sù carro assisa, in portamento altero,
     Muoversi inesorabile, e superba.
5Qual sorge nembo in nuvol denso, e nero,
     Che delle viti ampia fa strage acerba;
     Non altrimenti ella rotava il fiero
     Adunco ferro, e fea fascio d’ogn’erba.
Quì curvi aratri, e colà scettri infranti
     10In un misti, e confusi; una egual sorte
     Correan rustiche lane, e regi ammanti.
Al sol vederla intimorite, e smorte
     Le Genti tutte con singulti, e pianti
     Da lei fuggian, gridando: ahi Morte, hai Morte!


IX


Ahimè, ch’io sento la terribil tromba,
     Che i Morti chiama al gran Giudizio eterno,
     E sì dentro il mio cuore alto rimbomba,
     Che il Suol ne trema, e si spalanca Averno.
5Sorgo coll’ossa mie fuor della tomba,
     Ove m’aspetta il Giudice superno,
     Lasso! nè so, s’io sia Corvo, o Colomba,
     Che quindi aperto ho il Ciel, quindi l’Inferno.
Così mentre sospeso, e di spavento
     10Pieno, nella gran Valle io fò dimora,
     Alla final giusta sentenza intento,
Lasciami il sogno in sulla nuov’aurora,
     Nè più veggio il Giudizio, e pur mi sento
     Quell’aspra tromba nell’orecchie ancora.


X


Morta Colei, ch’il mio destin mi diede
     Per mia Tiranna a farmi ognor dolente,
     Ogni cui sguardo era uno strale ardente,
     Onde facea de’ cuor barbare prede,
5Men gìa qual’Uom, che agli occhi altrui non crede,
     A rimirar l’alme bellezze spente;

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     E vidi un Garzoncello infra la Gente
     Muover colà non men veloce il piede:
Questi era Amor, che i gravi danni suoi
     10Sotto finte piangea spoglie mortali,
     Gran parte avendo nel comun dolore,
Cui dissi, da Costei, Fanciul che vuoi?
     Io (risposemi Amor) voglio i miei strali,
     Ed io (dissi) da lei voglio il mio cuore.


XI


Questo, che fa doglioso a noi ritorno,
     Nunzio di pene, infausto giorno e rio,
     Questo è quel tristo, e lagrimevol giorno,
     In cui sul Legno il Redentor morìo.
5Piange ogni cosa: e di vergogna, e scorno
     Tinto la fronte io sol non piango, ed io
     Sento la Terra, il Mare, il Cielo intorno,
     Tutti gridare: è morto, è morto un Dio.
Morto, pur muore ancora; io son, che il crine
     10Le mani, i piedi, e gli trafiggo il lato,
     Io gli rinnovo e Croce, e chiodi, e spine.
Così muore, e morrà nudo, e piagato
     Fino al gran dì, ch’il Mondo avrà pur fine,
     E col Mondo avrà fine anche il Peccato.


XII


Solo, se non che meco è il mio dolore,
     Che i tristi giorni miei conduce a sera,
     Io della mente entro segreto orrore
     Mi chiudo, e intorno ho dè pensier la schiera.
5E in quel silenzio io chiedo loro: il cuore
     Avrà mai tregua, se non pace intera?
     Temprerà mai l’innato aspro rigore
     Quella nostra, e d’Amor Nimica altera?
Vano pensiero, allora, e pien d’inganno,
     10Che lusingando or da me parte, or riede,
     Dice: Sì ch’avrà fine il duro affanno.
Gli altri ascolto gridar: Folle ch’il crede.
     Il veggio anch’io: ma cieco al proprio danno,
     Godo ingannarmi, e al rio pensier dò fede.

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XIII


Mietitor, che alla falce agresto, e dura,
     Incallita ha la mano, e alle fatiche,
     Quando dal biondeggiar dell’auree spiche
     Spera di coglier messe ampia, e matura
5Se gravida di nembi alzarsi oscura
     Nube ei rimira in sulle piagge apriche,
     Che seiolta in fredde grandini nemiche
     De’ suoi sudori il guiderdon gli fura:
Vinto dal duol, gettando il ferro, e tutto
     10Empiendo il Ciel di duro alto lamento,
     Parte cruccioso, e non con occhio asciutto.
Tal dolermi degg’io, che in gran tormento
     Vissi fin’ ora; e so per cui: ma il frutto
     Di mie speranze ir veggio sparso al vento.


XIV


Aura gentil, se mai d’amor talento
     T’accese il sen per vago agreste Nume,
     Spiega cortese or le veloci piume
     Ove dimora il dolce mio tromento.
5Ben tu puoi ravvisarla al portamento
     Piucchè mortale, al folgorar del lume,
     Al saggio, onesto, angelico costume,
     A i neri crini, all’amoroso accento.
E in batter l’ali intorno a lei per giuoco
     10Dille, che così fieri in me non schocchi
     Dell’ira i dardi, e che a pietà dia loco.
Ma guarda, che mia sorte a te non tocchi,
     Ne’ dì fresch’Aura ella ti cangi in fuoco:
     Non sai qual muove ardor da que’ begli occhi.


XV


Spesso Ragion cura di me si prende,
     E in parlar dolce, ed in sembiante amico
     Al cuor mi dice: Ah scuoti omai l’antico
     Giogo d’Amor, che scherno altrui ti rende.
5Indi addita al pensier quali a noi tende
     Insidie, e lacci il lusinghier nimico,

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     Qual’apre al piè fiorito calle aprico,
     Che per vie cieche al precipizio scende.
Ma come il Nil per balze aspre, e profonde,
     10Strepitoso caggendo in stranio modo,
     Grave assorda i Vicini col suon dell’onde:
Tal di vani pensier, ch’io nutrir godo,
     Tumultuando un folto stuol confonde
     La mente sì, ch’io più Ragion non odo.


XVI


Poichè l’alto decreto in Ciel si scrisse,
     Che in Croce un Dio l’alma spirasse un giorno,
     Tremò Natura, e volti gli occhi intorno
     Chi fia Ministro al gran misfatto? disse.
5Mostro ci sarà, cui mostro par non visse,
     Nè mai vivrà, finchè di luce adorno
     Farà dall’Indo al Mauro il sol ritorno,
     E splenderan le Stelle in Cielo affisse.
Sdegno, ed orror l’oppresse: e non ardia,
     10Misera!, il volto alzar mesto e turbato,
     Temendo in sen nutrir furia sì ria.
Così dubbia giaceasi, e veder nato
     Un gran mostro attendea: ma non avrìa
     Creduto mai l’Uomo sì fero, e ingrato.


