Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo VII/Libro III/Capo III
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C a p o III.
Poesia italiana.
I. Fra tutti i serii e piacevoli studi a' quali
era l’Italia ardentemente rivolta, niuno ne ebbe, a mio credere, che avesse coltivatori e seguaci in sì gran numero quanti la poesia italiana. Nobili e plebei, ecclesiastici e laici, uomini
TERZO l645
di ogni condizione, di ogni età, d’ogni grado,
i principi istessi, anzi ancora un numero grande
di donne, faceansi di questo studio o una piacevole occupazione, o un dolce sollievo alle
loro più gravi cure. Di alcuni de' principi italiani, e di que’ singolarmente della famiglia Gonzaga, già abbiam veduto che la coltivarono
felicemente, e ad essi aggiugnerò io qui Vespasiano duca di Sabbioneta, alle cui lodi, da
me altrove accennate, non mancò ancor quella
di colto poeta italiano, come ha provato il
ch. P. Ireneo Affò, che ne ha di fresco scoperte alcune eleganti Poesie, e le ha pubblicate dopo la Vita di esso stampata in Parma
nel 1780 (a). Per ciò poi che appartiene alla
plebe, se non è, come sembra probabile, una
scherzevole impostura la Raccolta pubblicata
in Mantova nel 1612 da Eugenio Cagnani, noi
raccogliamo da essa che anche i più bassi
artefici, i calzolai, i tessitori di cendali, i
(a) Si i detto altrove che anche il cardinale Scipione
Gonzaga coltivò felicemente la volgar poesia. E 10 ne
l‘o qui nuovamente menzione per aggiugnere a ciò che
ho detto ^ii quel celebre personaggio, che i tre libri
de1 Comentari della sua Vita, da lui medesimo illustrate
con molla eleganza, sono ora alla pubblica luce’ per
opera di S. E. il sig. Cardinal buigi Valenti Gonzaga,
splendido protettore de’ buoni studi, il quale in quest'anno 17cj 1 ne ha fatto lare in ltoma una bella edizione, accresciuta ancora di un supplemento a compir
la \ ila del cardinale, e di copiose ed erudite annotazioni, opera del sig. abate Giuseppa Marotti prolessor di eloquenza nel collegio romano, della cui eleganza nello scriver (..tino non c questo il primo saggio
elio abbiamo. l646 LIBRO
venditori di cipolle, i ferrai, ec. dilettavansi! di
poetare; talchè sembra che potrebbesi questo
dire a ragione il secolo de’rimatori. S’io volessi
farne anche solo un nudo catalogo, esso si
stenderebbe a più pagine. Ma fra sì gran numero di rimatori, quanti son quelli a cui convenga dirittamente il titolo di colti ed eleganti
poeti? Era la poesia italiana nel secolo precedente, come a suo luogo si è detto, decaduta di molto, singolarmente in ciò ch è sceltezza di espressione ed eleganza di stile, e i
poeti che verso la fine di esso furon più illustri, se hanno sovente immagini e sentimenti
degni di molta lode, raro è che sappiano sollevarli colla grazia dell espressione e colla dolcezza del metro. Il molto studio che nel secolo xvi si pose ad abbellire vie maggiormente
la lingua italiana, rendette comunemente le rime
di quell'età più vezzose e più dolci. Ma questo
non rare volte è il solo lor pregio, e sotto le
verdeggianti ampie foglie spesso si cercano
inutilmente i frutti. Il Petrarca fu l’idolo innanzi
a cui si prostesero i rimatori di questo secolo,
e il modello su cui studiarono di formarsi.
Ogni voce, ogni sillaba da lui usata era oggetto di ammirazione. Quindi venne il gran
numero di comentatori del Petrarca, che in
questo secolo si divolgarono. Sebastiano Fausto da Longiano, Silvano da Venafro, Aldo
Manuzio il giovane, Francesco Alunno, Francesco Sansovino, Antonio Brucioli, il Muzio, il
Dolce, e meno infelicemente degli altri Bernardino Daniello e Alessandro Vellutello, amendue
lucchesi, il secondo de’quali viaggiò in Francia, TERZO 1647
a(fin di raccoglier notizie intorno al Petrarca,
come altrove si è detto (t. 5, p. 2, p. 769), Gianuaiidrea Gesualdo da Traietto e Lodovico Castelvetro. Quindi ancor venne quella infinita copia
di lezioni, di spiegazioni, di dissertazioni su qualche tratto di quel poeta; opuscoli pieni per lo
più d’inutili speculazioni, e abbandonati omai
alla polvere e alle tignuole. L’imitazion del Petrarca era facile, finchè non si trattava che di
ritrarne l apparente corteccia, e moltissimi perciò sono i poeti de’ quali si può dire.che scrisser rime con qualche eleganza. Ma l’eleganza
è in essi non rare volte priva di quella viva
immaginazione, e di quella energica insieme e
naturale espression degli affetti, che forma il
principal ornamento della poesia. Fra Pinnunicrabile schiera de' rimatori, non pochi furono
nondimeno coloro che si possono ancora proporre come esemplari degni d’imitazione, o
perchè furono essi medesimi felici imitatori
del Petrarca, o perchè da esso scostandosi,
in altri generi di poesia e in altra maniera di
stile si renderono illustri Noi per non uscire
da que confini che la natura di questa Storia
ci prescrive, ci tratterremo dapprima nel dir
de’ più celebri tra que’ rimatori che lirici o
melici si sogliono appellare, e ne accenneremo
più altri meno famosi, rimettendo chi voglia
averne un più minuto catalogo alle opere del
Crescimbeni e del Quadrio, il secondo de’ quali,
benchè nel darci notizie di tai poeti non sia
sempre esattissimo, nel raccoglierne però i nomi, appena ne ha omesso alcuno. Quindi
in somigliante maniera.verremo a dire dpgli l648 LIBRO
scrii tori ili salire, eli egloghe, di rime giocose,
e di altri particolari generi di poesie. Succederanno a questi gli scrittori de’ minori poemi,
e poscia de’ romanzeschi e degli epici, e riserberemo l'ultimo luogo agli scrittori di poesie teatrali; e in un sì vasto argomento ci
sforzeremo di contenerci in maniera che nè
una soverchia lunghezza ci possa essere rimproverata, nè una superficial brevità.
II. Uno de primi a cui convenga la lode
di aver ricondotta all’ antica sua eleganza la
toscana poesia, è Pietro Bembo, di cui già
detto abbiam tra gli storici (a). Negli anni suoi
giovanili, mentre gli altri poeti seguivano per
lo più il poco felice sentiero aperto negli anni
addietro, e verseggiavano assai rozzamente,
ardì quasi solo di ritornare sulle vie del Petrarca, cui egli prese non solo a imitare, ma
a ricopiare ancora in se stesso. Ma ciò che gli
avvenne nelle sue opere scritte in latino, nelle
quali una troppo studiata imitazione di Tullio
il fece cadere in una affettata eleganza, gli avvenne ancor nelle rime, nelle quali, mentre si
sforza di rinnovare lo stil petrarchesco, mostra non rare volte di seguir l’arte più che la
(a) Pare ni sig. Landi (l. 4» P• "»02) che quella Inde
ch’io qui do al Bembo, come ad uno de" primi che
ahhiano ricondotta all"antica eleganza la toscana poesia,
non ben s" accordi con ciò ch’io ho detto altrove del
Poliziano, a cui pure ho attribuita una somigliante lode.
Ma se egli avesse riflettuto thè il Bembo nacque solo
sedici anni dopo il Poliziano, avrebbe conosciuto che
si può con ragione «lire «li ciascheduno di loro, che tu
uno ile primi ristoratori dell italiana poi sia. TEMO iG49
natura. Ma lo sbandir ch'egli fece l'usata rozzezza, e l additare il diritto sentiero che dovevasi seguire a divenir buon poeta, giovò non
poco a coloro che gli vennero appresso, e che
seppero imitare i pregi del Bembo, e insiem
fuggirne i difetti. La maggior parte però de'
poeti che vissero al principio di questo secolo
furono anzi seguaci della maniera nel secolo
precedente introdotta, che dalla nuova richiamata in vita dal Bembo j e le Rime di Gianfrancesco Caraccioli, di Diomede Guidalotti,
di Baldassarre Olimpo, di Gabriello de Benedetti, di Girolamo Britonio, di Giampaolo Vasio, di Girolamo Casio de Medici, di Roberto
Roncaglia e di moltissimi altri rimatori di questi tempi, che si annoveran dal Quadrio (t. 2,
p. 212), ci pruovano abbastanza che il numero
de buoni poeti fu sempre di molto inferiore a
quel de’ cattivi. Tra questi possiamo annoverar parimente Girolamo Malipietro veneziano,
Minor osservante, che si lusingò di poter volgere in sacro il profano amor del Petrarca, e
pubblicò in Venezia nel 1536 il Petrarca Spirituale, esempio seguito poscia da altri con
ugualmente infelice successo (V. Agostini,Scritt.
venez. t. 2, p. 439). Assai più eleganti sono le
Rime di Baldassar Castiglione, di cui detto abbiam tra gli storici, di Luca Valenziano tortonese, intorno alle cui colte Rime è degna d
esser letta una lettera del ch. sig. Tommaso
Giuseppe Farsetti patrizio veneto (Calog. Rare.
(TOpusc. t. 45, p. 4‘7) e di quell’Antonio,
(a) Del Valenziano non abbiamo altra notizia, che lG5o LIBRO
chiunque egli fosse, delle cui Rime, stampate
in Venezia nel 1538, si può vedere il diligente
articolo del conte. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1
par. 2, p. 648); e quelle del Sannazzaro, del
Tris sino, dell' Alamanni. Ma di questi tre diremo più sotto, ove ragioneremo di altri generi di poesia. Quelle ancora di Marcello Filosseno, trevigiano di patria, e dell'Ordine de
Servi di Maria, stampate in Venezia nel 1507,
sonosi da alcuni proposte come formate sullo
stil del Petrarca. Del Beaziano parleremo tra’
poeti latini, poichè in questa lingua a me sembra verseggiatore più felice che nell’italiana.
III. Le Rime del Broccardo, e di altri Autori, pubblicate in Venezia nel 1538, ci offrono
tre poeti, cioè il suddetto Broccardo, Francesco Maria Molza e Niccolò Delfino. Quest’ultimo però, se ha avuta la sorte di veder le
sue Rime unite a quelle de' primi, non ha avuta
quella di ottener fama uguale alla loro, e a
noi perciò basterà l’averlo accennato. Del Broccardo belle ed esatte notizie ci ha date il conte
Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 4?/J- 21 *7)»
a cui nondimeno possiamo aggiugnere alcune
cose tratte dall'opere di Sperone Speroni. Maturila cìie ci dà il Giraldi ne’ suoi Dialoghi intorno a
Poeti della sua età: Lucas Valenlimis, così lo nomina
egli, Dertonensis est quìdem Medicus, et tolerabilis est
Poeta. Hie inter t'eliqua de rompage et utilitair mentbrorum carmina scripsil, atque in tam sterili et difficili
materia non adnindiun inquinate pedem extulit. Le Rime
di esso.furono stampate in Venezia nel t53a, e un codice tns. se «e conservava nella libreria de’ Gesuiti di
S. Fedele in Milano. TERZO |<55l
¡•ino Broccardo veneziano, filosofo c medico di
qualche nome, fu il padre di Antonio, e questi in Padova a p pii cossi principalmente allo studio dell’amena letteratura e della poesìa italiana, nel che egli ebbe a suo maestro Trifone
Gabriele, e lo Speroni lo introduce nel Dialogo
della Rettorica a raccontare (Op. t. 1,p. 223, ec.)
in qual modo si andasse avanzando nello studio della poesia, e come gli venisse il capriccio di volere introdurre nella lingua italiana il!
verso eroico de Latini, e intendendo poscia
ch’egli aveva intrapresa una inutil fatica, si rivolgesse a esaminare profondamente le bellezze
e i pregi del Petrarca. Per soddisfare a’ comandi del padre ei dovette ancora applicarsi
alla giurisprudenza; ma con qual animo il facesse, lo dice egli stesso nel citato Dialogo:
sollo io, per quel ch'io provo al presente mezzo
vecchio, siccome io mi sono, che mai non
odo il Roino, nè leggo Bartolo o Baldo (il
che faccio ogni giorno per compiacere a mio
padre) ch'io non bestemmi gli occhi, gli orecchi, l'ingegno mio, e la vita mia condannata
innocentemente a dover cosa imparare, che mi
sia noja il saperla (ivi, p. 205). Di fatto, volte
le spalle alle leggi, tutto si diè il Broccardo
alla poesia; e le Rime poc’anzi accennate, le
quali trovansi ancora sparse in diverse Raccolte, ci fan vedere quanto felice disposizione
avesse egli in ciò sortito dalla natura, e qual
nome fosse per ottener fra’ poeti, se avesse
avuta più lunga vita. Ma il troppo vantaggioso
concetto in che egli avea se medesimo, gli fu cagione d’immatura ed infelice morte: perciocché t65u unno
avendo preso a riprendere e a screditare le
opere del Bembo, ch’era allora In somma venerazione in Padova, i dotti di questa città
e di più altre, e di Venezia singolarmente
con tal furore si scatenarono contro il Broccardo, ch’ egli veggendosi deriso e svillaneggiato da tutti, ne infermò per dolore, e venne
a morte; e l'Aretino vantossi di esserne egli stato
il principale stromento. Di ciò veggasi il suddetto conte Mazzucchelli che ne ragiona a lungo.
a
Pi riferisce ancora gli elogi che molti ne han
fatto, e annovera le opere che se ne hanno alle
stampe; alle quali deesi aggiugnere una lettera
a Sperone Speroni ivi, t. 5, p. 327), in cui è
inserito un poco onesto epigramma, che per
onor di amendue meglio era il sopprimere. Nel
Dialogo di Amore dello Speroni si accenna ancora un’orazion del Broccardo in lode delle
Cortigiane (t. 1, p. 26), la quale non ha veduta la luce.
IV. Di Francesco Maria Molza, le cui Rime
furono allora unite a quelle del Broccardo, ha
scritta sì esattamente la Vita il ch. sig. abate
Sci assi, premettendola alla bella edizione delle
Opere del Molza fatta in Bergamo nel 1747 t
che appena si può sperare di far nuove scoperte, se non in qualche cosa di non molta
importanza, se cosa alcuna v’è di non molta
importanza, ove si tratta di’uomini grandi (a).
(ri) Del Molza veggasi ancora la Biblioteca modenese
(t. 3, p. 230. ec.i l. (>. p. i<!o) ove alcune circostanze
intorno alla vita di esso si sono osservate, sfuggite alla
diligenza del eli. abate Sciassi. tf.iuo i(>53
K fu veramente il Molza uno de’ più leggiadri
ingegni che nella prima parte di questo secolo
avesse l’Italia. Nato in Modena a’ 18 di giugno
del 1489 secondo il Vedriani (Dott. moden,
p. 1 15) j da Lodovico di Niccolò della Molza
e da Bartolommea de Forni, famiglie amendue
nobilissime di questa città, fin da’ primi suoi
anni diè a conoscere il raro talento di cui era
fornito e l’instancabile suo amor per lo studio
neirnjiprender che.fece con non leggiera fatica
non sol le lingue latina e greca, ma ancor l'ebraica. Quali fossero le speranze che di sè dava
il giovane Molza, e come esse alquanto venissero ritardate dalla soverchia inclinazione a
piaceri, elegantemente descrivesi dal Giraldi nel
primo de’ suoi Dialoghi su’ Poeti dei’ suoi tempi, che si suppone tenuto in Roma, ove il
Molza allor si trovava: Franciscum Mariam
Molciam Mutinensem, dic egli (De Poet. suor,
temp. dial. 1), et M. Antonium Flaminium adolescentes adeo bonarum li te ramni studio inflammatos video, ut assidue ambo vel libros evolvant, vcl ali quid ipsi componant De utroque
magna concipere possumus; nec solum là luirnanitatis Jloscidos le glint, sed ulterius studia
sua proferunt. Franciscus enim post vernacula,
in quibus suae jam eruditionis certa documenta
dedit, Latina (Graecis et Hebraeis conjungit,
et, licet nimio plus mulierum amoribus insanire videatur, inter rarissima tamen ingenia
comi urne randus. L’abate Serassi ci ha data la
storia degli amori del Molza, a quali egli cominciò ad abbandonarsi in Roma, ove il padre verso il 1505 avealo inviato, c donile poi l654 LIBRO
richia mollo per dargli in moglie, come avvenne
nel i5ia, Ma sin a nobile gentildonna modenese,
figliuola di Antonio Sartorio e di Violante C,
randina. Ma poichè il Molza ebbe passati con
lei alcuni anni, e avutine quattro figli, de’ quali
fu il primo Cammillo, tornossene nel 1516 a
Roma, ove soggiornò quasi sempre, trattone
qualche viaggio ch’ei fece alla patria, e la dimora che per due anni tenne in Bologna dal i5:i3
fino al 1525. I piaceri e gli studi erano le occupazioni nelle quali divideva il Molza il suo
tempo. Una cotal Furnia romana, una spagnuola
detta per nome Beatrice Paregia, Cammilla Gonzaga, quella celebrata tanto dal Casio, Faustina
Mancina gentildonna romana, e per ultimo una
Ebrea, di cui parla in una sua lettera l’Aretino (Lett. l. 1, p. 167), furon le donne che
occuparono il troppo tenero cuore del Molza.
Ed egli ebbe non rare volte a pentirsi di questa sua inclinazione; perciocchè riportonne una
volta da un suo rivale in amore una sì grave
feri la, che fu quasi creduto morto, e si vide
diseredato dal padre, sdegnato contro di lui e
per la vita che conduceva, e per la lontananza
quasi continua dalla casa paterna, e, ciò che
fu peggio, ne contrasse una tal malattia, che
dopo averlo travagliato assai lungamente, in
età ancora fresca condusselo a morte. In Roma
dall’anno i5?.9 fino al 1535 fu in corte del
Cardinal Ippolito de' Medici, e quindi dopo la
morte di esso, e dopo l'elezione di Paolo III,
passò a quella del Cardinal Alessandro Farnese. Ma benchè da amendue questi splendidissimi cardinali fosse il Molza c accarezzato e TERZO lG55
pi cimato quanto bramar poteva, ei nondimeno
essendo, come spesso avviene a’ poeti, e più
spesso agli amanti, poco saggio economo, trovavasi assai sovente in grandi ristrettezze, e si
doleva col figlio che non gl’inviasse i denari,
de’ quali abbisognava, e si lagnava dell’avversa
sua sorte che il costringesse a vivere in sì infelice stato. Ciò non ostante, l’amicizia e la
conversazione del Molza era avidamente cercata
da tutti gli eruditi, de’ quali era allora sì gran
copia in Roma. Il Bembo, il Sadoleto, il Beroaldo, il Tibaldeo, il Colocci, il Beaziano, il
Longolio, il Lampridio, il Tolommei, il Caro,
il Contile, Pier Vettori e più altri furono tutti
amicissimi del Molza. Ei fu uno de’ principali
ornamenti dell’Accademia romana, di quelle
della Virtù, de’ Vignaiuoli e dello Sdegno, delle
quali tutte si è detto a suo luogo; e quanto in
esse fosse stimato, si raccoglie, per tacer d’altri, dal modo con cui il Contile parlando dell’Accademia della Virtù, così, benchè con qualche esagerazione, ne ragiona: Primieramente
aviamo il Molza, che ognuno lo conosce, e si
tiene, che nella Poesia Latina e Volgare non
sia oggi, salvo l onore d ognuno, chi lo agguagli, e degli antichi, chi lo superi (Lett. t. 1,
p. 19). Moltissime altre testimonianze onorevolissime al Molza ha aggiunte l’abate Serassi alla
Vita di questo elegante poeta, il quale finì di
vivere in Modena a’ 28 di febbraio del 1544
Il Cardinal Farnese fin dal 1547 pc,lsù a dare
in luce le Poesie italiane e latine del Molza; e
bramò che le prime fosser rivedute dal Caro,
com’ io raccolgo dalla seguente lettera inedita, if>56 Liuno
scritta dal cardinale al duca Pier Luigi suo
padre, ai cui servigi trovavasi allora il Caro
la qual conservasi nell archivio di Guastalla *
Prego V. E. che si contenti, che M. Annibale
Caro riveda la Poesia del quondam Molza
nostro, la quale le sarà data da M. Camillo
suo figlio presente esibito re, acciocché come
prima sia revista si possa stampare insieme
con li scritti latini, che già sono a ordine;
cosa ch io certo desidero molto per ogni rispetto, et perciò mando il detto M. Camillo, il
quale V. E. si degnarà di havere per raccomandato, come homo di mio servizio, così in
questa presente occorrenza, come in qualunque
altra li potesse accadere, mentre starà in coteste parti, dove havesse bisogno del favore
dell' E. V., alla quale non occorrendo altro
mi raccomando in sua buona grazia. Di Roma
20 di Giugno 1547 Ma questa edizion progettata non ebbe effetto) e benchè molte cose
- del Molza avesser veduta separatamente la luce, tutte insieme però non furono pubblicate
che nell accennata edizione di Bergamo, a cui più altre cose inedite si sono aggiunte, oltre le Poesie di Tarquinia Molza, di cui diremo più sotto. E veramente era il Molza degno di questo onore, poichè egli è uno de più colti rimatori di questo secolo, e all eleganza dello stile unisce la nobiltà de’ pensieri e la vivezza delle immagini. Egli è ugualmente felice e nelle poesie serie e nelle scherzevoli, nelle amorose e nelle morali, e in qualunque altro genere gli piaccia d esercitarsi, e ne sono in pregio singolarmente le Stanze sul ritratto di Giulia teuzo 1657 Gonzaga, e la Ninfa Tiberina. Non meno eleganti ne sono le Poesie latine, nelle quali egli è uno de’ più felici imitatori di Tibullo. Le Lettere ancora così latine come italiane sono scritte con) molta grazia, e piena di forza è l’Invettiva latina contro Lorenzo de’ Medici per le antiche statue da lui fatte guastare in Roma. Scrisse ancora in lingua italiana alcune leggiadre Novelle, delle quali alcune si hanno alla stampa, quattro altre mss. se ne conservavano presso questo sig. marchese Giambattista Cortese, delle quali e di altre opere del Molza si veggano più esatte notizie nella soprallodata Vita, ove assai più ampiamente troverassi svolto e disteso ciò ch’ io non ho che brevemente accennato. Io aggiugnerò solo che la traduzione in versi sciolti del secondo libro dell’ Eneide del Cardinal Ippolito de Medici fu da molti creduta fatica del Molza, che allora era a’ servigi del cardinale: Quando il Cardinal de Medici, dice Ortensio Landi (Paradossi, l. 2, pa~ rad. a3), tradusse il secondo libro della divina Eneide, si disse incontanente, ch ella era opera del gentile et vertuoso Molza. Ma non sappiamo quanto fondata fosse questa opinione. V. Un altro valoroso poeta italiano ci diede Lucca in monsignor Giovanni Guidiccioni, la cui Vita scritta dal P. Alessandro Pompeo Berti della Congregazione della Madre di Dio va innanzi alle Opere del medesimo Guidiccioni, stampate in Genova nell an 1749 e poscia di nuovo nel 1767. Ma assai più copiosa ed esatta è quella che il ch. sig. Giambattista Rota bergamasco ha premessa alle Poesie dello stesso Tiraboschi, Voi. XII, 3 3 lti58 LIUKÒ monsignor Guidiccioni, stampate in Bergamo nel 17 53, in cui si emendano molti errori del P. Berti e di più altri scrittori. Fu egli figlio di Alessandro Guidiccioni fratello del cardinal Bartolommeo e di Lucrezia, di cui ignorasi la famiglia, e nacque in Lucca a’ 25 di febbraio dell’ an 1500, come rendesi certo dalla fede del battesimo che conservasi nell’archivio della chiesa di S. Frediano della stessa città, e ch è stata prodotta dal mentovato sig. Giambattista Rota. Le università di Pisa, di Padova, di Bologna, di Ferrara lo ebbero alle loro scuole, e nell’ ultima di esse ottenne l’ onor della laurea a 18 di gennaio del 1525. Dal cardinal Bartolommeo Guidiccioni suo zio, a cui dovette in gran parte la sua educazione, fu posto al servigio del cardinal Alessandro Farnese, che fu poi Paolo III. Ivi egli coltivò l’ amicizia di tutti i dotti, de’quali era allora sì piena Roma, e specialmente la corte di quel gran cardinale, e sopra tutti quella d’Annibal Caro, con cui poi visse sempre in istrettissima unione, come dalle lor lettere si raccoglie. Ciò non ostante, annoiato il Guidiccioni dallo strepito della corte, ritirossi alla patria nel 1533. Ma Paolo III, eletto pontefice l’anno seguente 1534, richiamollo a Roma, e dopo averlo fatto governatore della stessa città, il nominò l’anno medesimo vescovo di Fossombrone, alla qual chiesa però poco potè egli assistere personalmente, occupato dal papa in diverse non meno importanti che onorevoli cariche. Nell’an 1535 inviato nunzio all’ imperator Carlo V, lo accompagnò in molti viaggi, e fu poscia sulla TERZO 165^ fine del i 53q fatto presidente della Romagna, e poi commissario generale delle armi pontificie, e finalmente governatore della Marca. In tutti questi impieghi diede sempre grandi pruove di destrezza e di senno, e ottenne sempre maggiore stima presso il pontefice, da cui avrebbe probabilmente ottenuto in ricompensa l’ onor della porpora, se la morte non l’avesse sorpreso in età ancor fresca in Macerata nel 15/j i. Un’ Orazion da lui detta alla Repubblica di Lucca, molte Lettere e molte Rime son le opere che del Guidiccioni ci son rimaste, e che veggonsi nelle accennate edizioni. Delle Poesie di esso parmi che più saggiamente di tutti abbia giudicato l’ autor dell’ articolo inserito nel Giornale d’Italia (t. 1, p. 194), dicendo che lo stile, singolarmente ne soggetti gravi ed eroici, a quali più si adatta che agli amorosi, non può essere nè più nobile, nè più sostenuto, e che dallo studio di spiegar nobilmente ogni cosa trasse per avventura quella oscurità che in lui talvolta si scorge. E tale appunto era stato fin da que’ tempi il giudizio di Giulio Giraldi: Fuit et in eorum numero, dic egli (De Poet. suor, temp. dial 2), Joannes Guidiccionus Poeta admirandi ingenii, in cujus scriptis mirae animi conceptiones cernuntur, verbis etiam non minus electis proditae et explicatae; sed interdum obscurior esse vi detur quam par esset in ea dicendi forma. In his vero carminibus, in quibus 1 ialine miscras calamilates atque infortunia, complorat, suae istius praeclarae dictionis testimonia legentibus exbibct. i GCm) unno VI. Se all’ingegno e allo studio fosse stato ' in lui uguale il senno, dovrebbe aver luogo tra" migliori poeti Niccolò Franco. Ma ei fu un di coloro che col reo uso che fanno de' lor talenti, si chiudon la via all’ immortalità del nome, e lasciano di lor medesimi poco onorata memoria. Ei nondimeno non debb’ essere dimenticato nella Storia della Letteratura, che anche i vizii de’ letterati debbe indicar come scogli da cui guardarsi, e io ne parlo ancora più volentieri, perchè niuno sinora ne-li ha scritta la Vita. Benevento ne fu la patria, e l’edizione del Dialogo delle Bellezze, fatta in Casale di Monferrato nel 1542, a cui va innanzi il ritratto del Franco colle parole aet. ann. XXVII (Zeno, note al Fontan. t. 1, p. 219), ci mostra ch’egli era nato circa il 1515. Ma io dubito o di errore, o d’impostura in quel numero (a). Tra le Lettere di Niccolò, stampate nel 1 “>39, ne abbiamo alcune scritte nel 1531 al re Francesco I, al duca e alla duchessa d’Urbino, e ad altri cospicui personaggi. È egli possibile che in età di poco oltre a quindici anni egli osasse tanto? Forse invece di XXVII doveasi stampar XXXVII, col che verrebbe a fissarsi la nascita di Niccolò circa il 1505. Le dette Lettere ci fan vedere che il Franco tra l 1531 e ’l 1536 si stette or in Benevento, or in Roma, ora, e per lo più, in Napoli. Esse ancora ci scuoprono il carattere di costui nulla (a) Potrebb" essere rhe il Franco in età Hi ventisette anni si fosse fatto ritrarre, e solo piscia nel 1^.44 avesse premesso a quest'opera il suo ntrulio. TEHEO iGGl inferiore all’Aretino nel chiedere importunamente regali e sovvenzioni a’ gran principi; ma nien di lui felice nell1 ottenerli. Nè solo in ciò, ma anche nel mordere satiricamente or fimo or l’altro prese egli a farsi imitatore dell'Aretino. E il primo saggio, ch egli ne desse, fu in alcuni sonetti satirici da lui scritti all’ abate Anisio napoletano poeta latino (V. Mazzucch, Scritt it t. 1, par. 2, p. 799, ec.) Ne parla egli stesso in una sua lettera del 1532 (Lettere, p. 13, ed. 1539), ove ancora ci fa vedere il suo animo insofferente di ritegno e di freno, dicendo: Ma chi si perderebbe un bel volo, quando gli va a proposito? Io per me lascerei piuttosto un desinare, che scrivere il tiro d una canata, quando mi va per la fantasia. Anche di Girolamo Borgia, poeta allora assai rinomato, scrisse egli con molto disprezzo (ivi, p 18)} ed è probabile che le inimicizie ivi contratte lo costringessero ad uscire dal regno per ritirarsi a Venezia, il che accadde, come dalle stesse Lettere si raccoglie, verso il giugno del 1 f>3G (ivi: p. 27). Ei ne partì miserabile 7 come vi era vissuto, e anche de suoi componimenti non recò altro seco che le Poesie latine. Partendomene, dic egli stesso (Dial. delle Bellezze, Ven. 1542, p. 108), da le opere Latine in fuori, le quali non mi parve lasciare, come quelle che per qualche studio di qualche, loda mi parevano degne, nessuna altra cosa hebbi meco, che fosse da peregrino, salvo l habito miserevole, il quale non spero cangiare, ec. Infatti tra le opere del Franco annoverate dal Tafuri (Scritt. napol. t. 3, par. y, \G(J2 LIBRO p. 338) trovasi un’opera intitolata HIsabella, che è probabilmente in versi latini, stampata in Napoli nel 1535, da me non veduta. In Venezia ricoverossi il Franco presso il suddetto Aretino, nè mai si vide union di due pazzi uguali a questi. Uomo ignorantissimo era l Aretino; e perciò valeasi volentieri del Franco che, se crediamo a Giammatteo Toscano (Peplus Ital. l. 4, p. 106), era uomo assai dotto non solo nella lingua latina, ma ancor nella greca. In fatti confessa lo stesso Aretino che il Franco vantavasi di avergli composte più opere, benchè l Aretino il neghi costantemente (V. Mazzucch. l'ita di P. Aret. p. 54)» e fra due uomini tali che si smentiscon l’un l altro, troppo è difficile il definire chi sia degno di fede. Certo è che nella prima edizione delle Lettere dell' Aretino alcune son dirette al Franco, in cui il loda non poco, e ch’ esse poi furono ommesse nelle posteriori edizioni, quando essi divenner nimici. Nè potean essi vivere lungamente amici, che uomini di troppo sordido e vile animo eran amendue, perchè potessero serbar l amicizia. L’origine della loro discordia fu la pubblicazione del primo libro delle Lettere dell’ Aretino, fatta in Venezia nel 1537 Il Franco, invidioso del plauso con cui videle accolte, volle emularlo, e nel 1539) pubblicò le sue Pistole vulgari nella stessa forma di quelle dell’Aretino, nell’ultima delle quali diretta all' Invidia par che prenda di mira il medesimo Aretino. Non facea bisogno di tanto, perchè questi altamente se ne risentisse. Una lettera da lui scritta al Dolce, TERZO lG(53 a’ ~ di ottobre dell’ anno stesso (Lctt. I. 2, p- 97)» ^ una fierissima invettiva contro il Franco; cui svillaneggia e maltratta colle più incivili e grossolane espressioni; esalta i beneficii ch egli aveagli fatti * accogliendolo mendico ed ignudo, e tenendolo seco più anni; mostra chiaramente che le Lettere stampate dal Franco erano la principale origine del suo sdegno; racconta le battiture e gli sfregi che in varie occasioni avea il Franco avuti in Venezia per la sua maldicenza, e singolarmente la pugnalata con cui Ambrogio Eusebi servo dell Aretino avealo di fresco gravemente ferito nel volto. Il Dolce, a cui egli scrive, era egli stesso nimico giurato del Franco. come ci scuopre una lettera da lui scritta all’ Aretino (Lettere all’ Aret. t. 1, p. 3^2)} la qual non ha data, ma è certamente più antica di quella mentovata or ora; perciocchè vi si parla, come d' 110111 privato, del Bembo che fu eletto cardinale nel marzo del detto anno, e del Franco si dice, ch era già tre giorni venuto a Venezia. Questa lettera ancora è scritta colla medesima civiltà di quella dell’Aretino; ma ci dà certe particolari notizie della vita del Franco > alcune delle quali però non hanno altro fondamento che la non troppo autorevole asserzione del Dolce. Ei dice che il Franco era uso in Napoli di servir per famiglio, e di strega giare i cavalli; accenna alcuni Epigrammi latini da lui stampati nella detta città, i quali son forse quelli che forman l opera sopraccitata, e intitolata Hisabella; parla ancora del Comento da lui composto sopra la Prinpea lGT>4 LIBRO attribuita a Virgilio; ma insieme dice ch'ei si era ingiustamente usurpata quell opera: l'orso 10 induce a questa sua alterezza il comento, ch egli ha fatto sopra la Priapea, il quale tuttavia non è suo, ch egli lo ha involato Signore, al Pedante del Marescalco, e leggasi la Commedia nel terzo atto dell’ ultima scena, che il povero Pedante lo dice. Colle quali parole parrebbe che volesse indicare ch' ella fosse opera dell' Aretino autore del Marescalco. Ma ! Aretino stesso nella lettera poc anzi citata nomina lo stesso Comento senza dolersi del furto che il Franco gli avesse fatto: Nel Comento fatto dal Balordo nella Priapea, giura, che solo lo ingegno del Franco penetra in sì alti sensi. Qui pare che si ragioni del Comento latino del Franco su quegli osceni componimenti, il qual però non era ancora uscito a luce, come tra poco vedremo. Nomina innoltre il Dolce un libro che avea per titolo il Pellegrino, che dal Franco doveasi dare alla luce, e di cui io non ho altra notizia. Finalmente accenna non so qual furto di sonetti da lui fatto a Vittoria Colonna, del che pure io non trovo più precisa notizia: Per voler fare istampare le sue goffarie così latine come volgari, gli conviene vender ad altri quello che non è suo, cioè i Sonetti della Pescara, la quale fra pochi giorni gli farà havere il guiderdone, che gli si conviene, cioè una soma di bastonate d asino degne di lui, se il giuoco non passerà a peggio; e di ciò sembra parlar l’Aretino in un’ altra lettera al Fanzino, di cui tra poco diremo: Quando la Madonna a cui intitolò il TERZO lGiìi) 7Tempio (P amore (opera a me; ignota) lo fece premiare dai contanti di ducei ito bastonate eroiche (Lettere, l. 2, p. 212). Conobbe il Franco che il soggiorno in Venezia era per lui di troppo pericolo, e partisene con intenzione di andarsene in Francia (V. DiaL delle bellezze, p-5j ed. ven. 1542)* Ma passando per Casale di Monferrato, la cortese accoglienza che vi ebbe da Sigismondo Fanzino governatore di quella provincia, fece che ivi per qualche tempo si trattenesse. Ivi pubblicò. come si è detto, il Dialogo delle Bellezze; ed esso, non meno che le Lettere che il precedono e il seguono, ci fan vedere che il Franco fece ogni sforzo, e usò di ogni arte, per entrare in grazia del marchese Davalos governator di Milano, e di donna Maria di lui moglie, sperando di esserne largamente ricompensato; ma non pare ch ei fosse in ciò molto felice. L'Aretino frattanto da ogni parte cercava di accender fuoco contro il Franco (p. 107); e abbiamo fra le altre cose la lettera da lui scritta nel 1541 al Cardinal Ercole Gonzaga contro il Fanzino che onorevolmente tratteneva il Franco in Casale (Lettere, l. 2, p. 217). Questi non era uomo a starsi tranquillo. Pien di furore contro il suo implacabil nimico, scrisse in due giorni soli, com’ egli si vanta, moltissimi sonetti contro di esso, i quali insieme colla sua infame Priapea italiana furono la prima volta stampati nel 1541, colla data di Torino; la seconda nel 1546; la terza due anni appresso. Apostolo Zeno, che riferisce queste tre edizioni, sospetta (l. c.) che la prima non fosse 1666 LIBRO veramente fatta in Torino, ma in Casale; e così veramente sospettò l’ Aretino medesimo in una petulantissima lettera da lui scritta agli 11 di marzo del 1543 al suddetto Fanzino, in cui, dolendosi del detto libro, parla con ugual villania e di lui e del Franco, e anche del Cardinal Ercole Gonzaga, in cui nome era il Fanzino governatore de Monferrato (Lett., l. c. p. 251, ec.) Rarissime sono le dette edizioni, e le due prime singolarmente. Della terza ci ha data la descrizione Apostolo Zeno (l. c.), e più diffusa ancora è quella che se ne ha nella Bibliotheque Françoise stampata in Amsterdam nel 1733 (t. 18, p. 137, ec.). Il titolo è il seguente: Delle Rime di M. Niccolò Franco contro Pietro Aretino, et de la Priapea del medesimo, terza edizione, ec. con grazia et privilegio Pasquillico 1548. Sono dapprima a fi 7 sonetti contro l’ Aretino, e un capitolo intitolato Il Testamento del Delicato: quindi siegue la Priapea che contiene circa altri 200 sonetti, molti de’ quali pure son contro lo stesso Aretino. Poche opere sono in luce, che disonorino l'umanità al pari di questa. Le più gros-, solane oscenità, la più libera maldicenza e il più ardito disprezzo de' principi, de' romani pontefici, de’ Padri del concilio di Trento, e di più altri gravissimi personaggi, sono le gemme di cui egli adorna questo suo infame lavoro. Ei mostra singolarmente il suo mal talento contro de principi, da' quali vedeva con alta invidia premiato liberalmente il mortal suo nimico Aretino, e se stesso dimenticato, e al fin dell’ opera indirizza ad essi una lettera che TERZO | 667 comincia: A gli infami Principi dell’ infame suo secolo Nic. Franco Beneventano. Principi, io v ho parlato in rima, et hora vi parlo in prosa. Che parte haggiate fra tante infamie, vel potrete conoscere, se la vostra trascuraggine non sia così cieca in leggere, com è stata in donare. Io mi stupisco che niuno tra’ principi facesse al Franco quella risposta di cui era degno. Ma contro ragione si maraviglia l autor citato della Biblioteca francese, che il Franco ardisse di scrivere tai cose in Roma. Non in Roma, ma in Casale di Monferrato era allora il Franco, ove fu uno de’ principali accademici dell accademia degli Argonauti, e le Rime marittime da lui ivi composte furono stampate in Mantova nel 1547 insiem con quelle del Bottazzo e di altri accademici. Una lettera scritta dall’Aretino a Giovanni Alessandrino, nel settembre del 1549, ci mostra che il Franco era allor pedante in Mantova: Io sarei riconosciuto per benefattore et non per nimico fin da quel Franco, che delle sue ingratitudini vien punito (in mentre s'intitola flagellum flagelli) dalla sferza, concui gastiga i fanciulli, che non sanno compitare i nomi delle tristizie, che tutto dì gli rimprovera la scuola, che tiene in Mantova (Lettere, l.5, p. 155). Ma non sappiamo quanto ivi si trattenesse. Nella lettera al suo stampatore, da lui premessa alla prima edizione, e scritta nel 1541: Tutto che, dice, le tristizie di P. Aretino sieno infinite, finito ch' havrete d imprimerle, soggi ungereteci la Priapea volgare. perchè i Comentari Latini fatti sopra quella di Virgilio s’ imprimeranno 1668 Libro colle cose Latine. Egli si trasferì poi a Roma; ed ivi è probabile che divolgasse i suoi Comenti latini sulla Priapea, perciocchè l’ Ammirato ne’ suoi Ritratti racconta (Opusc. t. 2, p. 249 ec) che avendo egli ivi fatti stampar que’ Comenti a' tempi di Paolo IV, gli esemplari ne furon tosto soppressi e gittati al fuoco; che la protezione di un gran personaggio, e più ancora la morte del detto pontefice poco appresso accaduta, salvollo dal grave gastigo da lui meritato; che a tempi di Pio IV continuò il Franco a sfogare la sua maldicenza, singolarmente contro il pontefice predecessore, e che ciò non ostante non fu punito pe riguardi che il papa avea pel Cardinal Morone protettore del Franco (nel che però parmi difficile a credere che un uom sì zelante, com era quel cardinale, prendesse a proteggere un uom sì empio, qual era il Franco), e che finalmente il pontefice S. Pio V (contro di lui ancora esercitò il Franco il satirico suo talento con un epigramma latino che dal Menagio (Origini della Lingua ital. p. 139) si riferisce), parendogli che con un esempio di giusto rigore si dovesse por freno a cotali empietà, fece pubblicamente appiccarlo nel 1569. Nel genere della morte del Franco tutti convengono gli antichi e i moderni scrittori, benchè alcuni l’abbiano anticipata di troppo, fissandola al 1554, ed altri a’tempi di Paolo IV. Il Toscano aggiugne che alcuni anni prima egli si era fatto ordinar sacerdote. E alcune altre circostanze intorno alla morte del Franco si posson vedere presso il Nicodemo (Addiz, alla TEItZO JJibl. napol. p. 180). Oltre le opere già da noi accennate, abbiamo del Franco dieci Dialoghi, stampati la prima volta nel 1539), e un altro Dialogo di non molto pregio, intitolato il Petrarchista, che nell’ anno medesimo vanne alla luce, un noioso romanzo che ha il titolo di Filena, alcune Rime sparse in diverse Raccolte, e alcune altre opere che gli si attribuiscono dal Ghilini (Teatro de’ Letter. p. 332), e dal Tafuri (l. c), delle quali però non ci dicono se sieno stampate, o inedite, e ove conservinsi. L ultima di esse presso il Tafuri è la traduzione dell’Illiade di Omero in ottava rima. Ma realmente doveasi dire dell’Odissea!*), di cui fa menzione Giammatteo Toscano (l. c.). In fatti monsignor Fontanini racconta (Bibl. it. t. 1, p. 218) che vedendosi certi libri venuti da Urbino di ragione dell’arcivescovo Santorio, de’ quali egli ne prese alcuni, si trovò l’ Ulissea di Omero in ottava rima di propria mano del Franco in un tomo in foglio, che fu portato con altri libri ai pontefice Cle(*) Fidato all'autorità del Fontanini, ho corretto il Tafuri, affermando che l’Odissea, e non l’Iliade, d’Omero fu dal Franco tradotta. Ma il eh. sig. aliate Serassi mi ha avvertito che il Tafuri è stato in ciò più esatto del Fontanini, c che nella libreria Albani in lioma conservasi tuttora ]’ originale dell’ opera che ha pi'r titolo: Li xxitir libri della Ilìade cCHornero in ottava Rima per Niccolo Franco tradotti con gli annoiamenti di sintomo Cesario. Comincia: V ira mortai del Figi 10 di Peleo. Termina: Lans Deo st. Vili di /Iprite di Giovedì: la. Stazione in S. Apollinare. In un foglio a parte si aggiungono gli argomenti a tutti 1 libri in ventiquattro ottave eli Girolamo Pallantieio. iG^O LIBRO mente XI. Finalmente credono alcuni che la Vita ms. dell’ Aretino, che va sotto nome del Berni, fosse opera veramente del Franco; intorno a che veggasi il conte. Mazzucchelli (Vita di P. Aret. p. 29; Scritt. it. t. 2, p. 994), il quale ne ha pubblicato un tratto. Non vuolsi però tacere che in mezzo al biasimo e alla vergogna di cui colle sue proprie opere si ricoperse il Franco, non gli mancarono lodatori; e che oltre un epigramma in onor di esso composto da Niccolò d’Arco (l.2, carm. 61), piacevole è una stanza dello Speroni, in cui scrivendo a una certa Porzia dal Franco amata, così gli dice: Porzia gentil, Messer Niccolò Franco È un gentiluomo pien di cortesia > Bello, come son io, o poco mancot Figli noi di Febo e della Poesia. Ed ebbe voglia anch ei di nascer bianco; Ma vide in quel color non riuscia. Tutto è bel, tutto è buon, tutto è modesto, Tutto è di grazie e di virtù contesto. Op. t. 4* p- 381. ^ VII. Io vo scegliendo fra la turba innumerabile de’ rimatori alcuni o per valore d ingegno, o per varietà di vicende più degni di special ricordanza, e ne lascio in disparte moltissimi, de’ quali non giova il far distinta menzione. Si veggano le diverse Raccolte pubblicate in quel secolo, delle quali ci dà l’indice, benchè non compito, il Quadrio (t. 2, p. 347), e vi si scorgerà un tal numero di poeti che muove a maraviglia. Si cominciò fin d allora a fare ancora Raccolte di rimatori di qualche città; o TERZO lfri provincia particolare; e la prima che si vedesse, fu quella de’ Napoletani, fra’ quali troviamo molte delle più illustri famiglie di quel regno, in cui veramente la poesia italiana fu con singolar felicità coltivata, e ne vedremo le prove nel ragionar di alcuni de’ più famosi poeti. Così ancora nel 1553 uscì alla luce la Raccolta de’ Poeti bresciani. Molte accademie innoltre, come quelle de Trasformati, degli Affidati, degli Eterei. e più altre pubblicarono le lor Raccolte; e io penso che una compita collezione di tutti i rimatori italiani del secolo xvi formerebbe essa sola una assai copiosa biblioteca. Seguiam dunque secondo l’ordine già cominciato, e ristringiamoci a far parola solo di quelli i cui nomi non si posson tacere senza traccia di negligenza, benchè anche di molti di essi ci basterà fare un sol cenno. Di Giuseppe Betussi natio di Bassano ci converrebbe dire non brevemente; perciocchè gli elogi con cui ne ragionano gli scrittori di quei’ tempi, e le molte opere non sol poetiche, ma di più altri argomenti da lui pubblicate, gli hanno ottenuto luogo tra gli uomini più illustri in sapere. Ma le notizie che ne ha date il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 2, p. 11 oo), e quelle ancor più copiose e più esatte che di fresco ne ha pubblicate il ch. sig. Giambattista Verci (Nuova Racc. (d Opusc. t. 25, p. 88, ec.), mi rendon lecito di rimetter chi legge alle erudite loro ricerche. Io posso però additare un’altr’opera del Betussi, composta, ma non pubblicata, di cui essi non parlano, e di cui io ho tratta notizia da una lettera inedita del Betussi a Cesare li)73 LIBRO Gonzaga sig. di Guastalla, scritta da Casalmaggiore a’24 d’ ottobre del 15(38, la qual conservasi nell’archivio segreto di Guastalla: Prima che'l verno passi, dice egli, intendo voler dar fuori una mia fatica di molti anni delle case illustri d Italia, nella quale per ordine si tratta Confine, discendenza, continuazione, et fatti degli huomini più famosi, che habbiano! havute questa famiglie. Et già che mi trovo presso che al fine, per non mancar di ogni diligenzia et affezione verso quelle case et Signori, che osservo, non risparmiando nè a spesa, nè a fatica, oltre quello, che ho raccolto dalle historie, io stesso sono venuto o ho mandato a ricercarne scritture et memorie particolari, et a tal fine il verno passato fui a Napoli, et così hora in queste parti, ec. Quest opera del Betussi nè ha mai veduta la luce, nè si sa che in alcun luogo conservisi manoscritta. Dovrebb egli credersi per avventura che il Sansovino, avutala tra le mani, se ne valesse per compilare la sua dello stesso argomento? Molti illustri poeti produsse la famiglia de’ Martelli in Firenze. E il più elegante forse tra essi fu Lodovico, il quale a fama ancor molto maggiore salito sarebbe, se in età di soli ventolt’anni non l avesse la morte rapito in Salerno, ove ai’ servigi di quel principe si tratteneva. Di lui parla a lungo il Crescimbeni (Stor. della volg. Poesia, p. 105; Comment. t. 2. par. 2,p.)> e alle testimonianze onorevoli ad esso, ch’egli ne recava, io aggiugnerò quella di Claudio Tolommei che scrivendo d.i Roma a’ 7 di aprile del 1531 alla marchesa di Pescara: Vi mando, TERZO 1673 dice (Tolom. Lett, p. 4° » Ven. 1565), una Tragedia (cioè la Tullia) di M. Lodovico Martelli giovine Fiorentino, il quale, se la fortuna invidi atri ce delle altrui virtù non avesse così tosto tolto al mondo, avrebbe forse con alto grido fatto risonare il nome suo. Questa lettera ci assicura che Lodovico non morì già nel 1533, come inclinava a credere il Crescimbeni, ma più probabilmente circa il 1527, secondo l’opinion di più altri. Fratello di Lodovico fu Vincenzo, di cui insiem colle Rime si ha alle stampe un volume di Lettere, molte delle quali ancora si leggon tra quelle dei’ XIII Uomini illustri, pubblicate in Venezia nell’anno 1564 Ei fu uomo, come da esse raccogliesi, soggetto a molte vicende, caro dapprima al principe di Salerno, presso cui era già stato il fratello, e presso cui ricoverossi pure Vincenzo, dopo essere stato giuoco della fortuna, dic egli stesso (Lett di XIII Uom. ill. p. 6), e gittato quasi nel più infimo luogo; quindi fattogli cadere in sospetto, singolarmente all’ occasione del disparere che fu tra ’l Martelli e Bernardo Tasso, se il principe dovesse o no accettar l’ambasciata a Cesare da’ Napoletani offertagli, per distoglierlo dal pensiero d introdurre l Inquisizione in quel regno, nel che il Martelli persuadeva il principe a ricusarla, il Tasso ad accettarla (V.Lett. di Bern. Tasso, t.1,p. 570, ec.)’r chiuso poi in prigione, non si sa bene per qual motivo, nella qual occasione si astrinse con voto, ove ottenesse la libertà, come avvenne, a intraprendere il pellegrinaggio di Gerusalemme Tira boschi, Vol. XII. 33 i(rj4 i.i uno (Lett. di XJII Uorn. ili. p. i, 73, ec.); ritiratosi finalmente dopo le sventure del principe a vita tranquilla, e morto nel 1556 (PocCiant. Scritt, fior. p. 168). Due Ugolini ebbe la stessa famiglia, uno vescovo di Lecce e poi di Narni, e morto nel 1517, l’altro vescovo di Glandeve, e da noi rammentato nel parlare degl illustratori del Calendario romano; e di amendue si hanno Rime in diverse Raccolte, benchè difficilmente si possa accertare a qual de due appartengano (V. Quadrio, t. 2, p. 236). Giovanni Agostino Caccia novarese, benchè lungamente vissuto tra l’armi, a cui invitavalo lo splendore della sua antica famiglia, si volse poscia alle Muse; e per frutto di questi suoi studi diè in luce le Satire e i Capitoli piacevoli, e le Rime e i Capitoli spirituali, nel qual genere di poesia sacra fu egli un de’ primi a esercitarsi; e benchè egli non sia scrittor coltissimo, per la nobiltà de" pensieri nondimeno, di cui sono adorne, le Rime di esso hanno avuta anche in questo secolo una nuova edizione. Il Cotta accenna gli elogi con cui hanno di lui parlato molti scrittori (Museo Novar. p. 144 ec); e si può ad essi aggiugnere una lettera a lui scritta da Pietro Aretino nel 1539 in cui il ringrazia delle Rime che inviate gli avea, lo anima a continuare i suoi studi, e brama solo che ripulisca alquanto lo stile (Lett. l. 2, p. 74). Petronio Barbati da Foligno, morto nel 1554? f*1 11,10 3i que’ poeti le cui Rime, qualunque ragion se ne fosse, giacquero lungamente dimenticate, e solo al principio di questo secolo vider la luce. cioè TERZO 1675 neI 1712, per opera dell* accademia de’ Rinvigoriti della stessa città. E il pubblicarle fece conoscere eh’ esse di tal onore eran degne più di molte altre clic prima di esse l’aveano avuto. Si può vedere 1’ onorevol giudizio che ne han dato gli autori del Giornale de’ Letterati d’ Italia (t- 11. p. i55), ed altri scritiori rammentati dal co. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. 1, p. 276), che accenna ancora altre Rime e altre opere del Barbati, alcune inedite, altre stampate. Men conosciuto ancora è il valor di Girolamo Verità poeta veronese, lodato dall Ariosto Orl fur. c. 46, st. 14), e di cui parla il marchese Maffei (Ver. illustr. par. 2, p. 403); perciocchè assai poco se ne ha alle stampe. Oltre i codici mss. che il Maffei ne accenna, uno se ne conserva nella libreria di S. Salvadore in Bologna, ove leggonsi molte rime assai eleganti e colte di questo poeta. Ebbe ancora fama di buon poeta Marcantonio Terminio natio di Contursi nel regno di Napoli, di cui, oltre una Apologia de’ Seggi di Napoli, si hanno alle stampe parecchie Rime. Per opera di Francesco Lercari fu condotto con onorato stipendio a Genova, ove gli fu dato l incarico di continuare la Storia del Bonfadio; ma l'immatura sua morte non gli permise di compiere il suo lavoro (Tafuri. Scritt. napol. t. 3, par. 2, p. 86; t. 3, par. 6, p. 329). Se ne hanno ancora parecchie poesie latine, stampate con quelle di alcuni altri poeti dal Giolito nel 1554 > e con esse se ne leggono altre di Giunio Albino Terminio, soprannomato il Vecchio. Tra miglior rimatori di questo secolo furono ancora annoverati Antoniacopo Corso di patria anconitano, Gandolfo Porrino modenese che nel 1551 pubblicò le sue assai colte Rime, e che non solo servì in corte del Cardinal Farnese, come il Crescimbeni afferma (Comment. della volg. Poes. t. 2, par. 2, p. 235), ma fu ancora Segretario di D. Giulia Gonzaga, et amolla estremamente, come abbiamo da Ortensio Landi (Cataloghi, p. 475)1 Giambatista d’Azzia napoletano (Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 1288), e Antonfrancesco Rainieri milanese, di cui si posson vedere più copiose notizie presso l’Argelati (Bibl. Script. mediol. t. 2, pars 1, p. 1187)2.
VIII. Monsignor Gio. della CasaVIII. In mezzo a questi celebri rimatori, un altro ancor più celebre ci si fa innanzi, di cui benchè siasi scritto già tanto che appena si possa sperare di dir cose nuove, non ci è lecito nondimeno il nominarlo sol di passaggio. Parlo di monsig. Giovanni della Casa, un de’ più nobili e colti scrittori in amendue le lingue, che questo secolo avesse, e di cui ha scritta assai minutamente la Vita il co. Giambattista Casotti. Pandolfo della Casa e Lisabetta TERZO 1677
'J’ornabuoni, amendue di nobilissime famiglie
fiorentine, furono i genitori di Giovanni, che
nacque, non si sa precisamente dove, ma certo
non in Firenze a’ 28 di giugno del 1503. Ne’
tumulti ond era allora agitata quella città, costretti i genitori di Giovanni a starne lontani,
fecero che il fanciullo fosse allevato e istruito
negli studi in Bologna. Fu però ancora per qualche tempo in Firenze, ove circa il 1524 ebbe
a maestro Ubaldino Bandinelli. Benchè paresse
disposto ad entrar ne' pubblici magistrati, cambiato nondimeno consiglio, si trasferì a Roma, ove nel 1538 era già cherico della Camera
apostolica. Ivi continuò egli a esercitarsi negli
studi già cominciati, e ad innoltrarsi vie maggiormente nella cognizion delle lingue latina e
greca; ma in mezzo agli studi, secondo l’uso
allor troppo comune, abbandonossi alquanto
agli amori, e n ebbe per frutto un figlio, a cui
diè il nome di Quirino. Nel 1540 fu inviato a
Firenze commissario apostolico per l esazion
delle decime, nella qual occasione ei fu ascritto
all’Accademia fiorentina allora istituita, di cui
perciò egli è annoverato a ragione tra’ fondatori e tra' primi ornamenti. Tornato a Roma,
fu tre anni appresso, cioè nel 1544 promosso
all arcivescovado di Benevento, e nell'anno medesimo inviato nuncio a Venezia. Due gravi
affari diedero ivi occasione al Casa di dar saggio della sua destrezza non meno che della sua
eloquenza. Il primo fu l’ordine datogli dal pontefice Paolo III di esortare i Veneziani ad entrare in lega con lui e col re di Francia Arrigo II contro la temuta potenza di Carlo V, 1678 LIBRO
dopo l’uccisione di Pier Luigi Farnese. Nel che
il Casa si diè a vedere eloquente ed accorto
oratore nelle due orazioni scritte su questo argomento; ma non potè ottenere l’effetto che il
pontefice ne bramava. L’altro fu il processo che
lo stesso pontefice gl’ ingiunse di fare insieme
col patriarca di Venezia contro il Vergerio, che
fu perciò costretto a fuggir dall’ Italia, e concepì quindi contro il Casa quell’odio che sfogò
acerbamente colle calunnie contro di lui di volgale. Colla morte di Paolo III ebbe fine la nunciatura del Casa, il quale, tornato a Roma, non
provò ugualmente a sè favorevole il pontificato
di Giulio III, forse perchè essendo egli aderente al Cardinal Alessandro Farnese, il papa
lo involse nella disgrazia di quel cardinale che
fu costretto ad allontanarsi da Roma. Ritirossi
allora il Casa a Venezia, ove ora nella stessa
città, or in una sua villa nella Marca Trivigiana (*), visse più anni privato, coltivando
(*) La villa della Marca Trevigiana, in cui monsignnr
della Casa si ritirò, fu la Badia della Narvesa. Del
soggiorno da lui ivi fatto ragiona Bai tulommco Zuccata
scrittor di que1 te.nipi nella sua Storia Trivigiana inedita
all'anno 1558, colle seguenti parole additatemi dall’eruditissimo monsig. Rambaldo degli Azzoni Avogaro canonico di Trevigi: Illustrò un tempo essa Abbazia Giovanni della Casa, uomo non mai bastevolmente lodato,
il quale per qual cagione si fosse partitosi da Roma
essendo Paolo III nel Papato, allettato dall ameno e
dilettevole sito di quella, la elesse per sua stanza, acconsentendo IAbate Abate et in quella accomodatosi di bellissime camere e sale vi stava onoratamente con una
compagnia di Gentiluomini, giovani studiosissimi, e con
bellissima Corte, donando molto del suo a' poveri, e tranquillamente gli «ludi, per quanto gli permettevano i dolori della podagra, ai quali era
frequentemente soggetto. Paolo IV, appena eletto
pontefice, mostrò in quale conto lo avesse, perciocchè tosto, chiamatolo a Roma, il nominò
suo segretario di Stato. Credevasi comunemente
che nella prima promozione ei dovesse esser
onorato della dignità di cardinale, e grande fu
lo stupore, quando si vide ch’ei non venne
in essa compreso. Il Casotti però ha provato
con autentici documenti che altro motivo non
ebbe l'esclusione del Casa, fuorchè la risoluzione
del severo pontefice di non concedere allor
quell' onore a chi gli fosse stato da qualche
principe raccomandato, e tra essi era il Casa,
per cui avea fatta istanza il re di Francia. È
assai verisimile che nella seconda promozione
ei non dovesse essere dimenticato; ma la morte, che in età di soli cinquantatrè anni venne
a rapirlo a’ 14 di novembre del 1556, privollo
di questo onore. Tal fu la vita di monsig. Giovanni della Casa, che per comune consenso è
riposto tra' più chiari lumi di quella sì colta
età. E certo, in ciò ch è eleganza di stile
toscano, egli ha assai pochi che gli possano
usando le maggiori cortesie del mondo a chiunque, a caso
o per fargli riverenza vi andava, digli spesse fiale sequestrato dagli altri, che lo seguivano, camminando per
quei ombrosi boschi, et ameni colli all’ intorno, formava
nel suo puro e divino intelletto mille bei pensieri, parte
de" quali dopo la morte sua venuti in luce ne rendono
testimonianza, qual egU stato sia; et ivi dimoratosi alla
creazione di Papa Marcello, e ito poi a Poma, nel favole di Papa Paolo IV mori. 1680 unno
andar del pari, e il sol Galateo potrebbe bastare a farlo annoverare tra’ più colti scrii«
tori. Dell’ eloquenza delle Orazioni da lui composte diremo altrove. Le Rime non sono nè le
più armoniose, nè le più passionate che abbia la volgar lingua; ma questo difetto è ben
compensato dalla nobiltà de pensieri e dalla
vivacità delle immagini. E sembra anzi che il
Casa avvertitamente studiasse di aprirsi nella
poesia un nuovo sentiero diverso da quello che
battuto avea il Petrarca, e che allora era seguito comunemente, trascurando quella dolcezza che pareagli per avventura troppo ricercata, e tentando anzi d’introdurre nella poesia
una sublime e nobile gravità, a cui ogni altra
cosa cedesse. Ma fors ei sarebbe stato più degno di lode, se avesse tentato di unire insieme
tai pregi, e di accoppiare, come altri poscia
hanno fatto, la maestà alla dolcezza; doti amendue troppo essenziali alla poesia, perchè ella
senza alcuna di esse si possa dire perfetta. Le
Lettere italiane del Casa sono esse pure scritte
con grande eleganza, e sarebbero ancor più
pregevoli, se lo stile ne fosse più fluido e più
famigliare. Nelle Poesie e nelle Prose latine egli
è scrittore coltissimo, ed uno de’ più felici imitatori degli a liti chi; e belle sono singolarmente
le due Vite de’ due celebri cardinali Contarini
e Bembo. Ei fece ancora conoscere quanto fosse
versato nella cognizione della lingua greca, traducendo elegantemente in latino le Orazioni di
Tucidide, e la de.scrizion della peste del medesimo storico. Tutte le opere del Casa, come
più altre scritte a illustrazione di esse, sono TER 7.0 I C>8 I
<lato unite nella edizion veneta del 1728, in
cinque tomi in 4°j nell’ultimo de quali si veggon fra le altre cose più lettere del soprallodato abate Casotti sulla vita e sulle opere di
questo egregio scrittore, e ivi ancora si leggono
i magnifici elogi con cui ne hanno parlato i
più eruditi uomini di quel secolo, e singolarmente Pier Vettori che non sa finir di esaltarlo
con somme lodi. Ma fra tanti encomii che il
sapere giustamente gli ottenne, non mancarono
al Casa rimproveri e biasimii pe’ suoi costumi,
e per alcune troppo licenziose poesie da lui
composte. E veramente il Capitolo del Forno,
ch'ei non nega di aver composto, sarebbe desiderabile per onore del Casa che non avesse mai
veduta la luce. Questo disonesto capitolo diede
occasion di equivoco ad alcuni, i quali crederono che egli avesse espressamente scritto
un trattato sulle infami oscenità, delle quali in
esso ragiona; ed altri per maggiormente aggravarlo, aggiunsero che avesse ciò fatto nel
tempo stesso in cui era nuncio a Venezia. Su
ciò è degna da leggersi l apologia che del Casa
ha fatto il Menage (Antiballet, t. 2, p. 88, ec.),
il quale ancora, coll autorità del celebre Magliabecchi, dimostra che un poco modesto epigramma sulla formica, da alcuni attribuito al
Casa, è lavoro di Niccolò Secco. Che poi il
suddetto capitolo fosse il motivo per cui questo prelato non conseguisse l’ onor della porpora nè da Paolo III. presso cui il Cardinal
Alessandro Farnese fece perciò grande istanza,
nè da Paolo IV, si afferma da molti. Ma a me
non pare abbastanza probabile. Perciocchè, per 1
l683 LIBRO
tacer d’altre ragioni, se l essere egli autore di
quelle rime rendevalo a parere de pontefici indegno di quell’ onore, pareva che dovesse renderlo ancora indegno della dignità di arcivescovo e di nuncio apostolico.
IX. Poche città ebbe l'Italia, in cui la volgar
poesia venisse con tanto ardor coltivata da’ più
illustri patrizii, come in Venezia. Due fra essi
sono singolarmente famosi, Bernardo Cappello
e Domenico Veniero, amendue celebri ugualmente pel lor valore nel poetare, che per le
sinistre sventure a cui furon soggetti, e amendue già noti al mondo per la Vita che di essi
ha scritta coll’usata sua esattezza il eli. signor
abate Serassi all’occasione delle nuove edizioni
delle lor Rime, fatte in Bergamo nel 1751 e
nel 1753. Il Cappello, nato in Venezia da Francesco e da Maria Sanuta circa il principio del
secolo, ebbe la sorte di stringersi in amicizia
fino da’ primi anni col Bembo, mentre questi
vivea in Padova, e di averlo quasi a maestro
nella volgar poesia; e il maestro prese poscia
in sì grande stima il discepolo, che a lui mandava le sue rime, perchè sinceramente ne giudicasse. Menti e ei veniva felicemente avanzandosi ne’ buoni studi, qualche massima da lui
sostenuta in senato, che parve dannosa alla
pubblica tranquillità, il fece rilegare a perpetuo
esilio in Arbe, isola della Schiavonia, a’ 14 di
marzo del 1540. Dopo essere ivi stato per due
anni, citato a render ragione della sua condotta, stimò più sicuro consiglio di rifugiarsi
colla moglie Paola Garzoni e co’ figli nello
Stato ecclesiastico, ove amorevolmente accolto dal cardinal Alessandro Farnese, e onorato de' governi di Orvieto e di Tivoli, fu sempre e nella lieta e nell'avversa fortuna indivisibil compagno del cardinale suddetto. Visse ancor qualche tempo alla corte d'Urbino, sede e ricovero allora de’ più rari ingegni d'Italia, finchè
dal danno che dall'aria di Pesaro riceveva, costretto a partirne, tornossene nel 1559 a Roma, e ivi finì di vivere a' 18 di marzo del 1565 col dispiacere di non aver mai potuto tornare in grazia della Repubblica, e rivedere la patria. Il Canzonier del Cappello, per
giudizio de' più saggi conoscitori, è uno de' più leggiadri, de' più nobili e de' più colti che a quel secolo uscissero in luce; e nelle rime gravi ugualmente che nelle amorose può esser proposto come uno de' migliori modelli all'imitazione degli studiosi. Di altro genere furono le sventure di Domenico Veniero; perciocchè egli dopo essersi formato alla scuola di Battista Egnazio, e dopo aver egli pure goduto a lungo dell’amicizia del Bembo, quando cominciava a raccogliere i più dolci frutti de’ suoi studi, e
insieme a goder degli onori a cui la sua nascita e il suo senno il chiamavano nella Repubblica, nel 1549 secondo l abate Serassi, mentre ei non contava che trentadue anni di età,
sorpreso da debolezza di nervi, e poscia da
acuti dolori nelle gambe e ne’ piedi, fu costretto d allora in poi a starsi sempre rinchiuso
nelle sue stanze, e per lo più immobile nel
suo letto fino a’ 16 di febbraio del 1582, in
cui diè fine a’ suoi giorni. In questo infelice
stato non seppe il Veniero trovare più dolce l684 LIBRO
sollievo a’suoi mali, che quello di coltivare la
poesia, e di conversare cogli eruditi, de’ quali
era allora, sì gran copia in quella città. La casa
del Veniero era come un' accademia di dotti
che ivi si raccoglievano, e or poetando, or
disputando, or occupandosi in piacevoli ragionamenti passavan più ore, e rendevan meno sensibili ad esso i mali che il travagliavano. Quindi
l’Aretino, scrivendo nel maggio del 1548 a
Domenico Cappello, come testifica, dice Lettere,
l. 4, p. 274)7 l'Accademia del buon Domenico
Veniero, che in dispetto della sorte, che il persegue con gli accidenti delle infermità, ha fatto
della ornata sua stanza un tempio, non che
un ginnasio. La qual lettera scritta, come si
è detto, nel 1548 mi persuade che la malattia del Veniero cominciasse prima del tempo
fissato dall’ abate Serassi. Tra i frutti che da
queste adunanze si vennero raccogliendo, fu la
fondazione della celebre Accademia veneziana,
di cui si è parlato a suo luogo, la quale, dopo
il Badoaro, riconobbe nel Veniero il suo autore e il suo principale ornamento. In mezzo
a’ suoi acuti dolori scrisse il Veniero la maggior parte delle sue Rime, ed è cosa di maraviglia che in sì infelice stato potesse sì leggiadramente poetare. La vivacità delle immagini
e la forza delle espressioni è in lui singolare. Ma
egli abusa talvolta del suo ingegno medesimo, e
convien confessare che alcuni de’ sonetti del Veniero si crederebbono scritti nel secolo XVII. Ei
fu il primo per avventura, dopo il risorgimento
della poesia, a far uso degli acrostici, come
si vede ne’ due sonetti fatti in lode di Paolina TERZO l685
e di Maddaluzza Trona sorelle, e in due altri
in lode di Lucrezia Bianca (Veniero, Rime,
p. 35, 88, 89, ed. Berg. l’jSi). Ei fu anche il
primo a cercare quei’ troppo affettati riscontri
che sembrano incatenare il genio di un poeta,
e ne rendono stentate e difficili le poesie, come
in quel sonetto:
Non punse, arse, o legò, stral, fiamma, laccio.
Ivi, p. 13.
Quello per la morte del Cardinal Bembo, che
comincia:
Per la morte del Bembo un s'i gran pianto,
Ivi, p. 21.
a parlare sinceramente, parmi anzi di un Achillini, o di altro di que’ giganteschi poeti vissuti
nel secolo scorso, che di un felice imitator
del Petrarca, come in più altre rime si mostra
il Veniero, le cui poesie sarebber migliori, se
non avesse sovente voluto far in esse pompa
d ingegno acuto e vivace. A quei patrizii veneti, chesi distinsero nel poetar volgarmente,
più altri possiamo aggiugnerne che ne imitarono felicemente gli esempii, e primieramente
un fratello e due nipoti del Veniero. Lorenzo
fratel di Domenico ebbe la sventura di farsi
discepolo e imitatore dell’ Aretino j e due osceni
poemetti, de’ quali parlano il co. Mazzuecbelli
(f ~ita deir Arct. p. 236, ec.), e Apostolo Zeno
(Lettere, t. 2, p. 295, ec.), furono il frutto
dell'amicizia che con lui avea stretta. Maffeo
e Luigi figliuoli di Lorenzo, c nipoti di Domenico, il primo dei quali fu arcivescovo di » LIBRO
CiOrfu, 11011 furono intcriori al pidrc in in rcgno, e il superarono nel saggio uso che sepper farne, e le lor Rime sono state aggiunte
nella mentovata edizione di Bergamo a quelle
del lor zio Domenico. Le Rime di Alvise Priuli
vennero a luce nel 1533, e quelle di Giovanni
Vendramini nel 1553. Più celebre ancora fu il
nome di Girolamo Molino, le cui Rime furono
pubblicate nel 1563, quattro anni dappoichè
egli era morto; perciocchè al valore del poetare in lui si congiunse una rara modestia, e
una splendida liberalità a favore de’dotti, di
che veggasi la Vita che di lui scrisse Giammario Verdizzotti, che va innanzi alle Poesie
dello stesso Molino. Liete speranze dava ancor
Jacopo Zane, di cui si hanno alle stampe le
Rime 5 ma la morte il sorprese nel 1560,
mentr’ ei non contava che trentun anni di età.