XVII


Poichè in suo cuor da maraviglia oppressa
     L’Arte che tanto iva di Fidia altera,
     L’opra ammirò del gran Bernini, ov’era
     La sua chiara Eroina al vivo espressa:
5Quell’occhio inteso al Ciel come a sua sfera,
     Quella gentil (dicea) benchè in se stessa
     Umilmente negletta, in fronte impressa
     Angelica sembianza è finta, o vera?
Vera ben sembra. E qual sì duro, e scabro
     10Cuor non muove? Anzi se all’ultim’ore
     Sì dolce aprìa la Verginella il labro,
Spento avrìa nel Tiranno ogni furore:
     Ma se toglieasi l’opra al saggio fabro,
     Quando ei perdea di gloria, io di splendore.

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XVIII


Io sono in mezzo a due forti Guerrieri,
     Ch’hanno il mio cuor di duro assedio stretto,
     Ambo possenti, ambo ostinati e fieri
     In far guerra tra lor dentro il mio petto.
5Questi son due tenaci empi Pensieri,
     Che oprando vanno in me contrario affetto:
     Vuol l’un ch’io tema, e l’altro vuol ch’io speri,
     Questi muove l’ardir, quegli il sospetto.
Così dall’armi avvien, che oppresso io resti
     10Di duo Rivali; e Ragion vuol, ch’io creda,
     Ch’ambo mi sien del par gravi e molesti.
Chi vincerà non so: qualunque ceda
     All’altro infine, o vinca quegli o questi,
     Sempre io sarò d’un gran Tiranno in preda.


XIX


Poichè i miei gravi error pur troppo han desta
     L’ira del Ciel, che mi circonda e preme,
     E Mare e Terra e Cielo armati insieme
     Tutti a miei danni in man la spada han presta:
5Qual chi rotta la nave in gran tempesta
     Sull’ancora ripone ogni sua speme;
     Tal io, gran Madre, in mie sciagure estreme
     Se a te non corro, in chi sperar mi resta?
Se nell’offeso Nume il guardo io giro,
     10Veggiovi il mio gastigo, e sento il tuono,
     Che mormora e minaccia, ond’io sospiro.
Ma se ne gli occhi tuoi, che fonti sono,
     Fonti d’alta pietà, Vergine, io miro,
     Veggio espresso in quegli occhi il mio perdono.

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ERCOLE MARIA ZANOTTI.


I356


Quel Dio, che sciolto il giogo al gran tragitto
     Guidò Israello, e l’ampie strade aperse
     Nel rosso Mare, in cui tutti sommerse
     Eli armati carri, e i Cavalier d’Egitto;
5Egli, che a Gabaòn nel fier conflitto
     Pel suo Popol gli Ammorrei disperse,
     Che lui d’Assiria trasse, ove sofferse
     Sì dure cose, e fu cotanto afflitto;
Egli è, che ha rotta la terribil spada
     10In mano ai Traci, e a i lor cavalli ha tolta
     La fuga, ond’ora Africa ed Asia è in lutto.
Carlo, sarà dalle catene sciolta
     Per te Bizanzio, e l’Oriente tutto:
     Aperta alla grand’opra è omai la strada.


II


Per prender del peccato alta vendetta
     Io veggo uscir dalle ferrate porte
     Del cieco Abisso l’implacabil Morte,
     D’arco possente armata e di saetta.
5Superbi Regi, e Plebe egra e negletta
     Gitta a terra costei con ugual sorte:
     Le sta Giustizia al fianco, e in aspra e forte
     Voce al scempio fatal vie più l’affretta:
Ossa calcando inaridite e sparte
     10Scorre per tutto vincitrice, insino
     All’ignota del Mondo ultima parte.
Alfin orrenda, trionfale insegna
     Innalza, e piena di furor divino
     Gridando va: l’ira di Dio quì regna.

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III357


Se mai superbo le leggieri penne
     Pel Ciel spiegando, qualor seco ei mena
     Lieto Imenèo, ch’è dolce cura e pena
     Di Giovani e Donzelle, Amor se ’n venne;
5Se mai due cuori strettamente tenne
     Con quella sua possente aurea catena,
     Che i cuor più duri e più feroci affrema,
     E nel suo Regno bel trionfo fenne;
Egli è ben oggi, in cui con santo nodo
     10Quest’alne illustri ei tragge avvinte, e intorno
     Le mostra altrui di sua vittoria in segno.
Ei mai non prese, e in più leggiadro modo
     Legò due cuori, in cui stesse ogni degno
     Pregio d’alta virtude a far soggiorno.


IV358


Poichè d’Italia alla fatal ruina
     Corse Anniballe, e giù dall’Alpi scese,
     E poichè a Canne vincitor si rese
     Tanta uccidendo gioventù Latina:
5Pur non temè di servitù vicina
     Roma, che sovra mille navi ascese:
     E tosto, il Mar varcato, a terra stese
     D’Africa la superba alta Reina.
Or ecco il Trace la tagliente spada
     10Strigne, che calda è ancor di Greco sangue;
     Sallo l’Italia, e già vicin sel crede.
E pur pigra sen giace, e ancor non bada
     Al gran periglio, ma nell’ozio langue,
     Quasi porgendo alla catena il piede.

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V


Tu nol credevi, empia Sionne; il forte,
     Il feroce Latino eccolo: oh quanti
     Seco al tuo scempio ei mena! Or l’alte porte
     Veggio e i gran templi e i muri arsi ed infranti.
5A te mesta sedente, a te davanti
     Passan tuoi figli, che rapiti a morte
     Van dietro al vincitor chini e tremanti,
     E miran torvi l’aspre lor ritorte.
Non trovi oppressa, e in atre bende avvolta,
     10Pietà in quel Dio, che a tua salute or serra
     Le vie già usate, e ai pianti tuoi non bada.
Vedi sol l’ira sua, che a te rivolta
     Rota d’intorno insanguinata spada,
     E caccia gli Empi dall’iniqua Terra.


FRANCESCO MARIA ZANOTTI.


I


Quand’io penso all’Augel, che dal Ciel venne
     E il Garzon Frigio si recò sul dorso,
     Il qual gridando invan chiedea soccorso,
     Ch’ei già per l’ampio Ciel battea le penne,
5Io dico fra di me; che non avvenne
     Lo stesso anche a Costei, che il cuor m’ha morso,
     E già che il grido sovra ’l Ciel n’è corso,
     Non Giove anco di lei vago divenne?
E se a mente mi vien la lunga, e tarda
     10Guerra, onde fu per duo begli occhi in tanto
     Affanno Grecia, e Troja arsa, e distrutta;
Grido: Com’esser può, che il chiaro vanto
     Della costei beltà non muova, e tutta
     Di nuova guerra Europa infiammi, ed arda?


II


Sei pur tu, che a Maria l’augusto e degno
     Capo talora, o sacro Vel, cingesti,

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     Sei pur tu, che in gentil nodo tenesti
     Le chiome avvinte, e l’ebbe il vento a sdegno;
5E a lei la fronte a’ piè dell’aspro indegno
     Tronco tutta copristi, e nascondesti
     Infino agli occhi lagrimosi e mesti,
     Mentre il Figlio pendea dal fatal Legno;
Dunque se’ pur tu quello! Oh quanto, oh quanto
     10Felice sei, che forse ad ora ad ora
     Gli occhi soavi a te Maria rivolge!
E forse di te parla in Ciel talora
     Co’ sprti eletti, e non apprezza tanto
     Forse le stelle, ond’or la chioma avvolge.


GIO. PIETRO ZANOTTI.


I359


Spirto reale, e di più grande onore
     Degno di quel, che or ti riluce intorno;
     Che (con sua pace) l’ostro, onde se’ adorno,
     Di tua somma virtù quanto è minore!
5Ma alfin giusta mercè vero valore
     Sempre ha dal Cielo; e s’ei ne tarda il giorno,
     Largo l’indugio indi compensa a scorno
     D’invidia, e doppia a quei gloria e splendore.
S’ei di porpora a te la fronte or cinse,
     10Forse fia pago? Al grande ufficio e raro
     Scorger ti vuol, nè per via dubbia e lunga;
E all’uno e all’altro, che le chiavi strinse360
     Di Piero, ond’è il tuo sangue ancor più chiaro,
     Vorrà che il terzo in Vatican s’aggiunga.


II


Scossa talora la pesante e dura

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     Catena, ond’ella ha il fianco intorno avvinto,
     Erge la Coscienza mal secura,
     Il mesto volto di pallor dipinto;
5E grida ad alta voce, e m’assicura,
     Che per cammin fallace erro sospinto
     Dal rio costume, e che il crudel d’oscura
     Nebbia a me il Vero ha ricoperto e cinto:
Onde invan spero, senz’alta virtute
     10Divina, uscir dell’intricato calle;
     E ch’omai di chiamarmi il Cielo è stanco.
Io l’odo e tremo, e vorrei pur salute;
     Ma al rio sentier non so volger le spalle,
     E notte viene, ed ho il nemico al fianco.


III361


O Auguste Donne, o dell’antico e chiaro
     Tronco Estense bei germi, a Voi si debbe
     Che il miserando, e crudel fin non ebbe
     Questo lavoro sovr’umano, e raro;
5Lavor di lui, che in riva al bel Panaro
     Nacque, e pingendo a tant’onor quì crebbe,
     Che invidia il Tebro all’Arno esser potrebbe,
     Nè forse ha Grecia chi por seco al paro.
Sì, senza Voi l’opre, chè intatte or vede
     10Bologna ancor, sarìan polve; e ruine,
     E a’ Saggi di dolor vivo argomento.
Ah perch’egli non torna! Egli in mercede
     Vostre leggiadre forme alme e divine
     Farebbe oggetto a cento lustri, e cento.


IV


Sovra me stesso oltre il poter mortale
     Alzar mi sento, e già fatto men grave
     Spazio per la celestè aria soave,
     E tu, saggio Signor, m’impenni l’ale.

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5Oh Sole, oh Stelle! Oh quanta luce, oh quale
     Raggio d’eterna gloria adorno m’ave!
     Talchè mia salma più di se non pave,
     Che ben vede il suo stato alto immortale.
Or scorgo (gl’occhi a terra rivolgendo)
     10Schernirmi il basso invido volgo insano,
     Ond’io più altiero, e glorioso ascendo;
E la Morte, cui son tolto di mano,
     Me riguardar con torvo occhio, e fremendo
     Gittar la falce disdegnosa al Piano.


V


Spingo per lunga dirupata strada
     Lento destrier, cui di spronar son stanco,
     Fugando Lui, che i Suoi pel torto e manco
     Sentier conduce, e a cui sol scempio aggrada;
5Ma il fier mi segue: e ovunque, lasso!, io vada
     Sento fischiarmi le saette al fianco;
     Già tutto di timore agghiaccio e imbianco,
     Già pare, che il destrier sotto mi cada.
Ahimè ch’in breve avrò l’Empio alle spalle,
     10E seco Morte! Chi dal fero artiglio,
     Chi mi sottragge? Uman poter non vale.
Padre del Ciel riguarda il mio periglio,
     E tu m’aita: erto e sassoso è il calle,
     Zoppo il destriero, ed il Nemico ha l’ale.


VI362


Oh qual interno, oh qual nuovo m’innalza
     Furore a penetrar per entro i Fati!
     Oh quali io veggio Cavalieri armati
     Su i gran destrier fugar di balza in balza
5Genti nemiche! Oh come quegli incalza!
     Come questi gran via s’apre da i lati!
     E sparsa i crin barbaramente ornati,
     Ecco, ecco l’Asia che discinta e scalza
Colà nel tempio profanato immondo

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     10Al suo Macon ricorre, e ad alta voce
     Grida, chiedendo in van difesa o scampo.
Felice sposa, al cui seno fecondo
     Tal prepara il destin stirpe feroce!
     Io certo il veggio, tutto in gioia avvampo.