Di lui ragiona distesamente il P. degli Agostini
(Scritt. Venez. t. 2, p. 58 2, ec.). Al tempo
medesimo fiorirono Jacopo e Tommaso Mocenighi fratelli e colti poeti, le cui Rime furono
la prima volta raccolte e stampate in Brescia
nel i-5(3. Alquanto più tardi vissero Pietro e
Francesco Gradenigo j e toccò ancora qualche
anno del secolo susseguente Orsatto Giustiniani, morto, secondo Apostolo Zeno (Note
al Fontan. t. 1. p. 493), nel settembre del 1603.
Le Rime di esso furono stampate nel 1600,
insieme con quelle di Celio Magno veneziano
esso pure, ma non patrizio, e morto circa
il 1602 • e amendue questi poeti sono rimirati
e come due de’ migliori imitatori del Petrarca,
e come gli ultimi sostenitori del buon gusto »
TERZO 1687
clic andavasi miseramente perdendo in Italia.
Il Canzoniere di Simone Contarini, che visse
al tempo medesimo, conservasi ms. nella libreria Farsetti (Bibl. ms. Farsetti, p. 321). A
questi patrizii veneti io aggiugnerò qui un nobile di Feltre, cioè Cornelio Castaldi, nato
circa il 1480 e morto nel 1536, poeta non
rammentato dal Quadrio, perchè le Poesie di
esso non uscirono in luce che nel 1757, insiem
colla Vita del medesimo, scritta dall eruditissimo patrizio veneto il sig. Balì Tommaso Giuseppe Farsetti. Egli volle, come vedremo fatto
ancor da più altri, seguire una via diversa da
quella battuta già dal Petrarca. Ma le Poesie
del Castaldi, benchè abbiano ingegnosi e nobili sentimenti, sarebber più degne di lode,
se vi fosse unita maggior eleganza di stile e
maggior dolcezza. Miglior forse che le italiane, sono le poesie latine del medesimo autore, perciocchè in esse egli si è studiato di’imitare i più colti antichi scrittori.
X. Io mi sono scostato alquanto dall’ ordine
tenuto dal Quadrio, cui seguo comunemente,
affin di riunire in un sol punto di veduta tutti
i suddetti patrizii veneti che gran nome ottennero nella poesia italiana. Or ad esso tornando, abbiam tra' più colti poeti Giangirolamo
de’ Rossi parmigiano, vescovo di Pavia (a),
di cui aveansi alcune poche Rime sparse in
(a) La Vita di questo illustre prelato è stata scritta
coir usala sua esattezza dal eh. padre Ireneo Allo M. O.
bibliotecario di S. A. K. l’Infante «luca di Parma, e stampato nella stessa città P anno 178:». i683 LIBRO
qualche Raccolta, che poi insiem con più altre
inedite han veduta la luce in Bologna nell' anno 1711. A questa edizione si è anche premessa la Vita del loro autore, di cui un breve
elogio ci ha dato anche il Ghilini (Teatro
d Uomini letter. t. 1, p. 210). La nobiltà della
famiglia ond’era uscito, e i pregi suoi personali gli ottennero dai' pontefici Leon X e
(Clemente VII la badia di Chiaravalle sul Piacentino, e la dignità di chierico della Camera apostolica, e poscia il vescovado di Pavia nel 1530.
Ma a’ tempi di Paolo III, accusato di essere
stato l autore dell uccisione del conte Alessandro Langosco, e di altri reali, si vide spogliato di tutte le sue dignità, e chiuso per
quattro anni in Castel S. Angelo *, e abbiamo
una lettera scritta dal Cardinal Bembo, che gli
era amicissimo, nel settembre del 1539 al
Cardinal Alessandro Farnese, in cui il prega a
ottenergli la libertà dal pontefice (Op. t. 3,
p. 31). Ma non pare che’egli allora ottenesse
ciò che chiedeva. Fu poi il Rossi tratto di carcere, e rilegato per tre anni in Città di Castello, dopo il qual tempo, spogliato di tutte
le sue dignità, potè bensì andarsene altrove,
ma non gli fu permesso di soggiornare nè nello
Stato ecclesiastico, nè in quello di Parma, nè
potè mai ottenere di essere dichiarato innocente, finchè a Paolo III non succedette Giulio III,
per cui ordine, soggettata alla revisione la
causa del Rossi, fu annullato il processo contro
di lui formato, e dichiarata nulla ed invalida
la condanna già fattane. Nel segreto archivio
di Gì laslalla, insieme con altre lettere del TERZO 1 G8(J
vescovo Rossi a D. Ferrante Gonzaga, scritte
jjcl i55o e nel 1551, si ha ancor quella de’ 4
(di ottobre del 1551, in cui gli manda copia
della sentenza in suo favor pronunciata; e aggiugne in essa, che gli era stata data speranza
che Carlo V fosse per proporlo al pontefice
nella nomina de cardinali. Ciò però non ebbe
ell’ctto, e solo ei fu rimesso interamente nel
primiero suo stato, e fu anche fatto governatore di Roma. Ritirossi poscia a Firenze, e
nel 1560 rinunciò il suo vescovado a Ippolito
suo nipote; e fissato il suo soggiorno in Prato,
ivi chiuse i suoi giorni nell’aprile del 1564 Il
Ghilini gli attribuisce le seguenti opere, niuna
delle quali, ch’ io sappia, ha veduta la luce:
Le L ite di molti huomini illustri...; Degli usi
antichi e moderni; Cento dubbii dalla Theologia cavati, ec. Aggiugne poscia un Poema,
che essendo in tutte le parti bellissimo, non
cede a qualunque altro famoso Poeta in simil
genere, e fu stampato. Ma a me non è avvenuto di ritrovare chi parli di tal poema, o ce
ne indichi qualche edizione; solo ne abbiamo,
come ho detto, le Rime, nelle quali si scorge
molta eleganza e dolcezza, ma non sempre
uguale, forse per colpa delle sventure a cui
l autor fu soggetto.
XI. Di Diomede Borghesi sanese, di cui oltre
più altre opere abbiam molte Rime, le quali
però furon poscia da lui riprovate, come cose
che troppo sapevano di giovanile impazienza,
ci ha date copiose notizie il conte. Mazzucchelli
(Scritt. ital t. 2, par. 3, p. 1721, ec.), al
Tirabosciu, Voi. XII. 34 l6|)0 LIBRO
quale io rimanilo olii brami averle (*) ag»ùugnendo solo ch’ egli ebbe commercio di lettere
con D. Ferrante II Gonzaga duca di Guasi alla;
o. io ho copia di molte di esse a lui scritte,
i cui originali conservansi nell archivio poc’anzi
accennato: una delle quali, scritta a’ 22 di
maggio del i5i)5, ci mostra che egli era in
quell’ anno conservatore nella sua patria. Esse
ancora si scuoprono ch’ egli era geloso della
gloria di Torquato Tasso, perciocchè spesso
lo morde, e ne critica amaramente diverse
poesie. Girolamo Zoppio, le cui Rime insieme
con alcune Prose furono stampate in Bologna
sua patria nel 1567, dopo di essere stato più
anni professore di logica nell università di Macerata, ove fu anche uno dei" fondatori dell’ accademia de Catenati, tornato alla patria, vi
fu professore di belle lettere, e vi morì nel 1591
(V. Orlandi, Scritt. bologn. p. 178). Ei segnalossi principalmente nella contesa intorno a
(*) Alle notizie che il co. Mazzucchclli ci dà di Dio* mede Borghesi, si può aggiugnere che ad ottener la
cattedra di lingua toscana iu Siena, la quale il detto
scrittole afferma che gli fu coulerita nel 1 ^80, ci si
valse della mediazione del principe Cesare d’Éste, pui
duca di Motleua, a cui mandò perciò copia dell' orazione allora da lui recitata e dala olle stampe, con una
sua lettera, la qual conservasi iu questo ducale archivio, e in cui il Borghesi gli scrive che glieli manda
affine ili farle vedere, che ha raccomandato al Serenissimo Gran Duca suo cognato e mio Signori• un genti Uniamo non indegno della grazia di S. A. La lettera
è segnata a* 14 di marzo del i588, il che potrebbe
indicarci che fin dalF anno innanzi egli avesse quella
cattedra. Ma foisc ei segui V uso fiorentino. TERZO 1691
pante, della quale diremo altrove. Egli ebbe
ancor parte in quella troppo famosa ch eccitossi tra ’l Castelvetro e ’l Caro, e di cui dobbiamo or ragionare, poichè il secondo di questi
poeti, seguendo l ordin del Quadrio, ci si fa
innanzi. E noi diremo brevemente dapprima
della Vita di esso, valendoci di quella che assai
diligentemente ne ha scritta il sig. Anton Federigo Seghezzi, e ch è premessa alle recenti
edizioni delle Lettere famigliari di questo colto
scrittore. Annibal Caro, nato nel 1507 in Civitanuova nella Marca d' Ancona di onesta ma
poco agiata famiglia, fu costretto ne’ primi
anni, per sostenere se stesso e i suoi, a servir
da pedante in Firenze, istruendo i figliuoli di
Luigi Gaddi, che, scopertone il non ordinario
talento, lo scelse a suo segretario, e il provvide d’ alcuni beneficii. Il Caro ciò non ostante, a cui l umore un po’ fastidioso del suo
padrone dava talvolta non leggiera noia, fu
più volte vicino a lasciarlo, e a porsi al servigio di monsignor Guidiccioni, che lo amava
e stimava altamente. Ma il Gaddi non mai gliel
permise, e fu anche bene pel Caro che così
accadesse, perciocchè sarebbe assai presto
rimasto privo del nuovo padrone che morì
nel 1541. Due anni appresso morì anche il
Gaddi; e il Caro passò nel medesimo impiego
al servigio di Pier Luigi Farnese. Da lui fu impiegato in più viaggi e in più commissioni,
e mandato ancor nelle Fiandre nel 1544 e oltre
le Lettere da lui scritte in tal occasione, che
si hanno alle stampe, io ho presso di me copia di più altre da lui scritte in quegli anni e l6(/2 libro
al duca medesimo e ad Apollonio Filareto di
lui segretario, i cui originali si conservano nel
segreto archivio di Guastalla, e nell ultima di
esse, scritta da Milano al duca a' 17 di luglio
del 1547 cioè men di due mesi prima della
tragica morte del duca, egli dà chiari indicii
di qualche trama che contro di lui si ordiva:
Questo è chiarissimo intanto, dice, che di qua
siamo odiati, invidiati et sospetti, et per questo
si deve credere, che ci porti mal animo, et dal
sig. D. Ferrante in fuori, che è circospettissimo, si vede quasi in tutti, et dal vulgo si
dicono apertamente mille pazzie. In somma non
v ha dubbio, che si desidera di nuocere alle
cose di V. E. L’ uccisione del duca pose in
qualche pericolo il Caro, che dovette fuggirsene per vie occulte, e ritirarsi a Parma, ove
amorevolmente accolto dal duca Ottavio, fu
preso a suo segretario prima dal Cardinal Ranuccio, poscia dal Cardinal Alessandro Farnese, e con quest’ ultimo visse poi sempre fino
alla morte, cioè fino a’ 21 di novembre del i.r>66,
favorito ed amato costantemente, ed arricchito
di diverse commende della Religione Gerosolimitana, alla quale per grazia fu ascritto. Del
dolce ed onorato ozio, di cui allora godè il Caro, ei si valse a scrivere le sue opere, alcune
delle quali però erano state da lui già pubblicate o composte negli anni suoi giovanili; e
tra esse il Ficheide, ossia il Comento sulla
Canzon de fichi scritta dal Molza, e la Diceria de nasi. Esercitossi anche il Caro nel tradurre di greco in lingua italiana, e ne abbiamo
alle stampe la Rettorica d'Aristotile e due TERZO 1G93
Orazioni di S. Gregorio Nazianzcnqf oltre la traduzione delle Cose pastorali di Longo, e del
trattato di Aristotele sopra gli Animali, a cui
non potè dar compimento. Avea egli ancora
preso a scrivere un trattato delle antiche Medaglie, delle quali era e raccoglitore avidissimo
ed espertissimo conoscitore, Come si è altrove
osservato. Le Lettere famigliari, e quelle scritte
a nome del Cardinal Alessandro Farnese, che
in questi ultimi anni han veduta la luce, sono
un de' più perfetti modelli che in questo genere si possan proporre, per quella naturale
eleganza e per quella amabile grazia con cui
sono scritte (a). Ne abbiamo ancor la commedia degli Straccioni in prosa, e la traduzion
dell’ Eneide in versi sciolti, la quale, benchè
da alcuni sia non senza ragione tacciata come
troppo libera, è tal nondimeno, che ha sempre riscosso e riscuoterà sempre grandissimo
applauso, finchè il buon gusto e la buona maniera di poetare non sarà del tutto sbandita.
Le Rime finalmente, che furono la prima volta
stampate nel i5(k), benché non sieno tra loro
uguali in bellezza, ci offrono nondimeno parecchi componimenti che si possono giustamente annoverar tra' migliori che abbia la volgar poesia. Ma da queste Rime appunto nacque
la funesta contesa ch' egli ebbe col Castel veu.
tro, e di cui prenderemo a parlare, dopo aver
fatto conoscere il nimico del Caro, il quale,
(a) Un altro volume di Lei lei e del Caro ba pubblicato nel 1791 in Venezia il eh. sig conte Giulio to'*
untano. 1G9+ LIBRO
benché esercitasse il suo talento più nel prescriver le leggi alla poesia che nel coltivarla,
dee nondimeno aver qui luogo per non dividerlo dal suo avversario. E io posso farlo agevolmente, poichè già ne ha scritta la Vita l'eruditissimo Muratori, che l’ ha premessa alle
Opere critiche del medesimo Castelvetro da lui
pubblicate nel 1727. Essa è stata da alcuni
tacciata come scritta con soverchio impegno
in difesa del Castelvetro, e contro la memoria del Caro. Quindi io sforzerommi di ragionarne in modo che, lenendomi lontano da
ogni spirito di partito, niuna cosa asserisca
che non sia appoggiata ad autorevoli documenti, e le cose dubbiose non vengano e confondersi colle certe (a).
XII. Da Jacopo Castelvetro di antica c nohil
famiglia, e da Bartolommea della Porta nacque
in Modena il celebre Lodovico nel i5o5. Le
università di Bologna, di Ferrara, di Padova
e di Siena lo ebbero successivamente tra1 loro
allievi, e ammirarono i lieti progressi che iti
ogni sorta di lettere egli andava facendo. Nrlf ultima di queste università, per secondare i
desiderii del padre, prese la laurea legale, e
trasferitosi poscia a Roma presso Giovanni Maria
(a) Del Castelvetro si è parlato più lungamente e più
esattamente nella Biblioteca modenese, ove si è esaminato se veramente ei si lasciasse sedurre da’ novatori;
e delle opere di esso sì stampate che inedite si son date
più ampie notizie (t. 1, p. 434). Ivi ancora si son pubblicate quelle Memorie finora inedite, ma vedute anche
dal Muratori, che sulla vita di Lodovico avea stese
un altro Lodovico di lui nipote (t. 6. p. 60, ec.). TERZO | 161)3
| della Porta suo zio materno e ambasciadorc
j del duca d Urbino, avrebbe potuto ottener faI cilmente il vescovado di Gubbio, se gli fosse
piaciuto di seguir la via degli onori ecclesiastici. Ma n era il Castelvetro sì schivo, che,
per sottrarsene, partì segretamente da Roma,
e fè ritorno a Siena, ove tutto si volse agli
studi dell’amena letteratura, a quali era singolarmente inclinato; e fu anche ascritto alla celebre accademia degl Intronati. Tornato in patria, dovette per qualche tempo interrompere
i suoi studi per l infelice stato di sanità a cui
trovossi condotto. Ristabilito finalmente in salute, li ripigliò con impegno sempre maggiore,
e giovò ancora non poco a promuover l’amore
delle lettere ne suoi concittadini, col concorrer ch'ei fece a chiamare a Modena Francesco
Porto lettor di greco, e col frequentar l’Accademia in quel tempo medesimo eretta, di che
si è altrove parlato. Queste notizie intorno ai
primi anni della vita del Castelvetro. il Muratori non dice a quai fondamenti sieno appoggiate; il che mi fa credere che altra autorità
non abbia egli seguita, fuorchè quella del Vedriani che racconta le stesse cose Dott. moden. p. 167, ec.), il quale benchè non sia scrittor sempre esatto e sicuro, ci giova il credere
nondimeno che non le abbia asserite senza bastevoli fondamenti.. Delle vicende a cui fu soggetta la modenese Accademia, e della parte
che in esse ebbe il Castelvetro. il qual fu uno
di coloro che nel 1542 sottoscrissero il Formolario di Fede ordinato dal Cardinal Contari ni, si è detto a suo luogo (l. 1, c. 4)• Alcuni 1 CkyC) LIBRO
anni tlopo quella sottoscrizione, nuovi sospetti
si eccitarono contro del Castelvetro; ma poichè questi caddero nel tempo stesso in cui
maggiormente ardeva la lite col Caro, di questa ci convien prima esporre brevemente e sinceramente l origine e le vicende. Nel che fare
io confronterò tra loro gli scrittori delle Vite
del Castelvetro e del Caro, che per favorire
il loro eroe si contraddicono spesso l un l altro, e sforzerommi di esaminare ogni cosa senza
spirito di partito. Circa il 1553 compose il Caro
la celebre sua canzone che incomincia:
Fenile aW ombra de' gran gigli d oro,
la quale fu da alcuni creduta quasi cosa divina.
Aurelio Bellincini gentiluomo modenese, ch era
allora in Roma, inviolla al Castelvetro, e il pregò
a scrivergliene il suo sentimento. Egli il fece,
e scrisse una breve censura su quella canzone,
criticandone alcune parole e alcuni sentimenti,
ma pregando insieme il Bellincini a non divolgarla. Il Muratori afferma che il Caro fece la
guerra da Umanista con tutto quel corredo di
furore, che ho accennato di sopra; laddove il
Castelvetro seppe farla da Filosofo, tenendosi
mai sempre sul serio e sulle ragioni, senza
scendere al vile uso delle ingiurie e degli scherni. E che il Caro si lasciasse trasportare tropp oltre dal suo risentimento, non può negarsi.
Ma a non dissimular cos’ alcuna, a me sembra
ancora che il Castelvetro in questa prima censura, mentre non era stato offeso dal Caro,
uscisse alquanto da’ limiti di una giusta moderazione: È modo di parlare plebeo... questa TERZO 1697
nii pare una vanità... strano trapasso... poco
savio consiglio... questo è panno tessuto e vergato.... Io non vi veggo modo di dire puro et
natural della lingua poetica, nè sentimento riposto et vago... et l argomento della Canzone è
nullo. Queste espressioni non mi sembrano le più
leggiadre del mondo, e io crederei il Castelvetro più degno di lode se avesse usata una
critica più ritenuta e modesta. Aggiugne il Muratori che il Caro, veduta la censura del Castelvetro, cominciò a dar nelle smanie, e ad
oltraggiare e svillaneggiare in ogni luogo il suo
avversario. E di ciò veramente si duole il medesimo Castel vetro. Ma questa testimonianza
basta ella a persuadercene? Io non crederò al
Caro, quando ei si duole che il Castelvetro si
faccia beffe di lui ne’ suoi famigliari ragionamenti; ma non darò pure sì pronta fede al
Castelvetro, quando narra la stessa cosa del
Caro. Ciò che è certo, si è che prima che il
Caro facesse replica alcuna al Castelvetro, questi continuò a scrivere contro quella fatal canzone, e pubblicò un altra breve scrittura intitolata Replica; e quindi essendo uscito alla
luce sotto il nome del Caro nel i554 *1 Co mento
sopra la stessa canzone, cui però il Caro non
volle riconoscer.per suo, benchè pochi abbia
trovati che non ne facciano lui stesso autore,
il Castelvetro quattro altre scritture diè fuori
contro il detto Comento, i cui principii si differiscono dal Caro nella sua Apologia. Ma questi non le curò, poichè negava che cosa sua
fosse il Comento. Ben gli parve che meritasse!*
risposta le opposizioni fatte alla sua canzone LIBRO
dal Castelvetro, e nel 1558 uscì in campo coll'Apologia degli Accademici de1 fianchi di lionut
con tra M. Lodovico Castelvetro da Modena, e
aggiuntivi al fine i Mattaccini e una corona di
nove sonetti. Convien confessare sinceramente
che il Caro in questo libro dimenticò del tutto
le leggi della cristiana e filosofica moderazione,
e ch’ esso è uno de più infami libelli che a
disonore dell’ umanità e delle lettere abbian mai
veduta la luce; e il Seghezzi medesimo, nella
Vita del Caro, confessa che queste violenti forme
di scrivere... danno risalto alla maniera tenuta
dal Castelvetro nella risposta a quel libro, nella
quale volle, che assai gli fosse il ribattere la
Scrittura dell avversario, e mostrar la forza
delle proprie ragioni, senza lasciarsi portar oltre dalle villanie. La risposta del Castelvetro
fu intitolata: Ragione dalcune.cose segnate
nella Canzone di Annibai Caro; la qual venne
a luce nel 1559, e poi di nuovo in Venezia
nel 1560. A questo libro voleva Giovanni Maria Barbieri modenese, uomo non solo dell’italiana, ma anche della provenzal lingua intendentissimo (Mazzucch. Scritt. ital. t. 2, par. 1.
p. 309, ec.), aggiugnere alcuni Sonetti da sè
composti contro i Mattaccini del Caro, e intitolati i Mattaccini, le Marmotte e il Triperuno. Ma il Castelvetro nol permise, e fece con
ciò conoscere ch ei non volea difender la sua
causa colle ingiurie, ma colle ragioni. Il Caro
non fece risposta alcuna alla Replica del Castelvetro; ma invece di esso entrò in battaglia
il Varchi, e nel suo Ercolano scrisse alcune
cose a difesa del Caro contro del Castelvetro. TERZO 1699
Il Muratori afferma che il Caro stesso persuase
il Varchi, come uom di lingua mordace e maledica, ad entrare in questo arringo. Ma, a dir
vero, nè può provarsi che il Varchi prendesse
a scrivere ad istanza del Caro; che anzi, come
pruova il Seghezzi, si offerse al Caro egli stesso
spontaneamente; e qualunque si fosse la lingua
del V archi, nel suo Ercolano egli scrisse assai
modestamente contro del Castelvetro. Questi,
ch era allora lontan dall Italia, tardi n ebbe
contezza, e quando gli anni e le malattie l’avean ormai consunto. Cominciò nondimeno a
scriver la risposta, ma non potè compirla; e
la Correzione di alcune cose nel Dialogo delle
Lingue demarchi, che Giammaria di lui fratello, dopo la morte di Lodovico, diè in luce
nel 1572, non è che un abbozzo della risposta da lui ideata. Anche Girolamo Zoppio pubblicò nell’an 1567 in Bologna un discorso
in difesa del Caro, e in risposta al Castelvetro.
Ma questi o non ne ebbe notizia, o non si curò
di rispondergli.
XIII. Così ebbe fine questa contesa, nella
quale non è facile a di (finire a chi debbasi la
vittoria, o almen la lode di aver combattuto
con più valore e con più senno. S’io debbo
dire liberamente ciò che ne sento, a me sembra che da sì lieve cagione non dovesse destarsi sì crudel guerra. La canzone del Caro,
checchè ne abbian detto molti uomini celebri
di quell’età, non è tale, a mio parere, che
potesse eccitare o ammirazione, o invidia, e
poco gloriosa andrebbe la volgar poesia, se
molte altre non ne avesse di lunga mano migliori. i •joo Liimo
Se dunque il Castelvetro non seppe cedere alla
comune opinione che rimirava quella canzone
come cosa poco men che divina, ei diede in ciò a
conoscere il suo saggio discernimento. In fatti
giuste e ben fondate a me sembrano alcune
delle opposizioni del Castelvetro, benchè altre sien troppo sottili ed astruse difetto in cui
egli cade più volte nelle sue opere, e in cui
cadono sovente gli uomini di più penetrante ingegno, quando per secondarlo dimenticano la
scorta della natura. Ma non può negarsi ancora
che la censura del Castelvetro fosse alquanto
aspra e pungente, e che il Caro non fosse degno di scusa, se mostronne risentimento. Il
risentimento però fu tale, che tutrijkil biasimo
che prima cadeva sull’ aggressore, ricadde, e
a mille doppi maggiore, sull’ assalito poichè
i più dichiarati partigiani del Caro non posson
negare che l’Apologia è opera poco degna di
saggio e giudizioso scrittore, e che svillaneggiando sì arditamente il Castelvetro, il Caro
recò danno anzi che vantaggio alla sua propria
causa. Se dunque il principio della contesa ridonda in qualche biasimo del Castelvetro, in
biasimo assai maggiore del Caro ne ridonda il
progresso. Ma oltre gli scritti, altre armi ed altri
stratagemmi si adoperarono in questa battaglia.
A terminarla amichevolmente si adoperò molto
Lucia Bertana, di cui diremo tra poco tra le
poetesse, e proferse a tal fine la sua mediazione
anche il duca di Ferrara Alfonso II. Ogni trattato però fu inutile j c che la durezza nascesse
principalmente dal Caro, si afferma concordemente da amendue gli scrittori delle Vite de’ TERZO l"Ol
due rivali; onde sembra che non rimanga su
ciò luogo ad alcun dubbio. Non così sono essi
concordi nel ragionar di altre arti da essi tentate a danno del loro avversario. Il Seghezzi
afferma che il Castelvetro cercò di render sospetto il Caro al Cardinal di Trento e al duca
Cosimo; e che questi ebbe ad affaticarsi non
poco per smentire le accuse colle quali avea
quegli cercato di screditarlo. Ma queste arti
usate dal Castelvetro non ci son note che dalle
testimonianze del Caro e del Varchi, i quali,
essendo parte, non possono essere ricevuti come
accusatori. L’uccisione di Alberigo Longo di patria salentino fu un altro delitto apposto al Castelvetro: Era questi giovane di raro ingegno,
di cui con molta lode ragionano Marcantonio
Antimaco e Sebastiano Regolo nelle loro Lettere a Pier Vettori (Epist. cl. Viror. ad P. Victor. t. 1, p. 15, 70), il Vettori stesso nelle
sue Lettere (l. 1, p. 12; l. 4 p 79)7 e Gregorio Giraldi (De Poet suor, temp. dial 2,
Op. t. 2, p. 5, 54), il quale rammenta fra le
altre cose il viaggiare ch' egli avea fatto fin
nella Grecia, per ben istruirsi in quella lingua.
Di esso, oltre le Rime stampate in Ferrara
nel 1563, si ha ancora un Epigramma latino
in lode del suddetto Vettori (Ad. calc. Epist.
cl. Vir. ad Victor.). Or questi, che era assai
amico del Caro, fu ucciso a tradimento nell555,
e si sparse allora che l uccisore era stato un
domestico del Castelvetro, e che il delitto era
stato da lui commesso per ordine del suo padrone, e il Fontanini se ne mostra persuaso. Non solo però il Muratori, ma anche il I JO? LIBRO
Segliezzi e Apostolo Zeno (Note al Fontan. i.
p. 12) dimostrano il niun fondamento di tale
accusa; poichè e il Castelvetro si protestò innocente, e il domestico caduto in sospetto, e
processato per ciò, fu poscia assoluto. All'opposto si rimprovera da alcuni al Caro che tentasse di far uccidere il Castelvetro; e par che
questi ne fosse persuaso (Correz. del Dial, delle
Lingue, p. 16). E a dir vero, il Caro diè qualche motivo a tale sospetto; perciocchè in una
sua lettera al Varchi, scritta a’ 25 di maggio
del 1560, si lasciò sfuggir dalla penna queste
parole: E credo, che all ultimo sarò sforzato
a finirla per ogni altra via; e vengane ciò che
vuole (Lettere, t. 2, lett. 139). Ma io crederò
facilmente, come il Muratori medesimo afferma, che il Caro non mai concepisse veramente
l'idea di sì nero delitto, e che solo a sfogare
alquanto il suo sdegno così scrivesse. Lo stesso
Muratori però, se assolve il Caro da tal empio
disegno, non lo assolve dall altro di aver cercata la rovina del Castelvetro, coll accusarlo
all’Inquisizione di sospetta credenza, e col costringerlo per tal modo ad andare esule e ramingo fuor della patria; e diceych’ ei collegossi a tal fine con Paolo fratello di Lodovico,
il quale contro di esso sdegnato pel riprenderlo
che spesso facea della vita libera e licenziosa
a cui erasi dato in preda, e pel consiglio preso
di raffrenarne colla pubblica autorità le dissolutezze e i disordini, denunziò il fratel Lodovico come infetto delle novelle eresie. Contro
questa asserzione del Muratori si son levati il
Fontanini! e il Seghezzi, e il primo singolarmente TERZO 1703
non temè di spacciarlo come calunniatore,
per aver senza bastevole fondamento affermato
che il Caro divenisse accusatore del Castelvetro. A discolpa del Muratori però io debbo
avvertire che prima di lui avea ciò narrato
anche il Vedriani, da cui il Muratori ha tratto
questo racconto; benchè quegli ne parli solo
come di cosa di cui allor corse voce. Innoltre
se il Caro non accusò direttamente il Castelvetro, non lasciò però di sparger contro di
esso sospetti e rumori perciocchè nell’Apologia, la quale, benchè si stampasse solo nel 1558,
era già terminata fin dal 1555, come avverte il
Seghezzi, e correva per le mani di molti, ei
rinfaccia al Castelvetro, il non credere in là
dalla morte, e l esser corrompitore della verità,
della buona creanza e delle buone lettere, un
furioso, un empio, un nemico di Dio e degli
uomini, le quali espressioni sono state avvertite dal medesimo Fontanini, e conchiude dicendo: agli Inquisitori, al Bargello, et. al grandissimo Diavolo vi raccomando. Qualche j iurte
adunque, almeno indirettamente, ebbe il Caro
nell’ accusa del Castelvetro j e noi dobbiamo
ora vedere quai ne fossero i funesti effetti.
XIV. Dopo la sottoscrizione del Formolario,
fatta nel 1542, come a suo luogo si è detto,
parean cessati i sospetti di rea credenza che
contro molti de’ letterati modenesi si erano eccitati. Quando nel 1545 Pellegrino degli Erri,
da noi mentovato tra’ coltivatori delle lingue
orientali, ottenuto in Roma il titolo di commissario apostolico, e in Modena l’ aiuto del
braccio secolare, andò di notte tempo per 1704 LIBRO
sorprender la casa di Filippo Valentino dottore
e nobile modenese. Era questi uomo di vivacissimo ingegno e di rara memoria, di cui dice
il Castelvetro stesso gran lodi in certe sue memorie riferite dal Muratori, ma dall’ Erri creduto uomo di poco sana dottrina, Il Valentino
avutone qualche sentore, erasene già fuggito;
e cercando qualche sicuro scampo contro la
minacciata procella, ottenne poi nel 1548 di
esser fatto podestà di Trento. Pare che per
allora si acchetasser le cose; e che anzi Filippo tornasse poi a Modena, come il seguito
del racconto ci persuade. Perciocchè una nuova
burrasca si sollevò nel 1557, non solo contro
Filippo, ma ancora contro del Castelvetro e
di altri. O fosse l odio di cui contro di Lodovico ardea Paolo di lui fratello, o qualunque altra ne fosse l’ origine, Lodovico, Bonifacio Valentino canonico e proposto della
cattedrale di Modena, il detto Filippo di lui
cugino, e lo stampatore Antonio Gadaldino
furono citati a Roma, come racconta nella sua
Cronaca ms. Alessandro Tassoni il vecchio.
Questi aggiugne che il proposto Valentino e
il Gadaldino furono veramente arrestati e sotto
guardia mandati a Roma, ove furon racchiusi
nelle carceri dell’Inquisizione; che il primo
avendo confessati sinceramente i suoi errori,
ne fece in Roma una solenne e pubblica ritrattazione nella chiesa della Minerva a 6 di
maggio del 1558, e che rimandato indi a Modena a 29 del mese stesso, in cui cadeva
la solenne festa di Pentecoste, ripetè nella
cattedrale la medesima ritrattazione, che dal TEIIZO 1705
Tassoni è inserita nella stessa Cronaca; che
il Gadaldino, reo di aver venduti in Modena
molti libri di autori eretici, fu trattenuto nelle
carceri stesse 5 e che il Castelvetro e Filippo
Valentino essendosi colla fuga sottratti al pericolo in cui si videro, furono in Roma sotto
titolo di contumacia condannati e scomunicati.
Ov essi allora si ritirassero, non ne trovo certa
memoria 5 ma è probabile che si stessero occulti negli Stati del duca di Ferrara loro signore. Il Castelvetro nel 1560 si lasciò persuader finalmente a recarsi a Roma insieme col
suo fratel Giammaria per render ragione della
sua fede; e ottenuto un salvo condotto, colà
trasferissi, e gli fu assegnato per carcere il
convento di Santa Maria in Via, con libertà però
di trattare con chiunque a lui ne venisse. Dopo
alcuni esami, il Castelvetro temendo per se
medesimo, credette più sano consiglio l assicurarsi fuggendo, e di mezzogiorno, secondo
il Muratori, o, come narra il Tassoni, e a
me par più probabile, di notte tempo uscendo
da Roma fra molti pericoli, gli venne fatto finalmente di mettersi in salvo. Per sottrarsi agli
effetti della condanna che contro di lui come
eretico contumace fu pronunciata in Roma, la
quale dal Tassoni medesimo si riporta, insieme
con Giovanmaria suo fratello, condannato esso
pure come complice di quella fuga, ritirossi
nel 1561 a Chiavenna, ov ebbe il piacere di
trovare Francesco Porto suo vecchio amico.
Il Concilio che allor tenevasi a Trento, gli
diede speranza di migliorar la sua condizione;
ed ei fece istanza al pontefice Pio IV perchè
Tiraboschi, f^ol XII. 35 ì'vG LIBRO
gli fosse lecito di presentarsi innanzi a quella
sacra adunanza, e rendere ad essa ragione
della sua fede; e a questo effetto adoperossi
ancora il vescovo di Modena Egidio Foscarari, che molto lo amava. Ma essendo la causa
del Castelvetro già devoluta al tribunale dell’Inquisizione di Roma, il papa fu costante in
volere che ad esso si presentasse il Castelvetro, promettendogli nondimeno le più amorevoli accoglienze. Egli però troppo atterrito dal
passato pericolo, non seppe indursi a tornare in Italia. Da Chiavenna passò a Lione,
ove la guerra che ardeva tra i Cattolici e gli
Ugonotti, lo espose a nuove sventure; e a
grande stento, perdute molte delle sue cose,
e tra esse alcune opere, potè fuggirsene e ritirarsi a Ginevra, e indi di nuovo a Chiavenna, ove per soddisfare a’ desi derii di molti
giovani studiosi, ogni giorno teneva loro privatamente una lezione sopra Omero, e un’altra
sulla Rettorica ad Erennio. Il favorevole accoglimento ottenuto dal suo fratello Giovanmaria
alla corte dell’ irnperator Massimiliano II determinò Lodovico a passare a Vienna, ove
dedicò a quel sovrano la sua Sposizione della
Poetica d’Aristotele. Ma la peste che ivi avea
cominciato a menar grande strage, il costrinse
a partirne, e a far ritorno a Chiavenna, ove
passò il rimanente de’ giorni suoi, cioè fino
ai 21 di febbraio del 1571, che fu l'ultimo
della sua vita. Noi abbiamo narrate fin qui le vicende alle quali fu il Castelvetro soggetto, senza
esaminare s’ei fosse veramente imbevuto di
quegli errori de’ quali fu accusato. Il Muratori TERZO!7°7
avendone scritto in modo die mostra vasi persuaso dell’ innocenza del Castelvetro, fu amaramente perciò criticato dal Fontanini, il quale
con due lunghe e sanguinose declamazioni scagliossi contro del Castelvetro, e contro 1’apo| jogista di esso (Bibl. dell Eloq. ital, t. 1,
p. 243, ec; t 2, p. 22, ec.). A queste replicò il Muratori col primo Esame dclV EloI t/aenza italiana, che tutto si ravvolge su questo argomento, e in cui le più forti ragioni
si allegano in discolpa del Castelvetro. Io non
debbo entrare nell' esame di questo punto che
non appartiene direttamente alla mia Storia. I
libri ne' quali di ciò si ragiona, son nelle mani
di tutti, e io non potrei dir cosa non ancor
detta, e il sol compendiar le ragioni mi condurrebbe tropp oltre, Io rimetto dunque i lettori a libri or mentovati, e desidero che le
risposte del Muratori appaiano di tal peso,
che si sgombri qualunque sospetto intorno alla
credenza del Castelvetro. Più volentieri passerò
a dire delle opere ch’ ei ci ha lasciate. Oltre
quelle scritte nella contesa col Caro, ed altre
già da noi accennate, egli intentissimo ad illustrare e a perfezionare la volgar lingua, oltre
alle correzioni dell’ Ercolano del Varchi, aggiunse molte cose intorno alle Prose del Bembo, or rischiarandole, or correggendole; parte
della qual opera fu lui vivente stampata, ma
non si è veduta intera che nell’edizione delle
medesime Prose fatta in Napoli nel 1714 Molte
cose gramaticali innoltre contengonsi nelle Opere
critiche che usciron per la prima volta alla
luce nel 1727 per opera del Muratori, ove si 1708 LIBRO
leggono riflessioni su molti autori antichi e moderni, greci, latini e italiani. L'Arte oratoria
e la Poetica ebbero nel Castelvetro un valoroso scrittore; e alla prima appartien l’ Esaminazione sopra la Rettorica ad Erennio, che
fu stampata in Modena solo nel 1653, alla seconda la Poetica d’Aristotele da lui volgarizzata
ed esposta, stampata la prima volta nel
opera a lui sì cara che, come da alcuni si
narra, scopertosi una volta il fuoco nella sua
casa in Lione, di essa solo ei mostrossi sollecito, gridando ad alta voce, la Poetica, la
Poetica, salvatemi la Poetica. Essa fu infatti
da molti esaltata fino alle stelle, ma criticata
ancora da molti, e principalmente da Francesco Buonamici, da Alessandro Piccolomini,
da Paolo Beni e dal Nisieli. E veramente il
Castelvetro sì in questa che in altre opere si
scuopre uomo di acuto ingegno, ma troppo
amante di sottigliezze, le quali non rare volte
degenerano in sofismi e in parallogismi; e
innoltre troppo facile nell’esercitar la sua critica
sopra gli altri scrittori, de’ quali appena vi ha
alcuno che ne ottenga le lodi. Ciò pure dee
dirsi della Sposizione delle Rime del Petrarca,
opera a cui egli non potè dare l’ultima mano.
Poco fu da lui coltivala la poesia italiana; e
il Muratori crede che alcune Rime sotto il nome
di esso stampate sieno altrui lavoro (a). Non
così la latina, nella quale egli scrisse con molta
eleganza, e il Muratori stesso ne ha pubblicati
alcuni componimenti. Quanto ei valesse nel
(<7) Veggasi su ciò la Biblioteca modenese (l. cit.). TERZO I709
greco, olLre il saggio che ne dà in molte sue
òpere, e singolarmente nella mentovala versione
Jella Poetica d’Aristotile, scuopresi ancora da
quella che ei fece in lingua italiana della Sposizion de' Vangeli di S. Giovanni Grisostomo
abbreviata da Teofilatto, il cui originale conserva vasi presso questo sig. marchese Giambattista Castelvetro ultimo discendente di questo
celebre critico. Molto ancora esercitossi nella
lingua provenzale insieme con quel Giovanni
Maria Barbieri da noi nominato poc’ anzi (<z),
e con lui si fece a tradurre in lingua italiana
molte delle Poesie e delle Vite di que’ poeti,
e una Gramatica di quella lingua. Finalmente
anche alla lingua ebraica si volse il Castelvetro, e sotto la direzione di un certo Davide
giudeo modenese molto in essa si venne avanzando. Intorno a che e ad altre opere o inedite o perite del Castelvetro io rimetto chi
legge alla V ita scrittane dal Muratori, che de'
costumi ancora di esso e di più altre cose a
lui concernenti ragiona a lungo. Egli è sembrato a molti troppo prevenuto in favor del
suo eroe, e contro del Caro, e fra gli altri
al celebre abate Domenico Lazzarini, il quale
pensava di scrivere un opera in difesa del Caro, che pareagli dal Muratori dipinto con troppo
(a) Degli studi e della vita di Giammaria Barbieri,
uomo degno di maggior lode di «{nella che ha finora
ottenuto, si è detto pih a lungo nella Biblioteca modenese (t. 1, p. e «pianto egli valesse non solo
nella lingua provenzale, ina ancora nella storia della
poesia, si può raccogliere dall* operetta che ne abbiani
pubblicata 1" anno i.7qo. I710 LIBRO
neri colori, e gliene diede avviso egli stesso
con sua lettera de’ 18 di ottobre del
(Murai. Op. Arezzo 1767, t. 1, p.
egli non eseguì ciò ch" avea meditato. Alcune
Lettere finalmente del Castelvetro sono state
pubblicate nella Raccolta Calogeriana (t. Ap. 4i5).
XV. Or rimettendoci sul cammino da cui i
due combattenti or mentovati ci hanno per
qualche tempo distolti, e ripigliando la serie
de' più valorosi poeti, ci viene innanzi Angiolo
di Costanzo, di cui forse non V ebbe in quel
secolo il più elegante scrittor di sonetti, alcuni
dei’ quali dai’ migliori maestri di poesia si propongon tuttora come i più perfetti modelli. Ma
di lui già parlato abbiam tra gli storici. Alle
Poesie del Costanzo, che dopo le antiche hanno
avute tre moderne edizioni da’ torchi elegantissimi Cominiani, si aggiungono in queste le
Rime di Galeazzo di Tarsia nobile cosentino,
il quale nel suo castello di Belmonte nella Calabria visse tranquillamente quasi tutti i suoi
giorni coltivando la poesia, ma sì nascosto a
tutti, che il merito non ne fu conosciuto che
più anni appresso la morte, e solo nel 1617
ne vennero in luce le Rime, le quali si annoverano giustamente tra quelle che per forza
insieme e per eleganza non han molte eguali.
Nè dee passarsi sotto silenzio d Gabriello
Fiamma canonico lateranense, e vescovo di
Chioggia, che seguendo l’esempio di Vittoria
Colonna, di cui diremo tra poco, ardì di sollevare la volgar poesia alla sublimità de' misteri
della Religion cristiana; e il fece con non TERZO 1 ~I I
infelice successo, sicché tra gli scrittori di rime
sacre egli è in concetto di un de’ migliori.
(Una medaglia in onor di esso coniata, che si
ha nel Museo Mazzucchelliano (t. 1, p. 383),
e di cui parla ancora Apostolo Zeno (Note al
fontan. t. 1, p. 146), ci mostra ch’egli era
oriondo da Venezia, e figlio di Gianfrancesco
fiamma giureconsulto e cavaliere, e di Vincenza Diedo che in età di tredici anni entrò
neirOrdin suddetto, e che in età ancor giovanile, dopo aver coltivati con sommo ardore i
più nobili studi, si esercitò nell’evangelica predicazione, udito con molto applauso nelle più
illustri città d’Italia, e adoperato da’ principi
in diversi affari di grande importanza. Tra le
molte Lettere scritte a d Cesare Gonzaga
signor di Guastalla, delle quali io ho copia,
cinque ve ne ha del Fiamma 5 e due di esse
da Napoli a’ 16 e a 20 di marzo del 1562 ci
scuoprono che mentre ivi predicava nel corso
della quaresima, ei fu posto in sospetto presso
il Cardinal Ghisilieri che fu poi S. Pio V, come
uomo di dubbia Fede, e perciò gli fu fatta una
rigorosa perquisizione: Per altre mie, scriv
egli nella seconda, ho avvisato V. E. del successo delle fatiche mie, le quali sì come son
state lodate infinitamente dall' universale, così
da alcuni maligni et invidiosi sono mal premiate, come V. S. Illustriss. può sapere. Et io
l ho sentita in effetto; et jeri sera per commissione del Card. Alessandrini ne. furono pigliati tutti i scritti miei, et notato ogni libro,
et ogni minima polizza mia. Questo non m è
grave, venendo la commissione da quel da bene 1713 nino
et religiosissimo Signore, et dal Santissimo
Tribunale dell' Inquisizione; ma ben mi doglio,
che gli ne sia data occasione da alcuni maligni et invidiosi emuli miei, ec. Convien però
credere che il Fiamma desse sicure pruove deli.»
sua innocenza 5 perciocché ed egli continuò ad
annunciare la divina parola, e nel 1556 diè alla
luce un tomo delle sue Prediche, come ci mostran! due altre delle Lettere or mentovate, benchè comunemente non se ne citi che 1*edizione
del 1579; e nel 1584 f'1 dal pontefice Gregorio XIII premiato col vescovado di Chioggia.
Ei però nol tenne che per diciassette mesi, e
venne a morte in Venezia a’ 15 di luglio del 1585
(ivi, t. 1, p. 90). Io non farò menzione delle
altre opere del Fiamma, che a questo luogo
non appartengono. Le Rime spirituali, stampate la prima volta nel 1570, e da lui medesimo illustrate con una lunga sposizione, furono
sì favorevolmente accolte, che due altre edizioni se ne fecero nel corso di cinque anni,
e molti poeti si unirono ad encomiarle coi’ loro
versi greci, latini e italiani, che al fin di esse
si leggono (*). Di Filippo Zaffiri novarese, e
di Filippo Binaschi pavese, che furono tra
primi fondatori dell’accademia degli Affidati
in Pavia, e di amendue i quali si ha il Canzoniere alle stampe, si posson vedere le notizie
presso il Cotta (Museo Novar.) riguardo al
{*) Le Rime del Fiamma (ninno di nuovo stampate
in Trevigi nel 1771 per opera di inonsig. Giannagostino
Gradenigo vescovo di Ceneda, clic vi premise la \ita
dell’ autuie. TERZO 1 7 I 3
primo, e riguardo al secondo presso il conte
Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, par. u), ove
però dee correggersi Tanno della morte, che
certo non potè essere il 1576, poichè egli ha
un sonetto, come avverte lo stesso conte. Mazzucchelli, nella morte di Giuliano Goselini, che
avvenne, come or vedremo, nel 1587. Più
volentieri mi tratterò nel ragionare del detto
Goselini, perchè posso aggiugnere qualche cosa
alle notizie che ce ne ha date il Ghilini (Teatro
d Uomini letter. t. 1) e l Argelati (Bibl. Script,
mediol, t. 2, pars 2, p. 2119, ec.). Egli era di
Nizza della Paglia presso Alessandria, ma nacque in Roma a' 12 di marzo del 1525. Ricondotto in età di due anni alla patria, e istruito
ivi ne’primi elementi, tornò, quando ne contava quattordici, a Roma; e ricevuto in sua
casa dal cardinale di Santa Fiora. tre anni si
stette presso di lui, e fece in quel tempo negli
studi progressi non ordinarii, sicchè in età di
diciassette anni fu chiamato a servigi di d
Ferrante Gonzaga, allora vicerè di Sicilia. Così
ci mostrano ancora alcune lettere inedite ad
esso scritte da Nizza nel 1542 da un altro
Giuliano Goselini di lui cugino, che si conservano nel segreto archivio di Guastalla, e nelle
quali egli è detto cancelliere di d Ferrante.
Con lui venne a Milano, quando egli ne fu
fatto governatore nel 1546 (non nel 1556,
come scrive l Argelati), e morto Giovanni
Mahona segretario del detto principe, il Goselini fu a quell’impiego trascelto; e in esso durò
non solo finchè d Ferrante fu in vita, ma
anche presso gli altri governatori che poscia 17 >4 libro
gli succederono, amato e onorato da essi e
anche dal re Filippo II. da cui oltre l annuo
stipendio di 200 scudi, ebbe un dono di altri 800. Tutti quei che ragionano del Goselini, ci dicono generalmente che sotto il duca
d'Albuquerque la fortuna gli si cambiò in contraria; e che corse ancora gran pericolo della
vita, ma non ce ne indicano la ragione, Io
ho avuta la sorte di ritrovarla, perciocchè il
ch. padre Ireneo Affò, da me più volte lodato,
mi ha comunicata una giuridica allegazione stampata in Milano in favore del Goselini, ma senza
data, dalla quale raccogliesi ch’egli stette lungamente chiuso in oscura prigione, perchè venne
accusato di aver teso insidie alla vita di Giambattista Monti. Ma ei dovette purgarsi felicemente; poichè veggiamo che continuò a sostenere il medesimo impiego fino alla morte, da
cui fu preso a 13 di febbraio del 1587, e fu
sepolto nella chiesa de’ Servi coll iscrizione riportata dall’ Argelati. Questi accenna gli elogi
che ne han fatti molti scrittori, a’ quali si
possono aggiugnere quelli che ce ne han lasciato il Morigia (Nobiltà di Mil. l. 3, c. 11;
Hist di Mil. l. 4 5 c- 38), Bartolommeo Zucchi (Idea del Segret. par. 1, p. 318) e il Taegio
(La Villa. p. 104; Il Liceo, p. 22). Il primo di
questi scrittori dice ancor molte lodi di Chiara
Albignana, moglie prima di Girolamo Cattaneo
nobile milanese, poscia del Goselini, e da lui ne’
suoi versi frequentemente lodata, e finalmente
dopo la morte di esso, ritiratasi nel monastero
di S. Agostino in Porta Nuova. Delle molte opere
del Goselini ci ha dato un diligente catalogo TERZO 1 ~ I 5
]' Argelati, a cui nulla ho che aggiugnere, se
non che io ne conservo non poche lettere inedite, i cui originali ritrovansi nel segreto archivio di Guastalla. Le Rime, di cui si fecero,
lui vivente, diverse edizioni, e alcune delle quali
furono anche da lui illustrate colle sue dichiarazioni, ebbero allora plauso; ma sarebber migliori, se men ricercati ne fossero i pensieri,
più dolce il suono e più purgato lo stile.
XVT. Il saggio che il Guasco (Stor. lett di
Reggio, p. 72, ec.) ci ha dato delle Poesie italiane di Francesco Martelli reggiano, prima arciprete di Carpi (*), poi vescovo della sua patria, e morto nel 15^8 7 ci pruova ch’ei dee
aver luogo tra colti rimatori di questo secolo.
Lo stesso autore ragiona di molti altri Reggiani
che felicemente coltivarono la volgar poesia,
e singolarmente di Francesco Denalio (l. c.
p. 126), la prima parte delle cui Rime fu stampata in Bologna nel 1580. Ciò però, che dal
Guasco, e sulla fede di esso dal Quadrio, si
narra (t 2, p. 263), ch’ei fosse in Bologna
coronato d’alloro da Carlo V, a me par cosa
molto dubbiosa, perchè nè nelle prefazioni di
(a) Di questi tre poeti, cioè di Francesco Martelli,
di Fraucesco Denalio e di Luigi Cassoli si è più lungamente favellato nella Biblioteca modenese (t. iG-p
t. 2, p. aio; /. 1, p. 422)» e si è osservato onde abbia avulo origine il racconto della corona poetica data
al Denaglio. Non vuoisi però dissimulare, riguardo al
cavalier Cassali, rlie il (li. sig. proposto Foggiali ha
assai ben dimostrato rbe benché la sua famiglia fosse
originaria daBeggio, i suoi antenati nondimeno già da
più generazioni erano stabiliti in Piacenza (Metti, per
la Stor. Ut ter. di Pitie, t. 1, prtf. p. IX, ec.). 1716 I.1BR0
Liridio Vetriati! e di Guido Decani, che vanno
innanzi a quelle Rime, nè nelle Poesie di altri
in lode del Denalio, che ad esse si aggiungono, non si fa cenno di quest’onore, il nUJ,l
non pareva che si dovesse passare sotto silenzio. Egli ragiona ancora del cavalier Luigi Cassola, di cui abbiamo i Madrigali alle stampe
(p. 81). Alcuni il dicono piacentino; ma ch’ei
fosse reggiano, ne abbiam la pruova in una
lettera a lui scritta dall’Aretino nel 1544 * Ut
cui gli dice; Non sareste quel generoso cavalier
da Reggio che sete, ec. (l. 3, p. (68). Moltissimi altri poeti fiorirono verso la fine del secolo, di alcuni de' quali parleremo in questo
capo medesimo, di altri ci basterà l accennare
semplicemente il nome, come di Benedetto dell Uva, di Giambattista Attendolo, di Cammillo
Pellegrino il vecchio, di Claudio Forzatè, di
Pietro Bertini, di Paolo Lomazzo, di cui detto
abbiamo altrove, di Luigi Groto soprannomato
il Cieco d’Adria, di Bernardino Percivalle, di
Girolamo Sorboli, di Girolamo Vida giustinopolitano, autor diverso dal cremonese vescovo
d’Alba, di Mario Colonna, di cui si ha una
lettera a Pier Vettori (Epist cl. Vir. ad P. Victor. t. 3, p. 216), e alcune del Vettori a lui
(Victor Epist p. 130, 133, 149)» >1 quale anche ne fa un magnifico elogio (ib. p. 144)?
di Gabriello Zinano reggiano (a), del marchese
(//) Del Zinani, che quasi ogni genere cTitaliana poesia coltivò non infelicemente per riguardo a suoi tempi,
abbiamo lungamente favellato nella Biblioteca modenese
(t. 5. p. 415), ove abbiamo osservato che, come il TERZO I717
Muzio Sforza fondatore dell accademia degl Inquieti in Milano, e di Gherardo Borgogni d’Alba
nel Monferrato, che ne fu uno de principali
ornamenti, e di cui copiose notizie si hanno
nell opera del conte. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2,
par. 3, p. 1765); di d). Angelo Grillo monaco
e abate casinense, tanto lodato dal Boccalini
(centur. 2, ragg. i4)? di Ansaldo Ceba, di
Alessandro Campesano bassanese, di cui si posson vedere le notizie che ci han date il signor
conte. Pietro Trieste (N. Racc. Calogerà, t. 18)
e il sig. Giambattista Verci (ivi t. 23); di Antonio Altano conte di Salvarolo (Calog. Racc,
t. 37), di Lodovico Sensi perugino, le cui Rime
han veduta la luce in Perugia nel 1772. Questi e più altri poeti, che similmente potrei nominare, riscossero allora applauso; ma nella
maggior parte di essi vedesi già declinare il
buon gusto, e vi si comincia a scorgere quello
stile ampolloso e sforzato, e quelle immagini
gigantesche che tanto poi dominaron nel secolo
susseguente. Io potrei qui ragionare ancora di
Gabbriello Chiabrera, che si può dire l'ultimo
di questo secolo tra’ poeti lirici del buon gusto. Ma poichè egli visse molti anni ancora nel
secol seguente, noi riserbiamo il parlarne a que’
tempi, in cui la scarsezza de buoni poeti darà
maggior risalto a’ que’ pochi che seppero sagBracciolini tentò di prevenire il Tassoni nel pubblicare
il suo Scherno degli Dei prima che ei pubblicasse la
Secchia rapita, cosi prevenne ancora il Zmani, che
piìi anni addietro avea cominciata la sua Erucleide. in
cui tratta dello slesso argomento, ina non dieìla in luce
che nel i6i3. 1718 MURO
piamente difendersi dalla comune infezione Noi
frattanto, dopo aver dato un saggio del numero
e del valore de’ poeti di questo secolo, passiamo a dire delle più celebri poetesse. alle
quali tanto più distinta menzione in questa Storia è dovuta, quanto più rara, e perciò più
pregevole, suol esser nelle donne tal lode.
XVII. Niuna cosa ci fa maggiormente conoscere qual fosse il comune entusiasmo in Italia per lo studio della volgar poesia, quanto
il vedere le più nobili dame rivolte a coltivarla
con sommo ardore, di niuna cosa maggiormente
pregiarsi quanto del titolo di poetesse. Quindi
fin dal 1559 potè il Domenichi pubblicare le
Rime diverse di alcune nobilissime et virtuosissime Donne, ove le rime di circa cinquanta
poetesse si veggon raccolte. Noi.dobbiam dunque di esse ancora ragionare distintamente, e
di quelle in particolar modo delle quali è rimasta più chiara fama. Tra esse si annovera
da alcuni Lucrezia Borgia. Ma comunque ella
fosse principessa assai amante della letteratura,
non par nondimeno che abbia diritto a tal lode
(V. Mazzucch. Scritt. it. t 2. par. 3, p. 1751).
Argentina Pallavicina, moglie del celebre conte
Guido Rangone, e Gentile Volta bolognese,
moglie del senatore Alessandro Paleotti, e madre del Cardinal Gabbriello, sono esse pure lodate come valorose nel poetar volgarmente 5 ma
non trovo che saggio alcuno del loro valore ci
sia rimasto. La prima a dare alle altre l esempio nel pareggiare la fama de’ più illustri poeti
fu Vittoria Colonna, dama non meno celebre
per la nobiltà della nascita, che per le rare TERZO i 719
virtù delle quali fu adorna, e pel leggiadro ingegno che la distinse fra tutti. Il sig. Giambattista Rota bergamasco, che nel 1760 ci ha data
in Bergamo una nuova e bella edizion delle
Rime di questa celebre poetessa, ne ha posta
innanzi ad essa la Vita scritta sì esattamente
che appena possiamo sperare di aggiugnere cosa
alcuna. Fabrizio Colonna gran contestabile del
regno di Napoli, e Anna di Montefeltro figlia
di Federigo duca di Urbino, furono i genitori
di \ ittoria, clic da essi nacque in Marino feudo
della nobilissima sua famiglia circa il *49° j c
¡11 eia di soli quattro anni fu destinata in isposa
a Ferdinando Francesco Davalos marchese di
Pescara, fanciullo allora della medesima età.
Le rare doti di corpo e di animo, delle quali
adornata aveala la natura, e la diligente educazione che ad esse si aggiunse, la renderon
presto oggetto di maraviglia a tutti, sicchè le
nozze di essa bramate furono ancora da alcuni
principi. Ella però ferma nella parola già data,
si unì in età di diciassette anni col destinato
suo sposo. Una perfetta somiglianza di virtù e
di pregi, e un tenero e vicendevole amor coniugale renderono ne’ primi anni felicissima la
loro unione. Ma la prigionia del marito nella
battaglia di Ravenna nel 1512 cominciò a turbare sì bel sereno j e la calma che colla liberazion del medesimo ritornò al cuor di Vittoria, cambiossi poscia in una troppo funesta
procella, quando nel 1525, per le ferite avute
nella battaglia di Pavia, nel più bel fiore degli
anni ei venne a morte. Al profondo dolore da
cui Vittoria restò trafitta, cercò ella un dolce I ~ 20 LIBRO
slogo nelle rime, in cui ne pianse la morte
e vivendo in un tranquillo ritiro ora in Napoli, or nell’isola d Ischia, rifiutò fermamente più
altri partiti che le vennero offerti. Ma nè la
solitudine, nè la poesia bastavano a sollevarla
dal suo alto cordoglio; ed ella perciò assai più
efficace sollievo si procurò, sette anni poichè
il marito fu morto, negli esercizii della più fervida religione, alla quale consecrossi allora interamente. Nè cessò perciò ella dal coltivare la
poesia, ma ne prese l argomento dalle cose
sacre, e continuò e tenere un amichevol commercio con alcuni de più dotti e più colti scrittori di quell’età, come co’ cardinali Bembo,
Contarini e Polo, con monsig. (Guidiccioni, col
Flaminio, col Molza, coll’Alamanni e con più
altri. Viveva ella allora in Roma, quando nel
marzo del 1541, desiderosa di un più perfetto
ritiro, andò a racchiudersi in un monastero di
Orvieto, donde in breve tempo passò a quello
di Santa Caterina in Viterbo. Ivi nel 1542 trovossi il Cardinal Polo Legato, col Flaminio e
con Pietro Carnesecchi, allora cattolico, e tra
essi e Vittoria formossi una strettissima unione,
che rendette loro dolce al par d’ ogni altro e
piacevole quel soggiorno; unione che da alcuni
Protestanti si è voluta spacciare come effetto
dell’ inclinare ch’ essi facevano a’ loro errori,
ma senza alcun fondamento, come ha chiaramente provato il Cardinal Querini (Diatr. ad
vol 3 epist cardinal. Poli, p). 58, ec.). E quanto
a Vittoria, alcuni le fan delitto della stima in
cui elle ebbe POcbino, prima che questi abbandonasse la cattolica Religione. Tanto però TERZO 1^31
fu lungi ch’ ella si mostrasse incline agli errori ne quali egli cadde, che anzi, come di
lui parlando abbiamo osservato, parve ch’ella
ne prevedesse la scandalosa caduta (*). Ella
(*) A provare con sempre maggior evidenza che questa illustre matrona non solo non seguì, ma ebbe anzi
in orrore le opinioni de’ novatori, può giovare una
lettera da lei scritta al Cardinal Cervini, che fu poi
Marcello II, in proposito dell’Ochino, da lei nominato
f Belardino, il cui originale conservasi in Siena presso
la nobil famiglia de Cervini, donde gentilmente me ne
ha trasmessa copia il ch. abate Bernardo conte. Zamagna,
abbastanza noto per la sua bella versione dell*Odissea.
Illuslriss. et Reverendiss. Monsignor. Obligatiss. (Quanto
più ho havuto modo di guardare le ac.tioni del Rovere liti bs. Monsignor ir Inghilterra, tanto più me è parso veder, che sia vero et sincerissimo Servo di Dio: onde
quando per carità si degna rispondere a qualche mia
domanda, mi par di esser sicura di non poter errare
seguendo il suo parere. Et perchè me disse, che li pareva, se, lettera o altro di Fra Belardin mi venisse,
la mandassi a V. S. Reverendiss., senza responder altro, se non mi fossi ordinato; havendo hauto ogi la
alligata col Libretto che vedrà, celle mando; et tutto
era in un pligho dato alla posta qui da una Staffetta,
che veniva da Bologna senza altro scritto dentro; et non
ho voluto usar altri mezzi che mandarle per un mio de
servizio. Sicchè perdoni V. S. questa molestia, benchè,
come vede, sia in stampa, et Nostro Signor Dio sua
Reverendiss. persona guardi con quella felice vita di
Sua S., che per tutti i suoi Servi se desidera. Da Santa
Caterina di Viterbo adì IIII di Decembre. Serva di
V. S. Reverendiss. ed Illustriss. la Marchesa di Pescara.
Quindi per poscritta aggiugne: Mi dole assai, che
quanto più pensa scusarsi, più se accusa; et quanto
più crede salvar altri da naufragii, più li exspone al diluvio, essendo lui fuor deItArca, che salva et assicura.
Tuia R ose tu? Voi. XII.
36 1^22 LIBRO
uscì poi da quel monastero, e tornossene a
Roma, di che non sappiamo nè il motivo nè
il tempo precisamente. Sappiamo solo che in
questa città, verso il fin di febbraio del livella diede fine a suoi giorni. Le Rime di essa
di cui, mentre ella vivea, si fecer quattro edizioni, e che più altre volte furono ristampate.
e illustrate ancora con ampia sposizione d;i
Rinaldo Corso, non sono inferiori a quelle della
maggior parte de’ rimatori petrarcheschi di questo secolo; e a lei deesi innoltre la lode di aver
mostrato come felicemente si possa la volgar
poesia rivolgere agli argomenti sacri: cosa finallora appena tentata da all ri, se se ne traggano
gli scrittori di Laudi, nei’ più de quali è a lodar
la pietà più che non l’eleganza.
XVI11. Mentre questa illustre matrona nc' cresceva sì grande ornamento alla poesia italiana, non minore essa ne riceveva da un’altra, cioè da Veronica Gambara, le quali due
poetesse lodate son dal Giraldi, come le prime
che al femminil sesso recassero un tale onore:
Fuere pene non viris inferiores duae. illae Principes et Poetriae Victoria Columna Piscaria,
et Veronica Gambara Corrigensis, quarum
utriusque pro sexus qualitate divina leguntur
Poema fa, quae eo cupidius a plerisque leguntur, quo sunt ab illustribus Matronis composita (De Poet suor. temp. dial. 2). Di essa
ancora abbiamo una esattissima Vita scritta
dal signor dott Baldassarre Cammillo Zamboni, e premessa alla bella edizione delle Rime
e delle Lettere di Veronica, fatta in Brescia TERZO I7 u3
nell'anno 1709; e io perciò sarò breve nel ragionarne (a). Brescia fu la patria di questa celebre
donna, e il co. Gianfrancesco Gambara e Alda
Pia da Carpi ne furono 1 genitori, da1 quali
ella nacque la notte precedente a’ 3o di novembre del (485. A coltivare l’ingegno di cui era
dotata, oltre la cura de1 genitori nel provvederla di valorosi maestri, molto giovò 1* amicizia eh’ ella sin da’ primi anni strinse col Bembo, benché da essa 11011 ancora veduto, il quale
godeva di istruirla colle sue lettere, e di scorgerla sul buon sentiero, e di additarle la via
per cui giugnere a quella perfezione nel verseggiare, a cui vedevala sì felicemente disposta
dalla natura. Nel 1509 passò a Correggio, scelta
a sua sposa' da Giberto, che n’ era allora signore, e a cui era morta poc’ anzi la prima
moglie Violante Pica nipote del famoso Giovanni Pico. Ella ebbe il dolorp di perderlo nove
anni appresso, e diede chiaramente a conoscere quanto lo amasse, ricusando, benché in
età giovanile, di passare ad altre nozze, e consolando la sua vedovanza coll’ occuparsi continuamente nel buon governo de’ sudditi, e nella
saggia educazione de’ due figliuoli eli’ ella avea
dati al marito, Ippolito e Girolamo, che fu poi
cardinale. Fra queste gravi sue cure non cessò
ella di coltivare gli studi, e quello singolarmente
('/) Benché la Vita di Veronica Gambara sia scritta
dal Zamboni con molta esattezza, più altre notizie nondimeno finora non avvertite mi è riuscito di ritrovarne,
che si possono vedere nella Biblioteca modenese (t. 2,
pag. 135, ec.). 1 7 24 LlBIlO
.Iella volgar poesia, e di favorire e di onorare
tutti gli uomini dotti, onorata da essi a vi.!Midn, e lodata ne’ loro libri, come pruova l’autor della Vita, che accenna gli elogi che molti
di essi ne fanno. Ad essi aggiugnerò io il Bandello che a lei dedicando una delle sue Novelle, voi mi occorreste, dice (t. 3, r.ov. 5o),
/legna di lei, e di molto più honorato dono
per le vostre singolari doti, che vinta l inviiltiij così viva come sete, v hanno fatta immortale, essendo anco voi di tal valore, che potrete fare chi volete eternamente vivere, l'erra
anco con (questa mia historia a pagare in parte
li honori da voi alcuna volta a Correggio in
casa vostra ricevuti. Il governo di Bologna data
da Clemente A li nell’ an 1528 ad Uberto
suo fratello, determinò Veronica a fissare in
quella città la sua stanza, e nel tempo della
coronazione di Carlo V, seguita ivi nell’an 1530, essendo a Bologna concorsi i più
chiari ingegni d*Italia, la Casa di Veronica,
dice Rinaldo Corso nella breve V ite» che di essa
scrisse, stampata in Ancona nel 1556, era una
Accademia ove ogni giorno si riducevano a
discorrere di nobili quistioni con Lei il Bembo, il Cappello, il Molza, il Mauro, et quanti
huomini famosi di tutta Europa seguivan quelle
Corti. Nell’anno stesso tornò Veronica a Correggio, ove poi per lo più si trattenne; ed
ivi accolse con somme dimostrazioni di onore
l irnperador Carlo V, da cui ebbe belle testimonianze di rispetto e di stima. A’ 13 di giugno del 1550 finì di vivere, e il corpo ne fu
con molta pompa sepolto nella chiesa di San TERZO I723
Domenico. Le Rime ili essa, sparse dapprima in
diverse Raccolte, sono state insiem riunite colla
giunta di più altre inedite nell accennata edizione; ed esse son tali, che possono aver luogo
tra quelle de’più colti poeti di quell’età; e ad
esse si sono aggiunte le Lettere di Veronica,
per la più parte non ancor pubblicate, le quali
parimente son molto pregevoli per la facile e
naturale eleganza con cui sono scritte.
XIX. Donna Maria di Cardona, Porzia Malvezza e Angiola Sirena sono esse pure lodate
come donne eccellenti nel poetare (Quadr. t. 2,
p. 2.35, 287, 238). Ma nulla di esse, ch io
sappia, si ha alle stampe. Non così di Tullia
di Aragona, di cui oltre qualche altra opera,
abbiamo le Rime più volte stampate. Di questa
celebre rimatrice, che fu frutto d’amore, e ne
accese non senza qualche sua taccia le fiamme
in molti, e principalmente in Girolamo Muzio,
si posson vedere copiose notizie presso il conte
Mazzucchelli (Scritt. it. t.1, par. 2, p. 928, ec.).
E la poco buona fama di cui ella godeva, si
può confermare da un Capitolo di Pasquino a
que'tempi stampato, e veduto dal P. Affò, che
ha per titolo: Passione d amor de Mastro Pasquino per la partita della Signora Tullia; et
martello grande delle povere Cortigiane di Roma
con le allegrezze delle Bolognese. Di lei parla
sovente nelle sue Egloghe il Muzio *, e indica
ancor chiaramente il ragguardevole personaggio
che gli fu ¡ladre (l. nominato anche presso il conte. Mazzucchelli. Gaspara Stampa
padovana di nascita, ma di origine gentildonna
milanese, lodata da Ortensio Landi come gran l~lG LIBRO
Poetessa et musica eccellente Catalog p. A - 5.
fu veramente una delle più eleganti" limatrici
che a 11 or vivessero, e degna di andar del pj, o
co’ più illustri poeti, Collaltino dei’ conti <li
Collallo fu l'oggetto dell’amore e delle rime,di
Gaspara; e vuolsi che l’aver lui presa altra
moglie, affrettasse ad essa la morte in età di
circa treni’anni verso il 1554. Cassandra di lei
sorella ne fece in quell’anno la prima edizione, e una nuova se n’è poi fatta in Venezia
nel 1738, a cui vanno aggiunte le Rime del
detto Collaltino e di Vinciguerra conti di Collalto, e di Baldassarre Stampa fratello di Gaspara e di più moderni poeti in lode di que’
due amanti. Il Quadrio afferma (t 2, p. 240)
che anche di Lucrezia Gonzaga da Gazzuolo,
di cui altrove abbiam detto (l. 1,c. 2), si ha
un volumetto di'Rime, stampato in Venezia;
ma di esse io non trovo menzione presso
alcun altro scrittore. Più di tutte le altre feconda nel numero delle rime, ma men di molte
felice nella loro eleganza, fu Laura Terracina
dama napoletana, che fiorì verso la metà di
questo secolo, e di cui parecchi volumi di
Poesie si hanno alle stampe. Ella è nominata
dal Boccalini (centur. 2, ragg. 35), il quale
però è probabile che volesse solo trattare
piacevolmente i lettori col racconto ch’ ei fa
delle nozze da lei fatte col Mauro, e dell ucciderla che questi poi fece per gelosia, veggendo
ch' ella portava alle gambe un ligaccio ornato
di gioie mandatogli in dono dal re d’Inghilterra Odoardo VI. Aggiungansi a queste Lionora Falletta e Claudia della Rovere, di cui, TERZO I727
oltre ciò clic ne ha il Quadrio (¿.2, p. a5o),
più copiose notizie si leggono nelle Poesie e
Memorie di Donne Letterate che fiorirono negli
Stati del Re di Sardegna, del signor Antonio
Ranza, pubblicate in Vercelli nel 1769, ove insieme con alcune lor Poesie, altre ancor se ne
leggono di Anna Ottavia degli Scaravelli, di
madama Fiorenza G. piemontese, di Maddalena
Pallavicina de marchesi di Ceva, e di Livia
Torniella Borromea novarese. Laura Batti ferra
degli Ammanati, figlia naturale, e poi legittimata, di Giannantonio Battiferri da Urbino, ino*1
glie del celebre scultore e architetto Bartolommeo degli Ammanati fiorentino, e morta nel 1589,
fu ella pure assai valorosa poetessa, e secondando la rara pietà di cui era adorna, esercitossi principalmente in argomenti sacri. Di lei
parla il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 2, par. 1,
p. 549, ec.), e rammenta gli elogi con cui ne
ragionano il Caro, il Varchi e più altri. A quali
un altro ancor più magnifico si può aggi tignare,
che di essa fa Pier Vettori in una sua lettera a
Mario Colonna, in cui narrando che alforazion
funebre detta da Lionardo Salviati nell esequie
del Varchi era. intervenuta ancor Laura: Cum
enim, dice (Epist l. 6, p. 133), non debuit
femina illa locum eum visere, in quo virtus industriaque poetarum celebraretur? quae studio
illo infiammata est, et quam praecipue Musae
diligunt, ac saepe le pi di un venustumque carmen scribentem adjuvant? E segue dicendo gran
lodi di Laura, e fra le altre cose afferma che
com ella non è inferiore nell’arte e nell’eleganza del verseggiare all antica Saffo, cosi di 1728 LIBRO
molto la supera nell’onestà de’costumi. Di'Isotta
Brembati gentildonna bergamasca più esattamente che il Quadrio ragiona il conte Mazzut clielli, indicando ciò che se n ha alle stampe
(Scritt. it. t. 2, par. 4, p. 2047, ec)• Molta
fama ottenne ancora Chiara Matraini, nata Cantarini, gentildonna lucchese, le cui Rime in.sieni
colle Lettere furono, poichè ella fu morta, stampate nel 15(j5 (Crescimb. Stor. p. 1 a3; Commcnt.
t. 2, par. 2, p. 409; Quadr. t. 2, p. 251). D Isabella di Morra napoletana leggiadra poetessa
più Rime si trovano sparse in diverse Raccolte,
ed esse furon poi insieme unite, e con quelle
di Veronica Gambara e di Lucrezia Marinella
date alla luce nel 1603. Lucrezia Bebbia dama
reggiana, e moglie di Niccolò Sassatelli imolese, fu celebre non meno per coraggio guerriero, che per felice talento nel poetare, e se
ne possono vedere più distinte notizie presso il
Guasco (Stor. lettcr. di Reggio, p. 32, ec.) (a).
Il Quadrio ragiona ancora di Virginia Salvi, o
anzi di tre poetesse che con tal nome si veggon distinte, e anche di Virginia Accoramboni
(l.c.p. 259) moglie di Francesco Peretti nipote di Sisto V, le cui tragiche avventure sono
da lui accennate. Ma io non posso andar cercando minutamente ogni cosa, e mi conviene
perciò passar sotto silenzio più altre che o
(n) Air occasioni* die ho avuta di parlare più stesamente di Lucrezia Rebbiu nella Biblioteca modenese
(f. i, p. 184, ec.; l. 6, p. 126), ho osservato che le
cose prodigiose intorno a questa donna narrate non sembrali molto probabili f e che non sono ad altra autorità appoggiate che a quella di poco autorevoli scrittori. TEHEO f72i)
come coltivatrici della volgar poesia vengon
lodate dagli scrittori di que’ tempi, benchè non
ce ne siano rimaste rime, o ci hanno lasciata
solo scarsa copia di rime, e di alcune altre
accennare soltanto il nome, come di Maddalena
Salvetti Acciaiuoli gentildonna fiorentina, e di
Barbara Cavalletti ferrarese, moglie di Paolo
Lotti ravennate, e di Modesta Pozzo veneziana,
che prese talvolta il nome di Moderata Fonte,
moglie di Filippo Giorgi, delle quali ragiona il
suddetto scrittore (iVi, p. 272, 273, 274 t 6
P 270, 591).
XX. Alcune però sono state ommesse, o sol
di passaggio accennate dal Quadrio, che degne erano di più distinta menzione. E tra esse
deesi nominare Lucia Bertana, di cui molte
eleganti rime e alcune lettere si trovano sparse
in diverse Raccolte, come osserva il conte. Mazzucchelli (Scritt. it t. 2, par. 2, p. 1029),
che intorno ad essa ci ha dato un diligente articolo. Io non ho trovati autentici documenti
che la provino o bolognese, o modenese, fra
le quali due città si contrasta la gloria di esserle stata patria. E in alcune scritture ella è
detta delfOro famiglia bolognese, in altre dell’Erro, il che potrebbe farla credere modenese, ove la nobil famiglia degli Erri si è fino
a' nostri giorni continuata (a). Ciò clic è certo,
(a) I documenti che mi è poscia riuscito di trovare, e de’ quali ho fatto uso nella Biblioteca modenese
(t. 1, p. 2 >4i l- 6, p 30), ci pruovano chiaramente
che Lucia fu della famiglia bolognese dell' Oro, e ivi
ne ho anche prodotta l'iscrizion sepolcrale, da cui raccogliesi ch’ essa morì in Roma 1' anno 1 in età di
soli quarantasei anui. 1^30 LIBRO
si è ch’ella visse in Modena moglie di Gurone Bertano gentiluom modenese, fratello del
Cardinal Pietro altrove da noi nominato e
perciò ella è detta talvolta, benchè impropriamente, Lucia Bertana Gurona, o Gerona Ebbe
stretta amicizia e corrispondenza di lettere co’
più colti poeti, e singolarmente con Vincenzo
Martelli e con Annibal Caro; e abbiam veduto
ch’ella adoperossi, benchè senza effetto, a sedar la contesa tra l Caro medesimo e il Castelvetro. Il conte. Mazzucchelli accenna alcune
opere a lei dedicate da Lodovico Domenichi,
il quale, oltre ciò, ci ha lasciato un bell’elogio di essa, che non essendo stato avvertito dal detto scrittore t io recherò qui stesamente: L'anno 1560, dic egli (Dialoghi, p 3),
occorrendo alle illustri Signore, la Signora Silvia
Bo iarda Contessa d> Scandiano, e alla Signora
Battista Varana passare per Modena, volendo
elle andar a Parma, furono con singolare humanità e amorevolezza inviate e alloggiate dalla
nobilissima et valorosissima Signora Lucia Bertana degnissima Consorte del cortesissimo Signor Gurone, la quale siccome donna di gran
cuore, et veramente nata a usare opere, di magnificenzia et di cortesia, non lasciò cosa a
fare per honorare et trattenere quelle due Signore non pure di magnifiche et sontuose vivande, ma di ogni maniera di virtuosi diporti, et
quali appunto si convenivano le virtù di Lei,
et a’ meriti delle Signore alloggiate. Onde lasciando di scrivere l apparato nobile, et le accoglienze signorili, et l altre particolarità, le
quali meglio per altri immaginare si possono, TERZO 1^31
che per me esprimere, fornita che fu la cena,
dove intervenne ancora l illustre Sig. Conte
li ercole Bangone, et M. Gherado Spini, che
appresso di quel Signore si trovava in quel
tempo, ec. Ella vivea ancora nel 1561, quando
Gurone a 2 di ottobre fece il suo testamento,
di cui conservasi copia nell’archivio di questa
nobil famiglia de’ conti Cantuti Castel vetro, ma
non sappiamo fin quando continuasse ad esser
tra’ vivi. Ella ebbe un figlio di nome Giulio,
che dilettavasi di scriver poesie nel volgar dialetto della sua patria, e alcune Rime in esso
da lui composte si leggono mss. al fine di un’edizione dell'Arcadia del Sannazzaro, fatta nel
xvi secolo, ch è nella libreria degli accademici Gelati di Bologna, conservata ora presso
il ch. sig. conte Giovanni Fantuzzi, e innanzi
ad esse egli è detto: Missier Iuli Brtan fiol
d Madonna Lucia Brtana da Muodna. Nè fu tra
le dame modenesi la sola Bertana che si esercitasse nel coltivare la poesia. Più altre ne possiamo additare che con tale studio nuovo ornamento accrebbero alla lor patria. Oltre quelle
della famiglia de’ Rangoni, da noi ad altra occasion nominate, fu celebre a’ suoi tempi Ersilia Cortese (a), di cui alcune Rime si hanno
in una raccolta per Donne Boniane, pubblicata
da Muzio Manfredi nel Fu ella figlia naturale di Jacopo Cortese, che allor vivea in
Roma, fratello del Cardinal Gregorio, nata
(a) Anche di Ersialia Cortese si è detto più lungamente nella poc’anzi citata Biblioteca modenese (t. 2,
p. 167, ec.). 1^32 LIBRO
nel 1^29, e legittimata poscia uei 15^ t (prlt
Card. Cortes, ante vol. 1 ejus ()p. p% /|0^ L’autorità di cui il padre godeva in Roma, la saggia educazione con cui venne allevando questa
sua figlia, e i pregi naturali onde ella e»r. fin
nita, la fecero bramare a Giambattista del Monte
nipote del)>onlefice Giulio III. Egli in fatti l’ottenne; e la maniera con cui il Ruscelli parla di
queste nozze (Imprese ill. p. 200), sembrano
indicarci che’ esse seguissero quando il detto pontefice era già salito sul trono. Ma poco potè
ella godere del suo sposo, ucciso nella guerra
della Mirandola nel 1552 (Murat. Ann. dItalia
ad h. a.). Una lettera a lei scritta da Pietro
Aretino nel settembre dell’ anno stesso accenna
l ammirabil costanza con cui ella sostenuto avea
sì fiero colpo (Lettere, l. 6, p 96, ec.), e ci
mostra insieme quanto ella fosse cara al pontefice; il che pure ricavasi da più altre lettere
dell'Aretino medesimo e a lei e ad altri, nelle
quali esalta con somme lodi il molto ch ella
poteva presso il pontefice, e il saggio uso che
faceane nel proteggere e nel favorire i dotti
(ivi, p. 100, 107, 109, 113. 135, 162, 173,
187, 193, 195). Dell'autorità di cui Ersilia godeva in Roma, ci è pruova ancora una lettera
a lei scritta nell’ottobre dell’an 1555 da Vittoria Farnese duchessa d’Urbino (lettere de
Principi t t. 1, p. 187, ed. Ven. 15(34)- EUa
frattanto, benchè rimasta vedova in età di soli
ventitré anni, ricusò costantemente di passare
ad altre nozze. Questa sua costanza gli fu cagione
di sinistre vicende, accennate oscuramente dal
suddetto Ruscelli. Questi racconta ch’ ella Ju TERZO 1-33
desiderata in matrimonio da qualche persona,
ch' avesse parenti, i quali allora potevano in
supremo grado; e che avendo ella risposto che
la sua gratitudine verso la memoria di Giulio III, da cui avea ricevuti sì gran beneficii,
non gli permetteva di abbracciare altro partito,
dai Ministri di quei, che la desideravano, si
vide in breve una manifestissima et gran persecuzione contro di lei, privandola dei Castelli, rovinandole le case. togliendole l'entrate, e
per diverse vie inquietandola nei beni della fortuna. Aggiugne ch’ ella soffrì ogni cosa con tal
fermezza, che destò meraviglia a que Signori
stessi, che per sè, o per alcuni della Casa loro
mostravan tanto di desiderarla, non però con
altri modi, che di giusti et veri Signori, se ben
la molta vecchiezza in alcuno, o il molto studio de Ministri in mettersi in grazia de' padroni avesse fatto usar contro detta Signora
fuor (d ordine et volontà d essi particolar padroni quei termini strani che di sopra ho detti.
Queste espressioni a me sembra che indichino
certamente il pontefice Paolo IV, i Carrafi di lui
nipoti, che tanto abusarono del lor potere, e
i loro ministri. Ma intorno a ciò non mi è avvenuto di ritrovare più distinte notizie. Ersilia,
a spiegare i suoi sentimenti in quell occasione,
si scelse, secondo l’uso comune a quei’ tempi,
un’impresa riferita dallo stesso Ruscelli, cioè
una casa ardente col motto: Opes. non animum.
Un’altra impresa aveale proposta con sua lettera
Annibal Caro (Lett. t. 2, lett. 37), di cui però
non veggiamo ch’ella facesse uso. Ella visse poi
ancora molti anni; e bramosa di conservar la 1734 unno
memoria del Cardinal Gregorio suo zio usò
di ogni possibile diligenza per raccoglierne le
opere, al qual fine spedì fino in Inghilterra ove
credeva che fossero state trasmesse al Cardinal Polo. Ma le ricerche ivi fatte furono inutili. Solo a Girolamo Catena venne fatto di trovare nella libreria di Rinaldo Corso le Lettere
latine del Cardinale, e queste insieme col Trattato della venuta di S. Pietro a Roma furono
da Ersilia pubblicate nel 1573, e con sua lettera latina dedicate al pontefice Gregorio XIII.
\ iveva ancora nel 1578, quando al cavalier Alberto Cortese suo nipote diè in moglie Lucietta
da Porto nipote del celebre Sperone Speroni,
come di lui parlando diremo.
XXI. Niuna però tra le illustri matrone non
solo di Modena, ma di tutta l'Italia, giunse a
sì alta fama pel suo sapere, quanto Tarquinia
Molza figlia di Cammillo primogenito del poeta
Francesco Maria, e d Isabella Colombi, e nata
in Modena nel 1 di novembre del 1542. Nella
recente già mentovata edizione delle Opere dell avolo si veggono quelle ancora della nipote,
che sono alcune Poesie italiane e altre latine,
e la traduzione di due Dialoghi di Platone,
cioè del Carmide e del Critone, la quale però
non ci è pervenuta che guasta per negligenza
de’copisti, e mancante. Ad esse va innanzi la
Vita di Tarquinia diligentemente descritta dal
sig. Domenico Vandelli (a). Da essa raccogliesi
con quanta attenzione fosse la giovinetta 1 ar(rv) Di Tarquinia ahltiain Hate anehe più distmtcMiotuie uella Biblioteca modenese (t. 3, p. ec.). TERZO 1735
quinia istruita non sol nelle lettere, ma ancor
nelle scienze, e nelle lingue greca e latina, e
perfin nell’ ebraica. Data in moglie nel 1560
a Paolo Porri 110, perdette diciotto anni appresso il marito, senza avergli dato alcun figlio) e le liti che dopo tal morte sostenne,
le recaron non picciola noia. Ricusò nondimeno
qualunque altro partito, e recatasi verso il 1580
a Ferrara, fu per circa dodici anni dama d’ onore di Lucrezia e di Leonora d Este sorelle
del duca Alfonso II. Tornò poscia a Modena,
ove in un tranquillo ritiro e fra ’l dolce ozio
de suoi studi passò il rimanente della sua vita. cioè fino agli 8 d’agosto dell’an 1617,
nel qual giorno le diede fine. L’autor della
Vita ha ad essa aggiunti gli elogi che ne han
fatto molti poeti ed altri scrittori di que tempi, e ad essi si può aggiugnere Torquato Tasso
che la introdusse a ragionare nel suo Dialogo
dell’Amore, perciò intitolato la Molza. Due
sole fra le molte testimonianze onorevolissime
a Tarquinia, che addursi polrebbono, io qui
trascelgo 5 una cui mi basterà l’accennare,
l’altra che piacemi riportare distesamente, perchè ci dà una troppo bella idea del raro merito di questa celebre d »jjin La prima è la
patente con cui ella fu onorata agli 11 di dicembre del 1600 dal senato e dal popol romano, la qual conservasi per legato della stessa
Tarquinia nell’archivio di questa Comunità, e
ch è stata pubblicata dal suddetto scrittor della
Vita. In essa, dopo aver accennato esser cosa
insolita che le donne sieno ascritte alla cittadinanza, dopo aver rammentati i meriti di 1^36 LIBRO
Francesco Maria avolo di Tarquinia, dopo aver
celebrate le rare virtù di cui ella è adorna
gli studi fatti in' tutte le più gravi scienze ’
l’eleganza del poetare, la perizia delle lingue
latina e greca ed ebraica, l eccellenza nella
musica, la fermezza nelle avversità, l amore
della pudicizia, e tutti gli altri bei pregi che
la distinguono, le vien conceduto col glorioso
soprannome di Unica l’onore della cittadinanza
romana, e questo non a lei solamente, ma a
tutti della nobil familgia de' Molza di Modena,
e a lor discendenti: privilegio singolare e forse
unico, e che fa conoscere in qual pregio si
avesse questa illustre matrona. La seconda è
la lettera dedicatoria con cui Francesco Patrizii
le offre il terzo tomo delle sue Discussioni Peripatetiche, ch’ io recherò nella volgar nostra
lingua, poichè di niun altra donna si è forse
mai fatto più magnifico elogio: A qual uomo,
dic egli, potrei io con più ragione offrire le
mie fatiche, che a voi la più dotta fra tutte
le più illus tri matrone che sono, che furono,
e che in avvenire saranno? Voi non avete già
gustati soltanto, come più altre, i libri. Voi
non sol la toscana, ma la latina ancora e la
greca lingua possedete perfettamente; e in questa
senza punto esitare leggete e intendete non sol
gli storici e gli oratori, ma i filosofi ancora,
e lo stesso Platone emulatore del favellar di
Giove, e fra i poeti lo stesso Pindaro; e ciò
ch è più a stupire, in tre soli mesi l avete
appresa udendo la mia spiegazion di Platone,
f roi c nella lingua latina e nell italiana scrivete poesie d ogni maniera, e quanto ingegnose TERZO *7^7
e leggiadre! Voi nelle sottigliezze della logica,
voi nella morale filosofia, e in quella di Plutarco, di Aristotile e di Platone, voi nella fisiologia, voi nella teologia avete fatti non ordinarii progressi. Che dirò io della musica,
nella quale voi siete la maraviglia non sol de’
musici, ma delle Muse, sicchè non vi ha uomo
in essa sì dotto, che vi uguagli non che vi
superi? Quando voi cantate al cembalo, e
unendo la voce al suon della cetra, fate udire
al tempo medesimo l acuto e il grave, pare
che le Grazie tutte vi stiano intorno attonite.
Perchè non posso io esprimer tai cose in modo
che a chi legga sembri di udirvi? Qual poi è
la vostra eloquenza, quale l’ ingegno, quale
la grazia, la dolcezza, la cortesia, l umanità
nel conversare! Ben giustamente il vostro concittadino Benedetto Manzoli vescovo di Reggio,
e uomo savissimo, osa di ariti porvi non solo
al vostro padre Camillo, uomo eloquentissimo,
ma ancora al vostro grand'avolo Francesco
Maria Molza. A queste tante e sì belle doti
d ingegno s aggiungono la nobiltà della stirpe,
la rara bellezza, gli egregi costumi, la singolar pudicizia. Non solo i vostri concittadini,
ma i più colti tra gli stranieri vengono a Modena per vedervi, per ammirarvi, per rendervi
omaggio, come ad un altra Minerva uscita
dal capo di Giove. In quanta stima vi hanno
e il serenissimo duca nostro Alfonso II, e le
principesse Lucrezia e Leonora di lui sorelle,
e la città di Ferrara, e l'Italia, e Roma, e
in Roma il mondo tutto cristiano Ma oimè
poichè l’ottimo vostro marito Paolo Porrino
TlRAJBOSClll, Voi. XII. 37 1 ^38 LIBRO
se n è ito al Cielo, voi avete involte tra lo
squallore e tra l pianto le grazie tutte, e noi
vi veggiam divenuta un'altra Artemisia. Ei fu
al certo un incomparabil marito, ma voi ancora gli foste incomparabile e maravigliosa consorte. Chiamate dunque in soccorso il vostro
senno e la vostra fortezza, e rasciugate le lagrime, e ricevete con lieto volto questo terzo
tomo delle mie Discussioni, ch io per testimonio della mia riconoscenza a vostri beneficii
vi offro e consacro. Alcune altre traduzioni, dal
latino e dal greco fatte da Tarquinia si accennano nella Vita già mentovata, che son perite.
XXJ1. Più altre donne illustri pel coltivare
che fecero la volgar poesia si potrebbon qui
noverare, i cui nomi si posson veder presso
il Quadrio; e di alcune ragioneremo nel dire
degli scrittori di poesie latine. Solo alcune altre
poche tra le moltissime nominerò a questo luogo, quelle cioè di cui io mi lusinghi di poter
dare qualche notizia da altri non avvertita. Di
Veronica Franco, delle cui Poesie ragiona il
suddetto scrittore (t. 2, p. 624, 677; t. 7,
p. 144), ci ha lasciata memoria il famoso Michel de Montaigne nel suo Viaggio d'Italia di
fresco venuto alla luce; il quale narra ch essendo venuto a Venezia nel 1580, Veronica
gli mandò a donare le sue lettere in versi,
che avea stampate, e ch egli fece donar due
scudi al latore: Le Lundy à souper 6 de Novembre la Signora Vci'onica Franca janti fame
/ eni/iane envoia vers lui pour lui presenter
un petit livre de Lettres quelle a composé: il
fit donner deuz escus au dict home (Journal TF.UZO *73»)
de Voyage, t. 2, p. 8). Maria Spinola dama
genovese, alcune Rime di cui si accennan dal
Quadrio (t. 2, p. 359), è altamente lodata da
Pietro Aretino in una sua lettera del 1540, e
paragonata a Veronica Gambara e alla marchesa di Pescara (Aret Lett. l. 2, p. 128).
Di alcune altre coltissime dame che fiorivano
ne’ primi anni del secolo, fa menzione il Bandello. La prima delle sue Novelle vien da lui
dedicata a Ippolita Sforza Bentivoglio, moglie
di Alessandro Bentivoglio; e dopo aver detto
di aver udita quella novella da M. Lodovico
Alamanni, mentr era in Milano in casa d’Ippolita, così prosiegue: Essendo voi tra le rarissime donne del nostro secolo la più di vertù,
di costumi, di cortesia, e d honestà rara, e
di buone lettere Latine e volgari ornata, che
a la vostra divina bellezza maggior grazia accrescono, io nondimeno me ne tengo sempre
da più (cioè di esserle caro) conoscendo l acutezza del vostro ingegno, la erudizione, la
dottrina, e tante altre vostre singolari eccellentissime doti. Quindi loda il giudizio ch’ ella dà
prontamente de versi latini che le vengon porV
lati*, dice di averla udita disputare più volte
col nostro eruditissimo M. Girolamo Cittadino,
che in casa con honorato salario appo voi tenete, sopra alcuni passi di poeti e di storici,
i quali ella con somma attenzione andava esaminando ", e ricorda un giorno in cui il dotto
D> attore e Poeta soavissimo M Niccolò Amanio
venne a trovarla, e furon letti due sonetti,
uno della signora Cecilia Bergamina, contessa
di S. Giovanni in Croce, l’ altro della signora 174° libro
Carminila Scarampa, nel qual giorno ella parlò
mirabilmente dell’ ufficio e del dover del poet.i
Somiglianti lodi ne dice altrove il Bandello
(t. 2, nov. 4» Pr(f)ì il quale ancora rammenta
le dotte adunanze ch ella tenea nel giardino
del suo palazzo in Milano nel borgo della Porta
Comese (t. 3, nov. 9, pref.). Di essa però
non trovo che si abbia cosa alcuna alle stampe.
Delle altre due dame nominate poc anzi fa
menzione lo stesso Bandello dedicando un’altra
sua novella a Scipione Attellano: La mostrerete
anco alle nostre due Muse, la signora Cecilia
Gallerana Contessa (moglie di Lodovico Bergamini), e la signora Cammilla Scarampa, le
quali in vero sono a questa nostra età due
gi'an lumi della lingua italiana (t. 1, nov. 3).
Alla Scarampa egli dedica un’altra delle suddette Novelle (ivi, nov. 13), ove dice di esser stato in Asti patria di questa dama; e
più altre volte la loda altamente, or dicendola
un’ altra Saffo, or facendo encomii delle Rime
ch’ella scrivea (ivi, nov. 44 1 4? nnv18). Um bell’ elogio fa il medesimo autore della
Gallerana: Mentre che la molto gentile e dotta
signora Cecilia Gallerani Contessa Bergamina
prendeva questi dì passati! acqua de* bagni
d Acquario (nel Modenese) per fortificar la
debolezza dello stomaco, era di continuo da
molti Gentilhuomini e gentildonne visitata, sì
per esser qru'lla piacevole et virtuosa Signora
che è, come altresì che tutto il dì i più elevati e belli ingegni di Milano, e di stranieri,
che in Milano si trovano, sono in sua compagnia. Quivi gli huomini militari dell' arte del TERZO 1741
soldo ragionano, i Musici cantano, gli Architetti e i Pittori disegnano, i Filosofi delle
cose naturali questionano, et i Poeti le loro
et altrui composizioni recitano (t. 1, nov. 21,
pref.), e altrove ancora rammenta le Poesie
volgari e latine ch’ ella andava felicemente scrivendo (ivi, nov. 20, pref.; t nov. 18,
pref). Di questa però non trovo che esista cosa
alcuna stampata. Non così della Scarampa, di
cui si hanno alcune Rime accennate dal Quadrio (t. 2, p. 282; t. 7, p. 74), il quale per
errore la fa mantovana. L’Argelati afferma ch'ella
fu milanese (Bibl. Script, mediol. t. 2, pars 2,
p. 1301), e figlia di Scarampo Scarampi senatore di Milano, e milanese ancora la dice il
Sannazzaro in un epigramma in onor di essa
composto (Epigr. l. 2, epigr. 53), ed è probabil perciò, ch’ ella fosse orionda da Asti,
ma nata in Milano. Amendue queste dame furon ancor lodate co’ suoi Epigrammi da Giulio Cesare Scaligero (Carm, t. 1, p. 368, 379).
Della Gallerana fa un cenno ancora Ortensio
Landi, e insiem con essa ci dà un catalogo
di altre donne erudite che a’ suoi tempi viveano: Dotte mi son parute la Marchesana
della Padulla, la Contessa Livia Borromea,
la Signora Violante Sanseverini figlia del Duca
di Sora, la Gallerana di Cremona, Donna
Ortensia Claria, la figlia del Cavaliere Albano
maritata in Brescia (cioè Lucia Albani bergamasca moglie del cavalier Faustino Avogadro),
Madama Penelope dalle Arme, Don. Isabella
Gonzaga, et Don. Lucrezia similmente Gonzaga da Gazzuolo, con una nipote figlia del I74J libro
Sig. Lodovico Pico, ch habita in Gazzuolo,
dotta a maraviglia, et che novellamente ha
scritto in Cosmografia. Ho taciuto a posta
fatta Veronica da Gambara, la Marchesana
di Pescara... Catherina Pellegrina Napoletana, la Marchesana di Betonto, et Donna Giulia Gonzaga, per essere assai dotte, et per
notissime presso dei dotti: ho pretermesso anchora Olimpia Moata... et Alda Torella de
Lonati (Cataloghi, l. 1, p. 53) (a). Io non mi
arresto a ragionar di ciascuna di queste donne, di alcuna delle quali ancora si è ragionato,
di altre inutilmente si cercherebbe più distinte notizie. Solo avvertirò che della opera
cosmografica della figlia di Lodovico Pico si
fa menzione anche in una lettera di Lucrezia
Gonzaga (Lett., p. 168) che col padre rallegrasi di figlia sì valorosa 5 che Alda Torella
Lonata insieme con Giulia Ferretta e con Isabella Gonzaga da Gazzuolo sono altrove lodate
dal medesimo Landi come donne erudite, ma
che nulla han voluto dare alla luce (Sferza de
Scritt. p. 22), e che questo scrittore medesimo fa in altro luogo un grande elogio d’Isa(n) Alda fu figlia di Lodovico di Guido Galeotto
Torello conte di Settimo del ramo di questa illustre famiglia stabilito in Pavia, e di Lodovica Marlinengo, e In
moglie di Giù. Maria Lunato circa il i55o. Se ne hanno
ltime nelle Raccolte poetiche, ed i encomiata non S'do
dal Landi, ina nncor dal Contile, dal Bollissi e da altri
scrittori di que’ tempi. Ad essa può aggingnersi ancora
Bai-bara Torelli Benedetti cugina del celebre co. Pomponio Torelli, di cui diremo a suo luogo, la quale
composta avea ima pastolare intitolata Parienia, mollo
lodata dai poeti di quell' età. ronzo 1743
bella Villaraarina principessa di Salerno (a cui
il Manuzio dedicò con sua lettera piena di encomii le Poesie di Scipione Capece), lodandola come dotta e savia matrona, e dicendo
che aveala udita in Avellino recitar versi latini, e dichiarar prose in maniera, che in tutti
destava gran meraviglia: ed ivi ancor fa menzione di altre donne erudite, cioè della suddetta Veronica da Gambara, di Emilia Angosciola, di Violante Gardona e di Violante
Sanseverina cugine in Napoli, di Costanza da
Novell ara, di Carnmilla di lei figlia, e d’isabella Sforza (Parad. l. 2, parad. 25). Un sonetto di Caterina Piovene è assai lodato dal
Bembo in una sua lettera (Op. t. 3. p. 27o)j
e Ippolita Roma padovana è detta dal medesimo Landi poetessa gentile (Cataloghi, p. 4/'>>
476). A queste celebri donne deesi ancora
aggiugnere Cammilla Valenti, figlia del cavalier
Valente Valenti e di Violante da Gambara,
sorella della famosa Veronica, e donna essa
pure lodata, come coltivatrice della letteratura,
dal Corso nella Vita di Veronica, dal conte
Niccolò d' Arco (l. 4, epigr. 14) e da Pietro
Aretino (Lett. l. 3, p. 32 1). Nel 1543 si congiunse in matrimonio Cammilla col conte Giacomo Michele dal Verme, cui ebbe il dispiacere di perdere undici anni appresso. Scipione
Agnello Maffei, dopo aver fatto un grande
elogio di Cammilla, e lodatone singolarmente
l’amore de buoni studi, racconta che poichè
vide morto il marito, gittatasi sull’ ancor caldo
cadavero, talmente si abbandonò al dolore,
che ne morì ella stessa (Ann. di Mani. I. 2, I «J44 LIBRO
c. 7). Questo racconto sembra a prima vista
aver non poco del romanzesco. Ma ch'ella veramente morisse poche ore dopo il marito,
raccogliesi ancora da un processo autentico
che conservasi nell' archivio della nobilissima
famiglia Valenti in Mantova, e che mi è stato
additato dall' ornatissimo sig. marchese Carlo
Valenti, a cui son debitore di tutte queste notizie. Quae subinde, dicesi ivi parlando di
Cammilla, ili ine ad decem horas vel circa pari ter decessit, nullis relictis filiis, ove però
non si spiega, se ciò avvenisse per forza di
gran dolore, o per malattia, da cui al tempo
medesimo che il marito fosse compresa. Gli
elogi con cui parlano di Cammilla Bernardo
Tasso (Amadigi, c. 44» 72), il Betussi,
il quale scriveva mentre Camilla non contava
che ventidue anni di età (Giunta alle Donne
ill del Boccac. c. 49), il Chiesa (Teatro delle
Donne letter. p. 113), e più altri scrittori, i
quali affermano ch’ ella scrivea e lettere e versi
con somma facilità ed eleganza, che nella lingua latina, ugualmente che nell’ italiana, avea
fatti grandi progressi, e che occupavasi singolarmente nello studio della sacra Scrittura,
ci fan conoscere a qual fama per ciò salisse.
Io recherò solo un breve epigramma di Niccolò d’Arco, che in poche parole tutti racchiude i pregi di questa celebre donna:
Cum mater tibi sit Pallas, cui denique mirum,
Quod doctos versus, culta Camila, facis?
Hoc admirandum, cum sis vel mater Amorum,
Quod proba, quod servas casta pudicitiam.
L. 3, epigr..-{8. TERZO *745
Di lei perù 11011 si ha alle stampe che una lettera italiana al Vergerio allor cattolico, colla
risposta da esso fattale (Letter. volg. di diversi, ec., Veri. 15.44)- Parlenia Mainolda Gallarata è annoverata dall1 Ari si (Crcrn. l'iter, t. 2,
p. 256) e dall’Argelati (Bibl. Script, mediol. t. 1,
pars 2, p. 656) tra le donne più celebri per
sapere, che in questo secol vivessero, talchè
il Vida soleva al giudizio di essa soggettare le
sue poesie; e amendue ne accennan più opere
che son rimaste inedite. Di un altra nobilissima
dama, cioè d Ippolita Malaspina pavese, fa
menzione il conte. Costanzo Landi: Cum in Ticinensi.Academia, dic egli (Praetermissorum
p. 2), mihi forte obtigisset Virgiliana lectio,
inter tot nobiles et eruditos juvenes in schola
illustris ac nobilissimae virginis Hippolitae Malaspinae versantes, disserui, ec. Ove sotto il
nome di scuola io credo che l’autore intenda
qualche letteraria adunanza che innanzi a questa erudita dama si solesse tenere.
XXIII. Io ho riserbato l ultimo luogo tra le
donne famose pel coltivamento delle belle arti
e della volgar poesia ad una che tra le prime
dovrebb’esser annoverata, se del raro talento
di cui era fornita, avesse fatto migliore e più
lodevole uso. Parlo di Olimpia Morata, che offuscò la gloria de’ suoi studi ottenuta col farsi
seguace degli errori dei’ Protestanti, e col vivere in essi ostinata fino alla morte. Ma perchè
si abbia di lei più distinta contezza, ci convien prima parlare di Pellegrino che le fu padre, e che ancora ha diritto di esser qui nominato, perchè promosse lo studio della volgar i746 libro
poesia. Io non ho potuta vedere la Vita di Fulvia dal Noltenio premessa alla nuova edizione
che ci ha data degli Opuscoli e delle Lettere
di essa, a cui ha aggiunto ancora l’Elogio del
padre. Ma spero ciò non ostante di poterne altronde raccoglier in qualche modo le necessarie notizie [a). Un breve elogio ne fa il Giraldi
dicendo: Fuit et Peregrinas Moratiis Grammaticus Criticus Mcmtuanus, hic et Latinos et
vernáculos versus plurimos componere solitus
fuit j quorum pars edita, pars adhuc supprimitur. Ferrariac tamen hic diu est versatus, nohilium adolescentium magi.•iter, ubi et uxorem
duxit, ex qua liberos susccpit (dial, a de
PoeL suor, tempor., Op. t. 2, p. 5y5). Il qual
passo ci scuopre e la patria del Morato, cioè
Mantova, e il lungo soggiorno da lui fatto in
Ferrara, e l’impiego che vi ebbe di istruire
alcuni nobili giovani. Ed egli infatti era in quella
città, quando nel i5a8 pubblicò la prima volta
il Rimario di tutte le cadentie di Dante e Petrarca. Nel frontespizio ei si dice Pellegrino
Morcto Mantovano, e nella lettera dedicatoria
a Bernardino Mazzolino ferrarese, segnata da
(n) Il sig. abate Girolamo Baruffaldi vice bibliotecario della pubblica biblioteca di Ferrara ci ha data la
Vita di Pellegrino Morati, scritta con molta esattezza, ove anche delle Opere da lui scritte ci dà distinte
notizie (Racc. ferrar, d Opusc, t. 8, p. 127, ec.). Egli
crede che la partenza ch’ ei dovette far da Ferrara,
non nascesse già da ree o pericolose opinioni da lui
sostenute, ma da qualche privata contesa. E parmi che
le ragioni da lui addotte abbiamo molta forza a distruggere la mia congettura. TERZO 1747
Ferrara a’ i5 d'aprile del detto anno, ei dice
che il Mazzolino avea tenuti al sacro fonte i
suoi figliuoli. Fu questo il primo Rimario che
vedesse la luce, a cui poscia successe quello
di Giammaria Lanfranco parmigiano, stampato
in Brescia nel 1531, indi quello di Benedetto di
Falco napoletano, pubblicato in Napoli nel 1535,
quel di Onofrio Bononzio veronese in Cremona
nel.1556, e finalmente que'del Ruscelli e dello
Stigliani Il Morato, nella lettera stessa, promette un’ altra sua opera in dichiarazione de
passi più oscuri di Dante e del Petrarca; ma
questa non è mai uscita alla luce, e forse non
potè egli finirla per le vicende alle quali fu poscia soggetto. Se le Lettere di Celio Calcagnini
avesser tutte segnato il tempo in cui furono
scritte, o se fosser disposte con ordine cronologico, noi ne avremmo ivi chiaramente distinta
l’origine e le conseguenze. Ma la confusione che
in esse regna, fa che sappia.» solo le cose,
senza poterne accertare l’epoche e la successione. È certo che il Morato fu costretto a partir da Ferrara e non ce ne lascia dubitare una
lettera del Calcagnini a lui scritta (Op. p. 156),
in cui di ciò altamente si duole, ne rigetta la
colpa sulla malignità de’ nemici che avea il Morato in Ferrara, dice che gli scolari di lui ricusavano di udire altri maestri, non isperando
di ritrovare chi a lui somigliasse, e lo avvisa
che ha tenuto al sacro fonte una fanciulla che
di fresco gli era nata. Qual fosse il motivo di
tal partenza, il Calcagnini espressamente nol
dice. Ma in un’altra lettera allo stesso Morato ci
fa congetturare che un libro da esso composto, 1748 LIBRO
e che parve favorevole alle opinioni de’ novatori, fosse la cagione per cui egli venisse
costretto a partire. Gli scrive in essa il Calcagnini (ib. 195) di aver letto quel libro, contro cui erasi menato sì gran rumore, che nulla
vi avea trovato che non si potesse difendere
ma che in certe materie conveniva seri vere con
prudenza, e che anzi era meglio tacere; ed
entra ivi a parlare delle quistioni che allora
agitavansi intorno al libero arbitrio. Egli non
dice espressamente che quella fosse opera del
Morato, ma me ne fa sospettare il fin della
lettera, in cui così egli scrive: Haec vero quu ni
ad te scriberem, noli exi stima re, me ignorasse, quam plenum sit terne ri Li tis se prudenti orem adrnonere. Sed expressit hoc a me officium
mutuus amor et ingenua charitas, ec. 5 parole
che parrebbono inutili, se il Morato non fosse
stato fautor del libro. Io credo dunque che
qualche opera da lui pubblicata, della quale
però non abbiamo più distinta notizia, facesse
credere il Morato reo de’ nuovi errori, e che
perciò fosse costretto a partir da Ferrara. E
veramente ch ei si lasciasse da essi sedurre,
cel mostrano ancora alcune lettere da esso scritte, e una ancora di Olimpia, che, dopo il Noltenio, si citano dal Gerdesio (Specimen ital.
reform. p. 395). Convien dire però, che o non
ne fosser troppo chiare le pruove, o ch’egli
si purgasse felicemente di tal sospetto, poichè
veggiamo ch’ei non uscì dall'Italia,' come tanti
altri, e visse sempre sicuro in paesi cattolici.
In qual anno partisse da Ferrara il Morato,
non è ben certo. Egli ivi era nell* anno ìòab, TEIIZO *749
come ci mostra la poc' anzi citala dedicatoria
del suo Rimario. Ma penso che poco appresso
ciò accadesse; e certamente nel 1534 ei n era
già assente, come ci pruova un’ altra lettera del
Calcagnini (l. c p. 181). Anzi fin dal 1533,
perciocchè in quest’anno ei diè in luce in Venezia alcune Poesie latine con un Sonetto italiano in lode singolarmente di Catarina Piovena, che son quelle probabilmente molto lodate
dal Bembo in una sua lettera al Morato (Epist
famil. l. 6, ep. 49), opuscolo rarissimo, di cui
parla lo Schelhornio (Amoen. eccl. t. 2 p. 647),
il quale aggiugne che da esso raccogliesi che
il Morato era allora in Vicenza. Anche le Lettere del Calcagnini ci mostrano che nella detta
città fissò il Morato la sua dimora (l. c. p. 157,
173, 188, ec.). Prima però che in Vicenza,
par che il Morato fosse in Venezia; perciocchè veggiamo che il Calcagnini raccomandollo
a Battista Egnazio con sua lettera, in cui sommamente n esalta la’erudizione e lo studio (ib.
p. 189). E in Venezia appunto al suo nome
di Pellegrino aggiunse quello di Fulvio, sulla
qual cosa scherza con lui in altra sua lettera il
Calcagnini (ib. p. 188). Fu ancora per qualche
tempo, ma non sappiam quando, professore
in Cesena di belle lettere (ib. p. 104)• Finalmente adoperossi il Calcagnini con tanto im-*
pegno a favor del Morato, che questi potè tornare a Ferrara, ove pare ch’ei si restituisse
verso il marzo del 1539 (ib. p. 198). Il Gerdesio da una lettera di Olimpia raccoglie ch’ei
vivesse fino al 1548; e certo egli era già morto, quando il Giraldi in quell’ anno medesimo 1^50 LIBRO
scrivea il cibato suo secondo dialogo de’ Podi
del tempo suo, poiché in esso ci ne parla come
di persona già trapassata. Oltre le opere già
accennate, ne abbiamo un libro Del Significato
de' Colori e de' Mazzolli, stampato in Venezia nel 1535. Qualche lettera latina se ne ha
tra quelle di Olimpia. Un epigramma latino ne
riferisce il Borsetti (Hist Gymn. Ferr. t. 2,
p. 167)*, e in questa biblioteca Estense si hanno
manoscritti alcuni Comenti da esso scritti sul
libro iv dell Eneide di Virgilio, sulle Satire di
Orazio, sull*Oruzion per Archia e sulla seconda
Filippica di Cicerone, e sul primo e sul quarto
libro della Guerra Gallica di Giulio Cesare.
XXIV. Più ancor che l padre fu famosa la
figlia Olimpia, di cui prima del Noltenio ha
scritta la Vita il p. Niceron (Mém, des Homm.
ill. t. 15, p. 102, ec.). Ella nacque nel 1526,
come si raccoglie dall’ i seri zi OD sepolcrale, e in
età giovanile fu chiamata alla corte, ed ivi data
a compagna della principessa Anna d’Este,
che per voler della duchessa Renata sua madre coltivava con sì felice successo gli studi,
come a suo luogo si è detto. Due lettere in
quel tempo a lei scritte dal Calcagnini son piene
di elogi del raro ingegno e de’ maravigliosi
progressi di questa fanciulla, di cui egli loda
altamente una lettera che aveagli scritta, e una
Apologia di Cicerone da lei composta (l. c.
p. 205, 209). Gasparo Sardi a lei dedicò il
suo opuscolo De triplici Philosophia, e nella
dedica rammenta una lettera greca scrittagli da
Olimpia, e loda lo studio della filosofia a cui
erasi consecrata: Ex tua epistola Grucce mihì TERZO 17 5 l
inscripta intellexi, te philosophiae studiis omnibus, ut ajunt j eelw ac remis incubuisse, animumque a corporeis sensibus atque oblectamentis ea de causa sic avocasse, ut tibi uni vivere,
ccteris velati Jato fune tis, vide ri ve lis. Pare che
il Sardi alluda con queste parole al ritirarsi
che Olimpia fece dalla corte, sì perchè ella
volle assistere nell’ estrema malattia a suo padre, sì perchè per arte de’ suoi nimici ella
si vide divenuta sospetta e odiosa alla duchessa
che aveala finalmente amata e protetta. Ma frattanto il soggiorno in corte le era stato fatale j
perciocché avea apprese dalla duchessa medesima le opinioni dei’ novatori, e si era di esse
funestamente imbevuta. Quindi ella prese a suo
marito Andrea Gruntero giovane protestante,
che venuto a Ferrara per apprendervi la medicina, ne avea ivi ricevuta la laurea. Che questo matrimonio seguisse in Ferrara, e non in
Allemagna, come ha creduto il de Thou (Hist.
ad an. 1555), ne abbiamo una pruova incontrastabile presso il Giraldi, il quale, dopo aver
parlato di Pellegrino, ne accenna i figli, e di
Olimpia fa questo elogio: Quos interest Oljmpia Morata puella supra sexum ingeniosa; nam
non contenta vernaculo sermone Latinas et Graecas literas apprime erudita, miraculum fere omnibus, qui eam audiunt, esse videtur. Haec
his diebus nupsit Grunthero huic nostro, qui
et eam in Germaniam ad urbem patriam Herbipolim transferre meditatur'. Non si può dunque dir veramente che Olimpia insiem col marito fuggisse in Allemagna, poichè veggiamo
che quando il Giraldi scrivea, già era nota la 1753 LIBRO
intenzion del Gruntero di ricondurla seco alla
patria. E ciò avvenne nell*ai anno medesimo 1548,
in cui quel dialogo fu tenuto, come dalle lettere stesse pruova il P. Niceron. Insiem con essa
partì da Ferrara Emilio di lei fratello. Il Borsetti ha voluto correggere il de Thou e il Teissier, affermando (l. c. p. 168) che non il
fratello di Olimpia, ma Emilio Porto figliuol
di Francesco fu il compagno di essa in quel
viaggio. Ma l’iscrizion sepolcrale di Olimpia
parla chiaramente di Emilio di lei fratello. Appena fu ella giunta in Allemagna, che si vide
esposta alle più dolorose sventure. Costretta a
fuggir col marito da Schweinfurt invasa dalle
truppe nimiche, spogliata quasi del tutto, raminga ed errante nel tempo stesso ch’ era travagliata da una cocente febbre, si vide per
lungo tempo priva di ogni soccorso, ed esposta continuamente a pericolo della vita. Queste
sì dolorose vicende ne sconcertaron talmente
la sanità, che troppo tardi giunse il sollievo
che ad essa cercò di dare l Elettor Palatino.
Questi invitò il Gruntero insieme ed Olimpia
alla sua università di Heidelberga a tenervi
scuola il primo di medicina, la seconda di
lingua greca (V. 1Sci teli ioni. I. cit.). Ma Olimpia
l anno seguente, oppressa da sofferti disastri,
in età di soli ventinovi anni, a 26 di ottobre
finì di vivere, seguita non molto appresso dal
marito e dal fratello, che insiem con lei furono
onorevolmente sepolti nella chiesa di S^Pietro
della detta città coll’iscrizione riferita dal P. Niceron. Celio Secondo Curione, che avea avuta
gran parte nel sovvertirla, ne raccolse le Opere, TERZO 1753
e le pubblicò in Basilea nel 1558; ed esse,
dopo più altre edizioni, sono state di nuovo
date alla luce, come si è accennato, dal Noltenio. Sono esse Dialoghi, Lettere, brevi Orazioni latine e Poesie greche, nella qual lingua
avea Olimpia acquistata perizia, non ordinaria.
Donna veramente nata a onor del suo sesso e
di tutta l'Italia, se il seguir ch’ella fece gli
errori de’ Protestanti, oltre il macchiarne la
fama, non l’ avesse renduta infelice, e coll abbreviarle i giorni, non le avesse ancora vietato
il far que’ maggiori progressi che in altro tenor di vita avrebbe ella fatti.
- XXV. Da questi scrittori di lirica e di melica poesia ci convien ora passare a coloro che
in qualche particolar genere si esercitano, o dandone essi i primi l esempio, o seguendo quello che da altri già aveano ricevuto. Nel che fare io non mi arresterò già su qualunque diversa specie di poetici componimenti, nè molto meno mi farò ad annoverare distintamente gli scrittori di canzoni pindariche, anacreontiche, petrarchesche, di terze e di quarte rime, di sestine, di ottave, di madrigali e di altri somiglianti componimenti: ricerche troppo minute, che a questa Storia non si convengono, e per le quali può bastare l opera del Quadrio. Solo mi tratterrò su alcuni generi più conosciuti, e ne’ quali più segnalossi il valor de poeti. E per cominciar dalle satire, alle quali niuno avea per lungo tempo tentato di rivolgere le Muse italiane, abbiam veduto nel tomo precedente (t. 6, par. 3, p. 1293) che Antonio Vinciguerra fu il primo a darcene un saggio, il qual però, Tiraboschi, Voi. XII. " 38 1754 tlBRO come suole avvenire de’ primi sforzi, non fu molto felice. La gloria di aver fatta italiana la satira era riserbata al grande Ariosto. Di lui diremo più sotto, ove ragioneremo degli scrittori de poemi. Qui avvertirem solo che le Satire da lui scritte, e più volte stampate, per quella facilità ch è tutta propria di questo poeta, e per quel sale di cui sì bene sa condire la poesia, sono tra le migliori che abbiamo, e forse non ve n’ha altre che lor si possano preferire. Dietro all’Ariosto venne Ercole Bentivoglio, al cui valore nella volgar poesia aggiunse gran lustro la nobiltà della stirpe (a). Figlio di Annibale II Bentivoglio, e nato in Bologna nello stesso an 1506 in cui quella nobil famiglia ne perdette il dominio, fu tra le fasce trasportato a Milano, e indi in età di sette anni a Ferrara, ove ricevuto onorevolmente alla corte, come nipote del duca Alfonso I, vi ebbe quella educazione che a lui conveniva; e tra poco divenne oggetto di maraviglia a quanti il conoscevano pel suo talento nel coltivare la volgar poesia, e per la perizia singolar nella musica, e insiem per l’innocenza e l onestà de’ costumi. Magnifico è l’elogio che ne fa il Gira Idi, a lui dedicando il sesto e i due seguenti Dialoghi della Storia degli antichi Poeti, da lui destinati al conte. Guido Rangone zio materno di Ercole, e morto prima ch’ essi si pubblicassero. Io mi astengo dal riferirlo, perchè esso riportasi (a) Si può vedere il diligente articolo che intorno ad Ercole Bentivoglio ci lui dato il eli. sig. conte Ciò. Fantuzzi (Sciiti. bologn. t. 1, p. 79, ec.). TERZO 1755 dal conte Mazzucchelli che lia diligentemente raccolte le notizie di questo illustre scrittore (Scritt. ital. t. 2, par. 2, p. 872). Ei fu ascritto all’Accademia degli Elevati in Ferrara, e a quella de’ Pellegrini in Venezia, ov egli visse più anni in servigio de’ duchi di Ferrara,• e ove ancora finì di vivere a’ 6 di novembre del 1573. In ogni genere di poesia italiana ei fu molto felice, nè trascurò ancor la latina, come raccogliesi dal catalogo che delle opere di Ercole ci ha dato il mentovato scrittor, le quali tutte insieme furon di nuovo pubblicate in Parigi nel 1719. Sopra tutto però ne sono in molto pregio alcune commedie, delle quali diremo altrove, e le sei satire, le quali per comun consentimento dopo quelle dell'Ariosto son le migliori. Le une e le altre perciò furono insieme raccolte dal Sansovino, e pubblicate in Venezia nel 1563. Ad esse si aggiungon quelle di Luigi Alamanni, il quale però assai più che per esse ottenne gran nome per la sua Coltivazione, di cui più sotto ragioneremo, quelle di Pietro Nelli sanese, che aveale pubblicate dapprima sotto il nome di Andrea da Bergamo, intitolandole Satire alla Carlona, e che potrebbon esser proposte come un ottimo modello di stil satirico, se la troppa licenza e il poco rispetto alla Religione, con cui sono scritte, non le rendesse anzi degne di biasimo •, e quelle del Vinciguerra poc’anzi accennate. Ad esse volle il Sansovino unirne alcune altre sue, ed altre di Lodovico Dolce, di Girolamo de’ Domini, di Girolamo Fenaruolo, di Antonio Pace, di Giannandrea dell’Anguillara, la maggior parte però delle quali 1^56 LIBRO 11011 reggono al confronto di quelle de’ tre primi scrittori. Lo stesso dee dirsi delle Satire di Agostino Caccia da noi già mentovate poc’ anzi, alle quali manca quell eleganza di stile che a tai componimenti è sì necessaria; e di quelle di alcuni altri che si rammentan dal Quadrio, e i cui nomi non son per esse divenuti molto famosi. XXVI. Alla satirica poesia appartiene ancor la giocosa, perciocchè amendue prendono a deridere i vizii degli uomini; ma dove la prima il fa con uno stile alquanto aspro e pungente, la seconda non usa a tal fine che leggiadri e piacevoli scherzi. I Canti carnascialeschi, da noi già accennati altrove (t 6. par. 3. p. 771), sono di questo genere; e in essi ottennero fama Giambatisla dell*Ottonaio, Antonfrancesco Grazzini soprannominato il Lasca, autore di molte altre piacevoli poesie, e di altre opere, intorno alle quali e al loro autore si posson vedere le Notizie dell’Accademia fiorentina (p. 8, ec.); Lorenzo Strozzi, Jacopo Nardi, Francesco Fortini, Pierfrancesco Giambullari, Giambattista Gelli, Alessandro Malegonello, Antonio Alamanni (V. Quadrio t. 2, p. 555, ec.). Ma questo genere di poesia fu alla sua perfezione condotto dal Berni e dal Mauro, il primo de quali ebbe la sorte di dare alla medesima il nome, sicchè essa si dicesse poi volgarmente poesia bernesca. Di amendue questi poeti, de quali quanto eran celebri le poesie, tanto eran dapprima poco note le azioni, ha illustrata sì esattamente la memoria il soprallodato conte Mazzucchelli (Scritt. ital, t. 2, par. 2, p. 979, ec.; t. 1, par. 3, TERZO 1757 . _ / è p. 94.1, ec.), e del secondo ha scritto ancora con tal diligenza, e ancor più ampiamente, quasi al tempo medesimo il signor Giangiuseppe Liruti (Scritt. del Friuli, t. 2,p. 76, ec.), che non possiamo sperare di aggiugnere cosa alcuna alle loro ricerche, e perciò di ameni lue diremo assai brevemente. Francesco Berni da Bibbiena, ma nato in Campovecchio sulla fine del secolo xv, visse i primi diciannove anni in Firenze in assai povero stato, indi passò a Roma a’ servigi del Cardinal Bernardo da Bibbiena, e, morto esso, di Angiolo di lui nipote, amendue suoi parenti, e per ultimo del datario Giberti, presso cui visse sette anni. Il suo genio insofferente di ogni legame, l amor del piacere e la facilità a dir male d’ognuno, non gli permise di ritrar quel vantaggio da’ suoi servigi, che l indole de’ suoi padroni e il suo talento medesimo gli promettevano. In Roma però ei fu carissimo a tutti coloro a’ quali piacevan le belle arti e le lettere, e fu uno de’ più illustri accademici della celebre accademia de’ V ignaiuoli, ove colla vivacità e colla grazia del poetare ottenne plauso grandissimo. Annoiato per ultimo dalla corte, ritirossi a Firenze, ove tranquillamente si visse godendo di un canonicato in quella cattedrale già conferitogli, e della protezione del Cardinal Ippolito de Medici e del duca Alessandro. Questa però si vuole che gli riuscisse poscia fatale e che nata gelosia e discordia tra que’ due principi, il Berni richiesto da un di essi a cercar col veleno la morte dell altro, e ricusando egli di farsi autore di tal delitto, fosse ucciso egli 1^58 LIURO medesimo di veleno. Intorno a che, e all epoca della morte del Berni, che più probabilmente si fissa a’ 26 di luglio dell’anno i53(5, benché pure non lievi sieno le difficoltà in contrario, veggasi il soprallodato scrittore; il quale ancora distintamente ragiona del carattere e de costumi di questo capriccioso poeta, di cui in breve può dirsi che le sue Poesie stesse ci mostrano chi egli fosse. Queste per consenso dei’ migliori scrittori sono le più pregevoli che abbia in questo genere la volgar poesia; e le piacevoli fantasie, e la facile e naturale eleganza con cui sono scritte, hanno loro ottenuto il primato sulle altre tutte. Ed è degno di riflessione ciò che osserva il conte. Mazzucchelli, che benchè le Poesie burlesche del Berni sembrino scritte a penna corrente, e senza alcuna difficoltà, il loro original nondimeno pieno di cassature e di correzioni, ch era già presso il Magliabecchi, ci fa vedere quante volte correggesse egli il medesimo verso. Ma il pregio che loro viene dall eleganza, è oscurato non poco da’ troppo liberi equivoci e dalle oscene immagini di cui le ha imbrattate. Dell Orlando del conte Matteo Maria Boiardo da lui rifatto, si è detto altrove (t 6, par. 2). Di altre operette di picciola mole, altre stampate, altre inedite, e fra queste della Vita dell Aretino (*) mortai nimico (*) Benché il co. Mazxuechelli abbia creduta inedita la Vita dell’ Aretino scritta dal Berni, e finta perciò la data dell’impressione (che se ne legge nella copia ms. che avea Apostolo Zeno, ella però è veramente stampata colla data medesima, e ne ha copia in Venezia il N. U. sig. Tommaso Giuseppe Farsetti. TERZO I7ÌI9 ilei Berni, e che da questo si crede scritta, si vegga il suddetto scrittore. Ma non vuolsi passare sotto silenzio che il Berni fu ancora elegantissimo scrittore di poesie lutine j e le Elegie che se ne hanno alla stampa, son le prime, a mio credere, nelle quali si vegga con molta felicità imitato lo stil Catulliano, a cui niuno forse nel corso di questo secolo si accostò più di esso. Al medesimo tempo, in somiglianti impieghi, e di un tenor di vita uguale a un dipresso a quella del Berni, visse parimente in Roma il Mauro, cioè Giovanni Mauro della nobilissima famiglia de’ signori d’Arcano nel Friuli, nato circa il 1490 Dopo aver frequentata la scuola di un certo Bernardo da Bergamo nella terra di S. Daniello, partì dal Friuli, e giunto a Bologna, fu da Gasparo Fantuzzi condotto a Roma, e servì ivi per più anni al duca d’Amalfi, al Cardinal Domenico Grimani, al datario Giberti, al Cardinal Alessandro Cesarini il vecchio, e, secondo alcuni, anche al Cardinal Ippolito de’ Medici, il che però vien negato dal signor Liruti. Il genio di scherzar poetando, lo strinse in amicizia col Berni, e produsse in amendue i medesimi effetti, cioè incostanza nel servizio de’ lor padroni, e poco frutto de’ loro studi. L’unione col Berni il rendette nimico dell’Aretino, che da lui pure fu acerbamente punto colle satiriche sue poesie. Egli morì in Roma sul principio d’ agosto dell’ anno 153(5, cioè pochi giorni dopo il Berni; e le diverse relazioni che dal conte Mazzucchelli si accennano intorno a tal morte,. del Cardinal Bernardino Maffei e di Girolamo Rotario, si 1760 LIBRO conciliano felicemente tra loro dal sig. Liruti. Perciocchè il secondo racconta che il Mauro, inseguendo un cervo alla caccia, caduto in una fossa, e ammaccatasegli una gamba, dovette essere trasportato al palazzo del Cardinal Cesarini, cui allora serviva, e che poco dopo sorpreso da acuta febbre morì. Il Cardinal Maffei, lasciando in disparte l’ accidente della caccia, racconta solo ch’ egli era morto per continua molestissima febbre. Le Rime di esso vanno comunemente aggiunte a quelle del Berni, e son degne di andar loro se non del paro, almen molto d’appresso, sì per la lor leggiadria, che per la soverchia lor libertà. Ei sapea nondimeno usare ancora di uno stile nobile e sollevato, e in qualche suo componimento ce ne dà bellissimi esempii. Dell edizioni di tali Rime e di altre opere del Mauro io lascerò che ognun vegga le più minute notizie presso i due soprallodati scrittori. XXYIT. L'esempio del Berni e del Mauro, e il plauso con cui furono accolte le lor Poesie, eccitò molti altri a seguir le loro pedate, e a sperar di riportarne un somigliante onore. Ma la poesia bernesca è tale, che sembrando a prima vista tessuta con uno stil domestico e famigliare, qual si userebbe in un privato ragionamento, si crede da molti adattata alle lor forze e a’ loro talenti; ma da ciò appunto ella rendesi più delle altre difficile; perciocchè ella è cosa da pochi il saper sollevare le cose ancor più volgari, e il sollevarle in modo che l'eleganza dello stile non sia punto ricercata, e sembrino anzi i pensieri e l'espressioni TERZO I761 venire spontaneamente alla penna; nel che consiste quella facilità di cui non v’ha cosa più difficile in poesia. Quindi fra moltissimi scrittori di poesie bernesche pochi son gli eccellenti. Io nominerò dunque soltanto alcuni de più illustri. Francesco Maria Molza e monsignor Giovanni della Casa, da noi mentovati poc’anzi, in questo genere di poesia ancora si esercitarono felicemente, e le lor Rime burlesche soglion aggiugnersi a quelle del Berni e del Mauro. Ne abbiamo ancora alcune di Mattio Franzesi fiorentino, di cui fa un bell’elogio Annibal Caro in una sua lettera (t. 1, lett. 8); di Jacopo Sellaio bolognese, di Lodovico Martelli, di Lodovico Dolce, dell'Aretino, di Gianfrancesco Bini, intorno al quale abbiamo un assai diligente articolo nell’ opera del conte. Mazzucchelli (l. c t. 2, par. 2, p. iiZ'j)j di Benvenuto Cellini, di Angiolo Bronzino, di Francesco Ferrari modenese, e di più altri. Cesare Caporali perugino, che servì successivamente il cardinal Fulvio della Co r gii a, il cardinal Ottavio Acquaviva, e il marchese Ascanio della Corgna, e finì di vivere nel 1601 in età di settantun anni, fu un de’ più leggiadri poeti che in questo genere avesse l'Italia; e se egli non è uguale agli altri nell’eleganza dello stile, che non è sempre abbastanza colto, di molto li supera comunemente nella decenza e nell’ onestà delle immagini. Di lui si hanno più distinte notizie presso il Crescimbeni (Comment t. 2, par. 2, p. 264, ec.). Sia l’ultimo tra gli scrittori di piacevoli poesie Agnolo Firenzuola, di I762 LIBRO cui hanno scritta la \ ila il P. Niceron assai superficialmente (Mém. (des Homm. ill t. 33, p. 397), e assai più esattamente il signor Domenico Maria Manni (Veglie piacev, t 1, p. 57). Da Bastiano dei’ Giovannini da Firenzuola e da Lucrezia figlia di Alessandro Bracci nacque Agnolo in Firenze nel 1493 a 28 di settembre. Siena e Perugia furono le città nelle quali coltivò gli studi, in modo però, che forse più che agli studi attese ai piaceri; al che dovette non poco concorrere l amicizia che nella seconda città egli strinse con Pietro Aretino, con cui poi ancora trovossi a Roma; e amendue nelle vicendevoli loro Lettere si ricordano gli scherzi fra quali passavano il giorno (Aret. Lett. l. 2, p. 239,* Lettere all Aret. t. 2, p. 215). Tutti gli scrittori della Vita del Firenzuola affermano ch’ei vestì l'abito di monaco vallombrosano, e che in quell ordine ottenne ragguardevoli onori, cioè la badia di S. Maria di Spoleti, e quella di S. Salvador di Vaiano. Io non ardisco di oppormi alle loro testimonianze; ma confesso che me ne nasce non leggier dubbio. La vita del Firenzuola fu di un tenore troppo lontano da quello che a un monaco si conviene. Non si ha memoria alcuna del tempo in cui entrasse nell Ordine, e in cui vi facesse la professione. Non si trova ch ei mai soggiornasse in alcun monastero. Niuno, ch io sappia, degli scrittori di que tempi afferma tal cosa. Il solo argomento che si può recare a provarlo, si è l'aver egli possedute alcune badie di quell'Ordine. Ma non poteva egli goderle come amministratore, TERZO 1763 o commendatario (')? Certo, riguardo a quella di S. Salvador di Vaiano, in un monumento citato dal Manni, egli è detto usufructuarius et perpetuus administrator Abbatia S. Salvatoris de l'ajatio Ordinis Vallis Umbrosa. Io desidero che gli eruditi Fiorentini esaminino di nuovo un tal punto, e decidano la quistione. Nella sopraccennata lettera all Aretino, ch è scritta da Prato a" 5 di ottobre del 1541, ei duolsi di una lunga sua malattia di undici anni, che ivi lo avea rilegato, e da cui solamente allor cominciava a rimettersi. E forse fu questo il male a cui egli allude nel suo poco onesto capitolo del Legno santo. Se il Firenzuola ricuperò allora la sanità, ella non fu molto durevole; perciocchè, comunque non sappiasi precisamente il tempo in cui egli venne a morire, è certo però, che nell an 1548 già da (*> Ilo recate qui le ragioni per le quali ho dubitato che il Firenzuola non fosse abate regolare, ina solo commendatario. Confesso nondimeno che mi fa molta forza in contrario il decreto della elezione di esso fatta alla badia di Spoleti nel capitolo da que’ monaci tenuto nella badia di Passignano, che si accenna nella Vita del Firenzuola, premessa all’edizione dell’Opere del medesimo l'atta nel 1763 (p. 19), e il vederlo nominalo abate di Santa Prassede in Roma, che non fu mai badia data in commenda, nell’iscrizioni- da lui ivi posta ad Alessandro Bracci, e ivi pur riportata (n. 14). Ln più diligente esame ile" monumenti che a lui appartengono, potrà decidere la quistioue. Deesi avvertire che la prima edizione fu fatta nel 1723, e che fu ripetuta nel 1^63 in Venezia dal Coloinbani, colla data di Firenze, cui poscia nel 1766 si aggiunse un piccolo tomo iv di cose inedite. I yC 'f LIBRO alcuni anni egli era morto, come afferma Francesco Scala nelle prefazioni premesse a Discorsi degli Animali e alle Rime del Firenzuola. Tutte le Opere del Firenzuola sono state insieme raccolte e pubblicate in tre tomi in Firenze nell'an 1763. Esse son parte in prosa, cioè Novelle. Ragionamenti amorosi, un Opuscolo contro le Lettere dal Trissino introdotte nella lingua italiana, i Discorsi degli Animali, e qualche altro opuscolo, con due Commedie, e colla traduzione dell'Asino d’oro d’Apuleio, da lui adattato a se stesso e alle circostanze de’ tempi suoi, cambiando i nomi de' paesi e de personaggi; parte sono in versi, altri di essi burleschi e piacevoli, altri seriosi e gravi; e in tutti i generi egli è scrittor grazioso e leggiadro, ma talvolta libero più del dovere. Avea egli ancora intrapresa la versione della Poetica di Orazio; ma questa non ha mai veduta la luce. Delle opere del Firenzuola più distinto ragguaglio si potrà ritrovare nelle Notizie dell'Accademia fiorentina (p. 24). A questo genere di poesia possiamo aggiugnere quella che dicesi pedantesca, composta in lingua italiana, ma mista affettatamente di ridicoli latinismi. Il primo autore ne fu il conte. Cammillo Scrofa vicentino. che circa la metà del secolo xvi sotto il nome di Fidenzio Glottocrisio Ludimagistro pubblicò i suoi Cantici, e diede l’esempio di questo nuovo genere di poesia, di cui l’Italia avrebbe potuto senza suo danno rimaner priva. Di lui si posson vedere le più diffuse notizie che ne ha date il cavalier Michelangelo Zorzi TERZO 1765 (Supplem. al Giorn. de Letter. d Ital. t. 2, p 4^8) (a). XXV 111. La poesia pastorale che nel secolo precedente avea avuto cominci amento, al principio di questo ebbe un valoroso poeta, che assai presto condussela alla sua perfezione cioè Jacopo Sannazzaro. Oltre ciò che se ne legge nelle Biblioteche degli Scrittori napoletani, ne abbiamo la V’ita scritta fin da quel secolo da Giambattista Crispo da Gallipoli, stampata più volte, illustrata con note nell’edizione di Napoli del 1720, e con nuove annotazioni rischiarata da" celebri fratelli Volpi a Din di correggere il comento non men che il testo, e un’altra Vita scritta elegantemente in latino da un de’ detti fratelli, cioè dal signor Giannantonio Volpi. La famiglia di esso vuolsi che venisse anticamente di Spagna, che dalla terra di S. Nazzaro sul Pavese, ove venne a fissarsi, prendesse il cognome, e che verso la fine del secolo xiv passasse ad abitare nel regno di Napoli. Da Jacopo Niccolò e da Masella da S. Mango salernitana nacque il poeta Jacopo in Napoli a’ 28 di luglio del i458 (b). La scuola di Giuniauo (a) Si posson anche vedere le notizie elio dello Scrofa ci han date il sig. Paolo Tavola vicentino nella ristampa de’ Cantici di Fidenzio fatta in Vicenza nel 1733, e il P. Angiolgahriello da Santa Maria ne1 suoi Scrittori vicentini (l. 5, p. 5J, ec). (b) Ecco un altro saggio dell’esattezza di alcuni scrittori oltramontani nel ragionare delle cose italiane. Nella Raccolta de’ detti e delle osservazioni di M. Duchat, stampata nel 1744 col titolo di Duca liana, si legge, come veggo affermarsi nel Nuovo Pizi‘ nario storico stampato in Caen nel 1779 (t. 6, p. 229), thè il l'jGG LIBRO Maggio c l’accademia del Ponlano furono le sorgenti alle quali attinse il Sannazzaro la singolar cognizione ch’ebbe nella lingua greca e latina; e dall’esempio degli altri accademici fu indotto a cambiar il suo nome di Jacopo in quello d’Azzio Sincero. L’ amore di cui egli si accese per Carmosina Bonifacia, gliela fece trascegliere a soggetto delle sue rime, nelle quali presto ei superò di molto i rimatori della sua età. Ma le sue poesie facendo sempre più vivo il fuoco di cui ardeva, risolvette egli di abbandonare non sol Napoli, ma l’Italia, e andossene in Francia. Questa lontananza però e dalla patria e dall’ amato oggetto gli riusciva sì grave e penosa, che tra non molto fece ritorno alla patria, ove trovò morta in età ancor tenera la sua Carmosina. Frattanto il valore del Sannazzaro nella latina e nella volgar poesia l avean fatto conoscere al re Ferdinando I, e a’ principi di lui figliuoli Alfonso e Federigo, da’quali ammesso tra lor fa mi glia ri, seguilli ancora più volte nelle spedizioni di guerra. Nelle Sannazzaro era Etiope di nascita; die ancor giovane fu fatto schiavo; c venduto a un signore napoletano nominato Sannazzaro, il quale postolo in libertà, gli donò il suo cognome. IVè si creda che di questo si raro aneddoto non si rechi da M. Duehat mi’autorevole testimonianza. Ei nc cita in pruova uno scrittore contemporaneo e amico del Sannazzaro, cioè Alessandro di Messandro. Or clic narra questo scrittore? Chi sa di latino un pò* più di quello che saperne dovea M. Duehat, vedrà che egli (Geneal. Dier. I. 2, c. 1) non dice altro, se non clic il Sannazzaro j>o ta uvea uno schiavo a cui egli, rapito dall'indole c «lai talento che in lui scorse, diede colla libertà il suo cognome. TERZO »767 rivoluzioni alle quali sul fin del secolo fu soggetto quel regno, e nelle avverse vicende de principi aragonesi, ei si mantenne loro costantemente fedele; e benchè il detto principe Federigo, dopo la morte di Ferdinando II succedutogli nel trono, non si mostrasse sì liberale col Sannazzaro, come sembrava doversi sperare, e sol gli assegnasse un’annua pensione di 600 ducati col dono della villa di Mergoglino più amena