VII363


Madre, ben hai giusta cagion di doglia,
     Ch’egli è il tuo Figlio, e qual Figlio che muore,
     Le Fiere pur, le Fiere n’han dolore,
     E trema il Suolo, e ’l Sol de’ rai si spoglia.
5Pur pensar dei, che alfin compie la voglia,
     Per noi salvar, del suo gran Genitore.
     Ahi stolto Adamo! Ahi primo indegno errore
     Onde oggi Morte ha così ricca spoglia!
Ma tosto il rivedrai d’un più bel velo
     10Cinto spiegar candida insegna, e il santo
     Tuo vecchio Abramo, e gli altri aver d’intorno
E gir con loro trionfando al Cielo,
     Donde verrà poscia a incontrarti un giorno,
     Per seder teco al sommo Padre accanto.


VIII364


Io veggio il Re feroce: ecco l’altero
     Giovane Sueco u’ più ferve la mischia,
     In volto, cui nessun guardar s’arrischia,
     Di sudor sparso e polveroso e nero;
5E ovunque rota il sanguinoso e fiero
     Brando, l’aria a quei colpi intorno fischia,
     E il Suol, mentre fra stuolo e stuol si mischia,
     Si scuote al calpestar del gran destriero.
Rotte le avverse squadre ei per foreste,
     10Ei per balze i Fuggenti insegue e aggiunge,
     E la Sarmazia ne sospira e plora;

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E sott’elmi e corazze e busti e teste
     Mugghiando il Boristene, ancor da lunge
     Il fier Danubio il sente, e si scolora.


IX365


E crollar le gran torri, e le colonne
     Scuotersi, e infrante al suo cader le porte;
     E i Sacerdoti di color di morte
     Gemere; e l’alte Vergini, e le Donne
5Squallide scapigliate e scinte in gonne,
     Co’ pargoletti infra dure ritorte,
     Ir dietro al Vincitor superbo e forte,
     Mirasti, e ne piangesti empia Sionne.
E il Ciel d’un guardo invan pregasti allora
     10Desolata Città su i dolor tuoi,
     Sola sedendo a tai rovine sopra.
Ma dì: fra tanti guai pensasti ancora
     A un Dio confitto in Croce, a tanti suoi
     Strazi, che sol de le tue man son’opra?


X


E sempre avrai d’intorno a gli occhi avvinta
     La nera benda? E sempre andrai per calle
     Sinistro e torto a quella orrenda valle,
     Valle di pene, Alma ingannata e stolta?
5Squarcia il rio velo, e mira ove sei volta,
     E a qual periglio, e come il sentier falle,
     E chi ti preme al fianco e chi alle spalle:
     E lui, che chiama, attentamente ascolta.
Quella è voce di Dio, che a te risuona,
     10Onde in lagrime amare or ti distempre,
     E torni a lui, che volentier perdona.
Chi sa se in voci di sì forti tempre
     E sì soavi Iddio più ti ragiona?
     Forse, se tardi, avrai da pianger sempre.

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APOSTOLO ZENO.


I


Donna, s’avvien giammai, che rime io scriva
     Non indegne del vostro almo sembiante,
     In me da quelle luci oneste e sante,
     Fonti d’amore, il gran poter deriva.
5S’alza il basso mio stile u’ non ardiva
     Senza il vostro favor salire avante:
     Tal di Febo in virtù vil nebbia errante
     Talor lassuso a farsi stella arriva:
Leggo in voi ciò che penso; e quasi fiume,
     10Che dalla fonte abbia dolci acque, e chiare,
     Le mie rime han da voi dolcezza, e lume.
E se impura amarezza entro vi appare
     Dal mio cuor, non da voi, pendon costume,
     Che in voi son dolci, ed in me fansi amare.


II


Donna stà il mio pensier fisso in voi sola,
     E in voi sola il pensier trova il suo bene;
     Dietro l’orme di lui l’alma sen vola,
     Nè di me più sicura o le sovviene.
5Io ne attendo il ritorno, e mi consola
     Del suo tardo venir la dubbia spene;
     Pur qual volta un mio cenno a voi la invola,
     Vendica il torto suo colle mie pene.
Stanco alfin di soffrir mali sì immensi
     10La torno in libertà: la sua partita
     Non toglie il duol, ma solo opprime i sensi.
Temo di richiamarla allor, ch’è gita;
     E così mi convien, che per voi pensi
     A restar senza pace, o senza vita.


F I N E.