che utile, egli nondimeno, quando quell'infelice sovrano, perduto il regno, fu costretto nel 1501 a ritirarsi in Francia, volle seguirlo, e star sempre con lui; finchè morto Federigo, ei fece ritorno a Napoli, ed ivi poscia continuò a vivere fino al 1530, in cui ivi morì, e non già in Roma, come affermasi dal Boccalini (cent. 1, ragg. 27) che il dice morto di rabbia e in estremo bisogno. Egli è vero però, che negli ultimi anni accadde al Sannazzaro cosa che il conturbò gravemente, cioè la distruzione della deliziosa sua villa di Mergoglino fatta dal principe d’Oranges generale dell'armata cesarea; di che egli tanto si corrucciò, che raccontasi che avendo egli udita, mentre era vicino a morte, la nuova che quel principe era stato ucciso in battaglia, se ne rallegrò più che non conveniva, e protestossi di morir volentieri, poichè l Oranges aveva portata la pena de' suoi delitti. Di più altre circostanze della vita del Sannazzaro, dell’impegno ch’egli ebbe nel promuovere i buoni studi, dell amicizia di cui l’ onorarono i dotti uomini di quel secolo, delle pruove ch’ ei diede della sincera sua religione nell' innalzare chiese 1768 libro e monasteri ad accrescimento del divin culto, degli onesti costumi che lo renderono vieppiù degno della stima e dell amore comune, potrà veder, chi le brami, le più distinte notizie nelle Vite sopraccennate, poichè io amo di esser breve, ove non ho che aggiugnere alle altrui esatte ricerche. Innanzi alla bella edizione Cominiana delle Poesie italiane del Sannazzaro si veggono ancora gli elogi con cui molti scrittori di esso han ragionato. Nè si può certamente contrastargli la lode ch’ ei sia uno de’ più colti scrittori di poesie toscane, lode tanto più ancora pregevole, quanto più rara era a que’ tempi tale eleganza. Anzi, come il Sannazzaro nacque più anni prima del Bembo, così pare ch’ei possa contrastargli in ciò quel primato di tempo che alcuni gli accordano. Sopra tutto però gli ottenne gran nome l’Arcadia, che dopo il corso di omai tre secoli è ancor rimirata a ragione come una delle opere più leggiadre di cui la nostra lingua si vanti. Ei non fu veramente nè il primo a usare i versi sdruccioli { V. Zeno, Note al Fontan. t. 1, p. 429 nè l'inventore di questo genere di componimenti misti di verso e di prosa, di cui abbiamo già additati più altri esempii. Ma fu il primo che nell’una e nell’altra cosa scrivesse in modo che pochi potessero lusingarsi di andargli del paro. L’eleganza dello stile, la proprietà e la sceltezza dell’espressioni, le descrizioni, le immagini, gli affetti, tutto è, si può dire, nuovo e original nell’ Arcadia, la quale perciò non è maraviglia che avesse in quel secolo circa sessanta edizioni. Delle Poesie latine del Sannazzaro direm nel capo seguente. TERZO 17G9 XXIX. Girolamo Muzio, Giovanni Fratta, d). Silvano Razzi monaco camaldolese, Antonio 1 >ionisi veronese. Remigio fiorentino, Andrea Lori e più altri scrissero essi pure egloghe, e si sforzarono di seguir gli esempii del Sannazzaro. Ma i loro sforzi per lo più non furon molto felici. Fra tutti però non deesi rammentare senza particolar distinzione Bernardino Baldi, uomo già da noi nominato più volte, e che in quasi tutti i capi di questa Storia sarebbe degno d’elogio, perchè appena v’ebbe sorta alcuna di scienze e di lettere a cui egli non si volgesse, e in cui non divenisse eccellente. La poesia italiana gli servì di sollievo tra’ più difficili studi, e fra i molti generi di essa coltivò ancora la pastorale. E io penso che poche cose abbia la volgar poesia che possano stare al confronto del Celeo, ossia dell’Orto del Baldi. Dopo più altri che ne hanno scritta la Vita, il conte. Mazzucchelli con diligenza ancor maggiore ne ha ragionato (Scritt. ital. t. 2, par. 1, p. 116), e nondimeno speriamo di poterne dare qualche altra notizia finora non osservata, valendoci delle lettere da lui scritte a d. Ferrante II Gonzaga duca di Guastalla, e da D. Ferrante a lui, che si conservano nell’archivio di Guastalla, e delle quali ho avuto copia dal più volte lodato ch. padre Affò (o). Ebbe Urbino a sua patria, e Francesco Baldi e Virginia Montanari a suoi genitori, da’ quali nacque (a) Assai più esalta è la Vita che elei Baldi ci ha noi data I1 eruditissimo P. Ireneo Atlo dalle stampe di Parma nel 17H3, in cui ogni cosa vedesi aUcniamcnte esaminata, c con autorevoli documenti provala. TlRABOSCHl, Col. XII. 177° libro a’ 6 di giugno del i553. Un vivo e penetrante ingegno, un’insaziabile avidità di studiare, per cui frammetteva al cibo stesso lo studio, e per ripigliarlo interrompeva alla metà della notte il sonno, e la scorta per ultimo di valorosi maestri ch’egli ebbe prima in patria, poscia nell’università di Padova, a cui fu inviato nel 15,j3> lo condussero a fare in ogni genere di letteratura rapidi e maravigliosi progressi. Nelle matematiche ebbe a suo maestro il celebre Commandino, nella lingua greca Manuello Margunio, da cui fu sì bene istruito, che in età giovanile potè tradurre in versi italiani i Fenomeni d’Arato, e in lingua latina più altri scrittori greci. A questa lingua ei ne accoppiò molte altre, perciocchè oltre la francese e la tedesca, egli studiò poscia ancora l’ebraica, la caldaica, l’arabica, la persiana, l’etrusca, l’antica provenzale, e più altre 3 laiche nell’ iscrizion sepolcrale si afferma che dodici furon le lingue da lui possedute. Il cafcAlazzucclielli crede che sedici e non dodici solamente esse fossero 3 ma come altra autorità non ne reca che quella del Crescimbeni, non parmi che questa basti per tacciar di errore la mentovata iscrizione. La peste che nel i5"5 afflisse Padova, costrinse il Baldi a tornare ad Urbino, ove per altri tre anni continuò ad avanzarsi felicemente negl intrapresi suoi studi. Il suddetto D. Ferrante, a cui pochi principi ebbe quel secolo uguali nella protezione de’ dotti, poichè ebbe notizia del Baldi, il volle al suo servigio; e due lettere da Bernardino Marliani a lui scritte in nome di D. Ferrante Marliani, Lett. p. 214) TERZO I77I a’ 26 di dicembre del e a’ g di febbraio del i58o, ci scuoprono quanto fosse premuroso quel principe di averlo alla sua corte, e qual piacere provasse quando fu certo ch’ ei vi sarebbe venuto. Alcuni, seguiti anche dal conte Mazzucchelli, affermano che D. Ferrante dovette allor cederlo a Vespasiano Gonzaga duca di Sabbioneta, e che il Baldi a questo principe, coltivatore esso ancora e protettore splendidissimo de’ buoni studi, spiegò Vitruvio. Ma il soprallodato P. Affò, nella Vita non ancor pubblicata del Marliani, con buoni argomenti dimostra l’insussistenza di questo fatto, di cui crede che altro fondamento non v’abbia, che un sonetto del Baldi diretto al Sig. Duca di Sabbioneta, che studiava Vitruvio (Versi e Prose. p. 339). Ed è certo che nel Libro de’ Salariati, che conservasi nel detto archivio, il Baldi vi è segnato come matematico a’ 22 di novembre del 1580, sotto il quale giorno si ordina di pagargli ogni mese, cominciando dal giugno del detto anno, dieci scudi da lire cinque e otto soldi. L’anno seguente, se crediamo allo Scarloncini, uno degli autori della Vita del Baldi, volle il duca condurlo seco in (Ispagna; ma al principio del viaggio caduto infermo, dovette arrestarsi in Milano, ove dal santo Cardinal Borromeo fu amorevolmente assistito; e fece poi ritorno a Guastalla. Ma io temo ch’egli abbia confuso il nostro Baldi con Bernardino Baldini milanese, matematico esso ancora, filosofo e poeta (a)) perciocché tra le lettere inedite di (<i) Del Baldini oltre le notizie che ne abbiamo presso I773 libro 1). Ferrante, una ne ha da lui scritta da Genova a 20 di ottobre del 1581, in cui ordina a Giulio Ali prandi, che dovendo egli rimandare da Genova in Lombardia M. bernardino Baldino caduto infermo, gli faccia contare, oltre la solita pensione di dieci scudi al mese, altri cinque scudi ogni mese (a). L’anno 1586 il Baldi fu nominato primo abate ordinario di Guastalla, e a’ 5 di aprile prese il possesso di quella chiesa (Affò, Antich. della Chiesa guastall, c. 21, 22), ch egli poi resse più anni con molto zelo e con molto vantaggio di essa. Sulla fine dell’ anno stesso recossi a Roma (Mar lumi, Leti. p. ed ebbe allora il titolo di protonotario apostolico. Tornato poi alla sua chiesa, fra gli altri suoi studi, appigliossi a scriver la Storia di Guastalla; ed essa era già quasi composta nel 1590. Perciocchè in una lettera che d). Ferrante gli scrive da Genova a’ 6 di ottobre del detto anno, Poichè, gli dice, a primavera piacendo a Dio io dovrò esser costì, crederò di essere a tempo di fare a V. S. le scritture, che ci saranno, et che il co. Maz7uccl»clli e gli altri autori ila Ini citati, alcune altre notizie ci Ita «late il I*. abate Casali nelle Note alle Lettere del Ciceri, ove fra le altre cose ha mostrato circi fu veramente natio d* Intra nel Lago Maggiore (L 2,p 181, 18!?). (a) lo debbo qui cambiar opinione sull* autorità del poc’anzi lodalo P. A fi ò (/ ita del Baldi, p. 77). Fu veramente il Baldi che aven intrapreso d viaggio cou Vespasiano, v che dovette interromperlo per malattia; e di lui, non del Baldini, parla la lettera da ine accennata «li quel principe. Dei Baldini non si sa che fosse mai al servigio di D. Ferrante, TERZO 1773 faranno a proposito per l Istoria di Guastalla, che mi piace si accosti al fine. Ma essa o non venne mai veramente al suo termine, o si è smarrita (a). Nell’aprile dell’an 1592 ei chiese ed ottenne da D. Ferrante di rinunciar quella chiesa, e propose per suo successore Annibal Ghiselli, e la cosa pareva allora conchiusa. Ma convien dire che poscia tornasse in nulla; perciocchè veggiamo bensì ch’ei fu per qualche tempo in Urbino, ma che nel 1593 era tornato alla sua chiesa. Verso la line del ei fece un altro viaggio ad Urbino con intenzione d'innoltrarsi fino a Roma al principio dell’ anno seguente; ma qualche lite domestica lo costrinse a trattenersi ivi più lungo tempo, come ci mostra una lettera da lui scritta a D. Ferrante da Urbino a’ 34 • ili gennaio del i5t)5. Pare che allora facesse ritorno a Guastalla, poichè da altre lettere da lui scritte al duca e alla duchessa raccogliesi che nell’agosto del 1596 era da Guastalla tornato ad Urbino, e che nel novembre dell’ anno stesso ei giunse a Roma. Il Cardinal di S. Giorgio Cinzio Aldobrandini cercò di allettare al suo servigio il Baldi, e questi ne accettò gl’inviti, (a) La Storia di Guastalla non si è smanila, ma conservasi ins., come altrove si c dello. Alcune altre cose debbonsi qui correggere sulla scorta de’ monumenti intorno ai Baldi veduti e pubblicati dal I*. A ilo. La rinuncia della sua chiesa, da lui progettala nel i5<)a, nou ebbe effetto, perchè 1). Ferrante non volle concedergli che sulla badia si riservasse uu’ annua pensione. Nel 159*) tornò veramente a Guastalla, e ue partì nuovamente uel i:>qG, come si è detto. «774 LIBRO senza però sottrarsi a quello di D. Ferrante e della sua chiesa: Ha piacciuto, scrive egli da Roma a’ 28 di dicembre del i5t)B, al Cardinale di S. Giorgio di chiamarmi a' suoi servigi. Però non ho potuto ricusare il favore, che s è degnato di farmi. Procurerò), che la Chiesa di Guastalla non patisca; e se bisognerà y che la lasci, procurerò, che ciò segua con tutta la soddisfazione dell' E. V., come già in altra occasione le accennai; perchè essendole io obbligatissimo, non devo procurare se non che ciò succeda con buona grazia sua. Bisogna, ch io maturi molte mie fatiche, le quali non m era concesso di tirar a perfettione stando lontano da Roma, ec. Pare che d). Ferrante si offendesse alquanto di questa risoluzione del Baldi, perciocchè scrivendogli da Guastalla a’ 20 di febbraio deiranno seguente, Poichè, gli dice, V. S. con la lettera sua de' 18 del passato mostra non aver forse ben inteso il senso della mia precedente, a lei con questa mi è parso dichiararmi meglio col dire, che se ella pensa di ritornare a goder la dignità, che ella ha qui, così mi sarà caro questo, come mi fu caro da principio far opera, che fosse collocata nella persona sua. Ma se V. S.y come mi avvertì con l altra sua, et mi conferma con questa, disegna fermarsi in Roma per lungo tempo, sappia, ch io per servizio di Dio et di questa Chiesa, et per quello ch io devo alla propria coscienza, non potrò mancar a procurare, che la Chiesa non stia senza il suo Capo, dal che possono seguire molti inconvenienti et molti disordini, che mi dovranno iscusare con Lei di questa TERZO 1775 mia risoluzione j ec. Il Baldi si determinò saggiamente a non abbandonar la sua chiesa, e benchè si trattenesse ancora per più di un anno col Cardinal di S. Giorgio, scrisse nondimeno a D. Ferrante, a’ 5 di aprile del ibi)8, che coll’ occasione della gita del papa a Ferrara, sperava di far ritorno a Guastalla. E certo egli era in Guastalla nel i5i)9 (a) e nel i(5oa, come ci mostrano alcune lettere da lui scritte a d Ferrante allora assente, nelle quali il ragguaglia di alcune fabbriche che per ordin di esso si andavano innalzando, e altre di D. Ferrante a lui sullo stesso argomento. Nel 1603 passò a Venezia per dare alla luce alcune sue opere; e di là scrivendo a D. Ferrante a 25 di maggio: Il Ciotti, dice, stampatore in questa Città molto famoso, stamperà senza mio stipendio il Quinto Calabro, e la Deifobe: la Corona dell'Anno, e la Scala celeste non ha tempo di stampare, e. non si risolve volentieri, per esser, come egli dice, cose spirituali, e perciò pericolose: l opere maggiori Latine, come sono le parafrasi sopra Giobbe, et alcuni altri opuscoli non mi fido che si stampino bene in absenza mia. E la Deifobe uscì da que torchi l anno seguente. La Corona dell’Anno era già (a) Il Baldi partì da Roma nel 1598, accompagnando Clemente Vili, quando andò a prender possesso di Ferrara; e di là poscia nel giugno dell’anno stesso tornò a Guastalla. Solo nel 1609 egli ottenne di rinunciare alla sua badia, riserbandosi la pensione di 204 scudi romani; e convien perciò emendare ciò che poco'appresso ho scritto, cioè che nel i6i4 trattava» «ancora r altare della rinuncia. 17 7^ libro stampata in Vicenza nell'anno i58t); nè veggo che se ne citi ultra edizione. La Scala celeste, i Paralipomeni di Quinto Calabro e la Parafrasi sopra Giobbe non vennero mai in lucc i anzi della prima non trovo farsi menzione tra le opere inedite o perdute del Baldi. Passò indi ad Urbino, donde scrisse a D. Ferrante a 18 di luglio j ed è probabile che poco appresso tornasse a Guastalla. Quanta sollecitudine avesse quell’ ottimo principe, perchè le opere del Baldi venissero finalmente pubblicate dal Ciotti, cel mostra una lettera di lui perciò scritta a Venezia ad Ercole Udine a’ 25 di marzo del 1604 e la risposta che gli fa l'Udine a 3 di aprile dell’ anno stesso. Il Baldi desideroso di passare in un tranquillo riposo i suoi ultimi giorni, chiese alcuni anni appresso congedo al duca, e tornò ad Urbino, donde nel 1612 fu inviato ambasciadore a Venezia a complimentare il nuovo doge Antonio Mommo j e 1). Ferrante, in una lettera scrittagli a’ 6 di novembre del detto anno, si rallegra con lui del donativo della Collana, e parla insieme della rinunzia della chiesa, che allor si trattava, che si sperava di veder presto conchiusa. E benchè un’ altra lettera di D. Ferrante al Baldi, de’ 10 di marzo del 1614 ci mostri che vi era ancor quistione su questo articolo, è certo nondimeno che allora erasi già il Baldi dimesso di (quella carica. Poco tempo però potè il Baldi godere del bramato riposo, poichè venne a morte in Urbino a’ 12 di ottobre del 1617. Delle opere di questo dotto ed elegante scrittore io darò solo un’idea generale, rimettendo chi brami TERZO 1777 averne un distinto catalogo, all'opera del conte Mazzucchelli. Nella poesia italiana egli è uno de’ primi, e ne’ versi sciolti principalmente pochi l uguagliano. In essa ancora ei volle essere ri trovatore di nuovi metri, e nel suo Lauro, scherzo giovanile, ci diè il saggio di versi di 14 e di 18 sillabe, e in questi secondi egli scrisse il poema del Diluvio universale. Ma l'esempio del Baldi non fu seguito, ed ebbe la sorte medesima che han sempre avuto, e che probabilmente avran sempre, le nuove fogge de versi. Vuolsi qui avvertire che l’edizione del Lauro, fatta in Pavia nel 1600, non è già, come ha creduto il conte. Mazzucchelli, una ristampa, ma la prima edizione j il ebe chiaramente raccogliesi dalla dedica segnata da Guastalla al primo di giugno del detto anno, e ch'ella è appunto quel volume di Rime scritte ad imitazione degli antichi poeti toscani, di cui alcuni ragionano come di opera del Lauro distinta. La poesia però non fu il principale studio del Baldi, il quale coltivò ancora con grande impegno le matematiche. La traduzione italiana delle Macchine semoventi di Erone Alessandrino, e la latina della Belopoeca di Erone Ctesibio, il trattato latino sugli Scamilli di Vitruvio, e il Lessico Vitruviano colla Vita di questo famoso architetto, e le Esercitazioni sulla Meccanica di Aristotele, son pruova del! molto progresso che in tali studi avea egli fatto; e un altra pruova ancora ne diede nella Cronica de Mattematici, che fu stampata in Urbino nel 1707, la qual però non è che il compendio di un’ altra assai più vasta opera 1778 libro in due tomi ili foglio, che è rimasta inedita, e che contiene le Vite di 200 e più matematici antichi e moderni. Solo ne è stata pubblicata la Vita del Commandino suo maestro, da noi mentovato a suo luogo. Diè pruova innoltre del suo amore così per la patria, scrivendone l elogio e la descrizione del palazzo d’Urbino. come per Guastalla, di cui avea intrapresa la Storia, come poc’ anzi si è detto. L’ antichità non fu da lui trascurata, e due dissertazioni, una su una antica tavola di bronzo di Gubbio, l’ altra sull Asse etrusco, benchè ci sembrino ora di poco pregio, dopo la luce che su quell argomento si è sparsa, ci mostrano però lo studio che il Baldi ne avea fatto. Aggiungansi a queste, alcune altre opere che sono in luce, ma che per amore di brevità da noi si passano sotto silenzio, e molte altre poetiche, storiche, matematiche, filologiche che o son perite, o giacciono ancora inedite, e che fanno conoscere chiaramente che il Baldi ha diritto ad essere annoverato tra’ più chiari lumi dell’italiana letteratura. XXX. Tra PEgloghe del Baldi, alcune appartengono pel loro argomento alla poesia che dicesi pescatoria, di cui il primo, secondo il Quadrio (t. 2, p. 616), a dare qualche esempio fu Bernardo Tasso. Ma più in questo genere esercitossi Matteo conte di S. Martino e di Vische in Piemonte, la cui Pescatoria ed Egloghe vennero a luce circa il 1540, opera mista di prose e di versi a somiglianza dell’Arcadia di Sannazzaro. L’autore era nato nel 1495 (Zeno, Note al Fontan. t. 1, p. 24); TERZO *779 e oltre gli studi poetici, coltivò ancora quello della lingua italiana, e ne pubblicò nel 1555 le Osservazioni gramaticali e poetiche, nelle quali accenna di avere alcuni anni prima intrapreso a scrivere in terza rima gli amori e le guerre di Cesare (p. 132), la qual opera non fu forse da lui finita. Nelle medesime Osservazioni due lettere ha egli inserite contro i nuovi versi dal Tolommei introdotti nella Volgar Poesia (p. 238, ec.). Nello stesso genere esercitossi Andrea Calmo veneziano, morto in Venezia a’ 22 di febbraio del 1571 (Zeno, l. c. p. 383), le cui Egloghe pescatorie furon pubblicate in Venezia nel 1553. Ei fu autore innoltre di alcune commedie in prosa e di alcune lettere; e in tutti questi libri usò egli con molta grazia sì in verso che in prosa del natio suo dialetto. Anche Giulio Cesare Capaccio napoletano ci diede nel 15<)S alcune Egloghe pescatorie. Sopra tutti però ottenne in questo genere di poesia molto nome Berardino o Bernardino Rota napoletano, cavaliere dell’Ordine di S. Jacopo, e segretario della città di Napoli. Egli è da alcuni creduto inventore delle poesie pescatorie; ma il Zeno ha fatta palese la.falsità di questa opinione (ivi, p. 449» PC-)j e *1 Tafuri, che aveala prima seguita, modestamente l’ha ritrattata (Scritt. napol. t. 3, par. 2, p. 423, ec.). Ei fu felice e colto scrittore di poesie non solo italiane, ma anche latine; e come nelle prime meritossi gli elogi del Caro (Lettere, t. 2 lett. 43, 13(»), così per le seconde ebbe a suoi lodatori Paolo Manuzio (l. 8, ep. 11) e Pier Vetrori (Epist. l. 5). Ebbe a sua moglie Porzia 1780 LIBRO Capecc, la qual gli inori nel 1509. come ci mostrano e l'iscrizione sepolcrale citata dal Zeno (l. c. t. 2, p. 60), e le lettere in tal occasione a lui scritte dal Caro (t. 2, lett 136) e dal Seripando (Lettere, volg. di diversi, Ven. 1564, l 3, p. 63). È falso dunque che il Rota poco sopravvivesse alla diletta sua moglie, poichè ei non finì di vivere che nell an 1575, a 26 di dicembre, in €'là di scssantusei anni (Zeno, l. c.). Le Poesie del Rota, dopo altre edizioni, sono state di nuovo pubblicate in Napoli nell anno 1726; E una medaglia in onor di esso coniata si ha nel Museo Mazzucchelli ano (t. 1, p. 361). Somigliante.alla poesia pescatoria è la marinaresca, di cui pur qualche saggio prima di ogni altro diede Bernardo Tasso. Ma ella fu posta principalmente in uso dall accademia degli Argonauti, di cui a suo luogo abbiam fatta menzione, e Niccolò Franco tra essi fu uno de' più studiosi nel coltivarla. Le Rime marittime del Franco e degli Accademici furono stampate in Mantova nel 1547XXXI. Ma da questi piccoli componimenti tempo è omai che passiamo a maggiori che si dicon poemi; e che de’ diversi lor generi e degli scrittori di essi ragioniamo c.011 quella brevità che l’idea di quest’opera ci prescrive. Nel che fare io seguirò l ordin del Quadrio, accennando in breve le cose che solo di un breve cenno son degne, e stendendomi più lungamente su quelle la cui memoria è più gloriosa all’Italia. E cominciando, com’egli dice, da poemi che si appellano didascalici, perchè sono direttamente rivolti ad istruir l’uomo o nelle TERZO I781 lettere o nelle scienze, e lasciando in disparte la Battaglia gramaticale tradotta in ottava rima dal latino di Andrea Guarna salernitano, e l’Origine de' volgari proverbi di Luigi Cinzio de Fabbrizi, opere di niun pregio, due Poetiche in versi italiani ebbe questo secolo; la prima, di cui non si vide che il primo libro stampato in Piacenza nel 1549, e che credesi opera del conte Costanzo Landi, come abbiamo osservato di lui trattando tra gli scrittori di storia; l’altra di Girolamo Muzio in versi sciolti, che venne a luce in Venezia nell anno 1551, insieme coll’altre Rime di esso. E questa, oltre l’essere scritta non senza eleganza, pe’ saggi precetti che in sè racchiude, fu allora accolta con molto plauso, e anche al presente si può legger con frutto. La fisica, l’astronomia, la storia naturale, ch ebbero alcuni egregi scrittori di poesia latina, come vedremo nel capo seguente, pochi e di non molto valore ne ebbero nell’italiana; e ciò avvenne probabilmente, perchè essendo costume de’ professori di trattar tali scienze in latino, credettesi che la lingua italiana non fosse ad esse opportuna. Furon nondimeno colti ed eleganti poeti Giuseppe Cantelmi napoletano duca di Popoli, e F. Paolo del Rosso fiorentino cavaliere gerosolimitano. Del primo, oltre altre Poesie che si hanno alle stampe, rammenta il Quadrio (t.6,p. 29) un’opera manoscritta in versi sciolti, intitolata Della Meteora tratta da Aristotele. Del secondo si ha alle stampe la Fisica, da me non veduta; e un codice ms. di Rime inedite se ne conserva nella libreria Nani in Venezia (Codici mss. della 17S2 LIBRO Libr. Nani, p. i3y). Abbiamo la Scaccheide in ottava rima di Gregorio Ducei» bresciano, stampata in Vicenza nel i586, clic non è una semplice traduzione del Vida, ma è cosa svolta e trattata assai più lungamente. Più felice sorte ebbe l'agricoltura, che in Luigi Alamanni trovò un poeta il quale imitando felicemente Esiodo e Virgilio, rendette quell'arte sì cara alle Muse italiane, quanto il fu già alle greche e alle latine. L'articolo che intorno ad esso ci ha dato il conte Mazzucchelli (Scritt, it. t. 1, par 1, p. a44)» |)llù far le veci di qualunque più esatta V ita, e io godo di poter profittare delle ricerche da esso fatte per non allungarmi tropp’ oltre in que' punti della storia civil di Firenze che hanno relazion colla Vita dell’Alamanni. Da Piero di Francesco Alamanni e da Ginevra Paganelli nacque Luigi in Firenze a’ 28 di ottobre del i4<)5. Le istruzioni di Francesco Cattani da Diacceto, ch’ egli ebbe a maestro, e l’amicizia da lui presto contratta co’ dotti che formavan la celebre Accademia platonica, la quale allora si raccoglieva negli orti di Bernardo Rucellai, il fecero avanzare sì felicemente nello studio della letteratura, che divenne tra poco l’oggetto della comun maraviglia. Nella lingua greca è probabile che avesse a maestro Eufrosino Bonino fiorentino, che a lui, giovane allora di ventunanni, dedicò la sua Gramatica greca, stampata in Firenze nel 1516, e intitolata Enchiridion Gramatices, opera accennata dal conte Mazzucchelli nel parlare dell’Alamanni, ma dimenticata nell’articolo del Bonino. Una congiura ila lui c da più altri ordita contro il TERZO 1783 cardinal Giulio de’ Medici nel i533, il pose a gran pericolo della vita, ed ei dovette salvarsi fuggendo prima in Urbino, poi in Venezia. L’elezione di quel cardinale in pontefice col nome di Clemente VII gli fece credere non ben sicuro il suo asilo; e mentre fugge di nuovo, fermato in Brescia e incarcerato, a grande stento colla mediazione del senator Carlo Cappello ottenne di essere trafugato. Andò dunque errando per alcuni anni, e visse or in Francia, or in Genova fino al 1527, quando abbattuto in Firenze il partito de’ Medici, ei fu colà richiamato. Io non seguirò l Alamanni nel maneggio de’ gravi affari che per la libertà della patria sostenne, nelle ambasciate che gli furono affidate, ne' viaggi che perciò intraprese fino al 1530, nel qual anno caduta finalmente Firenze in mano de’ Medici, l’Alamanni fu per tre anni confinato in Provenza, e poscia ancora dichiarato ribelle. Ritirossi allora in Francia, ove dal re Francesco I fu con diversi impieghi e col collare dell Ordine di S. Michele onorato, e dalla reina Caterina de’ Medici nel 1533 nominato suo maestro di casa. Tra’l 1537 e’l 1540 fu in Italia or in Roma, ora in Napoli, ora in altre città, e stette per qualche tempo al servigio del cardinal Ippolito di Este il giovine, senza però lasciare quello del re Francesco, con cui era unitissimo quel cardinale. Tornato in Francia nel 1540, fu quattro anni appresso inviato dal re suo ambasciadore all’imperador Carlo V; e celebre è il fatto che allor gli avvenne, quando l Alamanni in una pubblica udienza, facendo grandi elogi di Carlo, e 17^4 LIBRO ripetendo spesso la parola donila y l1 ìmperfldore sorridendo soggiunse: l aquila grifagna. che per più divorar due becchi porta, accennando alcuni versi dell" Alamanni in lode del re Francesco. Al che egli, nulla smarrito, seppe sì prontamente e ingegnosamente scusare tale contrarietà de’suoi sentimenti, che Carlo V lo ricolmò di distinzioni e di onori. Dal re Francesco ebbe nel 1545 la badia di Bella Villa coll annua rendita di mille scudi per Battista suo figliuolo, che fu anche vescovo di Bazas e poi di Macon. Nè men caro egli fu al re Arrigo II, succeduto al re Francesco nel 15^7 r c da lui ebbe in dono un gran giglio d'oro, e fu inviato a Genovesi nel 1551. Finalmente a 18 d'aprile del 1556 chiuse i suoi giorni in Amboise, ove allora era la corte. Le Opere dell’Alamanni, che tutte sono in versi toscani, furono pubblicate la prima volta in Lione in due tomi nel 1532 e nel 1533 e in esse contengonsi elegie, delle quali fu egli un de’ primi ad usare in verso italiano, egloghe, satire, sonetti, inni, del qual genere di componimenti egli prima di ogni altro arricchì la nostra lingua, Salmi penitenziali, stanze, poemetti, selve, e la traduzione dell Antigone di Sofocle {a). Di (</) Non fu 1‘Alamanni il solo a far conoscere in Francia la poesia italiana. Jacopo Corbinelli gentiluom fiorentino recatosi a Parigi, ove visse più anni a tempi di Caterina (de’ Medici, di cui era parente, e che il pose presso il duca d’Angiò col carattere di erudito, pubblicò in Parigi fanno 1^78 la Finca di F. Paolo del Rosso cavalier gerosolimitano, nel 1577 il libro di .Dante De vulgariEloqurnlia, c nel i5g5 la Bella Mano TERZO 1785 tutte queste poesie grande è l’eleganza e la grazia per cui l’ Alamanni è a ragione additato come uno de’ migliori poeti, e avea in ciò sortita sì felice disposizione dalla natura, che anche all’improvviso dettava sonetti e stanze con ammirabile felicità. Assai maggior fama però gli ha ottenuta la sua Coltivazione, stampata la prima volta magnificamente in Parigi da Roberto Stefano nel 1546, poema in versi sciolti, a cui ha pochi uguali la nostra lingua. Ei volle ancora provarsi a scriver poemi di maggior mole, e pubblicò nel 1548 quello intitolato Girone il Cortese tratto dal romanzo francese che ha il medesimo titolo, e lasciò a Battista suo figlio l’A varchile, ossia un altro poema sull’assedio di Bourges, detta da alcuni in latino Avaricum, nella quale egli prese principalmente a imitare e quasi a copiare l’Iliade. Ma benchè egli usasse di ogni possibile sforzo per serbare in questi poemi le più minute leggi ad essi di Giusto de’ Conti colle Rime di alcuni altri poeti antichi. Non vuoisi poi ommettere che presso il signor Michele Colombo in Padova conservasi una copia di questo ultimo libro colla data del i58q, e che confrontando, com'egli diligentemente ha fatto, quella copia con un’altra del i5c)5, vedesi chiaramente che il Corbinelli avea fatto cominciar la stampa del libro fin dal che nel i58q essa era già ultimala, ma che non essendone ei soddisfatto, la soppresse con intenzione di farne un'altra migliore; ma di'ci poscia non esegui, se non in picciola parte, il suo disegno, perciocché, trattone il frontespizio, e qualche foglio cambiato, nel rimanente 1’ una edizione coll1 altra combina perfettamente. Tiràboschi, yol. XII. 4° 1786. LIBRO prescritte, poco però fu in ciò felice, nè ad essi egli dee il nome di cui gode tra gli amatori della poesia italiana. Lo stesso dee dirsi di una commedia intitolata la Flora, scritta in versi sdruccioli di sedici sillabe da lui ideati. Miglior sorte ebbe l’ invenzione degli epigrammi toscani da lui prima d ogni altro usati felicemente, ed ei fu imitato poscia da molti, e fra gli altri da Girolamo Pensa di Cigliaro, cavalier di Malta, i cui Epigrammi furono stampati in Mondovì nel 1570. Di una orazione, di alcune lettere, e di altre opere dell’Alamanni o perite, o inedite, o falsamente attribuitegli, veggansi le diligenti osservazioni del conte. Mazzucchelli, che potranno supplire al poco che per amor di brevità io ne ho detto. Solo ad esse io aggiugnerò la notizia di una novella da lui scritta e indirizzata a Bettina Larcara Spinola, che conservasi in un codice a penna della libreria Nani in Venezia (Codici mss. volgari della Libr. Nani, p. 110). XXXII. Prima che l Alamanni col suo poema tutto spiegasse il sistema della coltivazione, una parte aveane già descritta in un leggiadro suo poemetto Giovanni Rucellai fiorentino, cioè il magistero delle api. Era egli figlio di quel Bernardo Rucellai, di cui altrove abbiam detto (t. 6, par. 2), e da esso nato nel 1475 I soli oggetti che gli si offrivano all’ occhio nella casa paterna, ch’era il teatro in cui tutti i più dotti e i più colti ingegni che fiorivano allora in Firenze, si venivano a raccogliere, potean bastare ad accender nell'animo di Giovanni un’ardente brama di seguirne gli esempii. Ed egli di fatto r TERZO 1787 fino eia’ primi anni si applicò con sommo ardore agli studi. L innalzamento al pontificato di Leon X, che gli era cugin germano, gli fece concepir le speranze di avere un onorevole guiderdon de’ suoi studi nella dignità di cardinale, ed ora opinion comune di Roma, che ad essa dovesse Giovanni esser promosso. Ma alcune considerazioni ne fecer differire al pontefice la promozione, e frattanto ei venne a morire, mentre il Rucellai era nuncio in Francia, e poco accetto a quella corte a cagion della guerra che il pontefice avea al re dichiarata. Tornato il Rucellai a Firenze, fu dalla sua patria inviato ambasciadore a Roma a complimentare il nuovo pontefice Adriano VI, nella qual occasione recitò l orazione latina ch è stata pubblicata nel Giornale de’ Letterati d’Italia, ove esattissime notizie si danno di questo scrittore (t 33, par. 1, p. 230). Il pontificato di Clemente VII parve più favorevole al Rucellai, il quale fu tosto nominato castellano di Castel S. Angelo, impiego che allor conduceva direttamente all’ onor della porpora. Ma mentre il Rucellai lo aspetta, e Clemente, secondo il suo usato costume, va indugiando, quegli assalito da mortal febbre, finì di vivere verso il 1526. Tutto ciò abbiamo da Pierio Valeriano ch era allora in Roma (De Litterat Infel. l. 1 p. 73). Il poemetto delle Api, il qual pure è un de migliori che abbia la volgar lingua, fu pubblicato da Palla di lui fratello dopo, la morte di Giovanni nel 1539), e nel frontespizio si afferma ch esso era stato da Giovanni composto, mentre era in Castel S. Angelo. Sembra I788 LIBRO ad alcuni che lo stesso Giovanni nel suo poema medesimo narri di averlo scritto in Quaracchi sua villa presso Firenze. Ma, come a lungo si prova nel suddetto Giornale, tutt’ altro è il senso di quelle parole. Della Rosmunda del Rucellai diremo più sotto. A questo luogo ancora appartiene la Sereide, ossia il poema su’ bachi da seta di Alessandro Tesauro, di cui i due primi libri in versi sciolti furono stampati in Torino nel 1585. Esso è poema assai elegante, benchè abbia alquanto di fervor giovanile. Due altri libri ne avea promessi fautore, ma ei non tenne parola, benchè non morisse che nel 1621. Una nuova edizione di questo poema si è di fresco fatta in Vercelli nel 1777 per opera del signor Giannantonio Ranza regio professore. XXXIII. Due poeti quasi al tempo medesimo presero ad argomento de’ lor poemi la caccia, Tito Giovanni Scandianese e Erasmo di Valvasone. Il primo da Scandiano sua patria, feudo allora de’ conti Boiardi nella diocesi di Reggio, fu detto Scandianese (a), e insegnò per più anni lettere umane in Modena, in Reggio, in Carpi, e altrove, e finalmente per ventitré e più anni in Asolo, ove morì a’ 26 di loglio del i58a, in età di sessantaquattro anni. Così narra Apostolo Zeno (Note al Fontan. t. 2. p. 31(5, ec.), citando le memorie sii ciò trasmessegli dal Jm) Il sig. conte Pietro Trieste dei Pellegrini ha poi pubblicata la Vita dello Scandianese nelle sue Memorie degli Uomini illustri di Asolo, e io ancora ne ho parlato più lungamente nella Biblioteca modenese (t. 5, p. 40, ec.). TERZO *789 signor Pietro Pellegrini Trieste gentiluomo di Asolo, a cui ancora abbiamo la lettera da esso scritta per rendergliene grazie (Zeno, lettere t. 3: p. 408). Della scuola dallo Scandianese tenuta in Modena e in Reggio io non ho altra notizia; ma di quella tenuta in Carpi, oltre che fa egli stesso menzione nella dedica della traduzione della Sfera di Proclo, nell’archivio di quella Comunità si conservano i documenti della condotta di esso fatta, che mi sono stati gentilmente comunicati dal sig. avvocato Eustachio Cabassi da me altre volte lodato. Da essi raccogliesi che lo Scandianese abitava già in Carpi nel 1550, quando fu scelto a pubblico maestro di scuola, e che in quell’impiego durò fino a’ 12 di luglio del 1555, in cui avendo egli chiesto il suo congedo, gli fu dato a successore Gasparo Puzzuolo. Di questi documenti io recherò qui solo il primo: 1550 2 Aug. Intendentes D). Provisores, quod D. Magis ter Petrus de Marsiliis grammaticae preceptor discedere, et recedere intendit et nolle amplius habitare in hac terra nostra Carpi, et ne terra renianeat si ne preceptore, unanimiter et ne mine discrepante conduxerunt et elegerunt in preceptorem et per preceptorem publicum D. Ioannem de Scandiano habitator. Carpi, per unum annum proxime futurum incipiendo in Kal. Augusti presentis anni cum salariis et emolumentis consuetis, dummodo habeat repetitorem, et domum congruam, et pro ut precessori suo factum fuit, imposueruntque Domini Provisores sibi fieri lit~ feras patentes in forma. et predicta omnia, ec. In Carpi ei dovette comporre il suo poema della 179° LIBRO Caccia, che fu stampato in Venezia nel 1556 e da lui dedicato al duca Ercole II Il poema dividesi in quattro libri, ed è in ottava rima, e molte stanze sono scritte felicemente e con vivacità poetica e con eleganza; ma questi pregi non sono ugualmente sparsi in tutto il poema che talvolta è languido e incolto. Ad esso egli aggiunse la traduzione della Sfera di Proclo in prosa italiana, cui dedicando egli al magnifico Messer Giovanbattista Abbati da Carpi, dice di averla intrapresa per giovare a tutti gli gioveni Carpeggiani y e aggiugne che perciò avea ancor tradolto fjuesto e quell altro Greco Autore in idioma Italiano, fra quali erano le Immagini di Filostrato, et le cose di Calistrato, con quelle degli altri, che Immagini o altre 'cose belle scrissero, intorno a quali voi havevate tanto diletto affaticarvi traducendole in Latino. Queste altre versioni però si sono smarrite. In Carpi parimente egli scrisse la Fenice poemetto in terza rima, stampato la prima volta in Venezia nel 1555, coll aggiunta della versione di ciò che intorno alla fenice già scrissero Claudiano Ovidio, Lattanzio ed altri antichi scrittori, e colle Poesie di diversi sullo stesso argomento. Questo poemetto fu da lui dedicato a Pietro Giovanni Ancarani reggiano, che allora era podestà di Carpi, come si raccoglie da’ documenti di quelfarchivio*, e nella dedica ei rammenta due.altre sue opere, cioè la Poetica nostra, dove di tutte le sorti di composizione si ragiona, e Lucrezio tradotto, ampliato e commentato da noi. La Poetica debb esser perduta, e della version di Lucrezio il TERZO I79I solo sesto libro conservasi nella libreria dei Conventuali di Asolo, a cui fece dono de’ suoi libri. Ivi ancora si ha la Cosmografia di Plinio, ossia il terzo e il quarto libro della Storia naturale da lui tradotti e comentati; per la qual fatica 150 ducati gli furono esibiti dallo stampatore Gabriello Giolito, anzi 50 già gl ien’erano stati contati, ma la morte del detto Giolito dovette impedirne la stampa. Un altro poema in ottava rima e in quattro libri intitolato La Pescatoria, e un Dizionario alfabetico delle Vite degl illustri Romani si hanno nella medesima libreria, e altre opere ancora ne accenna il poc’ anzi citato Zeno. L ultima opera dallo Scandianese data alla luce fu La Dialettica in tre libri divisa, e stampata in Venezia nel 1563. Di Erasmo da Valvasone di nobilissima famiglia del Friuli parla a lungo e con molta esattezza il ch. sig. Giangiuseppe Liruti (Notizie de' Letter. del Friuli, t. 2, p. 383). Egli è però più illustre per le opere date in luce, che per le azioni della sua vita, la qual fu comunemente privata, e tutta rivolta agli studi da lui coltivati tranquillamente nel suo castello di Valvasone, ove anche morì sulla fine del 1593, in età di circa settant1 anni. Il poema della Caccia, scritto in ottava rima, e in cinque libri diviso, benchè non uscisse a luce che nell’an 1591, fu però da lui composto in età giovanile; ed ebbe la sorte di essere commendato da molti illustri poeti, e singolarmente da Torquato Tasso, la cui testimonianza può equivalere a qualunque più luminoso elogio. Nè fu questo il solo saggio che Erasmo desse del suo ingegno e de’ I 792 LIBRO suoi studi. La traduzione in ottava rima della Tebaide di Stazio, e in versi sciolti dell’ Elettra. di Sofocle, i quattro primi canti del Lancellotto, l Angeleida, ossia un poema in tre canti in ottava rima sulla battaglia tra gli Angioli buoni e i rei («), le Lagrime di S. Maria Maddalena, poemetto esso pure in ottava rima, son pruova del valore di Erasmo ne’ poetici studi; e si posson vedere presso il citato sig. Liruti gli elogi con cui ne bau ragionato i più colti scrittori di que’ tempi, insiem con altre più distinte notizie di queste e di altre poesie dello stesso Erasmo. XXXIV. Appena meritano di aver luogo tra’ poemi alcuni, ne’ quali qualche fatto storico ci (a) Si è in questo secolo disputato, se il Milton avesse presa l’idea del suo Paradiso perduto dalla Sarcotide poema latino del P. Masenio gesuita tedesco. A me non appartiene l’entrar giudice in questa contesa fra due scrittori non italiani. Ma non debbo ommettere che (oltre ciò che osserverò a suo luogo dell’Andreini) lo stesso dubbio, e forse anche più fondatamente, può nascere al confronto dell Angeleide del Valvasone coll’episodio del Milton inserito nel suo poema intorno alla caduta degli Angioli. Certo nell’ orditura e nella disposizione del fatto i due poeti molto si rassomiglian l un l’ altro; e le parlate che fanno i capi dell’uno e dell altro partito, e l'idea di far seguir una vera battaglia fra essi con diverse vicende, e soprattutto la capricciosa invenzione di fare adoperare dagli Angeli ribelli in quella battaglia il cannone, in amendue i poeti s’incontra, ci fa nascer sospetto che il Milton vedesse l Angeleida stampata fin dal 1590, e se ne approfittasse, Io debbo questa osservazione al ch. P, m. Lorenzo Rondinetti Minor conventuale e valoroso poeta, da cui spero che un giorno questo confronto da me appena accennato sarà più chiaramente svolto e spiegato. TERZO • 179^ si racconta senza alcuna sorta di poetica invenzione, e in modo che di poesia altro non v ha che il metro. Tali sono i Successi bellici di Niccolò degli Agostini veneziano, autore di più altre opere in poesia sul principio del secolo, e fra le altre di una giunta di tre libri alOrlando innamorato del conte Boiardo (V. Mazzucch. Scritt. it. t. 1, par. 1, p. 216), il Lautreco di Francesco Mantovano, i Decennali di Niccolò Macchiavelli, ed altre opere somiglianti di Mambrino Roseo, di Pompeo Bilintano, di Sigismondo Paolucci, di Antonfrancesco Oliviero e di altri; fra' quali io accennerò solo il famoso Albicante, poeta nulla migliore de’ nominati, ma celebre per la sua alterigia e per le contese ch' ebbe col suo degno rivale Pietro Aretino e col Doni; intorno a che sì esattamente ha già scritto il conte. Mazzucchelli (ivi ì p. a3 6), ch’io credo inutile il rinnovarne la memoria. Il Quadrio potrà somministrare a chi ’l voglia un distinto catalogo di tai poeti (t. 6, p. 137, ec.). Io che amo di passare velocemente su tutto ciò che non ridonda a grande onor dell’ Italia, due sole osservazioni farò su due di essi. E primieramente La Guerra di Parma poema in sette canti diviso, e stampato la prima volta in Parma nell’an 1552, non è opera, come egli crede probabile (t. 7, p. 259), del Marmitta, ma di Giuseppe Leggiadro de’ Gallani. Di questa notizia siam debitori al Compendio storico di Parma, scritto in quel secolo da Angelo Maria di Edovari da Erba, e non mai pubblicato, in cui tra gli uomini illustri di 1^94 LIBRO quella cillh si nomina Giosefo Leggiadro de Galloni 7 Notaro, e massimamente dotato di tenacissima memoria, e di mirabilissimo ingegno, quale scrisse in volgare molte e diverse Rime y due Egloghe Pastorali, Fillide, e. forza d Amore, e due Tragedie, Alithea Musicale, e Didone Regina in versi eroici, la scuola di Adone in cinque canti di rime ottave, la Guerra della Patria dell' anno 1551; e scrisse in prosa due Commedie, la Porzia, et il Falco, et un Dialogo de' Pastori a similitudine dell Arcadia del Sannazzaro, nel quale dipinge se medesimo in forma di Pirisio Pellegrino; e finalmente lasciò in ottave rime imperfetta la Traduzione della Tebaide di Stazio Poeta {*). L’ altro è Raffaello Toscano, di cui oltre l Origine della Città di Milano in versi, rammentata ancora con qualche altra opera dall Argelati (Bibl. Script mediol. t. 2, par 1, p. 1511), il Quadrio accenna (t. 7 f p. 259$$) le Guerre del Piemonte descritte in ottava rima, che si conservano in un codice a penna nella biblioteca della università di Torino, nel Catalogo de’ cui mss. se ne è pubblicato il principio (t. 2, p. 4^7)- Intorno a quest" opera un bel monumento mi ha da Torino trasmesso il ch. sig. baron Giuseppe Vernazza, da cui raccogliesi che quella città sborsò al Toscano il denaro perchè la stampasse. Il monumento è tratto dal registro ms. de’ Consigli degli Ordini della stessa città del 1596, ove così si (*) I n comminila intitolata Porzia fu stampila scura data alcuna. TF.R7.0 179*5 legge: Elemosina et mandato per M. Raffaele Toscano. Tanno del Signore mille cinquecento novanta sei, et li diceno ve di Novembre... M. Raffaele Toscano poeta habitante in Torino ha sporto una supplica, per la quale espone, che ha ridotto in ottava rima le guerre occorse gli anni passati nel Piemonte, et l’aggiunto e pronto soccorso dato dalla Città al Duca per diffesa di detta guerra; e perchè vole far stampare detta opera, quale è solamente abbozzata, et non ha il modo di farlo, supplica la Città a volergli dare qualche aggiuto. Qual supplica udita, detti Signori Consiglieri informati della povertà del supplicante hanno ordinato, che gli sii donato, come gli donano, fiorini quarantotto per questa volta, mandando al tesoriero della Città di sborsargli detto denaro, ec. Ma convien dire o che il Toscano impiegasse ad altro uso il denaro sborsatogli, o che altro impedimento si frapponesse alla pubblicazion di quell’ opera. XXXV. Per la stessa ragione io passerò sotto silenzio e gli scrittori in verso di qualche Vita, e i poemi che appartengono al buon costume, e quelli ne quali qualche parte della sacra Scrittura si prese ad illustrare, fra’ quali i due migliori sono le Sei giornate di Sebastiano Erizzo, scrittore da noi lodato tra gli antiquarii, e le Sette Giornate di Torquato Tasso, di cui diremo più sotto, e quelli che a qualche altro argomento sacro rivolsero il loro stile, fra’ quali ultimi di un solo, ch è fra tutti il più rinomato, dirò qui brevemente, cioè delle Lagrime di S. Pietro di Luigi Tansillo. Il signor i.ruRo Giaubernardino Tafuri (Scritt. del Regno di Nap. t. 3, par 2, p. 297, ec.; par 7, p. 482, ec.;, dopo il Toppi e il Niccodemo, e gli autori del Giornale de’Letterati d'Italia (t. 11, p. 110) ci daranno intorno alla vita di questo colto poeta le opportune notizie. Ei fu natio di Nola, ma nacque in Venosa circa il 1510, e visse gran tempo in Napoli al servigio del vicerè D. Pietro di Toledo e di d). Garzia di lui figliuolo, e seguì il primo nella spedizion contro l’ Africa, in cui fu espugnata l" antica città di Afrodisio. In età di circa ventiquattro anni diede il primo saggio del suo valore nella toscana poesia, scrivendo il Vendemmiatore y cioè circa 160 stanze, in cui troppo liberamente descrive le villanie e i motteggi che i vendemmiatori in alcune parti del regno di Napoli solevano l’un contro l’altro lanciarsi. Questo osceno poemetto, stampato la prima volta nell' an 1534 e che in altre edizioni è intitolato Stanze amorose sopra gli Orti delle Donne, benchè sembri che uscisse a luce a dispetto dell' autore, ne oscurò molto la fama, e di maggior biasimo ancora sarebb’ egli degno, se fosse l autore anche delle Stanze in lode della Menta, stampate in Venezia nel 1540. Le Poesie del Tansillo furono poscia annoverate da Paolo IV tra' libri vietati; e il poeta, dolente del suo trascorso, allo stesso pontefice indirizzò una canzone, in cui gliene chiede perdono, e gli accenna la riparazione che ne avea fatta collo scrivere un poema divoto e sacro, cioè le Lagrime di S. Pietro. Egli ottenne con ciò, che il suo nome fosse tolto dall Indice. Ma al suo TERZO 1797 poema ei non potè dare l ultima mano, ed essendo egli morto verso il 1596, esso rimase in man degli eredi. Alcune stanze, che formano parte del primo canto, erano già state stampate in Venezia nel 1560, e per errore attribuite al cardinal Pucci. Si conobbe dappoi, ch’esse erano del Tansillo, a cui furono restituite, e quindi si pensò a fare una compita edizione di questo poema. Ma l originale n era sì malconcio e mancante, che altri vi dovettero porre le mani, e perciò uscì alla luce nel i(jo(5 ritoccato, o, a dir meglio, guasto dall'altrui penna. Di che e delle diverse edizioni che poi se ne fecero, si ragiona a lungo nel sopraccitato Giornale. Esso è diviso in xv canti; e comunque si scorga che non è cosa finita, molti tratti però abbastanza ci scuoprono il valor del poeta, e ci fanno soffrire con dispiacere ch ei non potesse dargli l’ ultima mano. Abbiamo ancora sonetti, canzoni, capitoli ed altre poesie del Tansillo, delle quali la più copiosa edizione è la veneta del 1738. Due altri eleganti poemetti ne sono stati pubblicati non ha molti anni, cioè la Balia in Vercelli nel 1767, e il Podere in Torino nell’ an 1769. Una lettera original del Tansillo a D. Ferrante Gonzaga signor di Guastalla, scritta da Napoli a’ 15 di novembre del 1556, conservasi nel segreto archivio di Guastalla. Alcuni, e lo Stigliani principalmente, hanno innalzato il Tansillo fin sopra il Petrarca; lode esagerata di troppo, e riprovata da tutti coloro che hanno qualche discernimento. Non può negarsi però al Tansillo la gloria di essere uno de’ più eleganti e 1798 LIBRO de’ più vivaci poeti di questo secolo. Maggior gloria ancora gli sarebbe dovuta, se potesse provarsi, come alcuni hanno creduto, che una rappresentazione da lui composta, e fatta recitare in Messina nel dicembre del 1539, fosse un dramma pastorale, perciocchè in tal caso a lui e non al Beccari si dovrebbe la lode dell’ invenzione di tal genere di poesia. Ma l’esattissimo Apostolo Zeno ha scoperto (Note al Fontan. t. 1, p. 409, ec.) che tal rappresentazione non è altra che quella intitolata I due Pellegrini, la quale si legge ancora nella mentovata edizione, e che, benchè ella sia scritta con eleganza, è nondimeno tutt’ altro che dramma pastorale (a). Lo stesso autore dimostra (ivi, p. che tre commedie da Jacopo Doroneti attribuite al Tansillo, sono veramente di Pietro Aretino, il cui nome fu cambiato in quello del detto poeta, per toglier l’infamia che ad esse dal loro autore veniva. XXXVI. Dopo questi poemi, tra’ quali appena ve n’ ha alcuno a cui a ragione convenga tal nome, ci si hanno innanzi, seguendo Tordi ordin del Quadrio, i poemi epici tessuti con favole, i quali in due classi da lui si dividono, (a) Avrei desiderato che il sig. abate \rtenga oinmettcsse la menzione che ha fatta di questa rappresentazione per provare che nelle Pasturali la Musica fece, gran via (Rivoluz. iU-l Teatro music, ital. 1. 1, p. 211). E vuoisi avvertire eh’essa non fu già rappresentata per ordiue del viceré D. Garzia di Toledo, come alcuni hanno scritto, perciocché agli solo molli anni dopo ehbe quella dignità, nè fu rappreseutala con Apparato Musicale, ma fu sol recitala. TERZO 1 ^99 cioè in poemi romanzeschi e in poemi eroici. A’ primi premette egli gli scrittori di brevi romanzi, ossia di novelle, de’ quali non fu scarso il secolo di cui parliamo, che ha non pochi novellatori, altri in prosa, altri in versi. Tra’ secondi non abbiam cosa degna di special menzione. Tra’ primi si possono annoverare il Bembo pe’ suoi Asolani, il Firenzuola, Ortensio Landi, Carlo Gualteruzzi, Gianfrancesco Strapparola, Girolamo Parabosco, Giambattista Giraldi, Sebastiano Erizzo, Ascanio de’ Mori, Scipione Bargagli e il Sansovino, che una raccolta ci diede di cento Novelle di diversi scrittori. A me basterà dire di uno solo ch è fra tutti il più celebre, cioè di Matteo Bandello, su cui però non farà d’uopo lo stenderci lungamente, poichè ogni cosa già ne ha esaminata con somma esattezza il conte. Mazzucchelli (Scritt. it. t. 1, par. 1 p. 201) (a). Ei fu nipote di quel Vincenzo (a) Alcune altre notizie intorno a Matteo Bandello, tratte da documenti del convento di Santa Maria delle Grazie di Milano, mi ha comunicato l'altre volte da me lodato P. maestro Vincenzo M. Monti dell'Ordine de Predicatori. Egli era figlio di Gianfrancesco Bandelli, e fin dal 1501 dovea essere religioso da alcuni anni, poichè in quell’anno cominciò ad accompagnare ne viaggi il general dell’Ordine F. Vincenzo Bandelli suo zio. Dopo la morte di questo, avvenuta a’ 27 di settembre del 1506, trovasi Matteo stabilito nel suddetto convento, da cui egli nel i.5o8 dedicò il suo Egesippo a Filippo Sauli, e ne’ cui libri ei si vede segnato all’anno i5.4 e al 1.523, e in questo secondo col titolo di priore di Crema. Nell’anno stesso intervenne a un capitolo del suo ordine, tenuto in Fermo, e avendovi ei recitata una’orazione in lode di quella città, fu essa accolta con tanto applauso, che per comune decieto 1800 libro Bandello generale dell’Ordine de’ Predicatori, da noi rammentato nella storia del secolo precedente (t 0, par. i), e nato egli pure jq Castelnuovo di Scrivia, ad imitazione di lui rendetlesi religioso nell’ Ordine de’ Predicatori circa il principio del secolo, e fu ascritto al convento delle Grazie in Milano. Sembra però, che assai poco ci vivesse nel chiostro, perciocché fra le altre cose ei trattenncsi lungamente presso Pirro Gonzaga signor di Gazzuolo e Cammilla Bentivoglia di lui moglie, ed istruì nelle lettere la celebre Lucrezia Gonzaga loro figlia', da noi rammentata a suo luogo. Nelle guerre che tra’l i5ao e il i5a5 travagliarono lo Stato di Milano, il Bandello fu involto nelle comuni sciagure, e perduti i suoi libri, si vide fu posta nel pubblico archivio. Par ch’ei fosse ancora in Italia nel luglio del 1528, sotto il qual giorno sene vede stampato il nome in un catalogo de' figli di quel convento; ma forse continuava esso a notarsi sulla speranza ch ei vi facesse ritorno. Certo non può differirsi di molto l' abbandono che del suo convento e dell' Italia egli fece. I PP. Quetif ed Echard affermano { Script. Ord. Praed. t. 2, p. 155) che da una carta accennata nella Galliti chri tiaua raccogliesi ch' ei viveva ancora nel 1561. Ma nella nuova edizione dell'opera stessa, solo da me veduta, io non veggo citarsene che una del 1554 (t '2 > P- 9^°)• ^e ® vero però ciò che nell’opera stessa si afferma, che Giano Fregoso, successor del Bandello, solo verso l’an 1570 ottenesse quella sede, potrebbe inferirsene che non solo fino al 1561, ma anche più anni d ipo egli vivesse. Veggasi anche il bellissimo elogio del Bandello scritto dal ch. sig. conte Gianfrancesco Galeoni Ma pione di Cocconato, in cui della vita e delle opere del Bandello si ragiona con somma esattezza (Pietuoni, ili l. 5). TERZO l8oi ancora a gran pericolo della vita, e gli convenne fuggirsene cambiato abito, e andarsene qua e là ramingo per qualche tempo. Sembra che ei poscia non ripigliasse più l’abito una volta deposto; perciocchè veggiamo ch’egli si strinse in amicizia con Luigi Gonzaga da Castelgiuffredo, diverso dagli altri due Luigi già da noi nominati, avolo di S. Luigi Gonzaga, e marito allora di Ginevra Rangona, e con Cesare Fregoso, e con Costanza Rangona di lui moglie, sorella di Ginevra, e che con essi passò in Francia, e vi soggiornò più anni, anche dopo la morte di Cesare ucciso nel 1541. Il re Francesco I per ricompensa a’ servigi dal Fregoso rendutigli, tra gli altri beneficii alla famiglia di lui conceduti, nominò il Bandello nel settembre del 1550 al vescovado di Agen. Ei però non si prese molto pensiero del suo vescovado, e ne lasciò l’incarico a Giovanni Valerio vescovo di Grasse. Egli era ancor vivo nel i5(>i, ma non si sa precisamente fino a quando vivesse. Le Novelle del Bandello, i cui tre primi tomi furono stampati in Lucca nel 1554 > e f ultimo, dopo la morte di esso, nel 1573, e di cui si fecero poscia più altre edizioni, e diverse traduzioni in più lingue, sono scritte a imitazione di quelle del Boccaccio, e benchè lo stile ne sia comunemente colto, e la narrazione viva e piacevole, è forza confessar nondimeno ch’ ei ne ha ritratte le sozzure e le laidezze assai più che l’eleganza. In quel tempo in cui il furore de’ Protestanti prendeva principalmente di mira i vescovi e i claustrali, non poteva avvenir cosa ai disegni loro più acconcia Tiraboschi, Voi. XII. 41 iSo2 libro clic il veder pubblicate da un claustrale e da un vescovo tali novelle che anche in un uomo del secolo sarebbero state degne di biasimo. Ciò non ostante non veggiamo ch essi ne menassero gran rumore; e forse fesser quelle venute a luce col solo titolo Novelle del Bandello, senza che vi si esprimesse la condizione e la dignità dell’autore, fece ch’essi non riflettessero al trionfo di cui quell’opera dava loro occasione. Di lui abbiamo ancora una versione latina della novella di Tito e di Gisippo del Boccaccio, undici canti in ottava rima in lode di Lucrezia Gonzaga, e alcune altre opere che minutamente si annoverano dal sopraccitato conte Mazzucchelli (a). XXXVII. Or venendo a’ poemi che diconsi romanzeschi, grande ne fu a que’ tempi la copia in Italia, c grande la varietà ile’ loro argogomenti. Tra’ romanzi si può annoverare la Vita di Mecenate di Cesare Caporali, poeta già da noi rammentato, in cui altro non v ha di vero cbe il nome medesimo di Mecenate. Tra’ romanzi amorosi si può rammentare il libro <1 Arnie e dAmore nomato Pia logine... composto per (a) Presso l’eruditissimo sig. abate Giuseppe Ciaccheri professore e bibliotecario dell’ università di Siena conservansi in un voluminoso codice ms. molte Novelle con altre descrizioni e con diverse poesie di Pietro Fortini sane se, che visse circa la metà del secolo xvi, ed egli ha voluto gentilmente mandarmene un saggio. La naturalezza, la grazia e la facilità dello stile reudor.o assai pregevoli queste Novelle. Ma l empietà e le oscenità di cui quasi in ogni parte sono macchiate oscuran di troppo tai pregi. TERZO l8o3 il Magnifico Cavalicr messer Andrea Boiardo ila Parma, e stampato nella stessa città nel 1508. Alle notizie che di questo romanzo e dell’autore di es'so ci danno il Quadrio (t. 6, p. 445) e il conte Mazzucchelli (l. c p. 68), il qual secondo scrittore le ha tratte da quelle che ne ha raccolte il sig. Francesco Fogli azzi, e premesse ad alcune rime dello stesso Baiardi da lui pubblicate in Milano nel 1756, io posso aggiugnere l elogio che ce ne ha lasciato Angelo Maria d’ Edovari da Erba nel suo Compendio storico ms. di Parma, ove si annoverano alcune altre opere da lui scritte, ma non venute alla luce, ed altre notizie si leggono a’ detti scrittori ignote. Andrea de Bajardi dic egli, Cavagliere nobilissimo et letteratissimo, et il più leggiadro et forte giostratore in (quel tempo di tutta l Italia, quale fu ancora Capitano if Imo mi ni d armi di Lodovico XII Re di Francia, et. scrisse in prosa volgare un libro dell Occhio, uno della Mente, et de' Romanzi uno, et uno intitolato la Tromba di Orlando, et in ottava rima un opera intitolata il Philogine, nella quale descrive gli amori della sua gioventù, sotto il nome di Adriano e di Narcisa, e frequentando la Corte di Parigi fu dal Re suddetto della corona di lauro in Parigi coronato (a). Alcuni presero ad argomento de’ romanzeschi loro poemi le antiche e favolose storie degli eroi della Grecia. Tali sono l’Èrcole (a) Del Baiardi più esatte notizie si posson vedere presso il eh. padre Allò (Meni, d’ili. Partn. t. 3, p. 94, ec.). ! 8o4 LIBRO di Giambatista Giraldi, autore, di cui già abbiamo parlato a lungo, e l’Enea e l’Achille di Lodovico Dolce, che valendosi dell Eneide e dell Iliade, e molti passi traducendone in versi italiani, e in più altri togliendo loro o aggiugnendo ciò che meglio gli parve, non ci diede nè due traduzioni, nè due nuovi poemi. XXV111. Niun argomento però fu più volentieri trattato dagli scrittori de’ romanzeschi poemi, che le guerriere e le amorose prodezze de’ cavalieri de bassi secoli. Non v’ ha chi non sappia con qual entusiasmo si diffondesse per tutta Europa lo spirito di cavalleria dopo l’ VIII secolo, e a quante storie e a quanti romanzi desse occasione. Finchè durò la barbarie e la rozzezza delle nazioni, cotali intraprese furono rozzamente descritte o in prosa, o in tai versi che poco distinguevansi dalla prosa, e la comune ignoranza, congiunta al desiderio di piacer col racconto di cose maravigliose, fece che gli scrittori gareggiasse!1 tra loro nell’ingrandire gigantescamente gli oggetti, e nell’oltrepassare ogni termine di verisomiglianza. Ma poichè la poesia ricominciò ad essere coltivata, parve che non vi fosse argomento più di questo ad essa opportuno e perciò alle imprese de’ cavalieri erranti si rivolser presso che tutti coloro che in tal genere di poesia vollero ottener lode. E perchè la Gran Brettagna e la Francia eran state il più ordinario teatro di tali prodezze, i cavalieri brettoni e i francesi furono per lo più il soggetto di tali poemi. Così quanto a’ primi l’ innamoramento di Lancillotto e di Ginevra diè argomento di poema a Niccolò TERZO iSo5 degli Agostini e ad Erasmo di Valvasone, benché ninno di essi potesse condurre a fine il suo lavoro; così Luigi Alamanni da essi trasse il Giron Cortese nominato poc anzi; e così più altri romanzi di somigliante argomento, altri in prosa, altri in verso, ma per lo più poco degni d’esser rammentati, innondarono di quel tempo l'Italia. Altri presero ad argomento de lor poemi le antiche favolose origini de Galli, e le sognate imprese de’ primi lor fondatori. Noi lasciandone in disparte non pochi, de’ quali senza suo danno avrebbe potuto rimaner privo il Parnaso italiano, direm solamente di due poemi, che a questo luogo appartengono, di Bernardo Tasso; e del celebre loro autore ristringeremo in breve l’esatte notizie che ce ne han date prima il sig. Anton Federigo Seghezzi innanzi alla nuova edizione delle Lettere famigliari di esso fatta in Padova nel i;33, poscia il sig. abate Pierantonio Sera ssi innanzi alle Rime del medesimo stampate in Bergamo nel 1749 i quali due eruditi scrittori se si troveranno talvolta tra lor discordi, noi seguiremo quella opinione che ci sembrerà appoggiata a miglior fondamento. Ed essi sono principalmente discordi nel diffinir di qual patria fosse Bernardo. Perciocchè il Seghezzi, contro la comune opinione, il fa veneziano, e ne reca in pruova prima la madre di Tasso, che, secondo il Manso, fu della veneta famiglia Cornaro, poi alcuni passi dello stesso Bernardo, ne’ quali sembra ch’ei dica di esser nato in Venezia. A questi argomenti ha risposto il Serassi col suo Parere intorno alla patria di Bernardo c di l8o6 LIBRO Torquato Tasso, stampato nel 1742, e poscia premesso al terzo tomo delle Lettere di Bernardo dell’ edizion cominiana, e ha mostrato che la madre del Tasso (la quale finalmente di qualunque patria fosse, nulla gioverebbe a provare la patria del figlio) non era della famiglia Cornaro, ma di un altro ramo di quella de Tassi •, clic i passi ne quali Bernardo sembra affermare di aver veduto il giorno in Venezia, si possono ugualmente intender in Bergamo, e che in moltissimi altri luoghi ei si dice nato in Bergamo e cittadino di Bergamo, e che così pure si afferma da tutti gli scrittori di que’ tempi. Le quali risposte parvero al Seghezzi stesso sì forti, che, per testimonianza del P. Calogerà (pref. al t. 31 degli Opusc.), ei si diede per vinto. Queste ragioni si posson vedere diffusamente esposte nel suddetto Parere, senza ch’ io entri di nuovo in una quistione che si può dir già decisa. Solo alle autorità da lui addotte in pruova io aggiugnerò quella di Basilio Zanchi concittadino (di Bernardo, e che in un epigramma in lode di esso dice: O patria insignis, genitrix mea! pectore in uno Quicquid habet magni Grecia docta, tenes. Carm, p. 118, ed. bergom. 