Note

  1. In morte del Maggior Riviera seguita in un fatto di arme.
  2. Per Giovanni III. Re di Polonia, e S. S. Innocenzio XI. in occasione della liberazione di Vienna.
  3. Per Gio. III. Re di Polonia liberatore di Vienna l’an. 1683.
  4. Pel Sereniss. Principe Eugenio.
  5. Si parla a Pallante piangente, e furioso contro Nerone parricida d’Agrippina.
  6. L’Anima distolta dalla via perigliosa del vizio per le Prediche del P. D. Gaetano Mazzolini.
  7. Per la Concezione immacolata di Maria N. D.
  8. Al sepolcro di Lodovico Ariosto.
  9. Per la ritirata de’ Turchi dall’assedio di Corfù, scacciatine da’ Veneziani, con la perdita degli accampamenti l’anno 1716.
  10. A sua altezza Sereniss. la Princip. Violante di Toscana.
  11. A sua Eccell. la Sign. Princip. Agnese Colonna Borghese.
  12. A sua Ecc. il Sig. Co. Antonio Rambaldo di Collalto.
  13. A sua Eccel. il Sig. Marchese Beretta Landi.
  14. Coronale alla Santità di N. S. Papa Clemente XI.
  15. Coronale in lode dell’Augustissimo Imperator Carlo VI.
  16. Ad amico afflitto per la morte di sua sorella.
  17. Per la terza Sacchetti maritata in Bologna.
  18. La Cleopatra di Belvedere in Vaticano.
  19. Per una monacazione.
  20. Per Sant’Antonio di Padova.
  21. Coronale per Clemente XI.
  22. L’isola di Malta.
  23. A Luigi XIV. quando pretendeva la franchigia in Roma.
  24. Si allude all’impresa di Luigi XIV, ch’è una Mazza.
  25. Alle glorie della B. V. del Pianto ricorrendo la memoria della liberazione dall’ultimo terremoto ottenuta nel giorno della sua Festa.
  26. In lode di Francesco Redi.
  27. La Fortuna.
  28. A Clemente XI. afflitto per l’assunzione al pontificato.
  29. A Maria Casimira Regina di Polonia.
  30. Per la Giuditta. Oratorio
  31. Elena e Lucrezia dipinte in un quadro.
  32. A Dio
  33. Al Sig. Conte Alessandro Capizucchi, suo marito.
  34. Per il quadro di Diana dipinto dal Sig. Carlo Maratti.
  35. La gelosia.
  36. La concezione della B. V. M.
  37. Polifemo ad Ulisse. V. Omero Odis. lib. 9.
  38. Le tentazioni cagionate dagli oggetti esterni.
  39. Polifemo briaco.
  40. Al Duca di Montemar general di Spagna ed autore del libro intitolato: Avisos militares.
  41. Orano fortezza d’Africa conquistata in questo secolo da’ Spagnuoli.
  42. Maria N. D. appiè della Croce.
  43. In morte della Duchessa di Bracciano.
  44. Alle Dame di Ravenna, in tempo che si trattava la diversione del fiume Ronco, che circonda la città, e le minacciava l’inondazione.
  45. In morte della Duchessa di Bracciano.
  46. Citazione d’Amore a sentenza.
  47. La città di Ravenna all’Eminent. Sig. Card. Cornelio Bentivoglio d’Aragona ivi legato, per la diversione del Ronco.
  48. Scherzo Poetico per toccar i pregi di S. Em. Il Sig. Card. Ulisse Gozzadini dedito alle Muse sin dalla sua fanciullezza.
  49. In morte d’un Canario della sua Filli. Sopra quei versi di Catullo: Passer delicia mea Puella.
  50. A sua Ecc. Soranzo eletto in Venezia Procur. di S. Marco.
  51. La rovina del Romano Impero.
  52. All’Italia per i movimenti dell’armi Ottomane.
  53. All’Europa nella Massa del Turco.
  54. Coronale a Carlo VI. nel 1706, prima in Madrid, poi in Toledo acclamato Re di Castiglia.
  55. Memoria del Giudizio Universale.
  56. Sullo stesso soggetto.
  57. Per il santissimo Natale.
  58. A Santa Teresa.
  59. Sfogo per accidente occorsogli.
  60. La Creazione, e la Redenzione.
  61. Per Alesandro suo figlio morto fanciullo: così li 3. segg.
  62. Per Carlo V. Imp. quando ebbe rotti i Luterani di Germania, e disfatta la famosa lega di Smalkald l’anno 1547.
  63. Per Donna Gio: d’Aragona Duchessa di Paliano.
  64. Per P. Virgilio nato in Mantova e sepolto in Napoli.
  65. Per dio, cioè vi prego.
  66. Napoli chiamata Sirena dal nome di Partenope Sirena quivi sepolta.
  67. Per la morte di Alfonso d’Avalo marchese del Vasto Generale di Carlo V. Morì in Milano l’anno 1546 essendo governatore di quello Stato.
  68. Coronale per la Nascita del Principe di Piemonte.
  69. Coronale alla Santità di Nostro Sig. Papa Clemente XI.
  70. Isaia al cap. 51. v. 20, Filii tui dormierunt in capite omnium viarum, sicut orix illaqueatus.
  71. Per la Nascita di N. S. G. C.
  72. Protezione di Maria N.D.
  73. Coronale a Carlo VI. Imperatore.
  74. All’augustissimo Imperatore Carlo VI.
  75. Per la Santità di N.S. Papa Clemente XI.
  76. A Dio.
  77. Per Alessandro Farnese conquistator delle Fiandre.
  78. Coronale a Carlo VI. Imperatore.
  79. A Giuseppe Pilotti valente Professor di Medicina.
  80. Nel sormontar gli Apennini, viaggio facendo in Toscana.
  81. Per S. Margherita Vergine e Martire.
  82. A Camilla Fenaroli dama e poetessa Bresciana valorosissima, in morte d’un tenero figliuolo.
  83. A Marco Cappello valoroso Poeta Bresciano.
  84. A Maria Madre di Dio.
  85. A Maria Madre di Dio.
  86. Tanta fuit dignitas Virginis, ut soli Deo cognoscenda reservetur. — S. Bernardinus.
  87. Aequaelis Patri secundum divinitatom: minor Patre secundum humanitatem.
  88. Efficieris gravida, et eris Mater semper intacta.
  89. Sullo stesso soggetto.
  90. Ega ex ore Altissimi prodivi primogenita ante omnem creataram. — Eccles. 24.
  91. Paries quidem Filium, et virginitatis non patieris detrimentum.
  92. Per la nascita della B. V. M.
  93. Sopra l’Immacolata Concezione della stessa.
  94. Alla medesima.
  95. A Maria N. D.
  96. Alla stessa.