1747. In Bergamo dunque di nobile e antica famiglia nacque Bernardo agli 1 r di novembre del 14i)3. Le istruzioni del celebre gramatico Battista Pio, che allora teneva scuola in Bergamo, e le premure di Luigi Tasso vescovo di Recanati suo zio materno, che ivi abitava, e che gli tenne luogo di padre, di cui Bernardo in età fanciullesca rimase privo, gli agevolaron la via a far TERZO 1807 nelle lettere greche e latine veloci c non ordinarii progressi. La funesta morte del vescovo, trucidato barbaramente da alcuni ladroni nel 1520, e le angustie domestiche nelle quali allor ritrovossi, lo consigliarono a lasciare la patria e a procacciarsi qualche agiato e onorevole sostentamento, se pure non fu a ciò costretto da qualche error giovanile, per cui gli fosse intimato l’esilio, come da altri si afferma (Calvi, Scena letter. par. 1, p. 4&i) non so su qual fondamento. Sperò egli forse di trovar nell’amore qualche sollievo a’ suoi travagli, e si occupò qualche tempo in amare e in celebrar co’ suoi versi Ginevra Malatesta. Ma poichè la vide congiunta in matrimonio col cavalier degli Obizzi, e poichè conobbe che non era quella la via per cui migliorare il suo stato, verso il 1525 si pose al servigio del conte. Guido Rangone generale allora dell’armi pontificie, di cui per alcuni anni fu segretario, e gli diede più pruove non solo della sua abilità in quell’impiego, ma anche della sua destrezza nel maneggio di gravi affari. Nel 1529) passò al servigio della duchessa di Ferrara; ma qual che ne fosse la ragione, tra poco ne uscì, e recatosi a Padova, parte ivi, parte in Venezia, attese tranquillamente ai’ suoi studi. E questo è il tempo di cui parla Bartolommeo Ricci in una lettera a Bernardo: Veteri s mini amicitiae recordatio, cum ego apud meos Cornelios agerem, tu vero cum illis ac nobiscum aut Venetiis aut Patavii quotidie esses, ac etiam Ferrariae proximis annis renovata id me jure suo postulabat (Op. t. 2, p. 433). Il qual passo 1808 LIBRO ho recato io volentieri, perchè pruova sempre più chiaramente che niuna parentela ebbe il Tasso colla famiglia Cornaro, se non in quanto l’amicizia col Ricci, ch’era ivi maestro, gliene apriva l’accesso. Un sonetto da lui composto, e che si credette da alcuni fatto per lodare il Broccardo, nimico del Bembo, lo porse a rischio d'incorrer nello sdegno di questo secondo; ma ei seppe togliere ogni sospetto, e gli ritornò in grazia. Frattanto le Rime di Bernardo, stampate in Venezia nel 1531, il fecer conoscere a Ferrante Sanseverino principe di Salerno, il quale sollecito di avere alla sua corte i più leggiadri ingegni, ad essa invitollo. E il Tasso, accettato l’invito, tanto si avanzò nella grazia del suo padrone, che tra pensioni e stipendii ei giunse ad avere 900 ducati annui di entrata. Seguì il principe in varie spedizioni, e in quella delfAfrica fra le altre, e in quelle di Fiandra e d’Allemagna. Nel tempo però, ch’ei visse nel regno di Napoli, il principe bramando ch’ ei potesse tranquillamente attendere a’ suoi studi, gli permise di ritirarsi a Sorrento, e di vivere ivi a se solo e alle Muse. Ma presto si cambiò scena. Nel 1547 il principe fu uno de’ deputati dalla città di Napoli a recarsi all imperial corte per ottenere che in essa non si stabilisse l'Inquisizione; e il Tasso non lasciò di esortarlo ad accettar tale incarico, da cui sconsigliavalo apertamente Vincenzo Martelli, ch era al servigio del medesimo principe. Questa ambasciata fu al Sanseverino funesta; perciocchè ei conobbe d’aver con essa incorso lo sdegno di Cesare, e temendo di peggio, TERZO 1809 gitlossi nel partito del re di Francia, e passò a quella corte, dichiarato perciò ribelle e spogliato di tutti i suoi beni. Il Tasso volle essere anche tra le disgrazie fedele al padrone, e seguillo in Francia; e parve dapprima ch’ei fosse per avere il premio alla fedeltà sua dovuto, perciocchè non solo' il principe gli assegnò un’annua pensione, ma anche il re Arrigo II gli si mostrò liberale, come raccogliesi dalla lettera poc’ anzi citata del Ricci. Ma tra non molto ei si vide dimenticato e privo d ogni soccorso, e aggiuntasi a ciò la morte di Porzia de’Rossi sua moglie, egli finalmente chiese congedo al principe; intorno a che è degna d’essere letta una lettera del Ruscelli al re Filippo II, in cui difende il Tasso nella condotta da lui tenuta riguardo a d Ferrante (Lettere de Principi, t. 1, p. 225). Guidubaldo II duca d*Urbino, principe al par d’ ogni altro splendido protettore de’ dotti, chiamollo alla sua corte, e gli diede un dolce compenso delle sofferte sciagure; nel qual tempo fu anche in Venezia, e venne ascritto alla celebre Accademia veneziana. Da quella corte passò nel i5(>3 a quella di Mantova coll’impiego di segretario maggiore, e ivi nel 1569, e mentre era governatore d’Ostiglia, a’ 4 di settembre finì di vivere. Il duca gli fece dare onorevole sepoltura nella chiesa di S. Egidio; ma Torquato di lui figliuolo ne fece poi trasportar le ossa a Ferrara, e riporle nella chiesa di S. Paolo. Io ho accennate di volo l epoche più importanti della vita di Bernardo Tasso, che più ampiamente svolte e spiegate si potranno vedere presso i I 8 I O LIBRO due suddetti scrittori, i quali ancora dell’indole e de’ costumi di esso ragionano stesamente, e cel mostran per essi non meno che pel suo ingegno e pe’ suoi studi degno di rimanere immortale presso de posteri. XXXIX. I due poemi, pe’ quali ne abbiam qui fatta menzione, sono l'Amadigi e il Floridante. Il primo è tratto da un romanzo spagnuolo, e il Tasso si accinse a scriverlo circa l’an 1545, mentre vivea tranquillamente in Sorrento. Avea egli in pensiero di scriverlo in versi sciolti, e di ridurlo alle leggi di perfetto poema, riducendo la favola a una sola azione. Ma dal primo consiglio il distolsero le istanze del principe suo padrone e di altri che gli persuasero più opportuna a un poema l’ ottava rima. E nel secondo gli fece cambiar idea il vedere che leggendone egli al principe e a’ cortigiani i primi canti, pareva ch’essi sene annoiassero, e credette perciò, che più dilettevole fosse per riuscire il poema, se, trascurando l’unità dell azione, avesse seguito lo stesso ordine del romanzo. Egli il condusse a fine verso il 1559), e l’Accademia veneziana, come altrove si è detto, gliel chiese per darlo alla luce, pensando a ragione che grande onore ne dovesse ad essa venire. Ma il Tasso volle farne l edizione a sue spese, ed ella uscì alla luce nel 1560. Se noi rimiriamo separatamente ciascheduna parte di questo poema, appena vi troviam cosa che non sia degna di lode. Lo stile è colto, il verso armonioso e soave, ben tessute ne sono le stanze, e la favola, benchè sia tratta dall’accennato romanzo, è intrecciata però di più altri accidenti dalla TERZO 181 I fantasia e dall immaginazion del poeta ad essa aggiunti. Ciò non ostante, comunque lo Speroni l’abbia antiposto all’ Orlando furioso, e benchè altri l’abbian giudicato migliore di (quanti altri poemi si erano finallora veduti, io credo che sieno assai pochi coloro che hanno avuto il coraggio di leggerlo interamente. Perciocchè nè gli avvenimenti sono così intrecciati che tenendo piacevolmente sospeso il lettore, lo costringano in certo modo a innoltrarsi leggendo; nè lo stile ha quella lusinghiera varietà che or sollevandosi nobilmente, or non senza dignità abbassandosi, seduce ed incanta, e non lascia sentire fastidio e noia. Il Floridante, a cui diede il Tasso cominciamento nel 1563, è un episodio deVUAmatligij ch’egli ne staccò per formarne un nuovo poema. Quindi de’ xix canti, in cui esso è diviso, i primi otto son tratti quasi interamente dalYArnauigi Amadigi gli altri undici son di nuova invenzione. Bernardo non ebbe tempo a finirlo, e Torquato, quale il trovò tra le carte del padre, rassettatolo e correttolo alquanto, il pubblicò in Bologna nel 1.587. Quindi questo poema, benchè abbia esso ancora i suoi pregi, non può però rimirarsi se non come cosa imperfetta, e non condotta dall’ autore a quel termine a cui, se avesse avuta più lunga vita, condotta l’avrebbe. Le altre opere del Tasso sono i cinque libri di Rime, con più altre poesie di diversi generi, cioè egloghe, elegie, selve, inni, ode, ec.; e in esse ammirasi principalmente uno stile purgato e colto, e una singolare dolcezza che forma il principal pregio di questo poeta. Ne abbiamo innoltre un Ragionamento I l8l2 LIBRO sulla Poesia, e le Lettere, fra le cui edizioni la più copiosa è la Cominiana già accennata, divisa in tre volumi. Lo stile di esse è, come in tutte le altre opere di Bernardo, assai elegante, ma di una eleganza la qual più converrebbe a’ discorsi accademici, che a lettere famigliari, il cui più bqJTornamento è quella naturale semplicità che tanto è più difficile, quanto meno sembra studiata. XL. Sopra tutto però le imprese di Carlo Magno, e dei' Paladini che ne seguian l’esercito, occuparono i poeti di questo secolo. Fino al precedente si eran veduti i Reali di Francia di Cristofano Altissimo, il Buovo d’Antona, l’Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, il Mambriano del Cieco, il Morgante del Pulci, ed altri a lor luogo da noi mentovati. Ma al principio del secolo di cui scriviamo, un altro ne venne in luce, che oscurando la gloria di tutti i già pubblicati, li fece quasi dimenticare, e tra tutti i romanzeschi poemi occupò il primato, in maniera che niuno ha finora osato di contrastarglielo. Ognun vede ch io parlo dell' Orlando furioso di Lodovico Ariosto, nome all'italiana poesia troppo glorioso, perchè non dobbiamo trattenerci alquanto nel ragionare di lui. E ci è agevole il farlo dopo le tre Vite fin da quel secolo scrittene da Giambattista Pigna, da Simone Fornari e da Girolamo Garofolo, dopo il bell’articolo che ne ha dato il conte. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 1060, ec.), e dopo l’ultima esattissima Vita che ne ha pubblicata il signor Giannandrea Barotti, la quale con nuova giunta è stala di TERZO 1813 fresco inserita nel primo tomo delle Memorie degl’illustri Ferraresi. Niccolò di Rinaldo Ariosti gentiluom ferrarese, il quale dal marchese di Mantova Lodovico Gonzaga, in un passaporto accordatogli a 13 di ottobre del 1471 » è onorato col titolo di conte e di suo famigliare, fu il padre di Lodovico; ed ei l ebbe da Daria Maleguzzi gentildonna reggiana sua moglie, che il diè alla luce agli 8 di settembre del 1474 in Reggio, ove allora Niccolò era capitano della cittadella pel duca Ercole I. Fin da’ primi anni ei diede a vedere quanto felice talento sortito avesse per la poesia e per l’amena letteratura, scrivendo, come meglio sapeva, a foggia di dramma la favola di Tisbe, e insieme co’suoi fratelli e colle sorelle rappresentandola in sua casa. Il padre volle costringerlo allo studio legale; ma Lodovico mostravasene così svogliato, che finalmente dopo cinque anni gli fu permesso di applicarsi a ciò che più gli piacesse. Tutto adunque si volse allo studio della lingua latina sotto la direzione di Gregorio da Spoleti (a); e coltivando al tempo medesimo l’italiana, scrisse in prosa in età ancor giovanile le due commedie, La Cassaria c I Suppositiy (a) In alcune memorie niss. intorno alla città di SpoIcti, indicatemi dal eh. sig. Annibale Mariolti, si legge che Gregorio da Spoleti era nato in Valle S. Pietro, luogo due miglia distante dalla città, che l'u detto ElLulio, nome probabilmente preso da lui, o a lui adattato, per indicare l’amor eh’ egli avea alla greca letteratura; che in gioventù hi agostiniano, e clic poscia a persuasion del celebre medico Pier Leoni depose ijuelf abito, e che finalmente inori in Lione. 1 3 14 LIBRO clic furon poscia da Ini recale in versi sdruccioli. Questa inclinazione dell Ariosto pe componimenti teatrali dovette dare occasione a ciò che Virginio di lui figliuolo nelle sue Memorie della Vita del padre lasciò accennato, cioè: Come fu condotto dal Duca Ercole a Pavia sotto specie di far Commedie. Il dott Barotti confessa che di tal gita a Pavia e con tal pretesto non trova notizia alcuna. Ma io penso che ciò debba intendersi del viaggio che fece a Milano nell an 1491 il duca Ercole, da noi sull autorità della Cronaca di Ferrara mentovato nel precedente tomo (t.6, par. 3,p. i 314): A dì xv (d’agosto) il Duca Hercole, Don Alphonso, et molti altri si partinno da Ferrara per andare a Milano a solazzo, et per fare certe Commedie. La partenza di Gregorio, condotto in Francia nel i |<)9 da Isabella duchessa di Milano, quand ella fu colà menata prigione, e la morte di Niccolò suo padre, avvenuta nel 1500, recaron qualche disturbo agli studi di Lodovico, il qual nondimeno seppe continuarli in modo, che il Cardinal Ippolito d'Este il volle tra gentiluomini della sua corte. Due volte dal duca Alfonso fu spedito in suo nome al pontefice Giulio II, e nella seconda di queste ambasciate avendo trovato il pontefice altamente sdegnato contro il suo duca, ei fu a qualche pericolo della vita j il che si accenna anche dal figliuolo Virginio: Di Papa Giulio, che lo volse far trarre in mare. Il soprallodato Barotti dimostra quanto ingiustamente il Fornari abbia tacciato in tal occasion l Ariosto come inetto a maneggi politici, c pruova TERZO l8l5 insieme che anche tra T armi ci si mostrò di animo valoroso e guerriero (‘). Frattanto ci si (*) Se il sig. dott Barotti avesse potuto vedere i monumenti di questo ducale archivio segreto, ne avrebbe tratte alcune altre importanti notizie intorno all’Ariosto. Ma o non gliene nacque il pensiero, o non ebbe speranza di ottenerlo. A me dunque è toccata la sorte di farne uso prima di ogni altro; e godo di poter qui comunicare al pubblico il frutto delle mie ricerche. Il primo documento, che ci si fa innanzi, è una lettera da Isabella d’ Este marchesana di Mantova scritta al Cardinal Ippolito suo fratello a’ 3 di febbraio del i ‘)07, dalla quale raccogliesi che il cardinale aveale inviato l' Ariosto per congratularsi del felice suo parto, e questi le avea parlato del poema che stava allor componendo. Troppo interessante per ciò è questa lettera, perchè non debba essere qui inserita: Illustris. Domino Frat ri —. validissimo Doni. Ilipp iciae in Silice Diac. Esten, Etc. Rever. et Illustriss. Monsig. mio Corrieri. Et per la lettera de la S. V. Reverendiss. et a bocha da Ms. Ludovico Ariosto ho inteso quanta leticia ha conceputa del felice parto mio: Il che mi è stato suriirnamenle grato, cussi la ringrazio de la visitazione, et particolarmente di havermi mandato il dicto Ms. Ludovico, per che. ultra che mi sia stato accetto, representando la persona de la S. V. reverendiss. lui anche per conto suo mi ha addutta gran satisfazione havendomi cum la narratione de l’Opera che compone facto passar questi due giorni non solum senza fastidio ma cum piacer grandissimo; ch’in questa, come in tutte le altre actione sue ha havuto bon judicio ad eleggere la persona in lo caso mio. De gli rasonamenti, che ultra la visitacione havemo facti insieme Ms. Ludovico renderà cunto alla S. V. Reverendiss. alla quale mi raccomando. Mantua Tertio Februarii M. D. VII. Prego la S. V. che per mio amore provede al Gabriele, che ha tuolto per moglie la Servitrice de la Fe. Me. de Ma de quello officio che la gli ha promesso R. V. S. Obseq. Soror Isabella Marchionissa Mantuae. B. Capilupo. Due altre lettere dell Ariosto si consci vano scritte 181G LIBRO accinse a scrivere i) suo poema, e compiutolo con quaranta canti nello spazio di circa dieci da Ferrara al Cardinal Ippolito a’ 7 di settembre e a’ 22 di ottobre del 1509), in cui gli dà ragguaglio delle nuove di guerra che allor correvano. Della spedizione che di lui fece il duca Alfonso a Roma nel dicembre del 1509, la quale rammentasi dal sig. Bar otti, abbiamo la pruova in un’ altra lettera da lui scritta al medesimo Cardinal Ippolito da Roma a’25 di dicembre dell’anno stesso, la quale però è stata in parte consunta dal fuoco. In essa egli dice che nell andare a Roma ha corso pericolo d affogarsi per le piene dell acque, e che perciò non potrà tornar sì presto a Ferrara. E aggiugne che in quel giorno medesimo si ei a sparsa in Roma la nuova della battaglia navale, in cui il Cardinal Ippolito avea sconfitti i Veneziani, della quale tutta la città erasi rallegrata. A questi tempi medesimi dee anche appartenere un'altra lettera senza data scritta dall Ariosto da Reggio al Cardinal Ippolito a Parma, in cui lo avvisa che, giunto a Reggio, avea udito che Alberto Pio, a cui dovea parlare in nome del cardinale, trov a vasi allora in Carpi, e che essendo quelle strade in« lestate dalle truppe pontificie, aveagli spedito un messo per concertare il modo con cui potessero abboccarsi. Un’ altra ambasciata, affidata dal duca Alfonso all’ Ariosto, ci viene indicata dai monumenti di questo archivio, cioè al duca d’ Urbino Lorenzo de Medici per condolersi della morte di Maddalena di lui consorte, avvenuta nell aprile del 1519. Ma l Ariosto, giunto a Firenze, udì che anche il duca era morto, ed ecco la lettera ch’egli scrisse in tal occasione al duca Alfonso. Illuslriss. et Fxcellcntiss. Doni. tl. un o singulariss. Dtu t Ferrariae. Cito. Cito. Illustriss. Sig. mio hor hora che son xix hore son giunto in Fiorenza; et ho trovato, che questa mattina il Duca d Urbino è morto, per le qual cosa sono assai in dubbio di quello cho a far, perchè' andar a condolermi de la morte de. la Duchessa non so con chi, ma.tintamente che mi par che la morte del Duca importi tanto ch’ abbia fatto scordar i dolori de la Duchessa. Finalmente mi risolvo di aspettar nova commissione da TEMO 1817 anni, ne fece in Ferrara la prima edizione nel i5i6, e rivedutolo e correttolo più volte vostra ExceUenzia, et in questo mezo starmi nascoso con ms. Piero Antonio, acciò parendo ch' io mi condoglia col Card, de’ Medici, et con quel de’ Rossi, de’ quali l uno o t altro si aspetta hoggi o domattina, io possa far l uno e l altro officio, et anco quando a Vostra Excellenzia paresse ch io facessi solo quello, per il che fui mandato, io potrò dir com ero venuto per dolermi de la morte de la Duchessa, ma havendo veduto questo novo caso mi son restato per non esser importuno, sicchè vostra Excellenzia mi avvisi quanto ho a fare, et s’ anco io fallo a non far quello, che mi è stato commesso, quella mi perdoni ch’ ho fatto per far bene, et in grazia di V. Illustriss. S. mi raccomando. Florentiae IIII Maji. Humilis. Servidor Lud. Ariostus. La data di questa lettera, e l’affermar ch’ivi fa l Ariosto, che il duca d*Urbino era morto quella mattina, sembra persuaderci che questo principe non morisse già a' 28 di aprile, come comunemente si scrive, ma a’ 4 di maggio. Molte poi sono le lettere che nello stesso archivio conservansi, scritte dall’Ariosto, mentre trovavasi commissario nella Garfagnana, benchè non poche di esse sieno malconce dal fuoco e dall’acqua. La prima è de’ 22 di giugno del 1522, l’ultima de’ 2 d’agosto del 1524 e quasi tutte raggiransi intorno a’ pubblici affari di quella provincia, e singolarmente intorno a certi sediziosi che la sconvolgevano. Una tra le altre è degna di considerazione per la libertà con cui in essa si duole che il duca non sostenga la sua autorità, e gli ordini da lui dati in quel suo governo, ma si lasci talvolta piegare ad annullar le sentenze da esso date. Finalmente in questo ducale archivio camerale abbiamo l’ordine del duca Alfonso I, perchè PAriosto sia segnato tra gli stipendiati della sua corte, ch è il seguente: Mandato D. nostri Ducis, ec. Vos Magn, ejus Factores generales, ec. describi faciatis in Bulleta stipendiatorum et familiarium ipsius Domini doclissim. Firum Tihaboscu 1, yol. XII. i8i8 libro col parere ancor degli amici nelle diverse edizioni che se ne fecero negli anni seguenti, ne fece poi Pultima lui vivente in quarantasei canti, stampata parimente in Ferrara nell*unno an:1532. Del poco favorevole incontro con cui dicesi che accolto vedesse il suo poema dal cardinal Ippolito, della disgrazia ch egli ne incorse per non aver voluto seguirlo nel viaggio d Ungheria, del compenso che alla sua sventura trovò nella protezione del duca Alfonso, abbiam già parlato abbastanza nella prima parte di questo tomo (p. 41, ec.), perchè dobbiam qui ripetere il già detto. È certo però, che l'Ariosto non ebbe nè quella tranquillità di vita che a coltivare con più agio i suoi studi sarebbe stata opportuna, nè quella lieta sorte che poteva da essi sperare. Per molti anni dovette sostenere molestie e dispendiose liti colla ducal Camera, delle quali parlano oscuramente gli scrittori della Vita ma alcune Memorie cortesemente trasmessemi dal sig. dott Antonio Frizzi, custode del pubblico archivio di Ferrara, ci mostrano (a) ch’esse furono per la pingue tenuta detta delle Arioste nella villa ili Ludo\'ìciun Ariosluni cani sa Li rio se n forum ~ idest tib.xxt quo libtt mense, ri curri impensa prò virtù trinai prruinarum et (inorimi equorwn. Bonaventura Pistopliilius Due. Caliceli. 23 Aprii. 1518. (a) Le Memorie della famiglia Ariosti con somma esattezza compilate dal sig. dott Frizzi hanno poi veduta la pubblica luce nella Raccolta ferrarese d’Opuscoli (t. 3, p. 80, ec.), e in esse si potrà vedere assai bene svolto e provato singolarmente ciò che appartiene al matrimonio di M. Lodovico. TERZO 1819 Bugliuolo sul Ferrarese, alla quale, dopo la morte di Rinaldo Ariosti, tre diversi eredi aspiravano, Lodovico come il prossimo nell agnazione, i Minori conventuali per un certo loro F. Ercole, che diceasi figlio almen naturale di Rinaldo, e la ducal Camera, a cui pretendeansi devoluti que beni come feudali. Alfonsino Trotti fattor ducale fu il primo giudice in tal causa, e l’Ariosto di leggeri si persuase che la sentenza a lui contraria ch ei proferì, movesse dalla inimicizia che già era accesa tra essi, e di cui si veggon gl indicii in alcune poesie di Lodovico. Fu indi rimessa al celebre giureconsulto Lodovico Catti, il quale, dopo avere tergiversato, fece intender agli Ariosti che meglio sarebbe stato per essi il cedere alle loro ragioni, qualunque esse si fossero, come di fatto avvenne. A questo dispiacere un altro forse non minore si aggiunse, quando il duca Alfonso, con animo di premiar l’Ariosto, gli conferì nel 1522 l impiego di commissario nella Garfagnana, impiego onorevole ed utile, ma poco gradito al poeta che un più tranquillo soggiorno avrebbe bramato. Resse nondimeno quella provincia felicemente per tre anni, e in questo frattempo scusossi dall ambasciata al nuovo pontefice Clemente VII, che il duca gli avea fatta offerire. Tornato a Ferrara, attese principalmente a perfezionare le sue Commedie, e a comporne altre nuove, e a ritoccare il suo Furie 0^ la cui ultima edizione fatta nel 1532 era ar ena uscita alla luce, ch ei fu sorpreso dalla mortal malattia la quale in età di cinquantotto anni, a' 6 di giugno del 1533, il condusse al 1820 Libro sepolcro. Ei lo ebbe dapprima nella vecchia chiesa di S. Benedetto. Quindi Virginio di lui figliuolo fabbricata avendo nell orto di sua casa una cappella, avea in essa fatto innalzare un mausoleo per farvi trasportar Possa del padre; ma que monaci nol permisero; e poichè la nuova lor chiesa fu fabbricata, Agostino Mosti gentiluom ferrarese un più onorevol sepolcro gli fè’ erigere nel 1572, finchè nel 1612 un nuovo e ancor più magnifico n ebbe nella chiesa medesima per opera di Lodovico di lui pronipote. Così anche dopo la morte fu l Ariosto onorato, come era stato vivendo; perciocchè, comunque il frutto che da’ suoi studi egli trasse, non fosse molto, fu nondimeno avuto da’ principi e da ragguardevoli personaggi in molta stima. Fra essi il pontefice Leon X, benchè non fosse verso dell’Ariosto sì liberale, come alcuni han creduto, gli diè nondimeno più pruove di stima e di amore; e io ne accennerò solo (poichè non veggo che altri ne faccian menzione) il Breve scritto dal Bembo in nome del papa a’ 20 di giugno del 1515, in cui gli concede il privilegio per la stampa del suo poema, che comincia: Singularis tua perque vertus erga me familiamque meam benevolentia, egregiaque bori arimi artiurn literaruinqne doctrina, atque in studiis mitioribus prasertimque Poetices elegans, ac praeclarum ingenium, jure prope suo exposcere. videntur, ec. (Bembi Epist. Leon. X nomin. l. 10, cp. 4°)? parole che confermano Popinione che PAriosto fosse in Firenze prima ancor del pontificato di Leon X, e forse ancora che si trattenesse più tempo TERZO l82I clic non Ita credulo il signor Barolli; poiché altrimenti non si può facilmente spiegare come nascesse l antica benevolenza dell’Ariosto verso Leone e la famiglia tutta dei’ Medici. Anche il celebre Alberto Pio signor di Carpi amò assai PAriosto, c par che questi stesse con lui qualche tempo, se è vero ciò che raccontano a provar l’astrazione a cui era il poeta soggetto) cioè che uscito una mattina da Carpi in pianelle per far passeggio, si avanzasse passo passo tant’oltre, che giugnesse senza avvedersene fino a mezza strada di Ferrara, e che continuasse poscia, così com'era, il cammino fino alla patria. Se crediamo a un documento citato nella recente Vita di Veronica Gambara, da noi rammentata in questo capo medesimo, il marchese del Vasto trovandosi agli 8 di ottobre dell'anno 1531 in Correggio, ov era pur l'Ariosto, gli assegnò un’annua pensione di 100 ducati d’oro da conseguirsi sopra le rendite di un castello sul Cremonese (Vita di Ver. Gambara, innanzi alle Rime di essa, p. 67) (*). Onore (*) L’atto autentico con cui il marchese del Vasto fece all’Ariosto il donativo qui accennato, non agli 8, ma a’ 18 di ottobre del 1531, conservasi originale nell’archivio della città di Correggio, e avendomene gentilmente trasmessa copia l" eruditissimo sig. dott Michele Antonioli, piacemi di riferirlo qui in parte: In Christi nomine: Amen. Anno a Nativitate ejusdem millesimo quingentesimo trigesimo primo Indictione quarta die decimo octavo mensis Octobris, Cum deceat Principes magnos, ac claros exercituum Imperatores, erga Viros excellentes do etrina, et presertim Poetas, fore liberales et munificos, qui semper militie.preconium fecere; igitur coram me Notario et testibus infrascriplis Tiiiaboschi, Voi. XII. 42* 1822 LIBRO ancor più cospicuo sarebbe quello della solenne coronazione, che dicesi a lui conferito da Carlo V. Ma questo è fatto mollo dubbioso* e io rimando i lettori a ciò che ne hanno scritto il conte Mazzucchelli e il dottor Barelli. A me sembra che abbia pruova di dimostrazione in contrario f autorità di Virginio figliuolo di Lodovico, il quale in certe Memorie intorno alla vita del padre, scritte di sua mano, così lasciò scritto: Egli e lina baia che Jossc coronato. Che se pure esiste veramente il lunghissimo privilegio di Caño Prì accennato da Apostolo Zeno in certe sue Memorie mss. presso il conte Mazzucchelli, converrà dire che la coronazione non consistesse in altro clic in un diploma, con consti tutus Jllustrissimus et Excel leu tissi mus Dominus D. Alplionsus Davallos de Aquino Marchio Vasti, Comes Montis risi, ma gnus Camerarius Regni ¡Scapoli tani, et Cesaris in Italia Capilaneus genera list agnoscens maximam doctrinam, ac claram et perexcellentem Poesim, que no stris temporibus et etate effitisi t in excellentem Doni. Ludo vi curii Ariostum nobilem Ferrariensem... titulo pure, mere, simplicis ac inter vivos irrevocabilis donai ionis pred. Dom. Ludovico presenti et acceptanti, et gratias reverenter agenti, dedit, tradidit, et donavit pensionem fructus redditus et proventum centum Ducatorum auri singulo anno perei picudo rum in et super dohana, dacio, seu gabella mercationum Castri et oppidi sui Castri Leonis Dioc. Cremonensis pro se durante ejus vita ad habendum, ec. Actum in Castro veteri terre Corrigie ac in Palatio hereditatis Illustriss. qu. D. Jo. Francisci de Corrigia in quodam Camerino deaurato ad tassellum versus arcum super plaleam re spici ente, presentibus eximio physico et Magistro Theseo qu, D. Qui ri ni de Frassectis ac Magn. et Clar. Iurisconsulto D. Paulo qu. Magn. D. Gabrielis Brunorii de Corrigia testibus ec. Antonius de Covis fluì. terzo i8a3 cui clalT imperadore ei fosse dichiarato poeta laureato, col qual titolo infatti lo veggiam nominato in alcuni documenti, de’ quali ora diremo. E ancorchè avesse ei veramente ricevuto l’onore della corona, era questo allora decaduto tanto di pregio, che non era cosa a vantarsene molto. Perciocchè veggiamo che fra privilegi accordati ad alcuni illustri personaggi, era talvolta ancor quello di coronar i poeti. Così in un privilegio dall imperador Massimiliano I conceduto a’ 3 di agosto del 1501 a Urbano Serralonga cittadino d'Alba, e consigliero suo e del marchese di Monferrato (del qual monumento mi ha trasmessa copia il ch. signor baron Vernazza) tra le altre cose gli accorda ancora, ut fac ere, creare, et instituere possit Poetas laureatos ac quoscumque, qui in libcralibus arti bus, ac maxime in carminibus, adeo profecerint, ut promoveri ad poeticam et laureatum merito possint Dal che può ognuno comprendere facilmente quanto venisse a rendersi volgare un tal onore, di cui perciò non è più a far conto. Ma torniamo all’Ariosto. Dell’indole e de’ costumi dell’Ariosto parlano a lungo i due suddetti scrittori) e io, lasciando che ognun ne vegga presso di essi la descrizione, accennerò solo la nuova scoperta fatta dal soprallodato dott Frizzi, e da lui comunicata al dott Barotti sugli ultimi giorni della vita di esso, e inserita perciò nella prefazione al mentovato primo tomo delle Memorie; cioè che rAriosto ebbe veramente moglie, benchè solo negli ultimi anni, e ch’essa fu Alessandra figlia di Francesco Benucci fiorentino, e moglie prima i8a4 LltlRO di Tito di Leonardo Strozzi nobile ferrarese. E questa è forse quell’Alessandra cognata di Niccolò Vespucci da Firenze, di cui, secondo il Fornari, s’invaghì l’Ariosto, e quella ch’egli intese di celebrare, ma senza nominarla, nel suo Orlando (c. 42, st. 93, ec.). Da lei però non nacque Virginio figlio di Lodovico, di cui si posson vedere le notizie presso il co. Mazlegittimato nel 1530. Quanto all'altro figliuolo naturale di Lodovico, cioè Giambattista, che fu legittimato solo nel 1538, non sappiam di chi fosse figlio. Certo nol dovett’esser di Alessandra, perchè, se ciò fosse stato, non si sarebbe differita di tanto la legittimazione, quando pure fosse egli nato prima che Lodovico la prendesse in moglie (a). A' due figli di esso possiam congiungere i due fratelli ch’egli ebbe, cioè Gabriello e Galasso, amendue coltivatori de’buoni studi, de’quali ragiona il suddetto conte Mazzucchelli ivi, p. 1059, ec.). Solo dee (a) 11 sii», marchese senatore Filippo Ercolini principe del S. R. 1., da me altre volte lodato, ha presso di sè copia autentica non solo della legittinmi'on di Virginio fatta nel i53o, ma di quella ancora di Giambatista fatta dal Cardinal Lorenzo Campeggi per rogito di Caminillo Morandi a’d’aprile del i53H. dopo la morte di Lodovico. Da essa raccogliesi che Giambatista era figlio di una donna libera detta Maria, la qual sembra che fosse ili onesta nascita, poiché nell’atto si dice che se ne tace per onestà il cognome e la condizione, e ch’egli avea allora trontasei anni di età; e che essa fu accordata ad istanza di Galasso e di Alessandro fratelli di Lodovico e perciò zii di Giambatista. tebio i8a5 correggersi questo scrittore, ove assegna la morte (di Gabriello al 1552 incirca, perciocchè i documenti indicatimi dal soprallodato dott Frizzi ci mostrano ch’ei morì a 13 di maggio del 1549 Ma dalla persona dell Ariosto tempo è che passiamo alle opere da lui lasciateci. XLI. Se altro di lui non avessimo che YOrlando furioso, basterebbe quest opera sola a renderne il nome immortale. Con qual plauso venisse accolto questo poema, abbastanza il pruovano e le oltre a sessanta edizioni che nel corso di quel secolo se ne fecero, e le tante versioni che nelle principali lingue d Europa, e anche in più dialetti italiani, ne furon fatte, e i comenti, le lezioni, le spiegazioni, ec. colle quali fu illustrato, e i libri divolgati in difesa di esso, e gli elogi che ne han sempre fatto tutti coloro che hanno qualche idea del buon gusto, se se ne traggano alcuni che dallo spirito di partito si lasciaron condurre a scriver in modo che da essi medesimi in altre circostanze sarebbe stato ripreso. Io recherò solo un passo di una lettera di Bernardo Tasso, che nel 1559 scrivendo al Varchi, così descrive l altissima stima in cui esso era: Non edotto nè artegiano, non è fanciullo, fanciulla, nè vecchio, che d averlo letto più d una volta si contenti. Non sono elleno le sue stanze il ristoro, che ha lo stanco peregrino nella lunga via, il (quale il fastidio del caldo e della lunga via cantandole rende minore? Non sentite voi tutto dì per le strade, per li campi andarle cantando? Io non credo, che in tanto spazio di tempo, quanCè corso dopo che quel dottissimo iSuf» MBRO (ì eri tduomo mandò in man de<di uomini il suo Poema, si sian stampati, nè veduti tanti Omeri ne f'irgilii, quanti Furiosi (B. Tasso, Lettere, t. 2, lett. 165, ed. Comin.). Egli è vero che non mancarono al Furioso riprensori e nimici. Altri ne tacciarono l’orditura, rappresentandolo come un poema a cui manca e unità di azione, e intreccio di vicende ben ordinato; altri ne ripreser lo stile, additandovi errori di lingua, rime sforzate, espressioni volgari e plebee; altri pretesero che dell’opera di Annibale Bicchi soldato sanese ei si fosse giovato molto per migliorarlo, e correggerlo quanto alla lingua; altri ne biasimarono i racconti inverisimili ed esaggerati di troppo; altri, e con assai più ragione, ripresero le laidezze di cui avea imbrattato il poema. Il catalogo di tutti coloro che scrisser contro l’Orlando furioso, si può vedere presso il conte. Mazzucchelli, e ad essi dee aggiugnersi Ortensio Landi che fu uno de’ primi a parlarne con biasimo (Sferza degli Scritt. p. 21). Ma dopo tutte le critiche fOrlando furioso ò sempre stato e sarà sempre considerato come il migliore tra’ romanzeschi poemi, e io non temerò di chiamar felice e la negligenza dello stile, e il disordine de racconti, e qualunque altro letterario difetto si voglia rimproverare all 'Orlando, poichè forse se l’Ariosto l’avesse più scrupolosamente purgato, esso non avrebbe que' tanti e sì rari pregi che vi ammiriamo. Ciò basti per ora intorno all Orlando, perchè di esso dovrem di nuovo parlare, ove ragionando del Tasso entreremo a trattare della famosa quistione di precedenza TERZO 1827 tra questi due poeti. Come nel poema romanzesco, così in due altri generi di poesia fu l’Ariosto il primo scrittore di cui a ragione potesse gloriarsi la poesia italiana, cioè nelle Satire, delle quali già abbiamo osservato che a lui si dee la lode di aver arricchita la lingua italiana, poichè quelle ch eransi avute in addietro, non erano che rozzi abbozzi, indegni di stare al confronto colle latine j e nelle commedie in versi, delle quali vedremo tra poco che fu parimente l’Ariosto il primo scrittore che potesse la nostra lingua mostrare con sicurezza di averne lode. Molte altre rime abbiamo dell’Ariosto, nelle quali pure si scorge quella inimitabile felicità e quella fecondissima immaginazione che distingue le opere di questo maraviglioso scrittore da quelle di ogni altro. Anche nella poesia latina egli esercitossi non senza lieto successo, benchè non sembri che per essa avesse egli sortito dalla natura quella sì felice disposizione che sortito avea per l italiana. De cinque canti, ch’egli aggiunse per continuazione del Furioso, ma che son di molto ad esso inferiori, di un dialogo in prosa italiana, intitolato l’Erbolato, di alcune Lettere italiane (*), di altre opere dall’Ariosto intraprese, ma o non finite, o non pubblicate, o perdute, non giova ch'io parli minutamente, potendosi consultare l esattissimo articolo del co. Mazzucchelli.
1.1 ' (*) Una lettera delfAriosto al Cardinal Giovanni de’ Medici che fu poi Leon X, scritta da Ferrara n" a5 di novembre del i5i 1, è stata pubblicata dal chiarissimo sig. canonico bandini (Coll. vcl. Monum p. 5G). 1828 unno XLU. Dopo aver parlato dell' Orlando furioso, appena io ho coraggio di rammentare altri poemi di tal natura, quai sono il Danese Uggieri di Girolamo Tromba da Nocera, la Morte del Danese di Casio da Narni, la Morte di Ruggiero di Giambattista Pescatore da Ravenna, l'Anteo Gigante, e i Trionfi di Carlo Magno di Francesco de' Lodovici veneziano, e moltissimi altri romanzi in ottava rima, dai’quali fu in questo secolo innondata l'Italia. L'applauso con cui fu accolto il Furioso dell'Ariosto, accese in molti il desiderio di rendersi somigliantemente immortali; e la facilità dello stile con cui esso è disteso, fece che col desiderio nascesse ancor la speranza di pareggiarlo. E forse alcuni si persuasero che le lor fatiche fossero meritevoli di ugual sorte. Ma la saggia e imparziale posterità ha deciso contro di essi. L’ Orlando furioso forma ancora le delizie e l'amore de’ più leggiadri ingegni, e gli altri poemi si giacciono tra la polvere, e servono solo di pascolo agli oziosi amatori degl'insipidi e mal tessuti romanzi. Due soli mi sembran degni di essere fra l’ignobile turba distinti alquanto. Il primo è il famoso Teofilo Folengo, di cui abbiam l Orlandino, stampato la prima volta in Venezia nel 1526, sotto il nome di Limerno Pitocco da Mantova, poema burlesco pieno di piacevoli fantasie e di poetica vivacità, ma degno di biasimo per le sozzure di cui l’ ha imbrattato. Dell' autor di esso ci riserbiamo a parlare nel capo seguente. L'altro è l’Angelica innamorata, del conte. Vincenzo Brusantini ferrarese. che venne la prima volta a luce nel 1550 in Venezia, c clic comunque TERZO 1829 6Ìa lungi dalla facilità ammirabile dell Ariosto, ha nondimeno gravità e vivacità maggiore degli altri poemi di tal natura. Di questo poeta ci ha date copiose notizie il conte. Mazzucchelli (l. c. t. 4 par. 4 p 2234), le quali però essendo fondate solo sulla testimonianza di Alessandro Zilioli, non so se debban credersi bastantemente sicure. XL11I. Niuno de’ poemi finor mentovati era tale a cui il nome di poema epico, secondo le regole fissate già da Aristotele, e dagli adoratori di quel filosofo scrupolosamente adottate, si convenisse; perciocchè mancava ad essi l’unità dell’ azione, e il soggetto n era tratto da favolosi romanzi, nè vi era quell’ordinata successione di vicende e di fatti che volevasi a tai poemi richiesta. L’Italia però non fu lungamente priva di questo genere di poesia; e il primo che ardisse tentarlo, fu Giangiorgio Trissino. Di questo illustre scrittore non ci sarà difficile il dare le più accertate notizie; perciocchè, dopo altri scrittori, le han diligentemente raccolte il sig. Pier Filippo Castelli vicentino nella Vita che l’an 1753 ne ha pubblicata, poscia il P. Angiolgabriello di Santa Maria Scrit. vicent. t. 2, par. 2, p. 229). Da Gasparo Trissino vicentino e da Cecilia Bevilacqua veronese, famiglie amendue nobilissime, nacque Giangiorgio agli 8 di luglio del 1478 in Vicenza. Gli autori della Vita combattono ciò che narrasi dall Imperiali (Museum histor. p. 4^) » cioè che il Trissino in età di soli ventidue anni cominciasse a coltivare gli studi; e il primo di essi per confutarlo rammenta i maestri ch’egli ebbe, l83o LIBRO cioè un certo prete Francesco di Gragnuola in Vicenza, e Demetrio Calcondila in Milano. Ma a dir vero, ciò non basta a provare ch’egli fin d i’ primi anni attendesse agli studi ■ perciocché ei potè averli a maestri in età non più fanciullesca. E che di fatto il Trissino tardi prendesse a studiare, ne abbiamo una indubitabile testimonianza in una lettera a lui medesimo scritta da Giano Parrasio, la quale è insieme un magnifico elogio di questo poeta: Accessisti se ras ad studia Litterarum ex indulgentia parentum, qui filio timebant unico spem in sucre s sio ni s, et maximarum opum clarissimae familiae suscepto. Dii boni! quam cito non modo Lati turni, sed etiam Graecam vorasli li tignarti! ve ri or belino librorum, quam M. Cato. Revocasti vetus exemplum Luculli, quod in Academicis a Cicerone memoratur', et a Plutarcho. Predicantem Demetrium socerum (qui tam falli nescit quam mentiri) virum minime blandum saepe audivi, neminem ex ejus auditoribus adeo brevi tantum profecisse, quod ita plane esse experiebar ego Mediolani, si quid abstrusius occurrebat apud auctores (Quaesit. per Epist. p. 103, edit. Neap. 1771)- lì Trissino, grato al Calcondila suo maestro, poichè questi morì in Milano nell’an 1511, gli fece innalzare un bel deposito, come di lui parlando abbiamo osservato. Nè solo alle lingue greca e latina, ma attese egli ancora alla matematica, alla fisica, all’ architettura e a tutte quell arti che ad uom nobile son convenienti. Il Papadopoli, citando alcuni altri scrittori, troppo però lontani da’ tempi del Trissino, aggiugne ch'ei fu f TERZO I83I ancora agli studi nell'università di Padova (Hist. Gymn. patav. t. 2, p. 56), il che, come non è improbabile, così non è neppure abbastanza provato. Mortagli la prima moglie Giovanna Tiene, per trovar sollievo al suo dolore, andossene a Roma, ove eletto frattanto pontefice Leon X, questi prese ad amar molto il Trissino, di cui conobbe i rari talenti, e lo impiegò in onorevoli ambasciate al re di Danimarca, all' imperadore Massimiliano e alla Repubblica di Venezia, le quali il fecero salire in molta stima presso que’ principi, a' quali fu inviato. Dopo la morte di Leone fece ritorno alla patria. Ma Clemente \ II, dopo il breve pontificato di Adriano VI, richiamollo a Roma, e di lui pure si valse in onorevoli commissioni e in ambasciate principalmente a Carlo V, e alla suddetta Repubblica, e volle ancora che in occasione della solenne sua incoronazione in Bologna, il Trissino gli sostenesse lo strascico. Compiuta quella solenne cerimonia, ei fece ritorno alla patria, sì per vivere tranquillamente colla seconda sua moglie Bianca Trissino, come per ultimare una lunga e fastidiosa lite ch’ egli ebbe a sostenere con alcuni Comuni da lui dipendenti. La Repubblica veneta e Vicenza sua patria gareggiaron tra loro nell’ onorarlo, e nel sollevarlo ad onorevoli impieghi (*). Ma altre moleste liti, O Ninno ha ancora avvertito che il Trissino avesse sorte alcuna di servitù, o di corrispondenza col duca di Ferrara Ercole II. Ma due lettere da lui scritte a questo principe, che si conservano in questo ducale archivio, ce ne fan fede. La prima è scritta da Vicenza a 9 di marzo del 1538, e in essa egli si scu>a di 1 83 3 LIBRO eli’ egli ebbe con Giulio suo figlio avuto dalla prima moglie, lo mossero a lasciar di nuovo la patria, e a ritirarsi nell isola di Murano presso Venezia e poscia, perduta la lite, e vedutosi spogliato dal figlio di una gran parte de suoi beni, andossene a Roma, ove nel 1550 sul principio di dicembre finì di vivere \ ed è degna d'esser letta una lettera che contiene una esatta relazione di questa morte, pubblicata dal soprallodato P. Angiolgabriello. Alcuni hanno affermato ch ei fosse cavaliere dell1 Ordine del non aver potuto finallora venire a Ferrara per cagione «Iella sua gotta, e dice che verrà quanto prima. La seconda, scritta da Cricoli a’ 23 di setlembre dello stesso mino ci mostra che il duca aveagli chiesta informazione di persona che fosse atta a istruir nelle lettere il principe suo figlio; che il Trissino avea creduto dapprima, che il duca l’avesse solo interrogato intorno a M. Donato Giannozzi; e di lui aveagli scritto; ma ora avendo meglio conosciuta l’intenzione di esso, gli dice che i migliori sarebbono M. Lazzaro da Bassano, cioè il Buonamici, e M. Romolo Amaseo; ma che leggendo imo in Padova, 1’ altro in Bologna, non era possibile averli, e lo stesso dovea dirsi di Batista Egnazio e di Giovita Rapido; die restavano M. Pierio Valeriane, M. Francesco Contermio e M. Trebazio, de’ quali il primo sarebbe ottimo; il secondo non è inferiore agli altri nè nello scrivere, nè nell1 insegnare, e forse potrebbesi avere per essere già cLi alquanti giorni partito tla quesLt Accademia. Il terzo nou è si elegante, ma sa assai bene di latino e di greco, e potrebbesi anche aver facilmente, perchè ave:» allora lasciato il vescovo di Brescia, e si era ridotto in Padova. Aggiugne per ultimo che M. Giovanni Cornaro gli avea scritto in raccomandazione di un certo M. Barlolummeo Ricci da Lugo (che fu veramente trascelto), ma che egli noi conosceva. Amendue sono scritte colle nuove lettere dui Trissino introdotte nella volgar lingua. TERZO 1833 Toson d’oro; alla quale opinione si mostra favorevole anche il sig. Domenico Maria Manni, che ha illustrato il Sigillo del Tris,sino (Sigilli, t., p- i37). Ma agli scrittori della Vita sembra più verisimile ch’egli avesse bensì il privilegio di usare di quell' insegna, e di prenderne anche il soprannome, ma che veramente non fosse mai a quell’Ordine ascritto. XLIV. Se all’intenzione del Ti issino avesse corrisposto l’effetto, niun poema potrebbe stare al confronto deli?Italia liberata da Goti. Omero fu il modello ch’ei si prefisse d’imitare, e un poema fatto ad imitazione di Omero non poteva non essere un poema degno d’immortal lode. Ma appunto perchè ei volle troppo imitare, fu imitatore non troppo felice, e la copia fu di molto inferiore all originale. Egli non avvertì che la diversità de’ tempi e la diversità delle lingue richiedevano ugualmente che diversa fosse la tessitura de’ racconti, delle descrizioni, delle parlate; e per formarsi sul modello di Omero, egli inserì nel suo poema narrazioni troppo minute e puerili, e languide e fredde orazioni. Al che aggiugnendosi la natura del verso non sostenuto dall’armonia della rima, e di suono troppo uniforme, ne è avvenuto che, dopo una fatica di venti anni che il Trissino impiegò in comporlo, benchè esso per l’erudizione, per l'eleganza e per altri pregi sia non poco stimato, appena nondimeno ritrova ora chi ’l legga. E così avvenne fin da que’ tempi. Bernardo Tasso, dopo aver parlato dell’Ariosto colle parole da noi poco innanzi recate, Non si vide all incontro, dice, che l Tiraboschi, Voi XII. 4^ 1834 libro Tri ss ino, la cui dottrina nella nostra età fu degna di maraviglia, il cui Poema non sarà alcuno ardito di negare, che non sia pieno d erudizione, e atto ad insegnar di molte belle cose, non è letto, e che quasi il giorno medesimo che è uscito a luce, è stato sepolto? In fatti dopo la prima edizione fatta in Roma de primi nove libri nell'anno 1547? e *n ^e" nezia nell’an 1548 degli altri diciotto, niun'altra se n’è più fatta fino all’an 1729. Di questa prima rarissima edizione ha copia la biblioteca Estense, e tra le Lettere scritte a D. Ferrante Gonzaga, che si conservano nell’ archivio di Guastalla, e delle quali io ho copia, una ve n’ha del Trissino de’ 3 di maggio dell an 1548, con cui da Vicenza gli manda copia de primi nove libri del suo poema. Il Fontanini osserva che avendo il Trissino nel suo poema inseriti alcuni versi che a scrittor cattolico non convenivano, egli stesso pentitone ne fece l’ emenda ristampando le carte, e da se mutando i versi già scritti (Bibl. dell'Eloq. ital. colle Note di A. Zeno. t. 1, p. 269). Intorno a quai cambiamenti riflette Apostolo Zeno nelle sue note che nella copia ch’egli aveane, parecchi versi del libro xvi a pag. 125, 127, 130, 132, erano non già cancellati, ma leggermente segnati d inchiostro; ma che in niuna copia avea egli trovate le mutazioni accennate dal Fontanini, fuorchè in una del sig. Giuseppe Farsetti patrizio veneto, in cui vedeansi cambiate le carte, ma con leggieri cambiamenti, a pag. 1 27, 2, 1 28, 2, e 131, 2. In quella che qui abbiamo, io non trovo alcun segno a que luoghi che il Zeno TERZO I835 indica segnali nella sua copia; ma ben vi trovo cambiate le carte ch’ ei vide cambiate nella copia del sig. Giuseppe Farsetti. Osserva però a ragione il medesimo Zeno che se il Trissino fece tai cambiamenti per rispetto alla Religione, assai più cose avrebbe dovuto toglierne, e singolarmente il pessimo e scellerato carattere ch’egli forma nel libro stesso del santo pontefice Silverio. Nella stessa prima edizione veggiamo usate le nuove lettere che il Trissino volle introdurre nella lingua italiana, e le quali diedero a lui occasione di scriver parecchi libri. de’ quali sarà d altro luogo il ragionare. Assai maggior applauso ebbe la Sofonisba tragedia del Trissino, di cui, come pure di una commedia da lui composta, diremo più sotto. Delle altre opere di questo illustre scrittore, altre pubblicate, altre inedite, io non farò distinta menzione, rimettendo chi legge a’ due suddetti scrittori, ai’ quali aggiugnerò solo che alcune Rime e due Lettere latine ne han pubblicate di fresco il ch. sig. Pierantonio Grevena (Catal. raison. t. 4, p 254, ec.). XLV. Gli altri poemi eroici che nel corso di questo secolo furon dati alla luce, non avendo nè il pregio della novità che fece ricevere con applauso quello del Trissino, nè quello della eccellenza che rendette sì celebre (quello del Tasso, di cui ora diremo, non ebbero comunemente che breve vita. Io lascio dunque di farne distinta menzione, restringendomi a dir in breve di tre soli ch’ ebber sorte alquanto migliore. Il primo è l’Avarchi de dell’Alamanni, di cui però si è già parlato abbastanza. L altro è l836 LIBRO il Costante di Francesco Bolognetti senator bolognese, le notizie della cui vita sono state compendiosamente raccolte dal conte Mazzucchelli (Scritt. it. t 2, par. 3, p. 1483, ec.), il quale ancora accenna gli elogi con cui gli uomini dotti di quell età accolsero il detto poema, mettendo l’autore al pari col Trissino, coll Alamanni e con altri colti scrittori. A questi elogi possiamo aggiugnere quelli di Pier Vettori e di Giannandrea dell Anguillara, alcune Lettere de quali scritte al Bolognetti sono state pubblicate di fresco (Anecd. rom. t. 1,p. 389, ec,> 407, ec.); e il secondo di essi paragonando PAriosto col Bolognetti, dice che gli par di conoscere in lui (cioè nel primo) più felicità di natura, ma non già nè più coltura nè più arte. Molte altre lettere ancora inedite e originali d’uomini illustri di quell'età, scritte al Bolognetti in lode di questo poema, io tengo presso di me per cortese dono fattomene dall ottimo e piissimo vescovo di questa città di Modena monsignor Giuseppe Maria Fogliani. Esse sono di Giambattista Giraldi e di Flavio di lui fratello, di Bernardo Tasso, di Carlo Sigonio, di Ercole Bent.ivoglio, di Girolamo Muzio, di Alberto Lollio; e tutti lodano altamente il Costante, benchè pure alcuni di essi lo avvertano di qualche cosa che in esso potrebbe emendarsi. Di questo poema uscirono i primi otto canti in Venezia nel 1565, e poscia fanno seguente in Bologna se ne fece una nuova edizione in xvi canti, ed altri quattro ne avea egli composti che non lian inai veduta la luce. Ma prima ancora del 1550 erasi egli in quel poema TERZO 183^ già assai innoltrato. Così ci pruovano alcune parole di Giambattista Pigna, ch io reco ancora più volentieri, perchè e contengono un bell elogio di questo poema, e ci accennano una doglianza che ne fece Giambattista Giraldi, come se il Bolognetti gli avesse involate alcune stanze: M. Francesco Bolognetti, dic egli (7?o* manzi} p. 116, ed. 1544)? heroicamente il suo Costante conduce, et ciò a giudicio d ogni dotto tanto più lode gli accresce, quanto più disagiosa è la strada, che a quel fine. l invia, ch' egli onoratissimamente si è proposto. Al qual fine pervenuto che sarà, siccome tuttavia vi giunge, potrà il mondo conoscere, che sue sono le stanze, ch. egli ha composte intorno alla casa di Nettuno, et allo Stato delle Nimphe del mare 7 et che da colui (cioè dal Giraldi) non le ha tolte, che imputa me per poco avveduto, perciocchè date gli abbia quelle, ch egli fece in simil materia. Io per fargli piacere lessi alcune cose sue all honoratissimo M. Francesco Spolverino allora Podestà di questa terra, cercando di porlo in sua grazia, et essendo in Bologna di Luglio del cinquanta, et dicendomi il Sig. Bolognetti in un ragionamento a proposito occorso di queste sue stanze, io che era stato pregato dal medesimo a mostrare agli uomini Letterati certe sue Rime scritte nell istesso soggetto, gliele mostrai. Ma egli nel suo Costante già le haveva tali appunto, quali hora vi si leggono. Et di ciò autentica fede ne fanno M. Vincenzo Buonaccorsi da Lucca, et Frate Cherubino Ghirardacci di S. Agostino, i quali di Gennajo del quarantanove scrissero cinque 1838 LIBRO libri di questo suo Poema. Esso è scritto con eleganza, e secondo le leggi (a). Ma benché fosse allora applaudito da molti, non potè nè eguagliare in fama l1 Orlando furioso, nè sostenersi al confronto della Gerusalemme liberata che alcuni anni appresso comparve. Oltre alcune altre rime, che si annoverano dal conte Mazzucchelli, abbiamo del Bolognetti un Capitolo in terza rima sulla legge contro il lusso, stampato non ha molto (Anecd. rom. t 2. p. 4*9)j oltre alcuni altri che si conservano mss. Il terzo degli accennati poemi è il Fidainante di Curzio Gonzaga, stampato in Mantova nel i582, del quale già abbiam ragionato nel parlar de’ Gonza gli i coltivatori e protettori delle lettere. Qui aggiugnerò solo clic alcune lettere di Curzio, scritte da Borgoforte nel.595 a D. Ferrante II, si conservano nel segreto archivio di Guastalla, e che tra alcune lettere inedite del Cardinal Ercole Gonzaga, clic sono in questa biblioteca Estense, ve n’ha una alf imperadore scritta a’5 di maggio del i559» con cui gli manda Curzio Gonzaga a congratularsi della pace conchiusa, e il prega ad ascoltarlo favorevolmente in tutto ciò che gli esporrà in suo nome. Egli fu ancora un di coloro che frequentarono l'accademia delle Notti Vaticane dal santo cardinale Carlo Borromeo raccolta in Roma, e ne fa menzione, oltre altri, Torquato («zi Del Bolognetti, del suo Costante, e di altre poesie di esso si posson vedere diligenti notizie nell' opera più volte lodata del co. Fantuzzi (Scritt. bologn, t. 2, n• ^3). TERZO 183() Tasso (Della dignità, Op. t. 3, p. 1 39, ed. Fir.), il quale ancora diè molte lodi al poema da Curzio dato alla luce, ma non potè con esse ottenere che dagli altri ancora fosse lodato; e ne fu cagione egli stesso, che pubblicando circa il medesimo tempo la sua Gerusalemme oscurò con essa tutti gli altri poemi finallor conosciuti. Di questo dobbiamo or ragionare, facendo prima conoscerne il celebre ma troppo infelice autore. XLVL Alcuni'si aspetteran forse ch’io entri qui a trattare la famosa quistione della patria del Tasso. Ma io crederei di gittare inutilmente, facendolo, e le parole e il tempo; perciocchè in somma ella è quistione di puro nome. Che Torquato nascesse di famiglia stabilita da gran tempo in Bergamo e di padre bergamasco, è cosa di cui i Napoletani stessi non muovon dubbio. Ch’egli nascesse in Sorrento nel regno di Napoli, i Bergamaschi medesimi mai non l hanno negato. Ecco dunque a che riducesi la gran quistione, se chi per accidente nasce fuor dalla patria debba riconoscer per patria l’ antica ed usata stanza della sua famiglia, o quella ove per caso ha veduto il giorno. Se il Petrarca fu d’Arezzo, se l’Ariosto fu reggiano, se Marcantonio Flaminio fu di Serravalle nella Marca Trivigiana, noi confesseremo che il Tasso fu di Sorrento. Ma se il primo benchè nato in Arezzo da tutti dicesi fiorentino, se da tutti dicesi ferrarese il secondo, benchè nato in Reggio, e imolese il terzo, benchè nato in Serravalle, io non veggo per qual ragione non si debba dir bergamasco il Tasso, benchè nato in l84o LIBRO Sorrento. E ciò basti aver detto di tal quistione, che si potrà vedere più a lungo trattata nel Parere poc’ anzi accennato dal ch. sig. abate Serassi. In Sorrento adunque nacque Torquato agli i r di marzo del 1544 Bernardo Tasso e da Porzia Rossi. Ne primi anni così parve arridergli la natura e la sorte, ch’ei poteva essere a molti oggetto d’invidia. Mandato a Napoli, ivi cominciò a frequentare le scuole dei PP. della Compagnia di Gesù (*); e vi fece sì rapidi e sì maravigliosi progressi, che due anni appresso potè recitare pubblicamente orazioni e versi da sè composti. Che se egli ebbe il dolore di vedersi costretto per le vicende del padre, già da noi rammentate, a lasciare il regno di Napoli, trovò un dolce compenso alla sua sventura nella sollecitudine che in educarlo si prese Maurizio Cattaneo gentiluom bergamasco abitante in Roma, ove attese principalmente allo studio delle lingue greca e latina. Così pienamente istruito nell’amena letteratura, passò per ordin del padre in età di dodici anni a Padova per coltivarvi le scienze più gravi, e con tal impegno ad esse ancora applicossi, che (*) Sull’autorità del march. Manso io avea affermato che il Tasso in età di cinque anni cominciò a frequentare le scuole de’ Gesuiti in Napoli. Ma è certo che questi non furono in quella città introdotti che nel i55ì (V. Orlanclin. Bisl. Soc. Jes. I. i5), e perciò il Tasso dovea allora contare alraen sette anni. Di questa osservazione io son debitore al eh. sig. Domenico Diodati giureconsulto Napoletano, già abbastanza noto al mondo per la molta sud erudizione nella seria e nella piacevole letteratura. TERZO I84I nell’anno diciassettesimo fu in quattro di esse, cioè nella giurisprudenza sacra e civile, nella teologia e nella filosofia onorato solennemente della laurea. Agli studi legali egli erasi rivolto soltanto per secondare i comandi del padre; ma seguendo l’esempio di tanti altri che nel decorso di questa Storia abbiam rammentati, presto se ne annoiò, e volse loro le spalle, per darsi tutto a’ poetici, a’ quali era dalla natura portato. La fama del raro ingegno del Tasso fece che il vice legato di Bologna Pier Donato Cesi, poi cardinale e legato, e protettore splendidissimo de' buoni studi, colà il chiamasse, e il Tasso recatovisi, diede gran saggio del suo talento in quelle accademie e in quelle pubbliche scuole. Il marchese Manso nella diffusa Vita che scrisse del Tasso, racconta che da Bologna ei fu richiamato a Padova da Scipione Gonzaga, il quale, avendolo in questa città conosciuto, non sapea stare da lui lontano. Ma una lunga lettera inedita di Torquato allo stesso vice legato, ch’ io tengo presso di me, scritta per altrui mano, ma da lui medesimo sottoscritta, ci scuopre un anedotto sconosciuto finora a chiunque di lui ha trattato. Da essa raccogliesi che il Tasso fu in Bologna accusato di essere stato l’autore d’alcuni versi infamatorii, che perciò gli fu da’ birri cercata tutta la casa, e tutti gli furono tolti i. suoi libri, ed egli perciò partissene da Bologna. Di quest’ accusa ei si purga con molta forza in detta lettera, e si duole dell’ ingiurioso trattamento che gli era stato fatto: Perchè, dic egli fra le altre cose, alla mia stanza per una lieve ne molto i8{3 • nono ragionevole sospizione si mandano gli sbirri, si procede ingiuriosamente co’ miei compagni, mi si togliono i libri? perchè si mandan tante spie attorno, per sapere, ov io fossi? perchè si sono fatti con un certo strano modo esaminar tanti honorati Gentilhuomini? Egli chiede pertanto di poter venire a Bologna, e di costituirsi presso qualche saggio ed imparzial giudice; il che però sembra che non accadesse. La lettera è scritta all'ultimo di febbraio del 1564 da Castelvetro, ch’ era fin d' allora feudo de’ conti Rangoni nel territorio di Modena, ov è probabile che si fosse ritirato il Tasso sotto la protezione di que’ signori. Tornò dunque il Tasso a Padova, e fu uno de più illustri accademici Eterei, de quali era stato istitutore poc’ anzi il suddetto Scipione. Egli frattanto in età di soli diciotto anni avea già pubblicato il primo frutto de’ suoi poetici studi, dando alla luce il Rinaldo poema romanzesco in ottava rima e in dodici canti, stampato in Venezia la prima volta nel 1562, e da lui dedicato al Cardinal Luigi d’Este; opera giovanile e molto lontana dalla perfezione a cui egli poi giunse; ma opera nondimeno tale che, attesa singolarmente l età in cui la compose, fece conoscere quanto da lui si avesse a sperare. La dedica del Rinaldo a quel gran cardinale il rendette carissimo a lui non meno che al duca Alfonso II di lui fratello; e il Tasso perciò, chiamato nel 1565 alla corte di Ferrara, fu in essa accolto e mantenuto splendidamente, assegnategli stanze e ogni altra cosa al vivere necessaria, sicchè potesse con più ozio coltivare gli studi, e avanzare il gran poema TEJ1Z0 1843 della Gerusalemme liberata, a cui egli avea da più anni già posta mano, perciocchè fin dal 1561 aveane stesi sei canti (V. Op. del Tasso, ed. Ven. t. 1, pref. p. 13). Condotto dal cardinale in Francia l’an 1570, vi ricevette dal re Carlo IX, e da tutta la corte, e dagli uomini dotti di quella università i più distinti onori; poichè già era sparsa la fama del poema ch’egli stava scrivendo, e nel viaggio medesimo non avea cessato di avanzarsi nell’ intrapreso lavoro. Tornato in Italia l’anno seguente, dopo aver fatto rappresentare il suo Aminta, di cui diremo più sotto, attese a compire il poema. Avealo egli cominciato, come si è detto, molti anni addietro, e avea pensato di dedicarlo a Guidubaldo II duca d’Urbino, come ci mostra lo squarcio del primo sbozzo della Gerusalemme liberata, che si conserva nella biblioteca Vaticana, e ch è stato pubblicato nell’edizion veneta di tutte l Opere di Torquato (t. 1, p. 327, ec.). Cambiò poscia idea, e volle che il poema fosse dedicato al duca Alfonso II. I canti ch’ei ne andava scrivendo, si sparsero in più parti d’Italia, e il primo saggio che ne vedesse la luce, fu il quarto canto, stampato in Genova nell’an 1579, in una raccolta di Rime pubblicata da Cristoforo Zabatta. Quindi l’ anno seguente sedici canti, ma discontinuati ed imperfetti, ne furono pubblicati in Venezia per opera di Celio Malaspina, con gran dispiacere del Tasso, che altamente sdegnossi in vedere il suo poema sì contraffatto e malconcio. Le tre edizioni che se ne fecero nel 1581 in Casalmaggiore, in Parma e in Ferrara, furono 1844 LIBRO assai migliori, e la terza singolarmente potè dirsi quella in cui la Gerusalemme liberata cominciasse a mostrarsi nel vero suo aspetto. Intorno a queste prime edizioni merita di esser letto un ragionamento del celebre arciprete Baruffaldi (ivi, p. 386). Ad esse però dee aggiugnersene un’altra da ni un mentovata, e da me veduta presso il sig. D. Carlo Zini arciprete di Fiorano in questa diocesi di Modena, fatta nello stesso anno 1581 in Lione presso Pietro Roussin, colla dedica e colla prefazion dall Ingegneri premessa a quelle di Casalmaggiore e di Parma. XLVII. Colla pubblicazione della sua Gerusalemme pareva che il Tasso dovesse esser giunto al più alto segno di felicità e di onore a cui potesse aspirare. Autore in età ancor giovenile del più perfetto poema epico che mai si fosse veduto, ammirato perciò da tutti come uno de’ più chiari lumi dell’italiana letteratura, caro ed accetto al duca Alfonso II e a tutta la splendida corte di quel sovrano, altro più bramar non poteva, che di riposar tranquillamente all’ombra di quegli allori di cui il suo talento e il suo studio gli aveano ornata gloriosamente la fronte. Ma allora appunto, quando sembrava che il Tasso non potesse sospingere più oltre i suoi voti, ei si vide giltato * nel profondo delle sciagure, e divenuto uno de più memorabili esempii dell’incostanza della fortuna. Nulla vi ha di più noto che le sventure di questo grand’uomo, e nulla vi ha di più incerto che la lor vera origine. Giambattista Manso marchese di Villa, intrinseco amico del Tasso negli TERZO l845 ultimi anni che questi visse, e che ne ha scritta sì diffusamente la Vita, da noi finor compendiata, ne parla assai a lungo; esamina le diverse ragioni a cui esse furono attribuite, e ciò non ostante ci lascia ancora all oscuro sul vero loro motivo. Il Muratori ha tentato egli pure di rischiare una sì intralciata quistione; e benchè avesse tra le mani l’archivio Estense, non ha potuti raccogliere lumi bastevoli a diffinirla (V. Op. del Tasso, ed. ven. t 10, p. 237, ec.). Ed io credo che appena sia possibile il riuscirvi. Ad accertarsi intorno alla vera origine delle disgrazie del Tasso, due sono principalmente i fonti a’ quali conviene ricorrere; gli storici contemporanei e ferraresi, e le opere del Tasso medesimo. Or quanto a’ primi,, ella è cosa strana a vedere come essi tengono su questo punto un profondo silenzio. In questa biblioteca Estense abbiam sette o otto scrittori inediti delle cose avvenute a quei’ tempi in Ferrara. Tutti gli ho io esaminati a tal fine, e non vi ho trovato pur nominato il Tasso, come s' egli non fosse mai stato in Ferrara. Di quei che si hanno alle stampe, non vi ha che il Faustini il quale ne ragioni, ma in modo che il suo racconto ci fa ridere invece d’istruirci; perciocchè egli vorrebbe che noi credessimo che il duca Alfonso II il fece richiudere per curarlo di una fistola che lo travagliava (Stor. ferr. l. 2, p. 99). Che se ci volgiamo alle opere del Tasso, noi il veggiamo sì confuso, sì incerto, sì in-, coerente a se stesso nelle sue espressioni, che quanto più c’inoltriamo leggendo, tanto maggiore fassi l oscurità e il dubbio; e di qua forse j846 libro è avvenuto che anche il marchese Manso non ci ha potuto abbastanza istruire su questo punto; perciocchè ei non conobbe il Tasso, che quando questi avea la fantasia turbata e stravolta, e non potè quindi averne que’ lumi che perciò erano necessarii. Fra tante tenebre, altro non posso io fare che andar brancolando, e unire insieme quelle scarse notizie che ci posson dar qualche lume. Il primo incominciamento delle vicende del Tasso par che nascesse da suoi amori perciocchè, se crediamo al Manso, tradito da un cortigiano suo amico, a cui aveali confidati, e lasciatosi trasportare a insultarlo nella sala stessa del duca, dovette difendersi colla spada non solo contro di esso, ma contro tre altri di lui fratelli. Perciò esiliati questi, il Tasso ancora fu per ordin del duca arrestato nelle sue stanze, e ciò accadde, secondo il detto scrittore, nell’anno trentatrè di sua età, cioè nel 1 S-j'j. L’infelice poeta al vedersi ivi racchiuso, cominciò a temere il peggio, e accrescendoglisi dalla turbata fantasia l idea del suo pericolo, fuggì segretamente, e nell’autunno dell anno medesimo fra mille disagi fuggissene a Sorrento, e in abito di pastore presentossi a sua sorella. Trattenutosi ivi alquanto, sen venne a Roma, cercò ed ottenne di tornare a Ferrara poi fuggitone nuovamente nel t i>3, dopo varii viaggi si ricoverò a Torino, e vi stette qualche tempo nascosto sotto il nome di Omero Fuggiguerra, finchè scoperto dopo alcun tempo, fu accolto con grand onore a quella corte. Così narra il suddetto scrittore della Vita del Tasso. Ma Angiolo Ingegneri TERZO l847 dedicando, con sua lettera del primo di febbraio del 1581. la Gerusalemme del Tasso al duca Carlo Emanuele di Savoja, ci dice che la venuta di esso a 'Torino era seguita due anni e mezzo fa, cioè circa l’autunno del 1578, e ce la narra con circostanze molto diverse: Due anni e mezzo fa, quando il povero Sig. 