  97. L’Angelico: Maria habet quandam dignitatem infinitam.
  98. Per Maria N. D.
  99. In lode della stessa co’ segg.
  100. L’Autore dice: Se ti paresse strano che la Morte scenda dal Cielo, vedi il VI dell’Apocalisse.
  101. Sopra l’Assunzione di N. D. Si allude al detto del Cartusiano Art. 15. in Cant. Largitrix post Deum universorum... per manus ipsius dare disposuit Deus quicquid nobis gratia tribuit.
  102. In lode di Maria N. D.
  103. Per la stessa.
  104. S’allude, dice l’Autore, alla riflessione dell’Abbate Guerico: Noluit Deus sumere carnem ex ea, non dante ipsa.
  105. Per la Pittura, Scoltura, ed Architettura.
  106. A sua Eccell. il Sig. Niccolò Foscarini nel suo ingresso di Procurator di S. Marco in Venezia.
  107. Mentre S. Eccell. Bembo mostra l’Arsenale di Venezia al Principe Elettore di Baviera.
  108. Zeleuco Re de’ Locresi priva se stesso d’un occhio, e dell’altro il Figlio reo d’adulterio.
  109. A Dio.
  110. La creazione del Mondo.
  111. Predicando in Napoli, e richiesto essendo come acquistata avesse tanta efficacia di parlare.
  112. Soavità della grazia divina.
  113. A Dio. Che sia la grazia.
  114. A Cristo N. S. crocifisso.
  115. Gesù deposto di Croce, e sepolto.
  116. Sopra il versetto Similis factus sum Pellicano solitudinis: et sicut Nyctiorax in domicilio.
  117. Gloria Patri, et Filio, et Spirito Sancto.
  118. A Dio. Questa traduzione d’un Sonetto Spagnuolo da alcuni creduto di Santa Teresa, da altri di San Francesco Saverio.
  119. A Cristo crocifisso.
  120. La Provvidenza di Dio.
  121. Per la espugnazione di Buda seguita l’anno 1686.
  122. Carlo di Lorena generale dell’esercito Imp. fu il primo ad entrar nella rocca.
  123. Nel secondo attacco ebbe da colpo di pietra ferita una gamba.
  124. Questo Sonetto, e i due seguenti sono in morte di S. M. R. Cristina Regina di Svezia.
  125. Questo, e gli seguenti Sonetti sono in morte di Camilla da Filicaja Alessandri.
  126. Per la Ragunanza degl’Arcadi.
  127. In occasione degli Sponsali del Sig. Gozzadini Crimaldi.
  128. L’amore di Gesù Cristo.
  129. Quando fu trasportato da Piacenza a Parma il cadavere del Duca Francesco.
  130. Per il nome SS. di Maria N. D.
  131. Per Maria N. D. Annunziata.
  132. Per Monaca.
  133. Ad Enrichetta d’Este sposa del Duca Antonio Farnese, quando nel 1728 fece il solenne ingresso in Parma.
  134. Celebrandosi il compleanno di Carlo infante di Spagna Duca di Parma.
  135. Sullo stesso argomento.
  136. Scipione Africano, quando se n’andò esille volontario a Linterno.
  137. Annibale in Capua.
  138. Rivedendo dopo qualche tempo il sepolcro della sua Donna
  139. Al P. Pier Filippo Mazzarosa celebre Predicatore.
  140. Trad. del susseg. Sonetto del Cav. Marino, e secondo altri d’Antonio Ongaro.
  141. Per le Nozze de’ Duchi della Torre.
  142. Rivedendo in luogo, e giorno sacro la sua Donna di cui erasi presso che dimentico, sente destarglisi l’antiche fiamme.
  143. Alla Santità di Nostro Sig. Papa Clemente XI in occasione della vittoria al Savo.
  144. Nell’esaltazione dell’Eminent. Gran Maestro di Malta Fra Marco Zondadari di Siena.
  145. Coronale in lode di Mons. Annibale, poi Card. Albani.
  146. Coronale per l’esaltazione al trono dell’augustissimo Imperadore Carlo VI.
  147. S. Giuseppe pensa abbandonar la Sposa gravida senza saper il Mistero.
  148. Per l’esaltazione di Clemente XI. in tempi calamitosi. S’allude allo stemma, ch’è tre monti.
  149. Per le Nozze delle Signora Vittoria Zandodari.
  150. A S. Ecc. Donna Maria Lucrezia Rospigliosi in Roma. La Caccia dello Specchietto alle Lodole.
  151. Parole di Gesù Cristo a Santa Caterina da Siena.
  152. A Francesco III Duca di Modena, e Carlotta Aglae d’Orleans, in occasione delle loro nozze seguite l’anno 1720.
  153. Per la cupola di Santa Maria del Fuoco di Forli dipinta dal cavalier Carlo Cignani.
  154. Sopra il rinomato Giudizio del celebre Michel’Angelo Buonarotti, dipinto in Vaticano.
  155. Per D. Luigi della Corda ucciso sul mare da’ Turchi.
  156. In lode di Francesco Petrarca
  157. In lode del medesimo.
  158. Prospero Colonna, poi Cardinale.
  159. Padova, culla di T. Livio, tomba di Petrarca.
  160. Nel dottorato in Leggi di Francesco Benaglia Trivigiano.
  161. Gio: Antonio Benaglia leggiadro poeta nel secolo di Leon X.
  162. A Dio. Essendo l’Autore gravamente ammalato.
  163. Nel monacarsi l’illustre Donzella Bresciana.
  164. Per la natività di Maria N. D.
  165. Per S. Sebastiano M.
  166. Il Baly Fra Marco Zondadari sentendosi acclamare gran Maestro, modestamente ritroso propone il gran Priore di Pisa Frà Domenico del Bene Maestro di Can. di S. A. R.
  167. All Emin. gran Maestro di Malta Frà Marco Zondadari.
  168. Dio Creatore.
  169. Amore abituato.
  170. Per la fabbrica di Cesano del Sig. Co. Bartolommeo Atesi.
  171. Nel Venerdì Santo.
  172. Essendo carcerato il suo Barbiere, con ordine che nessuno gli dovesse parlare, col seguente Sonetto, mandato al Sig. D. Giovanna Piracchio Podestà di Lodi, ottiene grazia.
  173. Ritornando al luogo dove soleva Lidia villeggiare.
  174. Al P. Giuseppe Perini della Comp. di Gesù, famoso Oratore, per la Predica della Morte.
  175. Mentre udiva Messa, vide un tale supplichevole avanti l’altare di S. Rocco, ed immaginandosi, che chiedesse grazia al Santo per una Moglie tempestosa, che aveva; soprapreso da un estro Poetico, non potè trattenersi di non comporre sopra il luogo un Sonetto, e terminato lo lesse al Padre Agostino Lenguegna Somasco.