'Torquato Tasso portato dalla sua strana malinconia si condusse sin alle porte di Turino, onde per non haver fede di sanità venne ributtato, fui quegli io, che in ritornando dalla Messa udita a Padri Cappuccini lui incontrato introdussi nella Città, fatte prima capaci le guardie delle nobili qualità sue, che (come che ei fosse male all ordine e pedone). non però affatto si nascondevano sotto a sì bassa f ortuna. L'Altezza Vostra Serenissima fu poi che l accarezzò e favorì; e se non che il Sig. Marchese dEste r havea già raccolto et accomodato, occupando in ciò il luogo alla cortese volontà di Monsignor di Torino, son certo, ch ella saria stata quella, che l avrebbe ricevuto e fattolo di tutto ben provvedere: tanta in lei si conobbe pietà di così indegna miseria, e. tale di sì alta virtù gusto ed ammirazione. Ma il Tasso frattanto, rinatogli in cuore famore di Ferrara, adoperossi per ritornarvi, e l ottenne. Non sì tosto vi fu giunto nel 1579, che comunque vi fosse ricevuto con somma festa, ne’ raggiri de’ cortigiani e nel contegno del duca gli parve di prevedere nuove sventure. Sdegnato perciò, lasciossi fuggir di bocca parole poco rispettose e pungenti contro il duca e contro i suoi ministri. Quindi per ordin del duca, che volle 1843 LIBRO considerarlo come frenetico, anzichè come reo. venne racchiuso in alcune agiate stanze dello spedal di Sant1 Anna, destinato alla cura de' pazzi. Questo è il passo che maggiormente risveglia la curiosità degli eruditi, che vorrebbon pur sapere il motivo per cui il duca Alfonso formasse questa risoluzione (*). Il Muratori racconta (*) Nota alla prima edizione. Io mi lusingo che sarà finalmente squarciato il velo che per tanto tempo ha tenuto occulta la vera ragione delle sventure del Tasso. Le lettere che mi è avvenuto di ritrovare in questo ducale archivio segreto, scritte e da lui e da altri nel tempo di quelle vicende, fanno conoscere chiaramente che la sola ragione per cui il duca Alfonso II fece chiudere nelle stanze di Sant5 Anna l’infelice poeta, fu il misero stato a cui dalla sua malinconia egli era condotto, e che quando il Tasso fuggito da Ferrara, bramava di ritornarvi, non altra condizione esigevane il duca, se non ch’ ei si lasciasse curare. Più altri bellissimi monumenti ho felicemente trovati riguardo a queste e ad altre particolarità della vita del Tasso, e tutti gli ho trasmessi all’eruditissimo sig. abate Serassi, il qual saprà farne ottimo uso nella V ita che si apparecchia a darci di quel grande ma sventurato poeta, e io godo di potere ad essa rimettere i miei lettori, poichè troppo a lungo mi condurrebbe, s’io qui volessi tesser la serie tutta de’ fatti e pubblicare i documenti che li confermano. Nota alla secondi edizione. Il sig. abate Sera ssi ha poi pubblicata in Roma nel 1785 la Vita del Tasso, e ha pienamente soddisfatto all" aspettazion mia e di tutti gli eruditi. Così vedesi in essa spiegato felicemente ogni passo della vita e delle vicende di questo infelice poeta, che si può dire a ragione che su questo punto nulla ci rimane più a bramare. Ed io mi compiaccio in vedere ch’ egli ha confermata l’ opinion mia nel credere che il Tasso non fosse arrestato pe’ suoi troppi liberi amori, che non han sussistenza, ma per gl'indica che TERZO 1849 di avere ne’ suoi primi anni conosciuto l’abate Francesco Carretta modenese allora assai vecchio, e ch era stato a’ servigi del celebre Alessandro Tassoni, e perciò assai vicino a tempi del Tasso e che questi narrava di aver udito che il Tasso trovandosi un giorno alla corte innanzi al duca e alla principessa Leonora di lui sorella, e non sapendo frenar l’ amore di cui per essa ardeva, a lei accostatosi con trasporto, baciolla in volto, e che il duca con saggia moderazione rivolto a’ suoi cortigiani, Vedete, dicesse loro, quale sventura che un sì grand'uomo sia in questo punto impazzito e che indi per salvare sotto tale pretesto il Tasso, il facesse rinchiudere nel suddetto spedale. E che il Tasso nudrisse in seno non leggier fiamma d’ amore per quella principessa, oltre che ne fan fede le Rime in onor di essa composte, si dava di frenesia c di furore, cagionati in gran parte da molti invidiosi e nimici rii’egli avea in quella corte, fra’quali era quel Maddulò, di cui l’abate Seraasi non ha potuto trovar notizia chi fosse, e che io ora pe’ lumi nuovamente scoperti, e comunicatimi dal chiarissimo sig. dottor Antonio Frizzi segretario della città di Ferrara, posso indicare che era Maddalb, o Mcdaglio de" Frecci, che lìn dal i556 era notaio in Ferrara, e impiegato negli atti pubblici di quella corte; col qual maligno uomo però si compiace il suddetto dottor Frizzi di non avere alcuna relazion di famiglia. Delle contese che il Tasso ebbe colf Accademia della Ciaisca, parla anche il eh. sig. conte Galeani Napione di Cocconato poc'anzi lodnto, il quale osserva eli esse ebbero in gran pailc origine dalle controversie di preminenza che la corte di Firenze avea allora con quella di Ferrara (Di' Pregi della lingua ital. t. i, p. 79, ec.). Ti 1; a boschi; Voi. 44 l85o. LIBRO a Hernia ancora dal Manso, il quale però aggiugne che due altre Leonore si credette da alcuni ch’egli amasse, cioè Leonora Sanvitale moglie di Giulio Tiene conte di Scandiano, e una damigella della principessa medesima, che por- * lavane il nome. Ma ch' ei si lasciasse trasportar tant’ oltre innanzi al duca medesimo, e in un tempo in cui le paure e i sospetti che lo travagliavano, dovean renderlo assai più timido, non parmi, a dir vero, cosa molto probabile. Io credo che il duca a ciò s’inducesse principalmente per gli indicii che dava il Tasso di fantasia alterata e stravolta, i quali potean fare temer di peggio, se non vi fosse posto opportuno rimedio. Due volte era già egli fuggito di corte, e nel suo andar qua e là rammingo ed errante, e nelle lettere scritte agli amici e a diversi principi mostrava di aver l’ animo altamente turbato. Credette egli perciò, che e al- i 1’ onore e alla salute del Tasso niuna cosa po- J tesse esser più utile, che il tenerlo non già 1 prigione, ma custodito, e intanto proccurare 1 con opportuni rimedii di calmarne l’animo c la 1 fantasia. Ma ciò che Alfonso operò a vantaggio i del Tasso, non servì che a renderne sempre peggiore la condizione. Gli parve di esser prigione, e mille fantasmi cominciarono a ingombrargli la mente. Or sembravagli di esser reo di discorsi tenuti in dispregio de’ principi, or d’infedeltà verso il duca suo padrone, or di troppo liberi trasporti amorosi. Dolevasi insieme di essere oppresso da’suoi nimici; scriveva agli amici, a’ principi d’Italia, alla città di Bergamo, e all’ imperadore medesimo, chiedendo TERZO 185I pietà, e implorando la sua liberazione. Egli sospettò ancora di esser tenuto prigione per delitto appostogli d’empietà e d'eresia, e ne è pruova un Memoriale da lui diretto alla Congregazione del Santo Ufficio in Roma, il cui originale è presso monsignor Passionei, e una copia di mano di monsignor Fontanini presso l’erudito sig. D. Giambattista Schioppalalba sacerdote veneziano j e io pure ne ho copia pelgentilezza del più volte lodato sig. D. Jacopo Morelli. Muove pietà il leggerlo: così si vede turbata la fantasia dell’ infelice poeta. Ei crede di aver dette alcune parole assai scandalose, le quali poteano porre alcun dubbio di sua fede. Dice di essere perciò stato citato, e assoluto piuttosto come peccante di umor malinconico, che come sospetto d eresia: si duole che l’ Inquisitore non volle spedir la sua causa, acciocchè il Signor Duca di Ferrara suo Signore non si accorgesse delle persecuzioni patite dal supplicante nel suo stato; che perciò il Duca l'avea fatto ristringere come peccante di umor malinconico, e fatto purgare contro sua voglia, nella qual purga temendo egli di esser avvelenato y chiede perciò, che la Congregazione gli ottenga di poter Venire a Roma a trattar la sua causa (a). Forse non v’era ombra di tali accuse, che altro fondamento non avea no clic la sconvolta immaginazione del Tasso. Frattanto la turbazione dell’ animo sconcertando ancora gli umori, ei trovossi in istato assai deplorabile di («) 11 sig. abate Serassi a<.«egna questo Memoriale al tempo del primo arresto del Tasso. 1 85 2 LIBRO salute, c l’infermità a vicenda accrescendogli la tristezza, talmente gli si alterò la fantasia, che oltre i sospetti continui di veleno, parevagli di esser ammalato e molestato da larve e da spettri, e passava i giorni e le notti in una profonda malinconia. A render più gravi le sciagure del Tasso si aggiunsero i contrasti ch’ egli ebbe a soffrire per la sua Gerusalemme, che vide combattuta da molti, ricevendo oltraggi ed insulti da quella fonte medesima da cui sperava di avere applauso ed onori. Destano compassione le lettere da lui scritte dallo spedal di Sant’Anna; perciocchè vedesi in esse un uomo in preda a un nero umore che lo altera e lo confonde, ma pure ha ancor tanto di senno, che troppo bene conosce l'infelice suo stato. In fatti, se se ne traggan gli oggetti che appartenevano alle sue sventure, in tutte le altre cose parlava e scriveva colla sua usata saviezza; e ne son pruova le opere in difesa della sua Gerusalemme sci'ille in quel tempo medesimo, delle quali tra poco diremo. Molti principi eransi adoperati frattanto ad ottenere dal duca Alfonso la liberazione del Tasso, e anche la città di Bergamo spedì a tal fine a Ferrara il sig. Giambattista Licino, che gli era amicissimo. Ma il duca temendo che la libertà potesse essergli più dannosa che utile, non sapeasi a ciò condurre. Finalmente in occasion delle nozze di D. Cesare d'Este con donna V irginia de' Medici, che fanno i586 si celebrarono, venuto essendo a Ferval a V incenzo Gonzaga principe di Mantova, questi, a persuasione singolarmente di d Angelo Grillo abate Benedettino, adoperossi per terzo i853 modo, che il Tasso rimesso dapprima nelle antiche sue stanze di corte, passò poi nell’ autunno dell’ anno stesso a Mantova. ove il duca Guglielmo amorevolmente lo accolse; e sol gli vietò, per compiacere al duca Alfonso che di ciò avea fatta istanza, di non porre il piè fuori di Mantova. e poscia ancora rendettegli interamente la libertà. XLVI1I. Alla liberazione del Tasso giovò non poco D. Ferrante II Gonzaga signor di Guastalla, che teneramente lo amava, e che nel tempo ancora della sua prigionia aveagli inviati alcuni doni per sollevarlo, come io raccolgo dalla lettera che il Tasso gli scrisse per ringraziarlo a’ 14 di luglio del 1582, la qual con più altre inedite da lui scritte al medesimo d). Ferrante si conserva nel segreto archivio di Guastalla. Morto l’anno seguente 1587 il duca Guglielmo, e parendo al Tasso che il nuovo duca Vincenzo fra gl’ imbarazzi del nuovo governo nol curasse molto, chiese ed ottenne licenza di andarsene a Napoli, ove voleva dar fine ad alcune liti domestiche, benchè al tempo stesso fosse invitato a Genova a legger l’Etica e la Poetica d’Aristotele con 400 scudi doro di provvisione ferma, e con speranza d altrettanti straordinarii, come egli stesso scrive in una sua lettera (Op. t. 9, p. 362, ed. Ven.). Ma qual fosse l’infelice stato del Tasso, raccogliesi da un viglietto che, giunto a Loreto, scrisse a D. Ferrante l’ultimo di ottobre del 1587, e che conservasi nel suddetto archivio: fioraio son giunto in Loreto stanchissimo, e nel medesimo tempo ho inteso dell arrivo di V. E., et I 1854 LIBRO ho preso speranza, che N. S. Iddio voglia ait tanni, perchè io sono ancora in quel termine, che V. E. sa, e senza danari da finire il viaggio. Però supplico V. E., che voglia donarmi dieci scudi, e darmeli piuttosto per elemosina, acciocché io habbia non solo occasione di lodarla sempre, ma di pregare Iddio per la sua salute e per la prosperità, ec. Oggetto veramente compassionevole, e grande esempio delle vicende della fortuna! Vedere l’autore della Gerusalemme liberata chiedere in limosina dieci scudi! Non sappiamo s’ei gli ottenesse; ma certo altre volte avealo D. Ferrante sovvenuto pietosamente; e tra’Mandati di esso, esistenti tuttora nel mentovato archivio, trovansi nel mese di luglio dell’anno stesso donati al Tasso per ordine di S. E. venti ducatoni; e da una lettera di Curzio Ardizio al medesimo D. Ferrante, scritta da Napoli a’24 di luglio del 1582, ch è nello stesso archivio, raccogliesi che quel principe aveagli donati 150 scudi d’oro. Gli ultimi anni della sua vita passò questo infelice poeta or in Roma, ora in Napoli, trattine alcuni mesi del 1590, ch’ei fu in Firenze, invitato e onorevolmente accolto dal gran duca Ferdinando, senza però che tali onori potesser fissarne il troppo agitato ed incostante umore. Così le Lettere stampate, come le inedite da me poc’anzi accennate, ci mostrano in quanto lagrimevole stato egli fosse. Infermo di corpo, ma più ancor d’animo, pien di paure e di sospetti, onorato da molti, ma pur sempre povero e bisognoso, in niun luogo trovava riposo, nè sicurezza; tanto più degno di compassione, quanto TF.RZ0 > 855 iiinti meglio di lui conosceva le sue sventure. Muovono al pianto alcune delle lettere inedite da lui scritte a D. Ferrante. In una scritta da Napoli a 24 di ottobre del 1588, Fui già, dice, molti anni sono, sempre, infermo, et hora sono parimenti, se non più, perchè sin hora il maggior giovamento, ch'io conosco da la'Medicina, è il non andar peggiorando. Nondimeno in una età già inclinata, in una complessione stemperata, in un animo perturbato, in una fortuna avversa. poco si può sperare senza miglioramento, e molto temere, che l fine de miei travagli non debba esser la prosperità, ma la morte. Risorgo alcuna volta da questi nojosi pensieri, quasi da un mare, tempestoso, e mi pare di veder non solo un porto. ma due. E non potendo prender quel della Filosofia, come vorrei, non debbo ricusare d entrar nell'altro, dove hanno fine tutte le humane miserie, e desservi sospinto Andrò fra pochi giorni a' bagni di Pozzuolo, o (d Ischia, ne quali è riposta l'ultima speranza. Piaccia a Dio, che la povertà non sia impedimento a questo rimedio. Da altre di dette lettere si raccoglie che alcuni cavalieri napoletani aveano. progettato di unirsi insieme per assegnare al Tasso una provvisione di trenta scudi al mese. Ma non pare che il lor disegno avesse effetto. L ultimo ricovero del Tasso fu presso il Cardinal Cinzio Aldobrandini, il quale pensò di dare un onorevol compenso alle tante sventure di questo grand uomo col farlo coronare solennemente nel Campidoglio. Ma questo ancora mancava a render il Tasso sempre più infelice, ch'ei non l85C> L1BIIO potesse godere dell'onor destinatogli. Il rigore della stagione il fece differire per qualche tempo, e frattanto infermatosi il Tasso, invece del Campidoglio fu condotto al sepolcro. Il buon Torquato. che sempre avea conservati nel cuore sentimenti vivissimi di Religione, non sì tosto conobbe vicina la sua morte, che voll’essere trasportato al monastero di S. Onofrio dell Ordine di S. Girolamo. La lettera che di là egli scrisse al suo amico Antonio Costantini, è troppo bella, per non esser qui riferita, benchè ella sia tra le stampate (Op. t. 10: p. 46 ed. ven). Che dirà il mio Sig. Antonio, quando udirà la morte del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perchè io mi sento al fine della mia vita, non essendosi potuto trovar mai rimedio a questa fastidiosa indisposizione sopravvenuta alle altre mie solite, quasi rapido torrente, dal quale, senza potere avere alcun ritegno, vedo chiaramente esser rapito. Non è più tempo, ch io parli della mia ostinata fortuna, per non dire della ingratitudine del mondo, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico, quando io pensava, che quella gloria, che, malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo da' miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone. Mi sono fatto condurre in questo Monastero di S. Onofrio, non solo perchè l aria è lontana da' Medici più d'alcun altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo luogo eminente, e colla conversazione di questi divoti Padri, la mia conversazione in Cielo. Pregate Iddio j)er me, e siate sicuro, TEA70 l8D7 che siccome vi ho amato ed onorato sempre nella presente vita, così farò per voi nell' altra più vera, ciò che alla non finta, ma verace carità s appartiene; ed alla Divina grazia raccomando voi e me stesso. Una lettera di Maurizio Cattaneo, poc'anzi da noi citato, al signor Ercole Tasso ci spone la vera origine della morte del Tasso. La cagion di sua infermità, dic egli (Lettere, pittor. t. 5, p. 49 ec)- è stata l immaginazione, che per sospetti s'avea concepì ita, di dover morire di giorno in giorno, da quali sospetti ed inganni tirato immaginandosi di potersi preservare con medicarsi da se stessi, pigliava or triaca, or aloe, or cassia, or reubarbaro, or antimonio, che gli aveano arse e consumate le interiora, e condottolo finalmente a morte. Nella stessa lettera egli descrive l’amorosa sollecitudine che per lui in quell occasione mostrò il pontefice Clemente VII I, che poco prima gli avea assegnata una buona pensione, l affetto figliale con cui continuamente lo assisteva il Cardinal Aldobrandini, e i contrassegni di sincera pietà co quali il Tasso si era disposto a morire. Con tali sentimenti chiuse il Tasso i suoi giorni a’ 25 di aprile del 1595, in età di soli cinquantun anni. Pare che la fortuna volesse ancor dopo morte inseguirlo; perciocchè, benchè fosse onorato di splendide esequie, per più anni ei non ebbe al sepolcro distinzione di sorta alcuna. Finalmente dal Cardinal Bonifacio Bevilacqua gli fu nella chiesa di S. Onofrio innalzato un onorevole monumento, ma degno di un iscrizione migliore di quella di cui fu onorato. 1858 LIBRO XLIX. Passiamo ora a dir delle opere ch’ei ci ha lasciate, il cui numero è sì grande, che appena potrebbe credersi che un uomo di non lunga vita, e per tanti anni divvenuto bersaglio dell’avversa fortuna, potesse giugnere a scriver tanto. Ma egli ebbe la sorte che nel tempo medesimo delle sue maggiori sventure, e anche mentr era confinato nello spedal di Sant’Anna, ebbe nondimeno la mente, in ciò che appartiene agli studi, libera e sana. Gli originali di molte delle opere del Tasso, come delle Rime, delle Lettere e di diversi Dialoghi, ec., si conservano in questa biblioteca Estense, e vi si veggon le molte cancellature con cui egli ritoccava e ripuliva i suoi scritti, che sono di un carattere pessimo e appena intelligibile. Io non farò che accennare i molti trattati e i molti dialoghi in prosa, altri di materie morali, altri di letterarie, e le moltissime lettere, altre famigliari, altre di argomenti spettanti alla poesia, nelle quali opere il Tasso è scrittore ingegnoso e profondo, ma talvolta troppo sottile; e scrive con eleganza, la qual però talvolta è più ricercata, che in tali componimenti non si vorrebbe. Del poema giovanile intitolato il Rinaldo si è detto poc’ anzi; dell Aminta e del Torri smondo ragioneremo più sotto. Le Sette giornate, poema sacro in versi sciolti, da lui composto negli ultimi anni, e non condotto alla sua perfezione, nè uscito in luce, se non poichè egli fu morto, ed altri minori poemi, come le Lagrime di Maria, il Monte Oliveto, la Disperazione di Giuda, benchè da esso composti negli anni suoi più infelici. mostrano non di TFKZf) 1 8r>(J meno l’ingegno e il talento del loro autore. Le Rime del Tasso per la gravità de’ sentimenti, per la nobiltà dello stile e per tutti gli altri pregi che a tali componimenti richiedonsi, sono tra le migliori che vantar possa l’italiana poesia; la quale ben si può dire che dopo la morte di esso cominciasse a decadere rovinosamente pel pessimo gusto che s'introdusse (a). Niuna cosa però rendette sì celebre insieme e sì infelice il Tasso, quanto la sua Gerusalemme liberata. L’Italia liberata del Tri ssi no, \ Avarchìde delFAlamanni, il Costante del Bolognetti erano stati accolti con plauso, e appena vi era stato chi avesse avuto coraggio di volger contro di essi la critica. Ma appena uscì alla luce il poema del Tasso, quanto più illustre fu il trionfo ch esso riportò sugli altri poemi epici, tanto maggior fu l’invidia che contro l’autor di esso desi ossi. Un Dialogo sull’epica Poesia intitolato il! Carrafa, pubblicato nel 1584 da Cammillo Pellegrini, nel qual parve antiporre la Gerusalemme del Tasso al Furioso dell’Ariosto, fu il segnal della guerra; e gli Accademici della Crusca mal soddisfatti di certe espressioni usate dal Tasso nel suo Dialogo del Piacere onesto furono i primi ad uscire in campo colla Difesa dell Orlando furioso, che fu creduta opera di Lionardo Salviati, a cui però non fa molto onore. Divenne allora generale la mischia, e molti de' più chiari ingegni italiani si azzuffaron tra loro, altri a favore, altri contro del Tasso. Il (a) Molte Poesie finora inedite del Tasso sono »tate recentemente pubblicate in Koma l'anno 1789. iSÌMl LIBRO dello Salviali, Bastiano de’Rossi, Francesco Patrizii, Orazio Ariosto, Orazio Lombardelli, Orlando Pescetti furono i principali impugnatori della Gerusalemme., ed altri ne scoprirono e ne confutarono i falli, altri pretesero di provarla inferiore di molto al Furioso. Il Pellegrini, Ciro Spontone, Giulio Ottonelli di Fanano, Lodovico Bottonio, Niccolò degli Oddi monaco olivetano, Giulio Guastavini, Malatesta Porta sorsero a difesa del Tasso, e dee ad essi aggiugnersi Giambattista Munarini reggiano, giureconsulto di professione, ma versatissimo nelfamena letteratura, come si scuopre da molte opere da lui composte, fra le quali sono le Antichiose in risposta alle Chiose della Crusca, tutte però inedite, e che si citan dal Guasco come esistenti presso i conti Munarini da lui discendenti (Stor. letter. dell'Accad, di Regg. p. 181, ec.) (a). Più di tutti però il Tasso medesimo prese le armi a sua propria difesa; e anche dallo spedal di Sant’Anna, e poscia quando ne fu liberato, più libri scrisse in risposta alle accuse che gli venivano fatte, Io accenno solo questa celebre controversia, perciocchè non gioverebbe che ad annoiare i lettori una lunga enumerazione de’ libri per essa usciti alla luce; e chi la desidera, può leggerla presso il Quadrio (t. 6, p. 671, ec.). Benchè però il Tasso sì coraggiosamente si difendesse, parve che temesse ei medesimo di essere condennato a (a) I.e opere del Munarini sono ora o smarrite, o sepolte non si sa dove. Yeggnsi la biblioteca modenese (t. 3, p. 318, ec.). TERZO l86l ragione; e volle perciò rifare il poema, e cambiatolo in gran parte, e mutatogli anche il titolo in quello di Gerusalemme conquistata, il pubblicò nel 1593. Ma benchè egli fosse persuaso di averlo tessuto in modo che più non rimanesse luogo ad accuse, e benchè alcuni lo accogliesser con plauso, i più saggi però giudicarono ch’ esso non fosse degno di stare al confronto col primo; e che questo fosse di gran lunga migliore co’ suoi difetti, che il secondo, benchè composto secondo le più rigorose leggi della poetica. Non può negarsi che gli Accademici della Crusca nell’accennata contesa non oltrepassassero alquanto i confini di una saggia moderazione. E sembra che essi medesimi abbian poscia voluto riparare il torto che avean già l'atto più al lor nome medesimo, che a quel del Tasso, annoverando la Gerusalemme ed altre opere di esso tra quelle che fanno testo di lingua. In fatti il comune consentimento degli eruditi ha omai deciso che il poema del Tasso è il più bello, il più elegante, il più nobile di quanti epici poemi ha mai avuti l’italiana poesia, e che forse non ne avrà mai altro che gli si possa paragonare. Non così è decisa la controversia della precedenza tra l Tasso e l Ariosto, controversia che ha sempre divisi, e forse dividerà sempre i migliori ingegni e i più valorosi poeti. Io non posso a meno di non entrare a parlarne; e benchè io nè speri, nè abbia diritto ad esigere che altri adotti il mio sentimento, dirollo nondimeno quale esso è, lasciando che ognun ne giudichi come a lui sembra meglio. i86j libro L. A me sembra primieramente che tra questi due poeti non possa farsi giusto ed adeguato confronto, e che il mettere a paragone la Gerusalemme del Tasso coll Orlando dell Ariosto, sia lo stesso che confrontare XEneide di Virgilio colle Metamorfosi d’Ovidio. Perciocchè la Gerusalemme è un poema epico, XOrlando è un poema romanzesco, cose troppo diverse d’indole e di natura, perchè soffrano di esser l una all'altra paragonate. Ridicola perciò è l'accusa che da alcuni si dà all'Ariosto, perchè non ha serbata l’unità dell'azione, perchè non ha intrecciati a dovere gli episodii coll’azion principale, perchè ha narrate cose del tutto impossibili, perchè ha mischiato allo stil grave il burlesco, ed altre somiglianti; difetti, dicono essi, da’quali il Tasso si è saggiamente astenuto. Se l’Ariosto ci avesse voluto dare un poema epico, ei sarebbe a ragion condennato. Ma qual diritto di rimproverarlo, perchè ha amato meglio di scrivere un poema romanzesco che un epico? Non è egli ciò lo stesso che il rimproverare, a cagion di esempio, Tito Livio, perchè ha scritto una storia e non un poema? Quindi non parmi del tutto esatta la decisione di alcuni che affermano che miglior poema è quello del Tasso, ma maggior poeta è l’Ariosto; perciocchè non può dirsi a rigore che l'un poema sia dell’altro migliore, essendo essi di genere troppo diverso. Poichè dunque non possono paragonarsi tra loro i due poemi, rimane solo che i due poeti si pongano a confronto l’uno dell’altro in ciò che è loro comune. E tre cose singolarmente, TERZO l8()3 a mio credere, posson chiamarsi ad esame: la fecondità dell'immaginazione, la vivacità del racconto, l'eleganza dello stile. E quanto alla prima, io mi lusingo che anche i più dichiarati adoratori del Tasso non negheranno ch essa non sia di gran lunga maggiore nell' Ariosto, il quale tante e sì leggiadre invenzioni ha inserite nel suo Orlando, che non senza ragione il Cardinal Ippolito d’Este gli chiese, come si narra, ove avesse trovate tante corbellerie. Appena vi ha canto, in cui qualche nuova ed impensata avventura non ci si offra, che tiene attentamente sospeso, e mirabilmente diletta l’animo de lettori. Il Tasso al contrario, benchè egli ancora sappia cambiare scena e variare gli oggetti, questi però non son tali comunemente, che sian parti di una fervida fantasia; ma per lo più son tratti da altri poeti, o immaginati secondo le loro idee. Vero è che appunto perchè PAriosto scriveva un poema romanzesco, ei poteva secondare più facilmente la sua fantasia, e molte cose erano lecite a lui, non al Tasso, perciocchè al primo non disdiceva il narrar cose e inverisimili, e anche realmente impossibili, secondo l’uso degli scrittori de’ romanzi, ciò che al secondo non era lecito in alcun modo. L’ippogt ifo di Ruggieri, la salita di Astolfo alla luna, la pazzia di Orlando, ed altre somiglianti invenzioni di quel bizzarro cervello, stanno ottimamente in un poema di quella natura, che prese a scrivere PAriosto; ma in un poema serio ed eroico, qual è quello del Tasso, sarebber degne di biasimo. Ma ciò non ostante, mi i864 libro sembra evidente che l autor dell Orlando abbia assai più viva e più feconda immaginazione che fautore della Gerusalemme. Per ciò che appartiene all’energia de’ racconti e alla vivacità delle descrizioni, io non so qual effetto produca in altri la lettura di questi due poemi. Quanto a me, io confesso che i racconti del Tasso mi piacciono, mi allettano e, dirò così, mi seducono; così sono essi graziosi e per ogni parte contorniati e finiti. Ma que’ dell’Ariosto mi rapiscono fuor di me stesso, e mi accendon nel seno quell’entusiasmo di cui son pieni; sicchè a me non sembra di leggere, ma di vedere le cose narrate. Il Tasso mi pare un delicato vaghissimo miniatore in cui e il colorito e il disegno hanno tutta quella finezza che può bramarsi; PAriosto mi sembra un Giulio Romano, un Buonarroti, un Rubens che con forte ed ardito pennello mi sottopone all’ occhio, e mi fa quasi toccar con mano i più grandi, i più passionati e i piò tcrribi li oggetti. Benché PAriosto medesimo, ove prende ad usare più delicato pennello, il maneggia in modo che non cede ad alcuno. Angelica che fugge, Olimpia abbandonata, e cento altri passi a lor somiglianti, che nell’Orlando s’incontrano, possono stare al confronto con quanto di più leggiadro ci offrono le Muse greche e latine. Non dee però dissimularsi che le narrazioni dell’Ariosto non sono sempre ugualmente piacevoli, e che talvolta languiscono e sembran quasi serpeggiare per terra, e che quelle del Tasso son più sostenute e più uguali. Ma oltrecchè fu questa forse un’arte dell’Ariosto, per TERZO 1865 dare assai maggiore risalto a que’ racconti nei’ quali ei volea segnalarsi, ciò proverà solamente che l’Ariosto non è sempre uguale a se stesso; ma non proverà ch’ei non sia, quanto gli piace di esserlo, superiore ad ogni altro. Rimane a dire dell’ eleganza dello stile. E in questa parte non può negarsi, s’io mal non avviso, che il Tasso non sia superiore all’Ariosto, perciocchè ogni parola e ogni espressione è nel primo studiata e scelta, e ogni cosa da lui si dice il più nobilmente ch’ei possa. Il secondo, più che alle parole, intento alle cose, non pone troppo studio nella sceltezza dell’ espressione, ed anche usa talvolta voci basse e plebee. Ei sa però sollevarsi, quando gli piace, sa usare a tempo i più acconci vocaboli, sa introdurre ne’ suoi versi e fiori e vezzi, quanti egli vuole; e ci mostra con ciò che se avesse voluto limare con maggior attenzione il suo Orlando, anche nell eleganza non cederebbe a qualunque altro poema. Ma questa sembra esser la sorte de’ più rari e de’ più fervidi ingegni, cioè che non sappiano soggettarsi alla noiosa fatica che seco porta il ripulire i lor parti. E forse di questo difetto medesimo dobbiamo saper loro buon grado; perciocchè, se maggiore studio avesser riposto nell’arte, men seguita avrebbon la natura, ch è finalmente il più bello fra tutti i pregi che proprii son di un poeta. Questo è il mio sentimento intorno all’Ariosto e al Tasso, e dalle cose dette fin qui ognun può vedere che se fra questi due poeti si può far paragone, io propendo a favore dell’ Ariosto. Io so che in questa mia Tiraboschi, Voi XII. 45 I l866 LIBRO opinione ho alcuni illustri e valorosi avversarii, e fra essi l’immortal Metastasio, il quale in una sua lettera, ch è alla stampa, al ch. sig. d Domenico Diodati giureconsulto napoletano, dopo aver detto che ne’ primi suoi anni era stato ammiratore passionalissimo deli’Ari osto, aggiugne che avendo poi in età più matura e con più pensato giudizio letta la Gerusalemme, di cui vivamente descrive i pregi, si sentì riempire di ammirazione pel Tasso, e d'uno sdegno implacabile contro coloro che credono oltraggioso all' Ariosto il solo paragon di Torquato. Il parer di un tant’uomo è sì rispettabile, che se si trattasse di qualche teoria, cederei volentieri, e mi darei vinto. Ma qui si tratta di quel sentimento che un prova in se stesso, e che nè per ragioni, nè per autorità non si può cambiare. E forse sarà ciò effetto di gusto men buono ch’io abbia sortito dalla natura, ma qual ch esso sia, esso è il mio, nè da me dipende il mutarlo. Lo stesso Metastasio però non dà senza qualche riserva la preferenza al Tasso; perciocchè avendo detto dapprima ch è troppo difficile il diffinir tal quistione, così conchiude: Se per ostentazione della sua potenza venisse al nostro buon padre Apollo il capriccio di far di me un gran poeta, e m imponesse a tal fine, di palesargli liberamente, a quale de' due lodati Poemi io bramerei somigliante quello ch ei promettesse dettarmi, molto certamente esiterei nella scelta, ma la mia forse soverchia propensione all'ordine, all esattezza, al sistema sento che pure alla fine m inclinerebbe al Goffredo Così egli TERZO 1867 con quella modestia che è propria de’ più grand uomini. Io perciò appunto, che gli sono inferiore di tanto, con più coraggio forse risponderei ad Apollo, e la mia risposta sarebbe alquanto diversa. Perciocchè s’ei m' invitasse a scrivere un poema epico, il pregherei a somigliarmi al Tasso. Se mi persuadesse a intraprendere un poema romanzesco, il pregherei a farmi un altro Ariosto. Che se in general mi chiedesse a qual de due poeti bramassi di avere uguale il natural talento per la poesia, io, chiesto prima perdono al Tasso, il pregherei ad essermi liberale di quello dell’Ariosto. LI. L’ultimo genere di poesia di cui ci resta a parlare, è la teatrale; ampio argomento esso pure, e che ci potrebbe occupare per lungo tempo, se le fatiche da molti valentuomini già sostenute per illustrarlo non ci agevolasser!’ la via a spedircene più brevemente. In qual maniera cominciasse ella a risorgere verso la fine del secolo precedente, si è da noi osservato a suo luogo, e abbiamo avvertito quanto essa dovesse principalmente alla magnificenza e al buon gusto de’ duchi di Ferrara. La maggior parte però delle azioni drammatiche di quel tempo erano state o commedie, o sacre rappresentazioni. Pochi avean preso a scriver tragedie, e tra quelle alle quali pure aveano i loro autori dato un tal nome, poche n’ erano degne. Il Quadrio tra le tragedie scrii le al principio di questo secolo annovera il Filolauro di Bernardo Filostrato, ch ei pubblicò sotto il nome di Demone Filostrato, e intitololla Atto Tragico (t. 4 j P* ^4)• 1° non conosco altra l868 LIBRO azione di questo nome clic quella intitolata II Philolauro senza nome d’autore, stampata in Bologna nel i520, che ò delta non Atto Tragico, ma solacciosa Commedia, e ch è scritta in versi parte italiani, parte lombardi di vario dialetto. La Susanna di Tiburzio Sacco da Busseto, e altri somiglianti drammi venuti in luce al principio di questo secolo, che dallo stesso Quadrio si annoverano, appena meritan di essere qui rammentati. Alessandro Pazzi fiorentino, nipote di Leon X, dopo aver recata in latino la Poetica d’Aristotele, si accinse a tradurre, altre in lingua italiana, altre nella latina, alcune tragedie greche, e a scriverne alcune di sua invenzione, ma fu nell’una e nell’altra cosa poco felice (Jov. Elog. p. 75). Nulla se ne ha alle stampe, ma dalle Lettere del Bembo raccogliesi ch egli avea tradotto in latino l Elettra e l Edipo di Sofocle (Lettere t. 3, l. 5, Op. t. 3, p. 232); e il Varchi nelle sue Lezioni ci dà notizia di una tragedia da lui composta in versi di dodici sillabe, intitolata Didone, la quale, anche pel nuovo metro in cui fu scritta, non ebbe gran plauso. Alla poesia tragica si rivolse parimente al principio di questo secolo Galeotto del Carretto marchese del Finale, cavaliere di nobilissima famiglia, e che allo splendore del sangue aggiunse quel delle lettere (a). La Sofònisba, (a) Il marchese Galeotto del Carretto, di cui qui si ragiona, non fu quegli a cui nel 144-7 ' Genovesi tolsero il Castel del Finale, ma un altro di un diverso ramo della stessa famiglia, cioè di quel dello di Millesimo, TERZO 1869 benché stampata solo nel i546, diciannove anni dacché egli era morto, fu da lui composta verso il 1502, e dedicata alla marchesa di Mantova (Quadr. l. c. p. 65). Ma la molteplicità degli atti, il metro dell' ottava rima, e altri capricci in essa dall’autore introdotti, non le permisero di salire in gran pregio. Lo stesso dee dirsi del Tempio d Amore, commedia da lui composta, quando avendogli i Genovesi distrutto il Castello del Finale, antico patrimonio della sua nobil famiglia, egli si ritirò alla corte di Guglielmo marchese di Monferrato (Allacci, Drammaturg. p. 756, ed Ven. 1753) (a). Essa fu stampata in Milano nel i5i9, e fu essa la prima azione drammatica in cui si vedesse moltiplicalo stranamente il numero de’ personaggi, che sono xr.11. I n’altra commedia del medesimo genere ne abbiamo stampata in Milano 1’ anno i520, intitolata Le Nozze eli Psiche e eli Cupiiline. Anzi più altre azioni drammatiche avea egli composte; e fu tìglio di Teodoro, e fini di vivtye nel 1Ì27. Della qual notizia io son debitore al più volte lodalo signor baron Verna/za di Freney, che molte notizie intorno a quella nobil famiglia ha diligentemente raccolte. Oltre le cose qui indicale, fu anche stampata la commedia de’ Sei Contenti in Casale di Monferrato f anno i 'v'j?.. (a) Vuoisi osservare che nel Tempio & Amore inserì Galeotto tutta la Tavola di Cebete, tradotta in terza rima, il che dagli autori delle Biblioteche de’ Volgarizzatori non è stato osservato. Essa è nel dialogo che fanno insieme l’Accoglienza, la Benignità, l’Amicizia e l'Integrità. Presso il sig. Vincenzo Malacarne se ne ha una copia tratta da quella che ne fece Bernardino Dardano parmigiano, di cui diremo più sotto. % l$~0 LIBRO perciocché Niccolò Franco, scrivendo ad Alberto del Carretto, pronipote di Galeotto, lo esorta a dare in luce le tre Commedie, fra le quali nomina quella de’ Sei Contenti, e innoltre la Sofonisba, Le Rime della l ita Colligiano, e Le Virtù pregioniere (Dial. delle Bellezze, Ven. 1542, p. 112, ec.). Ma trattane l’accennata commedia e la Sofonisba, le altre cose non vider la luce. LII. La prima tra le italiane tragedie, degna veramente di questo nome, è la Sofonisba del Trissino. Aveala egli composta fino dal 1515, come si raccoglie da una lettera in quell’ anno stesso a lui scritta da Giovanni Rucellai (Castelli, Vita del Triss.p. 25). Ma ch ella fosse fatta rappresentare con grande solennità da Leon X, non parmi abbastanza provato. Certo ella non fu stampata che nel 1524 L’ uni versai consenso de’ dotti, i cui giudizii si posson vedere raccolti nella già accennata Vita del Trissino, riconosce la Sofonisba come la prima tragedia che fosse scritta secondo le leggi e secondo il costume greco, e perciò ancora deesi lode all autore, perchè fu egli il primo a usare in tal genere di componimento il verso sciolto; il che è stato dopo altri ad evidenza provato dal sopraddetto scrittore della Vita del Trissino. Fra molti pregi però ha essa ancora i suoi difetti, quello cioè dello stile, che non è grave e sublime, come a tragedia conviene; e quello della troppo affettata imitazione delle maniere greche, difetto comune a tutti gli scrittori di tragedie di questo secolo. Essi persuasi che i tragici greci fossero i modelli su cui TERZO I 87 I dovesser formarsi. si studiarono di rendersi lor somiglianti, come meglio potessero. E in ciò furon degni di lode. Ma non avvertirono che primieramente la diversità della lingua esige ancora talvolta diversità ne' pensieri, poichè tal cosa si potrà esprimere nobilmente in una lingua, che in un’altra sembrerà vile e inde* cente; c inoltre che la diversità delle nazioni e de' tempi richiede diversità di costumi, e che ciò che a’ tempi de’ Greci poteasi fare, senza che alcuno se ne offendesse, forse tra noi sveglierà collera, o riso. Il che più ancora doveasi avvertire dal Trissino, poichè avendo egli scelto un argomento di storia latina, non conveniva rivestirlo alla foggia de’ Greci. Dietro alla Sofonisba del Trissino venne la Rosmonda di Giovanni Rucellai, stampata la prima volta in Siena nel 1525, il quale innoltre scrisse l Oreste, che supera ancora la Rosmonda, benchè solo nel 1723 sia stata data alla luce. Di esse si può dare il giudizio medesimo che di quelle del Trissino 5 anzi il Rucellai più scrupolosa* mente ancora seguì le vestigia de Greci j perciocché, come la Rosmonda. è una imitazione dell’ Ecuba di Euripide, il che era già stato avvertito da Gregorio Giraldi (Dial 2 de Poet suor. temp., Op. p. 571), così l Oreste non è quasi altro che la traduzione dell’ Ifigenia in Tauri del medesimo scrittor greco. Il Negri, e sull autorità di lui il Quadrio, affermano (l. c. p. 66) che Braccio Martelli soleva narrare che il Trissino e il Rucellai aveano a gara composte le lor tragedie, e ch’egli in età giovanile gli avea veduti più volte salire in banco 1872 LIBRO e recitarne diversi squarci, cercando di averne dagli ascoltatori lodi ed applausi. Ma a me non sembra probabile un tal racconto; perciocchè non veggo come questi tre personaggi potessero al tempo medesimo trovarsi nel medesimo luogo; poichè se il Trissino e il Rucellai erano insieme in Roma a tempi di Leon X, par difficile che vi fosse ancora il Martelli, che allora era tuttora fanciullo. LUI. Dopo queste prime tragedie passaron più anni senza che altre ne vedesse fItalia, che lor si potessero paragonare *, perciocché non son degne di andar loro del paro la Discordia dAmore di Marco Guazzo, l Orazia di Pietro Aretino e la Tragedia senza titolo di Giuseppe Baroncini da Lucca rammentate dal Quadrio. VAntigone deU’Alamanni non è loro inferiore; anzi le supera per avventura nell eleganza e nella gravità dello stile; ma ella è traduzione dell Antigone di Sofocle, anzi che nuova tragedia. Della Tullia di Lodovico Martelli, ch è tra le migliori di questo secolo, e sol ne è ripreso il troppo scellerato protagonista, si è già detto in addietro parlando delle Rime di questo colto poeta. Dietro ad esse venne la Canace di Sperone Speroni, tragedia celebre e pe’ molti pregi di cui è adorna, e per le controversie a cui diede occasione, e pel nome del celebre autore. La Vita di esso è stata già con somma esattezza descritta dal sig. Marco Forcellini, e va innanzi al quinto ed ultimo tomo della bella edizione dell’Opere dello Speroni, fatta in Venezia nell’ anno 1740 Noi ne trarremo solo le più importanti notizie, TERZO 1873 e ci compiaceremo di poter esser brevi, senza pregiudicare alla fama di sì grande uomo. Da Bernardino Speroni degli Alvarotti nobile padovano (a) e da Lucia Contarini gentildonna veneziana nacque Sperone in Padova a’ 1 a d’ aprile deiranno i5oo. Fu scolaro del celebre Pomponazzo in Bologna, e tornato indi a Padova, vi ebbe nell’an 1518 la laurea in filosofia e in medicina, e fu poscia nell'an 1520 destinato lettor di logica, e indi tre anni dopo ebbe la cattedra straordinaria di filosofia. Ma egli amò meglio di far ritorno a Bologna, e di porsi di nuovo alla scuola del suo antico maestro, finchè, morto il Pomponazzo, egli si restituì a Padova e alla sua cattedra. Venutogli a morte il padre nel 1528, per attendere a’ domestici affari gli convenne rinunciare alla cattedra. Prese allora a moglie Orsolina da Strà, da cui ebbe tre figlie, Lucietta maritata prima in Marsiglio Pappafava, poi nel conte Giulio da Porto, Diamante moglie di Vittorino Pappafava, e poi del conte Antonio Capra, e Giulia moglie di Alberto Conte padovano. Benchè le cure della famiglia, le liti che sostener gli convenne, e diverse onorevoli commissioni dalla sua patria addategli, f occupasse!* non poco, seppe nondimeno con tale ardore coltivare gli studi, che pochi uomini ebbe quel secolo, che a lui si potessero paragonare. (<7) Bernardino Speroni padre di Sperone fu professore prima nella università di Pàdova, e poscia medico del pontefice Leon X (V. Marini, degli Archiatri pontif, t. 1, p. 312). 1874 libro Quanto foss’ egli versato negli autori greci e latini, sacri e profani, le opere da lui scritte il dimostrano abbastanza, nelle quali a un acuto ingegno vedesi congiunta una vastissima erudizione. Sono esse di vario argomento (a). Molti son trattati morali, i quali per lo più sono esposti in dialogo. Altri appartengono a belle lettere, all’eloquenza, alla poesia, alla storia e ad altre somiglianti materie. Le riflessioni sull Eneide di Virgilio, sulla Commedia di Dante, suirOr/tfm/o dell’Ano sto e su altri antichi e moderni scrittori son pruova del saggio discernimento e del sottile ingegno dello Speroni. Ciò che il rende ancor più degno di lode, si è la maniera con cui egli espone i suoi sentimenti. Ei fu un de’ primi che prendessero a scrivere trattati morali in lingua italiana, e il fece in modo, che tolse ai più la speranza di pareggiarlo. Lo stile dello Speroni non ha nè quell’ affettata eleganza, nè quella prolissa verbosità, nè quella notevole languidezza che pur troppo è famigliare agli scrittori del secolo xvi. Par che egli sfugga di ricercare le più leggiadre espressioni, e nondimeno egli è coltissimo al par d’ogni altro, e, ciò ch è ancor più (a) Non è molto onorevole allo Speroni la nimicizia ch’egli ebbe e mostrò in varie occasioni col Tasso, e il disprezzo con cui mostrò di udire la prima volta alcuni canti della G erosa le ni/nr, di che vendicossi il Tasso rappresentando lo Sperone nell\4mmta nella persona dell’ invidioso Mopso. Jla non è a stupire che trovasse degna di poca stima la Gerusalemme ilei Tasso chi poca mnstravane ancora per VEneide «li Virgilio (Secassi, Tita di T. Tasso /p. 173, 193, 728, 4^9)• TERZO 1875 pregevole, ei sa congiugnere all’armonia la gravità e all eloquenza la precisione. Egli ottenne gran plauso singolarmente nel perorare in pubblico in alcune solenni occasioni, nelle quali a lui fu dato l incarico di ragionare. e in alcune cause che non per professione ch’ei ne facesse, ma per compiacere a parenti, o agli amici, prese a trattare. E grandi cose ci narrano gli scrittori di quei’ tempi dell’ affollato concorso che si faceva ad udirlo, della commozione ch’egli destava col suo ragionare, e degli applausi con cui veniva ascoltato. Nello si il famigliare non è lo Speroni men leggiadro e meno elegante j c le sue lettere (delle quali io ne possedo quattro originali ed inedite) non cedono in ciò a quelle de’ più rinomati scrittori. Le rime ancora son colte e gravi, e anche nello stil bernesco egli scrive con molta felicità. Nel i5()0 passò a Roma, destinato dal duca d’Urbino a trattare i suoi affari presso il pontefice, ed ivi ottenne l’ amicizia e la stima de più dotti personaggi che vi si trovavan raccolti. Fu caro singolarmente a S. Carlo Borromeo, da cui fu ammesso alle sue Notti Vaticane, e in questa occasione si diè lo Speroni agli studi sacri, de quali ancora ci lasciò qualche saggio. Il desiderio di rimediare ad alcuni domestici disordini lo indusse a partire da Roma nel 1564 dopo avere avute da Pio IV le divise e il titolo di cavaliere. Nè meno egli fu onorato dal duca di Urbino e da Alfonso II duca di Ferrara, i quali in diversi tempi spedirono lor cavalieri a levarlo da Padova, e a condurlo alle lor corti, ove con sommo onore 1876 LIBRO il trattennero alcuni giorni. Le continue liti forensi e frequenti morti de’ Suoi congiunti gli renderono spiacevole il soggiorno in patria, e abbandonolla perciò di nuovo, e sulla fine delTanno 1573 fece ritorno a Roma, ove visse cinque anni onorato non solo dagli eruditi, ma da’ principi ancora, fra’ quali Ottavio Farnese duca di Parma venuto a Roma, andò co’ suoi gentiluomini a visitar lo Speroni in sua casa, e tre ore con lui si trattenne. Nell’an 1578 tornò a Padova per occasione del matrimonio ch egli strinse di Lucietta da Porto sua nipote col cav. Alberto Cortese nipote della celebre Ersilia Cortese. Quasi tutti i principi d’ Italia cercarono allora a gara di averlo alle lor corti. Ma egli agli onori e allo strepito antipose il dolce riposo di una vita privata. Poco mancò che non gli venisse affrettata la morte dall’altrui malvagità; perciocchè di notte tempo assalito da’ ladri in casa, e legato nel suo letto, si vide spogliato di quanto denaro avea. Finalmente, giunto già all’ età di anni ottant’ otto compiti, senza infermità precedente, finì di vivere all’improvviso a’ 2 di giugno del 1588, onorato poscia di solennissime esequie e di durevoli monumenti, che ad eternare la memoria gli vennero innalzati. Ma veniamo all’accennata tragedia. LIV. Aveala egli, di mano in mano che l'andava scrivendo, letta nell’accademia degl’Infiammati di Padova; ed essa era stata ricevuta con sì gran plauso, che gli accademici stessi avean disegnato di rappresentarla solennemente) quando la morte di Angelo Beolco soprannomato TERZO 1877 il Ruzzante, che era uno de’ destinati a tal festa, e che morì nel 1542, ruppe il formato disegno. Molte copie se n erano sparse frattanto per tutta l’Italia. Traiano Navò fu il primo a pubblicarla in Venezia nel 1546, ma fingendola stampata in Firenze dal Doni, il quale altamente si dolse di questa impostura, e non meno se ne dolse l autore che vide quella edizione piena di gravissimi errori. Miglior fu l’edizione che nell’anno stesso ne fece il Valgrisi, sulla quale poi un’ altra ne diede il Giolito nel 1562, vantandosi, ma falsamente, ch’ella fosse stata dall’ autore riveduta e corretta. Or prima ancora che questa tragedia venisse a luce, si divolgò a penna un Giudizio sopra. la Tragedia di Canace e Maccareo nel 1543, in cui e la tragedia e l’ autore venivano criticati aspramente e quanto all’invenzione e quanto allo stile; opera creduta da alcuni di Bartolommeo Cavalcanti, ma senza pruove che bastino ad accertarcene. Lo Speroni mostrò dapprima di disprezzarlo; ma poichè vide il giudizio stampato nel 1550, prese a distendere la sua Apologia, a cui però non diè compimento. Di nuovo entrò in questo argomento nell’ accademia degli Elevati, in cui recitò sei Lezioni in difesa della sua tragedia. Felice Paciotto da Pesaro levossi egli pure nel 1581 a difesa della Canace, e scrisse una risposta al suddetto Giudizio, la qual con esso e coll Apologia e colle Lezioni dello Speroni è stata pubblicata la prima volta nel quarto tomo della sopraccennata edizione delle Opere dello Speroni. Uscì ancora nel 1558 una scrittura latina sotto nome di iS’jS LIBRO Giamhatista Giraldi contro questa tragedia, la qual però si crede da molti che senza ragione fosse attribuita al Giraldi. Finalmente Faustino Summo padovano volle quasi seder giudice in questa contesa, e scrisse un Discorso intorno al contrasto che faceasi per la Canat e, il quale però non fu da lui pubblicato che nel iòi)o, dopo la morte dello Speroni, affinchè questi non se ne offendesse. Perciocchè, benchè il Summo si mostri giudice imparziale, e in molte. cose riprenda l’autor del Giudizio, taccia però in molte altre fautore della tragedia. Tutte queste scritture sono state inserite nella detta edizione, e potevansi ad essa aggiugnere ancor la risposta che al Summo fece Giambattista Liviera, la Replica del Summo, e la Controreplica del Li vi era, tutte stampate nello stesso anno 1590 (V. Zeno, Note al Fontan. t. 1, p. 4>9)- Frattanto lo Speroni, benchè con tanto coraggio si difendesse, persuaso nondimeno di aver commessi in quella tragedia alcuni difetti, volle rifarla, e levatene le rime e i versi di cinque sillabe, e sostituita nel prologo Venere all’Ombra, e divisala in atti, e in più altre parti cambiatala, fece conoscere ch’egli ancor la credeva degna di correzione. Questa tragedia così rifatta è stata per la prima volta data alla luce nella suddetta edizione. Benchè nondimeno ella sia divenuta in tal modo migliore, e benchè essa sia stata esaltata con somme lodi dagli scrittori di que’ tempi, ed abbia veramente non pochi pregi, ciò non ostante io non credo ch’ella sarebbe ora udita con molto plauso per la ragione già accennata, cioè per la troppo TERZO 1879 rigorosa imitazione delle maniere greche, le quali nè a’ nostri tempi, nè alla nostra lingua non ben si confanno. LV. Se di tutte le tragedie italiane che in questo secolo furono divulgate, dovessi qui far menzione, mi converrebbe formarne un lungo e noioso catalogo, e copiare ciò che ne ha già scritto il Quadrio, e aggiugner solo che poco onore da esse venne all italiano teatro, e che quasi tutte sono ora dimenticate. Basti dunque il parlar 'solo di alcune più celebri. Nove ne pubblicò Gi amba ti sta Cinzio Giraldi, che per esse singolarmente ottenne gran nome. Fra tutte la più celebre fu YOrbacche, la quale è ancora in concetto di una tra le migliori che in (quel secolo si vedessero. Ella fu la prima volta rappresentata in casa dell’autore, innanzi al duca Ercole II, fanno an.1541, e ciò per opera, dice lo stesso Giraldi (Romanzi, p. 277), di M. Girolamo Maria Con fugo, non perdonando nè a spesa nè a fatica, perchè ella havesse quella grandezza et quella maestà, che alla qualità della favola era convenevole. Con qual applauso foss'ella accolta, e qual impressione facesse nell animo degli uditori, lo narra il Giraldi stesso dicendo (ivi, p. 210): Et che la finita favola habbia questa forza, l esperienza l’ ha mostrato ne la mia Orbecche (quale ella si sia), tutte queste volte, ch ella si è rappresentata, che non pure le persone nuove... ma quelle, che ogni volta vi erano venute, non poteano contenere i singozzi ed i pianti. Et voi tra gli altri lo vi sapete, M. Giulio (parla con Giulio Ponzio Ponzoni, attore famoso, che morì poi iu clà l88o LIBRO immatura) che nel rappresentare che faceste Oronte, vedeste tra le altre anche le lagrime di colei, che tanto amate, qualunque volta la sorte vostra piangeste nella finita persona, le quali mai non poteste vedere nelle vostre vere querele. Il medesimo vide il nostro gentilissimo Flaminio nella sua dolce guerriera, mentre egli finse Orbecche, con quella leggiadria et con quella similitudine al vero, che diede chiarissimo segno del suo nobilissimo animo. E altrove (ivi, p. 24°)-' Come avvenne) M. Giulio, della guerriera vostra, la quale nella rappresentazione della nostra Orbecche veduta la testa di Oronte, la persona del quale voi rappresentavate, subito cadde come morta non altrimenti, che se voi veramente havesse veduto cadere. E ivi ancora loda altamente l’ azione di M. Sebastiano da Montefalco, cui chiama l Esopo e il Roscio de’ suoi tempi. Lo stesso successo sperava egli che aver dovesse un’ altra delle sue tragedie intitolata XAlcide, elio per ordine del duca Ercole II doveasi rappresentare in Ferrara all’occasione della venuta a quella città di Paolo III nell’aprile del 1543. Ma egli ebbe la sventura che quel Flaminio nominato poc’ anzi, ch era un degli attori, nel giorno stesso in cui doveasi rappresentare la tragedia, l'u infelicemente ucciso (ivi, p. 285). E mi si permetta qui di far riflessione sul costume di questo secolo, cioè di recitare qualche tragedia o commedia all’occasione della venuta de’ gran personaggi, o di altra solenne festa. Così venuta a Reggio l’arciduchessa Barbara d'Austria, sposata col duca Alfonso II, fu ivi rappresentato l’Alidoro di Gabriello Bombaci nobile reggiano (V. Mazzucch. Scritt. ital. t. 2, par. 3, p. 1503). All’occasione della solenne incoronazione di Carlo l’in Bologna, Agostino Ricchi lucchese compose una commedia in versi intitolata I tre Tiranni, che fu poi stampata in Venezia nel 1533 (Quadrio, t. 5, p. 66)3. E nelle nozze del duca Cosimo de’ Medici rappresentossi in Firenze il Comodo commedia di Antonio Landi fiorentino, per cui dipinse le scene il celebre Aristotele da S. Gallo (Quadr. l. c. p. 540; Fasti consol. dell’Accad. fior. p. 64, 126). Quando Paolo III nella suddetta occasione si recò a Ferrara, i figliuoli stessi e le figliuole del duca Ercole II innanzi a lui recitarono in latino gli Adelfi di Terenzio (Murat Antich. Est. t. 2, p. 368). Di Baldassarre da Palmia parmigiano, Sacerdote, Musico e Poeta Comico, narra l’Edovari da Erba nel suo Compendio storico ms. di Parma, che due commedie scrisse, e fece rappresentare nella detta città, una intitolata La Pellegrina innanzi al Cardinal Marino Grimani legato, l’altra detta I Matrimonii innanzi al duca Pier Luigi Farnese. Ma ritorniamo a’ più celebri scrittori di tragedie.
Giovanni Andrea dell’Anguillara.
LVI. Una delle migliori, per comune consentimento, è l’Edipo di Giovanni Andrea dell’Anguillara, stampato in Padova nel 1556, autore i88a libro
più noto per le sue opere, che per la sua vita,
di cui appena altre notizie ci ha potute dare
il conte. Mazzucchelli (l. c. t. 1, par. 2. p. y8(3, cc.),
che <|uellc ce ne dà il Zilioli, scrittore non
troppo esatto. Nato in Sutri di bassa condizione
circa il 1517, andossene a Roma a trovar sua
fortuna; e l avrebbe trovata, dice il Zilioli,
presso uno stampatore, se non si fosse scoperto più amante della moglie che delle stampe
di esso, costretto perciò a fuggire, e, per sopraccarico di sventure, assalito da’ ladri nel
viaggio, e spogliato di ogni cosa. Ritirossi allora a Venezia, e a un altro libraio, cioè al Franceschi sanese raccomandossi, da cui ebbe, secondo alcuni, dugento, secondo altri, seicento
scudi per la sua traduzione delle Metamorfosi
d'Ovidio. Io confesso però, che non parmi abbastanza fondato questo racconto. L’Anguillara
pubblicò dapprima il sol primo libro di questa
versione, edizione veduta dalfArgelati senza data
(Panno e di luogo. Indi a Parigi ne pubblicò i
primi tre libri nel 1554, dedicati al re Arrigo II
con una lettera da Venezia, segnata nel marzo
del 1553, edizione che fu ripetuta dal Valgrisi
nel 1555. La prima edizione intera fu fatta in
Venezia da Giovanni Griffi nel 1561, e il Franceschi non ebbe sotto i suoi torchi la versione
dell Anguillara che nel 1563, in cui si videro per
la prima volta le note di Giuseppe Orologi. Or
non mi par verisimile nè che il Franceschi
pagasse PAnguillara per la prima edizione che
dovea uscir da altri torchi, nè che il pagasse,
almeno con sì gran prezzo, per una ristampa,
qual fu quella ch’ei pubblicò nel 1563. Ben
/
/ TERZO I883
dovette sperare PAnguillara una splendida ricompensa dal re Arrigo II, e veggiamo che
perciò egli erasi recato in Francia, ove in Lione
fu accolto da Matteo Balbani gentiluomo lucchese che ivi abitava (lodato perciò ancora dall Anguillara al fine della sua versione), e di cui
parlando Gabriello Simeoni, La cortesia, dice
(J)ialogo pio, p. 157), usata (da costui al gentilissimo spirito dell'Anguillara, honorandolo
et trattandolo come un suo proprio fratello in
casa sua, s ha non solamente obbligato me,
ma quanti huomini virtuosi et amatori di virtù
si trovano al mondo. Il Gimma, citato dal
co. Mazzucchelli, afferma che in fatti ei n'ebbe
in dono una collana d’oro. Ma se altra autorità
non può recarsi a provarlo che quella del Gimma, io temo assai ch ella possa essere a ciò
bastante. Di questa versione non fa bisogno di
ragionar lungamente. La singolare felicità con
cui essa è scritta, la rende pregevolissima, e
non è perciò a stupire che tante edizioni ne
sieno state fatte. L’ Anguillara però agevolossi
la strada a render più plausibile la sua versione
colla libertà che si prese di aggiugnere e di
togliere all’originale ciò che meglio gli parve;
e presso alcuni ottenne ancora maggior grazia,
perchè in certi argomenti si stese più ancora che
non conveniva. Quando e dove facesse egli rappresentare l’Edipo, io l ho trovato accennato in
una lettera di Girolamo Negri: Anguillariits ne~
scio quis, dic egli (Epist. p. ì 20, ed. rom. 1767),
poeta plebejus, caie unte Februario mense proximo fabulam daturus est Populo Patavino:
tota, ut audio, Etrusca est. Apparatus Jìt l884 LIBRO
maximi is in acdibus Aloj sii Comelii. Si libile rii
quaternas horas perdere, huc accedito, La lettera non ha data, ma da parecchi indicii raccogliesi ch’ella fu scritta circa il 1556, nel
qual anno, come si è detto, fu quella tragedia stampata in Padova. Quel Luigi Cornaro
che qui è mentovato, fu, a mio credere, il
famoso panegirista della sobrietà, di cui altrove
abbiam detto. E fu questa tragedia medesima
che venne poi recitata con somma pompa
nel i5(>5 in Vicenza, colla qual occasione que’
cittadini dal famoso loro architetto Palladio fecero costruire un magnifico teatro di legno nel
palazzo della Ragione (Temanza, Vita del Pallad.
p. 17). Di questa tragedia accenna il conte. Mazzucchelli i favorevoli giudizi che han dato diversi scrittori, benchè pure alcuni l’abbiano in
qualche parte ripresa. Ei si accinse ancora a
tradurre YEneide in ottava rima, e il primo
libro ne pubblicò in Padova nel 1564 Anzi due
lettere dall’Anguillara scritte a Francesco Bolognetti da Roma ai’ 22 di maggio e a’ 22 di
giugno dell’an 1566 (Anecd. rom. t. 1,p. 407),
ci pruovano che anche il secondo libro aveane
egli tradotto’, e che volendo egli accingersi a
un nuovo poema, il Cardinal di Trento gli avea
comandato di finire il Virgilio: et mi ha detto
di volermi assegnare il vitto per me, e per un
servitore in vita mia... spero di finirlo in due
anni. Ma nulla più se ne vide, e forse l’Anguillara, sapendo che il Caro avea intrapreso
un somigliante lavoro (V. Caro, Lettere, t. 2,
lett 222), non volle continuarlo, ovvero non
veggendosi dal Cardinal favorito' quanto sperava, TERZO l885
sdegnalo ne depose il pensiero. Certo egli era
uomo che del suo talento usava per vivere;
e Torquato Tasso racconta che avendo egli
fatti gli argomenti all"'Orlando furioso, i quali
furono aggiunti all’ edizione veneta del i >63,
vendevagli mezzo scudo l uno (Lettere poetiche j lett. 1); e avendo egli nell'anno i5()2
stampata in Padova una Canzone in lode del
duca Cosimo I. e non essendone stato ricompensato, nè ringraziato, gli scrisse una insolentissima lettera, ch è tra mss. della libreria
Nani in Venezia (Codici ital. della Libr. Nani, p. 126), nella (quale amaramente si duole
che invece di averne vantaggio, ne abbia avuto
danno alla borsa, e aggiugne che ciò eragli anche altre volte avvenuto. Se però è vero ciò che
narra Giovannandrea Giglio (dial. 1, p. 17)
di aver udito, cioè che il Cardinal suddetto di
Trento Cristoforo Madrucci per un Capitolo ad
esso inviato ordinasse che tante braccia di velluto si dessero all'Anguillara, quanti erano i terzetti di quel Capitolo, ei non ebbe sempre raf gioii di dolersi della sua avversa fortuna. Le
due accennate lettere al Bolognetti ci mostrano
che neiranno i5G6 era egli già ritornato a Roma. Fin a quando egli vivesse, non v’ha chi l
dica. Solo raccontano, non solo il Zilioli, ma
anche il Boccalini (centur. 1, ragg. 27), ch'ei
morì di disagio in Roma in una camera locanda
nella contrada di Torre di Nona; e il Zilioli
aggiugne ch’ ei si morì di malattia colle sue
dissolutezze acquistata. E ch’ ei solesse comunemente abitare nelle locande, narrasi anche dal
Tasso nel luogo poc’anzi citato. Di parecchie l886 LIBRO
altre rime, singolarmente burlesche, dell'Anguillara, e di alcune lettere inedite, ragiona il
suddetto conte Mazzucchelli, il quale ancora
riflette ch’ ei probabilmente non è diverso da
quel Gobbo dellAngnillarii che circa questi
tempi medesimi è rammentato da alcuni. Certe
altre Rime ne sono state pubblicate di fresco
(Anecd. rom. l. c p. 439), e più altre inedite ne ho io vedute nella libreria de’ Canonici regolari di S. Salvadore in Bologna.
LVU. A provar degna di lode l Astianatte di
Bongianni Grattarolo di Salò, può bastare il
giudizio del marchese. Scipione Maffei che le ha
dato luogo nel suo Teatro italiano. E di questo autore abbiamo ancora due altre tragedie,
cioè l Altea e la Polissena, la prima delle quali
fu da lui scritta in versi sdruccioli. La Pantia
di Rinaldo Corso, stampata in Bologna nel 1560,
dee qui essere rammentata, perchè fautore al
principio di essa segna gli abiti de’ quali i personaggi dovean esser vestiti. Della Progne di
Lodovico Domenichi, che non è altro che la
versione di quella di Gregorio Corraro, si è
detto altrove. Collo stesso titolo e sullo stesso
argomento abbiamo ancora una tragedia di Girolamo Parabosco (a), stampata in Venezia
nel 15485 al qual autore, che era ancor maestro di cappella, abbiamo una lettera di Pietro Aretino, in cui scherza col Parabosco,
(a) Intorno ni Parabosco e alle opere da lui pubblicate si posson vedere copiose ed esatte notizie nelle
Memorie per la Storia letteraria di Piacenza del signor
proposto Poggiali (l. 1, p. 74 > ec-)• TERZO I887
perchè quando ode lodar la sua Progne, dice
d'esser musico e non poeta, e quando ode lodar
i suoi componimenti musicali, dice di esser
poeta e non musico (Lettere, l. 5, p. 195).
L'Antigono di M. Conte di MonteVicentino (a),
stampala in Venezia nel 1565, merita di non esser passata sotto silenzio perciocchè volendosi
essa rappresentare in Venezia dalla compagnia
della Calza, fu a tal fine fabbricato dal celebre
architetto Palladio un nobile e vago teatro di
legno, e dodici gran quadri vi furon dipinti
dal non men celebre pittore Federigo Zuccaro
(Temanza, Vita del Pallad. p. 19)). Otto tragedie abbiamo di Lodovico Dolce (V. Zeno,
Note al Fontan. t. 1, />. 47*^)? fra quali la
Marianna, quando fu la prima volta rappresentata nel palazzo di Sebastiano Erizzo, riscosse gran plauso da oltre a trecento gentiluomini concorsi ad udirla; e quando si volle
rappresentare nel palazzo del duca in Ferrara,
sì affollato fu il concorso, che non fu possibile recitarla. Torquato Tasso anche nel genere
tragico volle esercitare l ingegno, e fece conoscere quanto anche in esso fosse felice, poiché
il Porri smondo, stampato la prima volta in
Mantova nel 1587, e poscia ristampato più
volte, ha luogo a ragione tra le migliori tragedie che in questo secolo venissero in luce.
L'an 1587 fu pubblicata in Parigi un'altra
(«) Di Conte dal Monte, che fu nuche scrittore iti
medicina e versato in più altri generi d: erudizione, ha
scritto ampiamente il 1’. Angiolgabrirllo dn Santa Mana
(Scritr. \’icent. t. 4 » p- • sii, ec.). l888 LIBRO
tragedia attribuita al Tasso, e intitolata la Gismonda, ma, come osserva Apostolo) Zeno (ivi
p. 481), ella non è altro che il Tancredi del
Conte di Camerano, di cui tra poco diremo.
Di più tragedie fu autore Vincenzo Giusti udinese, il quale fu il primo, secondo il Quadrio
(l. c. p. 70), che dividesse il coro in due
parti, le quali parlan tra loro a vicenda. Girolamo e Melchiorre Zoppi bolognesi, padre e
figlio, furono essi pure autori di tragedie. Di
Girolamo è X A tatuante, eli1 ei pubblicò in Macerata nel 1579 sotto nome degli Accademici
catenati, de’ quali era stato ei medesimo il
fondatore. Un bell’ elogio ne fece il Mureto,
scrivendo in una sua lettera all’ autore: Tragaediam, dic egli (l. (4, (epist. 1), sive ab auditoribus tuis, ut se ri bis, sive, ut mihi, verisimilius fit, a te ipso conscriptam, non tantum
cum voluptate, sed etiam cum admiratione perlegi. Ita mihi visa est supra consuetudine iti hujus aetatis ornata multis et gravibus sententiis
et tempestive prolatis, et grandi ac sublimi verborum genere illuminatis Totum autem
poema olet A callenii am, olet Lyceum, olet Philosophiam, non illam horridam et incultam, et
aut elinguem, aut stulte clamosam, qua e bodie scbolas prope omnes occupavit, sed vetustam illam Atticam ornatam ingenuarum artium
multo splendidoque comitatu. Neque dubito
fore, ut aut omnibus place a t, aut iis tantum displiceat, quibus displicere laus est. Passa
indi ad additargliene alcuni difetti, e quello
singolarmente che nel prologo si comandi di
uscir dal teatro a tutti coloro che amano la TERZO! 88t)
probità e la compassione. Ei biasima ancora
l uso del prologo e la divisione in atti e in
iscene. Nel che però è degno d’ osservazione
che il Mureto medesimo, avendo composta in
latino una tragedia intitolata Julius Caesar,
che abbiamo tra le Poesie di questo elegante
scrittore, benchè fosse nimico di tal divisione,
la divise nondimeno in atti, e vi indicò ancora
la division delle scene. Di questa controversia
si è già altrove trattato (t 6, par. 3, p. 813).
Melchiorre, che visse fino al 1634, ne scrisse
e ne divulgò quattro (V. Quadrio, l. c. p. 76).
Quattro parimente ne abbiamo di Antonio Cavallerino modenese, stampate in Modena nel i.ri8a
e nel 1583, le quali son forse degne di maggior fama, che comunemente non hanno, e il
Telesfonte principalmente, in cui egli prima
di tutti trattò non infelicemente quell argomento
medesimo che fu poscia trattato ancor nel
Cre sfonte, pubblicato Panno i588 da Giambattista Liviera (n), nella Merope del conte. Pomponio Torelli, di cui diremo tra poco, e dopo
più altri scrittori con felicità e con gloria troppo
superiore a tutti dal marchese. Maffei nella immortal sua Merope. Anzi più altre aveane egli
(a) Il Crvxfonte, tragedia del Liviera, ha ipicsto particolar pregio, ch‘ei la scrisse, condri medesimo afferma nella lettera dedicatoria, in età di diciotto anni,
e la pubblicò mentre contavane ventitré nel 15K8 Della
contesa che per essa ebbe a sostenere con Fausto.Sommo, e di alice opere da lui composte, veglisi il padre
Angiolgabriello da ¿inula Maria (Scria, vicrnt. t. 5,
p. 206, ec.). l«St)0 ■ LIBRO
composte fino al numero di sedici, e una fra
le altre sul fatto di Meleagro, la quale egli
sperava dovesse riuscire il modello delle tragedie italiane (V. Zeno, Note al Fontan. t. 1
p 479) » ina ninn’ altra ne uscì in luce. Ei tradusse ancora dal greco in versi italiani la tragedia attribuita a S. Gregorio nazianzeno, intitolata il Cristo paziente, che io ho veduta
ms. nella libreria de Canonici regolari di S. Salva dorè in Bologna.
LVIII. Se al merito delle tragedie e delle
altre poesie da lui composte dovessimo aver
riguardo, noi potremmo accennar solamente,
o anche passare sotto silenzio il nome di Luigi
Grotto, detto il Cieco d’Adria, perciocchè non
hanno diritto ad essere annoverate tra quelle
delle quali l Italia si può giustamente vantare.