  176. La Violetta.
  177. Per la morte di Gio. Morosini, ed Elisabetta Maria Trevisani Nob. Veneti. Sposi promessi, infermati, e morti dello stesso male in un tempo medesimo.
  178. Coronale per l’augustissimo Imperatore Carlo VI.
  179. Se l’Amore sia degno di lode, o di biasimo.
  180. Nell’occasione d’un Discorso sopra il Fascino, fatto del Signor Carlo Doni.
  181. La Pittura, e la Scultura, e l’Architettura debbono conformarsi alle regole della moral Flosofia, e della vera Religione.
  182. Alla Signora Gaetana Passerini, detta in Arcadia Silvia Licoatide.
  183. Nella promozione dell’Eminent. Sig. Cardinale Albani.
  184. Contro le Donne.
  185. Coronale in lode del Sig. D. Alessandro Card. Albani.
  186. Per la Nascita dell’A. R. Carlo Eduardo Principe della gran Brettagna.
  187. Per la Beata Giuliana Falconieri.
  188. Per l’Arcadia di Roma.
  189. A Clementina Sobieski Principessa Madre.
  190. A Violante Beatrice di Baviera gran Duch. di Toscana.
  191. A Francesco de Lemene eletto Oratore di Lodi.
  192. In morte del Maggior Riviera, morto in fatto d’Armi.
  193. Coronale alla Santità di Nostro Signore Papa Clemente XI.
  194. Per il ristoramento di S. Maria in Cosmedin, Coronale alla Santità di Nostro Signore Papa Clemente XI.
  195. Per Monaca.
  196. Per la Nascita del Serenissimo Principe di Piemonte.
  197. Al Padre Campana Domenicano Predicatore nella Chiesa del suo Ordine in Forlì anno 1711.
  198. Per l’immacolata Concezion di Maria.
  199. Per il tremuoto tenuto nella morte di N. S.
  200. Per Alessandro Marsigli Bolognese creato Confaloniero.
  201. Ponte sul Reno fuor di Bologna, del quale i Sigg. Marsigli ebbero più età la rettoria, nello stemma.
  202. Enzo Re di Sardegna fatto prigione da’ Bolognesi.
  203. Per Monaca.
  204. Per una predica sul soggetto della Predestinazione.
  205. Per il P. Mancini, quando predicò in Bologna.
  206. Per Monaca.
  207. Per la ragunanza degli Arcadi, che tiensi sul colle di S. Onofrio in lode di San Filippo Neri.
  208. Per il P. Pantaleone Dolera celebre Predicatore.
  209. In morte di Anna Isabella Duch. di Mantova e di Guastalla. Interlocutori sono il Poeta e la città di Mantova.
  210. Per Monaca.
  211. Per morte d’un Figlio.
  212. Per l’immaculata Concezion di Maria.
  213. Voto al glorioso Argangelo S. Michele per la pace di santa Chiesa.
  214. Nell’immatura morte di Giovanni suo figliuolo.
  215. Alla Beata Vergine.
  216. Ad Omero.
  217. Pittura e Poesia.
  218. Sull’argomento precedente.
  219. Vari effetti d’Amore.
  220. Rapina baldanzo.
  221. Fuga del male avvertito.
  222. Al Sepolcro del Sannazzaro.
  223. Non Apparenza, ma Utilità.
  224. Pittura di Lucrezia, e di Cleopatra.
  225. In lode del Sannazzaro.
  226. Nel Dottorato di D. Annibale Albani.
  227. Per S. Sebastiano Mare.
  228. Per la morte di S. Antonino Arcivescovo di Firenze.
  229. L’Amicizia infedele.
  230. Sensi umani sottoposti all’inganno.
  231. Ciascuno esser Re in sua casa.
  232. Per il primo parto della Principessa di Belmonte.
  233. Per la festività dell’Esaltazione della Croce.
  234. Scrivendo l’Autore in Vienna l’anno 1733. la sua Olimpiade, si sentì commosso sino alle lagrime nell’esprimere la divisione di due teneri Amici.
  235. La Gelosia.
  236. All’augustissima Imperatrice Regina per la compita vittoria riportata a Colin in Boemia dalle armi Austriache, sotto il comando del Maresc. Co. di Daun, il giorno 18 giugno 1757.
  237. Scritto dall’Autore per un maritaggio in Vienna.
  238. Desiderio affettuoso.
  239. Pentimento dell’antecedente desiderio.
  240. Composto in Vienna per un maritaggio.
  241. Fatto in Roma a richiesta per un maritaggio.
  242. Risposta al Sonetto dell’Abb. Lorenzini. Ved. a pag. 241.
  243. Al sepolcro di Luigi XII.
  244. Santa Maria Maddalena penitente alla sua grotta.
  245. All’Europa nelle presenti vittorie dopo la nascita del Primogenito dell’augustissimo Imperator Carlo.
  246. Per la nascita dell’A.R. Carlo Eduardo Principe della gran Brettagna.
  247. Parafrasi del famoso Epigramma del Sannazzaro in lode di Venezia: Videret Hadriacis, ec.
  248. Trattandosi della beatificazione del Venerabile P. Gian-Domenico Lucchese Carmelitano morto in Viterbo l’anno 1714.
  249. Per la nascita del Principe di Savoia.
  250. Alla Santità del Nostro Signore Papa Clemente XI.
  251. Per la vittoria di Temisvar. Alla Santità di Clemente XI.
  252. Per la felice memoria di Alesandro VIII. S. P. trovato intatto nel Sepolcro.
  253. Per i Giuochi Olimpici celebrati in Arcadia.
  254. All’augustissimo Imperatore Carlo VI. per la resa di Temisvar.
  255. Sonetto al Figlio, di cui segue la risposta.
  256. Per la S. Mem. di Alessandro VIII. Zio dell’Autore.
  257. In occasione della sconfitta dell’Esercito Turco al Savo.
  258. Alla Santità di Nostro Signore Papa Clemente XI.
  259. Per le vittorie riportate contro il Turco.
  260. Per la nascita di Principe di Piemonte.
  261. A Gesù Bambino.
  262. Nello stesso soggetto.
  263. Sopra l’Assunzione della Beata Vergine.
  264. Sopra il medesimo soggetto.
  265. Si celebra il Tempio di S. Pietro come maggior di tutte l’opere antiche.
  266. Essendo l’Autore in Malta Segretario di Mons. Spinola.
  267. Sonetto con intercalare.
  268. A Gio: III Re di Polonia per la liberazione di Vienna.
  269. Al Serenissimo Principe Eugenio di Savoia per la Vittoria ottenuta contra i Turchi al Tibisco.
  270. In morte di Vincio suo Fratello.
  271. L’Italia.
  272. La macchina pneumatica trovata da Roberto Boyle Ingl.
  273. Il microscopio.
  274. In Morte di Carlo Maria Maggi.
  275. Per Giacopo Marmitta Parmigiano poeta celebre del secolo XVI. Morì tra le braccia di S. Filippo Neri.
  276. All’Abbate Agostino Paradisi.
  277. Per una Monaca.
  278. Lo stesso tema.
  279. A Maria Vergine.
  280. All’Angelo Custode.
  281. San Giovanni Battista.
  282. Le bestie, macchine moventisi da sè.
  283. Per l’esaltazione al Pontificato di Benedetto XIV.
  284. Templi di Giove Laziale sul monte Albano.
  285. Sepolcro d’Ippolito.
  286. Sull'incertezza del sepolcro de’ Curiazi.
  287. Sull'incertezza della rovina di un’edifizio.
  288. Sulle ruine della via Appia.
  289. Luogo della battaglia fra Turno, ed Enea.
  290. Torre detta di Cicerone, che ancor si vede.
  291. Terme di Faustina.
  292. Lanuvio.
  293. Laurento già capo del Latino Regno.
  294. Sulle ruine del Tempio della Fortuna.
  295. Per le nozze di Francesco III. Duca di Modena, e Carlotta Aglae d’Orleans.
  296. Rammentasi il famoso Rinaldo Estense, che seguì Golfredo nell’impresa di Terra-Santa.
  297. Per nozze degli Eccellentissimi D. Camillo Borghese, e D. Agnese Colonna.
  298. Questo e il seguente Sonetto, sono per Monache.
  299. Alla Signora Elena Riccoboni Ferrarese.
  300. In morte del P. Ubertino Cartara della Compagnia di Gesù.
  301. Vedi il Sonetto III. di Petronilla Massimi Paolini, pag. 280.
  302. Per le nozze Colloredo e Gonzaga.
  303. I quattro satelliti di Giove.
  304. Saturno abitato.
  305. Le stelle fisse abitate.
  306. L'Italia.
  307. Al Sig. Domenico Parodi celebre Sculore per la Statua d’Adone.
  308. Allo stesso per la Statua d’Arianna.
  309. Il vecchio Simeone a Maria.
  310. Per la Moglie morta di parto; così li cinque seguenti.
  311. Scipione Ammirato sopra questo Sonetto dice: Il Poeta volendosi serbare alcuna cosa della sua Donna, non ostante che seppellita fosse, mandò un suo nipote, e fè schiodare il legno, e di dito le trasse l'anello.
  312. Monacandosi la Nob. Signora Bianca Spannochi.
  313. Sopra il versetto: Decoloravit me Sol.
  314. Le farfalle.
  315. A Dio.
  316. Per San Giuseppe.
  317. Sopra il precedente soggetto.
  318. Per S. Dionigi Areopagita, il quale dicesi, che vedendo in Eliopoli l’ecclissi per la morte di Gesù Cristo, gridasse: aut Deus Naturae patitur, aut mundi machina dissolvitur.
  319. Coronale detto in Arcadia per l’esaltazione dell’Eminentissimo Gran Maestro di Malta Zondadari.
  320. Coronale in lode della S. di N.S. Papa Clemente XI.
  321. Al serenissimo Principe Eugenio.
  322. All’Emin. Gran Maestro di Malta F. Marco Zondadari.
  323. Per l’Accademia del SS. Natale in Palazzo Apostolico.
  324. Preghiera, a Dio per Roma in occasione de’ tremuoti dell’anno 1703.
  325. Sopra lo stesso soggetto.
  326. A Iacopo figlio di Giovanni III. Re di Polonia.
  327. L’ira di Dio.
  328. Per la Nascita di N. S.
  329. Sopra il precedente soggetto.
  330. A Vittorio Amadeo Duca di Savoia quando cedè lo Stato a Carlo Emmanuele suo figlio.
  331. A Gesù N. S. bambino.
  332. Per Monaca.
  333. Protezione di Maria N. D.
  334. A Carlo Emmanuele III. Duca di Savoia Re di Sardegna.
  335. Per il Ritratto del medesimo.
  336. Nella guerra del 1733, in cui confederatosi colla Francia, e Spagna conquistò il Ducato di Milano.
  337. Nella nascita d’un figlio del Col. Mayerle.
  338. Venezia.
  339. Per monaca.
  340. A Dio.
  341. Vallesio Gareatico, nome pastorale ch’ebbe in Arcadia l’Autore.
  342. A Bacco.
  343. Fiesole già città, or picciol Borgo.
  344. Al Sepolcro di Francesco Petrarca.
  345. In lode di Francesco Petrarca.
  346. All’invittissimo Imperator Carlo VI.
  347. Per M.A. Mocenico Veneto Amb. a Roma, Proc. di S. Marco.
  348. Per Andrea Delfino Podestà di Padova figlio del Cav. Gio. il quale morì Bailo in Costantinopoli, e fu sepolto a Pera.
  349. In nome di Maria Beatrice Ferri Gentildonna Padovana, quando fece la sua religiosa professione.
  350. Risposta al Sonetto di Giuseppe Bartoli. Vedi pag. 53.
  351. Verona, nella partenza di Giovanni Mocenigo Soranzo Capitano.
  352. Per Monaca.
  353. Per Niccolò Tron capitano di Padova, e Chiara Grimani di lui Consorte.
  354. Per Dottore di medicina, il quale, mortogli il padre, fu dal suo Zio educato ed addottrinato.
  355. All’Isola di Cipro, quando vi si scagliò sopra Selino gran Signore de’ Turchi.
  356. Alla Maestà Cesarea Cattolica di Carlo VI.
  357. In occasione de’ felicissimi Sponsali trai Nobilissimi Signori Marc’Antonio Gozzadini, e Anna Camilla Grimaldi.
  358. Per l’Italia quando il Turco, dopo la conquista della Morea fatta nel 1715, s’apparecchiava alla nuova campagna.
  359. Per Camillo Cibo quando fu creato Cardinale nel 1729.
  360. Bonifacio IX, de’ Cibo-Tomacelli creato nel 1389 ed Innocenzo VIII creato nel 1484.
  361. Alle Principesse d’Este, che salvarono in Bologna le pitture inestimabili di Nicolò dell’Abate.
  362. Per Nozze.
  363. Per Maria N. D. appiè della Croce.
  364. Per Carlo XII. Re di Svezia nella guerra co’ Moscoviti.
  365. A Gerusalemme distrutta da Tito.