Ma un cieco quasi fin dalla nascita, oratore e
poeta, è oggetto troppo degno di ricordanza,
perchè non debba alquanto occuparci. Oltre
l elogio che ne ha fatto il Ghilini (Teatro
d Uomini letter. t. 1, p. 3o4)5 e oltre due brevi
Vite, una innanzi alle Lettere del medesimo
stampate in Venezia nel 1601, la seconda poco
più stesa scritta da un altro Luigi Grotto discendente dal Cieco, e pubblicata in Venezia
nel 1769, ne abbiamo avuta di fresco un’altra
assai più distesa, e corredata di autentici documenti, scritta dal sig. Giuseppe Grotto, discendente esso ancora dal Cieco, e stampata
in Rovigo nell an 1777 e di questa singolarmente noi (qui ci varremo. Ebbe Adria a
sua patria, e Federigo Grotto e Maria Rivieri Trnzn 1891
nobili amputine di quella città per suoi genitori,
e da essi nacque a’ 7 di settembre dell' an 1541 - Nell* ottavo giorno della sua nascita,
com’ egli stesso racconta (Orazioni, T^enezia, 1586(p, 1), perdette affatto la vista, che
solo pareva risentirsi alcun poco a una vivissima luce. Fu nondimeno applicato agli studi,
ed ebbe a maestri Scipione Gesualdo de’ Belligni napoletano, e un Celio Calcagnini diverso
dal celebre ferrarese che morì nell’ anno medesimo in cui nacque Luigi. Ma sembra ch' ei
non fosse troppo felice ne' suoi maestri; perciocchè in una sua orazione, accennando le
difficoltà che gli si opponevano, dice (ivi,
p. 135): La seconda era la mia imperfezione,
non havendo io mai potuto per me stesso operare privo della scorta degli occhii, nè altri
havendo mai saputo insegnarmi; anzi quando
io era consegnato alla disciplina d alcuno,
egli mi diceva, che, prima che m insegnasse,
io gli insegnassi ad insegnarmi. E quindi avvenne probabilmente che non avendo egli buone
guide pel sentier delle lettere, e seguendo solo
il suo ingegno, si desse a quello stile troppo
ingegnoso e fiorito, che si vede nelle sue opere.
Frattanto i saggi di raro e straordinario talento che dava Luigi ancor giovinetto, e che
dalla sua cecità rendevansi ancor più ammirabili, fecero che fanno ¡556, in età di soli
quattordici anni, due volte fosse destinato a
perorare pubblicamente in solenni occasioni in
Venezia, prima nella venuta a quella città di
Bona regina di Polonia, poscia nella creazione
del doge Lorenzo Priuli. Nell esordio di questa l8j)Q LIBRO
seconda orazione egli indica chi ara mente \1
sua età: Fatale introdution nomino f che tanti
anni io habbia nell’ orare al nuovo Prencipe,
quanti giorni bave a il mese, quando, e’ fu assunto al Prencipato (ivi, p. 8). Ove si nota
in margine, e si conferma dal medesimo Grotto
(ivi, p. 9), che quel doge fu eletto a’ 14 di
giugno del detto anno, in cui solo ai' 7 di
settembre compiva il Grotto il suo quindicesimo. Un fanciullo cieco e in età di quattordici anni. che in sì onorevoli occasioni è destinato ad orare pubblicamente, in qualunque
maniera ragioni, è oggetto di maraviglia. Nè
io mi stupisco perciò, che, benchè le Orazioni del Grotto sien ben lungi da quelle che
Venezia avea udite dal Casa e da altri illustri
oratori, fossero nondimeno accolte con tanto
plauso e ch’egli fosse poscia trascelto al medesimo ufficio in più altre solenni occasioni,
come ci mostrano le ventiquattro Orazioni che
ne abbiamo alle stampe. Nel 1565 fu eletto
principe dell accademia degl’ Illustrati, di fresco eretta in Adria (ivi, p. 19). Dalle Lettere
di esso raccogliesi ch’ ei fu più volte a Bologna (Lett p. 5, 58, 68), e una volta fra le
altre nel 1570, quando fu colà invitato a recitar l orazione latina nel riaprimento dell università, che insieme colle altre è stampata
(Oraz. p. 145). Nè mancarono al Grotto distinzioni ed onori, e par certo ch' ei parli di
se medesimo, ove dice: la Eccellentissima signora Laura (Eustochio) da Este in Ferrara, la
Illustrissima Signora Laura Gonzaga in Bologna, e la Illustrissima Signora Isabella Pepali Tp.r.zo *8y3
in Rovigo visitarono sovente uno Scrittore de’
nostri tempi (ivi, p. 26). La regina Bona nominata poc’ anzi, avendole egli, oltre l accennata orazione, offerte alcune poesie, gli i’e’
dono di un bell’ anello d oro ricco di pietre
preziose (ivi, p. 7). Ciò non ostante, ei fu
sempre povero (ivi, p. 18), e parve che la
fortuna gli fosse liberale di onori più che di
beni. Benchè fosse cieco, non fu nondimeno
insensibile all’amore, e le sue rime cel mostran
compreso di non picciola fiamma, e alcune
ancora delle azioni drammatiche da lui pubblicate non sono troppo oneste. Nel carnovale
del 1585 recossi a Vicenza, ove nel teatro olimpico rappresentandosi l Edipo di Sofocle tradotto da Orsato Giustiniani, egli sostenne la
parte del cieco Edipo. Abbiam le lettere ch’egli
scrisse a Cammillo Cammilli a 22 di luglio
del 1584 (Lett. p. 162), accettando l’invito
fattogli. Ed egli grato agli onori ricevuti in tal
occasione in Vicenza, dedicò a quell Accademia
Olimpica le sue orazioni, e nella lettera ad essa
diretta, Io, dice, con questa dedicatura paleso
gli obblighi, che tengo, e rendo le grazie, che
debbo a cotesta Accademia di tanti favori usatimi questo carnascial passato, Io chiamato
dall’ Illustr. SS. VV. venni costì a sostenere in
parte quella famosa Tragedia fatta recitar da
voi con tanta magnificenza e. con sì splendido
apparato su quel celebre theatro.... Allora quale
spezie di cortesia, d’apparecchio, di conviti,
di conversazioni, di feste, di musiche, di onori, e d' altri diporti singolari, qual maniera di
spese per condurmi dalla mia patria insino a l8:)4 LIBRO
Vicenza, e per ricondurmi da Vicenza infino
alla patria mia, fatta perpetuamente nella mia
partita, nel mio viaggio, nella mia stanza, e
nel mio ritorno, si tralasciò verso me?.Anzi
quando fui nella patria, mi corsero dietro i
preciosissimi doni mandatimi dalle Illustr. SS.
F'V. E fu veramente quello spettacolo uno de
più insigni che si vedesse in Italia, e ce ne lasciarono la descrizione Angiolo Ingegneri (Della
Poes. rappresentat, par. 2, p. 72), e Filippo
Pigafetta in una lettera scritta da Vicenza a’ 4
di marzo del 1585 (Raccolta milan., 1756,
fogl. 35). La data della suddetta dedicatoria
è dei’ 20 di dicembre del 1585. Ma o nel giorno
o nel mese di queste lettere debbe esser corso
errore, poichè è certo che il Cieco morì in
Venezia a 13 di dicembre dell’ anno stesso. Il
corpo ne fu poi trasportato da Adria, e onorevolmente sepolto. Oltre le Orazioni e le Lettere più volte accennate, ne abbiamo molte Rime, due tragedie, l Adriana e la Dalida, tre
commedie, tra le quali quella intitolata la Emilia fu da lui composta all’ occasion della fabbrica del teatro fatta in Adria nel 1579, e due
favole pastorali, e una rappresentazione intitolata l Isaac, tutte in versi, e tutte, a dir
vero, poco pregevoli e (quanto all’invenzione
e quanto allo stile. Perciocchè a me sembra
che al Grotto si possa dare la taccia di aver
più che ogni altro dati i primi esempii di
quello stile per soverchie metafore e per ricercati raffinamenti vizioso, che tanto dominò
in Italia nel secolo susseguente. L’Aretino e il
Franco furono i primi a darcene qualche saggio, TERZO l8<)5
singolarmente nelle lor prose; e Domenico Veniero, come si è detto, cominciò a corrompere alquanto la poesia. Ma il Grotto andò
ancora più oltre, e le prose e le poesie di
esso appena si crederebbono scritte nel secolo xvi. Il sonetto fra gli altri
Mi sferza e sforza ogn hor lo amaro Amore
Rime, Ven. 1587, p. 51
è un tal intreccio di bisticci e di giuochi di
parole, ch’ io non so se ne abbiano de’ peggiori l’ Achillini e il Preti. Io credo che l applauso con cui cotai libri vennero accolti,
fosser dovuti alla cecità dell’autore più che al
loro merito. Ma frattanto essi pur furono applauditi; e da ciò venne che molti si gittaron
poscia per la medesima via, e corruppero interamente il buon gusto. Abbiamo innoltre del
Grotto la correzione del Decamerone da lui
poco felicemente eseguita, e la traduzione in
ottava rima del primo libro dell' Iliade, stampata in Venezia nell’anno iS'to. Avea ancora
tradotta laGeorgica di Virgilio (Lettere, p. 106),
ma questa non uscì mai alla luce. Alcune altre
opere inedite, o perdute, se ne annoverano
al fin della Vita che ne ha scritta il sig. Giuseppe Grotto, che di esse assai distintamente
ragiona.
LIX. Il Tancredi di Federigo Asinari nobile
astigiano, e conte di Camerano, stampato la
prima volta a Parigi nel 1587 sotto il titolo
di Gismonda, e attribuito a Torquato Tasso,
come si è già avvertito, quindi da Gherardo Borgogni pubblicato di nuovo in Bergamo nel i588 l8t,G LIBRO
col suo vero titolo, e attribuito falsamente non
a Federigo, ma ad Ottaviano Asinari questa
tragedia, io dico, per consentimento de1 mi.
gliori giudici, ha luogo tra quelle che fanno
onore al teatro italiano; e abbiamo un Discorso
sulle bellezze di essa di Giambattista Parisotti
(Calogerà, Racc. t. 25, p. 339). Egli era nato
sulla fine del 1527, e fu da’ suoi principi onorato delle ragguardevoli cariche di gentiluomo
ordinario di camera, di consigliero di guerra,
di colonnello di fanteria, e fu anche inviato
ambasciadore al gran duca di Toscana nel 1570,
e morì poscia in età ancor fresca nel gennaio
del 1576. Di lui e di più altre poesie italiane,
che ne sono sparse in diverse Raccolte, o si
conservano inedite in alcune biblioteche, parla
il conte. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2,
p. 1161, ec.). Assai più esatte e più copiose
notizie ne ha raccolte il sig. baron Giuseppe
Vernazza, il quale ancora con somma diligenza
va adunando le opere tutte di questo dotto
scrittore, e tutto ciò che può giovare ad illustrarne la vita } e già ne ha avuto gran numero di poesie, e tre libri delle Trasformazioni col principio del quarto in ottava rima,
e tre libri di un altro poema nel medesimo
metro intitolato dell'Ira <COrlando. Delle quali
notizie, avendomele egli coll usata sua gentilezza
trasmesse, avrei io potuto giovarmi a stendere
un lungo articolo sul conte di Camerano. Ma
io desidero ch’egli stesso comunichi al pubblico
le sue fatiche, e mi astengo perciò dal dirne
più lungamente. Più volentieri io prenderei a
ragionare distesamente del celebre Pomponio TERZO 1897
Torelli parmigiano, conte di Montechiarugolo,
e nobilissimo cavaliero, che allo splendore del
sangue aggiunse ancor quello delle lettere. E
avrei forse potuto darne esatte notizie, se
mi fosse stato permesso di esaminare le molte
opere inedite che si conservano in Reggio presso
i discendenti di quella illustre famiglia. Ma poichè ciò mi è stato negato, io riserberò il farlo
ad altri che più di me sian felici; e frattanto
dalle opere stampate dello stesso Pomponio e
d’altri scrittori anderò raccogliendo que’ lumi
che mi sarà possibile. Fu egli figlio di Paolo
Torelli e di Beatrice Pica figlia di Gianfrancesco Pico, e nacque nel 1539 (Angeli, Stor,
di Parma, l. 4, p• 4*5)- De’ primi suoi studi
fatti nell’ università di Padova ragiona egli stesso
dedicando agli Accademici Ricoverati di quella
città la tragedia intitolata Vittoria: Troppo
mi trovava io obbligato alla nobilissima Città
di Padova, nella quale fui fanciullo d undici
anni ricevuto, mentr era la patria mia travagliata per gli tumulti della guerra, che turbava
buona parte d Europa, et in essa fui col primo
latte dell’ humane lettere dal Robortello nutrito,
e poi con la scorta del Tomitano, del Genoa,
et del Pellegrino nella Logica et nelle naturali
scienze, et in quella, che gli antichi stimarono sapienza, di sodo cibo sostentato per
undici anni continui da pochi mesi in poi,
che fui sforzato di vagar per la Francia, con
mio sommo diletto et utilità mi vi trattenni. Dee
dunque il conte Pomponio aggiugnersi agl’illustri alunni di quella università rammentati dal
Tiraroschi, Voi. XIJ. 47 1898 L1BKO
Papadopoli. Un altro maestro ebbe egli in Andrea Casali da Faenza, rinomato filosofo, a
cui perciò pose una lapida nella chiesa de1 Mi.
nori osservanti di Montechiarugolo, ch è riferita dal P. Flaminio da Parma (Mem, de'Min.
oss. t 2, p. 152). Ma io non penso ch ei
l’avesse a maestro in Padova; perciocchè il
Casali non è mai nominato nelle Storie di quella
università. Tornato in patria, prese dopo più
anni a sua moglie Isabella Bonelli, sorella del
Cardinal Bonelli nipote del santo pontefice
Pio V, da cui ebbe cinque figli, Paolo, Pio,
Marsilio cavaliere di Malta, Francesco e Salinguerra, oltre un altro figliuolo naturale detto
Pomponio, cavaliere di Malta, a cui egli indirizzò il suo trattato Del debito del Cavaliero,
stampato in Parma nell’anno i5<)6. 11 duca
Ottavio Farnese inviollo in suo nome in Ispagna nel 1534 » a^n di ottenere la restituzione
della cittadella di Piacenza fin allora occupata
dagli Spagnuoli; e con qual festa fosse egli
in questa città ricevuto nel giugno dell' anno
seguente, quando egli vi recò il reale dispaccio perciò ottenuto, si può vedere presso il
chiarissimo proposto Poggiali (Stor. di Piac,
t. 10, p. 228). La maggior parte però del
tempo fu da lui occupato negli studi, e in
que’ singolarmente dell’umana letteratura. Oltre
le Poesie latine, che ne furono stampate in
Parma nel 1600, le Rime che ivi pure vennero
in luce nel 1575, e il suddetto Trattato, ne
abbiamo cinque tragedie, la Merope, il Tancredi > la Galatea, la Vittoria il Polidoro, le
quali per eleganza di stile e per regolarità di TERZO 1899
condotta non cedono a verun’ altra di quell età, e se il soverchio grecismo non le rendesse alquanto noievoli, potrebbono anche al
presente udirsi e leggersi non senza piacere.
Fra esse la migliore è la Merope, la quale
dopo il Telesfonte del Cavallerino, e dopo il
Cresfonte del Liviera, fu la terza scritta su
quell’ argomento, e dal marchese Maffei è stata
poc’anzi inserita nel suo Teatro italiano, senza
temere che per essa venisse a scemare di fama
la sua. Molte altre opere mss. se ne conservano in Reggio., cioè diverse Lezioni da lui
dette nell’ accademia degl’ Innominati di Parma, altre di argomento morale, altre di poetico, un Compendio della Poetica d’Aristotele,
la Sposizione di varie Odi di Pindaro, cinque
libri de’Movimenti dell’animo, ed altri somiglianti trattati, frutti della continua sollecitudine del conte Pomponio nel coltivare e nel
promuovere i buoni studi. Morì nel 1608, come
io raccolgo da una lettera di Lorenzo Pignoria, scritta a’ 25 d’ aprile del detto anno (Lettere d Uomini ill., Ven. 1744, p. 60) (a).
(a) Del conte. Pomponio Torelli si posson ora vedere
più copiose e più esatte memorie raccolte d il eh. padre
Affò, e inserite nel Gi ornai di Modena (t. 17, p. 137,ec.),
e nella nuova edizione De l Art de verifier les Dates
(t. 3, p. 681, ec.), nella qual opera tutto ciò che appartiene all’ origine, alle vicende, alle diramazioni di questa illustre famiglia, e singolarmente a quel ramo da
cui è uscito il regnante re di Polonia Stanislao, è stato
con somma erudizione ed esattezza illustrato per opera
de’ conti Giuseppe e Isacco Giuseppe cugini Torelli di
un ramo di questa stessa famiglia stabilito ora in Francia, i quali con lunghi viaggi e con faticose ricerche I9OO LIBRO
LX. Fra le buone tragedie si sogliono ancor
rammentare il Principe Tigridoro di Alessandro
Miari, l’Acripan da di Antonio Decio da Orte
la Tullia Feroce di Pietro Cresci, XIdalia di
Maffeo Ve ni ero, la Semiramide di Muzio Manfredi da Cesena, di cui io ho più lettere a
D. Ferrante II Gonzaga duca di Guastalla, ed
altre di D. Ferrante al Manfredi, tutte di argomenti letterarii, e singolarmente drammatici;
l Almerigo di Gabriello Zinani, la Tomiri di
Angelo Ingegneri, il Cesare di Orlando Pescetti,
ed altre che si posson vedere registrate da tutti
gli scrittori di tal materia. Io mi trovo ingolfato in un sì vasto oceano, che non mi è possibile il trattenermi a esaminare ogni cosa che
mi si offra allo sguardo, e mi conviene affrettarmi a ritornare alla spiaggia. Perciò io non
farò parimente menzione delle tragedie che da
alcuni con poco felice consiglio cominciarono
a scriversi in prosa, e delle molte traduzioni
che vennero a luce delle tragedie degli antichi scrittori greci e latini. La storia del teatro
italiano è stata sì pienamente illustrata dal
Quadrio, che a me può bastare di dare un
cenno delle cose più degne di riflessione, senza
trattenermi a dirne più lungamente. Chiudiam
in lutti i principali archivi d' Italia c di Polonia son
giunti a rischiarar queslo punto di storia italiana, che
finora era involto fra molle tenebre. Essi inoltre e con
essi il co. Cristoforo Torcili reggiano, veggendo con
dispiacere che appena conserva vasi memoria ulcuna del
co. Pompooio tu Monlechiai ugolo, gli hanno ivi innalzato un ouorevole monumento con una elegante latina
iscrizione. TERZO I90I
dunque ciò che alla tragedia appartiene coll osservare che benchè molte tra le tragedie in
quel secolo divolgate fossero accolte con istraordinario applauso, poche però, o forse niuna
tra esse lo otterrebbe al presente. L’ammirazione che allora aveasi per l’ antico teatro greco, faceva che tutto ciò che ad esso rassomigliava, sembrasse degno di lode, e che questa
tanto fosse maggiore, quanto più esatta fosse
la somiglianza, e non riflettevasi, come si è
già accennato, che la diversità della lingua, de
costumi e de’ tempi richiedeva ancora diversità
d’azioni e di sentimenti. Chi può ora, a cagion
d’ esempio, udir con piacere quelle lunghissime
parlate che si trovan nelle tragedie greche? Chi
può approvare l’uso del coro, quale in esse si
vede, e ch è tanto contrario a’ moderni costumi? Ma conveniva che così accadesse, cioè,
che prima si prendessero quasi a copiare i tragici greci, e che in tal modo le Muse italiane
si disponessero a scriver tali tragedie, in cui
serbando tutti i più rari pregi degli antichi maestri, se ne schivassero que’ difetti che furon
difetti de’ costumi, dell indole delle nazioni e
de tempi; come appunto veggiamo avvenire
che un industrioso pittore comincia ad esercitarsi nel copiare esattamente i più perfetti originali che può avere sott’ occhio, e quindi si
fa autore egli medesimo, e dipinge secondo
che la sua fantasia e le sue riflessione gli insegnano.
LXI. Mentre molti tra’ poeti italiani sforzavansi di rinnovare tra noi l’antica tragedia, e
di emulare Euripide e Sofocle, altri si rivolsero 1Q02 LIBRO
a ravvivar la commedia, prendendo singolarmente a modello i due comici latini Plauto e
Terenzio. Anzi già abbiamo osservato (t. 6,
par. 2) che le prime commedie che il duca Er
cole I fece con tanta pompa rappresentare in
Ferrara, altro non furono comunemente che
traduzioni di quelle de’ due suddetti scrittori.
L’uso di recitarle or nell’originale latino, or
recate in lingua italiana, durò ancor lungamente; e fin dopo la metà del secolo noi veggi amo
che il cardin.il Ippolito d’Este il giovane fece da
alcuni nobili giovani rappresentare il Formione
di Terenzio, nella qual occasione compose il
Mureto quel prologo che tuttora abbiamo tra
le Poesie di questo scrittore. Più frequente nondimeno fu l'uso di comporre nuove commedie,
altre in versi, altre in prosa, e di farle pubblicamente rappresentare. Grande è infatti il
numero di tali componimenti che abbiamo alle
stampe; ma conviene ancor confessare che al
numero non corrisponde il valore. E a dir vero,
le buone commedie furon in ogni età e presso
ogni nazione assai più rare che le buone tragedie. Nè è difficile a intenderne la ragione.
Nelle tragedie la gravità de’ personaggi che vi
s’introducono, e la grandezza dell azione che
si prende a soggetto, solleva per se stessa non
poco l’ azione medesima, e giova ancora talvolta a coprirne alcuni difetti; come appunto
un ricco e pomposo abito, di cui uno si adorna, nasconde spesse volte i difetti del corpo
che ne è coperto. Ma la commedia, i cui personaggi sono comunemente plebei, o almeno
privati, e l azione ancor suol essere domestica TERZO j9°3
c famigliare, per sua natura medesima è bassa
e triviale, se ella non è sostenuta da una certa
eleganza di stile (che tanto è più difficile ad
ottenersi, quanto meno debb’essere ricercata)
e da un ingegnoso ma insiem naturale e verisimile intreccio di vicende e di piccole rivoluzioni, cade del tutto a terra, e appena è
possibile il sostenerne la rappresentazione o
la lettura. Questa difficoltà di ben riuscire nelle
commedie fu quella per avventura che indusse
molti comici a procurare alle loro azioni l’applauso che non isperavano di ottenere sì agevolmente per altra via, con una sfacciata impudenza nelle parole, ne’ gesti, nelle azioni;
perciocchè in que’ tempi sì liberi e dissoluti
avveniva pur troppo che quanto più oscena era
qualche commedia, tanto più fosse applaudita.
Nel che giunse a tal segno la libertà, che anche Giglio Gregorio Giraldi non si potè contenere di non biasimarla altamente: At nunc,
dic egli (De Poetar, Hist. dial. 8, Op. t. 2,
p. 438), mi hi apud vos secreto liceat exclamare: o tempora! o mores! Iterum obscena
omnis scena revocata est; passim fabulae aguntur, et quas propter turpitudinem Christianorum omnium con sen sus expulerat, ejecerat,
exterminaverat, eorum, si Deo placet, praesules, atque nostri ipsi aulisti fes, nedum Principes, in medium revocant et publice actitari
procurant. Quin et famosum histrionis nomen
jam Sacerdotes ipsi et sacrìs indiati sibi ambitiose asciscunt, ut inde sacerdotiis locupletati
honestentur. Di questa impudenza del teatro di
quell' età abbiamo pruova fra le altre in una i9°4 libro
lettera di Marco da Lodi (cioè di Marco Cadamosto, autore di alcune Rime stampate nel 1555)
scritta da Roma nel 1531 e nell'anno stesso
data alla luce col titolo: Le splendidissime et
signorili nozze de li magnanimi (Cesarini con
li illustrissimi Colonnesi fatte a di XXVIII di
Maggio MDXXXI, in cui si narra che furono
recitate due commedie, cioè la Bacchide di
Plauto, e un’altra italiana, e si accennano i
disonesti atteggiamenti di un di que’ comici.
Poche dunque son le commedie in questo secolo scritte, che si possan proporre a modello
di tali componimenti; perciocchè per la maggior parte o son si languide e fredde che muovono a noia, o sono sì disoneste che ributtano
ogni animo saggio ed onesto. Ci convien nondimeno vedere quali fossero quelle che ottennero maggior nome, e nelle quali anche al
presente si può additar qualche pregio, benchè comunemente macchiato da non pochi
difetti.
LXI1. E per cominciare dalle commedie scritte
in versi, all’Accademia sanese de" Rozzi, di cui
si è a suo luogo parlato, deesi principalmente
il vanto di aver promossa la comica teatral
poesia. Il pontefice Leon X, che di cotali rappresentazioni si dilettava forse più che al suo
grado non convenisse, ogni anno faceali venire
a Roma, e nelle private sue stanze godeva di
udire le scherzevoli loro farse, come colla testimonianza di alcuni scrittori di que’ tempi
Pruova il recente autore della Storia di quelAecademia (Stor. dell’Accad. déRozzi, p. 1),
il quale aggiugne che talvolta essi ebbero ancor TERZO 1905
l’onore di essere con piacere ascoltati dall’imperador Carlo V. Molte di fatto son le commedie, se pur con tal nome si posson chiamare, di quegli Accademici, altre stampate,
altre inedite, delle quali si può vedere il catalogo al fine della medesima Storia; e, ad imitazion loro, più altri Sanesi si esercitarono in
questo genere, sicchè non vi è forse città che
al par di quella possa vantare un sì gran numero di scrittori di commedie. La lode però
di aver prima d’ogn altro composte commedie
in versi degne di questo nome, e scritte secondo le leggi degli antichi maestri, deesi a
Lodovico Ariosto, che, dopo averne scritto ne’
giovanili suoi anni alcune in prosa, ridusse poi
quelle stesse, e alcune altre ne compose di
nuovo in versi. Di esse parla a lungo il chiarissimo dottor Giaonandrea Barotti sì nella Difesa degli Scrittori ferraresi (par. 2, cens. 5),
sì nella Vita altrove da noi mentovata di questo poeta, nella quale egli racconta che il duca
Alfonso I fece a tal fine nella sua corte medesima alzare uno stabil teatro secondo il disegno
che l Ariosto stesso ne diede; ch esso riuscì
sì magnifico, che il più bello non erasi ancor
veduto; che quelle commedie furono più volte
rappresentate da gentiluomini; che lo stesso
principe D. Francesco figliuol del duca non isdegnò di recitare il prologo della Lena la prima
volta che' essa fanno i5a8 fu rappresentata. Su
questo teatro medesimo probabilmente furono
recitate le tre commedie di’Ercole Bentivoglio,
Il Geloso, I Fantasmi, e I Homi ti] delle quali
le prime due sole si hanno in istampa. Egli iqoG libro
gareggiò in esse coll Ariosto, e se non potè in
tutto uguagliarlo, non gli andò molto discosto
anzi nel metro delle commedie da lui usato,
fu più felice del suo rivale, perciocchè al verso
sdrucciolo usato dall Ariosto sostituì Pendecacasillabo piano. Gli elogi con cui molti parlano
di queste commedie, si posson vedere accennati da conte Mazzucchelli (Scritt, ital t. 2,
par. 2, p. 8-4)• Anche il Trissino alla tromba
epica e al tragico coturno volle accoppiare il
socco comico; e il fece con felice successo
nella commedia intitolata I Simillimi. Lo stesso
dee dirsi dell'Alamanni, di cui abbiamo la Flora,
commedia che sarebbe degna di maggior lode,
se non fosse distesa in certi versi sdruccioli
di sedici sillabe, che non ebber gran plauso.
Delle farse in lingua astigiana composte da Giangiorgio Arioni, e delle vicende a cui per la sua
soverchia libertà di parlare e di scrivere fu questo autore soggetto, si può vedere ciò che narrano il Quadrio (t. 5, p. 70) e il conte Mazzucchelli (l. c. t. 1, par. 2, p. 1055, ec.). A
questo secondo scrittore io rimetterò ancora
chiunque brami di avere distinte notizie di Francesco (d’Ambra fiorentino (ivi, p. (601), uno de
più rinomati scrittori di commedie di questo
secolo, di una delle quali, cioè Del Furto, è
stato di fresco per la prima volta pubblicato
il prologo (Codici mss. della Libr. Nani, p. 130).
Il cavalier Lionardo Sai vinti fra i noiosi studi
gramaticali non trascurò quello della comica
poesia; e Il Granchio, commedia da lui fatta
rappresentare, e pubblicata nel 1566, è da alcuni creduta una delle migliori che abbia la TERZO I907
nostra lingua. Fra tutti però gli scrittori di commedie in verso, niuno havvi per avventura che
si possa paragonare a Giammaria Cecchi fiorentino, di cui molte ne abbiamo, alcune.scritte
in prosa, in cui avea egli cominciato a distenderle, altre in versi, in cui egli e tradusse alcune di quelle già scritte in prosa, e altre ne
compose di nuovo, e non poche ancora ne son
rimaste inedite (V. Quadrio, l. c p. 72). Io
accenno quasi di volo alcune delle migliori commedie, e assai più altre ne passo sotto silenzio per amore di brevità, e per non ripetere
inutilmente ciò che altri han detto.
LX1II. Maggiore ancora fu il numero delle
commedie composte in prosa; perciocchè nacque su ciò contesa tra gli eruditi italiani; e alcuni pretesero che essendo l'argomento della
commedia un’azion privata e domestica, domestico ancora e famigliare esser ne dovea lo
stile, e che perciò non le conveniva il verso.
Altri al contrario affermavano che poesia essendo ancor la commedia, e non potendo esser poesia senza verso, le commedie stesse non
potessero essere scritte che in verso. È inutile
ch’ io entri a esaminare e a decidere una tal
lite, la qual dipendendo dalla diversa maniera
con cui si consideran gli oggetti, non sarà forse
decisa mai. Ci basti dunque l’annoverare alcuni
di quelli che nello scrivere commedie in prosa si
esercitarono con maggior lode. Il Quadrio afferma (l. c. p. 80) che la prima vera commedia scritta in prosa fu la Calandra del Cardinal
Bibbiena. Io penso che assai difficile sia il
provarlo; perciocchè le prime commedie che 1908 libro
dall1 Ariosto si scrissero in prosa, furono scritte
come dimostra il dott Barotti (Difesa degli
Scritt, ferr. par. 2, cens. 5), verso il 1498 e
circa questo tempo medesimo dovettero essere
scritte quelle del celebre Maccli ¡avelli; nelle qua!i
per altro è più a lodarsi la purità della lingua
che la felicità dell’intreccio. Ma se la Calandra
non ebbe il vanto di esser la prima commedia in prosa, ebbe però quello di essere accolta con plauso non ordinario, e di ottener
gran nome all’autore, di cui non possiam dispensarci dal dir qualche cosa, benchè l’averne
già scritta a lungo la Vita il ch. signor canonico Bandini (Il Bibbiena ossia il Ministro di
Stato, ec., Livorno, 1758) ci permetta il farlo
con brevità. Bernardo Dovizi, o Divizio, nacque
di oscura famiglia a’ 4 di agosto dell’an 1470
in Bibbiena, terra del Casentino, da cui fu volgarmente cognominato. Per mezzo di Pietro
suo fratello, ch era segretario di Lorenzo de’
Medici, entrò egli ancora in quella illustre famiglia, e diessi principalmente al servigio di
Giovanni che fu poi cardinale e indi pontefice
col nome di Leon X, e nel tempo medesimo
che occupavasi in servirlo, coltivava insieme gli
studi dell’amena letteratura, e l’amicizia de’ letterati, de’quali sì gran numero era allora in Firenze. Nelle avverse vicende, fedele al suo padrone, seguillo costantemente nell’esilio e ne’
viaggi che gli convenne di fare, e con lui poscia
recatosi a Roma, si rendette ancora assai caro
al pontefice Giulio II. Da amendue perciò incaricato d’importanti e difficili affari, soddisfece a
tutti con somma destrezza e con uguale felicità. TERZO
In mezzo però agli stessi più gravi affari, uomo,
com'egli era, di leggiadro ingegno e d’indole
sollazzevole e inclinata a’ piaceri, seppe accoppiare alle fatiche gli amori, di che abbiamo
r.on poche pruove in molte lettere a lui scritte
dal Bembo tra’l 1505 e’l 1508 (Lettere, t. 3, l. 1).
Ma in niuna occasione fece meglio il Bibbiena
conoscere la sua destrezza e il suo accorgimento, che nel conclave dopo la morte di
Giulio II; perciocchè in esso adoperossi per
modo, singolarmente col far credere che il suo
padrone, benchè in età di soli trentasei anni,
poco nondimeno potesse ancor sopravvivere,
che questi fu finalmente innalzato sulla cattedra di S. Pietro. Leon X non fu ingrato al suo
fedel servidore, e dopo averlo nominato tesoriere, a’ 23 di settembre del 1513 il creò cardinale, e diegli ancora due anni appresso l’incarico di presiedere alla fabbrica della santa
Casa di Loreto. Nella nuova sua dignità potè
il Bibbiena più agevolmente mostrare l’animo
suo splendido e generoso a pro delle lettere,
sì nello scegliere al suo servigio uomini eruditi,
quai furono Cammillo Paleotti, Giambattista
Sanga e Giulio Sadoleto, sì nell’esercitare il valor degli artefici, e principalmente di Rafaello,
a cui ancora avrebbe data una sua nipote in
moglie, se l’immatura morte di quel sì illustre
pittore non l’avesse vietato. Il pontefice continuò a valersi di lui ne’ più gravi affari di guerra
e di pace, destinandolo prima legato e presidente delle armi pontificie nella guerra d’Urbino, che da lui secondo l intenzion di Leone
fu felicemente condotta a fine, e inviandolo ijflO LIBRO
l’anno i5i8 legato in Francia, affine di unire in
pace i principi cristiani, e di collegarli contro
il Turco. Ei ne tornò sulla fine dell’an 1519.(
Parid. Crassi, Diar. ap. Hoffman. Nova Collect
Script, t. 1, p. 441)• Ma mentre sperava onori
e vantaggi sempre maggiori, si vide da immatura morte troncate le più liete speranze. Il signor canonico Bandini par che adotti la voce
da alcuni sparsa, che il Bibbiena, dimentico de
beneficii dal pontefice ricevuti, e trasportato
dall’ambizione di occuparne il trono, contro di
lui congiurasse, e che Leone sdegnatone, il facesse segretamente avvelenare. Ma di questo sì
grave delitto non sembra che si abbiano certe
pruove. Il Giovio, che pur non è molto difficile nell’addottare cotai rumori, narra soltanto
(in Elog.) che il Bibbiena aspirava al pontificato, quando Leone venisse presto a morire,
e molto più che il re di Francia Francesco I
gliel avea promesso; e che Leone di ciò sdegnossi sì altamente, che il Bibbiena, caduto
poscia infermo, e veggendo che i più squisiti
rimedii non gli giovavano, credette di esser
stato avvelenato in una coppia d’uova al qual
racconto è somigliante quel del Fornari (Spo~
siz. dell'Ariosto, par. 2, p. 308). Il Grassi nel
suo Diario (l. c p. 456) narra che morto il
Bibbiena a 9 di novembre del 1520, e apertone il cadavero, parve che le viscere fosser
rose da qualche veleno. Ma ognun sa quanto
facile fosse a quei’ tempi il formare tali sospetti. E a me sembra che se il pontefice lo avesse
in tal modo tolto occultamente di vita, egli
avrebbe vietato che non si aprisse il cadavero, TERZO I
sicché il veleno non si scoprisse. Io credo dunque che il Bibbiena non fosse reo che di una
mal saggia ambizione di quel supremo grado
di onore, e che il veleno, di cui egli morì,
altro non fosse che lo sdegno di quel pontefice, ch ei si avvide di avere incorso. Più altre particolari circostanze intorno alla vita e
alla morte del Cardinal Bibbiena si posson vedere presso il soprallodato canonico Bandini,
il quale ci dà ancora il catalogo delle Lettere,
delle Rime, e di qualche altro opuscolo da lui
lasciatoci. Io dirò solo della Calandra, per cui
egli è celebre singolarmente. Essa fu allora applauditissima, come vedremo, e forse il fu per
quella ragione che fece allora piacere la maggior parte delle commedie, come si è poc’anzi
avvertito. Ciò non ostante, ella può rimirarsi
come una delle migliori che allor vedesse l’Italia, anche perciò, che l’autore, com egli
stesso scherzevolmente confessa nel suo proemio, formossi sul modello di Plauto, e ne tolse
ancora non poco. Il Zeno crede (Note al Fontan. t. 1, p. 360) ch’essa fosse la prima volta
recitata in Roma a’ tempi di Leon X, senza
potere accertarne l’anno; quindi in Mantova la
notte innanzi a’ 21 di febbraio del 1520, poscia di nuovo in Roma all’occasione della dimora ch ivi fece per qualche tempo Isabella
d’Este Gonzaga marchesa di Mantova, e finalmente in Urbino. Ma io penso che questa che
dal Zeno si crede l’ultima, fosse veramente la
prima recita della Calandra. Baldassar Castiglione, in una lunga sua lettera al vescovo Lodovico Canossa (Castigl. Lettere, t, 1, Lettere, 19 i 3 LIBRO
di Negoz. p. 156, ec.), descrive la singolare
magnificenza con cui in Urbino fu quella com
media rappresentata. La lettera non ha data
ma essa non può essere nè anteriore al
nel qual anno il Castiglione cominciò a stare
alla corte d’Urbino, nè posteriore al 1513, nel
qual anno il Bibbiena fu creato cardinale; perciocchè il Castiglione in quella lettera non gli
dà un tal titolo, ma lo dice semplicemente
Bernardo nostro. Anzi è probabile che ciò avvenisse prima della morte del duca Guidubaldo
da Montefeltro, seguita nel 1508; perciocchè
dopo quel tempo le guerre d'Italia difficilmente
poteron dar luogo a sì lieti spettacoli. E che
quella fosse la prima recita, confermasi ancora
da ciò che aggiugne il medesimo Castiglione,
cioè che tardi essendo giunto il prologo del
Bibbiena, egli aveane fatto un altro; il che sembra indicarci che fosse composizion sì recente,
che appena avesse fautore tempo a finirla. La
seconda dovette esser quella a’ tempi di Leon X,
la quale non fu diversa, come ha creduto il
Zeno, da quella che fu fatta in riguardo della
marchesa Isabella; perciocchè, comunque il
Giovio non tocchi amendue queste circostanze
nell’elogio del Bibbiena, le tocca però nella
Vita di Leon X, ove racconta che lo stesso
pontefice v’intervenne, benchè ella, a dir vero,
non fosse cosa molto adattata alla dignità di
vicario di Cristo. Rechiamo il passo di quello
scrittore, anche per l’idea che ci dà del carattere del Bibbiena Vita Leon. X, l. 4,p. 97,
ed. Fior. 1551): Accesserat et Bibienae Cardinalis in geni um curri ad arduas res tractandas TERZO 19i3
«e rae re, tum maxime ad movendos jocos accomodatum. Poeticae enim et Etruscae linguae studiosus comoedias multo sale multisque
facetiis refertas componebat, ingenuos juvenes
ad histrionicam hortabatura, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus instituebat. Propterea quum forte Calandram comoediam a
mollibus argutisque leporibus perjucundam in
gratiam Isabellae Mantuani Principis uxoris per
nobiles Comoedos agere statuisset, precibus impetravit ut ipse Pontifex e conspicuo loco despectaret Erat etiam Bibiena mirus artifex
hominibus aetate vel professione gravibus ad
insaniam impellendis, quo genere hominum Pontifex adeo fragranter oblectabatur, ut laudanco
ac mira eis persuadendo ì donandoque, plures
ex stolidis stultissimos et maxime ridiculos efficcrc consueti sset. E certo dunque da questo
p.isso, che a’ tempi, anzi in presenza di Leon X
fu questa commedia rappresentata in Roma innanzi alla marchesa Isabella. In qual anno però
ciò accadesse, non mi è stato possibile il determinarlo (*), poiché di altro soggiorno in
Roma di quella sovrana io non ho ritrovata menzione j che di quello ch’essa vi fece nel 1527
a' tempi di Clemente VII (Agnelli, Ann. di Mant
l. 11, c. 7, p. 858). Il Vasari ci ha lasciata la
(*) 11 eh. sig. abate Bettinelli ini ha avvertilo che
dalle Lettere inedite del co. Baldassar Castiglione, conservate in Mantova, si raccoglie che la marchesa Isabella tu a Roma nel » 5141 Cl°k su 1 principa di Leon X,
e in questo anno perciò dee stabilirsi la recita della
Calandra ivi cou tanta pompa rappresentata.
Tiràboscui, Vob XII.
48 IQ14 LIBRO
descrizione delle magnifiche scene che per l’ac
cennata recita della Calandra fece ivi* Balda
sarre Pcrazzi sanese (Vite de Pitt. t. 3 p 328
ed. Fir. 1771)- Questa commedia stessa fu an_?
cora Rappresentata in Mantova innanzi alla stessa
marchesa nel febbraio dell'an 1521, come
ben pruova il Zeno colla testimonianza dell Equicola. Di un’altra magnifica rappresentazione
che ne fu fatta in Leone a’ 27 di settembre
del 1548, innanzi al re Arrigo II e alla reina
Caterina de' Medici, dalla nazion fiorentina
parla il medesimo Zeno, il quale racconta che
que’ due sovrani distribuirono a comici 800
doppie in dono, e ci dà altre minute notizie
intorno allo stabilimento del teatro italiano in
Francia (rt).
(a) Intorno alla introduzione del! teatro italiano in
Francia merita di esser letto il primo tomo dell' opera
del ch. sig. conte Galeani Napione di Cocconato dell" Uso
e de pregi della lingua italiana stampato in Torino
l'an 1791, opera degna di quell*ingegnoso ed elegante scrittore, in cui la nostra lingua ha avuto il più
giusto conoscitore de’ suoi pregi e il più valoroso apologista che sia stato finora. Egli osserva (t. 1,p. 212, ec.)
che a" tempi del re Arrigo II i gentiluomini di quella
corte imparavano e parlavano perfettamente la lingua
italiana, e che raccogliendosi nelle camere di madama
Margherita, sorella del re e poi duchessa di Savoia,
vi si esercitavan!! nel leggere con molta grazia alcuni
italiani couipoiiiinciiti. Accenna poscia la rappresentazione della Calatidi a, e a*, giugne clie Margherita di
Valois, sorella del re Francesco I e intendentissima
della lingua italiana, oltre a diverse Rime italiane stampate, composte avendo alcune co.-e drammatiche, chiamò
d’Italia i migliori uomini che aver potesse, affinchè
in sua corte si recitassero. Ei narra ancora che Arrigo II diede in Parigi un fermo stabilimento alla TERZO *915
LXIV. Molte commedie in prosa pubblicò
pretino, degne di lui, cioè famose soltanto
,per l'impudenza con cui sono scritte. Più altre ne abbiamo del Firenzuola, del Cocchi,
jd Gì azzini, del Sai via ti, del Varclii, del Caro,
Girolamo Razzi, che fu poi d Silvano
monaco camaldolese, di Francesco d’Ambra
di cui è forse ancora una commedia senza
titolo inserita dal Pasquali tra quelle del Macchiavelli (Lib. ms. Farsetti, p. 168, senza rejinieproova), di Sforza degli Oddi, di Giambattista Porta, del Dolce, del Borghi ni, di
indica Calmo, del Contile e di altri scrittori,
de quali o abbiam già parlato, o dovrem fare
altrove menzione. Gigio Artemio Giancarli da
Rovigo, Cristoforo Castelletti romano, Rafaello
Martini, Lorenzo Comparini fiorentino, Alessandro Cencio di Macerata, Cornelio Lanci,
Girolamo Parabosco, Bernardino Pino e più
altri ci diedero essi pure quai maggiore, quai
minor numero di commedie. Ma a me basta
accennarli. In questo genere si esercitarono
molto gli accademici Intronati di Siena, dei’
quali abbiam sei Commedie unitamente stampate nel 1611, e più minute notizie potrà, chi
voglia, vederne presso il più volte lodato
commedia italiana, e clic la Compagnia de1 Gelosi diede
principio alle sue rccile f anno i5?7 nel palazzo di
Borbone, con tal concorso che, come ntfermasi in un
Giornal «li que’ tempi, quattro de’ migliori predicatori
nou avevano tutti insieme P uguale. Lgli ha poi anche
osservato che fin dall’anno i56g era stata introdotta
in baviera la commedia italiana, coinè suol dirsi, a
»•ggetto (t. 4, p. 76). 1 (J I 6 LIBRO
Apostolo Zeno (l. cit. p. 3G?). Fra esse t
sono del celebre Alessandro Ficcolom.,,! di
cui altrove abbiamo a lungo parlato, cioè /’./*
mor costante, che fu recitata innanzi al't’iu,
peradore Carlo V, quando egli nel 1536 entrò
in Siena, L Ortensio, che nella città medesima
fu recitata all' occasione che il duca Cosimo I
la prima volta vi entrò nel i56o, e ì'Alcssan
dro (ivi). Quattro Commedie abbiam parimente alle stampe di Niccolò Secchi bresciano, ma oriondo milanese, di cui perciò parlano
stesamente il cardinal Querini (De brix. Litterat. t. 2, p. 209) e l’Argelati (Bibl Script,
mediol. t 2, pars 2, p. 372), intitolate Il
Beffo, La Cameriera, L'interesse, GL inganni; l’ultima delle quali fu recitata in Milano
nel 1547 innanzi al principe Filippo d’Austria,
che poi fu re di Spagna. Il Secchi fu uomo
amante non sol degli studi, ma ancora dell armi, e in più occasioni diè saggi di gran
valore. Fu ancora inviato da Ferdinando re de’
Romani suo ambasciadore a Solimano, e anche presso questo principe ottenne grazia e
favore non ordinario. Fu in Milano capitano di
giustizia, e fu poscia dal pontefice inviato a
Roma, ove mentre sperava di avere notevoli
ricompense, fu dalla morte rapito. Egli esercitossi ancora con molta felicità nella poesia
latina, e oltre più altri componimenti che ne
sono stati stampati, e che si annoverano da’
due suddetti scrittori, ne abbiamo il poema
intitolato: De origine pilae majoris, et cinguli
militaris. quo flumina superantur, in cui, dopo
aver parlato del modo con cui passare i fiumi TERZO ÌQ17
f(iir ajuto degli otri, passa a descrivere leggiadramente il giuoco del pallone, e al fine di
esso scherza sul duro impiego che sosteneva
Milano:
Sed dum stultitiae duci vagor anxius horto,
Carceris ad limen tetri importuna precantum
Me trabit invitum nubes, ubi plurima circum
Foeda ministeria apparent, manicoeque, pedumque
Vincula, et imitatis tortor, lachrimaeque, minaeque,
Laesorumque novo manantes sanguine virgae,
Unde,mea horribili properans exterrita visu
Musa fugit, mediumque volans me deserit inter
Causidicos, ubi turba cruci me garrula figit.
Il Quadrio (l. c. p. 88) ripone tra le più
belle commedie che abbia l'Italia Le Balie di
Bartolommeo Ricci 5 e io mi stupisco perciò,
ch'essa non sia stata inserita tra le opere di
questo illustre scrittore stampate in Padova
nel 174$- Fra tutti però gli scrittori di commedie in prosa si suol dare comunemente la
preferenza a Giambattista Gelli fiorentino, uomo
dibassa nascita e di profession calzaiuolo, ma
di piacevole ingegno, per cui si rendette illustre in Firenze, e fu uno de’ principali ornamenti di quella accademia. Le molte lezioni
in essa da lui recitate, le traduzioni di diverse opere dal latino, più altri libri da lui divolgati, e singolarmente le due commedie, una
intitolata La Sporta, l’altra L'Errore, il fecero avere in conto di un de’ più colti scrittori di quell’ età, e di lui e dell' opere or accennate, e di più altre ancora si ha un’ esatta
relazione nelle Notizie dell'Accademia fiorentina
(p. 51, ec.), e qualche altra circostanza se ne
ha ne' Fasti consolari della medesima (p. 74, ec.). 1918 LIBRO
Jigli finì ili vivere nel luglio del,5^3,
ili sessantacinque anni.
LXV. Io passo sotto silenzio moltis8inii altri scrittori «li commedie in prosa, de’quali
poco gioverebbe il voler fare un lungo e minuto catalogo, che già è stato fatto dall'Allacci
e dal Quadrio. Molte aggiunte però si posson
fare a questi scrittori coll!’ aiuto del copioso ed
esatto Catalogo di Commedie italiane che ha
nella sua biblioteca raccolte il ch. sig Tommaso Giuseppe Farsetti patrizio veneto, stampato in Venezia nell' an 1776, ove si comprendono ancora le rappresentazioni, le pastorali
e altri somiglianti componimenti teatrali. Il Quadrio dalle commedie passa alle nimiche rappresentazioni, e dell’ origine de’ ridicoli personaggi che in esse introduconsi, e di que’ che
in esse si renderon più celebri, parla a lungo
(l. c. p. 179, 211, ec.). Ma in queste appena han parte le lettere; e io perciò non mi
arresto a parlarne. Tra gli scrittori di cotali
poesie due principalmente ebbero in questo secol gran nome, Andrea Calmo, che scrisse nel
dialetto veneziano, da noi già mentovato altrove, e Angelo Ruzzante soprannomato Beolco, che di varii dialetti fece uso, e singolarmente del rustico padovano. Di lui, oltre più
altri scrittori, parla non brevemente il conte
Mazzucchelli (Scritt. it. t. 2. par. 2, p. 9°^; oc-)»
a cui però mi lusingo di poter aggiugnere qualche non inutil notizia. Credesi comunemente
che il cognome fosse quel di Beolco, e che
quel di Ruzzante non fosse che un soprannome. Ma io credo anzi che soprannome fosse TERZO I 9! y
lC| di Beolco, che è quanto dire bifolco, o
tl,‘ esso gli fosse dato per l amar ch’ ei faceva
jragricoltura (a). In fatti nel Dialogo dell’ Usura,
j,i cui lo Speroni introduce l usura medesima
a favellar col Ruzzante, così le fa dire: Il che
tu fai nella Agricoltura, alla quale tutto ti sei
donato (Op. t. 1, p. 126). Egli o perchè disperasse di ottener molta fama nel Coltivare la
lingua italiana, o perchè a tale studio non
fosse inclinato, tutto si diede al volgar dialetto
del contado di Padova, e udendo con attenzione que' contadini ne’ loro famigliari ragionamenti, e sforzandosi d’imitare le loro rozze
maniere, divenne presto sì eccellente, che e
nello scrivere e nel! recitare non avea chi l pareggiasse, talchè il suddetto Speroni lo dice
nuovo Roscio di questa età (ivi, p. 61), e Comico eccellentissimo (ivi, p. 115). Grande infatti fu il plauso che ottenne il Ruzzante sì
nello scrivere, che nel rappresentare le sue
commedie, in modo ch’ egli avea sempre foltissimo numero di uditori, e veniva seguito
ovunque ne andasse. Ciò non ostante, ei non
potè sottrarsi ai’ disagi della povertà, nella quale
(a) Il eh. si^. abate Gennari ha osservato che quel
di Itcolco fu il vero cognome della famiglia del Ruzzante, e che ppih non è giusta la conget'ura da me
qui formala (Saggio sopra le Accad. di Pad. p. ai).
Del Ruzzante parla ancora il suddetto co. «pione, il
quale ragiona ancora di Andrea Calmo, di Giambatista
Cini, di Giorgio Allione piemontese, c di Aurelio
Schioppi veronese, rhe introdurselo nelle commedie
diversi popolari dialetti, e dell’applauso con cui questa
novità fu accolla non solo in Italia, ma anche ni Francia (l. rii. t. 4, p. 76). 1920 Liisno
era nato. Curioso è il passo dello Speroni
cui introduce l'usura che così dileggia ed
insulta il Ruzzante su questa sua povertà
Povero mio Ruzzante, gli dic ella (ivi, p. i(/?'
è questo letto, nel qual tu dormi, da par tuo’
che in gentilezza di far Commedie alla ruiH’
caria sei senza pare in Italia 9 Questa tua cappa, che tieni addosso, come una coltre la
notte, or non è ella quella medesima che porti
indosso ogni giorno la state e il verno per Padova? Chi ti scalza la sera? Chi accende il
fuoco nella tua camera? chi attinge l acqua?
che bei? che mangi? povero a te, cioè meschino infelice! Tu fai commedie di amori e
nozze contadinesche, onde ne ridano i gran
Signori; e non ha cura della tragedia, che fa
di te la tua povertà piena d orrore e compassione. Le commedie del Ruzzante sono altamente lodate dallo stesso Speroni: Questo a’
dì nostri, dic egli (ivi, p. 189), chiaramente
si vede in un giovane Padovano di nobilissimo
ingegno, il quale, benchè talora con molto
studio, ch’ egli vi mette, alcuna cosa componga alla maniera del Petrarca, e sia lodato
dalle persone, nondimeno non sono da pareggiare i sonetti e le canzoni di lui alle sue Commedie, le quali nella sua lingua natia naturalmente, e da niuna arte ajutate, par che gli
eschino dalla bocca. E il Varchi non teme di
antiporle alle antiche Atellane (Ercolano, p. 34 2
ed. Fir. 1730). Cinque esse sono; perciocchè
la sesta, cioè la Rodiana, che da alcuni gli è
attribuita, si vuole da altri con miglior fondamento che sia del Calmo. Di esse, delle loro TERZO <921
rdizioni, e di altre poetiche composizioni del
Ruzzante, veggasi il conte Mazzucchelli. Egli
però non potè goder lungamente degli onori
che al suo talento rendevansi; perciocchè in
età di soli quaranta anni venne a morte in
Padova a’ 17 di marzo del 1542, mentre disponevasi a recitar la Canace dello Speroni,
come raccogliam! da una lettera del celebre
Luigi Cornaro, che amava molto il Ruzzante,
e che della morte di esso fu sì afflitto, ch’ essa,
dice (Sper. Op. t. 5, p. 329), avrebbe ammazzato ancora me per lo estremo dolore, se
essa potesse ammazzare un uomo ordinato
prima che pervenghi alla etade di novanta anni.
LXVI. Nelle tragedie e nelle commedie ebbero gl'italiani quasi a lor guida gli antichi poeti
greci e latini, ed essi totalmente presero a formarsi sulle lor tracce, che parver più volte traduttori anzi che imitatori. Non così ne’ drammi
pastorali, de’ quali ora passiamo a parlare (perciocchè riguardo alle tragicommedie, delle quali,
prima che di essi, ragiona il Quadrio (p. 347),
non ci si offre cosa in questo secolo che sia
degna di special lode). Nulla di questo genere
ci han tramandato gli antichi; e il Litierca,
ossia il Dafni, di un certo Sositeo, ch è
l’unica cosa di cui si trovi menzione, appena
sappiam cosa fosse (ivi, p. 380, ec.). Furon
dunque i primi gl’italiani a darne l’esempio;
e qualche saggio se n’ era veduto fin dal secolo precedente, singolarmente nel Cefalo di
Niccolò da Correggio. Ma nè allora nè poscia
per molti anni si vide cosa a cui veramente
si convenisse il nome di dramma pastorale. La I9ijt LIBRO
lode ili questa invenzione deesi ad A »ostili
Becca ri ferrarese. a cui invano ha cercato di
toglierla monsig. Fontanini (Aminta difeso, c r •
lì ibi. colle note d Apost Zeno, t 1, p. 409’ ec)
perciocchè e il dottor Barotti (Difesa’ dì-»li
Se riti, ferrar, par. 2, cens. 6) e il Zeno (l. c)
con tal forza gli hanno risposto, che chiunque
non ha gli occhi del tutto chiusi alla verità
non può rimanerne dubbioso. E a me sembra
che il Fontanini invece di rammentare il Tirsi
del Tansillo, e una pastorale del Caro, che
non si sa cosa fosse, avrebbe potuto non più
ragione additare YEglc Egle Giambalista Giambattista Giraldi,
come pastorale più antica di quella del Beccari. Innanzi ad essa si legge: Fu rappresentata
in casa dell'Autore l'anno MDXLV una volta
a' XXIV di Febbrajo, et un altra a IV di
Marzo all Ill Signore il S. Hercole II da Este
Duca IV, et all' Ill et Rev. Cardinale Hippolito II suo fratello. La rappresentò M. Sebastiano Clarignano da Montefalco. Fece la
Musica M. Antonio del Cornetto. Fu IArchitetto et il Pittore della Scena M. Girolamo Carpi
da Ferrara. Fece la spesa l'Università degli
Scolari delle Leggi. Ma anche questa non è
che un abbozzo di poesia pastorale, che non
può togliere al Sagrifizio del Beccari il primato. Fu questa dapprima rappresentata con molta
pompa due volte in Ferrara nell’an 1554
innanzi al duca Ercole II, e agli altri principi,
e vi fece la Musica Alfonso dalla Viola (V. Mazzucch Scritt ital. t. 1, par. 2, p. 082, oc.) j
quindi nell’ an 1587 due altre volte in occasion delle nozze di Girolamo Sanseverino TERZO ljp3
$anvitale marchese di Colorilo c conte di S.iie
con Benedetta Pia, e di Marco Pio signor di Sassuolo e fratello di Benedetta con Clelia Farnese.
Tre anni appresso morì l’autore in età di circa
ollant'anni, glorioso per aver dato al teatro
italiano una nuova foggia di poesia. Del Sa grifi zio del Beccavi molli han parlato con molta
lode, altri con molto disprezzo, e i lor giudizii
sono stati accennati e raccolti dal co. Mazzuo
elicili, lo penso che questa pastorale rappresentazione non sarebbe gran fatto curata, se
non fosse la prima di questo genere, e che
perciò appunto che fu ella la prima, non avesse
tutti quei’ pregi che poi si videro in altre; perciocchè appena mai avviene che il primo tentativo riesca del tutto felice. L’esempio del Beccari animò più altri a seguirlo, e veggiamo che
i primi a farlo furono Ferraresi, Alberto Lollio, che ci diè X Arei usa nei i563, e Agostino
Argenti che nel 1568 pubblicò Lo Sfortunato.
Dell’Aretusa ancora leggiamo a un di presso
come dell 'Egle, che fu rappresentata in Ferrara
nel Palazzo di Schivanoja l'anno mdi.mij allo
Ill. et Ecc. Signore il S. Donno Alfonso da
Esti secondo Duca di Ferrara quinto, et a lo
ili. et Rev. Mons. lo Cardinale Don Luigi suo
fratello, et a molti altri nobiliss. Signori. La
rappresentò M Lodovico Betti, fece la Musica
M. Alfonso Vivola: fu l Architetto et Dipintor
della Scena M. Rinaldo Costabili. Fece la spesa
la Università degli Scolari di lle Leggi (Quadr. p. 399). Ma queste ed altre somiglianti
rappresentazioni pastorali tutte si ecclissarono
all’ apparire dell'Aminta del Tasso, opera essa lyij LIBRO
ancora sci illa nella corte medesima di Ferrara
e da lui composta in età giovanile, e che
rimirarne l’autore come uno de’ più gran poeti
che mai fosser vissuti. E veramente l'eleganza
e la dolcezza del verso, la leggiadria delle iia.
magini, la forza degli affetti ne è singolare
Nè io perciò negherò che fra molti pregi non
abbia ancora l Aminta alcuni difetti. Lo stile
talvolta troppo fiorito, alcuni concetti più ingegnosi, che a pastor non convenga, alcune
parlate più del dover prolisse, l’intreccio non
sempre verisimile, sono difetti che si ravvisano da chiunque con animo non prevenuto
legge l’Aminta; ma che si possono perdonare
all’età del poeta, e che posti in confronto co'
tanti pregi onde questa pastoral poesia è adorna, volentieri vengono dimenticati. Intorno a
ciò si può vedere XAmbita difeso e illustrato
di monsig. Fontanini, il quale ha preso a difendere il Tasso dalle accuse a lui date dal
duca di Telese D. Burtolomineo Ce va Grimaldi.
Ma come il censore troppo sottilmente va in
cerca di'ogni minimo neo, e trova difetto ove
altri nol vede, così ancora l’apologista si mostra troppo impegnato in difendere il suo cliente, anche ove non sembra che sia luogo a difesa. Le molte edizioni e le versioni in quasi
tutte le lingue dell’Europa fatte di questa pastorale (fra le quali è pregevole quella del Zatta
nel 1762,* perchè vi è stato aggiunto XAmor
fuggitivo del medesimo Tasso) pruovan la stima
in che in ogni età e presso ogni nazione essa
è stata. Il Baldinucci crede (Notizie de Profess. t. 7, p. 46, ed. Fir. 1770) che fosse questa la rappresentazione che in Firenze per
ordine del gran duca si fece con solennissimo
apparato, e per cui ideò ingegnosissime macchine
Bernardo Buontalenti; e curioso è il fatto
ch’egli racconta, come cosa da non dubitarne,
cioè che il Tasso informato del plauso con cui
essa era stata accolta, e del molto che perciò egli
dovea al Buontalenti, recatosi secretamente a
Firenze, volle conoscerlo, e scopertosi a lui,
e baciatolo in fronte, partissi tosto, senza che
il gran duca, che dal Buontalenti n era stato
avvisato, potesse farlo fermare, e onorarlo,
come bramava.
Altri drammi pastorali
LXVII. L’esempio del Tasso, e il gran plauso
con cui fu accolta l’Aminta, risvegliò ne’ poeti
italiani non poco ardore nell’imitarlo, sicchè
in pochi anni fu innondata l’Italia di pastorali
rappresentazioni. Ma l’esperienza fece loro conoscere che troppo era malagevole l’uguagliarlo.
Io lascerò dunque in disparte le poesie di questo genere che verso la fin del secolo ci diedero Alvise Pasqualigo, Gabriello Zinani, Luigi Grotto, Pietro Cresci, Alessandro Miari, Angiolo Ingegneri, Diomisso Guazzoni, Girolamo Sorboli, Rafaello Borghini, e più altri che si rammentan dal Quadrio (p. 400 ec.). Anche alcune donne vollero in ciò segnalarsi, e oltre Laura Guidiccioni Lucchesini4 e Leonora ly^ lìbro Inoliati genlildoune lucchesi, che tre pastorali composero, le quali non han veduta!la luce! ' Maddalena Campiglia;) pubblicò nel i588 la Fio* ri, c Isabella Andreini padovana, in età ancora assai giovanile, stampò nell’anno medesimo la Mirti Ila. Di questa illustre poetessa che fu insieme comica di professione, e che a una singolare bellezza e a un talento non ordinario congiunse una ancora più rara onestà di costumi, per cui si fece ammirar all’Italia e alla Francia, e che morì in Lione in età di quarantadue anni nel 1604. si posson vedere più distinte notizie presso il conte. Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 712). Dell Enone di d Ferrante Gonzaga duca di Guastalla, pastorale tanto aspettata da' poeti di quelfelà. e tanto lodata da que’ che ne videro qualche parte, ma che non fu mai pubblicata, si è già detto altrove (par. 1, p. 60). Anche un Ebreo per nome Leone, ch è probabilmente lo stesso che l'autore dei’ Dialoghi (d'Amore, stampati nel 1.^41, avea composta la Drusilla favola tragica pastorale, dedicata a Cesare Gonzaga padre del suddetto d Ferrante, che trovasi come ms. segnata in un Inventario de mobili di d Ferrante nel i5(>o. Così mi ha avvertito il più volte lodato F. A fio, a cui debbo ancor la notizia di un altro poeta ebreo detto Salamon Usque, del quale nella Raccolta di Rime stampata in Genova nel 1573 si ha una canzone clic quella fn<se opoia della Guidiccioni, la quale di fatto da lui stesso altrove si cita senta indicarne l'autore (ivi, p. /Rio). TFRfO,937 sull’opera de' sei Giorni, che termina con una lode del sanio cardinal Carlo Borromeo, a cui è diretta (’). A questo genere ancora ap(*) La menzione che qui ho fatto di due Ebrei italiani coltivatori della nostra poesia, mi dà luogo ad aggiugnere una breve notizia di alcuni altri di questa stessa nazione nati e vissuti in Italia, che ne’ serii e ne’ piacevoli studi ebbero fama non solo tra lor nazionali, ma ancor tra’ Cristiani, fra’ quali vivevano. Possiam dunque indicare, oltre quel David de Pomis da noi già rammentato, quell’A bramo balines nulio di Lecce nel regno di Napoli, autore di una Grammatica ebraica stampata in Venezia nel 1523, e poscia altrove, e di alcune traduzioni dell opere di Averroe, e di alcuni altri scrittori (Mazzucch. Scritt. ital t. 2,par. 1. p. 1 pi); Mosè e Vitale Alatini, amendue di Spole li, del primo dei’ quali abbiamo la traduzione di alcune opere di Galeno e di Temistio, il secondo fu medico del pontefice Giulio III (ivi, t. 1, par. 1, p. 267); Davide d Ascoli autore di una Apologia degli Ebrei in latino, stampata a Strasburgo nel 1559 (ivi, t. 2, p. 1157). Ma sopra tutti ottenne gran nome Abramo Colorno mantovano, di cui fa grandi elogi Tommaso Garzoni in una lettera a lui diretta e premessa alla sua Piazza universale. In essa si sforza il Garzoni di persuaderlo ad abbracciare la Religion cristiana, e gli fa vedere quanto convenga che a tant altri suoi pregi aggiunga ancor questo maggior di tutti: Ecco, che voi avete servito molti principi, ed ora servite l Altezza di Ferrara (col titolo d'ingegnere), da’ quali tutti io so, che vi chiamate dt Ile vostre fatiche e della vostra servitù copiosamente remunerato... Deh caro M. Abramo, voi che illustrato dalle Meccaniche Scienze fabbricate ponti da espugnare all'improvviso qualsivoglia alta fossa di muraglia, barchette che ridotte in piccolo fascio producono somiglianti effetti a questo ed altri assai maravigliosi, scale ingegnose da salire in un tratto con alta segretezza fin sulla torre di Babele, trinciere incognite che con sommo stupore salvano alCimprovviso gli eserciti intieri de' soldati, perchè, ec. E poco appresso: Ib 1 i concedo, M. Abrumo 1928 LIBRO pai tengono i drammi pescatorii, che da’ pastorali non son diversi, se non perchè invece de* pastori in essa inlroduconsi i pescatori. E fra questi 11011 abbiam cosa che meriti di essere rammentata, fuor delineo di Antonio Uigarc, carissimo, che voi siate perfetto in molte cose pertinenti alla notizia umana, come nella cognizione d anticaglie delle quali è ripieno compitamente in Ferrara lo Studio vostro sì raro e pregiato, e d'infinite altre gentilezze, insieme nella onorata Scienza delle Meccaniche alle quali fin da puerizia siete stato sempre particolarmente inclinato, e per il gusto che avete in tali discipline andate ogni giorno innovando quaU hc util capriccio, come facendo artificiosi modelli per alzar acque, sollevando gravi e incredibili pesi,* facilitando moti di molini, e mille altre cose tali, cercando sempre che siano con buona ragione e fondamento, di proporzione, peso e misura. Quindi dopo aver parlato della rara eccellenza di Abramo ne’ lavori di mano di qualunque maniera, continua: E chi non sa, che nelle matematiche discipline vi lasciate addietro tanti emuli vostri dell età passata e della presente, avendo col vostro alto giudizio ritrovato istrumenti da misurare con la vista più facili, più chiari, più giovevoli, e più dalla comunità longinqui, che alcuno altro, come nel dottissimo libro della vostra Euthimetria quasi in lucido specchio discoprite al mondo? E quanta sia la scienza vostra, apparirà in quel libro, e nelle profondissime Tavole Matematiche da voi composte, e così quel volume che avete fatto delle opposizioni contro le superstizioni della Fisionomia e Chiromanzia, i quali libri faranno eternamente fiorire la gloria vostra, renderanno illustre il nome d Abramo Colorni Mantovano per infiniti secoli ed etadi. Lo stesso Garzoni, oltre il lodare più altre volte lo stesso Abramo, fa ancora onorevol menzione nell' accennata sua opera di un Leone ebreo che avea trovato un nuovo stromento per osservare i pianeti (discorso 39), e del trattato degli.Specchi di Rafaello Mirami della stessa nazione (disc. 35, i45). TERZO,939 ji pallia padovano, e vissuto parecchi anni alla corte dei’ Farnesi; opera per l’ eleganza del verso e per molti altri pregi degna di molta stima; e che più ancora ne avrebbe ottenuto, T autore non si fosse sì strettamente attaccato alle pedate del Tasso nell’invenzion della favola, che fin d allora si disse che l Alceo altro non era che l Aminta bagnato. Altre notizie intorno a questo poeta, di cui si hanno altre poesie, e che morì in età immatura, si posson vedere innanzi alla bella ediziou del\Alceo fatta in Padova nel 1722. LXVIII. Fra tutte però le azioni teatrali di questo secolo, niuna eccitò sì gran grido, quanto il Pastor fido del cav. Battista Guarini, autore abbastanza noto e per le vicende della sua vita, e pe’ contrasti per la sua pastoral sostenuti. Apostolo Zeno fu il primo a scriverne con qualche estensione la Vita (Galleria di Minerva). Indi un'altra assai più ampia ce ne ha data il sig. Alessandro Guarini pronipote di Battista (Suppl. al Giorn. de Letter. d'Ital. t. 2, p. 154 j Giorn. t 35, p. 286), e di essa si è giovato nel compilare la sua il P. Niceron (Mém. des Homm. ill t. 25, p. 172). Più lungamente ancora ne ha scritto l’eruditissimo Barotti nella sua Difesa degli Scrittori ferraresi (par. 1). Molte cose nondimeno non mi sembrano ancora rischiarate abbastanza, e io vorrei avere maggior agio di tempo e maggior copia di lumi per farlo. Qualche cosa nondimeno mi verrà forse fatto di aggiugnere a ciò ch’essi ne han detto; e possiam poscia sperare di vederla assai meglio illustrata nella seconda parte delle Memorie de1 Letterali Tirauoschi, Voi XII. 49 I(j3u LIBRO ferraresi. Balista Guarini pronipote dell' antico Battista, e figlio di Francesco e della contessa Orsola Macchiavelli, venne al mondo in Ferrara nel 1537. Poco sappiamo de’ primi suoi studi, e solo sembra probabile ch ei li facesse parte in Pisa, parte in Padova, parte in Ferrara. In quest’ultima università fu professore per alcuni anni di belle lettere. Quanto egli promettesse di se medesimo, raccogliesi da una lettera a lui scritta dal Caro nel 1563, quando il Guarini non contava che ventisei anni di età (Caro, Lett t 2, lett. 214, in cui loda un sonetto da esso inviatogli. In età di trent’ anni entrò al servigio del duca di Ferrara, e fu da lui onorato col titolo di cavaliere, e inviato sulla fine del 1567 a complimentare il nuovo doge di Venezia, di che egli scrive nella prima delle sue lettere a Francesco Bolognetti pubblicate di fresco (Anecd. rom. t 2, p. 377). E quell orazione fu allora data alle stampe, e cominciò a far conoscere il talento e il saper dei Guarini. Molte furono le ambasciate che dal duca Alfonso II furono poi affidate al Guarini, al duca di Savoia Emanuel Filiberto, all’imperadore Massimiliano, ad Arrigo III, quando fu eletto re di Polonia, e quindi alla stessa Repubblica di Polonia, quando, abbandonato da Arrigo quel trono, il duca Alfonso sperò di esservi innalzato 5 nel che però, per quanto il Guarini si adoperasse, non potè ottenere l intento (a). In premio della sua fedeltà e delle (a) Curi"«* e interessanti notizie ci hn ilutc I eruditissimo signor abate Strassi minino «Ila gelosia clic TÈRZO. I93l fatiche sostenute in servirlo, il duca nominollo suo segretario di Stato ai 25 di dicembre del 1585, come afferma Marcantonio Guarini nipote di Battista nel suo Diario ms. originale che si conserva in questa biblioteca Estense. Ma non avea egli ancor sostenuto quell' onorevole impiego per due anni, che ne chiese e ne ottenne il congedo: A’ 13 di luglio, così nel suddetto piario affanno 1587, il cavalier Batista Guarini segretario del Duca, parendogli di servire con poca riputazione havuto riguardo al suo valore, si licenziò da tal servigio. Quindi a 23 di giugno dell’an 1588: Essendosi di già absentato di Ferrara il cavalier Batista Guarini disgustato del Duca si ridusse a Fiorenza, e poi col mezzo del Fattor Guido Coccapani chiese a questo buona licenza, et l'ottenne. E finalmente agli 8 di maggio dell’an 1592: Il cavalier Batista Guarini già segretario del Duca uscito di Ferrara poco soddisfatto di quello, per opera della Duchessa se ne ritornò con soddisfazione del Duca et con universale contento di tutta la Città, Io ho recati questi passi del sopraccennato Diario, scritti da chi dovea essere ben istruito delle cose del Guarini, poichè essi contraddicono all’ epoche delle diverse risvcgliossi in Ferrara tra ‘I Guarini c Torquato Tasso, non per eoiuluzion letteraria, come potrebbe pensarsi, ma per a ilari amorosi; e inerita »li essere letto un sonetto dal Guarini in questa occasione composto, e da lui pubblicato. Ma ciò non ostante, come lo seriUor medesimo osserva, il Guariui ebbe sempre alta stima pel Tasso, e gliene diede parecchie piuove (Fila di T. l'asso, p., ec., 3oi, ec.). ig3a muro vicende di questo poeta, che si assediano,7agli altri scrittori della Vita, i quali però non sono essi pure tra loro concordi nell’assegnarle; né io ho documenti che mi possano essere scorta a deciderne. Le lettere dello stesso Guarini, che sembrerebbono la più sicura guida allo scoprimento del vero, a me par certo che abbian non poche volte error nelle date, e ci è forza perciò il rimanerci dubbiosi, finchè non ci si offra più chiaro lume. Ciò ch è certo, si è che il duca Alfonso, sdegnato contro il Guarini pel sottrarsi che avea fatto al suo servigio, adoperossi in modo, che gli convenne partire dalle corti di Savoia e di Mantova, alle quali era successivamente passato. Dopo la morte del duca Alfonso passò a Firenze, accolto con sommo onore dal gran duca Ferdinando; ma il! matrimonio di Guarino suo figlio con donna di non ugual condizione, a cui sospettò che avesse consentito il gran duca, lo indusse a togliersi da quella corte, e passare a quella d’Urbino, ove però ancora si trattenne assai poco, male soddisfatto, come si crede, di non aver ottenute certe distinzioni ch’egli bramava. Nè può negarsi ch ei non fosse di umore alquanto difficile e fastidioso; e che in tanti e sì frequenti cambiamenti, se ebbe qualche parte l instabilità delle corti, molta ancora non ne avesse la natural sua incostanza. E forse a renderlo ancor più inquieto concorsero le molte liti domestiche ch’ egli ebbe a sostenere prima col padre, e poscia co figli Alessandro, Girolamo e Guarino, ch’egli ebbe da laddcaBeudedei sua moglie. Nel 1605 dalla sua patria, terzo ig33 0ve Rvea fatto ritorno, fu inviato a complimentare con sua orazione il nuovo pontefice Paolo V. Finalmente nell’ottobre deiranno 1612, trovandosi per certe sue liti in Venezia, ivi diè fine a’ suoi giorni, e tra le Lettere mss. di d. Ferrante II Gonzaga duca di Guastalla, delle quali io ho copia, una ne ha de’ 6 di novembre del detto anno ad Alessandro e a Guarino figliuoli di Battista, in cui si conduole con essi della morte del lor padre (*). (*) Tanta e sì gran copia di lettere inedite del cavalier Battista Guarini conservansi in questo ducale archivio segreto, che esse potrebbon bastare a fare una nuova e assai più esatta Vita di questo celebre ma poco felice poeta. Io che non ho agio a farlo, ne accennerò qui soltanto alcune cose più degne d’ osservazione. E primieramente molte lettere ch ei da Torino scrive al duca Alfonso II nel 1570, ci mostrano che in quell’ anno era egli ivi ambasciadore del suo sovrano, e ciò si conferma da’ monumenti dell’archivio camerale, ne quali dopo essersi notato l’ingresso del Guarini al servizio del duca al primo d' agosto del 15(>7, si nota che nel maggio del 1 ^70 fu nominato ambasciadore al detto duca. Ma ch’ ei vi stesse cinque anni, come il sig. Alessandro Guarini afferma, è falso; perciocchè, come pruovano i monumenti dell’archivio camerale, nel novembre deiranno 1571 fu colà inviato il conte. Paolo Emilio Boschetti. Tre altre lettere ch’ egli scrive al duca medesimo da Venezia nel dicembre del 1582 e nel gennaio del 1583, ci mostrano che ivi era allora il Guarini, dopo aver ottenuto il congedo dal servigio di corte; il che però nol distolse dal continuare ad usare tutti quegli atti di ossequio che a’ suoi signori eran dovuti, come ci fa vedere anche una lettera da lui scritta da Ferrara a’ 27 d’agosto del 1 584 al Cardinal Luigi d Este, in cui gli partecipa le nozze di Anna sua figlia col conte. Ercole Trotti. Rientrò poscia, come si è detto, al servigio verso l’anno i585. Ma 19^4 LIBRO LXIX. Benché i pubblici impieghi, i fre«juenti viaggi, le domestiche liti molto al Guacongedossi di nuovo neli588, e in Giustificazion sua che in quell’occasione ei pubblicò, fa conoscere che la partenza non fu questa volta con quella buona soddisfazione del duca, con cui era seguita la prima. Anzi una lettera da Guido Coccapani fattor generale, cioè ministro camerale del duca, e poi castellano di Ferrara, scritta da Ferrara il primo di luglio dell'an 1588 (nel qual giorno medesimo ne’ libri dell’archivio camerale si nota il Guarini levato dal servizio) al segretario Imola, ch’era allora in Modena, mi fa nascer dubbio che il Guarini fuggisse segretamente da Ferrara, sicchè non si sapesse ove si fosse recato: Hieri sera, scriv egli, verso un hora di notte hebbi la lettera che mi scrisse V. S. Illustre, et hora che è le 9 ho mandato a chiamar Ms. Girolamo, et havendo io fatta la minuta de la lettera che ha da scriver al Sig. Cav. la farò fare in presenza mia, et la farò lasciar per inviarla a Firenze, et gli ordinerò, che gliene scriva in diverse parti, e forse che mi risolverò di scrivergliene anch'io, il quale restai stupefatto,quando vidi quella stravaganza, e feci giudizio, che fusse per cadere ne' termini del Tasso. Bacio la mano a V. S. et molto me le raccomando, augurandole ogni felicità in fretta. Erasi egli frattanto trasferito a Torino, ove gli era stato promesso l’impiego di riformator dello Studio e di consigliere di Stato con 600 scudi di annua provvisione. Ma il duca Alfonso sdegnato contro il Guarini adoperossi per modo, che ei non potè conseguire il luogo già a lui promesso, e dopo un breve soggiorno dovette lasciar quella corte, e ritirarsi a Venezia, ove egli il primo di febbraio del 1589) pubblicò la seguente Apologia che, per non essere stampata, non dispiacerà, io spero, il vederla qui riferita: A e le nostre operazioni, humanissimi Lettori, portassero sempre in fronte i fini, et le cagioni, ond' elle sono prodotte, o se coloro che ne favellano fossero tanto bene informati, quanto bastasse a giudicarle dirittamente et senza ingiuria di chi si pat la, non sare’ io astretto in quest età, dopo tant’anni, ch io TERZO 1935 rini logliessero di quid tempo che negli studi volentieri avrebbe impiegato, ei seppe nondifa pure sotto gli occhi del mondo, e ch' io difendo l onore altrui, a difendere hoggi il mio, il quale più che fa 1 ita ho sempre havuto caro e stimato. Havend’ io dunque inteso, che l' essermi partito dal sm izio del Serenissimo Sig. Duca di Ferrara, e condottomi a quello del Serenis. di Savoja ha data occasione ad alcuni, che n0n sanno-per avventura, come stia il fatto, di ragionarne diversamente et farne varii concetti, ho deliberato di pubblicarne la verità, et dichiarare insieme, quale in ciò) sia Vanimo mio. Dico per tanto, che innanzi a quella partita mia fu da me consegnato a chi si doveva tutto quel poco, ch era in mia mano spettante alla carica mia, esercitata sempre da me innocentemente, e senz altro fine, che 'l seni zio del mio Signore, e l ben pubblico. Et che poi chiesi per pollice di mia mano (così portando l tempo e l bisogno) licenza libera et riverente dal servizio di quell’Altezza, e ch'io espressi eziandio con ogni hun iltà le cagioni ch' a ciò fare mi conducevano, et che soggiunsi (così necessitandomi alcune di loro). che se VA. S. si fosse compiai iuta di non darmi altra risposta, havrei avuto il tacere per non negata licenza; et che la pollice fu data alCA. S. per un Ministro suo principale, et che alla fine senza farmi altro sapere fu lo stipendio levato a me, et dal libro stipendario cancellata la mia partita. Et come questo è vero, è anche vero, che fu conclusa et stabilita col Sereniss. di Savoja la mia condotta di riformator dello Studio, e di Consigliere di Stato con seicento scudi di provvisione, et che per essa nè volli obbligai mi. nè mi obbligai a chieder altra licenza dal Sereniss. di Ferrara, che la già detta di sopra. Et finalmente è vero, che siccome non mi sarei condotto Turino, se in quel servizio non fussi stato prima accordato, et poi chiamato colà, così non mi sarei partito, nè volli partir di quì, fin ch’ io non seppi cTesser licenziato in quel modo che s' è narrato di sopra. Hor qual ragione hai Ina poi ritardata et ritardi l espedizione della prefata condotta quì, non ho io nè fin nè obbligo nt bisogno di dichiarare: a 19*36 turno meno godere sì saggiamente eh quello che rimancagli libero da altre cure, che non pochi basta che per mio mancamento o diffalta non ri ri tardi. In giustificazione di che mi sono esibito al Sere riissimo di Savoia, et qui di nuovo mi esibisco di costituirmi, et dove, et come, e in quella forma. et sopra quegli istessi particolari, et con que' medesimi termini così stretti di difesa, et di pena, che più distintamente si veggono nella Scrittura mia da me a quella Altezza mandata. Dalla quale, mentre delle cose dette da me vo' attendendo conclusione, voglio che l mondo sappia, acciocchè' la tardanza pi'u lungamente non mi pregiudichi, ch’ io sono huomo di honore, et ch' io ciò sempre a sostenere sono prontissimo in tutte quelle maniere, che si richiederanno alla condizione et debito mio; et siccome punto non dubito, t he da Principe tanto giusto et tanto nii ignari imo sii per venire deliberazione alcuna, che non sia degna del suo valore, così qualunque ella sarà, sarà sempre da me con animo ben composto e lietissimo ricevuta: poichè per grazia di Dio et di questo Sereniss. et sempre excelso Dominio, sotto la cui giustissima et felicissima Signoria mi riparo, e di cui sono, se non per nascita, almeno perfacoltà et per origine di famiglia antichissima Suddito, et per debito devotissimo Serx'itore, vivo comodo et honorato. Et voi onoratissimi Lettori vivete lieti et contenti. Dato in Fine gin il primo di ili Febbraio sr olxx.xi x. Affermo Io Battista Guarini quanto nella presente Scrittura si contiene da me perfide del vero di propria mano sottoscritta. Passò qualche tempo il Guarini in Venezia e in Padova, finchè invitato dal duca di Mantova insieme con Alessandro suo figlio, colà recossi nel 1593 Ma il duca Alfonso anche a quella corte operò sì efficacemente, che il Guarini non potè trovarvi stabil soggiorno. E in questo medesimo archivio ho vedute due lettere per ordine di Alfonso scritte a 4 e a 10 di luglio del 1593 al dottor Coccapani, che risedeva pel duca in Mantova, acciocchè facesse intendere al duca di Mantova, parergli bene che non pigli alcun TER 7.0 11)37 furono i fruiti i quali ce ne rimasero. Io però pou furò che un sol cenno delle Lettere, delle j/ Guarini al suo servigio, et che quando si vederanno Insieme, ella stessa le ne dirà le ragioni, et che intanto ha voluto che sappia che gli sarà carissimo, che non si vaglia d'alcun di loro. Più cortese verso il Guarini fu il duca Cesare. E il Guarini oltre una lettera scrittagli a' 16 di febbraio l’anno 1598, cioè poco dopo la partenza che il duca stesso avea dovuto far da Ferrara, a' 27 di novembre gli diede avviso che il gran duca di Toscana lo avea ammesso al suo servigio; e il duca ne lo felicitò con lettera assai obbligante de’ 14 di dicembre. Dell’arrivo del Guarini alla corte d’Urbino, e del favore di cui vi godeva, ci son pi uova due lettere da lui scritte agli 8 di novembre nel 1602, e a’13 di febbraio del 1603 a Giulia Guarini Magnanimi sua sorella, che si conservano in questo archivio, nella prima delle quali la prega a mandargli una valigia piena di libri, ch egli ha lasciata in Ferrara, nell'altra così le scrive: Sorella mia, vorrei venire a casa, et n ho gran bisogno et gran voglia, ma son trattato tanto bene, et mi vengono fatti tanti honori, et tante carezze, ch io non posso. Vifo sapere che di tutto mi ir rigo nofatte le spese a me et alla mia servitù. Sì che non ho da spender un quattrino in cosa del mondo, che mi bisogni, con ordine che mi sia dato tutto quel che domando, ed oltre a ciò mi danno in danari trecento sciuli ranno, in modo che vengo con la spesa, casa fornita et provvisione, in più di 600 scudi l anno. Vedete se io mi posso partire. N. S. Dio vi dia ogni contento. Di Pesaro li 23 Feb. 1603. Fratello Am. B. Guarini. Molte lettere ancora, e molte altre scritture concernenti le sue domestiche liti, sono in questo medesimo archivio: ove finalmente trovasi ancora la lettera con cui Alessandro e Guarino Guarini a’ 18 di ottobre del 1612 parteciparono al duca Cesare la morte del cavalier loro padre, e la graziosa risposta che il duca lor fece a; 24 del medesimo mese. iq38 libro Rime, de\ Segretario, delle cinque Orazioni latine, dell’ Idropica, commedia (a), di alcune scritture per certe liti ch'egli ebbe, o per le quali fu pregato a stendere il suo parere e di alcune altre opere che se ne sono smarrite. alle quali deesi aggiugnere il trattato Della politica Libertà, che ms. si conserva nella libreria Nani in Venezia (Codici mss. ital. della Libr. Nani 1 p. 56). Vuolsi da alcuni eli' < gli avesse non picciola parte nella correzione della Gerusalemme del Tasso, appoggiati all'autorità di un codice che se ne conservava presso il soprani) ornato sig. Alessandro Guarini, ov esso vedesi pieno di correzioni e di giunte fatte per mano del cavaliere. Ma il sig. dottore Jacopo Facciolati, in una sua lettera aggiunta alla Vita del cavaliere. scritta dal medesimo sig. Alessandro, dopo un accurato esame di quel codice, mostra che il Guarini altro non fece che confrontare la prima edizione di quel poema, fatta nell’ anno 1580, colle molte copie che ne correvano a penna, e coll aiuto di esse correggere i gravissimi errori e supplire alle grandi mancanze di cui quella era piena. Il Pastor fido è l’opera che più celebre (n) L’Idropica fu dal Guarini composta 1 nono if»o8 in Mantova in ocra<ion delle nozze di Francesco Gonzaga coll’ infante Margarita di Savoia. Fi non era allora al servigio di quella corte, ina vi fu chiamato a tal line insieme col Rinuccini c col (hiabrera. come si legge nel Compendio delle sontuose feste, ee., ivi stampato nel detto anno. Vuoisi qui anche aggiugnerc che nella biblioteca del rav. Nani iit \ enezia conservasi una versione greca del Pastor fido. TERZO *9^9 renduto il Guarini, e su cui perciò <iobqui trattenerci. Molto di tempo e di studio pose egli in comporlo; e prima di esporlo agli sguardi del pubblico, il soggettò alla censura de’ suoi amici. E fra gli altri racconta egli stesso (Lettere, p. 60, ed. ven. 1606) che prima in Ferrara, poscia in Guastalla in una numerosa adunanza di dotti, l’udì leggere d ferrante II Gonzaga, ed egli non meno che gli altri tutti ne dissero altissime lodi. Bernardino Baldi, Leonardo Salviati e Scipione Gonzaga, che fu poi cardinale, furono quelli cui principalmente pregò il Guarini a rivedere e a correggere con somma attenzione la sua pastorale (V. Barotti, l.c. p. 77,ec.). Frattanto nel 1585 fu essa la prima volta rappresentata in Torino con magnifico apparato all’occasione delle nozze di Carlo Emanuele duca di Savoia con Caterina d’Austria. Essa però non fu stampata la prima volta che nel 1590, dopo la qual prima edizione moltissime altre poi se ne videro, e vivente l autore, e lui morto; ed essa fu ancora in più altre lingue tradotta, e in molte città solennemente rappresentata. Abbiamo, fra le altre testimonianze, una lettera di Gabriello Bombaci reggiano, scritta allo stesso Guarini dal Caprarola a’ 4 di settembre del 1596, in cui gli descrive con quanta pompa essa era stata rappresentata in Ronciglione innanzi al cardinal Odoardo Farnese e a molti altri signori (Zucchi, Idea del segret. par. 2). Il gran numero di edizioni, di versioni, di rappresentazioni, di cui II l'astor fido fu onorato, è una chiara ripruova del plauso con cui fu I f)4° libro accolto, e de pregi che in esso furono riconosciuti. E certo niuna pastorale erasi ancor veduta con tanto intreccio e varietà di vicende con tanta diversità di caratteri, con tanta forza di passioni e di affetti, quanta scuopresi nel Pastor fido. Ciò non ostante, come suole avvenire di tutte le opere che sopì a le altre sembrano sollevarsi, gran numero di nemici incontrò quella tragicommedia, e gran guerra per essa si accese in Italia fra gli eruditi Debbo io entrare a formarne tutta la storia? Io m immagino che i miei lettori mi dispenseran volentieri dal dare lor questa noia. Sì a lungo ne hanno già scritto il Fontani ni, il Zeno, il Quadrio, il Barotti, ch è tempo omai di tacerne. E molto più che le prime opere di Giason de Nores contro il Pastor fido, e le risposte del Guarini, pubblicate sotto il nome del Verrato celebre comico di que tempi, si rivolgono su una questione, a mio parere, inutile, cioè, se debbansi, o no, introdurre sul teatro tragicommedie, o rappresentazioni pastorali. Lasciamo dunque che dormano nella polvere, a cui omai sono abbandonati, i libri del detto de Nores, di Faustino Summo, di Giampietro Malacreta, di Giovanni Savio, di Paolo Beni, d Orlando Pescetti. di Luigi d Eredia e di altri cotali o impugnatori o difensori del Pastor fido. Il tempo e il comun sentimento han già decisa la lite, e questa pastorale è or rimirata da tutti come una delle più ingegnose e delle più passionate che abbia la volgar poesia, e i difetti che le si possono opporre, altro non sono che gli eccessi de pregi medesimi, cioè TERZO 194* fessere ingegnosa e passionata più del dovere. Dissi dapprima troppo ingegnosa. Perciocf|,è, benché i pastori in essa introdotti siano semidei, e perciò loro non disconvenga uno stile più fiorito, che a semplici pastori non converrebbe, è certo però, che esso è talvolta troppo limato, che vi sono concetti troppo ricercati e sottili, e che vi si comincia a vedere alquanto di quella falsa acutezza che tanto poscia infettò gli scrittori del secol seguente. Dissi innoltre troppo passionata. Perciocchè, comunque moltissime delle azioni teatrali di questo secolo sieno di gran lunga più oscene, anzi non si possa pur dire che osceno sia il Pastor fido, tale è però la seducente dolcezza con cui s ispiran negli animi di chi lo legge, o l ascolta, i sentimenti amorosi, che chi per età o per indole è ad essi inclinato, può di leggieri riceverne non leggier danno. Il Barotti rigetta come favolosi racconti ciò che si narra da alcuni della funesta pruova che n ebbe il Guarini nella sua stessa famiglia, e del ragionamento che su ciò ebbe col cardinal Bellarmino, nè io ho tai monumenti che ne pruo-, vino la verità: A parlar nondimeno, conchiude egli (l. c. p. 1 o5), e conchiuderò io ancora, secondo il più vero mio sentimento, siccome il Pastor fido ha questo difetto a tutti i libri non modesti comune, che non dovrebbe esser letto, nè su' teatri veduto negli anni più fragili ed accensibili, così per mio avviso ha questo pregio particolare, da pochi libri non modesti goduto, che senza pericolo, ma non senza piacere, può esser letto negli anni più serii e più robusti. ig4a LIBRO LXX. Ci resta a dire per ultimo,de’ drammi per musica che sulla fine di questo secolo vennero sul teatro italiano introdotti. Checchè sia del canto usato da Sulpizio da Veroli in qualche tragedia recitata in Roma negli ultimi anni del secolo precedente (Quadrio, l. c. p. 432), qualche saggio di musica erasi veduto nelle pastorali del Beccari, del Lollio, dell’Argenti, da noi poc anzi accennate. Emilio del Cavaliere avea poste in nota circa il 1596 alcune altre azioni pastorali, e qualche cosa somigliante pubblicò in Venezia nel 1597 Orazio Vecchi valente maestro di cappella modenese (ivi, p. 433), il quale nell’ iscrizion sepolcrale, riferita dal Muratori, viene lodato come primo inventore de' drammi per musica (Perf. Poes. l. 3, c. 4) (<*)• Ma, a dir vero; non furon questi clic abbozzi tuttora informi (//) Il sig. Giambattista dall’Olio ha analizzato diligentemente \'A mfiptmuuo del Vecchi, di cui io non avea potuto giudicare che sull' altrui relazione, non avendolo mai avuto sott occhio. Egli dunque osserva primieramente che la musica dell Amfiparnaso è tutt’altro che musica drammatica; perciocchè, dove in questa ogni attore canta da sè la sua propria parte, \\GXi\lniftparniMO ogni cosa cantasi a coro, nella stessa maniera che un salmo or si canta a una, ora a più voci; e che anzi che commedia, o dramma, essa dovrebbe intitolarsi una raccolta di quattordici pezzi d: armonia lavorata sopra diversi e sconnessi squarci poetici. E questa sconnessione da lui osservata gli fa ancora inferire che l Amfiparnaso è tutt’ altro che dramma; perciocchè non vi è azione seguita, nè intreccio di sorta alcuna, ma è un’unione di dialoghi in versi sopra diversi e disparati argomenti (JVovclL letlcr. ai Fir. j 790, n. 3o, 31). \ TERZO 1943 tali componimenti. La gloria di avere, se non immaginati prima d ogni altro, almeno scritti felicemente i primi drammi per musica, deesi a Ottavio Rinuccini fiorentino, il quale composto avendo la Dafne, essa fu posta in musica da Jacopo Peri pur fiorentino, e rappresentata in casa di Jacopo Corsi con molto applauso di chi concorse ad udirla. Il Quadrio afferma che ciò avvenne nel 1597 (l. c). Ma poscia reca le parole del Peri nella dedicatoria dell’ Euridice del medesimo Rinuccini, in cui segna un tal fatto sotto il 1 -5^4 (t'w, p. /\5i) (a). (a) il suddetto sig. Giambattista dall’Olio in un’altra erudita sua lettera, inserita ne le stesse Novelle (ivi, n. 32, p. 498, ec.), osserva che la Dafne e PEuridice del Rinucciui non l'un no veramente spettacoli pubblici, ma privati; e che il primo dramma musicale pubblico che si rappresentò, fu il Rapimento di Cefalo, poesia del Chiabrera, posta in musica per la maggior parte dal Caccini, di cui fu tutto quello che oggi dicesi il recitativo, e in qualche parte di Stefano Venturi, del Nebbio, di Luca Bati e di Pietro Strozzi; e che questo dramma fu rappresentato nella stessa occasione de'le nozze di Maria de’ Medici a’ 9 di ottobre del 1600. Ciò però non toglie punto alla gloria del Rinuccini; perciocchè la quistione si è chi ideasse il primo quel coinpon.mento clic dicesi dramma musicale, e poco monta il sapere se la prima rappi eseutazionc fosse privata, o pubblica. Or è certo che il Rinuccini fu il primo a idear questo nuovo genere di drammatica poesia. Osserva in un'altra lettera il medesimo sig. dall'Olio (ivi, n. 33, p. 513), che ciò che forma in sostanza la musica della drammatica poesia, cioè il recitativo, fu in quell’occasione trovato e introdotto, e che par che la gloria se ne debba dividere tra Giulio Caccini, a cui vedremo tra poco che il Grillo 1944 LIBRO Questo primo saggio piacque per modo che fu presto da altri seguito. Quando nel 1600 si celebrarono con regal pompa in Firenze le nozze di Maria de’ Medici col re Arrigo IV di Francia, rappresentossi l Euridice del medesimo Rinuccini, che fu posta in musica dal suddetto Jacopo Peri, il quale pure aggiunse le note all'Arianna, altro dramma del Rinuccini, rappresentato in Firenze e in Mantova nel 1608, all occasione de matrimonii che in quell’ anno si celebrarono di Francesco Gonzaga figlio del duca Vincenzo, e di Cosimo de’ Medici figlio del gran duca Ferdinando. L Eritreo descrive le vaghe e maravigliose comparse da cui per la magnificenza de’ gran duchi di Toscana accompagnati e ornati furono questi drammi (Pinacoth. pars 1, p. 61)j il die se allora giovò a renderli più famosi, concorse poscia non poco a farli decadere dal grado di bellezza e di perfezione a cui aveagli il Rinuccini condotti j perciocché il desiderio di piacere agli occhi degli spettatori colla varietà e colla pompa degli spettacoli, fece che si trascurasse la poesia, c c!t’ essa si rimirasse come la cosa meno importante del dramma. l’attribuisce, c Jacopo Peri, a cui la concede il Rinuccini nella dedicatoria della sua Euridice, e che se ne la autore egli stesso nell \vviso ai lettori.«Ilo stesso dramma premesso. Egli osserva, per ultimo, che ha errato l’abate Arleagu nell’asserire (Hicnluz. del Teatro mus. t. i, p., i ed.) che nell' Euridice del Peri vcdesi il primo esempio delle arie. Perciocché quella che ei ne produce, nè per la musica. nè per la poesia non può iu alcua modo chiamarti una. TERZO 1945 frattanto altri professori di musica a gara col Peri presero a far le note a drammi del Rinuccini, e fra essi acquistò in ciò molta fama Giulio Caccini. E degno è d’essere qui riferito il passo di una lettera ad esso scritta dal P. abate Grillo, perchè ci dà l’ idea della musica da lui usata, e ci mostra quanto rapidamente si propagasse l uso di tali drammi: Ella è padre, gli scriv egli (Grillo, Lett, t. 1, p. 455, ed. ven. 1608), di una nuova maniera di Musica, o piuttosto di un cantar senza canto, di un cantar recitativo, nobile e non popolare, che non tronca, non mangia, non toglie la vita alle parole, non l affetto, anzi glielo accresce raddoppiando in loro spirito e forza. È dunque invenzion sua questa bellissima maniera di canto, o forse ella è nuovo ritrovatore di quella forma antica perduta già tanto tempo fa nel vario costume d infinite genti, e sepolta nell antica caligine di tanti secoli. Il che mi si va più confermando dopo l essersi recitata sotto cotal sua maniera la bella Pastorale del sig. Ottavio Rinuccini, nella quale coloro, che stimano nella poesia drammatica e rappresentativa il coro essere ozioso, possono, per quanto mi ha detto esso sig. Ottavio medesimo, benissimo chiarirsi, a che se ne servivano gli antichi, e di quanto rilievo sia in simili componimenti. In somma questa nuova Musica oggidì viene abbracciata universalmente dalle buone orecchie, e dalle Corti de Principi Italiani è passata a quelle di Spagna e di Francia, e d altre parti d Europa, Tirauoschi, Voi. XII. 5o libro come ho (Ia fetici relazione (a). E un’;,itra lettera abbiamo.del medesimo abaie Grillo al Caccini, in cui lo ringrazia. perchè abbia poste in musica alcune sue poesie (ivi. p. 'p { j Or tornando al Rinuccini, di lui racconta il citato Eritreo, ch’ ei fu non solo ammiratore, ma amante della suddetta reina Maria; ch ebbe la sorte di essere destinato ad accompagnarla in Francia; e che tornato poscia in Italia, si volse a più serii pensieri, e visse con molta pietà gli ultimi anni. In Francia ebbe l’onore di essere fatto gentiluomo di camera del re Arrigo, ed egli, in riconoscenza de’favori ivi ottenuti, volle poi dedicare al re Luigi XIII le sue Poesie. Ma egli morì nel 1621, prima di vederle alla luce; e il disegno di Ottavio fu poscia eseguito l’ anno seguente da Pier Francesco di lui figliuolo (Negri, Scritt fior.). Nella poesia melica fu il Rinuccini uno de’ più eleganti scrittori, e nelle canzoni anacreontiche singolarmente ei fu uno de primi che si accostasse dappresso a quel sì leggiadro poeta. LXXI. Tali furono i felici progressi che in questo secolo fece tra noi la teatral poesia, e si può dir con ragione che tutto concorresse a rendere il teatro italiano nel secolo xvi oggetto di ammirazione e di’invidia. I colti e (a) 11 Grillo in questa lettera loda la musica dal Caccini inventata, e dice eh ella era stata adottata anche ne’ regni lontani, e non parla puuto di miella del Peri, come ha creduto l’abate Arteaga (I. cit. p. 3ii). TERZO *947 valorosi poeti che in ciò occuparonsi, rinnovarono, come meglio allora poteasi, la scena greca e latina, e mostrarono che non era impossibile agl’ ingegni italiani il pareggiarsi ad Euripide, a Sofocle, a Plauto ed a Terenzio. ,La magnificenza de’ principi, e talvolta ancor de privati, innalzò tali teatri che parvero gareggiare col lusso degli antichi Romani. Ne abbiam già accennati alcuni esempii, e abbiam veduto ciò che in tal genere operarono i duchi di Ferrara e di Mantova, i gran duchi di Toscana, il pontefice Leon X, ed altri signori italiani. Ma sopra ogni cosa merita di essere mentovato il famoso Teatro olimpico di Vicenza. Io non ne farò nè la storia, nè la descrizione, perciocchè abbiamo su ciò il discorso del Teatro olimpico del ch. sig. conte Giovanni Montanari, ove ogni cosa è esattamente svolta e spiegata. Dirò solo ch esso fu fatto a spese della celebre Accademia olimpica, e che ne fu l architetto l illustre Andrea Palladio, benchè morto questo nel 1580, prima ch'esso fosse del tutto compito, e non essendo forse ben riuscito nel condurlo a fine Silla di lui figliuolo, la commission di compirlo fosse poi data allo Scamozzi, architetto esso ancor di gran nome. Questo teatro sussiste ancora, e riscuote le meraviglie di chiunque il rimira. Sussiste ancora parimente, mal conservato, è vero, ma non distrutto, come il sig. Temanza ha creduto, un altro teatro a somiglianza di esso eretto in Sabbioneta per comando del duca Vespasiano dallo stesso Scamozzi, di cui ci ha «lata I(j48 LIBRO la descrizione tratta da disegni il medesimo sig. Temanza, e ch’io perciò riporterò qui volentieri: Non sussistendo più, dic egli (Vita dello Scamozzi, p. 18), (quel grandioso edificio, dai disegni, che ho qui presenti, rilevo che l'Orchestra era alquanto più sfondata (Tun mezzo cerchio; perchè tra li due corni delle gradazioni ed il proscenio s' alzava un tratto di muro con porte sul lato sinistro, le quali servivano a caricare e scaricare il Teatro Ma quello che più mi sembra degno di riflessione e di lode, è la Scena. Imperocchè gli edifizii eran collocati in modo, che il proscenio era una piazza, sulla quale mettevano capo tre strade, una maggiore nel mezzo, e due minori sui lati; correggendo così l’errore di quelli, i quali pretendono che il proscenio presso gli antichi rappresentasse una gran Sala, o altro luogo interno di Casa, o Palazzo, f'oglio credere, che co teste Scene fossero lavorate a bassorilievo stacciato, come quelle del Teatro Olimpico, quantunque lo Stringa abbia detto, che furono fatte in modo diverso. La Loggia a mezzo cerchio., sulle gi'adazionii di fronte alla Scena, erano di undici interi olonnii, compresine due ciechi, ornati di nicchi su i due corni, o sian estremità, come son quelli di Vicenza. Le Colonne erano di ordine Corintio col loro sopraornato, sopra cui ricorreva tutto d intorno un continuo acroterio, con istatue corrispondenti a ciascheduna delle colonne. Le gradazioni dovean servire per li Cavalieri, e per le Dame la loggia, e due stanze dietro la stessa, E ben TERZO f9Í9 pioslrossi quel magnanimo principe pago dell opera dello Scamozzi, perciocchè, oltre all’averlo liberalmente pagato, gli fece anche il presente d’una collana d’oro. Così la magnificenza de’ principi giovò non poco a’ progressi della teatral poesia, non solo coll animare i poeti a render al teatro italiano l’antico onore, ma ancora col risvegliare il genio di architetti e di pittori valorosissimi, de quali ebbe questo secolo sì gran copia, ad aggiugnere colla vaghezza delle scene e coll artificio delle macchine nuovo e maggior ornamento al teatro medesimo. Nè ad esso mancarono per renderlo ancor più perfetto attori eccellenti, pel cui valore le azioni teatrali non solo nulla perdessero innanzi agli occhi degli spettatori del lor merito, ma sembrassero acquistarlo maggiore. E ne abbiamo veduto il saggio in ciò che si è narrato delle tragedie di Giambattista Giraldi, e de’ maravigliosi effetti ch'esse produsser negli animi di que che vi eran presenti. Nè tutto ciò parve ancor che bastasse a condurre il teatro a quella perfezion che bramavasi; e all ingegno de poeti, alla magnificenza de’ principi, alla vaghezza degli ornamenti, al valore degli attori si aggiunse la istruzione di alcune accademie, che dovessero adoperarsi principali nenie per far rifiorire sempre più felicemente la poesia teatrale. Tre ne annovera il Quadrio (t. 1, p. 71 t 7, p. 10), fondate circa la metà del secolo in Firenze, cioè quelle degl’Infocati, degl Immobili, de’ Sorgenti, destinate principalmente a promuovere le rappresentazioni teatrali, U)5o LIBRO per cui ciascuna di esse avea il suo proprio teatro, e ciascheduna sforzavasi a gara di ivi.-. dere il suo illustre e famoso. Tale era finalmente l'ardore e, dirò così, il fanatismo con cui tutta l Italia era rivolta a' teatrali spettacoli, che le stesse persone più grossolane e più rozze voi ler talvolta aver parte alla gloria che vedean rendersi a più rinomati attori. E piacevole è il racconto lasciatoci dall'Aretino (Ragionamenti, par. 2) della pruova che voller farne Francesco Maria Molza e Claudio Tolommei, i quali essendo in corte del Cardinal Ippolito de’ Medici, e composta avendo una commedia, la diedero ad apparare agli staffieri, a’ cuochi, a famigli di stalla del cardinale, i quali sì bene seppero profittare dell' istruzione de’ loro maestri, e sì felicemente in ciò riuscirono, che tutta Roma accorreva ad udirli, e la folla era sì grande, che fu necessario il metterle guardie alla porta per impedire il tumulto (a). (a) 11 teatro comico italiano fin dal secolo xvi cominciò ad essere rinomato anche fuori d'Italia, e in Allemagna singolarmente. Il sig. ab. Denina accenna la Relazione di un certo Massimo Troiano stampata in Venezia circa il »^"o, da cui raccogliesi che la commedia veneziana riguardavasi anche nelle corti di Germania come il divertimento e lo spettacolo più piacevole ai tempi di Ferdinando I e di Massimiliano II, e che alla corte di Baviera recitossi da diversi gentiluomini una commedia all' uso veneziano e ne soliti dialetti di Arlecchino, Pantalone, Dottore e Brighella (Disc, sopra le Vicende della Letterat. Berl 1784, t. 1, p. 245), TERZO iy5i LXXII. Ciò che abbiam detto finora di tutti i diversi generi di poesia italiana, il gran numero degli scrittori che in ciascheduno di essi abbiamo indicato, e quello forse maggiore che, per non ripetere il detto già mille volte, ne abbiam taciuto, ci può far conoscere che questo fu per avventura lo studio ch ebbe più seguaci e coltivatori in Italia. Egli è vero che al numero non fu uguale il valore, e che fra'cento poeti, dieci appena se ne potranno mostrare, a cui convenga il titolo di eccellenti. Ma qual tempo fu mai, o qual nazione vi ebbe, in cui il numero de’ mediocri non superasse di gran lunga quel degli ottimi? E ciò dovea singolarmente avvenire nella poesia italiana, in cui appunto perchè è più facile il verseggiare, è più difficile l essere buon poeta. Tal nondimeno fu a que’ tempi e la copia e il valore degli eleganti poeti, che l Italia può a ragione gloriarsene, e sfidare tutte le altre nazioni a mostrargliene ugual dovizia. Tre cose però ancor ci rimangono ad osservare, le quali proveranno sempre più chiaramente quanto fosse l’impegno degl’ Italiani di questo secolo nel condurre • al più alto grado di perfezione la lor poesia; cioè, 1°.le innumerevoli traduzioni de’ poeti greci e latini, che vennero in luce, acciocchè fatti più comuni per esse que’ primi modelli della perfetta poesia, si rendesse maggiore il numero de’ loro imitatori; 2.0 le molte erudite contese che or su una, or su altra quistione a poesia appartenenti si agitaron tra’ dotti; 3.° i tentativi e gli sforzi di molti per trovar versi di nuovo IC)5!2 LIBRO metro e di nuove leggi, co’ quali ad essi sembrava che più bella e più vaga divenir dovesse la poesia. E potremmo aggiugnere ancora i nioU rissimi scrittori dell’arte poetica; ma di essi, ci ri serberemo a parlare nel capo seguente. Questi tre oggetti ci potrebbono occupare ancora assai lungamente, se noi volessimo o ridire ciò che altri hanno già scritto, o andando in ti accia di minutezze aggiugnere qualche piccola osservazione alle loro ricerche. Ma sembra omai tempo di metter fine a questo sì lungo capo; e noi perciò ne darem solo un’ idea, quanto basti a far conoscere sempre più chiaramente qual fu in questo secolo il valore e l impegno degl’ ingegni italiani nell’abbracciar tutto ciò che potesse giovare a promuovere e ad avvivare gli studi. LXXIII. E per cominciare da’ traduttori de’ poeti greci e latini, appena ve n ebbe alcuno che non si vedesse recato nella volgar nostra lingua; e molti ancora non un solo n ebbero, ma^iarecchi che a gara ce li dieder tradotti. Tre ne ebbe l’Iliade di Omero, Bernardino Leo da Piperno, che ne tradusse in ottava rima i primi dodici libri, Paolo Badessa messinese, e Fran-. cesco Nevizzano, che tutta la recarono in versi sciolti. Il Nevizzano si dice dal Quadrio di patria milanese (t 2.p. 356, 510); ma io credo che ei sia il figlio di quel Giovanni Nevizzano di Asti da noi nominato tra’ giureconsulti, cui il Rossotti fa autore di varie poesie italiane (Sj llab. Script. Pedemont p. 214) Girolamo Baccelli fiorentino ridusse f Odissea in versi TERZO *9^3 sciolti j per tacere delle versioni di alcuni libri particolari che da altri furono pubblicate. Niuno in questo secolo prese a fare una intera versione delle Tragedie di Sofocle e di Euripide; ma molte particolari tragedie ne furon tradotte in versi italiani da Lodovico Dolce, da Erasmo di Valvasone, da Giannandrea dell’Anguillara, da Orsatto Giustiniani, da Pietro Angeli da Barga, da Giovanni Balcianelli, da Giambattista Gelli, da Girolamo Giustiniani, e singolarmente da monsignor Cristoforo GuidicCioni lucchese, vescovo di Aiaccio in Corsica, e morto nel 1582, da cui si ebbero la Elettra di Sofocle, e I Baccanti, I Supplichevoli, l Andromaca e Le Troiane d'Euripide, le quali versioni però solo nel 1747 furono pubblicate. Molto maggiore fu la copia delle traduzioni de poeti latini. L'Eneide principalmente n ebbe moltissime. Oltre quella del Vasio, da noi rammentata altrove, e oltre quella del Caro, di cui si è a suo luogo parlato, dodici poeti si unirono a tradurne ciascheduno un libro, cioè Alessandro Sansedoni, il Cardinal Ippolito de’ Medici, Bernardino Borghesi, Lodovico Martelli, Tommaso Porcacchi, Alessandro Piccolomini, Giuseppe Betussi, Lionardo Ghini e Bernardo Minerbetti, Lodovico Domenichi, Bemardino*DanielIo e Paolo Mini. Questa e quella del Caro furono in versi sciolti. In ottava rima la traslatò prima il cavalier Aldobrando Ceretani sanese, che già alcuni libri aveane tradotti in versi sciolti, poscia Ercole Udine mantovano. Di questo scrittore io ho più lettere inedite a d Cesare e a don 1954 LIBRO Ferrante II Gonzaga, copiate dagli originali che se ne conservano nell’ archivio di Guastalla in una delle quali de’ 10 di luglio del 1599 manda al secondo un suo componimento poetico intitolato La Psiche. Da esse ancora raccogliesi ch’ egli era uno dei primi dell’Accademia degl’Invaghiti di Mantova, e che circa il 1603 e 1604 soggiornava in Venezia, incaricato degli affari di D. Ferrante, di cui pure ho lettere all Udine de 20 dicembre dell an 1707, in cui il ringrazia della terza edizione della suddetta versione in quell' anno stampata, e da lui mandatagli in dono. L’ultimo traduttor dell Eneide di questo secolo fu Teodoro Angelucci da noi mentovato già tra' filosofi, che ridussela con eleganza in versi sciolti. Essa però non fu stampata che nel 1649, e vuolsi da alcuni ch’ ella fosse veramente opera del P. Ignazio Angelucci gesuita di lui fratello, che la pubblicasse sotto il nome di Teodoro (Mazzucch. Scritt it. t 1, par. 2, p. 770) (a). Lasciamo (a) Fra’ più felici traduttori dell Eneide di Virgilio deesi annoverare Alessandro Guarnello romano, che la ridusse in ottava rima. Prima il primo, poi il secondo libro ne furono separatamente più volte stampati in Roma e altrove dopo la metà del secolo xvi, delle quali edizioni si può vedere la Biblioteca de Volgarizzatori del P. Paitoni (t. 4, p. 199, ec.). Gli altri libri non furono stampati, e l’originale di tutta la traduzione conservasi in Roma nella biblioteca de’ PP. Bernabiti a S. Carlo do’ Catinari; e vi si vede aggiunta l approvazion della stampa del vicegerente di Roma, ove dimorava il Guarnello segretario del cardinal Alessandro I- arnese, a cui TERZO 1C)55 molti altri traduttori qual di uno, qual d’altro libro dell Eneide, e accenniam solo le versioni dell Egloghe e della Georgica. Andrea Lori fu il primo a recar l Egloghe in versi italiani, e poco appresso gli venne dietro Rinaldo Corso, e sulla fine del secolo Girolamo Pallantieri parroco di Castel Bolognese, il quale rigorosamente tradussele verso a verso. La Georgica ebbe due traduttori che ce la diedero in versi sciolti, prima Antonio Mario Negrisoli ferrarese, poscia con più felice successo Bernardino Daniello lucchese, a cui abbiamo una lettera di Pietro Aretino, nella qual si congratula di questo suo nobil lavoro (Aret. Lett. l.3,p. 189). Più scarso fu il numero de traduttori di Orazio, di cui non abbiamo che le Odi tradotte da Giovanni Giorgini da Jesi, professore di filosofia in sua patria (Balda ss ini, Stor. di Jesi, t. 1, p. 255), è dedicata la traduzione medesima. Anzi nel libro sesto, ove Virgilio fa schierare innanzi ad Enea i più illustri eroi clic dovea aver Roma, il traduttore, per far cosa grata al Cardinal suo padrone, vi aggiunse una somigliante serie di gran personaggi c he doveano uscire dalla famiglia Farnese. Innanzi alla versione si legge un sonetto di Torquato Tas^o in lode del traduttore, e tutto il codice si vede corretto e postillato di man del Guarnello. l’er qual ragione non si pubblicasse, ci è ignoto. Certo la version del Guarnello, benché non sempre uguale a se stessa, è pregevole assai per la facilità, e spesso ancora per l’eleganza con cui è distesa; del clic ho potuto io stesso accertarmi, avendone avuta tin le mani una copia gentilmente comunicatami dal 1*. don Felice Coronili bernabita, e da lui fatta sull’ originale medesimo. 1956 LIBRO e le Satire, le Epistole e la Poetica tradotte dal Dolce. Non così delle opere di Ovidio le cui Metamorfosi furon l’ oggetto del qual si occuparono molti poeti; perciocchè, lasciando in disparte alcune altre più antiche versioni, Niccolò degli Agostini e Lodovico Dolce le recarono in ottava rima; ma le lor traduzioni furon quasi dimenticate, (quando uscì alla luce quella dell Anguillara. Ciò non ostante una nuova versione poi ne intraprese Fabio Marretti gentiluomo sanese, la quale, se in facilità e in grazia parve inferiore a quella dell’ Anguillara, le fu creduta superiore nella fedeltà e nell’ esattezza. Una parte dell" opera stessa, cioè la favola di Piti, e quella di Peristera insieme con quella di Anaxarete fu in versi sciolti recata da Gianfrancesco Bellentani cai pigiano (di cui ancor si hanno rime in altre Raccolte), stampata in Bologna nell'an 1550. Anzi avea egli scritto un erudito comento su tutte le Metamorfosi di Ovidio, e stava per pubblicarlo, come afferma il P. Bernal diuo Realino gesuita, concittadino del Bellentani, ne’ suoi Comenti, latini sul poemetto di Catullo da lui composti, e pubblicati mentre era tuttor secolare. Perciocchè il Realino ancora ne trentaquattro anni che visse, prima di rendersi religioso, diede più saggi di pronto e vivace ingegno sì in Modena ove frequentò l’Accademia del Castel vetro, sì in Bologna e in Ferrara ove attese ai' più gravi studi, sì in Milano e in Napoli ove sostenne diversi onorevoli impieghi, e scrisse ancora più opere di diversi argomenti, che si TERZO 1957 posson veder accennate nella Vita scrittane dal P. Fuligatti (c. 3). Ma nell’an 1564 entrato nella Compagnia di Gesù, tutto si diede agli esercizi di pietà e di zelo con tal fervore, che ne fu poscia introdotta la causa della beatificazione. Di lui fa onorevol menzione Luca Contile in diverse sue lettere (Contile, Lett. t. 2, p. 292, 294, 337, ec., 364,372) (a). Ma torniamo alle versioni di Ovidio. Bella e pregevole molto è la traduzione dell’ Epistole eroiche di Ovidio fatta da Remigio Fiorentino, cioè da F. Remigio Nannini dell’Ordine de’Predicatori, morto in Firenze a’ 2 di ottobre nel 1580 (Zeno, Note al Fontan. t. 2, p. 480), e autore di molte altre versioni e diverse opere, il cui catalogo si può vedere presso i PP. Quetif ed Echard (Script. Ord. Praed. t. 2). Anche Cammillo Cammilli volle darcene una nuova versione, non in versi sciolti, com era quella di Remigio, ma in terza rima, la qual però non ebbe gran plauso. Le opere amorose dello stesso poeta ebbero alcuni interpreti, e fra essi fu il migliore Angiolo Ingegneri che ci diede in ottava rima i due libri de’ Rimedj d’amore. Finalmente una buona versione de’ Fasti in versi sciolti fu pubblicata da Vincenzo Cartari reggiano, e i libri intitolati Tristium furono tradotti da Giulio Morigi da Ravenna, il qual pure tradusse la Farsalia di Lucano. Di Tibullo, di (<7) Vcpgasi la Biblioteca modenese, ove del Bellentani e del l*. Reatino si è parlato più lungamente (l. 1, /?. iqj; t. 4, p. 315). r 1958 LIBRO Catullo, di Properzio appena si vide allora versione alcuna. Di Terenzio e di Plauto ancora non vennero in luce tai traduzioni che si possano rammentare con lode; ma molte particolari commedie ne furon tradotte da diversi poeti. Anche di Giovenale e di Persio e di Marziale non abbiam traduzioni che sien degne di molte lodi. Qualche traduttore ebbe il Ratto di Proserpina di Claudiano, cioè Marcantonio Cinuzzi sanese, Giovandomenico Bevilacqua, Livio Sanuto e Annibale Nozzolini. Una traduzione di Lucrezio in versi sciolti a vea intrapresa Gian Francesco Muscettola, lodata in una sua lettera dal Minturno (Mintur. Lett. l. 5, lett 7), che sol ne riprende il troppo saper di latino. Ma ella non venne a luce. Fra tutte queste versioni, poche son quelle che perfettamente ci rappresentino l originale; perciocchè fu sempre impresa pericolosa troppo e difficile il trasferire un poeta da una lingua ad un’altra. Quindi altre sono tacciate come troppo servili, altre come troppo libere, in alcune si desidera maggior eleganza. in altre minor freddezza. Alcune nondimeno sono ottime; e tutte ci mostrano quanto ardente fosse in Italia la brama e l’impegno nel coltivare la poesia. LXXIV. Pruova ugualmente chiara ne son le contese che sui diversi punti appartenenti a poesia si eccitarono tra gli eruditi italiani. Molte già ne abbiamo accennate, cioè quelle che si accesero per la famosa Canzone del Caro, per la Gerusalemme del Tasso, per le dispute di precedenza tra lui e fAriosto, per la Camice TERZO 1 C)59 dello Speroni, e pel Pastor fido del Guarini. Un’altra non men calda contesa si sollevò dopo la metà del secolo intorno al poema di Dante. Un’ opera cominciata da Carlo Lenzoni, e finita poi da Pierfrancesco Giambullari in difesa della Lingua fiorentina e di Dante ne destò le prime scintille. Ma il fuoco si accese più caldo assai, quando il Varchi nel suo Ercolano, trasportato dalla sua ammirazione per Dante, ardì di antiporlo ad Omero. Questa proposizione parve ad alcuni ereticale bestemmia degna del fuoco. Videsi dunque correr per la mani degli eruditi un Discorso di M. Ridolfo Castravilla nel qual si mostra l imperfezione del Poema di Dante contro al Dialogo delle lingue del Varchi, il qual però non fu stampato che nel 1608. Altri ne crederono autore il Muzio, altri, e in maggior numero, Ortensio Landi. Ma il Zeno con assai forti ragioni dimostra (Note al Fontan. t. 1, p.) che nè all'uno nè all’altro si può attribuir quel Discorso, e ch’esso fu probabilmente opera di quel Belisario Bulgarini sanese, che entrò poscia a faccia scoperta in tal lite (a). Questo libro, benchè allora non per anche stampato, destò gran rumore, perchè parve che fosse ingiurioso a Dante. Ed ecco tosto un gran numero di eruditi italiani azzuffarsi (a) Il eh. abate Serassi, il quale con molta esattezza ha esposta tutta la serie di questa disputa nella sua Vita di Jacopo Mazzoni, crede più vcrisimiie (p. 10) che sotto nome del Castravilla si nascondesse veramente il Muzio. igGo LIBRO caldamente tra loro. Dall’ una parte furono in favore di Dante Jacopo Mazzoni da Cesena Tuccio dal Corno, Girolamo Zoppio; dall altra contro Dante e contro il Mazzoni furono il suddetto Bulgarini, Antonio Corsuto, Diomede Borghesi, Orazio Capponi, Francesco Patrizii, Alessandro Carriero, il quale però cambiò poscia partito, allorchè il Bulgarini si dolse che avesse a lui involato il Discorso che su questo argomento avea dato alla luce. Questa calda contesa, che dall’an 1570 durò fino al 1616, viene a lungo esposta dal Quadrio (t. 6, p. 239), il quale giustamente riflette, che poichè l’oggetto principale di essa era cercare se all'opera di Dante convenisse veramente il titolo di poema, l’universal consenso de’ dotti ha omai deciso contro del Varchi e del Mazzoni, e in favore del Bulgarini. Molto ancor disputossi intorno allo scrivere le commedie e le tragedie o in prosa, o in versi j nel che furon divisi gl ingegni e i partiti, e due scrittori singolarmente si dichiararono per la prosa, Agostino Michele veneziano nel suo Discorso, in cui si dimostra come si possono scrivere lodi volaicnte le Commedie e le Tragedie in prosa, stampato in Venezia nel 1592, e Paolo Beni in una sua Dissertazione latina sullo stesso argomento, pubblicata nel 1600 Ma essi ebbero il dispiacere di vedere e confutata da molti e abbandonata da tutti i saggi la loro opinione, singolarmente riguardo alla tragedia. Nè io negherò che tutte queste contese non recassero grandi vantaggi alle lettere; perciocchè per lo TERZO 1961 più furono esse trattate con sottigliezze scolastiche, e l autorità di Aristotele più che la retta ragione ne fu la norma e la regola, sicchè il trovare una parola di quel filosofo favorevole alla loro opinione pareva loro lo stesso che riportare un solenne trionfo su loro avversarii. Con tutto ciò, non può negarsi ancora che il caldo delle contese giovò non poco a spronare c ad accendere gl’ ingegni italiani, e che il timore di esser vinti, e la speranza di superare i loro rivali, gl’ indusse a sostenere grandi fatiche, a svolgere e ad esaminare i migliori maestri dell’ al te e i più perfetti modelli di poesia, e a render così a’ lor posteri assai più agevole quella vita ch’essi avean trovata tanto intralciata. LXXV. L'ultima pruova del vivissimo ardore degl Italiani nel promuover gli studi della poesia sono i diversi tentativi da molti fatti per renderla quanto al suono del verso sempre più armoniosa e più dolce: tentativi che non ebbero felice effetto, poichè la sperienza fece conoscere che in ciò erano sì ben riusciti i primi ‘ padri della volgar poesia, che il volersi da lor discostare, era lo stesso che il gittarsi fuori del buon sentiero. Questi sforzi però non debbonsi ommettere a questo luogo, perchè essi dimostrano quanto fosse l impegno e la gara de nostri nelraggiugnere se fosse stato possibile, nuovi vezzi e nuovi ornamenti alla lor poesia. Della maggior parte di essi abbiam già fatta incidentemente menzione in questo capo medesimo, o altrove, come de’ versi di dodici sillabe, ne’ quali Alessandro de Pazzi scrisse la sua Didone, di que’ Tiuaboscui, Eoi AIL 5i I ijtìi I.IRfcO di tredici, co’ quali Francesco Patrizii distese il suo poemetto intitolato XBrillano, di di quattordici e di diciotto, che da Bernardino Baldi furono introdotti, dello sdrucciolo di sedici sillabe usato da Luigi Alamanni nella sua commedia detta la Flora, e di qualche altra sorta di versi, de’ quali più distintamente ragiona il Quadrio (t. 1, p. 644?). Ma ciò che mosse maggior rumore, fu il pensiero di Claudio Tolommei di voler ridurre i versi italiani al metro e all’armonia de’latini; pensiero ch ebbe allora alcuni seguaci, ma che combattuto da più altri, e dalla sperienza medesima riprovato, cadde presto in dimenticanza. Ma il Tolommei fu uom troppo celebre ne' fasti della letteratura, perchè noi dobbiam nominarlo sol di passaggio. Il marchese Poleni è stato il primo a raccoglierne le notizie (Exercitat. Vitruv. 1, p. 50) e a parlarne con molta esattezza. E noi \ alendoci di esse, e accennando le cose da lui già abbastanza provate, potremo ancora aggiugnerne qualche altra da quel dotto scrittore non avvertita, e porrem con ciò (fine a questo sì lungo capo. LXXVI. Claudio Tolommei di antica e nobil famiglia sanese era nato circa il i493Benché nulla si sappia degli studi da lui fatti negli anni suoi giovanili, come avverte il suddetto marchese Poleni, una curiosa circostanza però ce ne racconta Orazio Brunetti, cioè che avendo ricevuta solennemente la laurea, volle poi con eguale solennità esserne spogliato: Come si dice del gran Tolommei, il quale con TERZO 11)53 quelle solite cerimonie volle, che li fossero levate quelle insegne Dottorali, con che gli erano state date: nondimeno spogliandosi delle insegne, egli già non si spogliò della dottrina et riputazione, la quale ha ora più che mai grande (Brunetto, Lett. p. 170); e lo stesso più brevemente si accenna da Giulio Ottonelli, ove dice: Il qual Tolommei per altro, essendo egli Dottor di Legge (a che però dicono che rinunciò) dovea almen ricordare, ec. (Discorsi sopra l abuso, ec. p. 36). Ma ove, quando e come ciò avvenisse, non saprei indovinarlo. Una sua lettera citata dal marchese Poleni ci mostra ch’egli era in Roma fin dal 1516. In un’ altra lettera però da lui scritta nel 1543, ei dice ch erano omai corsi 25 anni, dacchè trovavasi alla corte di Roma (Lettere, p. 30, ed. ven. 1565); il che proverebbe ch’ei vi si fosse recato solo dopo il 1518. Ma forse ei vi stette alcun tempo senza entrar nella corte, e verso il detto anno soltanto vi fu ammesso. Pare che la partenza da Siena del Tolommei fosse allor volontaria; ma poscia nel 1526 da quella città fu condennato all’esilio, come pruovano i monumenti accennati dal marchese Poleni, il qual congettura che ciò avvenisse perchè il Tolommei volle aver parte nella spedizion militare che in quell’ anno fece, benchè inutilmente, Clemente VII contro quella città. Questa sentenza di bando fu poi rivocata nel 1.542, e abbiam la lettera del Tolommei de 25 di gennaio del detto anno a’ Signori della Badia di Siena, in cui rende lor grazie di tal beneficio 11)64 LIBRO (ivi, p. 9)• Ei fu dapprima al servizio d’Ippolito de’ Medici eletto cardinale nel 1529, e caro perciò ancora al pontefice Clemente VII, a cui egli fanno 1527 si offerse pronto a scrivere cinque orazioni all’ imperador Carlo V in favor della Chiesa e del pontefice stesso tenuto allora prigione (ivi, p. 19). Nel 1532 fu dal Cardinal Ippolito inviato in suo nome a Vienna d’ Austria; e una lettera di là scrittagli dal Tolommei a 2 di ottobre ci mostra l’infelice stato di sanità a cui era allora condotto, perciocchè gli dice che da qualche tempo in qua non gli pare di esser abile a servirlo: Nè le forze mi rispondono del corpo, nè gli occhi. nè le'orecchie fanno l'offizio loro, come prima, e confitto da continui dolori delle membra, sento ancor la mente essere indebolita. Si duole inoltre di essere involto nella malattia, nell esilio e nella povertà; e quindi chiede riverentemente il suo congedo (ivi, p. 28). Ma pare ch’ egli non l ottenesse, e che seguisse a servire quel cardinale, finchè questi morì nel 1535, e che dopo la morte di esso ei fosse soggetto a qualche grave travaglio; perciocchè egli scrivendo a’ 13 di dicembre del detto anno a Paolo Mantino, accenna oscuramente le sue sventure, e dice che due cose sole il consolano, la prima ch’ ei soffre pel Cardinal suo signore, per cui darebbe anche la vita, la seconda che quanto più è afflitto, tanto più sente crescere dentro il cuore il disprezzo delle cose mondane (ivi, p. 38). Il marchese Poleni solo per congettura TÈRZO *9^5 ha creduto che il Tolommei passasse poi al servigio di Pier Luigi Farnese duca di Parma e di Piacenza. Ma ne abbiamo più certe pruove. Fin dal 1541 Luca Contile, scrivendo al conte di Scandiano Giulio Boiardo, loda assai il Tolommei, e dice che stando egli al servigio del duca di Castro (cioè del detto Farnese), questi non soffre di averlo per troppo tempo da sè lontano, e che perciò non ha potuto trovarlo in Roma, e del Farnese aggiugne: Non stanno seco che virtuosi grandi, Letterati famosi y e Capitani di gran nome (Contile, Lett. t. 1, p. 36). Ma da questo servigio ancora non pare che il Tolommei raccogliesse gran frutto, e ce ne dà indicio una bella lettera da lui scritta a' 2 di novembre del 1543 a Girolamo Begliarmati, il quale aveagli scritto dolendosi ch’egli, il Tolommei, non avesse delle sue fatiche quel premio che gli era dovuto; a cui egli risponde con somma modestia, che non conosce in sè alcun merito di ricompensa; che altrui più assai di lui ne son meritevoli; che il suo unico desiderio sarebbe quello di vivere tranquillamente a’ suoi studi, ma che per essi ancora non ha que' talenti, nè quelle forze che gli sarebbono necessarie (Lettere, p. 30). Avea però egli in quell’ anno medesimo ottenuto dal Cardinal di Lorena un beneficio di 300 franchi (ivi, p. 88). Ma forse accadde del beneficio ciò che accadeva dello stipendio assegnatogli dal Farnese, cioè ch egli aveane il diritto senza goderne il frutto. Così io raccolgo da una lettera inedita del Tolommei T IRA B OSCI! 1, Voi. XII. 5 i * 11)66 LIBRO scritta da Roma a M. Apollonio Filareto segretario del Farnese a' y di maggio del 1645, e che conservasi nel segreto archivio di Guastalla: // favore dì io sento dall’ essermivi raccomandato quanto a la mia provvisione, è, che dove prima pur l havevo, benchè con istento et fastidio, hora dubito di non l havere in modo veruno. Perciocchè M. Pietro Cievoli mi disse, che li danari di Romagna, li quali doveano venire a Roma, sono stati volti in Lombardia per l uso di colà; onde non vede modo di potermi contentare. Così io, che vivo di giorno in giorno con grave spesa, mi trovo. come si dice, con le mani piene di mosche E siegue pregandolo o ad ottenergli ciò di che è creditore, o a fare ch ei possa lasciar quel servigio. Ma appena il Farnese ottenne nell agosto dell an stesso il ducato di Parma e di Piacenza, scrisse tosto al Tolommei che venisse a servirlo in Piacenza, come raccogliesi dalla risposta inedita del Tolommei, che conservasi nel detto archivio, in cui a 3 di ottobre del detto anno, dopo aver ringraziato il duca del nuovo onor compartitogli, dice che fra quattro o sei giorni partirà da Roma. In Piacenza ei trattennesi col titolo di ministro di giustizia fino alla tragica morte di Pier Luigi avvenuta nel settembre del 1547 Ritirossi allora a Padova, e vi stette fino al dicembre del 1548, e tornossene poscia a Roma. Nel 1549 fu nominato vescovo di Corsola, isoletta del Mare adriatico, e alle pruove di questa epoca, tratte dagli Atti concistoriali citati dal marchese TERZO 1967 Poloni, si posson aggiugnerc due lettore «li Pietro Aretino scritte nel settembre dell’anno stesso, una al Corvino, in cui gl’ ingiugne di congratularsi col Tolommei del P escomilo inutile accettato, l’altra al Tolommei medesimo (A re ti n. Lctt. I 5, p. 158, 163). L’an 1552 era in Siena, ov ebbe l’ onore di essere nominato tra’ 16 cittadini destinati a provvedere alla conservazione della comune libertà; e perchè i più opinavano che si dovesse mandare ambasciata al re di Francia per rendergli grazie della protezione loro accordata, fu a ciò scelto il Tolommei con tre altri de’ principali cittadini, e abbiamo alle stampe l’ Orazion da lui detta in Compiegne nel mese di dicembre dell’ anno stesso innanzi al detto monarca. Circa due anni si trattenne in quel regno, e tornato in Italia verso la fine del 1554j Tanno seguente, a' 23 di marzo, finì di vivere in Roma, come con ottimi argomenti dimostra il marchese Poleni contra la comune opinione che il fa morto solo nell’an 1557. LXXV1I. Fu il Tolommei uno de’ più benemeriti scrittori della lingua italiana, che avesse < il secolo di cui trattiamo: anzi ei volle giovarle più ancora che non faceale d’uopo, col raddoppiare e triplicare le lettere, di che diremo altrove. Egli entrò ancora nella contesa che fu allora agitata più assai che non meritava, cioè se la nostra lingua dir si dovesse italiana, o toscana, o volgare; del che egli tratta nel suo Cesano. Questa pare che fosse l opera di cui egli scrivea alla marchesa di 4 1968 turno Pescara a' 7 di aprile del 1531, che procc tirerà di mandarle tra poco una sua operetta in difesa della lingua toscana contro i biasimatori di essa, della quale avendo perduto il secondo libro, ch era quasi finito, nel sacco di Roma, non l avea ancor rifatto (Lett p..49). Ma essa non fu stampata che al principio del 1555. Ne abbiamo innoltre alla stampa alcune altre Orazioni, sette libri di Lettere, oltre alcune altre che vanno sparse in diverse Raccolte, e sparse pure in più libri ne sono le Poesie. Di un’ altra opera da lui cominciata, e intitolata Delle Risoluzioni, cioè del modo di determinarsi ne’ dubbii, parla in una sua lettera del 1545 (ivi) p. 203). Ma forse egli non potè condurla a fine. Il marchese Poleni accenna più altre opere inedite del Tolommei, che conservavansi in Siena presso il conte Mario Tolommei, e alcune altre delle quali si trova memoria che già esistevano. Nella libreria Nani in Venezia se ne ha ms. un Discorso sopra quello, che potesse far Paolo Papa III per salute di se, delle cose sue, e dello Stato suo (Codici mss. della Libreria Nani, p. 1 14) * c nella Farsetti (Librer. ms. Farsetti, p. 154 * 84) un Discorso allo stesso papa, se sia bene, che si dichiari Imperiale, o Francese, e alcune Lettere latine, e una lettera ne ha di fresco pubblicata il sig. Pierantonio Crevenna (Catal. raison t. (4, p. 289). Or venendo alla nuova maniera di verseggiare in lingua italiana da lui, se non introdotta, promossa almeno e difesa, ella è, come si è detto, una ¡nutazione TERZO 1969 della latina, sicché senta riguardo agli accenti si formano i versi di piedi spondei e dattili,' ed altri usati già da’ Latini. Ne servan d’esempio due versi del medesimo Tolommei: Ecco l chiaro rio, pien eccolo d acque soavi. Ecco di verdi erbe care a la terra ride. Ei non ne fu, a dir vero, il primo ritrovatore, perciocchè, come coll autorità del Vasari dimostra il Quadrio (t. 1, p. 606), qualche saggio aveane dato fin dal secolo precedente Leonbattista Alberti, ma esso non fu allora nè lodato, nè imitato. Il Tolommei fu in ciò più felice, e ottenne di avere al principio molti seguaci. Quindi nel i539 ei diè alla luce il libro intitolato Versi e Regole della Poesia Nuova,. in cui propone le leggi con cui scriver si debbono cotai versi, e ne propone insieme l’ esempio non solo nelle sue proprie rime, ma in quelle ancor di più altri che allor viveano, cioè di Antonio Renieri da Colle, di Giulio Vieri sanese, di Giovanni Zuccarelli da Canapina, di Alessandro Cittolini da Serravalle nella Marca Trivigiana, di Pier Paolo Gualtieri d’Arezzo, e di Trifone Benzi d’Assisi, poeta non meno lodato a que’ tempi per la sua eleganza di scrivere, che deriso per la sua insigne deformità fatta ancor maggiore della sua stoica trascuratezza (V. Mazzucch. Scritt. it. t. 2, par. 2, p. 900). Alcuni altri ancora vollero a ciò provarsi; ma finalmente e le ragioni addotte da molti scrittori, che a questa nuova icpo unno TEnzo poesia mossero guerra, e più ancora l esperienza e ’l buon senso, fecero conoscere che, essendo troppo diversa l’ indole delle due lingue, l’ armonia di una non potea essere comune all' altra, e che alla diversa loro natura conveniva adattare diversa maniera di metro. Una nuova maniera ancor di sestine egli introdusse, in cui due sole voci ne forman le rime (Crescimb. t. 1, p. 33). Ma anche questa non ebbe molti seguaci. E assai più che per tali invenzioni giovò il Tolommei alle lettere e alle scienze col vivo impegno con cui di continuo le promosse. Egli era uno de’ principali Accademici delle due Accademie della Virtù e dello Sdegno aperte in Roma; e abbiamo altrove veduto quanto egli si adoperasse a condurle a lustro sempre maggiore, e quanto perciò venisse da tutti esaltato. Molto finalmente a lui dovette ancora l architettura, e si è già mostrato a suo luogo (l. 2, c. 2, n. 46) ch’ egli avea fatta rivolgere a questo studio singolarmente l’Accademia della Virtù, e che una lettera da lui scritta su tale argomento ci fa vedere quanto egli fosse in questo studio avanzato (V. Poleni, l. cit). Fine della Parte III df.l Tomo VII.
- ↑ Veggansi le notizie del Porrino inserite nella Biblioteca modenese (t. 4, p. 223).
- ↑ A questi valorosi poeti potevasi aggiugnere Giovanni Bruni riminese, nato nel 1476 e morto nel 1540, un saggio delle cui Poesie ci ha dato nel 1783 il sig. canonico Angelo Battaglini con copiose ed esatte notizie della vita e della famiglia di questo poeta, a cui deesi l’invenzion del sonetto in versi ottonarii.
- ↑ Il Ricchi fu medico di professione, e fu medico domestico di Giulio III, e tradusse dal greco più opere di Galeno e qualche cosa di Oribasio (V. Marini, degli Archiatri pontif. t. 1, p. 397, ec.; t. 2, p. 296).
- ↑ Il sig. abate Arteaga attribuisce alla Guidiccioni anche l’Anima e ’l Corpo, rappresentazione posta in musica da Emilio del Cavaliere, e cantata in Roma nel 1600 (Rivoluz. del Teatro music. ital. t. 1, p. 298, sec. ed.). Ma il Quadrio, da cui ha tratta questa notizia (Stor. della Poes. t. 5, p. 433), non dice veramente
- Testi in cui è citato Anton Francesco Raineri
- Testi in cui è citato Giovanni Della Casa
- Testi in cui è citato Agostino Ricchi
- Testi in cui è citato Antonio Landi (1506-1569)
- Testi in cui è citato Giovanni Andrea dell'Anguillara
- Testi in cui è citato Alvise Pasqualigo
- Testi in cui è citato Francesco Saverio Quadrio
- Testi SAL 25%